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COMPLICE IL DUBBIO
INTERNO GIALLO
© 1992 Interno Giallo Editore s.r.l., Milano
I edizione maggio 1992
ISBN 88-356-0147-9
INDICE
COMPLICE IL DUBBIO..............................................................................................2
CAPITOLO 1....................................................................................................................................6
CAPITOLO 2....................................................................................................................................9
CAPITOLO 3..................................................................................................................................13
CAPITOLO 4..................................................................................................................................17
CAPITOLO 5..................................................................................................................................19
CAPITOLO 6..................................................................................................................................22
CAPITOLO 7..................................................................................................................................25
CAPITOLO 8..................................................................................................................................29
CAPITOLO 9..................................................................................................................................31
CAPITOLO 10................................................................................................................................36
CAPITOLO 11................................................................................................................................39
CAPITOLO 12................................................................................................................................44
CAPITOLO 13................................................................................................................................46
CAPITOLO 14................................................................................................................................50
CAPITOLO 15................................................................................................................................54
CAPITOLO 16................................................................................................................................55
CAPITOLO 17................................................................................................................................59
CAPITOLO 18................................................................................................................................62
CAPITOLO 19................................................................................................................................63
CAPITOLO 20................................................................................................................................66
CAPITOLO 21................................................................................................................................69
CAPITOLO 22................................................................................................................................70
CAPITOLO 23................................................................................................................................74
CAPITOLO 24................................................................................................................................77
CAPITOLO 25................................................................................................................................81
CAPITOLO 26................................................................................................................................85
CAPITOLO 27................................................................................................................................87
CAPITOLO 28................................................................................................................................92
CAPITOLO 29................................................................................................................................93
CAPITOLO 30................................................................................................................................95
CAPITOLO 31................................................................................................................................98
CAPITOLO 32..............................................................................................................................100
CAPITOLO 33..............................................................................................................................103
CAPITOLO 34..............................................................................................................................105
CAPITOLO 1
Il cameriere stava già affondando il cucchiaino nella zuccheriera fatta scivolare con
tocco maestro lungo il banco, esattamente davanti alla tazzina del caffè.
— Senza zucchero, per favore — disse Anna.
La mano dell'uomo s'arrestò a mezz'aria. Le maniche della camicia arrotolate sopra
un braccio peloso e arruffato.
— Senza zucchero — disse ancora una volta. E nell'udire il suono della propria
voce, Anna stupì. Aveva dovuto fare uno sforzo per pronunciare quelle poche parole
e le erano uscite roche, strozzate. Aride al pari della gola, le scavavano dentro un sol-
co, una traccia bruciante. Tossicchiò come se le fosse andata di traverso la saliva, in
un inutile tentativo di nascondere a se stessa la paura che da qualche ora (da quando,
esattamente? quando era cominciata quella storia?) le cresceva dentro. Era la paura
che le arrochiva la voce o erano invece soltanto il caldo e la sete che le facevano sen-
tire la gola secca, fastidiosa come un legno piantato dietro la lingua?
L'orologio sulla parete segnava le dodici e il sole, fuori, arroventava la lamiera del-
le auto in sosta. Si toccò la nuca: nonostante i capelli folti e ricci che la proteggevano,
scottava. E anche nella penombra del bar Anna continuava a sudare, a ondate inter-
mittenti. Il cameriere non le levava gli occhi di dosso. Era chiaro che si annoiava sen-
za clienti e seguitava a guardarla con insistenza per provocare un commento, un'altra
parola, un cenno qualsiasi che gli permettesse di avviare una parvenza di dialogo.
Lei si ritrasse un poco, a disagio. Non le piaceva sentirsi sporca e trasandata, con i
vestiti indossati in fretta, raccattati in fondo al letto e sul pavimento dove li aveva
buttati alla rinfusa la sera prima. Non s'era lavata la faccia e nemmeno ravviata i ca-
pelli, rammentò incontrando la sua immagine dietro il banco, nello specchio che cor-
rendo lungo tutta la parete catturava in fondo, sulla destra, un tratto vuoto e abba-
gliante di strada. Anna strinse gli occhi senza distoglierli da quello scorcio di marcia-
piede: nessun passante, nemmeno un turista in quell'ora di sole pieno, in quel soffo-
cante lunedì 20 di agosto.
Tornò a fissare la sua immagine. In una sola occhiata captò i segni della stanchezza
e li registrò automaticamente, quasi dovesse trascriverli sulla cartella clinica di un suo
paziente. Le palpebre cerchiate, le labbra gonfie e violente nel volto sciupato dalla
notte insonne. E i capelli che le si arricciavano sulle tempie in un disordine prepoten-
te. Impossibile dar loro un verso, una piega. Ravviarsi i capelli? Sospirò forte solle-
vando la tazzina. I suoi pensieri in quel momento avevano la stessa consistenza mel-
mosa e buia dei fondi del caffè che il cameriere stava buttando in un recipiente lì di
fianco. La sensazione di sporcizia che le dava tanta noia veniva accentuata dall'atmo-
sfera squallida del bar: la luce artificiale, gialla come una pozza d'orina, le brioche e i
tramezzini polverosi e stantii sotto il vetro sporco di ditate, il locale - già piccolo - tal-
mente ingombro di casse di liquori e scatole di caramelle da sembrare un magazzino.
Qualcuno passò davanti alla porta a vetri spalancata e tenuta ferma contro il muro,
tagliando con la sua ombra il bagliore della strada. Anna restò immobile, la tazzina
sollevata, il fiato sospeso. Ma nello specchio la strada splendeva di nuovo, vuota e lu-
minosa.
No, si rassicurò Anna, nessuno poteva averla seguita fin lì. Aveva camminato a
lungo, dopo essere uscita da quell'appartamento. Prima di uscire però, con un riflesso
istintivo di cui adesso si meravigliava, s'era accertata di aver preso tutto: la borsetta,
la cintura, il pettine che aveva lasciato, chissà quando, sulla mensola del bagno. Non
mancava niente. Aveva aperto il rubinetto del lavandino per far scivolare giù nello
scarico alcuni capelli che erano rimasti appiccicati alla ceramica bianca e che forse
erano suoi. Si muoveva con calma e meticolosità. Poi era passata in cucina. Una puli-
ta al bicchiere in cui aveva bevuto, per cancellare anche l'ultima traccia della sua pre-
senza. L'aveva strofinato bene, attaccando infine lo straccio a un gancio sulle matto-
nelle azzurre che coprivano il muro fino al soffitto.
In piedi davanti al tavolo sul cui ripiano aveva appoggiato, capovolto, il bicchiere
pulito, s'era chiesta improvvisamente il perché di tante precauzioni. Che bisogno c'era
di nascondersi, di occultare e far sparire ogni minimo indizio rivelatore della sua pre-
senza? Ben presto la polizia avrebbe saputo, dalla sua viva voce, tutto quello che c'era
da sapere. Presto, molto presto, si era ripromessa. Le bastava prendere respiro, soltan-
to un po' di tempo per allentare la morsa che le stringeva le tempie e le impediva di
riacquistare una lucidità di cui aveva indiscutibilmente bisogno.
Mentre chiudeva la porta dietro di sé, aveva gettato un'occhiata verso la gabbia del-
l'ascensore. La luce rossa indicava che era in moto. Lo si udiva salire, un ansito pro-
fondo nel silenzio della casa. Senza attendere oltre, Anna era scesa a piedi.
Nella penombra delle scale, le borchie d'ottone sui legni antichi delle porte manda-
vano uno splendore ovattato e discreto. Anna scendeva, attenta a ogni rumore. Un
sussulto le aveva interrotto il respiro quando l'ascensore si era fermato: proprio a quel
piano, ne era certa. Anche lei si era fermata, la mano stretta alla ringhiera, aspettando.
Una chiave aveva girato - una volta soltanto - facendo scattare una serratura.
E poi… niente, non era successo niente. Evidentemente si era sbagliata, nessuno
era entrato là dentro. Aveva aspettato ancora qualche istante, per esserne proprio si-
cura. Dietro le porte chiuse, il silenzio. E nemmeno un fiato d'aria scivolava lungo la
spirale lucida del corrimano.
Tuttavia aveva camminato a lungo con l'intenzione - non del tutto consapevole - di
far perdere le sue tracce. Un'idea ridicola. Non c'era motivo di credere che qualcuno
l'avesse seguita o anche soltanto notata. Roma era deserta. Deserte le antiche rovine
che ogni tanto sorgono dall'asfalto, agli incroci delle strade. Vuoti i cortili che si
aprono sui vicoli del centro storico, stretti come feritoie e perennemente umidi. Da
quell'ombra si sprigionava a tratti l'odore aspro e pungente dei gatti randagi. Intorno a
lei solo saracinesche abbassate, negozi col regolamentare cartello CHIUSO PER FERIE at-
taccato bene in vista. Una desolazione.
Poi quel bar, miracolosamente aperto. A due passi da casa, ormai. Ma non aveva
resistito alla tentazione del sorso forte, rassicurante di un caffè.
— Senza zucchero — le fece eco il cameriere con un tono ben studiato di incredu-
lità, mentre lei si portava la tazzina alle labbra aspirando l'aroma. Non lo ascoltava,
tutta concentrata in quel breve piacere. L'uomo non riuscì più a trattenersi.
— Ma non ci va al mare, lei? — sbottò.
E mise bene in chiaro, assumendo un'aria svogliata, che le faceva una grande con-
cessione nel rivolgerle la parola.
Presa alla sprovvista, Anna sobbalzò senza capire lì per lì il senso della domanda.
Fu colta da un panico irragionevole. La mano le tremò e alcune gocce di caffè cadde-
ro sui piedi nudi nei sandali. Ma scontrandosi con lo sguardo sorpreso del cameriere,
si riprese immediatamente. Spiccò dal mazzo un tovagliolino di carta trasparente, si
pulì le labbra e rispose:
— Fra qualche giorno.
Era vero, ma ebbe la curiosa sensazione di mentire. Distolse gli occhi per fargli ca-
pire che non c'era altro da aggiungere e tornò in strada, mentre l'uomo apriva il rubi-
netto e si metteva a pulire la tazzina con esagerata lentezza. Scuoteva la testa, le lab-
bra contratte in una smorfia di sdegno che condannava l'estate, le donne, il mondo in-
tero.
CAPITOLO 2
I muri delle case si rimandavano aliti roventi. Poche le auto che passavano lascian-
dosi dietro un pesante tanfo di benzina. L'asfalto si allentava molle e vischioso, quasi
una colla, sotto le suole leggere dei sandali. Anna camminava assorta, cercando di se-
guire il percorso irregolare di qualche ombra gettata qua e là da un albero, un palo, un
cartello stradale. Con la mano ogni tanto si riparava dal riverbero del sole, poiché
aveva dimenticato da qualche parte - in quell'appartamento, ecco dove - gli occhiali
scuri. Alla fin fine s'era rivelata meno prudente e accorta di quanto aveva creduto:
una traccia almeno l'aveva lasciata. Ma erano occhiali da poco prezzo, come tanti, e
potevano anche appartenere a un uomo con la loro montatura severa.
Si fermò per accendere una sigaretta. Fece scattare l'accendino due, tre volte e infi-
ne riuscì a far sprizzare una fiammella bassa e stenta. Tirò una lunga boccata.
Prima di arrivare a casa, doveva prendere una decisione. Ma da dove cominciare?
A chi ci si rivolge in simili casi? La sua professione in questa particolare circostanza
non l'aiutava molto né la soccorreva l'esperienza di lunghi anni d'ambulatorio. Un
duro tirocinio, un fermo controllo sulle emozioni, e questo era il risultato: inettitudine
e paura di fronte a una realtà che la toccava direttamente.
Tirò un'altra boccata ma il fumo non le arrivò in gola. Guardò la sigaretta. Si era
spezzata proprio sotto il filtro e pendeva attaccata a un filo di tabacco. La buttò via,
oltre il bordo del marciapiede. Ma, poi, era davvero necessario rivolgersi alla polizia?
A che cosa e a chi sarebbe servito? Una domanda facile facile, ironizzò con se stessa.
Dove la metteva l'etica e la coscienza professionale? In realtà c'era un'unica risposta
possibile. Ma lei, Anna, aveva anche il diritto e il dovere di difendere se stessa, la
propria incolumità. Non aveva niente da rimproverarsi: come avrebbe potuto impedi-
re che accadesse quello che era accaduto? Proprio per questo, tentò di convincersi,
poteva in tutta tranquillità denunciare il fatto.
Ma le avrebbero prestato fede? Era saggio da parte sua presentarsi con quella storia
incredibile? Doveva prima almeno consultarsi con qualcuno, un avvocato. Ma dove
trovare un avvocato di cui fidarsi, chi poteva essere rimasto in città, con quel caldo?
La camicetta di seta azzurra che aveva indossato per l'appuntamento della notte era
ormai uno straccio, chiazze di sudore continuavano ad allargarsi sotto le maniche e a
ogni passo avvertiva sulla schiena la carezza della seta bagnata. Un tocco viscido.
Sgradevole come lo strisciare cieco di un tentacolo, di una coda di serpente.
Aveva comprato la camicetta in un elegante negozio del centro sabato mattina: vo-
leva essere bella e desiderabile per rendere bello e desiderabile quell'incontro. La
commessa, una ragazzina con i capelli pettinati ritti sulla testa alla moda punk e una
minigonna con una punta che scendeva di sbieco sul fianco destro, gliela aveva asse-
stata sulle spalle con piccoli gesti appropriati esclamando: — È perfetta.
E le aveva lanciato un sorriso d'approvazione e di complicità. In effetti l'azzurro le
stava bene e la seta scivolava piacevolmente sulla pelle abbronzata. Aveva esitato a
lungo, però, prima di comprarla: non stava attribuendo troppa importanza a un sem-
plice appuntamento?
E adesso la seta le si attaccava alla pelle, tenace e inquietante. Alla paura si era ag-
giunta un'ombra di qualcosa ch'era molto simile alla delusione e che la distraeva. De-
lusione o anche vergogna. Forse per questo non riusciva a prendere una decisione.
La sua mente girava a vuoto ma Anna era ben consapevole che non si trattava sol-
tanto d'una reazione dovuta allo choc. Era la tentazione infantile di negare tutto. Da
bambina era convinta che la forza del desiderio potesse annullare la realtà, far cam-
minare il tempo all'indietro e cancellare qualsiasi avvenimento spiacevole e brutto.
Proprio al modo di una gomma sopra un tratto sbagliato di matita. Troppo fervida, la
sua fantasia le suggeriva mille irreali maniere di sfuggire alle esigenze e ai problemi
della vita quotidiana.
Ecco perché, si disse, aveva scelto quella professione. Il vero motivo. Aveva cre-
duto che fosse per via del padre, medico anche lui e morto quando Anna era ancora
piccola. Diventare medico: era stato probabilmente un modo di supplire a una carenza
di ricordi. Ma anche un tentativo di sottrarsi a un'immaginazione eccessivamente vi-
vida e pericolosa, di tenersi ben ancorata alla realtà che temeva potesse sfuggirle da
un momento all'altro. E che c'è di più reale delle esigenze del corpo?
Le venivano incontro due ragazzi alti, biondi, con lo zaino sulle spalle e il sacco a
pelo arrotolato sopra lo zaino. Uno di loro teneva spiegata in mano una pianta di
Roma, ma evidentemente non ci si raccapezzava perché chiese, allungandosi verso di
lei con la precipitazione di chi dubita d'essere frainteso: — Piazza Venezia…
Anna si voltò per indicare la direzione, alle sue spalle. Un'altra comitiva di turisti
sbucò da un vicolo attraversando la strada. Anna colse all'angolo, ad appena qualche
metro di distanza, un movimento brusco, come di qualcuno che si nascondesse o
svoltasse in fretta.
"Per carità, questa è paranoia" si ammonì riprendendo a camminare e stringendosi
contro il fianco la borsetta di pelle chiara. Tremava di stanchezza. A quel punto non
aveva che un'idea fissa in testa: arrivare, finalmente, a casa e chiudersi nel fresco di
una stanza protetta da muri spessi, d'altri tempi.
"Se me ne fossi andata."
E invece non era partita proprio per consumare fino in fondo una storia iniziata un
po' per caso e un po' per sfida. Ma era inutile pentirsi, adesso, di quell'avventura. Per-
ché, nelle sue intenzioni, non doveva essere altro che un'innocua, banale avventura.
A un tratto udì dei passi dietro di sé. Risuonavano nitidi, rafforzati da un'eco che si
produceva nel vuoto della via quasi a compensazione di tanta quiete. Questa volta
non si sbagliava, non era un frutto della sua immaginazione sovreccitata. Subito scat-
tò dentro di lei l'allarme. Si sorprese ad ascoltare con un'attenzione resa più acuta da
una punta d'angoscia. Era impossibile che qualcuno l'avesse raggiunta proprio allora,
dopo tanti giri viziosi. E poi, chiunque fosse, avrebbe usato maggiore discrezione. Se
l'aveva seguita fin lì di nascosto, perché mettersi a fare tanto chiasso proprio a quel
punto? Non c'era senso in un comportamento del genere.
Ma a dispetto d'ogni ragionevolezza, l'inquietudine cresceva. Stava per voltarsi ma
si frenò in tempo. Cercò di indovinare la distanza che ancora li separava valutando la
cadenza, il ritmo dei passi che incalzavano, sempre più vicini e decisi. Prese a cam-
minare il più lentamente possibile con la debole speranza d'essere raggiunta e supera-
ta. Doveva trovarsi quasi alle sue spalle, adesso. L'impulso di mettersi a correre, di
scappare, era fortissimo. Si costrinse, invece, a rallentare ancora l'andatura. Anche
l'altro rallentò.
L'altro? Erano passi di donna: inconfondibile il suono dei tacchi alti sul marciapie-
de… breve e secco.
Anna attraversò la strada. Nella piazza il sole divorava l'asfalto, dilagava dapper-
tutto senza incontrare resistenza. Dietro di lei ora i passi risuonavano più lenti, esitan-
ti. La curiosità e l'ansia ebbero il sopravvento e infine Anna si voltò.
La donna si era fermata a pochi metri di distanza e lei la vide barcollare, sbilancia-
ta sui tacchi alti, mentre allungava un braccio alla cieca in cerca di un sostegno. Tro-
vò un palo e vi si appoggiò contro, mentre i capelli lunghi e chiari le coprivano il vol-
to chinato verso terra. Una passante qualsiasi, senza dubbio. Si era fermata vinta da
un malore o più semplicemente dal caldo che mozzava il fiato e tagliava le gambe.
Ad Anna sfuggì un sospiro di sollievo e, immobile sotto la sferza del sole a picco
sulla testa, continuò a fissarla da lontano, incerta sull'atteggiamento da tenere. L'istin-
to le suggeriva di voltarsi e proseguire per la sua strada: si trovava ormai a pochi pas-
si da casa, dal portone appena sfiorato, a quell'ora, da un'ombra che stentava a scen-
dere giù dagli ultimi piani. Il rifugio, la salvezza era a portata di mano. Ma poi s'im-
maginò chiusa là dentro, sola, a covare fantasie di paura, ad aspettare uno squillo del
campanello più forte e più lungo del solito, insistente, indiscreto (non è così che si an-
nuncia la polizia?).
E nemmeno poteva fare finta di niente e scappare due volte in un sol giorno. Era in
fuga da qualcosa che si trovava al di fuori delle sue possibilità di controllo e d'inter-
vento. Nessun rimorso gravava su di lei. Ma ora… Non poteva scappare davanti a
una donna che, chiaramente, aveva bisogno del suo aiuto. Una viltà di cui in seguito
si sarebbe pentita. Non era capace di lavarsene le mani: in fondo, ogni persona che
stava male era in qualche maniera affar suo. E alla fine prevalse in lei il medico.
