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DIPARTIMENTO DI STUDI UMANISTICI

Corso di laurea in
CAM

La prima era spaziale attraverso lo schermo


Il cinema al servizio della storia

Relatore:
Chiar.mo Prof. Andrea Alonge

Correlatore:
Chiar.mo Prof. Bruno Maida
Candidato:
Biagio Bello

Anno accademico 2021/2022


2

Indice

1 – Introduzione: le potenzialità didattiche dei film storici………………………………………….3


1.1 - Il cinema della corsa allo spazio……………………………………………………………..12
2 - La nascita dell’era spaziale……………………………………………………………………...13
2.1 - Le ragioni di una disputa……………………………………………………………………..15
3 - Vostok e Mercury: i primi programmi spaziali con equipaggio umano………………………...18
3.1 - Gagarin: Primo nello spazio…………………………………………………………………18
3.2 - La stoffa giusta? ……………………………………………………………………………..22
3.3 - Uomini Veri…………………………………………………………………………………..24
3.4 - The Right Stuff: Uomini veri 2020…………………………………………………………...25
4 - Il programma Voskhod………………………………………………………………………….37
4.1 - Spacewalker: Il tempo dei primi……………………………………………………………..38
5 - Von Braun e Korolev, i migliori scienziati missilistici al mondo……………………………….42
5.1 - La doppia vita di Wernher Von Braun……………………………………………………….42
5.2 - Il solo indispensabile………………………………………………………………………....43
6 - Gemini e Apollo: assalto alla Luna……………………………………………………………...48
6.1 - First Man - Il primo uomo…………………………………………………………………...53
6.2 - Il lato umano del primo uomo………………………………………………………………..58
7 - La fine della corsa allo spazio…………………………………………………………………...63
7.1 - Apollo 13, un catastrofico successo………………………………………………………….66
7.2 - La corsa allo spazio cinematografica: quando il cinema ricalca la storia……………………71
8 - Hidden Figures, il lato femminile dell’era spaziale……………………………………………..76
3

1 - Introduzione: le potenzialità didattiche dei film storici

Didascalia presente all'inizio di ogni episodio di The Right Stuff: Uomini veri (The Right Stuff, Mark Lafferty, 2020)

Può il cinema raccontare la storia? Si può studiare la storia attraverso un film di finzione?
Per iniziare, ci pare doveroso inquadrare il tema di questo capitolo. Per farlo, ci rivolgiamo al testo
di Pierre Sorlin La storia nei film, nel quale troviamo un paragrafo perfettamente pertinente, dal
titolo “Cos’è un film «storico»?”. Nel cercare di definire questo nuovo “genere” cinematografico,
l’autore evidenzia le problematiche presenti in questo processo, partendo dalla classificazione di
altri generi del cinema:

La maggior parte dei generi che ci sono familiari – western, thriller, commedia, science fiction,
horror – si sono sviluppati all’interno del mondo del cinema, nonostante le loro origini
letterarie, ed esistono solo come generi cinematografici. La peculiarità dei film storici è che
vengono definiti in base ad una disciplina del tutto esterna al cinema; infatti non esiste un
termine specifico per definirli, e quando ne parliamo ci riferiamo nello stesso tempo al cinema e
alla storia.1

Proseguendo, individua alcune caratteristiche che possono aiutare lo spettatore a comprendere che il
lungometraggio che sta guardando è ascrivibile al filone dei film cosiddetti “storici”:

Ci devono essere dei dettagli, non necessariamente numerosi, per collocare l’azione in un’epoca
che il pubblico ponga senza esitazione nel passato – non un passato vago ma considerato come
storico. L’eredità culturale di ogni paese e di ogni comunità include date, eventi e personaggi
conosciuti da tutti i membri di quella comunità. Questa base comune è ciò che potremmo
chiamare il «patrimonio storico» del gruppo, ed è sufficiente scegliere alcuni dettagli da questo
patrimonio perché il pubblico sappia che sta guardando un film storico e possa collocarlo,
almeno approssimativamente, in un dato periodo. Quando il periodo è conosciuto meno bene, o

1
Pierre Sorlin, La storia nei film. Interpretazioni del passato, a cura di Gianfranco Gori, Scandicci, Firenze 1984
4

non appartiene all’eredità comune, allora il film deve sottolineare chiaramente la natura storica
degli eventi.2

Per una definizione di “film storico” ci affidiamo alle parole di Rondolino:

Nell’ambito del film di finzione3, che rappresenta qualitativamente e quantitativamente la parte


più cospicua dell’intera produzione cinematografica di ieri e di oggi, un posto importante
assume, per lo storico delle società (non soltanto quindi per il contemporaneista) il cosiddetto
cinema storico, quello che, secondo la terminologia di Ricciotto Canudo, è il «film in costume».
Si tratta, come facilmente si può comprendere, di quei prodotti cinematografici che
ricostruiscono il passato secondo determinati intendimenti e particolari accorgimenti tecnico-
formali, in modo da fornire allo spettatore una rappresentazione suggestiva di personaggi,
ambienti, fatti e situazioni che afferiscono alla storia.4

Dunque, si definiscono “film storici” tutti quei film che intendono trasportare lo spettatore in
un’epoca antecedente alla sua, sfruttando le armi a disposizione della grande macchina del cinema:
costumi, scenografia e tutti gli altri artifici che, facendo leva sulla sospensione dell’incredulità del
pubblico, tentano di operare una ricostruzione (più o meno) fedele di scenari del passato. Essi si
configurano, quindi – e questo è un particolare fondamentale per la nostra trattazione – come
fictional, come opere di finzione:

Tutti i film storici sono film di finzione. Con questo voglio dire che, anche se sono basati su
documenti, devono ricostruire in modo puramente immaginario la maggior parte di quello che
mostrano. Scene e costumi simili a quelli del periodo rappresentato si possono basare su testi e
quadri, ma solo gli attori sono responsabili dei gesti, delle espressioni e delle intonazioni. La
maggior parte dei film storici […] combinano eventi reali con episodi individuali
completamente fittizi. Avviene molto raramente che un film non passi dal generale al particolare
e non susciti l’interesse concentrandosi su casi personali5

Ora che abbiamo inquadrato la definizione di film storico, è il momento di passare al suo utilizzo
nel mondo della didattica, e, più precisamente, nell’insegnamento della storia.
La pratica dell’uso dei documenti filmici nella didattica della storia non è certamente una novità.
Come apprendiamo dal lavoro di Peppino Ortoleva6, infatti, essa si è sviluppata a partire dagli anni
’60:

2
Ibidem
3
Il corsivo è nostro.
4
Gianni Rondolino, Il cinema, in Gianfranco Miro Gori (a cura di), La storia al cinema. Ricostruzione del passato,
interpretazione del presente, Bulzoni Editore, Roma 1994, pp. 176-177
5
Pierre Sorlin, La storia nei film. Interpretazioni del passato, p. 20
6
Cfr. Peppino Ortoleva, Cinema e storia: scene dal passato, Loscher, Torino 1991
5

[P]roprio in quanto «macchina del tempo» ancora capace di meravigliarci, in quanto strumento
capace di proiettarci in epoche lontane dalla nostra, il cinema è stato riconosciuto come ausilio
particolarmente fecondo per l’insegnamento della storia.7

E ancora:

L’insegnante che provi a mostrare un documento filmico del passato a una classe sa di poter far
conto su una potente, e suggestiva, macchina del tempo, con l’aiuto della quale è possibile
condurre i ragazzi a «visitare» il passato con un’efficacia sconosciuta ad altri documenti8

Il cinema è uno strumento potente per la didattica della storia non solo, come inteso da Ortoleva, in
quanto opera girata nel passato, in un tempo anteriore al nostro, ma anche (e, nel nostro discorso,
soprattutto) come mezzo che parla del passato e lo mette in mostra per scopi di intrattenimento
puro: tutte quelle opere di fiction che, come abbiamo osservato, fanno di tutto per rappresentare una
determinata epoca il più fedelmente possibile, non rinunciando al piacere che l’artificio romanzesco
riesce da sempre a trasmettere. Questo è quello che afferma anche David Wark Griffith9, chiamato
in causa da Gori, nel lontano 1915 tessendo un “elogio del film storico”10:

Il regista proclama che il cinema non è soltanto un freddo strumento per registrare la realtà,
caratteristica dei film documentari, ma anche e soprattutto una potente «scrittura storica»,
poiché un film narrativo sul passato dà «alla gente più coscienza storica di quanto possano mesi
di studio». Il cinema «insegna in un lampo» […] «Perfino i nostri bambini potrebbero essere
istruiti più piacevolmente e più completamente e più rapidamente non solo su quanto accade
adesso, ma attraverso grandi film, grandi storie ed un grande metodo educativo, potrebbero
anche imparare tutti i modi di vita che chiamiamo storia del passato».11

Il contributo di Griffith costituisce una testimonianza del fatto che l’idea del film storico come
possibile ausilio didattico – e, stando alle parole del cineasta americano, anche qualcosa di più – è
presente in un certo pensiero cinematografico già dal 1915, ad appena vent’anni dall’invenzione del
medium. Il pensiero di Griffith si è rivelato corretto, ma ancora un po’ prematuro per il suo tempo,
dato che la pratica dell’utilizzo del cinema nella didattica sta avendo un grande sviluppo soprattutto

7
Ivi, p. XIII
8
Ivi, p. 12
9
Le parole di Griffith sono tratte da The Rise and Fall of Free Speech in America e da un articolo pubblicato da
Motography, gennaio 1915
10
Gianfranco Miro Gori, La storia al cinema: una premessa, in Gianfranco Miro Gori (a cura di), La storia al cinema.
Ricostruzione del passato, interpretazione del presente, p. 12
11
Ibidem
6

negli ultimi decenni, con scuole e docenti sempre più inclini all’adozione di film e altre opere
provenienti dalla sfera dell’audiovisivo come alleati nell’insegnamento:

Sempre più spesso nelle scuole italiane di ogni ordine e grado si utilizza il cinema, o in generale
l’audiovisivo, come supporto didattico. L’espansione di tale prassi si spiega con alcuni fattori
complementari tra loro: un contesto culturale e pedagogico in cui, pur con posizioni eterogenee,
appare acquisita la possibilità di inserire l’educazione agli audiovisivi come aspetto qualificante
dei curricoli; la crescente disponibilità commerciale di una grande quantità di titoli su molteplici
supporti; il continuo sviluppo tecnologico che permette di utilizzare strumentazioni adattabili
alle diverse esigenze.12

Dal lavoro di Marangi apprendiamo che ci sono due modi in cui il film (o l’audiovisivo) può entrare
nelle classi:

