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Forse a chiarire la difficile posizione foscoliana gioverebbe (come qui non si può fare)
riavvicinarla a quella – pur diversa – del dramma storico di Hölderlin quale è stato inter-
pretato piú recentemente da un tipo di critica che l’ha configurato (fino alla ripresa della
tragedia di Peter Weiss) come risultato della frustrazione delle sue speranze rivoluzionarie,
sottraendo Foscolo alla pura e semplice linea risorgimentale e insieme sentendo quanto i
motivi unitari-indipendentistici fossero parte integrante della stessa posizione giacobina
specie nella situazione italiana.
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E se è indubbio che l’edizione 1817 rappresenta l’ultima volontà dell’au-
tore, deve pure esser ribadito che l’Ortis – mentre esprime aspetti fonda-
mentali e costitutivi del Foscolo mai interamente scomparsi e sempre pronti
a riaffiorare sotto la ricerca di espressione di altre sue componenti, come
quella didimea (ma Didimo è per l’autore un Ortis «piú disingannato che
rinsavito») – corrisponde soprattutto e anzitutto ad un autoritratto fosco-
liano trasposto nel personaggio protagonista e a un tipo di convulsa e com-
plicata esperienza e a una direzione di poetica e necessità espressiva carat-
teristici della zona 1801-1802. Sicché l’Ortis rimane un libro di gioventú,
un’opera di apertura e di base rispetto al lungo svolgimento personale e
poetico successivo del Foscolo, un capolavoro giovanile che della gioven-
tú d’una eccezionale personalità creativa mantiene i caratteri essenziali ed
affascinanti di inquietudine formativa, di esplosione di temi, motivi e sino
stilemi su cui lo scrittore lavorerà entro nuovi cerchi di esperienza vitale,
storica, culturale, letteraria, tanto superando i livelli artistici dell’Ortis, ma
mai superando veramente la forza esplosiva di quel grande libro di testimo-
nianza, di denuncia, di protesta, di disperazione entro cui insieme si fa luce
l’ansia inesausta di vita, di impegno, di lavoro poetico e culturale.
A capire l’Ortis anche nella distinzione che tanto assillò il Foscolo maturo
dal Werther (cui l’opinione comune tanto l’accomunò sí che Stendhal parla-
va del libro foscoliano come di una brutta imitazione del giovanile romanzo
goethiano), ci si rivolga anzitutto alla distinzione sul significato del suicidio
nei due romanzi come venne formulata dal Foscolo nella Notizia bibliogra-
fica: il suicidio è nel Werther «quasi malattia crescente, incurabile di certi
individui», mentre nell’Ortis è «rimedio di certi tempi». Certo la formula
foscoliana è imperfetta, ché pur nell’Ortis il suicidio è legato anche ad una
condizione temperamentale del protagonista-alter ego dell’autore, un «ri-
medio» al suo dramma di traumatizzato, ma anche di nevrotico incentivato
(senza con ciò accedere a intere spiegazioni dell’Ortis in unica chiave psica-
nalitica) dalla perdita precoce del padre e dall’infelicità dell’infanzia, da un
senso di sprotezione e da un contrasto fra vitalità e una profonda attrazione
sepolcrale. Ma anche questi dati piú strettamente personali sono inseriti in
una situazione di crisi storica di cui il Foscolo ebbe acuta coscienza e che
però egli vide come prima, essenziale causa del suicidio eroico, atto autodi-
struttivo-affermativo di suprema contestazione dei tempi che traumatizzano
e ledono profondamente l’ansia di vita e di impegno del personaggio.
Cosí l’Ortis trova il primo livello di interpretazione da parte nostra in una
chiave storica con le sue implicazioni politiche, filosofiche, esistenziali. La
sua malattia mortale è una malattia storica, come ben indicò genialmente
già il De Sanctis, che pur non la approfondí in tutti i suoi anelli raccordati e
inseparabili. Ed ecco: una crisi totale con al centro il dramma etico-politico
del personaggio in «certi tempi»: i tempi della delusione e dello scacco gia-
cobino (né questo fu solo alla base dell’Ortis, ché, in altra situazione, esso fu
pure molla profonda della grande poesia di Hölderlin).
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Posizione storico-ideologica.
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Foscolo aveva ben intuito come la vera forza della letteratura italiana moderna fosse
costituita dall’Alfieri, tanto piú grande e diverso da quello scabro e raggelato rappresenta-
tore di «astratti furori» e di archeologiche vicende chiuse in un linguaggio vecchio e inco-
municabile che una recente semplicistica convenzione ha finito in gran parte per imporre
all’opinione corrente.