Con una riluttanza di cui si vergognò ma che non riuscì a reprimere completamen-
te, tornò indietro.
— Si sente male? Posso esserle d'aiuto?
— È… questo caldo. Non è niente, niente.
Ma le parole le si ruppero in gola e, voltando bruscamente le spalle, la donna vo-
mitò sull'asfalto.
Anna si guardò attorno: nessuno, non una macchina, non una persona. Erano sole,
toccava a lei farsi carico anche di quel problema. La decisione fu rapida benché in
fondo al cuore avvertisse uno strano agitarsi di sentimenti contrastanti: rassegnazione,
rammarico e insieme un forte, inspiegabile sollievo.
— Non può rimanere qui da sola, in queste condizioni. Venga.
Poiché l'altra non si muoveva, le staccò la mano dal sostegno a cui continuava ad
aggrapparsi. Una mano piccola e umida che si abbandonò per un istante nella sua. Ma
subito la donna la tirò indietro di scatto, con un gesto eccessivo e sproporzionato di
timore.
— Stia tranquilla, sono medico. Ho l'ambulatorio proprio qui accanto.
L'ambulatorio si trovava a pianterreno, l'appartamento invece all'ultimo piano dello
stesso palazzo: una sistemazione fortunata che le evitava di perdere tempo nell'andare
e venire da casa al lavoro e viceversa.
— Venga, non si preoccupi.
Questa volta si lasciò convincere e lei le sorrise incontrando finalmente, anche se
di sfuggita, gli occhi dell'altra.
Era molto giovane e graziosa, un viso leggermente allungato in un ovale classico.
A parte i sandali dal tacco troppo alto, vestiva con semplicità: maglietta di cotone
bianco e gonna di lino a fiori grandi, vivaci. Anna l'osservava con attenzione. Il volto
senza trucco, contratto in un'espressione infantile di autodifesa: era, semplicemente,
una ragazza che si sentiva male. Nient'altro. Anna si rilassò impercettibilmente. "Sarà
incinta. E non le piace" pensò lasciandosi andare alla fine a un moto spontaneo di
simpatia e di compassione.
Nel salire sul marciapiede la ragazza di nuovo barcollò, inciampando nel gradino
come se non avesse ben calcolato le distanze. Anna l'afferrò impedendole di cadere e
sotto le dita avvertì lo spegnersi di un tremito. La pelle era fredda, bagnata d'un sudo-
re che non capì se suo o dell'altra. A quel tocco estraneo la giovane donna tornò visi-
bilmente in sé. Raddrizzò la schiena e ricambiò lo sguardo con fermezza.
— Grazie.
— Siamo già arrivate, coraggio.
La porta dell'ambulatorio si chiuse, tagliando fuori le vampate di calore che ronza-
vano nelle orecchie e stordivano come ultrasuoni. Un'impressione di calma improvvi-
sa. La penombra era un sollievo, una pomata rinfrescante su una scottatura.
L'aiutò a stendersi sul divano. Le tastò il polso. Le scostò dalla faccia i capelli. Con
un asciugamano bagnato le pulì il volto, l'aiutò ancora a slacciarsi la cintura troppo
stretta in vita, le inumidì lievemente il collo, le braccia. Gesti precisi, automatici. Poi
rimase lì a fissarla.
E immediatamente dentro di lei cadde un sipario.
Dopo qualche secondo non vedeva già più la ragazza stesa sul divano. Aveva di-
menticato di avere una paziente, mentre si passava l'asciugamano umido e sporco sul-
la fronte per mitigare il fastidio del sudore e nella mente le tornavano - con una chia-
rezza dolorosa e ossessiva - le immagini della notte. Una dopo l'altra, momento per
momento.
CAPITOLO 3
Domenica sera. Anna era uscita con la ferma intenzione di non prendere la macchi-
na: dopo un'intera giornata trascorsa fra il letto e il divano, provava il bisogno di fare
quattro passi. Ma l'appuntamento era per le nove e, giunta a destinazione, scoprì di
essere in anticipo di una buona mezz'ora. La casa di quell'uomo era più vicina di
quanto aveva creduto o lei aveva camminato molto in fretta.
Alla prima scampanellata non aveva risposto nessuno.
— Questa volta ho battuto tutti i miei record — si rammaricò Anna che aveva l'a-
bitudine di arrivare sempre qualche minuto prima del previsto. Ma aveva calcolato
male le distanze. Tutto qui, si disse. Non le sembrava d'essere particolarmente impa-
ziente.
E se lui non fosse rientrato prima delle nove? Una seccatura. Considerò le alterna-
tive: andarsene un po' a spasso per le strade ancora animate e magari fermarsi alla ge-
lateria che aveva intravisto due isolati più avanti… Ma la tentazione, piuttosto, era di
tornarsene direttamente a casa: davanti a quella porta chiusa l'assaliva lo scoramento
e la sfiducia. Una storia che iniziava male, proprio non la convinceva.
Nutrendo poche speranze, suonò una seconda volta. Tese l'orecchio: qualcuno si
muoveva là dietro. O nell'appartamento di fianco? Anna si spazientì e suonò di nuo-
vo. Dopo un tempo che le parve lunghissimo una voce maschile gridò: — Un mo-
mento.
E finalmente le aprì: la camicia slacciata, macchiata sul petto e sui risvolti, un'om-
bra di barba sul viso, i piedi scalzi.
"È questo il modo d'accogliere un'amante?" s'era chiesta lei. Ma la sua indignazio-
ne non era autentica e quasi le scappava un riso di sollievo per essere sfuggita all'an-
sia e al disagio dell'attesa. Però si sentiva addosso, con spiacevole consapevolezza,
tutto il profumo che s'era rovesciata - già sul punto d'uscire, con le chiavi in mano -
lungo il collo e le braccia. A lei i profumi non piacevano molto, ma si trattava pur
sempre d'un appuntamento galante e Michela sosteneva che in simili casi profumarsi
è d'obbligo: e Michela era un'esperta, cambiava amante (e analista) con regolare, os-
sessiva frequenza.
«Gli uomini» spiegava «mi piacciono ma non li sopporto. O forse loro non soppor-
tano me, non l'ho ancora capito».
Il profumo. La camicetta nuova, di seta, che ricadeva morbida sui seni. Troppo
morbida, troppo nuova. Anna avvertì tutto il ridicolo della situazione. Lei stessa era
ridicola, in una parte che non le si addiceva.
— Ho suonato tre volte, come mai non aprivi?
Lui non rispose e nemmeno accennò a scusarsi o a dare una spiegazione qualsiasi
ma la guidò, precedendola, in camera da letto, come se trovasse inutile sprecarsi in
convenevoli e preliminari.
Era la prima volta che Anna entrava in quella casa, grande e spoglia: la moglie di
lui, andandosene, s'era presa la maggior parte dei mobili. Tutte le finestre davano su
un cortile cieco, stretto come un imbuto. Non si scorgeva neanche uno spicchio di
cielo. Oppure ormai era calata la notte e il cielo era troppo alto e lontano per distin-
guerlo nel buio.
Anna cercò con lo sguardo un posto dove sedersi, senza trovarlo. Passando, aveva
notato che un lenzuolo bianco copriva il divano nel salotto. E sull'unica sedia, in ca-
mera da letto, s'ammonticchiavano in disordine calzini, mutande, fazzoletti. La stanza
appariva enorme, probabilmente a causa della mancanza di mobili che riempissero
l'ambiente. La sedia, il letto, il tappeto, un comodino: nient'altro. E un giradischi ac-
ceso, posato a terra ai piedi del letto matrimoniale con i due cuscini poggiati da un
solo lato, l'uno sull'altro. Un jazz malinconico e singhiozzante risuonava nella stanza
vuota.
Anna se ne stava ritta in piedi, aggrappata alla cinghia della sua borsetta e con un
leggero senso di smarrimento che le bloccava qualsiasi altra reazione, stordita e im-
pacciata come una ragazzina alla sua prima esperienza. Sul comodino la debole luce
di una lampada schermata da una ventola di pergamena si concentrava tutta sul volto
di una donna in una cornice d'argento. Sicuramente la moglie. Dunque la teneva ac-
canto a sé, ancora presente. Ebbe sentore di un fiato aspro, che sapeva d'alcol.
— Un sassofono morbido come te — l'uomo aveva tentato d'abbracciarla nascon-
dendo il viso contro il suo collo. Il tocco delle labbra era cauto, disarmante. Ma lei lo
respinse con freddezza, irritata più dall'atmosfera di incuria e approssimazione che re-
gnava nel nudo spazio della camera che dalla banalità dell'approccio.
L'uomo la lasciò immediatamente, senza protestare. Sembrava del tutto a suo agio,
noncurante della ripulsa, distratto da qualcosa che ad Anna non era dato sapere. S'era
sdraiato sul letto mentre l'imbarazzo di lei andava rapidamente trasformandosi in
umiliazione prima e rabbia subito dopo.
— Dov'è la cucina?
Non attese la risposta, avviandosi e aprendo a caso una porta dopo l'altra nel corri-
doio. La meravigliò l'ampiezza della casa, con il vestibolo che si diramava in corridoi
lunghi e stretti e porte che si spalancavano su stanze completamente sgombre. L'esat-
to contrario della sua, piccolissima e piena di oggetti. La cucina però era ben attrezza-
ta, con un tavolo dal ripiano di marmo e un frigorifero di forma e dimensioni insolite,
quasi un pezzo d'antiquariato.
Si versò un bicchiere d'acqua anche se la sete le era passata. Ma non voleva am-
mettere neanche con se stessa che s'era trattato più che altro di una scusa: per calmar-
si aveva bisogno di restare sola, un minuto almeno per ricomporsi e ritrovare la giusta
prospettiva.
Mentre beveva continuava a guardarsi attorno, esplorando tutti gli angoli della cu-
cina. Scoprì le macchie di caffè sulle piastrelle del pavimento, i piatti sporchi nel la-
vello, la lunga fila di bottiglie vuote, in gran parte di whisky, seminascoste dalla mole
massiccia del frigorifero. Davano l'impressione di essere state accatastate là dietro in
gran fretta soltanto pochi minuti prima, magari nell'attimo stesso in cui lei aveva pre-
muto il campanello.
— Ti sei scolato un bel po' di roba.
Tornando indietro gli si era piantata davanti in un involontario atteggiamento d'ac-
cusa. Lui abbozzò un cenno vago con la mano e le rivolse uno sguardo vuoto… lo
stesso identico vuoto della stanza, di tutta la casa. Anna strinse le labbra in un impeto
d'odio per lui e per se stessa, ma poi si chinò e rimise in moto il giradischi che si era
fermato. Ancora lo stesso disco, pur di riempire il silenzio. Era assurdo indignarsi, re-
criminare. Ormai voleva solo andarsene in tutta tranquillità ed evitare, se possibile,
ogni spiacevole discussione.
Ma lui non aveva intenzione di discutere. Dopo aver incrociato le lunghe gambe
sulla coperta, la testa poggiata ai cuscini: — Non esco da… due giorni, credo — le
comunicò alzando due dita solennemente e scuotendole in aria per rendere la cosa più
convincente.
— Andiamo fuori da qualche parte a mangiare un boccone — propose lei.
Si sforzava di mantenere un tono calmo, pacato. In fondo ci sono molti modi di
consumare un'avventura, e non ha senso pretendere dignità quando ci si incontra così.
S'era sentita, anzi, liberata da un timore oscuro, indefinibile.
Quasi con gratitudine gli disse: — Su, vestiti.
Una volta fuori di lì sarebbe stato tutto più semplice. Una buona cena probabilmen-
te l'avrebbe aiutato a smaltire la sbornia e lasciarlo solo, dopo, sarebbe risultato più
facile.
La confortava anche il pensiero d'avere attorno gente invece di quella stanza, pol-
verosa pur nella sua nudità. C'era un buon dito di polvere sul comodino, sulla spallie-
ra della sedia e la testata di legno del letto. E una polvere spessa e acre si alzava dal
tappeto, le arrivava in gola, le irritava gli occhi. Sì, meglio uscire. Quell'impressione
di soffocamento, almeno, sarebbe svanita all'aria della notte.
Era ancora in tempo, aveva pensato Anna. Poteva andarsene, chiamare un taxi, tor-
nare a casa. Fine dell'avventura. Non c'era niente di inevitabile in quell'incontro, nien-
te che la forzasse a restare. E invece era rimasta.
L'uomo continuava ad armeggiare incerto con i vestiti. Di tanto in tanto alzava gli
occhi verso di lei quasi a chiedere consiglio e, ogni volta, sembrava preso da una
muta, torbida meraviglia. Aveva già dimenticato tutto, la loro conversazione, la cena,
lo scopo del suo stesso mettersi in ordine. Cerchi d'ombra profondi ammorbidivano le
guance non rasate.
Un'emozione improvvisa l'aveva spinta a scostargli con dolcezza le mani, ancora
perse e confuse fra asole e bottoni, e ad aprirgli di nuovo la camicia. L'aveva tenuta
così, aperta, per qualche secondo avvertendo sotto le dita il pulsare caldo e violento
del cuore. Lui la lasciava fare, senza aiutarla e senza opporre resistenza, ma un tremi-
to lieve gli muoveva le labbra e gli contraeva i muscoli della mascella dallo zigomo
alto e rilevato.
Anna era stupita ed eccitata dalla sua stessa disinvoltura, dall'urgenza lancinante di
vedere, di toccare, di scoprire quel corpo appena intravisto, di seguire con le dita l'ar-
co del dorso, un solco netto, impetuoso e deciso come una frustata, di scendere lungo
quei fianchi stretti da adolescente.
Era adulta però la decisione che traspariva nello sguardo dell'uomo, nel volto appe-
santito e gonfio dal troppo bere. E la pelle sudata aveva un odore denso, aggressivo.
Ad Anna parve una promessa. Un richiamo. Lo respirò contro di lui con affanno, con
avidità, mentre il tremito delle sue mani le precipitava nelle vene e nel sangue con
l'irruenza di un grido.
Le ore della notte passavano segnate dal lieve ticchettio di una sveglia, sul comodi-
no. Ogni tanto gli occhi di Anna si posavano distratti sul quadrante luminoso. L'uomo
adesso parlava, ma non a lei, anche se le sue carezze erano insistenti e s'arrestavano e
riprendevano, s'arrestavano e ancora riprendevano in sintonia con il ritmo delle paro-
le. I loro sguardi non s'incontravano mai.
A lei andava bene così. L'affascinava la frenesia che l'alcol gli metteva addosso e
che poteva proseguire per l'eternità. Senza un apice, senza una fine. L'alcol moltipli-
cava e rinnovava le sue forze, spostava sempre più in là la soglia del piacere, metteva
un sospetto di violenza nello scatto dei suoi fianchi. L'alcol bruciava anche dentro di
lei, nella sua testa, nel ventre, e di nuovo nelle mani, nella bocca, nella stretta delle
gambe, nel corpo dell'altro.
A occhi chiusi, le serrò i polsi mormorando qualcosa che non chiedeva risposta né
partecipazione. Anche Anna chiuse gli occhi. L'eccitazione dell'uomo nasceva da fan-
tasie che non era lei a suscitare ma di cui lei poteva alimentarsi, e questo le dava un
singolare piacere misto a un brivido di timore. Anche la sua fantasia spaziava libera
da ogni vincolo, dalla realtà stessa del corpo di lui, dal turbamento che l'attraversava
senza fermarsi. Per rinascere quando posava la mano su quel corpo vicino ed estra-
neo.
Estraneo come nessun altro al mondo.
Era quello il punto d'attrazione? Allora - le passò per la mente - non c'era speranza,
per lei. Ma non riusciva a capire da quali profondità le salisse quel pensiero che resta-
va sospeso, incompiuto, quasi una minaccia.
La ragazza era crollata inabissandosi in un sonno nervoso, tanto che le mani strette
a pugno, serrate contro il corpo, lentamente si socchiudevano nell'intorpidimento. I li-
neamenti erano più distesi, un piccolo neo risaltava bagnato di lacrime proprio sotto
le lunghe ciglia naturalmente scure, senza rimmel, notò Anna. Mentre invece i capelli
erano illuminati da striature più chiare che li rendevano quasi biondi.
La sala d'aspetto, contigua all'ambulatorio vero e proprio, era arredata semplice-
mente e con oggetti poveri ma rivelava gusto e attenzione amorosa in ogni particola-
re. Non aveva quell'aria — fra il triste e l'asettico – che di solito caratterizza l'antica-
mera di uno studio medico. Niente vetrine ma, in un angolo, una piccola scrivania
fine Settecento (unico mobile di un certo pregio, regalo della nonna). Niente stampe
alle pareti ma grandi manifesti di mostre: Kandinskij, Klee, Mondrian, un enorme
Corot che occupava quasi tutta la parete contro cui era appoggiato il divano.
Guardando fisso davanti a sé, Anna ascoltava il respiro della giovane sconosciuta.
Il silenzio della stanza aveva un effetto paralizzante e l'imprigionava in una pesante
cappa d'irrealtà. Finché il rubinetto del lavandino, nell'ambulatorio, si mise a gocciare
ostinato, implacabile, facendo da contrappunto all'alterna cadenza dei loro respiri.
"Non vorrà restare qui tutto il giorno", s'inalberò Anna d'improvviso mentre l'insoffe-
renza dilagava senza più freni e le montava alla testa. Aprì la bocca. Le mancava il
fiato e aveva voglia di urlare. Si alzò, incapace di restare ferma un minuto di più.
La borsetta della ragazza era caduta a terra quando erano entrate, nell'impaccio e
nella fretta di raggiungere un punto saldo d'approdo. Nel cadere, si era aperta.
Anna si chinò a raccattare gli oggetti sparsi sul pavimento e che erano rotolati fin
davanti alla porta d'ingresso, raccogliendo qua un rossetto, là un'agendina, più in là
ancora due mazzi di chiavi, una scatoletta di liquerizia, un portafoglio da cui scivolò
fuori un pezzo di carta strappato da un taccuino o da un quaderno. Sopra vi era segna-
to un indirizzo. L'occhio registrò meccanicamente la via, il numero della casa. E c'era
anche un nome - il nome di quell'uomo - scritto con una calligrafia minuta ed elegan-
te.
Anna si raddrizzò di scatto, andando a sbattere contro la scrivania ingombra di rivi-
ste e vecchi giornali. Un foglio volteggiò fino a terra posandosi sul pavimento di mar-
mo.
La paura, questa volta, bruciava come una frustata facendole avvampare il volto.
Qualcosa le si smosse nello stomaco, gorgogliando. Rilesse il nome, incredula, poi
strinse nel pugno il pezzo di carta.
Non si era trattato di un caso, dunque. Ma chi era e che voleva da lei, quella scono-
sciuta?
A quel punto un sussulto incontrollato scosse le gambe della ragazza che aprì gli
occhi, riprendendosi impacciata dal torpore involontario che l'aveva colta. La fissò fi-
duciosa, senza timore, come se fosse la cosa più naturale del mondo che lei se ne
stesse lì con la sua borsetta fra le mani, e per di più aperta. Poi il suo sguardo s'intor-
bidò e negli occhi le crebbe una meraviglia, uno stupore genuino.
— Sono pazza — esclamò la giovane donna, scandendo le parole — pazza. Mi sta-
vo addormentando, pensi un po'. Credo proprio di essere pazza.
Prese a ridere istericamente cercando al tempo stesso, in maniera scomposta e
scoordinata, di alzarsi. Una reazione che sconcertò ulteriormente Anna. Ma era tutto
talmente insensato, irragionevole se quel biglietto non era un sogno, e non lo era poi-
ché lo stringeva ancora in pugno.