[L]a didattica con il film – in cui le immagini sono utilizzate come supporto per altre materie o
come spunto tematico per dibattiti di tipo culturale e sociale – e la didattica del film, in cui
prevale l’attenzione al film come testo e la messa in opera di analisi di tipo semiotico, tese a
indagare il funzionamento dei codici linguistici e narrativi, o pragmatico, più incentrate sul
rapporto tra testo e spettatore o, in generale, tra l’ambito di produzione e il contesto di
ricezione.13

Dello stesso avviso è Rivoltella, che distingue tra il “ricorso al cinema come sussidio audiovisivo a
supporto dell’intervento formativo (educazione con il cinema)”14 e l’utilizzo del “cinema come
oggetto tematico dell’intervento educativo (educazione al cinema)”15. Parlando della prima ipotesi,
e in particolare dell’insegnamento della storia attraverso il cinema, l’autore individua due modalità
di sviluppo del discorso:

Il ricorso al cinema come rappresentazione della storia e della riflessione degli uomini su di
essa (quando, ad esempio si utilizza Soldati a cavallo di John Ford per studiare la Guerra di
secessione o la cinematografia sul Vietnam, da Berretti verdi di John Wayne a Full metal jacket
di Kubrick, per valutare la diversa consapevolezza storiografica della ‘sporca guerra’ maturata
nella società civile americana dal ’68 a oggi) e come specchio della società (celebri, al
proposito, le analisi dedicate da Sorlin al cinema del Neorealismo come documento storico per
studiare l’Italia del dopoguerra).16

12
Michele Marangi, Insegnare cinema. Lezioni di didattica multimediale, UTET, Torino 2004, p. VII
13
Ivi, p. VIII. Il corsivo è dell’autore.
14
Pier Cesare Rivoltella, Il cinema luogo di educazione, tra scuola ed extra-scuola, in Pierluigi Malavasi, Simonetta
Polenghi, Pier Cesare Rivoltella (a cura di), Cinema, pratiche formative, educazione, Vita e Pensiero, Milano 2005, p.
77. Il corsivo è dell’autore
15
Ivi, p. 78. Il corsivo è dell’autore
16
Ibidem. Il corsivo è dell’autore
7

Benché sarebbe senz’altro interessante indagare la didattica del film – pratica sempre più diffusa
nelle scuole e università italiane – in questa sede ci concentreremo solo sulla didattica con il film, o
educazione con il cinema. Allo stesso modo, dato che ci soffermeremo sul potenziale dei film di
finzione di fornire un supporto rilevante nell’insegnamento della storia, non tratteremo il cinema
come specchio della società17, ma come rappresentazione della storia.
Nell’attingere al mondo della settima arte per la propria causa il docente ha la possibilità di
rivolgersi a due grandi sfere dell’universo cinematografico: oltre alla già ampiamente citata fiction,
può essere senza dubbio sfruttato a proprio vantaggio anche il documentario.

Certo è, che fra le competenze più elementari, più essenziali, di cui dispongono generalmente
gli spettatori cinematografici vi è quella che permette di distinguere fra loro due forme di
discorso filmico, le quali si presentano fin dalle origini del cinema come nettamente
differenziate: da un lato il «documentario», o quello che si dovrebbe forse definire, con
espressione più larga, il cinema «informativo-educativo» […], dall’altro il film «a soggetto», il
film che racconta una storia.18

È indubbio che, per lo studio della storia (e non solo), venga spontaneo rivolgersi in primis al
“reale” del documentario, che ormai è riconosciuto come fonte sicura per l’insegnamento della
storia.

[C]on l’avvento della televisione, e con la formazione dei «supergeneri»


(informazione/educazione/intrattenimento) che, fondati e definiti originariamente dalla Bcc,
hanno influenzato tutta l’organizzazione dei programmi soprattutto in Europa, la distinzione tra
documentario e fiction è sembrata assumere un’ulteriore connotazione. Il documentario
diveniva la forma di comunicazione privilegiata di tutto il settore educational della televisione,
quella cui veniva delegata la comunicazione seria, e scientifica, «alta»; mentre la finzione
cinematografica veniva «naturalmente» a inserirsi nel campo dell’intrattenimento.19

L’errore di questo pensiero sta nel separare “educazione” e “intrattenimento”. Il documentario è


certamente un medium molto utilizzato e utilizzabile dall’insegnante, ma il film a soggetto può
esserlo altrettanto, e, forse, anche in misura superiore. Il “problema” del documentario è che viene
considerato dall’alunno come affine al libro di testo e, perciò, percepito come noioso e sgradevole,
anche perché formalmente, il documentario non ha come obiettivo principale quello di dilettare lo
spettatore.

17
Su questo, cfr. Pierre Sorlin, Introduzione a una sociologia del cinema, Edizioni ETS, Pisa 2017; Sigfried Kracauer, Da
Caligari a Hitler. Una storia psicologica del cinema tedesco a cura di Leonardo Quaresima, Lindau, Torino 2007
18
Peppino Ortoleva, Cinema e storia: scene dal passato, pp. 80-81
19
Ivi, pp. 84-85
8

Un film di informazione cerca il punto di vista migliore per esprimere l’evento, l’immagine più
chiara; si concentra completamente sulla scena e la persona che deve mostrare. Un film di
finzione ha bisogno di minor chiarezza e precisione, ma poiché si riferisce solo a se stesso,
deve avvincere il pubblico, facendolo partecipare attivamente, indovinare ciò che non viene
mostrato e provare simpatia o repulsione con quanto sta accadendo sullo schermo.20

Anche e soprattutto in quanto rispondente a logiche commerciali, il cinema storico di finzione


utilizza tutti gli stratagemmi a sua disposizione (a livello tecnico, registico, attoriale e di trama) per
fare in modo di catturare l’attenzione dello spettatore, appassionarlo alla storia che viene narrata
sullo schermo. Mescolando realtà e fiction, questi prodotti trasmettono un’immagine della storia che
è destinata a restare impressa nella mente dello spettatore:

Le pellicole di questo genere [storico, ndr] riescono a rendere visibile e concreto ciò che
altrimenti sarebbe soltanto immaginabile; grazie a esse, il passato può sembrare meno estraneo,
e si arricchisce di suggestioni che coinvolgono sia la sfera cognitiva, sia quella emotiva del
pubblico.21

Un film di finzione ha un potere di coinvolgimento maggiore su uno studente anche rispetto ad un


libro, favorendo al contempo le capacità mnemoniche del fruitore, che, oltre a leggere ed
immaginare un evento, ha la possibilità di assistervici con i propri occhi. Perciò, se correttamente
affiancato a strumenti educativi tradizionali, il cinema può essere un valido alleato nello studio della
storia, e può costituire una risorsa importante nel bagaglio di un docente.

È ovvio che la visione di una pellicola non deve sostituire i manuali, l’analisi delle fonti, l’opera
dell’insegnante e la fatica dell’apprendere. Però, è anche vero che, grazie al cinema, il passato
può sembrare meno estraneo e arricchirsi di emozioni e di suggestioni, pratiche educative
assolutamente da non sottovalutare.22

L’arma in più del fictional film è proprio la sua componente “romanzata”, in grado di generare
passione e partecipazione nel pubblico di riferimento. In questo è molto importante l’apporto dei
personaggi/attori:

I personaggi sono individui che recitano nei film. Non è necessario sottolineare il fatto che, nei
film «classici», c’è un piccolo gruppo di personaggi le cui avventure sono seguite per tutto il

20
Pierre Sorlin, La storia nei film. Interpretazioni del passato, p. 9
21
Andrea Sani, Il cinema storico, https://laricerca.loescher.it/il-cinema-
storico/#:~:text=Il%20film%20storico%2C%20se%20ben,e%20delle%20scene%20di%20massa. (consultato il
15/05/2022)
22
Ibidem
9

film; il cinema potrebbe usare molti altri trucchi ma raramente lo fa e possiamo essere certi che,
nei film più comuni realizzati in Occidente, allo spettatore saranno presentati uno o più eroi.23

Occorrerà soffermarci per un attimo su questo concetto:

Un buon film storico può – in modo paradossale, forse – avvicinare la storia alla vita, alla realtà,
alla vita quotidiana. Di che cosa si tratta? Della capacità del cinema di mostrare le grandi svolte
storiche non solamente attraverso i conflitti storici fra i grandi personaggi, come accade a teatro,
ma con le azioni quotidiane della gente semplice. […] Sembra che il cinema proprio per le sue
caratteristiche artistiche sia adatto a riflettere questo aspetto della vita. Il cinema ama scegliere
eroi semplici per fare capire, attraverso i loro destini, i rivolgimenti storici, in un modo
familiare, naturale, semplice e nello stesso tempo complesso, proprio come la gente è abituata a
viverli.24

Proprio nella grandiosa capacità del cinema di avvicinare la storia alla vita quotidiana, in questo
approccio naturale e familiare con cui presenta svolte storiche complesse, risiede la forza della
settima arte di parlare al discente. Uno studente che familiarizzi ed empatizzi con un certo
personaggio visto sullo schermo, sarà portato a interessarsi alla sua storia, a voler conoscere la sua
controparte reale. Lo stesso discorso si può fare parlando di un certo scenario storico. Tutto questo
genera una sete di sapere molto potente che, idealmente, darà il via ad una personale ricerca di
informazioni sull’argomento. Anche le incongruenze storiche, senz’altro presenti in opere di questo
tipo, possono essere sfruttate a vantaggio dell’educatore, in quanto potrebbero spingere lo studente
a controllare se effettivamente quanto visto corrisponda a verità, procedimento che favorisce lo
sviluppo di un pensiero critico.
Naturalmente, in questo processo il docente svolge un ruolo fondamentale:

Gli appartenenti a una generazione più giovane possono essere condotti a interrogarsi sul mondo
che li ha preceduti, con l’aiuto e la guida di una persona che, oltre a disporre di una sua
competenza e di un suo bagaglio professionale, quelli dell’insegnante, è anche membro di
un’altra generazione, e ha vissuto in parte nel corso stesso della propria esistenza quei
mutamenti di cui l’immagine è così efficace testimone.25

Con il procedere verso una didattica sempre più multimediale – ciò che Ortoleva chiama
“pluralismo comunicativo” – si assiste ad un cambiamento nella figura dell’educatore:

23
Pierre Sorlin, La storia nei film. Interpretazioni del passato, p. 43
24
Yvette Biro, Il film storico e i suoi aspetti moderni, in Gianfranco Miro Gori (a cura di), La storia al cinema.
Ricostruzione del passato, interpretazione del presente, pp. 21-22
25
Peppino Ortoleva, Cinema e storia: scene dal passato, p. XII
10