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come terra di conquista, di sfruttamento e oggetto di scambio nella lotta
con le potenze reazionarie, sempre piú volta a favorire nella stessa Repub-
blica Cisalpina i vecchi ceti dominanti e sempre piú ostile agli scomodi
patrioti-giacobini, mentre la stessa lotta fra Italiani diveniva per il Foscolo
(che pur aveva combattuto contro le bande degli insorgenti) un trauma
profondo e una conferma pessimistica sulla difficoltà di unificazione e co-
struzione nazionale, che pure rimaneva il suo obiettivo politico primario,
fino a divenire una specie di nuova religione con i suoi «martiri» e a farsi
dominante, in forma persino eccessiva, di fronte alle sue piú generali istanze
internazionalistiche.
L’Ortis è cosí il libro disperato e oracolare della sorte italiana e il naziona-
lismo predomina e subordina a sé le altre esigenze politiche e sociali piú ge-
nerali, non senza un persistente dibattito angoscioso sia sulla posizione degli
Italiani piú consapevoli e appassionati per la sorte della loro patria, sia sulla
politica in generale e sulla problematica politico-sociale. Cosí Jacopo, men-
tre proietta al massimo l’istanza nazionale e insieme avverte drammatica-
mente la sua individuale impotenza (si pensi al colloquio con il Parini in cui
il giovane insiste sul dovere della lotta e il vecchio poeta, rivisto in una luce
ben ortisiana, gli dimostra l’impossibilità della lotta stessa pur incitandolo
a scrivere e a testimoniare; si pensi al grido lacerante nella lettera da Venti-
miglia: «ma che può fare il solo mio braccio e la nuda mia voce?»), risente
cupamente il contrasto fra la volontà di rinnovamento rivoluzionario-nazio-
nale, la necessità della violenza, della forza e sin del «terrore» per attuarlo,
la degenerazione della libertà «in licenza» e la fatale ricaduta da questa in
forme di dispotismo autoritario. E cosí – mentre vagheggia una repubblica
anche socialmente giusta (ai contadini del paesetto sui Colli Euganei legge
non a caso le vite plutarchiane di Licurgo e Timoleone) ed esplode in invet-
tive contro i patrizi, contro i ricchi, contro «le possessioni» unica garanzia di
considerazione e di prestigio, si piega inorridito sulle ingiustizie subite dai
poveri – insieme constata l’impossibilità di cambiare la natura degli uomini
e della società e ripiega, fra accettazione e ricerca di una via percorribile,
sulla soluzione moderata di una società fatta di piccoli proprietari terrieri:
una soluzione che già nel periodo giacobino aveva affacciato nell’idea di
una «mediocrazia» e che all’altezza della edizione dell’Ortis del 1816, nella
lettera del 17 marzo, sarà saldata (fra volontà realistica e margine di chiara
utopia) a una mediocrazia fondata senza violenza e senza «legge agraria».
Nell’insieme l’Ortis corrisponde a una collaborazione divisa e frenante
(fra echi persistenti rousseauiani e istanze realistiche) con la classe borghe-
se tesa a ridurre al massimo il prepotere della classe aristocratica, ma, nel
contempo, a considerare con paternalistica superiorità le classi subalterne
finché queste non vengano a far parte della borghesia nell’acquisizione della
piccola proprietà terriera. Di tale funzione (non chiara e scossa da fremiti
umanitari e ribelli piú fondi, e lontana dalla logica borghese del profitto ed
accumulo) può esser indice la stessa configurazione sociale del protagonista,
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nato da antica famiglia legata al possesso della terra, anche se – in contrasto
con l’aborrita nobile «gentaglia» – spesso presentato come povero e sprov-
veduto di mezzi, in una delineazione ambigua che par corrispondere alla
scarsa chiarezza di analisi sociale giustificabile in un periodo socialmente
ancora incerto in Italia e preso fra la logica della classe borghese in forma-
zione e ideali incerti, fra le spinte rivoluzionarie e i richiami nostalgici di
una vecchia società patriarcale, terriera, e rousseauianamente avversa alla
«convoitise».
Dunque situazione di crisi e di assestamento difficile e netto spicco del
motivo patriottico unitario e indipendentista che è pur motivo storico vali-
do e legato a ideali promossi dalla grande rivoluzione.
E di crisi ci parla anche la vicenda stessa del romanzo, presa fra la subli-
mazione della passione e dei suoi diritti e certo moralismo piú tradizionale a
cui lo stesso Jacopo e tanto piú Teresa soggiacciono, accettando per buone le
ragioni dell’ambigua figura del signor T***, il padre di Teresa, la cui autorità
sulla figlia e i suoi sentimenti viene accusata, ma rimane alla fine indiscussa.