Anna non riusciva a immaginare per quale maledetta coincidenza si trovasse rin-
chiusa lì, in quella stanza, proprio con quella ragazza. Ma una spiegazione doveva
pur esserci e lei l'avrebbe trovata. Doveva sapere. Una simile coincidenza era e resta-
va inverosimile. Se fosse stata superstiziosa l'avrebbe considerata un segno del desti-
no, un ammonimento a non tenere nascosta più oltre quella storia. Tacere e rimuovere
la realtà poteva rivelarsi un gioco pericoloso. Rischiava di dar luogo a equivoci, di
suscitare abbagli. Di farla precipitare in simulazioni estreme, inutili e dannose.
Ma che cosa poteva sapere, in fin dei conti, quella ragazza? Quali sospetti poteva
nutrire nei suoi confronti? E poi, aveva accettato il suo aiuto. Forse per aver agio di
spiarla, di cogliere una sua mossa o un passo falso e dar corpo in questo modo a dei
semplici dubbi? Ma se l'aveva spinta verso di lei il sospetto non avrebbe reagito con
tanta naturalezza, lasciandosi sopraffare dal sonno. La diffidenza l'avrebbe indotta a
stare in guardia, a triplicare l'attenzione, a compiere un maggiore sforzo d'autocon-
trollo. Altro che addormentarsi! Una reazione altamente improbabile. Anche se non
impossibile.
Anna aprì il pugno, rimise il biglietto nel portafoglio e il portafoglio nella borsetta
chiudendola con una calma insospettata.
— Dopo una forte scossa o un'emozione il sonno è la difesa migliore — mormorò
più a se stessa che all'altra. — E lei deve essersi presa un bello spavento, non è così?
— Poi, senza attendere risposta: — Un calmante le farà bene, solo per aiutarla a rilas-
sarsi, a riprendersi un poco.
— Non ho bisogno di calmanti, io, mi ci vuole ben altro. Quel breve sonno aveva
stravolto e turbato la giovane sconosciuta, come se le fosse stato estorto con l'ingan-
no.
Anna rise ma seccamente, a fior di labbra.
— Non ho intenzione di avvelenarla.
L'altra insisteva: — Non voglio niente. Non prendo mai medicine, io, di nessun
tipo.
La voce era alterata da una nota isterica, forzata. Ma poi, accorgendosi d'essere sta-
ta troppo brusca, la ragazza s'interruppe.
— Mi dispiace — riprese. Balbettò pasticciando con le parole, poiché aveva inter-
pretato il silenzio di Anna come un segno di disappunto. — Lei è così gentile, non
volevo offenderla. Ma tutti questi intrugli chimici… Qualcosa di forte da bere piutto-
sto, questo mi ci vorrebbe. Un goccio di qualcosa.
— Dobbiamo salire nel mio appartamento, allora. Sono cinque piani e non c'è l'a-
scensore: pensa di farcela?
Per tutta risposta la ragazza si alzò in piedi. Solo in quell'istante parve accorgersi
che Anna teneva in mano la sua borsetta. Le rivolse uno sguardo interrogativo.
— Era caduta per terra — spiegò Anna con un'indifferenza che nemmeno lei capì
se simulata o reale.
CAPITOLO 7
Accese la radio che teneva in bagno, bassa, sul terzo canale: qualcuno annunciava
il Pierrot lunaire di Schoenberg. Una musica spezzata, come le sue gambe in quel
preciso momento. Aveva lasciato la porta aperta e le tendine della finestra sbattevano
contro il vetro e il legno della persiana, si gonfiavano nella corrente. Mentre si toglie-
va la camicetta continuava a parlare. La distanza dal bagno al soggiorno era talmente
breve che non occorreva nemmeno alzare la voce.
— Prendi pure dell'altro cognac. — S'interruppe. — Se vuoi — aggiunse. S'era tro-
vata improvvisamente e naturalmente a darle del tu. Buttò la camicetta nel cesto dei
panni sporchi (un cesto di vimini, panciuto e verniciato di bianco) e si sfilò la gonna.
— Non so neppure come ti chiami.
— Marta. — Tralasciò il cognome, e Anna non glielo chiese.
— Che fai?
— Adesso? — La voce suonò perplessa e lievemente imbarazzata.
— Ma no, voglio dire, studi, lavori o che altro?
— Studio. Sono iscritta all'università. Ma non sono di Roma, vengo dalla provin-
cia. — Una breve pausa, e poi: — Qualche chilometro appena, un paese alle porte di
Roma, si può dire. Sacrofano, lo conosci?
Anna non rispose. Si stava slacciando l'orologio e sul cinturino metallico aveva
scorto una piccolissima macchia di sangue rappreso. L'emozione le bloccava il fiato
in gola e le impacciava le dita, goffe a tal punto da non riuscire più a sfilare l'orologio
dal polso.
Una macchia.
Eppure s'era ritrovata senza neanche una goccia di sangue addosso quando era sci-
volata giù dal letto, un miracolo dovuto alla posizione del suo corpo e alla traiettoria
del colpo. Per prestargli soccorso gli si era inginocchiata accanto, ma dal lato da cui
era scesa, il più lontano. E il cuscino, le lenzuola spinte da una parte e ammucchiate
alla rinfusa avevano fatto barriera, impedendo perfino ai suoi occhi di andare troppo
oltre. Non voleva andare troppo oltre: la sua professione non l'aveva abituata a tanto,
all'intimità sconvolgente di una simile morte. Accuratamente, consapevolmente aveva
evitato di toccare il lenzuolo o di spostare il cuscino. Non ce n'era bisogno, del resto,
per portare a termine quella necessaria, orribile verifica e per comprendere che tutto
era finito, irrevocabilmente. Quando se n'era andata, non c'era più niente che potesse
fare.
E ora quella macchia. La richiamava alle sue responsabilità. Di fronte a lei s'apriva
un'unica strada, un'unica scelta logica, sensata: presentarsi a un qualche commissaria-
to di zona e raccontare tutto, per filo e per segno. Non c'era di che aver timore. Ma la
sola prospettiva le toglieva ogni coraggio e ogni parvenza di sicurezza. Il sangue le
correva via, a fiumi, dalle vene, smarrendosi chissà dove insieme con la decisione di
parlare. No, non avrebbe raccontato niente a nessuno. Era stato un incidente. Non c'e-
ra colpa nel suo silenzio. Questa certezza tornava a rassicurarla e in qualche modo la
giustificava.
Il suo stesso corpo si rifiutava di sostenere altre prove. Era esausta. Troppe emo-
zioni in una volta sola, non era in grado di affrontarne altre: la stesura del verbale, le
domande, le spiegazioni in Questura.
Già si raffigurava la scena. Un agente, magari in borghese, che batteva a macchina
la sua testimonianza con due sole dita, compitando le parole. Triplice copia in carta
carbone, come la volta che aveva denunciato il furto del portafogli. «Può ripetere, per
favore?» le avrebbe chiesto, le mani ferme sui tasti della vecchia portatile.
Una fatica inconcepibile, intollerabile in quel momento. E non poteva certo riman-
darla impunemente: come avrebbe giustificato una denuncia fatta con uno, due giorni
di ritardo? No, non avrebbe parlato né ora né mai.
Del resto, era stato un incidente. Niente turbava la sua coscienza. Se non l'intima
consapevolezza d'essersi lasciata andare a un atto di omissione, a un silenzio dettato
da un sentimento inestirpabile. Il suo silenzio rivelava una radice occulta ma profon-
da di viltà. Tacere diventava così un peccato. E un errore, forse, dalle imprevedibili
conseguenze.
Ma come s'era trovata coinvolta in una storia del genere? A trentacinque anni com-
piuti era la prima volta che si concedeva un amante occasionale. Nella sua vita c'era
stato un solo uomo, anni di convivenza e poi un matrimonio durato lo spazio di un'e-
state. Un solo uomo a trentacinque anni. Per la verità quasi non si meravigliava che la
sua prima avventura fosse finita così. E non si trattava d'amore, di fedeltà o di un
qualche principio da rispettare. Anzi, trovava imbarazzante la sua incapacità di eman-
cipazione sessuale. Ma non la voleva, per sé. L'aveva sfiorata a volte il sospetto di es-
sere frigida. Eppure il suo corpo, alla prova, si rivelava una macchina perfetta: l'in-
sensibilità risiedeva nelle emozioni, non nel corpo. Ma allora: quando e come era ar-
rivata a quel punto? Si era lasciata tentare, ecco la verità.
La verità era banale e un tantino squallida: faceva troppo caldo e lei si era sentita,
per la prima volta in vita sua, troppo sola. In un eccesso di sicurezza di sé che sconfi-
nava nella presunzione, aveva creduto di non correre alcun rischio: era lei, Anna, a
dominare la situazione. Ed era assolutamente certa che quell'uomo non avrebbe cattu-
rato per molto tempo ancora il suo desiderio. Sarebbe stato facile dimenticarlo. Ma
lui non l'aveva permesso. Era stato sufficiente un gesto. Un solo gesto di cui Anna
s'era trovata a essere semplice anche se incauta spettatrice.
Ma nessuno, mai, avrebbe saputo: e solo questo contava. Nessuno l'aveva vista,
nessuno poteva immaginare che esistesse una relazione, un rapporto qualsiasi fra lei e
quell'uomo. Lo conosceva da poco, non aveva fatto in tempo a entrare nel cerchio
delle sue abitudini e dei riti quotidiani, a conoscere i suoi amici. E Anna non aveva
avuto l'intenzione di rendere importante fino a tal punto la loro storia.
C'era un solo neo in tutta quanta la vicenda. Un inciampo, uno solo. Quella ragazza
con l'indirizzo di lui chiuso nella borsetta.
CAPITOLO 8
Dalla porta-finestra entravano sole e caldo, tanto che i suoi capelli erano ormai
pressoché asciutti. Anna li sfilava fra le dita per controllare l'umidore che ancora ri-
maneva in fondo, alla radice, e li scuoteva perché si sistemassero con spontaneità nel-
la solita massa tonda e compatta attorno al viso.
Accese una sigaretta. L'ultima. Accartocciò il pacchetto vuoto. Nascosto in casa da
qualche parte ce n'era uno di riserva. Doveva cercarlo, ma le gambe non la reggevano
più. E tuttavia la presenza di Marta le impediva di abbandonarsi allo sfinimento, la
obbligava a sorvegliarsi. In una certa misura questo era un bene. Contribuiva ad al-
lontanare, se non a dissolvere, il corteo di ombre che gli avvenimenti della notte se-
guitavano a proiettare sul suo animo.
Non voglio che se ne vada, chiarì risolutamente a se stessa. Che cosa le aveva fatto
supporre che la ragazza nutrisse l'intenzione di restare? Occorreva, invece, trattenerla.
— Ancora nausea?
Marta scosse il capo. Stava in piedi controluce: sotto la gonna era ben visibile la li-
nea sottile delle mutandine, l'attaccatura profonda delle cosce. Sul pavimento spicca-
vano le impronte dei loro piedi bagnati. Ma Anna non aveva nessuna voglia di alzar-
si, prendere uno straccio e pulire.
Poche ore dopo sedevano sul terrazzo ormai in ombra. Tre sedie di legno, vernicia-
te di bianco, erano disposte in mezzo ai vasi di fiori e alle piante che nascondevano
col loro disordine rigoglioso la balaustra di ferro del parapetto. Qualche palma nana,
un mandarino che dava ogni tanto dei frutti piccolissimi e duri e piante grasse con
rami mostruosi e acuminati che restavano sospesi a mezz'aria o strisciavano per usci-
re dalla costrizione dei vasi.
Il terrazzo girava attorno alla casa, su tre lati. Sul lato sinistro, dietro l'angolo, fiori-
va una spalliera di glicine: da lì si dominava il rettifilo di Via Giulia, la più romantica
via di Roma, con il suo armonioso impianto rinascimentale, i palazzi barocchi e l'arco
che la scavalca dividendola a metà, anch'esso coperto di glicini con i lunghi rami pen-
denti nel vuoto.
Il lato destro del terrazzo, più piccolo, era invece adibito a orto: prezzemolo, basili-
co, rosmarino, menta. Anna amava molto quelle piante umili dagli odori casalinghi,
anche se raramente le capitava di usarle. Soprattutto la menta. Ma era un piacere stac-
care una fogliolina e schiacciarla fra il pollice e l'indice per respirarne l'odore che si
sprigionava forte e resisteva a lungo sulle dita.
Niente su quel terrazzo era opera di Anna. L'aveva trovato così, in piena fioritura, e
se ne era innamorata.
Le piaceva curare le piante, potare, sradicare, trapiantare, cambiare di vaso, sposta-
re all'ombra o al sole a seconda delle stagioni: un po' lo stesso lavoro che faceva ogni
giorno con i suoi malati. Ma si rendeva conto che in realtà su quel terrazzo lei stava
tentando di coltivare, pazientemente, una pianta difficile da far attecchire nel suo ani-
mo e a cui dava nomi diversi di volta in volta, poiché sempre le sfuggiva la sua più
intima essenza. Dare forma alla sua solitaria vita di donna: forse si trattava, semplice-
mente, di questo. E poiché non esisteva forma che riuscisse a contenere le sue inquie-
tudini, allora si metteva a potare, sradicare, trapiantare fiori.
Seduta accanto alla giovane sconosciuta, Anna lasciava che il giorno passasse.
Anzi era già passato e il tramonto aveva la solita dolcezza malinconica, con i vecchi
palazzi sul fiume toccati da una luce di un rosa leggero, velato. O forse soltanto lei li
vedeva così, perfettamente intonati a un suo stato d'animo abituale. "Da eterna adole-
scente" pensò con stizza. Si portò le mani alla faccia, premendole sulla pelle tesa e
bruciante. La bottiglia del cognac rotolò per terra, accanto alla gamba della sedia.
Guardandola rotolare, vuota, Anna scoprì di aver bevuto parecchio. Provò sorpresa e
una lieve fitta di sgomento per aver permesso che il tempo prendesse quella direzio-
ne, s'infilasse in un vicolo cieco.
Con un movimento pigro, Marta stese le gambe davanti a sé. Anna abbassò lo
sguardo sulle sue caviglie. Svelte, sottili. E anche la curva del braccio prendeva lo
slancio da un polso altrettanto snello. Particolari insignificanti che non rivelavano
nulla di lei. O che invece, al contrario, testimoniavano un'eleganza interiore e ne era-
no per così dire la manifestazione materiale. Anna si sentì affascinata dalla fragilità
flessuosa di quel polso e di quelle caviglie: avevano il singolare potere di ridestare in
lei una curiosità, una voglia ambigua ma sincera di sapere qualcosa di quella ragazza
piombata, si poteva ben dire, nella sua vita. I suoi interessi, le sue abitudini, cose mi-
nute, di poco conto e tuttavia capaci di svelare gli smarrimenti più nascosti, la verità
di un carattere, di una persona.
Il grido rauco di un uccello attraversò il cielo passando su di loro. Risuonò a lungo,
disperato e solitario. Anna alzò la testa in ascolto.
— I gabbiani — spiegò a Marta che si era voltata verso di lei. — Giungono fin qui
dal mare, ed è la prima volta nella storia. Risalgono il fiume in cerca di cibo, ma è
tutto talmente inquinato, mare e fiume, che non trovano più niente e muoiono di
fame.
— Triste.
— Sì. — E pensò: non più di tante altre storie moderne di fame e di morte, di cam -
pagne inquinate, di mari senza vita, di città sovraffollate.
Il mal di testa che da qualche minuto s'annunciava, ancora sordo e lontano, scoppiò
richiamandola alla realtà. E anche questa era, le avevano insegnato, la funzione del
dolore.
In cucina, Anna aprì il frigorifero. Una vista desolante: qualche fagottino sgonfio
che non prometteva niente di buono, alcune bottiglie d'acqua e una di vino. Ma una
pastasciutta si poteva sempre rimediare: ormai aveva saltato — contò — ben due pa-
sti e non c'era da meravigliarsi se tutto intorno a lei cominciava ad assumere un aspet-
to sfumato, vagamente deforme. Gli oggetti balzavano di colpo in un'altra dimensio-
ne, gli spigoli delle porte pendevano sbilenchi da un lato mentre le lancette dell'orolo-
gio, sulla parete, pulsavano all'unisono con il battito doloroso delle tempie.
Anna scosse la testa, allungò una mano per prendere la bottiglia del vino e inaspet-
tatamente si ritrovò da un'altra parte, in un grande appartamento vuoto. Con sconvol-
gente chiarezza vide il pavimento sporco di quella cucina, i riflessi azzurri delle mat-
tonelle, le bottiglie di whisky ammucchiate l'una sull'altra in un angolo. Ripercorse un
lungo corridoio spoglio per ritrovarsi di fronte un volto d'uomo.
Si appoggiò al frigorifero e chiuse gli occhi. Fu un attimo. L'allucinazione si dis-
solse dietro le palpebre abbassate e lei sentì — una vera e propria sensazione fisica -
la maschera professionale ricomporle con immediatezza il viso, distenderle i linea-
menti. Un medico non può mostrare le proprie emozioni, nude davanti al resto del
mondo. Tutto scivola sulla sensibilità impermeabilizzata dall'abitudine tracciando
solchi poco profondi. Anna credeva d'essere sfuggita a quella malattia professionale e
invece qualcosa dell'impassibilità propria del suo mestiere l'aveva contagiata, altri-
menti non si sarebbe ripresa con tanta facilità e non avrebbe retto, sicuramente, all'an-
goscia.
Dopo averla riempita d'acqua, Anna mise sul fuoco la pentola grande, di smalto
rosso, tagliò un avanzo di pancetta in piccoli dadi e la fece soffriggere in un goccio
d'olio.
Marta intanto l'aveva raggiunta. Diede un'occhiata all'interno del frigorifero.
— Peggio di un uomo con la moglie in vacanza — esclamò con voce divertita. Ma
si mise ad aiutarla sforzandosi di grattugiare un pezzetto duro e secco di parmigiano.
Anna sorrise. La fame aveva messo addosso a entrambe una gran fretta, una pron-
tezza di riflessi che rendeva più svelto e calibrato ogni gesto. Si davano da fare attor-
no ai fornelli coordinando le azioni come vecchie amiche abituate a quel genere di
collaborazione. L'acqua bolliva e Anna vi versò dentro due cucchiai di sale grosso. Il
semplice fatto di preparare un pasto, l'idea stessa di mangiare significava in un certo
senso un ritorno alla normalità, al rapporto usuale con il tempo, con gli oggetti, con le
persone. Con se stessa. L'ultima chiazza di luce sul pavimento scivolò via.
CAPITOLO 11
Il raggio dei riflettori, bianco sulla facciata della chiesa, sulle statue che dall'alto
del cornicione si piegavano verso la finestra spalancata, batteva sul cuscino, si ferma-
va in un alone livido sui lineamenti delicati, sulle braccia scoperte della ragazza. Una
luce da fantasmi. E in quella luce tutto sembrava più netto e al tempo stesso più lonta-
no, inaccessibile: la curva della spalla, il disegno delle labbra, delle ciglia. Nell'ab-
bandono del sonno il corpo si liberava a poco a poco d'ogni consistenza e la sua levità
suggeriva il pallido emergere di un'altra forma segreta, inafferrabile.
Con un'ansiosa urgenza di sentirla viva, reale, Anna si chinò a toccarla. Vide che
non si era spogliata del tutto, indossava ancora la maglietta e le mutandine.
— Svegliati.
La ragazza alzò il viso con un movimento talmente meccanico da sembrare artifi-
ciale e le rivolse uno sguardo remoto, privo d'interesse. Con l'intento di scuoterla
Anna posò le dita sulla pelle liscia e tenera del braccio, e strinse. Strinse tanto forte
che Marta sussultò per il dolore.