D’altra parte questa pluralità, per non trasformarsi in puro disordine, o rumore di fondo, richiede
un coordinamento, e una programmazione, per molti versi anche più rigorosi di quelli formulati
nella didattica tradizionale. Ne risulta in parte ridefinito il ruolo dell’insegnante, che da voce-
guida, portatore principale delle informazioni in dialogo semmai come libro di testo, si fa
soprattutto […] «mediatore», o meglio, e più precisamente coordinatore, quasi direttore
d’orchestra: assume la funzione di pianificare l’uso dei vari strumenti, di coordinare con la sua
parola e con diverse operazioni didattiche i messaggi, e di verificare i risultati.26

Inoltre,

All’interno di questa rete di media, l’insegnante e il ragazzo possono non solo essere spettatori
ma assumere un ruolo in parte più attivo: «leggere», «rileggere», scomporre il film, e soprattutto
accostarne di volta in volta i segmenti ritenuti significativi con le informazioni tratte da altre
fonti.27

Nella descrizione del necessario rinnovamento del ruolo del docente, la nozione di “mediatore”
viene utilizzata anche da Ottaviano:

Se una prospettiva di insegnamento puramente trasmissivo già da tempo è giudicata come


inadeguata, con l’avvento delle nuove tecnologie didattiche, che mettono in gioco non solo
saperi diversi ma anche e soprattutto nuovi stili di apprendimento, nuove risorse e nuove
modalità di conoscenza (basti pensare alla navigazione in rete), tale inadeguatezza si rivela
lampante. Così, si prefigurano come necessari e indispensabili atteggiamenti educativi nuovi e
nuove forme di acquisizione di tipo strategico: situazioni in cui agli insegnanti è richiesto,
appunto, di mettere in discussione il proprio fare scuola e di acquisire non tanto, o non solo,
nuove competenze, quanto piuttosto nuovi modelli e nuovi stili didattici. Più in dettaglio,
l’insegnante si va connotando come un facilitatore dell’apprendimento, un esperto del proprio
ambito disciplinare, della didattica, ma anche un operatore sociale e culturale, un tutor, un
regista dell’apprendimento, ecc. I termini sono tanti e diversi, ma nell’insieme indicano tutti lo
spostamento radicale del ruolo di docente: da trasmettitore del sapere egli diventa un mediatore
o intermediatore culturale.28

Dovendo dialogare con numerose nuove risorse, “all’insegnante è assegnato il ruolo non solo di
soggetto erogatore di contenuti, ma anche di coordinatore”29, con “il passaggio dalla figura del
formatore-dispencer a quella del formatore-tutor”30.

26
Ivi, pp. 172-173
27
Ivi, p. 177
28
Cristiana Ottaviano, Media, scuola e società. Insegnare nell’età della comunicazione, Carocci, Roma 2001, p. 151. Il
corsivo è dell’autrice
29
Gianfranco Bettetini, Un reticolo disciplinare, in Gianfranco Bettetini, Stefania Garassini, Barbara Garaspini,
Nicoletta Vittadini, I nuovi strumenti del comunicare, Bompiani, Milano 2001, p. 274
30
Pier Cesare Rivoltella, Il cinema luogo di educazione, tra scuola ed extra-scuola, in Pierluigi Malavasi, Simonetta
Polenghi, Pier Cesare Rivoltella (a cura di), Cinema, pratiche formative, educazione, Vita e Pensiero, Milano 2005, p.
82. Il corsivo è dell’autore
11

La figura del docente, quindi, non viene eclissata da questa moltitudine di media differenti, ma
semmai da essi affiancata e coadiuvata; essi diventano dei mezzi utili per produrre interesse e
coinvolgimento nella classe, oltre a rappresentare un terreno comune riconoscibile in cui coesistere
con lo studente. Un cambiamento radicale rispetto alla funzione di “depositario del sapere” che il
docente ha rivestito fino a poco tempo fa31:

[G]li insegnanti, volenti o nolenti, si ritrovano davanti allo schermo vicino agli allievi,
accomunati a loro dalla condizione di spettatori.32

In questo modo, docente e discente si pongono, per così dire, sullo stesso livello e, anzi, spesso è
proprio il primo che deve mettersi in pari con il secondo, accettando di imparare a conoscere lo
sfaccettato panorama multimediale, ambiente naturale e prediletto delle nuove generazioni:

La maggioranza dei bambini arriva a scuola già pienamente «ambientata» nel mondo mediatico,
di cui «conosce molto». Il media educator non è una persona che deve insegnare l’utilizzo dei
media come si insegna a leggere e scrivere. Piuttosto egli è chiamato a «mediare i media», nel
senso di svelarne i trucchi, stimolare il senso critico, smaliziare l’utilizzo, piegare la fruizione in
maniera creativa, rendere i mezzi strumenti e ambienti di conoscenza. L’insegnante/media
educator deve lavorare su conoscenze pregresse, non è «colui che sa» di fronte a una massa che
ignora33

Indagare oltre la nuova immagine del docente che si sta configurando in anni recenti non è
nell’obiettivo di questo lavoro, ma questo breve excursus ci serve per affermare l’importanza della
figura dell’insegnante. È soltanto per mezzo di una guida adeguata che l’utilizzo dei film storici
nella didattica, attraverso la convivenza necessaria con strumenti educativi tradizionali, può avere
esito positivo.
Per concludere, questa tesi si propone di indagare il fecondo rapporto tra cinema e storia34 da un
punto di vista diverso: il cinema, e in particolare il cinema di fiction, non come fonte di storia, ma
come insegnante di storia. L’obiettivo è stabilire se e in quale misura il cinema di finzione possa
trasmettere informazioni pertinenti sulla storia “reale” di un determinato periodo storico, e come
questo si possa intrecciare con strumenti di insegnamento tradizionali allo scopo di accrescere
nell’alunno il piacere dello studio.

31
Cfr. Mauro Doglio, Media e scuola. Insegnare nell’epoca della comunicazione, Lupetti, Milano 2000
32
Michele Marangi, Insegnare cinema. Lezioni di didattica multimediale, p. 43
33
Chiara Valmachino, Il media educator nella scuola italiana, in Cristiana Ottaviano (a cura di), Mediare i media. Ruolo
e competenze del media educator, Franco Angeli, Milano 2001, p. 70
34
Per quanto riguarda il rapporto tra cinema e storia, cfr. Marc Ferro, Cinema e storia. Linee per una ricerca, Feltrinelli,
Milano 1980
12

1.1 - Il cinema della corsa allo spazio

Il caso di studio proposto riguarda i prodotti d’intrattenimento che raccontano la storia della prima
era spaziale, la cosiddetta “corsa allo spazio”, che vede affrontarsi per più di un decennio Stati Uniti
e Unione Sovietica.
Nel nostro percorso analizzeremo sette opere di finzione (sei film e una serie tv) di genere storico
tentando di operare una connessione tra media diversi: libri di testo, articoli on-line, cinema di
fiction e cinema documentario. Si noti che i tre testi principali utilizzati come fonti per questa tesi
(Gli anni della luna di Paolo Magionami, La stoffa giusta di Tom Wolfe, Se il sole muore di Oriana
Fallaci) adottano tutti un modo di narrare la realtà molto discorsivo e accattivante, riuscendo ad
abbattere l’idea della monotonia legata allo studio della storia. Questa è esattamente la via che
intendiamo tracciare attraverso questo elaborato, e anche la scrittura dello stesso tenterà di seguire
questo pensiero.
La produzione cinematografica di opere di finzione di genere storico riguardanti la prima era
spaziale inizia negli anni Ottanta, con Uomini veri (The Right Stuff, Philip Kaufman, 1983), film
vincitore di quattro premi Oscar. La pellicola di Kaufman fa da apripista ad un filone che si
infittisce nel secondo decennio del nuovo millennio, con produzioni sia russe che americane, che ci
permettono di assistere all’epoca d’oro dell’esplorazione spaziale attraverso la macchina da presa. Il
fulcro di questo lavoro sarà capire quante e quali informazioni utili allo studio della storia si
possano apprendere dalla visione di un prodotto non ideato con questo obiettivo, ma unicamente
destinato all’intrattenimento e pensato per rispondere a rigorose logiche di mercato. In particolare,
cercheremo di delineare la storia della prima era spaziale prendendo il cinema di finzione (e affini)
come punto di partenza. Nel corso del nostro discorso, si tenterà di effettuare un’analisi più
dettagliata di particolari momenti delle opere trattate, per evidenziare come le scelte tecniche e
registiche possano accompagnare lo spettatore verso una comprensione più profonda delle vicende
mostrate.
Una battuta estrapolata dalla serie tv The Right Stuff: Uomini veri (The Right Stuff, Mark
Lafferty, 2020) può aiutarci ad entrare meglio nella logica che sta dietro a questa tesi.
Pronunciata dal giornalista di Life Magazine Loudon Wainwright (interpretato da Josh
Cooke), questa frase riassume perfettamente l’idea alla base di questo elaborato:

Fact by way of fiction can bring us closer to the truth itself.


13

2 - La nascita dell’era spaziale

Il primo satellite artificiale della Terra è stato lanciato con successo e sta ora girando intorno al
globo, su una traiettoria ellittica alla quota di circa 900 km. L’oggetto ha la forma di una sfera,
con un diametro di circa 58 cm; pesa 83,6 kg e porta con sé un apparecchio radiotrasmittente. Il
suo nome è Sputnik, che in russo significa “compagno di viaggio”.35

Con questo comunicato, il 4 ottobre 1957, Radio Mosca dà inizio all’era spaziale. La notizia è
straordinaria, tutto il mondo si aspettava che sarebbero stati gli Stati Uniti a compiere il primo passo
verso la nuova era, ma lo Sputnik sveglia l’America dal torpore come un brutto incubo e costringe
la NASA a farsi delle domande sul proprio operato e sul perché siano stati bruciati sul tempo dai
sovietici. Le cause sono molteplici. Prima di tutto, il ritardo statunitense è dovuto alle faide presenti
tra Marina ed esercito su chi dovesse costruire il razzo per immettere il primo satellite nello spazio.
In secondo luogo, gli americani furono traditi dalla loro eccessiva pubblicità. Il 29 luglio 1955 il
presidente Dwight Eisenhower aveva fatto circolare un proclama attraverso il proprio portavoce:

Il Presidente ha approvato il piano nazionale per lanciare un piccolo satellite automatico in


orbita circolare attorno alla terra come contributo degli Stati Uniti all’Anno Geofisico
Internazionale, tra il luglio 1957 e il dicembre 195836

I sovietici quindi ne approfittano per battere sul tempo i rivali e aggiudicarsi un importantissimo
primato. Questa sarà una situazione che si ripresenterà spesso nella corsa allo spazio. La supremazia
sovietica è tale anche grazie al fatto che il programma spaziale americano viene sbandierato ai
quattro venti in pompa magna, a differenza di quello russo, avvolto dalla massima segretezza, in
quello che diviene noto come “stile URSS”. Gli USA, infatti, fanno tutto alla luce del giorno,
condividendo con l’opinione pubblica i successi, ma anche i fallimenti, numerosissimi soprattutto
nei primi tempi. La NASA tenta di regalare un successo alla propria nazione, ma i test dei missili
continuano a dare esito negativo. Tra esplosioni e malfunzionamenti reiterati, il programma spaziale
americano si merita l’appellativo di “Flopnik”, che circola su tutti i giornali della nazione.