Ma la crisi è ancor piú profonda e vale, entro e sotto il cerchio della de-
nuncia e protesta politica, se si guarda agli elementi filosofici-ideologici ed
esistenziali di questo libro inquieto e storicamente cosí significativo. Nel
trapasso fra Settecento illuministico e Ottocento romantico l’Ortis e il suo
personaggio (e l’autore) testimoniano di una crisi ingorgata e drammatica
che solo da chi vede il romanticismo come un puro momento di involuzio-
ne e di battuta di arresto nella storia può esser giudicata schematicamente
reazionaria ed assurda.
A ben guardare, e specie nella prospettiva della storia italiana, l’urto fra
una raison geometrica e sterile, decurtante le forze intere degli uomini, e la
passione, il sentimento, la fantasia, il sogno, è un urto drammatico profon-
do nella formazione dell’uomo moderno. Di tale urto e crisi drammatica
vissuta con impegno totale l’Ortis è originale espressione e Jacopo soprat-
tutto la vive in tutti i suoi problemi e caratteri. Come pure egli vive la crisi
drammatica fra «l’ingenito amor della vita» e l’attrazione della morte («tra
la disperazione delle passioni e l’ingenuo amor della vita», dirà il Foscolo nella
Notizia bibliografica), fra aspirazioni vitali e un pessimismo cosí forte da
presentarsi come la base piú ravvicinata al grande pessimismo leopardiano.
Qui si apre anzi la zona piú lacerata e fermentante di problemi e motivi di
questo libro la cui forza – sarà bene ribadirlo – è piú di proposta esplosiva
di problemi e temi che non di soluzioni e posizioni definite in maniera
esauriente e circolare.
Cosí la realtà e la vita umana, che pur sono a volte vitali come salda base
materialistica retta da sue leggi ferree (a lor volta accettate razionalmente
come tali e che è illusorio eludere e respingere e sentimentalmente avvertite
dolorosamente come limite all’espansione libera della personalità), vengo-
no piú profondamente investite da uno sguardo piú acuto che ne mette in
discussione la stessa consistenza reale, ne percepisce le condizioni di vanità,
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di illusorietà, di sogno (si pensi alla lettera bellissima del 19 gennaio 1798
che inizia «Umana vita? sogno; ingannevole sogno al quale noi pur diam sí
gran prezzo...»), con aperture modernissime che, mentre scavalcano la loro
matrice romantica e sembrano porre i problemi dell’assurdo, si immettono
potentemente nella problematica leopardiana a cui quella stessa lettera ora
citata offre lo spunto importantissimo dello stolto orgoglio umanistico e an-
tropocentrico di fronte a una natura che «mentre noi serviamo ciecamente
al suo fine... ride del nostro orgoglio che ci fa reputare l’universo creato solo
per noi, e noi soli degni e capaci di dar leggi al creato».
Cosí la natura romanticamente (e con chiare eredità rousseauiane) tante
volte vista nella sua impareggiabile bellezza (sicché la poesia grande sarà
quella che piú la ritrae ed imita), datrice di benefici e di illusioni vitali (e al
cui centro è il mito del Sole e della luce vitale), vien altre volte (in accordo
con gli stati d’animo del personaggio, ma con un raccordo essenziale con il
suo profondo pessimismo) configurata, non solo nei suoi esteriori e paesisti-
ci aspetti sconvolti, selvaggi, ma nel suo fondamento di crudeltà inesorabile
e neroniana.
A misurare la tensione estrema dell’ingorgo di motivi storici, ideologici,
politici, esistenziali dell’Ortis ci si soffermi sulla lettera da Ventimiglia (19-
20 febbraio 1799) in cui l’elogio del suicidio alla luce di un profondo indi-
vidualismo e di un attacco durissimo alle fiducie ottimistiche illuministiche
e alla stessa posizione rousseauiana dà l’avvio alla meditazione sconvolta-lu-
cida sui confini naturali dell’Italia, inutili a impedire le invasioni straniere,
sulla sorte fatale che alterna la potenza delle nazioni, in un alternarsi di forze
belluine e sterminatrici che fanno della terra «una foresta di belve», sulla va-
nità delle «virtú» smitizzate e denudate nel loro significato di azioni utili ai
detentori della forza, sulla creazione tutta umana di Dei, strumento anch’es-
si dei dominatori e vincitori, sulla contraddizione malvagia della Natura che
crea gli uomini per farli soffrire e li dota del dono funesto della «ragione»
che demistifica l’istinto vitale, sull’impossibilità di trovare, in qualsiasi luo-
go, «gli uomini diversi dagli uomini», sicché unico rifugio è il ritorno nella
terra natale per una morte consolata dal pianto di altri infelici.