— Che c'è — disse finalmente. Si tirò su con un gesto lento, svogliato. — Che suc-
cede?
— La chiave — esclamò Anna. — Hai detto di avere aperto con la tua chiave, sta-
mani. Non l'hai persa, vero?
La ragazza si concentrò, abbandonando con estrema lentezza la sua aria trasognata.
Poi, mentre negli occhi le balenava una luce di comprensione e di spavento, si voltò e
si mise a tastare con una mano, alla cieca, oltre la sponda del letto, cercando la bor-
setta. Con dita impazienti rovistò nei diversi scomparti e infine tirò fuori, con un'e-
sclamazione di trionfo e di sollievo insieme, un mazzo di chiavi. Nella furia della ri-
cerca uno dei ganci della tracolla si era staccato e pendeva a terra.
Le chiavi - due in tutto, una del portone d'ingresso e una dell'appartamento - tintin-
navano appese a un ciondolo d'oro: un omino stilizzato tendeva un arco stringendo
saldamente in pugno la freccia. Un oggetto grazioso, di un certo valore. Seguendo la
direzione dello sguardo di Anna, Marta spiegò: — È il mio segno zodiacale, un sagit-
tario. Siamo andati insieme a comprarlo, io e… quell'uomo. Un regalo per festeggiare
il nostro accordo. — Tacque, poi in tono più sommesso: — Diceva che m'avrebbe
portato fortuna.
Dunque una traccia esisteva, dopo tutto. Esile ma pur sempre concreta, tangibile.
La sua intuizione s'era rivelata giusta. Anna si domandò se Marta ne era consapevole.
E forse per questo s'era tanto spaventata al pensiero d'aver perso le chiavi o di averle
dimenticate proprio in quella casa, magari attaccate alla serratura. Da qualche parte
c'era un uomo che li aveva visti insieme e che, all'occorrenza, poteva riconoscerla.
— Ci teneva a mostrarsi gentile, anzi era premuroso in una maniera esagerata, per-
fino imbarazzante. — E subito Marta volle precisare, quasi a scusarsi di un'azione
non proprio limpida: — Chissà, probabilmente aveva paura che cambiassi idea, che
rifiutassi la sua offerta.
Nella voce le tremava una nota falsa, come una riluttanza ad andare oltre. Anna
ebbe la sgradevole sensazione d'aver scoperto un punto oscuro, una debolezza che le
rendeva più difficile accettare e comprendere quella giovane donna. Ma la moralità
dell'altra non era cosa che la riguardasse. Di che s'impicciava? E andiamo, si rimpro-
verò, accettare regali, un regalo da niente, il pensiero di un amico, non era poi un af-
fare così disdicevole. Ma sentiva che un'ombra di gelosia le stava oscurando l'animo.
Ridicolo. Grottesco, si disse con un brivido. Tuttavia ricacciò indietro la tentazione,
che l'aveva sfiorata per un attimo, di liberarsi dall'ossessione di quella storia e di
completare il racconto di Marta con il suo.
— E ora? Che me ne faccio di queste chiavi — s'interrogò sovrappensiero la ragaz-
za.
— Quando andrai alla polizia le consegnerai a loro. Dimostrano che hai detto la
verità.
— Dimostrano solo che potevo entrare in casa. — Mormorò, di nuovo: — Che me
ne faccio?
Impulsivamente Anna tese la mano.
— Dammele.
Il ciondolo d'oro lanciò un guizzo nell'oscurità e subito si spense.
— Vieni con me.
Il sacchetto della spazzatura era già annodato in cima e pronto per essere buttato
nei bidoni di metallo sistemati a pianterreno, in un angolo dell'atrio (il camion della
nettezza urbana passava la mattina, sul tardi). Là dentro Anna infilò le chiavi spin-
gendole bene in fondo, senza preoccuparsi della sporcizia che le restava attaccata alle
dita. Poi rifece il nodo, accuratamente, e si sciacquò al rubinetto dell'acquaio.
Marta non aveva più aperto bocca, però si stringeva le braccia contro il seno in un
gesto protettivo.
— Ma perché? — azzardò infine con uno smarrimento sincero.
— Perché? È la soluzione migliore. L'unica — puntualizzò Anna.
— Allora è deciso…
— Sei tu che devi decidere, naturalmente, è tua la responsabilità. Vuoi che ripren-
da le chiavi?
Marta non rispose e Anna pensò che doveva apparirle come una pazza colta da
isterie notturne. Non era stato un gesto molto accorto, il suo. Che cosa le aveva offer -
to in fin dei conti? Non una comprensione solidale, ma solo una gratuita e perciò
equivoca complicità.
Dopo un po', a bassa voce, Marta disse quasi riflettendo fra sé: — Ma se non av-
verto qualcuno, chissà per quanto tempo ancora rimarrà su quel letto, nel suo stesso
sangue. Non è giusto.
Anna si stava asciugando con uno strofinaccio. Un rigurgito inatteso di nausea la
scosse e le salì in gola col rumore di un singhiozzo. Deglutì. Poi disse: — Rifletti.
Parlare significa esporsi a congetture, a sospetti d'ogni genere. A che scopo? Non ren-
di la vita a lui, solo un cattivo servizio a te stessa.
Marta non replicò.
CAPITOLO 12
Il cameriere arrivò con il vassoio in equilibrio su una sola mano. Anna levò il go-
mito dal tavolo, pagò e bevve l'acqua buttando giù due Optalidon che teneva sempre
in borsa per ogni evenienza. Il mal di testa che la tormentava dalla sera prima non ac-
cennava a diminuire, andava e veniva come la tentazione, acuta al pari d'una sofferen-
za, di sfogliare i giornali che aveva posato sulla sedia alla sua destra. Il caffè era qua-
si freddo e lei lo finì in un sorso: perché mai si obbligava a prendere tempo, a rinvia -
re? Una tortura inutile. Non qui, però. Non qui di fronte a tutti, si disse. Anche se le
sedie accanto a lei erano vuote e la piazza, a parte lo sciacquio delle fontane, silenzio-
sa e assolata.
Anna si alzò, raccolse i giornali e s'avviò verso casa.
Accovacciato sulla gradinata di un palazzo, un barbone frugava in un involto di
carta unta, una di quelle cartocciate di spaghetti che le gattare romane seminano dap-
pertutto, sui marciapiedi, negli angoli di strada, in mezzo alle pietre e ai ruderi del-
l'antica Roma. Anna affrettò il passo.
"Proprio come i gatti" pensò. "Con l'estate escono fuori, si moltiplicano".
I barboni, i mendicanti in genere non suscitavano in lei compassione ma soltanto
ribrezzo e un oscuro e inesplicabile terrore. Un sentimento di cui si vergognava, ma
la repugnanza era un velo resistente che non riusciva a rimuovere dai suoi occhi e che
le precludeva qualsiasi pietà.
"Eppure, potrei finire anch'io così."
Non così povera, intendeva. Ma randagia e pazza. Per troppa solitudine, per quella
propensione a lasciarsi vivere, ad abbandonarsi al caso - o al destino? - senza opporre
resistenza.
Cambiò di mano ai giornali, l'inchiostro si scioglieva col sudore e le tingeva le dita.
Camminava a passi rapidi anche se non aveva più tanta voglia e urgenza di sapere, di
controllare. Anzi.
Le scale erano ripide e strette e a farle senza soste veniva l'affanno. Si fermò per
respirare a fondo, tentando di placare l'agitazione crescente. Poi si chiuse la porta alle
spalle con un colpo di gomito e si lasciò cadere sul divano.
Asciugò le mani sudate sui blue-jeans strusciando più e più volte le palme aperte
contro le cosce: il momento era giunto.
CAPITOLO 13
Arrivò sotto casa che era già buio. S'era fermata a una rosticceria per comprare
mezzo pollo arrosto e quattro etti di patatine fritte, non ne poteva più di spaghetti e
pastasciutte.
Mentre ordinava la cena e aspettava lo scontrino alla cassa aveva ripensato all'at-
teggiamento della ragazza, quando le aveva mostrato l'articolo che annunciava il ri-
trovamento del corpo.
Contrariamente a ogni sua aspettativa, Marta l'aveva letto con evidente sollievo,
come se ogni paragrafo, ogni frase la liberasse da una zavorra e la disincagliasse da
una secca pericolosa. Ma in realtà era un sollievo comprensibile, il suo: aveva previ-
sto e temuto un silenzio insondabile, un interminabile periodo d'incertezza e di vuoto.
Meglio se il pericolo si presentava immediato e tangibile, questo il suo punto di vista
e Anna adesso era propensa a condividerlo.
Sulle scale la investì la voce di uno speaker che scendeva dall'ultimo piano, dal suo
appartamento. La ragazza aveva acceso il televisore. A mano a mano che saliva la
voce le giungeva più chiara e netta. Chissà se Marta - le veniva facile adesso chia-
marla per nome - chissà se aveva apparecchiato. Le sigle musicali e la voce ben rego-
lata dello speaker si mescolavano all'odore del pollo. Un bizzarro impasto che le co-
municava un senso profondo di intimità, di vita in comune, di quieta animazione. An-
che a lei faceva piacere trovare qualcuno in casa che l'aspettava.
La scoperta la intimidì.
CAPITOLO 16
Scivolò sul divano fino a toccare con la testa il bracciolo. Una lama di sole s'affila-
va sui suoi piedi: il calore entrava sotto la pelle, avanzava su per le gambe con un pia-
cevole formicolio. Era ancora prima mattina. Ma fuori l'aria già vibrava sotto le vam-
pate di caldo che dissolvevano il disegno regolare delle mattonelle rosso sangue e lo
trasformavano in una macchia confusa di colore. Il silenzio della casa e della via era
il silenzio della piena estate. Scomparsi i rumori familiari di tutti i giorni: le voci dei
passanti, il rombo delle auto, degli autobus, i clacson. Tutto bruciato, perduto in un
passato remoto. Solo dal bar all'angolo della strada saliva fin lassù il canto metallico
dei video-games.
Nel riquadro chiaro disegnato dalle linee confluenti della soglia e della persiana
chiusa a metà, si stagliava il corpo disteso della ragazza. Le cosce lunghe e piene, la
curva del ventre, i seni piccoli con i capezzoli larghi e scuri. Anna seguì lo snodarsi
flessuoso del polso, l'abbandonarsi della mano sulla spugna e si fermò sul pacchetto
di sigarette poggiato lì accanto, la bottiglietta d'olio solare, il pettine. Poi gli occhi le
tornarono sul corpo della ragazza, catturati da quelle linee nette, arroganti.
Le mutandine troppo piccole coprivano a malapena metà del pube, lasciando sco-
perta una massa setosa di peli chiari. L'aria si liquefaceva e ondeggiava sulle gambe
nude, sul ventre teso, sulla gola rovesciata della ragazza, come se dal suo corpo si
sprigionasse una gran fiamma.
Anna distolse il viso col sussulto involontario di chi si sveglia di soprassalto.
— Vieni al sole — la invitò Marta sollevandosi pigramente sui gomiti e inarcando
il busto. — Dai, un piccolo sforzo, si sta peggio in casa.
Strapparsi dal divano era faticoso ma necessario. Doveva vincere quel torpore che
le impediva di muoversi e che si stava trasformando in languore estenuante. Doveva
risalire dal piacere profondo di quell'abbandono. Risalire. Ma lentamente, mollemen-
te.
Sì, era necessario, si disse Anna.
Ma perché, si stupì poi con se stessa mentre, obbediente, si alzava e sgusciava fuo-
ri da sotto la persiana semiabbassata. Un'insolita soggezione le fece volgere altrove
gli occhi quando si tolse il pigiama e lo stese per terra, la giacca ben allargata e i pan-
taloni arrotolati da mettere sotto la testa.
Nuda, eppure sudava. La sensazione di benessere era scomparsa, sostituita da un
disagio che avanzava, cresceva di minuto in minuto, s'impossessava di lei, le avvele-
nava il sangue diramandosi in tutto il corpo e ramificandosi a velocità vertiginosa.
S'era messa a una certa distanza, ma la ragazza le si accostò spostando l'asciugama-
no e voltandosi di nuovo sulla schiena con un sospiro appagato. Quando incrociò le
braccia dietro la nuca, vide che il sudore le scuriva una tenera, impalpabile peluria
sotto le ascelle. S'era avvicinata tanto che Anna sentiva il suo alito sulla pelle del
braccio e il solletichio di una ciocca di capelli. Appena la punta di una ciocca. Una
manovra - tale le parve - che aveva su di lei un effetto paralizzante: non osava sco-
starsi e nemmeno dirle di farsi più in là che le toglieva l'aria e le impediva il respiro.
Il disco del sole era nascosto da qualche parte, forse dietro il muro ricoperto dai ram-
picanti. Invisibile, ma bruciava ugualmente. Il mondo le appariva irreale come quel
sole nascosto e che pure pesava sui loro corpi nudi.
— Non si sta bene? — chiese Marta. Si era leggermente allontanata e Anna respirò
a fondo mentre la tensione s'allentava, fluiva via insieme al sudore.
Balzò in piedi.
— Sei matta. Qui ci prendiamo un'insolazione. Io vado a bagnarmi.
Si cacciò sotto la doccia. L'acqua fredda le strappò un grido di doloroso piacere.
Tornò al sole con l'acqua che le ruscellava dal corpo sul pavimento, sulle mattonelle
infuocate.
— Attenta — esclamò Marta, ma Anna stava già scuotendo i capelli bagnati ruo-
tando il capo nella sua direzione. — Mi hai inondato.
Sorridendo, la ragazza simulò un brivido e per ripicca si asciugò, mettendosi a se-
dere, con il pigiama di Anna. Si asciugava e nello stesso tempo si ispezionava accura-
tamente la pelle controllando ogni macchiolina, ogni neo.
— Hai visto quanti? — Li contava sfiorandoli con le dita. — E questo… non mi
andrà via mai più.
Si toccò con la punta dell'indice una piccola macchia bianca sotto il seno sinistro.
Una cicatrice? Ma non ne aveva le caratteristiche: perfettamente liscia, rotonda come
una monetina.
Perplessa, Anna aggrottava la fronte: tutta quella luce le impediva di mettere a fuo-
co il piccolissimo punto bianco che si perdeva tra le sfumature della pelle, sotto la
curva seducente e tesa del seno.
— Una bruciatura. Strana, vero? Fumavo uno spinello… — Rise notando l'espres-
sione allarmata di Anna. — Sta' tranquilla. Ogni tanto mi capita, ma solo ogni tanto
non per abitudine. Fumavo nuda sul letto e mi è caduto il mozzicone acceso proprio
qui. Fortuna che mi è rimasta soltanto questa macchia più chiara. L'unghiata del dia-
volo.
Con una mossa rapida, a sorpresa, le catturò la mano e se la portò sul seno fino a
costringerla a toccare l'invisibile bruciatura. Anna si era irrigidita e opponeva resi-
stenza tentando di sottrarsi. Ma le dita di Marta stringevano forte, la forzavano a re-
stare lì, a sfiorare la cicatrice, la pelle caldissima e palpitante, il capezzolo duro. Anna
si arrese. E allora l'altra la lasciò di colpo.
La mano batté a terra e un dolore acuto le si ripercosse lungo tutto il braccio. Anna
trattenne a stento un grido e subito dopo sorrise rammentando che la ragazza, a prima
vista, le era sembrata timida. Ora capiva che era soltanto spaventata.
Un'oscura associazione di idee: e Anna risentì l'eco dei tacchi alti che saliva fino a
lei, con ritmo preciso e tagliente, dalla tromba delle scale. Ecco, quella macchia le
suggeriva… Avrebbe potuto essere l'impronta di un tacco sottile, affilato come il col-
tello del pane o come un bisturi. Il marchio di un gioco sadico, crudele. Eccitante.
Il soffio di un'indicibile emozione le raffreddò il sudore lungo la schiena.
CAPITOLO 17
— Dove corri.
La voce di Marta la bloccò proprio sulla soglia, mentre stava già uscendo. Il sole,
notò, aveva messo un tono più acceso sulla sua pelle e anche le labbra sembravano
più gonfie, più turgide.
Anna ebbe una breve esitazione e la ragazza ne approfittò per aggiungere precipi-
tosamente: — Vengo con te.
Con una mossa veloce e aggraziata della spalla si sfilò la vestaglietta di seta cinese.
Il busto emerse nudo, splendente.
Anna arrossì, di botto sentì la faccia in fiamme. Senza dubbio si sbagliava, ma cre-
dette d'intercettare una sfumatura di civetteria nell'agile gesto del corpo, nel molle
piegarsi del capo con l'onda chiara dei capelli che correva giù, sugli occhi socchiusi
per la troppa luce.
— Vado solo al supermercato — replicò alzando una mano a bloccare ogni insi-
stenza e prevenire altre richieste. — Aspettami qui. Lo preferisco.
Non la voleva con sé. Già era difficile arginare la curiosità dei vicini, sospettosi e
ostili per principio a ogni viso estraneo. Uscire insieme, anche se non sapeva spiegar-
si bene il perché, le sembrava un azzardo. Era restia a mostrarsi con lei più dello
stretto necessario.
CAPITOLO 18
Il carrello cigolava in modo fastidioso ma lei non tornò indietro a cambiarlo. Levò
dal taschino della camicetta il foglio con la lista delle cose da comprare, lo consultò e
tirò giù dallo scaffale sulla sinistra un barattolo di salsa di pomodoro.
Lo scaffale correva per metri e metri specularmente all'altro sulla destra per voltare
infine, con geometrica precisione, ad angolo retto. La luce al neon illuminava senza
sbavature, con gelida nitidezza, file interminabili di etichette colorate, scatole di car-
tone di diversa grandezza sistemate a incastro, buste lucide che contenevano fettine
trasparenti di salumi e formaggi tutti uguali, talmente schiacciati sotto la plastica da
essere irriconoscibili. Sempre le stesse cose, nello stesso ordine. E mai nell'aria il pro-
fumo di frutta e verdure fresche che rende vivo anche il più misero dei mercatini rio-
nali. Ma naturalmente questo era il progresso: risparmio di tempo e di energie, di
odori e di forme.
Un'altra cliente frugava nel surgelatore, spostando pesci stecchiti e scatole bianche
di brina. Anna spinse di lato il carrello che ostruiva il passaggio e la sorpassò.
L'aria condizionata l'aiutava a rimettere in ordine i pensieri spezzati, sparpagliati
qua e là alla maniera di un puzzle ancora da comporre.
La piega presa dalle indagini non la preoccupava molto. C'era una possibilità su
quante?, su cento che risalissero fino a Marta e da Marta a lei. E una su mille che riu-
scissero a risalire a lei direttamente. Ma una delusione dura e fredda come gli angoli
di un cubetto di ghiaccio le scendeva pian piano dalla gola alla bocca dello stomaco.
Anna inghiottì a vuoto. Non si era buttata sui giornali soltanto per seguire il percorso
delle indagini, per sapere di quanto s'andava avvicinando l'ora della resa dei conti.
Ben altro lei aveva sperato di scoprire, o almeno di indovinare, dalle note dei cronisti.
Il fatto è che lei non lo conosceva quasi, quell'uomo. Non le sarebbe importato,
anzi era esattamente ciò che voleva se tutto fosse andato come previsto. Una sola not-
te, un fuggevole contatto. Ma così… La legava a lui un vincolo più forte dell'amore,
una incancellabile, macabra intimità del corpo e dell'animo. Un legame eterno che
aveva il sapore di una vendetta.
E lei non lo conosceva, non sapeva niente di lui. Niente che davvero contasse: qua-
li sentimenti avevano guidato le sue azioni, su quali strade s'erano consumati i suoi
pensieri? E l'onda del suo desiderio su quale spiaggia s'era andata a perdere?