35
Paolo Magionami, Gli anni della Luna. 1950-1972: l’epoca d’oro della corsa allo spazio, Springer Milano, 2009, pp. 1-
2
36
Ivi, p. 5
14

Come ricordano R. Yates e M. Russel in Razzi missili e satelliti (Space Rockets and Missiles,
1960):

Quando si parla dei fallimenti americani in queste occasioni si deve tener presente, nel
paragonare i successi delle nostre attività spaziali con quelle dell’Unione Sovietica, che non vi è
un mezzo che consenta di sapere quanti sono i fallimenti subiti nell’altro campo. Al popolo
sovietico e all’opinione pubblica mondiale è permesso conoscere soltanto le imprese russe che
riescono, mentre la stampa libera degli Stati Uniti riporta le notizie sia dei successi che dei
fallimenti americani.37

Il vanto degli Stati Uniti durante tutta la corsa allo spazio è proprio il fatto di documentare tutto ciò
che accade all’interno del programma spaziale. La decisione di John F. Kennedy di trasmettere in
diretta televisiva il lancio del primo americano nello spazio ha l’intento di rimarcare la differenza
con il volo di Gagarin, di cui non si è saputo assolutamente nulla fino al momento dell’arrivo della
capsula nello spazio, cioè fino alla certificazione del successo della missione. Naturalmente, avere
gli occhi del mondo addosso genera una certa pressione sugli ingegneri della NASA, come vediamo
in una scena del settimo episodio della serie tv The Right Stuff: Uomini veri che può essere utile per
comprendere meglio tutta la situazione. Un giovane Glynn Lunney (Jackson Pace), ingegnere della

37
Ivi, p. 36
15

NASA e direttore di volo dei programmi Gemini e Apollo, esprime le sue preoccupazioni riguardo
alla decisione di Kennedy al suo superiore Christopher Kraft (Eric Ladin):

Lunney: You think this is the right choice?


Kraft: It’s the only choice. We live in an open society with a free press. We have to walk that
walk now more than ever. This fight with the Soviets is about more than just science and
bombs. It’s about…
Lunney (lo interrompe): A war of ideas. Sure. Here’s an idea for you. We have no clue how
many cosmonauts they killed before they sent Gagarin back alive.

Quello della “libertà” è un motivo ricorrente in tutto il conflitto. Alan Shepard sarà il primo “uomo
libero” ad andare nello spazio, John Glenn sarà il primo uomo libero ad orbitare la terra, e così via.
La propaganda di parte statunitense gioca molto su questo punto, anche per nascondere il ritardo
tecnologico nei confronti degli acerrimi rivali. La supremazia sovietica, infatti, non risiede solo
nella capacità di anticipare gli avversari, ma anche nella tecnologia e nella potenza dei missili. Il
primo satellite americano, chiamato Explorer 1, viene lanciato il 31 gennaio 1958, ma è lungo
appena due metri per quindici centimetri di diametro e pesa quasi quattordici chili. Niente a che
vedere con lo Sputnik, che, come abbiamo visto, ha un diametro di più di mezzo metro e pesa quasi
ottantacinque chilogrammi. Gli Stati Uniti in quel momento, per quanto ci provino, non possono
stare al passo dei sovietici.

2.1 - Le ragioni di una disputa

La prima era spaziale ha aperto le porte della contemporaneità, portando novità fondamentali per il
mondo moderno:

La Luna, e più in generale, l’impresa lunare ha prodotto enormi ricadute tecnologiche, non
ultimo indicando la via alla miniaturizzazione dell’elettronica. Geologia, astronomia, biologia e
fisiologia umana hanno beneficiato dei risultati delle esplorazioni spaziali e, da un punto di vista
puramente tecnico, dalla corsa allo spazio sono nati quasi 200 mila brevetti.38

38
Ivi, p. 207
16

Anche per giustificare le cifre stratosferiche spese dagli Stati Uniti per andare sulla Luna, negli anni
Settanta

La NASA si affrettò a stilare un documento nel quale si evidenziavano 2570 “cose utili” per
l’uomo: dalle previsioni meteorologiche alla vernice spalmata sui tegami per non far attaccare le
uova; dalle telecomunicazioni, alla scialuppa di salvataggio che non si ribalta qualunque sia la
condizione del mare; dagli adesivi di “incredibile tenacia”, ai sistemi di guida automatica per gli
aerei. Dunque, alla fine, andar sulla Luna è stato un affare.39

La corsa allo spazio è stata, senza dubbio, un’epoca d’oro per scienza e tecnologia, nonostante
questo non fosse lo scopo principale delle missioni spaziali delle due superpotenze. La realtà,
infatti, è quella di una disputa che con le due discipline ha ben poco a che fare. Come afferma il
noto astrofisico americano Neil deGrasse Tyson nel documentario La grande corsa allo spazio
(Fight for space, Paul J. Hildebrandt, 2016)40:

Se il progetto avesse avuto come scopo l’esplorazione, la voglia di spingersi oltre le frontiere
della scienza, se fosse stato questo il vero obiettivo ci sarebbe stato uno scienziato nel team
della prima missione sulla luna. Ma no, non c’erano scienziati su Apollo 11, né su Apollo 12 o
Apollo 13, sul 14, sul 15 o sul 16. Il primo scienziato era presente su Apollo 17, che è stata
l’ultima missione sulla Luna.

E ancora:

La mia esperienza mi dice che ci sono solo due, tre motivazioni per cui siamo andati nello
spazio, e una di queste è la guerra. L’altra sono i soldi. […] Non ho mai visto qualcuno che lo
faceva solo per esplorare.

L’equipaggio delle missioni cosmiche era composto da piloti militari e i programmi spaziali erano
importanti per ragioni missilistiche. Avere la capacità di mettere un satellite in orbita, infatti,
significava disporre di un razzo abbastanza potente da lanciare un missile intercontinentale. In
poche parole, c’era la convinzione che il vincitore della corsa allo spazio avrebbe avuto un
vantaggio strategico fondamentale sull’avversario. Lo afferma il vicepresidente Lyndon Johnson
(Donald Muffat) nel film Uomini veri:

Whoever controls the high ground of space, controls the world. The Roman Empire controlled
the world because it could build roads. Later, the British Empire was dominant because they had
ships. In the Air Stage, we were powerful because we had the airplane. And now the
Communists have established a foothold in outer space. Pretty soon they'll have damned space
platforms so they can drop nuclear bombs on us, like rocks from a highway overpass.

39
Ibidem
40
Il documentario è visibile su YouTube all’indirizzo https://www.youtube.com/watch?v=Q9OyXM5vnyw (consultato il
14/05/2022)
17

Un concetto simile viene espresso anche nel film Il diritto di contare (Hidden figures, Theodore
Melfi, 2016) dal personaggio fittizio Al Harrison, interpretato da Kevin Costner: «Whoever gets
there first will make the rules, that’s been true of every civilization». Nel momento della sua
nascita, l’era spaziale altro non è che un ulteriore fronte sul quale si combatte la Guerra Fredda,
forse il più importante:

Durante la guerra fredda conflitti di portata limitata vennero ad assumere […] il valore di
«prove della sorte» cioè di fatidiche premonizioni di ciò che sarebbe avvenuto inevitabilmente
se fosse scoppiata una guerra nucleare totale. Quello fu, esattamente, il valore psicologico
attribuito allo Sputnik lanciato dai sovietici nell’ottobre del 1957. La corsa spaziale divenne una
prova e un presagio dell’intero conflitto fra le due superpotenze. I sondaggi di opinione
rivelarono che la gente in tutto il mondo guardava alla gara di lancio dei satelliti come a una
contesa preliminare atta a comprovare la potenza distruttiva dell’uno e dell’altro contendente.
La capacità di lanciare Sputnik lasciava intravedere la capacità di lanciare missili a testata
nucleare. E non bastava: drammatizzava l’intera capacità tecnologica e intellettuale delle due
nazioni e la forza di volontà dei popoli.41

41
Tom Wolfe, La stoffa giusta, traduzione di Pier Francesco Paolini, Frassinelli, Milano, 1984, p. 101
18

3 – Vostok e Mercury, i primi programmi spaziali con equipaggio umano

Nel volger di due primavere, dall’aprile del 1961 al giugno del 1963, lo spazio diventa teatro di
primati dove si affrontano a suon di record cosmonauti sovietici e astronauti statunitensi,
inquadrati, rispettivamente, nei programmi Vostok e Mercury.42

Nei mesi successivi al lancio dello Sputnik la supremazia sovietica si fa ancora più evidente. Dalla
base di Baikonur partono le prime capsule con animali a bordo. Il passo successivo è mandare un
essere umano nello spazio.

Con un documento datato 22 maggio 1959 prese ufficialmente avvio il progetto Vostok
(Oriente), articolato in quattro punti: ricerca e sviluppo per voli spaziali con o senza uomini a
bordo, satelliti da ricognizione, navette spaziali con uomini a bordo, fotoricognizione spaziale
ad alta definizione.43

3.1 – Gagarin: Primo nello spazio

La prima astronave al mondo con un uomo a bordo è la Vostok, lanciata il 12 aprile dall’Unione
Sovietica e inserita in un’orbita circumterrestre. Il primo cosmonauta è il maggiore Yuri
Gagarin.44

Questo comunicato di Radio Mosca del 1961 certifica un altro grandioso successo dell’URSS.
Leggere queste righe deve aver confuso molte persone, compresa la famiglia di Gagarin, come
suggerisce una scena del film Gagarin: Primo nello spazio (Gagarin. Pjervyi v kosmosje, Pavel
Parkhomenko, 2013). Alexej Gagarin, padre di Yuri, è in barca con un uomo, che pare essere un suo
compagno di lavoro. «Pare che un maggiore Gagarin sia volato sulla Luna […] È tuo parente?» dice
l’uomo. «Maggiore? Il mio è solo tenente», risponde Alexej. Il giovane Yuri Gagarin, infatti, aveva
il grado di tenente quando partì nella capsula Vostok alla volta delle stelle. Fu Nikita Serghievich
Krushev, il Segretario Generale del Partito Comunista in persona, a volere che egli venisse
promosso non di uno, ma di ben due gradi, come viene mostrato in una scena del film. Quando
riceve la notizia che Gagarin è entrato in orbita, Krushev (Vladmir Chuprikov) ordina ai suoi

42
Paolo Magionami, Gli anni della Luna. 1950-1972: l’epoca d’oro della corsa allo spazio, p. 72
43
Ivi, p. 73
44
Ivi, p. 62
19

collaboratori di metterlo in contatto con il maresciallo Rodion Malinovskij, ministro della difesa
dell’Unione Sovietica:

Krushev: Quanto ha intenzione di far restare tenente il suo primo cosmonauta?