Qui storicismo vichiano e meccanicismo materialistico si aggrovigliano
fra di loro in un fatalismo disperato e convulso, le speranze illuministiche
si consumano insieme alla fiducia rousseauiana (natura-società naturale),
il sentimentalismo preromantico si traduce in un moto elegiaco riduttivo,
in un coacervo di intuizioni incandescenti che sembrano costituire l’humus
germinale della coscienza infelice romantica entro un animo ferito e pur
anelante all’altezza della purezza incontaminata e alla superiorità della virtú
pur cosí demistificata e denudata. Sicché poche pagine della stessa letteratu-
ra europea di primo Ottocento hanno una profondità di accenti cosí forte e
tale da far pensare alla meditazione tremenda che Julien Sorel fa in Le rouge
et le noir prima di essere giustiziato.
E si guardi come a uno degli elementi essenziali della carica esplosiva del
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libro alla forza demistificatrice con cui Jacopo-Foscolo aggredisce alcuni de-
gli stessi valori eroici in cui vuole pertinacemente credere. Si pensi a quanto
il Parini dice della gloria (cui pure Jacopo-Ugo aspira), si pensi alla lacerante
accusa ai Romani (pur cosí esaltati nel neoclassicismo giacobino foscoliano)
«ladroni del mondo», si pensi soprattutto (in chiave antiretorica in un libro
cosí pieno di appelli oratori) alla demistificazione degli esemplari eroi del
«divino» Plutarco: «Col divino Plutarco potrò consolarmi de’ delitti e delle
sciagure dell’umanità volgendo gli occhi ai pochi illustri che quasi primati
dell’umano genere sovrastano a tanti secoli e a tante genti. Temo per altro
che spogliandoli della magnificenza storica e della riverenza per l’antichità,
non avrò assai da lodarmi né degli antichi, né de’ moderni, né di me stesso
– umana razza!» (lettera del 18 ottobre 1797).
Il romanzo, i personaggi.
Il ritmo drammatico-narrativo.
Fortuna.
Quando l’Ortis uscí nel 1802 le reazioni immediate degli uomini delle
vecchie generazioni, che pur tanto avevano contribuito allo svecchiamento
e all’europeizzazione della nostra letteratura in direzione preromantica, fu-
rono di ammirazione e di sbigottimento, tanto quel libro superava l’ambito
piú moderato del loro gusto letterario e della loro concezione vitale rimasta
sempre, tutto sommato, troppo letteraria e paurosa di una letteratura-vita
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consequenziaria. Valga per tutti il giudizio che il Cesarotti esprimeva in una
lettera al suo giovane amico e ideale, ma irrequietissimo allievo: «Del tuo
Ortis non ho voglia di parlarne. Esso mi desta compassione, ammirazione
e ribrezzo... Esso è un’opera scritta da un Genio in un accesso di febbre
maligna, d’una sublimità micidiale e d’una eccellenza venefica». Ben diversa
la reazione entusiastica dei giovani, fino alla formazione di una specie di
contagio ortisiano che il Foscolo maturo si rammaricava di aver acceso e dif-
fuso proprio fra i giovani. Poi, mentre l’Ortis è coinvolto nella polemica pro
e contro il Foscolo che caratterizza la zona risorgimentale nei due opposti
versanti delle correnti cattoliche-spiritualistiche, reazionarie o moderate, e
di quelle laiche e piú fortemente nazionali e democratiche (al centro prima
Mazzini, poi Cattaneo), esso diventa nel pieno Risorgimento un libro di
educazione patriottica e sentimentale romantica, avendo trovato le sue piú
profonde ripercussioni nel Leopardi (che tanto ne risentí sulla via delle illu-
sioni e del pessimismo) e agendo, a vario livello e con elementi di stimolo e
limite, nella prosa e nell’educazione sentimentali di tanti scrittori romantici
e postromantici (si pensi a Guerrazzi o a Nievo o a Carducci, agli Scapiglia-
ti, alla formazione di tanti degli stessi realisti fine Ottocento).
Intanto la critica superava la precedente opposta demolizione o esaltazio-
ne nel grande giudizio storico desanctisiano, per poi aggredire l’Ortis con
piú attenta e minuta analisi nel periodo del metodo storico-positivistico e
poi in quello idealistico crociano e postcrociano (Donadoni, Croce, Fubini,
De Robertis, Russo), evidenziando insieme il valore dell’opera in sé e il suo
carattere di «vivaio» dei motivi della successiva attività poetica foscoliana,
fino a un recente intreccio di ripulse di gusto e di ipervalutazioni tese a
bloccare il Foscolo in questo libro giovanile.
Ma la linea portante della critica e del gusto piú seri non ha dimesso la sua
valutazione alta e storica dell’Ortis, permettendo anche alla zona piú mili-
tante della letteratura di recuperare – specie nella chiave di una espressione
di crisi e di disperazione storico-esistenziale – un libro che resta essenziale,
con la sua forza e i suoi stessi limiti, nella storia della nostra narrativa e nella
storia della nostra civiltà ottocentesca.
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