Avrebbe dato qualsiasi cosa, Anna, pur di poter ricostruire il suo volto, la sua im-
magine quotidiana: l'immagine che conservavano di lui la madre e la moglie, ma an-
che gli amici e perfino i vicini di casa. Qualsiasi cosa pur di decifrare il senso o l'in-
sensatezza della sua vita. Si era aspettata di trovare sui giornali notizie che le aprisse-
ro uno spiraglio di comprensione. Aveva sperato di poter intuire le vittorie e le scon-
fitte di una vita che si era intrecciata così inestricabilmente alla sua. D'imbattersi al-
meno in qualche fuggevole impronta di verità. Invece niente. Liquidato in poche ri-
ghe.
Anche da morto le sfuggiva.
Uscì dal supermercato e si rimise al volante distratta, in un vuoto di pensieri da cui
ogni tanto emergeva solo per tornare a sprofondare in un'atona e vacua esplorazione
di sé. E senza sapere come, si ritrovò di fronte alla casa da cui era fuggita quel lunedì
mattina. Un secolo fa. Frenò di colpo.
Non s'era sbagliata, parlavano di lui. E presumibilmente non si parlava d'altro nella
strada, nei negozi, nei condomini. L'argomento del giorno.
L'uomo al banco si stava togliendo il grembiule che teneva arrotolato in vita. Si li-
sciò il lungo riporto, rigido di brillantina o di lacca, che gli si era drizzato simile alla
penna ornamentale di un indiano dietro la testa calva. Le si rivolse sgarbatamente: —
È chiuso.
— Solo quattro rosette per piacere.
Le parve che avesse un che di sordido nella figura: a causa del cranio unto, del
grembiule sporco o delle braccia che gli uscivano, tozze e irsute, dalla camicia a mez-
ze maniche?
Anna si voltò verso le donne, decisa a mendicare la loro attenzione. Si schiarì la
gola. Ma proprio quando le sembrava d'essere sul punto d'articolare qualcosa, una
qualsiasi cosa, le donne interruppero i loro commenti e protestarono. Dovevano spez-
zarsi la schiena per uscire da sotto la serranda? Era quello il modo di trattare la gente?
L'uomo sbuffò borbottando qualche sillaba inintellegibile ma poi, alzando una tavola
divisoria di legno, sgusciò da dietro il banco. Destreggiandosi fra pile di casse e sca-
toloni, raggiunse la saracinesca, l'alzò e tornò ad abbassarla dietro le clienti.
Erano soli. Anna ebbe la percezione istantanea del pericolo. Vibrava nell'aria una
minaccia da cui non sapeva come ripararsi, a cui non sarebbe riuscita a sfuggire, già
lo sapeva. A disagio, si inumidì con la saliva le labbra secche. L'uomo ripercorse il
cammino inverso avvicinandosi al contenitore del pane. I suoi occhi la scrutavano
ostili, i suoi gesti, il suo atteggiamento, il suo stesso passo grave, pesante, tutto in lui
esprimeva contrarietà e rifiuto.
Ma non era quell'uomo il pericolo da cui Anna doveva guardarsi. La minaccia non
veniva da lì. E certamente il fornaio la stava scambiando per una delle tante che arri-
vavano con la voglia di particolari morbosi. Per questo la teneva a distanza, sbarran-
dole l'accesso a qualsiasi confidenza.
Mentre le incartava le rosette Anna disse, involontariamente e come se stesse pro-
seguendo una conversazione avviata da tempo: — Lei lo conosceva, vero?
Non c'era bisogno d'aggiungere altro. Entrambi sapevano a chi si riferiva. L'uomo
rallentò l'operazione e le lanciò un'occhiata fredda e indagatrice. Si strinse nelle spal-
le, annoiato.
— Lo vedevo solo entrare e uscire. L'ho detto anche alla polizia. Non era un buon
cliente, comprava poco, almeno qui da me. Qualche rosetta…
Guardò in maniera significativa il sacchetto col pane che ancora teneva fra le mani
e glielo porse.
— Nient'altro?
— Nient'altro, grazie.
E uscì in fretta, quasi scappando.
CAPITOLO 20
Le ombre sul terrazzo guadagnavano rapidamente terreno. Anna uscì a piedi nudi
(era piacevole camminare sulle mattonelle ancora tiepide) e levò dalla corda tesa in
un angolo riparato, quasi nascosto, la biancheria. Il sole l'aveva disseccata ed era rigi-
da e ruvida al tatto. Anche nei vasi lì accanto la terra, arida, si screpolava. Aveva per-
so il conto, ma certo da molti giorni ormai non annaffiava le piante. Una semplice di-
menticanza o piuttosto il sintomo d'un malessere che si manifestava in maniera sub-
dola, con una trascuratezza che ben presto si sarebbe estesa dalle piante alla casa, alla
sua stessa persona? Ci vuole sempre più di un'ora per dare l'acqua a tutti i vasi, si giu-
stificò di fronte a se stessa. E pur avendo ogni attimo della giornata a sua disposizio-
ne, era come se le fosse mancato proprio il tempo.
Scosse di nuovo i panni lisciandoli con le dita, piegandoli con cura, lentamente, or-
dinatamente, uno dopo l'altro.
Marta ha paura. Di me. Un pensiero che le dava un dolore fisico, un'oppressione al
petto. O forse era lei, Anna, a inventarsi tutto, a costruire dentro di sé false impressio-
ni, a dar loro forza e innalzarle come un paravento, un nero scudo segreto contro ne-
mici invisibili. S'immaginava che Marta avesse paura di lei perché lei, invece, voleva
cancellarla, farla sparire dalla sua vita e dalla sua mente. Questo voleva, in realtà.
Questo?
D'un tratto i fiori polverosi, appannati, le fecero compassione. Si chinò sulle foglie
di un'enorme ortensia e così chinata la raggiunse il grido che annunciava il passaggio
di un arrotino. Un grido ripetuto e modulato su un unico lunghissimo tono che saliva
dalla strada come dal fondo di altre epoche, di altri mondi.
CAPITOLO 22
Basta, s'impose Anna alzandosi dal divano e tornando subito a sedersi, suo malgra-
do inchiodata a quel confronto fatto di vischiosi silenzi e tacite accuse.
Basta con queste elucubrazioni contorte, malate. Non era lei, del resto, a trattenere
Marta. Anzi, a ben guardare le cose come stavano, era l'altra a non volerla perdere
mai di vista, a non staccarsi un attimo da lei: starle dietro era diventata la sua unica
occupazione. Chi sorvegliava chi, in realtà?
Di nuovo e daccapo. Sempre la stessa ossessione, rovesciata e capovolta. Bisogna-
va trovare una via d'uscita, rompere il nodo di complicità - esclusiva come una pas-
sione amorosa - che le legava l'una all'altra. Anna si morse le labbra. No, non si sa-
rebbe arresa, non sarebbe annegata nelle burrasche del proprio inconscio. Sapeva ciò
che andava fatto. Smetterla, in primo luogo, di crogiolarsi in quell'atmosfera morbo-
sa, entrambe sofferenti e compiaciute della propria sofferenza. E uscire, vedere gente.
La sigaretta aveva perso gusto e la stanchezza era tornata a essere una pesante cate-
na che le mordeva le caviglie. La sua mano, sulla spalliera, sfiorava la nuca della ra-
gazza, il collo esile che i capelli, legati in alto, lasciavano scoperto. Indifeso. Lo toccò
indugiando sulla morbida peluria che sfuggiva dalla massa compatta. Tutta la tensio-
ne del suo corpo si concentrava sulla punta delle dita imprevedibilmente sensibili,
calde L'indice scivolò lungo il solco della nuca. La mano s'arrestò in una leggera
pressione che a poco a poco si andò trasformando per sciogliersi da ultimo in una ca-
rezza.
Marta si voltò verso di lei e, finalmente, le sorrise. I denti, grandi e regolari, aveva-
no lo stesso umido candore degli occhi, lo stesso lampo invitante.
Fuori, il terrazzo era ormai completamente in ombra ma la sfera del sole, al di là
del Tevere, indugiava calando con esasperante lentezza. Non era ancora finita. Anna
ebbe un fremito d'impazienza: non vedeva l'ora di suggellare, chiudere definitivamen-
te anche quella giornata. Come se ogni ora che passava fosse un pericolo scongiurato.
Si svegliò di soprassalto. Era notte fonda e la stanza immersa nel buio. Qualcosa
non funzionava, ne era certa. Anna si sforzò di rammentare. La porta di comunicazio-
ne che immetteva nel soggiorno dove Marta dormiva era chiusa e nessun rumore
giungeva da quella parte. Poi ricordò.
Aveva sognato e, nel sogno, aveva visto la seta disegnare il capezzolo scuro, scivo-
lare giù lenta, morbida sul seno nudo di Marta.
CAPITOLO 23
In bagno, davanti allo specchio, Marta si truccava. Aveva di nuovo raccolto i ca-
pelli sulla nuca e sul collo sottile brillava un filo d'oro.
Anna sedette sul bordo della vasca, affascinata e alla fine conquistata dal gioco
esperto delle mani, dai gesti misurati e abili della ragazza. Gesti che tracciavano e cir-
coscrivevano un mondo di tranquilla, familiare normalità. E che tuttavia risvegliava-
no in Anna la sensazione — non del tutto sgradevole ma per questo ancora più in-
quietante — di essere carceriera e carcerata al tempo stesso. Una situazione che lei - e
lei soltanto - aveva creato, inventato, perfino voluto.
Ma non riusciva a capacitarsi di quel desiderio di segregazione, quella voglia di al-
zare un recinto, uno steccato invalicabile attorno al loro rapporto. Un rapporto che
consisteva tutto in un cauto sondarsi, un girarsi attorno alla ricerca… di che cosa?
La vicenda si era ulteriormente complicata.
Troppo tardi, pensò Anna. Troppo tardi ormai per qualsiasi spiegazione, per con-
fessare la verità e affrontarne i contraccolpi. Non aveva più paura delle reazioni della
gente, ma il timore di un altro rischio adesso la tratteneva e le impediva di varcare
quella soglia.
No, non temeva più che il mondo le attribuisse una colpa non sua. Ma Anna dubi-
tava delle reazioni della ragazza. Forse l'avrebbe creduta ma forse, al contrario, si sa-
rebbe convinta di una sua qualche colpevolezza. Poteva addirittura pensare che l'a-
vesse tenuta in ostaggio per garantirsi l'impunità. In ogni caso, una barriera di sfidu-
cia le avrebbe separate, irrimediabilmente. E questo non riusciva a sopportarlo.
Era successo qualcosa. Qualcosa che le rendeva intollerabile un rifiuto o anche la
semplice ostilità di Marta. La guardò. Guardò il disegno netto delle sopracciglia, la li-
nea breve del naso, il prepotente rivelarsi del corpo agile e pieno sotto la maglietta.
La ragazza avvertì l'intensità del suo sguardo, smise di armeggiare fra le creme e le
rivolse un sorriso cautamente esplorativo.
— Che fai, mi ammiri?
— Vanitosa — la burlò lei ritraendosi tuttavia, impacciata come se fosse stata sor-
presa nel bel mezzo di un'azione sconveniente. Ma la ragazza manteneva un atteggia-
mento disteso, una pacatezza risolta di modi e di gesti.
Avrebbe mai dimenticato?, si domandò Anna continuando a fissare il volto giova-
ne e assorto riflesso nel grande specchio dietro il lavabo. Probabilmente sì. Col passa-
re del tempo, al contrario di lei, avrebbe considerato tutta quanta la storia una partita
chiusa col mondo e con se stessa. Un tremito appena avvertito di disagio in una notte
insonne, la cicatrice mai del tutto rimarginata di un rimorso. O poco più. Il trauma era
superabile, purché gli altri glielo permettessero e dimenticassero a loro volta.
Oltre il riquadro della finestra, il cielo coperto possedeva l'identica sfumatura gri-
gio perla delle statue sul cornicione della chiesa. Il ronzio di un elicottero della poli-
zia che volava basso in ricognizione entrava nella stanza di prepotenza, si allontana-
va, tornava.
Avvicinando il volto allo specchio, Marta si passò la lingua sui denti macchiati di
rossetto, estrasse da una scatola un fazzoletto di carta pulendosi prima le dita e strofi-
nando poi la mensola su cui spiccavano le impronte rosse dei polpastrelli. Con gesto
ispirato, levò infine il tappo di sughero a un boccettino e si sparse sulle tempie la pol-
vere d'oro che vi era contenuta.
— Non ti sembra di esagerare? — disapprovò Anna.
— Perché, non ti piaccio?
E sorrise nello specchio voltando la testa di qua e di là, ora a destra e ora a sinistra
in un balenio di scintille. Si esibiva con una compiacenza naturale e spontanea. Poi
saettò un'occhiata verso di lei, squadrandola rapidamente da capo a piedi.
— Sempre vestita così, tu, da signorina di buona famiglia.
Sbuffò con ostentata, amichevole disapprovazione e aggiunse una spolverata d'oro
sulla fronte, lungo l'attaccatura dei capelli.
Inopinatamente, Anna si trovò a darle ragione. Osservò con risentimento i suoi
pantaloni stirati, la camicetta d'ottima marca, il filo discreto di perle. In perfetto ac-
cordo con quella sua capacità di tenere tutto ben serrato dentro il petto senza mai
esternare un sentimento autentico o cedere a una vampata d'indignazione, di odio o di
amore. Non era l'etica professionale - come aveva creduto - a trattenerla, ma un soffo-
cante senso del decoro che non poteva estirpare e che le inibiva ogni scatto di passio-
ne.
Perché mai doveva sentirsi obbligata in ogni momento della sua vita a presentare
un'immagine impeccabile di sé, a rassicurare con l'aspetto, con le parole, con il com-
portamento? Che le davano gli altri in cambio? Un po' di considerazione, una patente
sempre provvisoria di rispettabilità. E per questo valeva la pena di ridursi così? Così
come? Si esaminò severamente, elencando: senza slanci vitali, chiusa nell'arida pri-
gione delle convenzioni. Ecco, esattamente così. Carceriera di se stessa. Rigida se-
condina delle proprie passioni.
Marta si accorse del suo cambiamento d'umore e posò il pennello sul lavabo umido
che si striò di giallo e marrone. Voleva consolarla e non trovava il modo. Alla fine
raccolse sulla punta dell'indice un pizzico di polvere dorata e sporgendosi verso di lei
le disegnò un neo luccicante in mezzo alla fronte.
— Ferma, non ti muovere. — Contemplò il suo lavoro. — Ancora un attimo, ecco
fatto — commentò soddisfatta, completando l'opera con un ultimo ritocco.
Anna protestò debolmente ma poi la lasciò fare, evitando tuttavia di guardarsi allo
specchio, imbarazzata sotto il tocco leggero delle dita di lei.
CAPITOLO 24
C'era silenzio, nel parco: si udiva soltanto, proprio sotto di loro, il precipitare di un
torrente nascosto dagli alberi e, in alto, il rombo di un aereo che si allontanava.
Sedettero su un muricciolo e Marta approfittò della sosta per allacciarsi meglio le
Superga blu che le aveva prestato Anna. Accettava le sue premure con la stessa natu-
ralezza con cui aveva accettato, in una situazione non poi troppo radicalmente diver-
sa, le attenzioni e le profferte di quell'uomo… uno sconosciuto, per sua stessa ammis-
sione. È ancora così giovane, la giustificò Anna. E tutto le sembra normale, anzi do-
vuto: l'interesse degli altri, l'aiuto, la protezione, il dono di sé, del proprio tempo e
delle proprie cose.
Di fronte a loro s'allungava, perdendosi fra gli alberi, un sentiero di terra battuta
guardato ai lati da due sfingi. Sulla pietra, con una grafia da alunno diligente, erano
vergate in rosso scritte enigmatiche.
TU CH'ENTRI QUA PON MENTE PARTE A PARTE ET DIMMI POI SE TANTE MERAVIGLIE SIEN FATTE PER
INGANNO OPPUR PER ARTE.
E certo un inganno, considerò Anna, dovette sembrare agli uomini del Rinascimen-
to quel luogo così lontano dai canoni estetici dell'epoca, voluto e inventato da un
principe per amore. "O sol per sfogare il core", come rivelava l'incisione su un obeli-
sco.
— Il principe delle occulte illusioni… — informò Michela. — Ho letto il romanzo
di uno scrittore argentino, non so quanto rispondente alla realtà storica. Lo descrive
come un uomo dai poteri magici, perverso, gobbo. E con tendenze omosessuali.
Marta rise. — E che altro?
— Racconta — continuò Michela — che dal castello che sta più su, oltre il paese,
partiva un corridoio sotterraneo che in segreto conduceva direttamente qua, fra i suoi
mostri, il principe gobbo.
La luce filtrava attraverso gli alberi, infiammata dal rosso acceso delle foglie. Oltre
il sentiero alle loro spalle, un drago dalle ali di farfalla si torceva sotto il morso di tre
belve: era il tempo che si scuoteva di dosso passato, presente e avvenire.
Ma il morso del passato, pensò Anna, era crudele e tenace. E il futuro le era nemi -
co. Eppure nonostante tutto anche lei ora si sentiva pervadere da una sottile euforia,
quasi un senso d'attesa, ma piacevole e rilassato.
Fu un caso se, a un certo punto, si ritrovarono sole. Ad Anna sembrò che fossero
sole, davvero, per la prima volta, lei e Marta: sole in un luogo a entrambe estraneo,
un territorio neutro dove tutto ancora poteva essere messo in gioco.
Si ritrovarono sotto una volta scavata nella roccia, umida. Umido perfino il silenzio
che, ingigantito dall'altezza della cupola, stillava su di loro umori segreti.
La ragazza rabbrividì e si accostò d'impulso ad Anna, alzando verso di lei quel vol-
to dall'espressione così assurdamente felice. La felicità immemore di un'innamorata.
Un'oscura apprensione l'invase e Anna fece per spostarsi: uno scarto impercettibile,
un tentativo appena accennato di sottrarsi. Ma l'altra le appoggiò la testa sulla spalla
in un gesto d'intimità. Poi il suo braccio scivolò attorno alla vita di Anna mentre il
seno premeva contro di lei in tutta la sua consistenza morbida ed elastica.
Anna non osò muoversi. Trasformata, così le parve, in una statua di pietra, una del-
le tante che popolavano il parco. Senza volerlo chiuse gli occhi. Ma, sotto le palpebre
chiuse, continuava a vedere distintamente la linea del collo, la pelle compatta, la pe-
luria bionda all'attaccatura della nuca, la curva dell'orecchio col lobo piccolo e forato,
senza orecchino. E di colpo avvertì che tutto il suo corpo aderiva al corpo della ragaz-
za. La tela leggera delle camicette non impediva, anzi aumentava la consapevolezza
di quel contatto, aiutava a esplorare nel lento muoversi del corpo la forma del seno
contro il seno, del fianco contro il fianco. La ragazza sollevò la testa e d'istinto Anna
si abbassò per ricevere sul viso il palpito delle ciglia, la carezza liscia della guancia.
Respirò l'odore caldo dei capelli, mentre il pulsare delle tempie le scendeva in un gor-
go tumultuoso fino al ventre.
A due passi di distanza esplosero voci e risate e lo spazio si restrinse, insopporta-
bilmente. Passò un gruppo di turisti, tre donne e due bambini seguiti da alcuni uomi-
ni. Marta si allontanò da lei ma senza fretta, con naturalezza, e si portò indietro i ca-
pelli che le ricadevano sulle guance.
Sulla via del ritorno si fermarono a una bancarella che vendeva frutta, verdura, pa-
tate. Comprarono un'anguria enorme dal cuore scarlatto, dolcissimo. L'uomo ne ave-
va tagliato uno spicchio, una finestrella, e l'aveva dato da assaggiare alla diffidente
Michela.