Malinovskij: Lo faremo capitano, Nikita Serghievic.
Krushev: Solamente… capitano? Dia immediatamente l’ordine di promuoverlo al grado di
maggiore, d’accordo?
Malinovskij: Ma non possiamo fargli saltare un grado! […] Ci sono migliaia di capitani
nell’esercito che si offenderebbero!
Krushev sospira e alza gli occhi, poi si siede
Krushev: Rodion… Si rende conto di quello che sta facendo questo ragazzo? È interplanetario.
Di me e di lei non si ricorderà nessuno, ma quest’evento resterà nella storia.
Malinovskij: Capisco, Nikita Serghievic.
Krushev: Così mi piace.

Yuri Alexejevich Gagarin nasce il 19 marzo 1934 a Klushino, un villaggio nella regione di
Smolensk. Il padre è un falegname e la madre una domestica. Dopo l’occupazione tedesca durante
la Seconda Guerra Mondiale, la famiglia, composta da altri tre figli oltre a Yuri, si trasferisce a
Gzhatsk. Il piccolo Yuri è un asso della matematica e vuole diventare un meccanico. Nel 1955
esplode in lui un’incontenibile passione per il volo, così comincia a frequentare una scuola serale di
volo. Nel 1957 diviene un eccellente pilota collaudatore e viene selezionato dagli uomini del
governo per far parte del primo folto gruppo di candidati a diventare cosmonauti.

Viene spedito a Mosca, dove lo sottopongono a prove estremamente selettive: test attitudinali,
esercizi, esami psicofisici, problemi di matematica da risolvere. La seconda selezione è ancora
più dura della prima e dei 2200 candidati iniziali ne vengono scelti alla fine solo venti.45

Gagarin: Primo nello spazio è una biografia del prima cosmonauta sovietico. È basato, infatti,
sull’autobiografia di Yuri Gagarin La via del cosmo, del 1962. Il lungometraggio parte dalle pagine
finali del libro, che narrano i momenti precedenti al lancio. Yuri, interpretato da Yaroslav Zhalnin,
rivive tutta la sua vita mentre sta per compiere la missione che lo consegnerà alla storia. Tramite
una serie di flashback a incastro, vediamo i momenti che hanno segnato l’esistenza del giovane
cosmonauta: la fanciullezza nella fattoria di famiglia durante l’occupazione tedesca, il matrimonio
con Valentina e la prima figlia, l’ingresso nel gruppo dei primi venti cosmonauti sovietici e il duro
addestramento preparatorio alla missione.
Il primo biopic dedicato a Yuri Gagarin risente senza dubbio dell’influenza dell’autobiografia,
pesantemente ritoccata dalla censura dell’URSS per renderla un importante mezzo di propaganda

45
Ivi, p. 218
20

filosovietica. Sono numerosi, infatti, i richiami alla competizione con gli Stati Uniti e alla minaccia
capitalista. Il film non arriva a questi livelli, ma “non è esente da una massiccia dose di retorica […]
di stampo quasi nazionalista”46, in particolare nel rappresentare la figura di Gagarin. Yuri ci viene
presentato come un giovane uomo apparentemente privo di difetti, “il ritratto di un perfetto figlio
dell’ideologia sovietica”47. Un ragazzo solare, sempre sorridente, giusto e moralmente impeccabile,
che ha piena fiducia nel programma spaziale sovietico; un soldato che supera egregiamente e senza
un attimo di esitazione tutte le prove a cui viene sottoposto; un sognatore che insegue il desiderio di
essere il primo a raggiungere il cosmo, ma gioisce ugualmente per i successi dei propri compagni.
In una scena del film, in cui il gruppo dei primi venti cosmonauti è nel dormitorio, assistiamo a
questo dialogo tra Yuri e colui che sarebbe poi stato la riserva della riserva di Gagarin, Grigory
Nelyubov:

Nelyubov: Vorresti andare tu per primo [nello spazio, ndr] ma saresti contento se ci andasse un
altro?
Gagarin (sorridendo): Sì, è così, Grish.
Nelyubov: Ma non puoi voler entrambe le cose.
Gagarin: Che vuoi, io sono fatto così.

Questa situazione è presente anche in un passo de La via del cosmo:

Pur trovandoci in emulazione tra noi, non si può dire che fossimo dei concorrenti ma piuttosto
dei compagni di squadra tesi a raggiungere uno stesso scopo. Sapevamo bene che soltanto uno
di noi sarebbe stato scelto per il primo volo, ma sapevamo anche che gli altri avrebbero fatto in
seguito cose più importanti del primo, continuando e sviluppando quello che lui aveva
cominciato. Eravamo uniti come i quattro soldati sovietici usciti vincitori dagli elementi
scatenati del Pacifico.48

È evidente la volontà dell’URSS di trasmettere una certa immagine dei propri uomini più valorosi.
Nonostante tutto, il film ha il merito di raccontare i fatti così come sono andati, ad esempio
mostrando l’espulsione di Gagarin dalla capsula prima dell’atterraggio (nella versione fornita dalle
autorità sovietiche nei giorni successivi al lancio, il pilota aveva toccato terra regolarmente
all’interno della Vostok) e chiudendo il film con una menzione, tramite delle didascalie su sfondo
nero, alle difficoltà della sua vita dopo la missione:

46
Gagarin - Primo nello spazio, recensione di Marco Chiani,
https://www.mymovies.it/film/2013/gagarinprimonellospazio/ (consultato il 14/05/2022)
47
Ibidem
48
J. Gagarin, La via del cosmo. Sputnik, Lunik, Vostok: l’assalto sovietico al cielo a cura di Davide Rossi, PGRECO
EDIZIONI Milano, 2013, p. 144
21

Il volo nello spazio divise il destino di Gagarin in due. Prima della missione sentiva il bisogno
di realizzare il suo sogno e di provare un momento di libertà assoluta. Dopo il suo ritorno, a
causa delle fortissime pressioni e dell’affetto egoistico di milioni di persone, non poté più essere
padrone della propria vita. […] Fino alla fine dei suoi giorni, Gagarin sognò di tornare a volare
tra le stelle, ma il Partito e il Governo dell’URSS trovarono ogni volta una scusa per rinviare il
suo ritorno nello Spazio per paura di perdere il simbolo vivente del Socialismo, il Cosmonauta
che tutto il mondo ammirava.

La scelta del primo cosmonauta era caduta su di lui anche perché rispecchiava alla perfezione
l’immagine dell’URSS che il governo sovietico voleva trasmettere al mondo. Un volto pulito e ben
rasato, una faccia da bravo ragazzo, proprio come voleva Krushev: «A Krushev la foto di Gagarin è
piaciuta molto», sentiamo nel film. Per di più, come abbiamo visto, Yuri era cresciuto nella povertà.
Pare che sia questa una delle ragioni che ha spinto l’URSS a scegliere lui:

Sulla decisione pesò non solo l’aspetto morale del candidato, Gagarin era figlio di contadini,
mentre Titov era figlio di un insegnante dunque di un intellettuale, ma anche quello più
propriamente professionale: si riteneva che Titov fosse più adatto a sopportare una missione di
lunga durata dato il suo carattere risoluto, al contrario di Gagarin meno dotato del rivale. E così
fu.49

German Titov sarà, infatti, il pilota della Vostok 2 il 6 agosto 1961, che rimarrà in orbita per più di
un giorno, ben altra cosa rispetto al volo del compagno, durato appena centootto minuti.
Naturalmente, fosse stato per Titov, sarebbe partito lui per primo. Lo capiamo da una conversazione
tra i primi due cosmonauti nel film, in cui assistiamo ad un’altra manifestazione del carattere
compassionevole di Gagarin:

Gagarin: German, non te la prendere. Tu sarai il prossimo, e il tuo programma sarà cento volte
migliore.
Titov: Davvero? Vuoi fare a cambio?
Gagarin: Cosa?
Titov: Migliaia andranno lassù, ma la gente ricorderà il primo.

Con buona pace di Titov, Gagarin possedeva tutti i requisiti per essere il primo, era l’uomo perfetto
per portare il Socialismo in ogni angolo della Terra. Nei tempi successivi al volo, infatti, Gagarin
diviene una celebrità, un personaggio pubblico molto amato. I potenti del mondo fanno a gara per
incontrarlo, viene nominato ambasciatore di pace tra USA e URSS e viaggia per il globo riuscendo
“a fare una cosa piuttosto complicata in quest’epoca: avvicinare gli uomini”50.

49
Paolo Magionami, Gli anni della Luna. 1950-1972: l’epoca d’oro della corsa allo spazio, pp. 74-75
50
Ivi, p. 66
22

Gagarin esprime più volte il desiderio di tornare nello spazio nella sua autobiografia, ma questo non
accade più. Yuri Gagarin muore nel 1968 a causa di un incidente su un volo di prova di un caccia
sovietico.

3.2 – La stoffa giusta?