Sedute sul bordo della strada, prima di separarsi, si dissetarono con la fragile polpa
dell'anguria.
CAPITOLO 25
Il buio era sceso di colpo da un cielo gonfio di pioggia trattenuta. Anna e Marta
avevano appena attraversato la strada, dirette verso l'insegna luminosa di una trattoria
a Trastevere, quando scoppiò il temporale. Percorsero correndo l'ultimo tratto di mar-
ciapiede che le separava dall'entrata, mentre la pioggia si rovesciava addosso al mon-
do con violenza.
Un cameriere teneva la porta spalancata per i clienti che dai tavoli all'aperto si ri-
versavano nei locali coperti. Anna arrivò sotto la tettoia un secondo prima di Marta,
ma poi la ressa le spinse l'una contro l'altra e lei se la sentì addosso prima ancora di
vederla. Le sue dita si strinsero attorno al braccio nudo e scivoloso di pioggia.
In bagno, Anna tentò di asciugarsi. Era uno stanzino piccolo ma pulito, lontano dal
chiasso del locale che giungeva fin lì attutito, ridotto a un indistinto brusio. Il lavabo
era sormontato da uno specchio senza cornice, attaccato a un chiodo che sporgeva per
un buon tratto. Vi si rifletté il pallore del suo viso lavato dalla pioggia. Aveva assunto
una consistenza e un'immediatezza nuove e tuttavia sfuggenti, una maschera su cui
lei passò le mani fredde, tastando e premendo in una cauta ricognizione. Qualcuno
scosse la maniglia del bagno tentando di entrare. E allora si affrettò ad asciugarsi con
cura usando la carta igienica, ma poi ancora indugiò a pettinarsi, a scuotere i capelli
bagnati, a passarvi dentro il pettine a denti larghi, di plastica rossa.
Tornò in sala. Marta aveva già occupato un tavolo e mangiucchiava una fetta di
pane prelevata dal cestino che le avevano piazzato davanti. La tovaglia era di carta e
la luce bianca, fortissima. Ad Anna piombò di nuovo addosso la malinconia. Colpa
del luogo probabilmente, dello squallore anonimo dei tavoli, della tristezza trasandata
di tutto il locale.
Si sentiva depressa come quando, dopo avere accettato l'invito a cena di un uomo,
si rendeva conto che le cose prendevano una piega scontata e vedeva con chiarezza,
davanti a sé, l'inevitabile conclusione della serata. E a quel punto non le veniva altra
voglia che di scappare. Adesso provava un impulso simile, ma non perché prevedesse
una qualche conclusione di quella serata, bensì esattamente per il motivo opposto. Per
l'impossibilità di una conclusione qualsiasi.
Il flusso dei clienti era cessato e sul pavimento irregolare si andavano formando
piccole pozze d'acqua sporca. Entrò una ragazza con una chitarra e si mise a cantare
girando fra i tavoli. Bruna, alta, ben fatta, indossava dei pantaloni larghi di tela india-
na, arricciati e legati in cintura con una cordella della stessa tela. Al loro tavolo si
trattenne più a lungo: perché erano due donne, perché la guardavano con simpatia,
perché seguivano con interesse la sua musica.
Il piede su una sedia, la chitarra sul ginocchio piegato, suonò e cantò stornellate ro-
mane e un'allegra canzone spagnola o forse sudamericana, di cui compresero solo l'e-
suberanza del ritmo. Era evidente che cantare le piaceva, non si trattava soltanto di un
modo come un altro di raccattare soldi. Un cameriere passando le disse qualcosa in
tono brusco e lei tirò giù il piede dalla sedia. Infine, col palmo della mano fermò le
corde della chitarra e attese. Marta le offrì un biglietto da diecimila. La ragazza le in-
viò un bacio con la punta delle dita e se ne corse in strada, di nuovo libera.
— Che esagerazione.
Anna, che stava contando alcune monete, era rimasta col borsellino aperto in
mano, sorpresa. Un attimo dopo fece scattare la chiusura fra il pollice e l'indice.
— Non ti sembra di essere stata un po' troppo generosa? — Le venne un dubbio.
— La conoscevi?
Marta negò.
— Ti devo confessare… L'ho fatto anch'io. I primi tempi che stavo a Roma, quan-
do avevo bisogno di soldi perché mio padre ancora non mi passava un mensile. — Di
fronte allo sguardo sconcertato dell'altra, precisò: — Proprio così. Cantavo nelle trat-
torie.
Una stilettata di ghiaccio scese lungo la schiena di Anna, fulminata da un senso di
estraneità assoluta. Quella ragazza aveva il potere di scatenare in lei emozioni contra-
stanti, tutte allo stesso tempo. Ma fu un attimo.
— Naturalmente i tuoi non ne sapevano niente.
— Naturalmente. — Marta storse la bocca. — Piccoli commercianti con una visio-
ne molto precisa e molto angusta delle convenienze. — Una pausa. Un'esitazione. E
poi: — Non credere che io non voglia bene ai miei. Nonostante tutte queste dichiara-
zioni di guerra, io li amo. Però mi spaventano, soprattutto mia madre. A mano a mano
che cresco e invecchio… — S'accorse del sorriso che spuntava sulle labbra di Anna e
lo bloccò con un gesto. — Sì, a mano a mano che invecchio, quando mi guardo allo
specchio vedo, sempre più chiaro, il volto di mia madre. La stessa espressione. Forse,
chissà, gli stessi sentimenti. E allora divento una vipera. In quei momenti farei di tut-
to per umiliarla.
— Anche andare a vivere con uno sconosciuto? Marta soffocò un accenno di riso.
— Sei proprio fissata, tu.
— Ma dopo qualche tempo avresti dovuto dirlo ai tuoi, non credi? E in ogni caso,
prima o poi, l'avrebbero scoperto.
— Non necessariamente. Ho imparato un'infinità di trucchi. Sfuggire al loro con-
trollo per me è facile, adesso. Facilissimo, davvero. Non per niente ne ho fatto l'obiet-
tivo, lo scopo della mia vita.
Rise apertamente questa volta, giocherellando col pane, sbriciolandolo sul tavolo.
Anna la scrutava. Catturata dal suo sguardo sornione e malizioso, dalle sue dita ner-
vose e - intuì d'un tratto - proprio da quel suo modo di essere e di vivere, dalle sue ge-
nerosità e dalle sue reticenze, dalla sua fondamentale ambiguità. O forse le stava dan-
do troppo credito, magari non era altro che una ragazza sbandata, imprevedibile ma
ricca solo delle contraddizioni della giovinezza. Un passaggio d'età, niente di più. Fra
due, tre anni sarebbe diventata un'altra donna, un'altra persona, come Marta stessa te-
meva o segretamente desiderava.
Fra due, tre anni…
E la investì il pensiero che ben presto - lunedì, rammentò - la loro convivenza sa-
rebbe finita se lei partiva per Tropea e se Marta restava a Roma.
Il cuore le guizzò in petto: una sola sferzata, un secco colpo di coda.
Era quello il momento. Inutile, anzi impossibile attendere oltre. Se non la voleva
perdere, se desiderava davvero che restasse con lei, allora doveva decidersi. E porre,
finalmente, la domanda decisiva, quella che le avrebbe rivelato le intenzioni dell'altra.
Marta continuava a parlare ma Anna non la seguiva più, intenta a cercare l'attacco
giusto, le parole più adatte, gli argomenti più convincenti. Prese fiato prima di annun-
ciare: — Lunedì parto.
La fissò e le parve di catturare negli occhi dell'altra uno smarrimento. Allora prose-
guì: — Perché non vieni via anche tu? Possiamo partire insieme, se ti va. Spiaggia,
mare e pesce fresco, nient'altro. O se vuoi portarti i libri…
— I libri. Figurati se ho voglia di studiare con tutto quello che mi è capitato fra
capo e collo. — Tacque, pensierosa. Poi confessò, mentre la fronte le si corrugava
nello sforzo di contrastare l'assalto dell'ansia: — Il fatto è che ho paura ad allontanar-
mi. — Di nuovo, esitò. — È sciocco — disse infine — me ne rendo conto. Ma ho
paura.
— È naturale che tu abbia paura — replicò Anna. — Ma cosa cambia se resti qui?
Se restiamo — si affrettò a correggersi.
— Perché parli al plurale? Tu puoi partire tranquillamente.
Lo disse in tono leggermente interrogativo, come se sperasse di essere contraddet-
ta, rassicurata. Ma forse era soltanto il riflesso del suo desiderio. Un'illusione, si av-
vertì Anna. Una delle sue solite fantastiche interpretazioni di una realtà sfuggente che
sempre le presentava facce molteplici e cangianti. Tuttavia scosse il capo.
— Sola?
Ed ebbe ben chiaro, in quell'istante, che non la sgomentava una solitudine a cui era
abituata bensì la prospettiva di un'assenza: l'assenza di Marta. Ogni particolare di lei,
del suo corpo - dalle ondulazioni chiare dei capelli alle pieghe espressive del volto -
le era diventato straordinariamente familiare, e necessario.
— Potremmo prendere l'espresso che parte dalla stazione tiburtina. Con la mia
macchina non è il caso. — Sorrise. — Te l'immagini? La Cinquecento che arranca
sotto il sole… Nel migliore dei casi rischiamo di restare in mezzo all'autostrada.
L'altra taceva, continuando a sbriciolare con ostinazione una fetta di pane. Poi len-
tamente disse: — Bisogna… bisogna che ci pensi un po' sopra.
Ma la sua esitazione suonò come una promessa, più significativa di una promessa.
Il cameriere portò il conto e Marta volle pagare.
— Questo — e indicò con un gesto largo il locale modesto, i tavoli dai ripiani di
plastica coperti non da tovaglie ma da fogli di carta bianca — me lo posso permette-
re, almeno questo. Quando diventerò ricca… Ma per ora devi accontentarti.
Un'offerta che rendeva lungo e certo il futuro, la conferma di un patto mai esplici-
tato. Anna si sentì trasportare da un vortice di esaltazione. E tuttavia nei recessi più
profondi della sua anima, intrecciata alla sua stessa esaltazione, seguitava a snodarsi
una sottile, resistente e implacabile spirale di panico.
CAPITOLO 26
Le luci erano accese in tutta la casa, perfino in cucina e nel bagno. Anna si accinse
a spegnerle. Non ricordava quando o chi di loro due le avesse accese. Probabilmente
Marta mentre rifaceva la valigia e andava e veniva dal soggiorno al bagno e dal ba-
gno all'armadio in camera da letto per riprendersi i vestiti, i rossetti, i pennelli, le sca-
tolette del trucco. Anna si fermò, la mano sull'interruttore. Non si risolveva più ad ab-
bassarlo, come se quel gesto racchiudesse in sé qualcosa di definitivo e contribuisse a
cancellare anche l'ultimo segno di una presenza. Un pensiero malato, nevrotico. Di
slancio abbassò l'interruttore e metodicamente, di stanza in stanza, spense tutte le luci
tranne l'abatjour sul comodino.
Che altro le restava da fare? Nient'altro che stendersi sul letto ad aspettare il gior-
no.
La stanza adesso era avvolta dalla penombra. Il riverbero esitante dell'abatjour e il
chiarore che veniva dalle finestre del soggiorno mescolandosi creavano archi e volte
d'infrangibili, nere trasparenze. Dal punto dove lei giaceva, la chiesa era invisibile ma
a sprazzi alterni i riflettori attraversavano la casa, dardeggiavano l'oscurità e arrivava-
no fino a lei rivelandole il riquadro della porta e, oltre, l'angolo di una mensola, il
profilo di un vaso sulla superficie chiara, opalina del tavolo, la sagoma della poltrona.
Lei resse per qualche tempo, riparandosi il volto con le mani in modo da sfuggire al
torbido gioco delle trasmutazioni.
Ma il buio le si addensava attorno, sottraendole aria. Si divincolò liberandosi dalla
stretta disordinata del lenzuolo che le intralciava i movimenti e spalancò gli occhi.
Un'anta dell'armadio era rimasta aperta e sullo specchio interno si muoveva una
lenta trama di ombre. Anna seguì con gli occhi socchiusi il flusso e riflusso minaccio-
so, onde pesanti di mota, una palude, un Mar dei Sargassi. Sprofondare là dentro si-
gnificava non riemergere mai più. La sua resistenza si spezzò. In un batter d'occhio fu
in piedi, si avvicinò all'armadio e sbatté lo sportello. In fretta, come se l'ombra flut-
tuante dello specchio potesse risucchiarla.
Aveva sete, come sempre quando cresceva in lei quell'apprensione, quel dolore
sordo e informe.
In bagno, bevve dal rubinetto piegandosi sul lavandino. Poi si rialzò e si asciugò la
bocca col lembo di un asciugamano. A tentoni trovò l'interruttore e pigiò, sbattendo
le palpebre al lampo abbagliante che le ferì le pupille. Riaccese le luci in tutta la casa.
Fredde, malinconiche, ma almeno le restituivano l'esatta dimensione del luogo, degli
oggetti, delle sue stesse illusioni.
Non c'era più niente di Marta, da nessuna parte. Anna si sorprese a cercare una
traccia, qualcosa che le appartenesse. Ma la ragazza non si era lasciata dietro nemme-
no la più piccola impronta. Aveva rifatto la valigia con le poche cose che s'era portata
appresso e se n'era andata. Scomparsa. Come un'ombra sulla superficie dello spec-
chio. Un inganno. L'ennesimo abbaglio di una mente malata.
Anna frugò in camera da letto, sulle scansie, in bagno, ovunque. Non s'era dimenti-
cata nemmeno una forcina. Non un segno, non un indizio del suo passaggio in quella
casa. Tranne un capello sul cuscino del divano-letto, troppo lungo e liscio, troppo
chiaro per appartenere a lei, Anna. Ma il divano-letto era intatto, col lenzuolo ben
teso. Bastava rimetterlo a posto e se qualcuno fosse capitato lì per caso e si fosse
messo a curiosare non avrebbe mai intuito che in quella casa era vissuta, anche se per
poco, un'altra persona. Nemmeno Anna ci credeva, quasi. Forse davvero Marta era
un'allucinazione, una folle proiezione della sua mente.
Perché non le era corsa dietro? Perché non le aveva impedito di andarsene, di spa-
rire così? Non aveva nemmeno tentato di spiegare, di giustificarsi, sopraffatta e vinta
da un'impressione di fatalità, di grande e inutile disperazione.
Bevve ancora e sedette per terra nell'ingresso, appoggiando la schiena al muro, gli
occhi fissi sulla porta. Non riusciva a staccare gli occhi da quella porta chiusa, quasi
sperasse di vederla aprirsi da un momento all'altro per far passare Marta.
Cosa le aveva detto la ragazza prima di andarsene? Lo rammentò senza sapere
come, poiché le pareva di non aver udito niente di quello che l'altra andava dicendo,
resa cieca e sorda dal suo stesso terrore. Di averle mentito: in realtà solo di questo
Marta l'aveva rimproverata. Non si era data pensiero del fatto che lei potesse davvero
essere un'assassina. Perché non l'aveva mai creduto, perché non lo credeva più o per-
ché non gliene importava niente di quello che era effettivamente successo fra lei e
quell'uomo?
Aveva sbagliato tutto fin dall'inizio, e in particolare con Marta. Avrebbe dovuto
raccontarle l'intera storia. Per quale strana aberrazione aveva taciuto? Per coprire qua-
le colpa, in definitiva? Per nascondere quale vergogna? Si lasciò scivolare a terra con
tutto il corpo. Poggiò la testa sul pavimento.
Il rombo di un'auto che passava a gran velocità la scosse. Si tirò su trasognata
come un automa. Quanto tempo era passato? Le sembrò di aver trascorso tutta la not-
te stesa sulle nude mattonelle. Un crampo le attanagliò il polpaccio. Si massaggiò la
gamba alzandosi a fatica. Andò a controllare l'orologio sul comodino: le due del mat-
tino. Soltanto le due. L'anta dell'armadio si era aperta di nuovo e di nuovo lei la ri-
chiuse. Avvertì un'impellente necessità di camminare, di uscire, di scappare dalla
pazzia che pervadeva tutta la casa, s'insinuava malefica in ogni interstizio.
Era ancora buio ma l'orizzonte si andava schiarendo sul Lungotevere. Una macchi-
na della polizia passò lentamente, silenziosa, la luce blu lampeggiante. L'uomo al po-
sto di guida puntò gli occhi su Anna, rallentò, si girò a guardarla. Ma poi la macchina
scivolò via senza fermarsi.
Tutto era cominciato quando quell'uomo le era caduto addosso e lei non era riusci-
ta a liberarsi dal suo corpo, dalle sue braccia che l'agonia rendeva cedevoli e pesanti
al tempo stesso. Era orribile sentire in quell'abbraccio il proprio cuore battere solita-
rio. E la sua professione certo aggravava il senso di colpa. Alleviare le sofferenze al-
trui. Non era anche questo il suo compito, il suo dovere?
Ma una nuova inquietudine affiorò, minacciosa e terribile. La rivoltella. Dov'era la
rivoltella quando lui era caduto? La teneva ancora stretta in pugno. La memoria le
disse che non era andata così. Con una fatica immensa che la spaccava in due rico-
struì la scena. Brandelli di reminiscenze. Il braccio di lui teso attraverso il lenzuolo le
schiacciava il seno nudo, la mano aperta sfiorava il bordo del letto e la rivoltella…
Dov'era la rivoltella? Certamente il colpo l'aveva scaraventata a terra. Poi rammentò
di averla vista sul tappeto. L'aveva anche raccolta? Di sicuro l'aveva toccata, la ricor-
dava liscia e fredda al tatto. Ma c'era qualcosa di falso, di sbagliato nel suo ricordo. Si
vide seduta sul letto, quell'uomo in piedi davanti a lei mentre le porgeva il minuscolo
e sinistro aggeggio, le indicava qualcosa e spiegava con la cocciuta perseveranza de-
gli alcolisti in preda al loro delirio. Anna diceva di no e ancora di no. Quasi con ripu-
gnanza respingeva la rivoltella che lui si ostinava a ficcarle in mano per gioco. Solo
per uno stupido, morboso gioco. Alfine cedendo alle sue insistenze l'aveva presa, ap-
pena sfiorata. E il colpo era partito. Di schianto.
Lei l'aveva ucciso. Sì, questo spiegava tutto. Il tentativo di nascondere agli altri e,
prima ancora, a se stessa… La riluttanza a denunciare l'accaduto, a parlare. Il vero
motivo per cui stava impazzendo d'angoscia e per cui aveva tentato di trasformare il
tacito patto di connivenza con Marta in uno stretto nodo d'intimità. Piegando le sue
emozioni alle ambigue incertezze della mente, agli incontrollati impulsi dell'animo
che avevano contagiato e invaso il suo corpo.
Ma la verità possedeva sfumature ancora più vaghe ed evanescenti. E in fondo,
dentro di sé, in qualche remoto punto della sua coscienza, Anna lo sapeva. Si trattava
di un'ennesima illusione. Dell'ultimo tranello teso a se stessa.
Ed era di questo, invece, che aveva avuto paura fin dall'inizio: che di sospetto in
sospetto, di incubo in incubo, passo dopo passo lei potesse cadere in una simile allu-
cinatoria certezza. Questo era il terrore profondo annidato dentro il suo cuore come
un pipistrello cieco, per sempre prigioniero dentro il suo petto.
Difficile, si disse, dimostrare la propria innocenza a se stessi. Aprì e chiuse la
mano destra, adagio, serrando e allentando alternativamente le dita. Sentiva ancora
nel palmo il peso lieve, la levigatezza del metallo. Poteva essere vero. C'era una pos-
sibilità che lo fosse. Ma poteva essere vero anche il contrario. Lei non era più in gra-
do di dirlo. Era allucinazione quella certezza profonda di innocenza, e realtà quel tor-
mento che si poteva spiegare solo con la colpa? Oppure era reale la sua innocenza,
mentre la colpa che la torturava era ancora altro, un fantasma senza nome?
"Come fa una giuria ad assolvere o condannare?" gridò Anna dentro di sé. —
Come? — gridò fuori dal finestrino alla strada buia e inanimata.
Il grido la placò. Ma i pensieri battevano ciechi dentro di lei. Si mise a rimuginare:
com'è possibile decidere, stabilire senza possibilità d'equivoco, senza incertezze e una
volta per tutte che le cose sono andate in un modo e in nessun altro, se nemmeno chi
le vive può esserne sicuro? Il tempo - anche il breve volgere di un'ora, di un minuto -
accumula prove contraddittorie, si beffa dell'oggettività dei fatti manipolando la per-
cezione stessa della realtà, schiaccia le emozioni l'una sull'altra come le fette di pro-
sciutto nelle buste sottovuoto del supermercato.
Il sonno era un corpo estraneo che premeva sulla mente. Il suono prolungato del
clacson la riscosse. Si era di nuovo addormentata senza accorgersene e la testa le era
scivolata sul volante.
CAPITOLO 28
Durante la notte si era alzato un vento che aveva coperto di un velo di sabbia gial-
lastra le automobili parcheggiate lungo i bordi della strada. Tutto a un tratto era già
mattina. Anna, rattrappita sul sedile, provò ad allungare le braccia e poi le gambe. Si
drizzò cautamente sulla schiena, saggiando le ossa acciaccate dall'insolita, scomoda
posizione.
Al primo movimento un dolore lancinante le attraversò la testa, un guscio vuoto
con un tizzone infuocato dentro. A questo s'erano ridotti gli incubi della notte, a un
minuscolo punto incandescente: miniaturizzati, condensati, convertiti in puro e sem-
plice dolore fisico. Un nodo di dolore che si riallacciava a un unico pensiero fisso:
Marta se ne era andata. Ma la cercherò, si ripromise, dovessi spendere in questa ricer-
ca tutto il mio tempo e tutte le mie risorse. La incontrerò di nuovo e allora ogni equi-
voco sarà chiarito, ogni dubbio risolto. Di questo fu assolutamente e tranquillamente
sicura quel sabato mattina, mentre l'alba le rivelava un Lungotevere deserto.
Uscì dall'abitacolo della macchina, respirò a pieni polmoni una, due, tre volte e
mosse qualche passo sul marciapiede. Un gatto, disturbato dal suo andirivieni, sbucò
dal fondo della Cinquecento e sparì sotto un'altra auto.
Anna si appoggiò alla spalletta del Tevere. L'acqua di un bel verde ingannevole
scorreva senza rumore. Un ragazzo camminava laggiù in basso, lungo l'argine in ce-
mento, la testa incassata fra le spalle, le mani nelle tasche dei pantaloni. All'improvvi-
so tirò fuori le mani, si diede ad agitare le braccia nell'aria, a fare flessioni, a saltellare
sulla punta dei piedi. Si scrollava di dosso l'inerzia della notte.
Allo stesso modo Anna avrebbe voluto scrollarsi di dosso inquietudini e sofferen-
ze. Ma non poteva fintantoché non avesse rintracciato Marta: almeno a lei, una spie-
gazione la doveva. Era certa che, dopo, avrebbe potuto affrontare con una qualche
possibilità di vittoria il labirinto di angosce racchiuso nella sua testa. Ma per uscirne
le ci voleva un filo di Arianna, e Marta era l'unica persona al mondo in grado di por-
gerle il bandolo della matassa.
Girò la chiavetta dell'accensione e mise in moto. Giunta all'angolo della strada esi-
tò: se voltava a sinistra in pochi minuti poteva raggiungere casa sua, proseguendo
dritto invece sarebbe arrivata a casa della nonna. Proseguì dritto.
CAPITOLO 29
Trovò la nonna già alzata e sistemata nella sua poltrona: da lì non si sarebbe prati-
camente mossa per tutto il giorno, a parte l'intervallo dei pranzi che consumava al ta-
volo di cucina insieme a Marisa. Sulle ginocchia il plaid che indifferentemente usava
in ogni stagione, estate e inverno, la solita pila di romanzi rosa a portata di mano sul
tavolino, un mazzo di carte per il solitario e la TV accesa ma con l'audio chiuso.
Mentre le immagini scorrevano mute sullo schermo, la vecchia rovesciò a faccia in
giù sulla coperta il romanzo che stava leggendo e fissò con disappunto la nipote. Un
solo sguardo di riprovazione. Sufficiente per far provare più acuto ad Anna il disagio
che già l'attanagliava. Trovarsi al centro di attenzioni affettuose ma leggere e superfi-
ciali, così inesorabilmente lontane dal suo attuale stato d'animo, era un peso in più
che non aveva calcolato.
Eppure avrebbe dovuto immaginarlo: niente disturbava la vecchia signora quanto
un abbigliamento scombinato e sciatto. La formalità lei la riservava per cose di que-
sto genere, era il lato convenzionale del suo carattere che manteneva inalterato e in-
tatto al fondo d'ogni stravaganza. E Anna quella notte, prima di uscire, aveva afferra-
to a caso i primi indumenti che s'era trovata sotto mano, un paio di jeans sdruciti, una
camicia informe.
In tono neutro annunciò: — Vado in cucina a fare un caffè.
— Buona idea — approvò la nonna sbadigliando dietro il dorso del libro. — Porta-
mene un goccio. La seduta di ieri mi ha stremato.
Anna s'immobilizzò. — La seduta… — Tutta la stanchezza e la tensione della not-
te le rovinarono addosso. — Ho capito bene? — Rabbrividì supplicando: — Nonna!
Ci risiamo daccapo?
Non la tranquillizzavano affatto le sedute spiritiche che la vecchia signora organiz-
zava una volta al mese con i personaggi più insospettabili: il garzone del droghiere, la
baby-sitter degli inquilini del secondo piano… Anna non prendeva sul serio le attività
medianiche che si svolgevano nella grande e pacifica casa dei Parioli. Naturalmente,
si diceva, come avrebbe potuto prenderle sul serio? Tuttavia non riusciva neppure a
considerarle un innocuo passatempo, alla stessa stregua delle carte e dei romanzi
rosa.
Al richiamo della nonna si materializzavano a turno parenti lontani e vicini, una
lunga teoria di anime perse da tempo. Tutti tornavano, tranne la figlia: l'unica figura
intangibile, proibita. I chiamati erano, ad ogni modo, sempre e soltanto spiriti di fami-
glia: la vecchia signora non amava intrusioni di estranei. Seguitava in questa maniera
ad avere scambi di opinione, spesso piuttosto vivaci, con due o tre cugine che durante
la guerra, sfollate, aveva accolto nella sua casa e con le quali aveva mantenuto legami
molto stretti anche in seguito.
— La cugina Antonietta ieri sera… — cominciò a raccontare.
— Per carità, non oggi — scongiurò Anna avviandosi verso la cucina e soffocando
a stento il panico che sempre la coglieva di fronte a quella imperturbabile, placida
follia.
Quando tornò con il vassoio, la nonna s'era già distratta: nella stanza era entrato col
suo passo pigro Eusebio e lei tentava invano di adescarlo con le consuete lusinghe
perché le saltasse in grembo.
L'armadio a muro occupava tutta una parete del corridoio. Anna aprì il cassetto in
basso a destra. Conservava là dentro qualche capo di biancheria pulito perché ogni
tanto - in caso di malattia della nonna o durante le feste, a Natale e a Pasqua - le capi-
tava di restare anche la notte. Un cassetto che lei stessa teneva in scrupoloso ordine:
era restia ad abbandonarla del tutto, quella casa, e non desiderava che le fosse estra-
nea, senza più niente di suo, nessun oggetto, nessun indumento che le appartenesse.
Rappresentava pur sempre, per lei, l'unico luogo a cui tornare, l'unico posto al mondo
dove c'era qualcuno ad aspettarla. Per quanto tempo ancora… Ma si affrettò ad ac-
cantonare quel pensiero quanto mai inopportuno.
In bagno, si levò la camicetta tutta impregnata di sudore e la gettò a terra in un an -
golo. Ci avrebbe pensato Marisa a lavarla. Una sua iniziativa in tal senso sarebbe sta-
ta accolta con malcelata indignazione. Un affronto all'efficienza della vecchia gover-
nante.
Come al solito la sua camera, ben riassettata, era pronta a ospitare il suo ritorno.
Attaccò il telefono alla presa accanto al letto, per ogni evenienza. L'atmosfera della
casa dell'infanzia già tornava ad avvolgerla nella sua soffice ovatta, la teneva al riparo
da qualsiasi pericolo. Non venivano pericoli né minacce dai litigiosi spiriti della non-
na. E la morte presente in quella casa era una morte buona, familiare come l'inevitabi-
le dolore che attraversa ogni vita.
Dalle lenzuola, fresche di bucato e accuratamente stirate, si sprigionava un forte
odore di lavanda: il profumo del letto e quella sensazione di pulizia erano riposanti,
trasmettevano un'idea di calma, di quiete. Per questa sensazione, per questa quiete lei
era tornata.
Non rientrava nelle sue abitudini dormire durante il giorno, eppure dormì a lungo,
fino a pomeriggio inoltrato. Quando si svegliò il cuore le scandiva in gola colpi irre-
golari e un tarlo le lavorava nella testa: ritrovare Marta era più che una necessità, per
lei. Era la condizione stessa di ogni possibile equilibrio.
CAPITOLO 30
Fuori il sole era ancora alto e il marciapiede frastagliato dal lontano ombreggiare di
alberi nascosti da un muro di cinta.
Anna si era aspettata il peggio. E invece l'appartamento trasformato in pensioncina
"familiare", arredato con mobili dozzinali ma dignitosamente lucidi, aveva nella sua
modestia un'aria pulita. E la moquette marrone, di pessima qualità, almeno era di un
colore uniforme e senza macchie che rivelava un frequente lavaggio.
Ma perché poi, si domandò Anna, s'era immaginata un luogo disperato, miserabile?
I genitori di Marta, in fondo, erano commercianti con una certa disponibilità econo-
mica, con l'ambizione di far studiare la figlia. La scelta stessa della zona - residenzia-
le, lontana dai traffici delle periferie - non poteva essere casuale: una sistemazione
decorosa che rappresentava, in qualche modo, una garanzia per la famiglia. Era lei,
Anna, che amava figurarsi una Marta più sradicata e avventurosa di quanto fosse in
realtà.
Il padrone spuntò fuori da una porta a vetri, insaccato in un doppiopetto pretenzio-
so. Non le piacque. Il suo sguardo curioso, quel modo di fare che sottintendeva: io
non ti chiedo niente, ma tu sai bene quello che stai facendo, sai bene di essere in di-
fetto per qualcosa che io non so e non voglio sapere, ma davvero a posto non puoi es-
serlo, ragazza mia, se vieni qui a fare queste domande. Già, magari dentro di sé la
chiamava proprio così, ragazza mia.
Le seccò dover dare spiegazioni, le parve un indebito atto di contrizione. Ma il suo
orgoglio era fuori luogo ed era bene che lo tenesse a mente.
L'uomo le rispose con una cortesia affettata e cerimoniosa. Sì, la signorina aveva
abitato presso di loro, ma già da qualche giorno se ne era andata e non sapeva proprio
dove rintracciarla, non aveva lasciato un recapito. Forse un numero di telefono, sì, ma
l'aveva perso. E piegò gli angoli della lunga bocca per significare il suo rincrescimen-
to. Era una cosa urgente?, indagò poi. Senz'altro, assentì, avrebbe riferito il suo mes-
saggio - telefonare ad Anna, scribacchiò su un foglietto - nel caso l'avesse vista o sen-
tita. Certo, poteva passare di nuovo o telefonare, se preferiva.
Una ragazza con un fagotto in braccio attraversò l'anticamera. Poteva essere indif-
ferentemente una pensionante o una cameriera.
Ad Anna risultò impossibile figurarsi Marta in quell'ambiente, fra quei mobili, con
quegli individui. Ma proprio questa remota curiosità l'aveva spinta fino alla pensione.
Per questo si era mossa, non per altro.
Si ritrovò in strada. Neanche per un attimo ammise con se stessa la sconfitta ma si
guardò attorno alla ricerca di un bar. Provava un irresistibile desiderio di buttar giù
qualcosa di forte, qualcosa che bruciasse, che lasciasse un segno dentro di lei. Un se-
gno più aspro di quello lasciato da Marta.
La saletta interna della vineria era angusta, conteneva a malapena tre tavoli separa-
ti dal banco della mescita da un tramezzo di legno con una porta ad arco su cui si ac-
cendeva un grappolo d'uva al neon, acini rossi e traliccio blu. Uno dei tavoli era occu-
pato da quattro uomini che giocavano a carte. Un rettangolo di stoffa verde stinta e
macchiata, appoggiata un po' di traverso, suggeriva l'idea del tavolo da gioco. Il bari-
sta non la degnò di uno sguardo, intento a seguire la partita e a sbirciare le carte da
sopra le spalle dei giocatori.
Mi sono fidata, così le aveva detto Marta prima di andarsene. Ma che ragione ave-
va avuto di fidarsi? Perché aveva deciso di concederle una fiducia tanto immotivata
quanto imbarazzante? In base a quale logica o a quale sentimento? E lo scopo di tutto
ciò? Che cosa si era aspettata, che cosa voleva Marta da lei? Solo questa domanda,
solo questa risposta - nient'altro al mondo - le interessava.
I giocatori commentavano a voce alta ogni mossa, ogni passaggio di carte. Sulle
loro teste, il grappolo d'uva s'accendeva ora di luce rossa ora di luce blu. Fino al sof -
fitto, le pareti erano completamente coperte da scaffali con bottiglie opache per la
polvere spessa.
Anna scostò una sedia e prese posto, facendo scivolare di lato due bicchieri sporchi
e una bottiglia vuota di birra che nessuno si era curato di portare via. Finalmente il
barista, di malavoglia, si avvicinò.
Il vino rosso scendeva in gola denso e Anna ne assaporava distrattamente il gusto
pastoso. L'angoscia ricominciava a lavorare, svuotandola d'ogni energia.
— Posso offrirle un caffè?
L'uomo aveva una faccia simpatica, che ora forzava in una spigliatezza eccessiva e
inutile: non sembrava davvero portato ad abbordare le donne nei bar. Chiaramente
non era affar suo.
— Sto già bevendo, non vede?
Anna non riusciva però a sentirsi irritata. Quell'approccio diretto, quel banale
scambio di battute anzi le regalava un momentaneo sollievo: era una donna normale,
in fondo, normalmente abbordata da un uomo normale.
Ma l'altro si dette subito per vinto e si allontanò, tornando ad appoggiarsi al banco
del bar. Anna provò una lieve fitta di delusione: era di nuovo sola. Di nuovo senza ri-
paro. Braccata da elusivi, ossessionanti fantasmi.
Mi sono fidata, così le aveva detto Marta con astio. Con rancore. Con un guizzo
improvviso di paura. Ma anche Anna aveva paura. Un sentimento di cui non avrebbe-
ro mai più potuto liberarsi. Se così era, però, Marta sarebbe tornata. Doveva tornare,
costretta proprio dal richiamo inesorabile della paura, dal suo veleno dolce, lento ma
sicuro.
Sì, ne era certa: si sarebbero incontrate, ancora una volta.
La sua falsa sicurezza cominciava tuttavia a incrinarsi e a mostrare le prime crepe.
Cercava Marta per offrirle - innanzi tutto - una spiegazione. Ma non aveva spiegazio-
ni da offrire, anzi lei stessa aveva bisogno di rassicurazioni e conferme. Sarebbe mai
riuscita a capire come si erano realmente svolti i fatti, cos'era davvero successo quella
notte? Ma com'era possibile accertarsi della verità di qualcosa che soltanto lei poteva
smentire o confermare? Lei, Anna: unica, reticente testimone.
CAPITOLO 31
In onore delle due nipoti, ospiti d'eccezione, Marisa aveva apparecchiato in salotto.
Nella stanza le luci erano basse, tanto che sulla tovaglia i bicchieri, le bottiglie, gli
stessi piatti mandavano pallidi riflessi. Nonostante l'età, la nonna mangiava con appe-
tito usando le sue posate particolari, le stesse con cui mangiava da almeno mezzo se-
colo, consunte dal lungo uso, la lama del coltello marcatamente ondulata e la forchet-
ta con un dente storto e più corto degli altri. Questo era il suo segreto, pensò Anna.
La vita per lei era accettabile perché si era fermata, si era ridotta a un coltello e una
forchetta consunti.
Giulia teneva il capo lievemente ripiegato da una parte, come se le pesasse. Anna
si rimproverò la sua avversione ingiustificata, che si curava di celare, con scarsa effi-
cacia, sotto modi garbati e distanti. Se almeno non fosse sempre così cupa, si disse.
— Pane? — chiese passandole il cestino e imponendosi per penitenza quella picco-
la cortesia.
Ma poi manovrò, spostandosi con la sedia, in modo da non avere più di fronte gli
occhi tondi e cerchiati della ragazza, il naso con la punta che quasi ricadeva sulle lab-
bra strette: una civetta pronta a lanciare il suo richiamo luttuoso appena lei si fosse
azzardata a voltare le spalle.
Le restava un ultimo tentativo da compiere. Dopo aver chiuso a chiave la porta del-
la sua camera, rovesciò sul letto tutto il contenuto della borsetta. Trovò il biglietto
con la calligrafia minuta di Marta in una tasca laterale. Numero di telefono e indirizzo
dei genitori: la stessa Marta glielo aveva dato quando lei ancora non osava proporle
di partire insieme e anzi sembrava che dovessero separarsi di lì a poco.
Lisciò la carta ben bene fra le dita. Rilesse il numero di telefono. Attenta, si avver-
tì, attenta a non bruciare anche questa possibilità. Non era prudente presentarsi sem-
plicemente come un'amica che chiedeva notizie perché Marta, se proprio non voleva
farsi trovare, magari aveva messo sull'avviso anche i genitori. E lei doveva, assoluta-
mente doveva parlarle. Era finito il tempo delle menzogne e delle finzioni, di quegli
impulsi d'oscura distruzione, di volontà d'annientamento. Che sollievo poter confes-
sare la propria verità, il buio stesso dei ricordi.
Eppure esisteva un elemento di disturbo, sottile e indefinibile, che s'insinuava a
scompaginare e deviare ogni suo sentimento. Che cosa la spingeva con tanta ostina-
zione a ricercare Marta. Cosa c'era al fondo del suo desiderio. Quale altra menzogna,
quale altro tradimento.
Sollevò la cornetta del telefono e tornò ad abbassarla. Si sforzava di escogitare una
storia verosimile, accettabile, da raccontare ai genitori di lei. Ma non trovava niente
di plausibile. La vena della sua inventiva si era essiccata: un ramo spoglio, un tronco
secco e vuoto che alla minima pressione sarebbe finito in polvere, sbriciolandosi. Ep-
pure non le restava altra scelta e alla fine telefonò.
La linea era libera ma il telefono squillava a vuoto. Che fossero in vacanza? Era
l'ultimo weekend di agosto, la cosa era più che probabile. Provò tre, quattro volte a
intervalli regolari di dieci minuti. Nessuno. Alla fine si arrese, ma la sua mente intan-
to cercava febbrilmente un'altra soluzione, un'altra via.