«Gli astronauti… mia cara, se lo metta in testa: gli astronauti non sono che gladiatori: i
gladiatori dell’era spaziale. E si mandano i gladiatori a morire.»51

Nel 1958, la NASA (National Aeronautics and Space Administration), fresca di costituzione,
comincia a progettare la capsula Mercury (il messaggero alato degli dèi), che sarebbe stata in grado
di portare un uomo nello spazio esterno. Nel febbraio del 1959 comincia la ricerca dei primi
astronauti americani. La lista di possibili candidati conta cinquecentootto nomi, tutti provenienti
dall’aviazione militare; uomini che, secondo il racconto che ne fa Oriana Fallaci in Se il sole muore,

dovevano essere laureati con il massimo dei voti in aeronautica, in coraggio, freddezza,
buonsenso, salute […] Chiaro quindi che gli uomini andavan cercati tra i collaudatori di aerei:
gente usa a volare, a conoscere bene i motori, a prender con calma decisioni improvvise, a
dimostrare riflessi immediati.52

La realtà dietro a questa decisione non è così semplice. I piloti collaudatori figuravano, certamente,
tra i possibili candidati, ma non erano gli unici profili che la NASA aveva considerato, come
leggiamo in un tratto del romanzo di Tom Wolfe La stoffa giusta:

[F]ra i requisiti dell’astronauta non era neppure specificato che dovesse essere un pilota. […]
L’imminente bando di concorso parlava, sì, di piloti collaudatori, ma l’invito era rivolto anche a
sommergibilisti, alpinisti, paracadutisti, esploratori polari, sommozzatori, reduci di guerra o
anche semplici veterani della scuola di guerra, nonché uomini che si fossero già assoggettati agli
esperimenti di accelerazione e pressione atmosferica condotti dall’aeronautica e dalla marina.
Non doveva fare nulla il cosiddetto astronauta: bastava che riuscisse a resistere.53

Questa situazione è mostrata nel film tratto dal libro Uomini Veri. Durante una riunione tra le
personalità più importanti d’America – tra le quali il presidente Eisenhower e il vicepresidente
Lyndon Johnson – i reclutatori della NASA (Jeff Goldblum ed Harry Shearer) proiettano delle
immagini ritraenti le figure proposte per diventare aspiranti astronauti. Sullo schermo si susseguono

51
Oriana Fallaci, Se il sole muore, BUR Biblioteca Univ. Rizzoli, MIilano, 2014, p. 76
52
Ivi, p. 101
53
Tom Wolfe, La stoffa giusta, traduzione di Pier Francesco Paolini, p. 62
23

i profili più disparati: surfisti, piloti di auto da corsa, equilibristi, atleti circensi, fino a quando
Eisenhower sbotta «No, no, no, i want test pilots.» A quel punto i presenti si indignano, i piloti
collaudatori hanno la fama di tipi intrattabili, «You can’t deal with them». Anche Wernher Von
Braun, uno dei principali artefici del programma spaziale americano, si trova in disaccordo. L’idea
di avere a che fare con dei piloti lo terrorizza: «Mr. President, i’m sure we can do better with
another type of man… Any other type of man! A more manageable type, perhaps.» Ma Eisenhower
aveva ormai deciso. Gli aspiranti astronauti d’America andavano ricercati tra i piloti collaudatori in
servizio militare, “sebbene fossero piuttosto sovraqualificati per quel compito”54. La decisione del
presidente, nella realtà, si basa sul fatto che, provenendo dalla branca militare, essi potevano essere
convocati immediatamente e le loro caratteristiche erano già note. Per entrare a far parte del
programma, infatti, si dovevano possedere alcuni requisiti:

Si richiedeva che non fossero più alti di un metro e settantacinque, che non avessero più di 39
anni, che possedessero il brevetto di piloti collaudatori con all’attivo almeno millecinquecento
ore di volo e un diploma di scuole superiori o altro equivalente.55

Questo riduce il numero di candidati da cinquecentoquaranta a centodieci. Tramite altre valutazioni


il numero scende ulteriormente, fino ad arrivare a trentadue. Su questi trentadue candidati vengono
eseguiti i test clinici più bizzarri mai visti presso la clinica Lovelace e, grazie a questi test, la NASA
sceglie i Mercury 7, i sette futuri astronauti americani: Alan B. Shepard, John H. Glenn, Donald K.
Slayton, Walter M. Schirra, Virgil I. Grissom, Malcom S. Carpenter e Leroy G. Cooper. Il governo
statunitense si affretta ad organizzare una conferenza stampa con “i primi sette”, alla quale
partecipa un numero incredibile di giornalisti. Intorno all’evento si genera un entusiasmo fuori dal
comune. Per la stampa e l’opinione pubblica i nuovi astronauti sono già degli eroi, pur non avendo
fatto ancora assolutamente nulla. L’evento sembra far dimenticare al popolo statunitense di essere
terribilmente indietro rispetto ai russi nella corsa allo spazio. Ma quel che è certo è che la risonanza
mediatica della vicenda è senza confini. Questo fa capire il ruolo decisivo della propaganda nella
corsa allo spazio. Sembrava quasi che il vincitore non sarebbe stato decretato attraverso
l’ottenimento di primati spaziali, ma attraverso il pensiero dell’opinione pubblica mondiale.

54
Ibidem
55
Ivi, p. 63
24

3.3 - Uomini Veri

Il monumentale lungometraggio di Philip Kaufmann Uomini veri, della durata di


centonovantaquattro minuti, trasporta passo per passo sul grande schermo il libro di Tom Wolfe,
dall’infrazione del muro del suono ad opera di Chuck Yeager, alle missioni spaziali dei Mercury 7.
La trama si concentra su quattro figure: Alan Shepard (Scott Glenn), John Glenn (Ed Harris), Gus
Grissom (Fred Ward) e Gordon Cooper (Dennis Quaid). Il film trae dal libro la spiccata nota
comica, acquisendo un tono leggero e scorrevole. Potendo contare su un cast di tutto rispetto, si
configura come un prodotto collettivo, non ha un vero e proprio protagonista, ma è distribuito
equamente sui quattro personaggi citati precedentemente, a cui si aggiunge Chuck Yeager (Sam
Shepard), molto presente nella fase iniziale della pellicola. Dopo la parentesi dedicata al primo
uomo in grado di sfondare la barriera del suono, assistiamo agli assurdi test presso la clinica
Lovelace, che stupiscono gli astronauti per la loro estrema originalità; essi non erano abituati ad un
trattamento del genere.

Un fastidioso pensiero cominciava a farsi strada nelle loro menti: nella gara per diventare
astronauti, la stoffa del pilota non contava proprio niente. Quelli della NASA cercavano un certo
tipo di animale che avesse i riflessi condizionati al modo giusto. Non si sarebbe vinta in cielo,
quella gara. La si sarebbe vinta, semmai, in laboratorio, nel regno delle provette e dei tubi di
gomma.56

La scena della conferenza stampa di presentazione degli astronauti restituisce tutta l’esaltazione del
pubblico di fronte ai novelli eroi americani. Ci viene dato un primo saggio della personalità di
Glenn, il più celebre dei sette fra i non addetti ai lavori per avere, tra le altre cose, partecipato al
noto programma televisivo americano Name that tune. A differenza dei suoi compagni, visibilmente
impacciati e non abituati a parlare in pubblico, John dimostra subito di sapersi destreggiare
abilmente tra i flash e le domande dei giornalisti, che, dal canto loro, pendono dalle labbra dei
piloti, accogliendo ogni risposta, anche la più scontata, con applausi e boati di gioia e approvazione.
Alla domanda «Chi di voi sarà il primo?» tutti tirano su la mano, e Glenn ne alza due, donando alla
storia una delle immagini più celebri della prima era spaziale.

56
Tom Wolfe, La stoffa giusta, traduzione di Pier Francesco Paolini, p. 78
25

Da sinistra a destra, seduti: Fred Ward (Gus Grissom), Dennis Quaid (Gordon Cooper), Scott Paulin (Deke Slayton), Ed Harris (John
Glenn), Charles Frank (Scott Carpenter), Scott Glenn (Alan Shepard), Lance Henriksen (Walter Schirra).
I Sette del Mercury rispondono alla domanda "Which one of you will be first into space?"
Da una scena di Uomini veri (The Right Stuff, Philip Kaufman, 1983)

Il racconto prosegue mostrando l’accordo con la celebre rivista americana Life, che si assicura
l’esclusiva delle storie dei Sette del Mercury, destinando ai fortunati astronauti la cifra di
cinquecentomila dollari per tre anni. Si tratta di circa venticinquemila dollari l’anno a testa, una
cifra enorme a quei tempi per un pilota militare, che per il suo lavoro percepiva tra i settemila e gli
ottomila dollari l’anno. Anche in questa occasione, si trova lo spazio per un siparietto comico. Leo
DeOrsay, agente degli astronauti, si rivolge a Grissom con il nome di Virgil. Quest’ultimo, un po’
innervosito, gli dice di chiamarsi Gus, nessuno lo chiama «by that other name». A DeOrsey sembra
un nome non adatto ad un astronauta, quindi tenta con il secondo nome. «Ivan», risponde Gus. In
quel periodo storico non era proprio il caso che uno degli uomini più famosi d’America rispondesse
ad uno dei nomi più diffusi in Russia, quindi DeOrsay, rivolgendosi a un suo collaboratore, dice:
«Well, maybe… Gus isn’t so bad».
Di lì a poco, un pensiero comincia ad aleggiare insistentemente nella testa dei sette. Come era
successo nella clinica, si rendono conto che essere piloti non è un requisito necessario per andare
nello spazio. Gli ingegneri NASA non hanno alcuna intenzione di affidare a loro il controllo della
capsula.
26

Gli astronauti avrebbero avuto ben poco da fare, durante un volo Mercury, tranne sopportare la
tensione psicologica […] La parte difficile, rischiosa, drammatica e pionieristica del volo
spaziale, secondo gli ingegneri, era quella tecnologica.57

Come dice lo stesso Von Braun ad un giornalista in una scena del film «Since we have developed a
fully automated vehicle, all we seek from the occupants of the capsule is data». E aggiunge «The
so-called astronaut would merely be a redundant component». Il tutto viene rappresentato in una
sequenza precedente. La macchina da presa, tramite un movimento dal basso verso l’alto, inquadra
Grissom che pedala su una cyclette, con alcuni adesivi attaccati sul torace. Nell’inquadratura
successiva vediamo allo stesso modo Glenn, poi Shepard. Nell’ultima inquadratura, attraverso il
medesimo movimento di macchina, vediamo uno scimpanzé che pedala sulla stessa cyclette, con gli
stessi adesivi sul petto. Il significato delle immagini è evidente: anche una scimmia può fare il
lavoro di un astronauta.

Da una scena di Uomini veri (The Right Stuff, Philip Kaufman, 1983)

Per i sette compagni è troppo. Non possono permettere che un animale faccia il lavoro di un uomo,
la Mercury ha bisogno di un pilota, non di una cavia da laboratorio. Perciò fanno la voce grossa con
gli ingegneri NASA, chiedendo di avere un finestrino e una botola esplosiva, due cose sempre
presenti sugli aerei a reazione a cui essi erano abituati. Inoltre, esigono che ci sia la possibilità di un
passaggio al controllo manuale della “navicella spaziale”: «That is a spacecraft sir. We do not refer
to it as a capsule», dice Shepard, ammonendo un ingegnere che aveva osato chiamarla “capsula”.

57
Tom Wolfe, La stoffa giusta, traduzione di Pier Francesco Paolini, p. 143
27

I ragazzi erano in grado di far valere alcuni validi argomenti a tale riguardo. Anche se
l’astronauta era una componente ausiliaria, un osservatore, un addetto alle riparazioni, doveva
però essere in grado di scavalcare qualsiasi sistema automatico del veicolo Mercury
intervenendo manualmente, se non altro per correggere eventuali cattivi funzionamenti.58

I piloti riescono ad ottenere quello che vogliono, ma questo non cambia il corso degli eventi: prima
che sia un uomo a volare a bordo della capsula Mercury, la NASA manda su Ham, uno degli
scimpanzé ammaestrati.