CAPITOLO 32
Dopo gli acquazzoni di venerdì l'aria s'era fatta tiepida, mite, e le iniziative dell'e-
state romana promettevano di animare la città fino a tardi. Un manifesto sul muro an-
nunciava che proprio quella sera al Parco dei Daini si teneva un concerto di musica
indiana. Ferma a un semaforo, Anna lo lesse dal finestrino della Cinquecento. Aveva
speso tutto il giorno in inutili giri, congetture vane, tentativi falliti. Era meglio rasse-
gnarsi: Marta era perduta, per sempre.
A quel punto le venne in mente di non aver comprato i giornali. Era la prima volta
che se ne dimenticava da quando era cominciata quella storia. Per di più era domeni-
ca e le edicole chiuse dalle due del pomeriggio. Di scatto, per un riflesso condiziona-
to, voltò a destra imboccando una via che portava all'unico luogo dove era ancora
possibile trovare un giornalaio aperto. Parcheggiò in una stradina laterale e raggiunse
a piedi la stazione.
Dall'atrio si riversava incessante una massa compatta di gente che si disperdeva nel
piazzale per tornare ad accalcarsi alla fermata dei taxi. Dentro, agli sportelli, premeva
una folla disordinata e vociante. I quotidiani erano esauriti e Anna trovò soltanto una
copia del Messaggero. Lo sfogliò sedendosi al bar, lievemente stordita dagli altopar-
lanti che annunciavano ritardi di mezz'ora, un'ora, due ore.
Il grande rientro di fine agosto occupava anche la prima pagina. In cronaca gli ine-
vitabili furti e gli incidenti sul raccordo anulare. Un giovane nudista era stato pestato
a morte in Sardegna. Aveva perso un rene e gli avevano spappolato il fegato: nessun
testimone al massacro.
E poi, in poche righe: interrogata per ulteriori accertamenti la moglie del giovane
architetto ucciso a Roma nel suo appartamento. Solo questo, non una frase di più non
una di meno. Due parole fra le altre la colpirono particolarmente, perché rivelavano
più di quanto non intendesse il cronista: "interrogata" e "ucciso". Dunque era stata
scartata l'ipotesi del suicidio e avevano messo sotto torchio la moglie. Non l'avevano
fermata, si limitavano a interrogarla di nuovo. Ma qualcuno soffriva, ancora una vol-
ta, per una sua inadempienza. Non riteneva che la donna sarebbe stata seriamente
danneggiata da tutto ciò, ed escludeva che potesse essere incriminata dato che non
esistevano prove, non c'era un movente e lei aveva un alibi. E tuttavia qualcun altro,
in quel preciso istante, soffriva al posto suo.
Anna alzò la testa e fissò, senza vederlo, un bambino che al tavolo di fronte sorbi-
va un gelato.
Ma anche lei soffriva e forse anche Marta. Tutti soffrivano. Era tempo di porre fine
a quell'incubo, di mettere il punto a quella storia. Raccontare i fatti - la sua versione
dei fatti - alla polizia significava liberarsi di tutto. Anche di Marta. Perché la ragazza
non era che un alibi: l'aveva usata come un alibi di fronte a se stessa. Un diversivo, in
un certo senso, che le permetteva di dimenticare e coprire le sue colpe e manchevo-
lezze. Questa era la spiacevole verità.
Ebbene, a tutto avrebbe riparato raccontando ogni cosa alla polizia. Quando? Subi-
to. No, non subito. Domattina, si concesse. Un'ulteriore dilazione? A questo punto
veramente non aveva importanza. Voleva tornare, prima, a casa sua. Rassettare, chiu-
dere il gas, lo scaldabagno. Prendere congedo da quel suo tranquillo, lontano mondo.
Prepararsi a ogni evenienza. E dormire, un'ultima notte, nel suo letto. È tutto finito, si
rassicurò. Il tormento, il rimorso, l'attesa. Finalmente, è finito. E sono io a mettervi
fine.
Dalla cabina telefonica all'angolo della strada chiamò i genitori di Marta. Di nuovo
senza alcun risultato. Telefonò anche alla pensione: no, la signorina non si era fatta
viva. Nella cabina si soffocava. Anna riagganciò mentre lacrime di frustrazione le
riempivano gli occhi, impreviste e subito ricacciate indietro.
Lungo i viali di Villa Borghese frotte di giovani si dirigevano verso il Parco dei
Daini. L'illuminazione era scarsa e la macchia verde della villa, nel cuore della città,
s'incupiva dilatandosi insieme alle ombre. Venivano in senso inverso gli ultimi ritar-
datari, intere famiglie sorprese dal buio che s'affaccendavano a trasportare alle mac-
chine sedili pieghevoli e frigo portatili da picnic. I bambini stringevano fra le braccia
i palloni e ogni due passi si fermavano a calciare, ripresi dal richiamo esasperato di
un padre o di una madre. Migliaia di uccelli turbinavano in vortici neri, oscurando il
cielo già scuro e assordando con strida acute e disarmoniche.
La folla la guidò fino alla biglietteria. Là l'illuminazione era più forte per la presen-
za di innumerevoli chioschetti che offrivano panini imbottiti, patate fritte, noccioline,
bottiglie di Coca-Cola e birra. Il neon avvolgeva con la sua luce violenta i cibi in mo-
stra, mentre sui tavoli dei venditori abusivi, a qualche passo di distanza, tremolavano
candele e torce antivento.
Anna non aveva fame ma si lasciò ugualmente tentare da tutti gli odori che si gon-
fiavano nel vento della sera. Comprò pane, salsiccia e una lattina di birra. Poi si mise
in coda per il biglietto. Il pane e la salsiccia li buttò in un cestino dei rifiuti dopo qual-
che boccone. Bevve la birra, invece, dopo aver preso posto sulle gradinate di legno,
di fronte al palco.
Si sentiva come un condannato a morte a cui si concede l'ultima sigaretta. Che
avrebbe raccontato l'indomani mattina? Di nuovo più niente le pareva chiaro, o ne-
cessario. Un delirio, solo questo aveva da confessare. L'ansia che aveva represso fino
a quel momento adesso le torceva le viscere e la costringeva a trattenere un improvvi-
so bisogno di orinare.
Si guardò attorno. I giovani - la maggior parte del pubblico, valutò Anna, non arri-
vava ai trent'anni - seguivano la musica in un silenzio religioso, molti sedevano in po-
sizione yoga. Fra tutti quegli sconosciuti scoprì a un tratto la faccia nota di un cliente.
Un giovane uomo che portava al collo, sotto la camicia sbottonata, una collanina di
grani rossi. Si sbracciava a salutarla con entusiasmo eccessivo, come se incontrarsi a
un concerto di musica indiana fosse un evento straordinario che rivelava impensate,
esaltanti possibilità.
Anna lo ignorò vagando con lo sguardo oltre il fondale scuro degli alberi: una bel-
lissima notte di fine agosto, con ombre nette e cielo intenso che invitava a respirare
profondamente, liberamente. Al profumo delle piante, dell'erba e della terra smossa
del parco si mescolava l'odore della marijuana e un altro, più penetrante e deciso, di
sigaretti indiani. La musica, per la verità - malinconica anche quando il ritmo volgeva
al vivace — non era precisamente quello che le ci voleva. Una scelta che sorgeva da
abissi di masochismo, riconobbe Anna. Eppure quell'eccesso di malinconia non le era
sgradito. Bruciava dentro di lei lentamente come il legno nel suo caminetto durante le
serate invernali, consumando a poco a poco le scorie di un dolore ossessivo e resi-
stente.
Anna aspettò che la folla defluisse prima di muoversi a sua volta. Raggiunse l'usci-
ta camminando in mezzo ai prati, sull'erba che di notte tratteneva l'umidità e le bagnò
le scarpe di tela.
Arrivata sulla strada dove aveva parcheggiato la Cinquecento, qualche metro più in
là vide una cabina telefonica. Era l'una. I genitori di Marta, se c'erano, erano sicura-
mente in casa. Ma lei aveva deciso altrimenti, ricordò, non aveva più bisogno di loro.
L'indomani l'aspettava un lungo interrogatorio, una lunga confessione: la libertà di ri-
conoscere infine il suo debito e la sua colpa.
Davanti al parabrezza la città si stendeva di nuovo magicamente deserta. A un in-
crocio una pattuglia di carabinieri fermava le macchine in transito. Non tutte, solo al-
cune. Anna andava piano ma rallentò ancora. E si chiese: adesso? È questo il momen-
to, l'occasione giusta? Il cuore prese a batterle furiosamente.
Un uomo in divisa si piazzò in mezzo alla strada, alzò la paletta e fischiò. Lei
schiacciò il pedale del freno con un sospiro: avrebbe preferito accostare di sua spon-
tanea volontà. Quella forzatura le toglieva qualcosa, la privava di una scelta. Ma do-
veva aspettarselo, di notte la fermavano spesso. Perché la macchina era vecchia e
malridotta e perché al volante vedevano una donna sola: una specie di doppia puni-
zione.
L'uomo si avvicinò, ma poi scorse sul vetro anteriore il contrassegno dell'ordine
dei medici e si tirò indietro. Con la mano segnalò via libera e lei, meccanicamente,
innestò la marcia e ripartì.
CAPITOLO 33
I raggi dei riflettori imbiancavano i paramenti e gli abiti rigonfi dei santi in bilico
sul fastigio, scendevano sfiorando i gruppi di colonne abbinate, il timpano triangola-
re, i bassorilievi con le scene della vita di San Giovanni, le nicchie ai lati dei portali.
Cadevano giù fin sulla gradinata rendendo, nel contrasto, ancor più solitario e angu-
sto lo stretto rettifilo di Via Giulia.
Anna indugiò un poco prima di aprire il portone esterno e salire fiaccamente un
gradino dopo l'altro. Lottava contro una riluttanza che le appesantiva le gambe e le ri-
tardava i movimenti. L'interruttore della luce sulle scale era di quelli vecchi, a tempo,
e la lasciò al buio a metà della prima rampa. Continuò a salire senza più riaccendere.
Dalle finestre, a ogni piano, entrava un riflesso biancastro.
Sull'ultimo pianerottolo - il suo - qualcuno steso per terra ostruiva il passaggio.
Anna intravide, a malapena indovinò un corpo ripiegato su se stesso, le braccia di-
stese e serrate attorno a una valigia: Marta, addormentata.
Anna si aggrappò al corrimano, sentendosi respinta all'indietro come sotto la vio-
lenza di un colpo in mezzo al petto. Nel dormiveglia, Marta percepì una presenza
estranea che si muoveva accanto a lei nell'oscurità e si svegliò. In un batter d'occhio
fu in piedi.
— Anna, sei tu? — chiese a voce alta, allarmata.
— Sì, sei tu — esclamò abbassando il tono.
Il pianerottolo era ingombro di vecchie cianfrusaglie, scatoloni accatastati in un an-
golo, un mobiletto di cui Anna non voleva disfarsi. Per aprire la porta dell'apparta-
mento fu costretta a scansare la ragazza e a passarle davanti. Lei fraintese il suo ge-
sto.
— Non mi fai entrare? — chiese.
Anna varcò la soglia, accese la luce e finalmente la vide: s'era sbottonata i blue-
jeans troppo stretti in vita, aveva gli occhi leggermente arrossati dal sonno e un'e-
spressione decisa.
— Allora, mi fai entrare? — ripeté Marta. Ma non sembrava dubitare realmente
delle intenzioni dell'altra.
Anna staccò gli occhi da quell'apparizione e girò su se stessa. L'accolse lo spazio
angoloso del piccolo ingresso, lo scorcio del soggiorno, l'immutabile familiarità della
casa. Perfino il disordine era lo stesso identico disordine di venerdì notte. Uno strano
impulso la spinse a farsi avanti e a sfiorare con la punta delle dita le pareti, lo stipite
della porta, i libri, il vaso di cristallo, la ciotola di legno sul caminetto. E in un'esplo-
sione di sollievo si sentì sbalzata indietro nel tempo. Il suo sogno infantile si era dun-
que avverato? Si poteva tornare al punto di partenza, ricominciare daccapo, cancella-
re gli sbagli. E perché non la morte?
L'esaltazione cadde di colpo e al suo posto rimase quel solito, freddo senso di
estraneità e lontananza. Ogni cosa era uguale a se stessa eppure diversa, sottilmente
distorta e contaminata dalla polvere di un solo giorno e di una sola notte.
— Entra, sì, entra — assentì piano, senza più voltarsi.
CAPITOLO 34
Come sempre, il tavolo stava appoggiato contro la finestra per fare spazio al diva-
no-letto tuttora aperto, il cuscino ben sistemato e pronto ad accogliere qualsiasi stan-
chezza. Marta ci si buttò sopra, liberandosi con un'unica mossa del piede di un paio di
zoccoletti anatomici. Un nuovo acquisto, notò Anna, come se fosse un particolare di
grande rilievo. Sul letto, Marta aprì completamente la lampo dei jeans e ripiegò le
gambe rannicchiandosi nella sua consueta posizione di riposo.
Anche Anna avrebbe voluto buttarsi sul letto, per terra, da qualsiasi parte. Era
come se il suo corpo fosse stato svuotato da una febbre violenta e reso incredibilmen-
te fragile, una figurina di vetro soffiato.
E invece disse: — Ho bisogno di un caffè.
La sua voce suonò a lei stessa lontana, irreale come quel bisogno inventato.
Il barattolo che teneva a portata di mano sulla mensola era vuoto, dovette raschiare
il fondo per rimediare due cucchiaini di miscela. Cercò un fiammifero fra le boccette
di vetro - tutte uguali, stessa grandezza, stesso volume - che contenevano sale, zuc-
chero, spezie. Sul ripiano di legno regnava una gran confusione. Anna chiuse un va-
setto di marmellata che aveva lasciato aperto, calcolò, da almeno due giorni, buttò
nell'acquaio un cucchiaino sporco, sistemò alla meglio, in una fila ordinata, barattoli
e contenitori di vario genere.
Marta, in silenzio, l'osservava andare e venire. Uno sguardo attento che vagliava,
sezionava, valutava. Uno sguardo paziente, tenace. Da cacciatore che aspetta al varco
la sua preda.
A un certo punto si scosse e riluttante, di malagrazia, diede l'avvio a una svogliata
cerimonia notturna. Con una mossa lenta si sfilò i jeans, li lanciò da una parte senza
alzarsi dal letto e subito si coprì le gambe col lenzuolo in un inedito atto di pudore.
Poi buttò indietro i capelli, li rialzò sulla nuca e li legò con un elastico raccolto da
qualche parte.
Ad Anna parve che si muovesse con parsimonia. Gesti misurati, prudenti. Dove era
andata a finire, si domandò, tutta la sua intraprendenza, la naturale esuberanza che l'a-
veva conquistata? Perfino il battito delle ciglia aveva un che di cauto, di controllato.
Si era forse pentita di essere tornata, dell'impulso - qualunque esso fosse — che l'ave-
va ricondotta fin lì?
O forse, più semplicemente, aspettava. Aspettava una sua decisione. Tornando,
Marta aveva mosso la prima pedina. Ma il secondo passo ora toccava a lei.
Il caffè traboccò sulla piastra.
Anna si gingillò ancora un poco all'acquaio sciacquando tazzine e posate, cercando
un coraggio che era ben lontana dal provare.
Ebbe per un attimo la rapida visione di un volto di donna racchiuso in una cornice
d'argento, sul comodino di una stanza polverosa. Di tutto quello che era successo,
nella stanza e dopo, era più responsabile quella donna che lei. Perché avrebbe dovuto
accollarsi l'intera responsabilità di una tragedia imprevedibile e assurda? Lei, Anna,
era soltanto l'ingranaggio di una macchina che altri avevano messo in moto. L'infeli-
cità di quell'uomo faceva parte di una storia che lei non conosceva e che non la ri-
guardava, e in ogni caso s'iscriveva nel passato e nella vita dell'altra donna, non nella
sua. Era giusto che le cose fossero andate così come erano andate. Era giusto che in-
terrogassero l'altra, non lei. Che fosse l'altra a tormentarsi, non lei. Perché l'altra pos-
sedeva la chiave di tutto.
Si accese una sigaretta alla fiamma del gas e andò a sedersi sul letto accanto alla
ragazza. Era tornata, e tutto poteva ricominciare daccapo. Ma tutto di nuovo poteva
ridursi a un'eterna, confusa, vana rincorsa.
Si strinse contro il petto le gambe scosse da un tremito fastidioso. Ora sicuramente
avrebbe dovuto rendere conto delle sue azioni. Ora sicuramente Marta le avrebbe po-
sto quella domanda a cui lei credeva - continuava a credere - di non saper rispondere.
Come era morto quell'uomo, in realtà? E perché? La certezza della verità si era persa
per sempre e proprio dentro di lei, nei meandri della memoria e della coscienza. Ma
lei non l'avrebbe cercata mai più, la verità, neanche se il mondo, l'universo intero,
avesse tentato di costringerla, di piegarla a quell'impossibile fatica.
Neppure Marta aveva un simile potere. Anche se per questo, certamente, era torna-
ta: per sciogliere un sospetto, un dubbio. O forse, intuì di colpo, per aderire più stret-
tamente a quel gioco eccitante e tormentoso che le aveva prese, coinvolte, turbate.
Per assimilare fino in fondo la tossica dolcezza di un'indistinta paura.
Le lanciò un'occhiata furtiva. L'altra invece alzò il viso e la fissò con la stessa
espressione decisa con cui l'aveva fissata sul pianerottolo prima di entrare. Ma poi
riabbassò gli occhi sulle dita che spiegazzavano nervosamente l'orlo del lenzuolo. Ta-
ceva di proposito, con ostinazione, con risoluta fermezza.
Anna si appoggiò al cuscino esasperata e divisa fra la voglia di dar libero corso alle
parole e il timore di andare a fondo, di strappare anche l'ultima maschera. Aprì la
bocca. La richiuse. Non voglio sapere. Non voglio, si disse. Ma d'un tratto, invece di
porre la domanda che le urgeva dentro, benché vaga ancora e confusa: — Perché —
si sorprese a chiedere. — Perché sei tornata?
Marta s'irrigidì e la fissò incredula. Le vene del collo, che i capelli legati in alto la-
sciavano scoperte, si tesero come corde e presero a pulsare con violenza.
— Vigliacca.
Faceva fatica ad articolare le parole, i pugni chiusi, contratti in un'ira che non sape-
va come trovare sfogo.
— Questo sei, una vigliacca. È la tua malattia. E non guarirai mai. Mai.
Dunque non era la paura, non il dubbio che l'aveva spinta al ritorno, ma una volon-
tà positiva. Un desiderio.
Per la prima volta da tempo immemorabile, a quella rivelazione Anna avvertì den-
tro di sé una grande pace. Una calma che s'allargava come l'acqua tranquilla di un
lago, andando a riempire ogni anfratto, ogni grotta. Non c'era pericolo a nuotare in
quell'acqua.
Ma l'ansia tornò immediatamente ad afferrarla. Un'ansia diversa, questa volta, che
lasciava spazio ad altre emozioni. Qual era la domanda che non aveva saputo porre?
E a chi era rivolta, in realtà? Non a Marta, lei lo sapeva bene. Ma ad Anna. Anna che
continuava a mentire e a celarsi a se stessa. Per quanto, ancora? Sì, per quanto? Ecco,
era arrivata infine a porsi la domanda giusta.
Non c'è pericolo, si rispose, non più. Poteva lasciarsi andare, finalmente, il corpo
libero di decidere, di scegliere per lei il gesto risolutivo, l'ultima mossa.
Si chinò su Marta e catturò il pugno che l'altra seguitava a stringere rabbiosamente,
chiudendolo fra le sue mani. La ragazza ebbe uno scatto di rivolta, tentando di sot-
trarsi e guardandola negli occhi con un rancore inteso a respingerla. Ma poi si rilassò,
il viso le si distese.