Il più famoso scimpanzé spaziale, Ham (prosciutto), prende la via delle stelle il 31 gennaio
1961. Appositamente addestrato, Ham doveva premere ogni 20 secondi, con la mano destra, una
leva che accendeva una spia rossa. Nel contempo con la sinistra doveva agire su un’altra leva
per spegnere una spia blu che si accendeva ogni 2 minuti. A ogni errore una scarica elettrica lo
ammoniva di stare più attento e una spia bianca, di una serie lasciata accesa per tranquillizzare
l’animale, si spegneva.59

Il pensiero nefasto che albergava nella mente dei sette è realtà.

Ormai tutta la faccenda Mercury era, indubbiamente, chiara a chiunque. Nessuno, neppure fra il
grosso pubblico, poteva non vedere, a quel punto, come stavano le cose. Era di un’evidenza
elementare. Il primo volo, l’ambito primo volo del nuovo uccello, era stato appena compiuto,
con una scimmia in veste di pilota! E la scimmia aveva svolto il suo compito in modo
ineccepibile né più né meno come avrebbe potuto fare qualsiasi uomo: poiché non c’era
nient’altro da fare, nella capsula, che pigiare alcuni bottoni e abbassare alcune leve, tutto lì.60

L’opinione pubblica, però, non sembra recepire il messaggio e continua a dimostrare il solito
incredibile entusiasmo:

Incredibile, ma il mondo sembrava pieno di gente che andava dicendo: «Mio Dio, ci son dunque
degli uomini tanto coraggiosi da fare anche loro quello che ha fatto questa scimmia?»61

L’America era in totale stato di adorazione.


Il 5 maggio 1961 traspare la notizia su chi sarà il primo americano nello spazio. Si tratta di Alan
Shepard, nonostante tutti si aspettassero il nome di John Glenn. Il volo ha luogo il 6 maggio 1961,

58
Tom Wolfe, La stoffa giusta, traduzione di Pier Francesco Paolini, p. 150
59
Paolo Magionami, Gli anni della Luna. 1950-1972: l’epoca d’oro della corsa allo spazio, p. 59
60
Tom Wolfe, La stoffa giusta, traduzione di Pier Francesco Paolini, p. 180
61
Ibidem
28

senza particolari contrattempi. Shepard ammara senza alcun problema e viene recuperato senza
intoppi. In quel momento, Shepard diventa un eroe nazionale. Conosce il presidente Kennedy e sua
moglie e riceve tutto l’amore della sua nazione. La gioia nazionale per questo traguardo nasconde la
realtà delle cose: il volo suborbitale di Shepard, della durata di appena quindici minuti, non si
avvicina neanche lontanamente all’impresa di Gagarin. Gli USA cominciano a rialzare la testa, ma
la strada è ancora molto lunga. Il prossimo ad andare nello spazio è Grissom, su un altro volo
suborbitale. Il lancio e il volo procedono da manuale, ma durante l’ammaraggio Gus sembra avere
qualche problema. D’un tratto la botola esplode, e la capsula comincia ad imbarcare acqua. Grissom
ne esce indenne, ma la capsula va a fondo senza poter essere recuperata. Il danno è enorme. La
capsula è costata milioni di dollari e gli ingegneri speravano di poterla avere a disposizione per
analizzare tutti i dati raccolti durante il volo. Gus continua a ripetere di non aver fatto nulla di
sbagliato, che la botola è esplosa da sola. «It must have been a technical malfunction. The hatch just
blew», dice Gus nel film ai medici che lo stanno visitando. Ma tra gli addetti ai lavori sanno bene
cos’è successo: l’astronauta ha commesso un errore. Preso da un attacco di panico, deve aver
premuto, volontariamente o involontariamente, il bottone per far esplodere la botola prima del
dovuto. Si trattava di un meccanismo utilizzato da decenni sugli aerei a reazione, ed era impossibile
che si fosse trattato di un malfunzionamento. Di tutto questo, all’esterno della NASA, non traspare
nulla. Per il presidente Kennedy, la missione di Gus Grissom è stata un altro successo; dopotutto,
gli astronauti erano il simbolo della lotta ai sovietici, non potevano essere messi in discussione di
fronte al grande pubblico. Ancora una volta, la propaganda nazionalista ha fatto il suo corso.
Il passo successivo per il programma spaziale statunitense è quello di inviare, finalmente, un uomo
americano in orbita. Il prescelto è John Glenn, che parte per lo spazio il 20 febbraio 1962 nella
missione Mercury-Atlas 7, che si prefiggeva di compiere sette orbite intorno alla Terra. Per un
presunto problema allo scudo termico, che rischia di mettere in pericolo la vita di Glenn, la capsula
viene fatta rientrare alla terza orbita, e il volo dura quattro ore e cinquantacinque minuti. La
missione di Glenn viene accolta con un giubilo ed un entusiasmo mai visti prima, niente a che
vedere con i voli di Shepard e Grissom.

Da quel momento in poi, Al e Gus furono solo delle comparse, campioni di serie B. E non
ebbero nemmeno il tempo di adontarsi per questo. John non ebbe semplicemente una parata a
Washington, una gita alla Casa Bianca e la medaglia dal presidente. Oh, ebbe tutte quelle cose,
ma, inoltre, tenne un discorso al congresso in seduta congiunta: la camera e il senato si
riunirono insieme per ascoltare John, come se questi fosse un presidente, un primo ministro, un
re.62

62
Tom Wolfe, La stoffa giusta, traduzione di Pier Francesco Paolini, p. 279
29

L’intero paese è in festa. John Glenn e sua moglie Annie sfilano per le strade festanti di New York a
bordo di una decappottabile, dispensando sorrisi e saluti alle migliaia di persone accorse per rendere
omaggio all’astronauta degli astronauti, l’eroe americano del momento. Nel documentario La vera
storia di The Right Stuff: Uomini veri (The Real Right Stuff, Tom Jennings, 2020), Tom Wolfe parla
della straordinarietà di quella parata:

When John Glenn became the first American to go into Earth orbit, there was a ticker tape
parade for him. The astronauts all remembered so vividly the sight of New York policemen
directing traffic in the intersections for this big parade, crying, tears rolling down their cheeks.
And saying, you know, «We love you, Johnny», to John Glenn, «We love you». And I think it
was an emotional moment in this country’s history that has never been equal since then. I don’t
think we’ve had a nationwide hero since John Glenn.

Un concetto che lo stesso Wolfe ha rimarcato nel suo romanzo: “Dopo John Kennedy, John Glenn
era forse l’americano più conosciuto e ammirato al mondo.”63

Da sinistra a destra: Ed Harris (John Glenn), Mary Jo Deschanel (Annie Glenn). Da una scena di Uomini veri (The Right Stuff, Philip
Kaufman, 1983)

Con l’impresa di John Glenn termina la narrazione del film dedicata alle successive missioni
spaziali Mercury. Non vediamo, infatti, i voli di Carpenter e Schirra, avvenuti rispettivamente il 24
maggio e il 3 ottobre 1962. All’ultimo volo, nonché il più importante, del progetto Mercury – quello
di Gordon Cooper – è dedicata l’ultima sequenza del film, che si chiude con il voice over di un
narratore che racconta i dettagli della missione. “Gordo” compie ventidue orbite intorno alla Terra,

63
Tom Wolfe, La stoffa giusta, traduzione di Pier Francesco Paolini, p. 323
30

rimanendo nello spazio più a lungo delle cinque missioni precedenti messe insieme: trentaquattro
ore e diciannove minuti. L’unico americano ad aver trascorso più di un giorno nello spazio. I
sovietici erano ancora molto avanti, ma Gordon Cooper “aveva rimesso gli Stati Uniti in gara con
l’Unione Sovietica.”64

3.4 - The Right Stuff: Uomini veri

Il 9 ottobre 2020 la piattaforma streaming Disney+ propone nel proprio catalogo la serie tv The
right stuff: Uomini veri (The right stuff, Mark Lafferty, 2020), nata dalla collaborazione tra National
Geographic e Warner Bros. Come per il film del 1983, essa si basa sul romanzo di Tom Wolfe. La
serie consta di una stagione di otto episodi, della durata di circa quarantacinque minuti ciascuno.
La narrazione parte dal reclutamento degli aspiranti astronauti e giunge al primo volo suborbitale di
Alan Shepard. Potendo contare su una durata maggiore rispetto al lungometraggio omonimo, la
serie può permettersi di scendere più nel dettaglio su alcune questioni, certamente romanzando la
vicenda, ma anche svelando alcuni particolari interessanti sulla vita degli astronauti che nel film
non sono presenti. Come accade nell’opera di Philip Kaufman, sono Shepard, Glenn, Grissom e
Cooper i personaggi principali, interpretati rispettivamente da Jake McDorman, Patrick J. Adams,
Michael Trotter e Colin O'Donoghue. La scena iniziale del primo episodio è molto simile all’inizio
di Gagarin: Primo nello spazio: Glenn e Shepard sono a letto nella loro stanza, esattamente come
Gagarin e Titov, in quelli che sembrano essere i momenti subito precedenti al lancio. A differenza
del film di Parkhomenko, però, sin dalle prime scene traspare una componente che sarà il filo
conduttore di tutta la serie: la competizione. In misura ancora maggiore rispetto al film di Kaufman,
questa serie punta i riflettori sull’ingrediente che è il pane quotidiano di ogni pilota che si rispetti:
arrivare primo. Stiamo parlando di

sette personalità totalmente distinte l’una dall’altra. Idee diverse, sentimenti diversi, abitudini
diverse, gusti diversi. In comune non hanno che i requisiti necessari ad ogni astronauta, ed una
gran carica esplosiva di orgoglio, idiosincrasie, convinzioni, e quella mania di competere, di
arrivar primi. Gli han già spiegato che tutti posson essere primi in qualcosa, il primo ad essere
lanciato col missile Redstone, il primo a entrare in orbita, il primo a volare intorno alla Luna, il
primo ad atterrar sulla Luna. Ma ciascuno sogna lo stesso di essere il primo di tutto. 65

64
Ivi, p. 331
65
Oriana Fallaci, Se il sole muore, p. 104
31

La serie sembra essere una trasposizione su schermo di queste esatte parole. Le immagini mettono
in chiaro questo concetto da subito: la seconda scena del primo episodio mostra Shepard che
sorpassa Glenn durante la loro corsa di allenamento notturna. Pur condividendo la struttura di
Gagarin: Primo nello spazio – anche qui si parte dalle fasi finali della storia per poi tornare indietro
tramite un’analessi – per quel che riguarda il legame tra colleghi, la serie se ne distacca totalmente.
«We don’t have to sit here and pretend like we’re best buddies» dice Alan a John in una delle scene
successive. C’è una grande tensione fra i due, tutta la retorica propagandistica dell’amicizia tra
compagni presente nel film russo è totalmente annullata. I veri protagonisti della serie sono proprio
Al e John, la loro gara per essere primi è l’ingrediente che dona mordente alla narrazione. I due si
riconoscono a vicenda come rivali fin dal loro primo incontro al Sierra Hotel, la sera della
convocazione dei candidati:

Glenn: I’m pretty sure I’ll be one of the seven.


Shepard: Well, then congratulations and good luck.
Glenn: Thank you. But what, you’re uh…
Shepard: No, I’m gonna be one of the seven.
Glenn: No?
Shepard: Nope. I’m gonna be the first man in space.

Una volta ancora, si pone in risalto la sfera della competitività. La sceneggiatura ha buon gioco a
mettere in contrasto le personalità opposte di Alan e John. Il primo è un uomo che ama godersi la
vita. Adora le donne, lo svago e le macchine da corsa; non ama parlare della propria vita privata e
del rapporto con la sua famiglia, informazioni che custodisce gelosamente grazie ad un
atteggiamento schivo e scontroso. John è l’esatto contrario. Cristiano devoto e marito impeccabile,
composto e ligio al dovere. Ama parlare in pubblico ed essere al centro dell’attenzione, ha una vera
e propria passione per i riflettori. Dimostra un atteggiamento perfetto in ogni occasione: mai
un’inadempienza, mai un drink in più, mai a letto più tardi del dovuto. Un uomo ineccepibile, molto
vicino al Gagarin del film di Parkhomenko. È evidente che due caratteri così contrastanti siano
destinati a scontrarsi. Il culmine della tensione fra i due si ha durante il quinto episodio. John
convoca una riunione tra i Mercury 7 per discutere con loro sui doveri morali degli astronauti. È
preoccupato che la loro condotta, soprattutto riguardo ai rapporti extraconiugali, possa mettere in
cattiva luce il programma spaziale.

Glenn si era messo a fare un predicozzo del seguente tenore: si stava esagerando, ormai, con
quelle storie di ragazze; potevano nascerne guai seri; erano tutti esposti al pubblico; a loro era
una grande occasione, di quelle che non si presentano due volte nella vita e a lui dispiaceva
32

tanto, ma non era disposto a tollerare che qualcuno compromettesse la cosa solo perché non
riusciva a tener abbottonati i pantaloni.66

Un uomo come Alan Shepard non poteva accettare che gli si sottoponesse un sermone del genere,
così tra i due scoppia un conflitto.

A sfidare lo sguardo di Glenn, con lo stesso furore nelle pupille, c’era Alan Shepard. […]
Avvisò dunque Glenn che quello che diceva era sbagliato, gli intimò di non imporre le sue idee
moralistiche agli altri.67

La posizione di Shepard è riassunta da una sua battuta nel film del 1983: «You cannot tell a pilot
what he’s doing when he’s not flying!». La predica di Glenn, infatti, è presente anche nel
lungometraggio, ma ha un’importanza minore ed è circoscritta al singolo momento della
discussione tra gli astronauti, senza avere ulteriori ripercussioni sulla trama. Nella serie, invece,
come nella realtà, si tratta di un momento fondamentale. La discussione produce una spaccatura nel
gruppo, con Glenn e Carpenter schierati da un lato, e gli altri cinque dall’altro. Questo porta delle
conseguenze che si abbattono sulla scelta del primo astronauta. La NASA è indecisa, crede che
ognuno dei sette sia adatto ad essere il primo; quindi, propone una votazione tra gli stessi astronauti
per decretare il vincitore di questa gara.

Una votazione inter pares! Era incredibile! Ogni mossa compiuta da Glenn in passato aveva,
indubbiamente, lavorato contro di lui in un ballottaggio del genere. Agli occhi dei colleghi lui
era il puritano che li aveva esortati a tenere a freno le loro voglie; lui era quello che portava il
cilicio e faceva la vita di un martire cristiano […] Invece Alan Shepard, il sorridente Al, era
l’asso ideale per gli assi dell’aria. Lui aveva il fascino del grande pilota.68

La votazione ebbe, quindi, il seguente esito: Shepard primo, Grissom secondo e Glenn soltanto
terzo. Per quest’ultimo la notizia è scioccante. Nel corso della serie, John dimostra di essere
ossessionato dall’essere il primo americano nello spazio. È qualcosa di profondamente diverso dalla
semplice vena competitiva di Alan, si tratta di entrare nella storia della nazione, di essere ricordati
per sempre. Non sono ancora passati i primi quindici minuti del primo episodio quando Glenn
esprime le sue motivazioni sull’importanza dell’essere il primo: «Every schoolkid is gonna know
the name of the first american in space. His face is gonna be everywhere. He’ll never be forgotten.
That’s not glory. That’s history.» La tremenda delusione porta John a fare una scelta drastica.

66
Tom Wolfe, La stoffa giusta, traduzione di Pier Francesco Paolini, p. 137
67
Ibidem
68
Ivi, pp. 174-175. Il corsivo è dell’autore
33

Compila un foglio con tutti i motivi per i quali Shepard non è l’uomo adatto per la missione e cerca
di farlo avere ai pezzi grossi della NASA. Per la prima volta vediamo il personaggio interpretato da
Patrick J. Adams calpestare i propri valori etici. Il tutto viene rappresentato magistralmente tramite
la costruzione del quadro di una scena dell’episodio sei. Attraverso una zoomata all’indietro che
parte dal volto di Nora Zehetner (Annie Glenn), la macchina dipinge un quadro perfettamente
geometrico. Man mano che l’inquadratura si allarga, svela degli oggetti equidistanti dal centro del
quadro, occupato dall’attrice: prima gli oggetti sul tavolo, poi le due lampade sui mobili ai lati del
divano, infine le due poltrone “di quinta”. Il dipinto alle spalle di Zehetner è perfettamente al centro
dell’inquadratura.

Da sinistra a destra: Nora Zehetner (Annie Glenn), Patrick J. Adams (John Glenn). Da una scena di The Right Stuff: Uomini veri (The
Right Stuff, Mark Lafferty, 2020)

L’unico elemento che disturba la composizione è John, seduto alla sinistra di sua moglie. Anche il
linguaggio del corpo di Patrick J. Adams sottolinea la situazione spiacevole in cui si è messo il suo
personaggio. Mentre Zehetner è seduta composta e diritta, l’attore è seduto con le gambe incrociate,
con una mano sul volto. John è pensieroso, ha un’espressione pentita e amareggiata. La geometria
del quadro rappresenta la perfezione e la precisione tipiche di John Glenn, della sua casa e della sua
famiglia. Il fatto che la posizione di John la rovini sta ad indicare un atteggiamento e un
comportamento che non gli appartengono, un gesto che incrina l’impeccabilità della sua esistenza
da perfetto cristiano. «This… It isn’t you» gli sussurra Annie mentre sta battendo a macchina le
parole contro Alan.
34

Il piano di Glenn viene interrotto dal capo ingegnere della NASA Robert Gilruth. Le figure di Bob
Gilruth (Patrick Fischler) e Chris Kraft (Eric Ladin), assenti nella trasposizione cinematografica, qui
ricoprono, come abbiamo già avuto modo di constatare, ruoli di primaria importanza, esattamente
come nella realtà. Si tratta di due dei principali ingegneri NASA, a capo del gruppo che lavora sul
progetto Mercury.
Un’altra situazione che è quasi del tutto assente nel film è quella relativa ai problemi famigliari di
Gordon Cooper. Cooper e sua moglie Trudy (Eloise Mumford) sono separati, non vivono più nella
stessa casa. La serie attribuisce la cosa al tradimento di Gordo, reo di avere una relazione
extraconiugale con una certa Lurleen. Benché questo sia un particolare fittizio, aggiunto in
sceneggiatura per rendere l’intreccio più intrigante e più adatto al pubblico di riferimento, il resto
della vicenda è realmente accaduto, ed è raccontato da Wolfe nel suo libro.

Fin dall’inizio, durante i colloqui alla NASA, gli psicologi avevano posto ai candidati astronauti
molte domande circa la loro vita di famiglia. A parte ogni considerazione relativa alle pubbliche
relazioni, essi si attenevano a una ben nota teoria, nella psicologia del volo, secondo la quale i
dissapori coniugali costituiscono una delle principali cause di comportamento irregolare, da
parte dei piloti, e spesso di incidenti fatali. Il sano istinto di ufficiale di carriera indusse Cooper
a rispondere che i suoi rapporti con la moglie Trudy e con le sue figlie erano ottimi, veramente
perfetti. Quell’affermazione non si poteva controllare dal momento che Gordon e Trudy non
vivevano nella stessa casa e neppure nella stessa latitudine. Si erano separati […] Chiaramente
era ora di riconciliarsi.69

Il riavvicinamento della coppia diventa, nella struttura della serie, un modo per il personaggio di
Gordo di riaffermare il suo amore per Trudy e la sua volontà di una vita insieme. Ma nella realtà
sembra trattarsi di un mero stratagemma per entrare a far parte dei sette:

Cooper fece una scappata a San Diego… parlò a lungo, a lungo… una vera predica… sulla loro
separazione, sulle sue prospettive alla NASA e così via… Fatto sta che Trudy e le loro due
figlie tornarono alla Edwards [la base aerea in cui lavorava Gordo, ndr] e Cooper riebbe
indietro, intatto, il sogno americano, tutti sotto lo stesso tetto, prima che s’iniziasse la fase finale
del processo di selezione e nessuno alla NASA si accorse di nulla.70

Oltre alla parte psicologica della questione, anche la parte relativa all’immagine del programma
spaziale ha la sua importanza. Gli astronauti dovevano essere degli eroi, il simbolo della resistenza
statunitense alla terribile minaccia sovietica. Era importante che tutti i piloti Mercury vivessero una

69
Tom Wolfe, La stoffa giusta, traduzione di Pier Francesco Paolini, p. 118
70
Ibidem
35

condizione famigliare impeccabile, rispecchiando alla perfezione l’ideale della famiglia felice
americana.

Quand’era cominciato il processo di selezione degli astronauti, Trudy Cooper, la moglie di


Gordon, viveva separata dal marito a San Diego. Può darsi che quelli di Life ne fossero al
corrente, ma non faceva alcuna differenza poiché, in ogni caso, un particolare del genere non
sarebbe mai apparso sulle pagine della rivista: non era neppure pensabile un astronauta con guai
coniugali nel suo passato, alla vigilia della grande sfida spaziale con i russi. […] E non era
difficile, per i giornalisti, far sparire ogni imperfezione con un tocco di bacchetta magica.71

Scegliere un uomo che avesse problemi di coppia, che fosse separato o divorziato, non sarebbe stato
visto di buon occhio dall’opinione pubblica globale, né dal popolo americano, che aveva una parte
fondamentale nel programma spaziale. La questione pubbliche relazioni ha un peso molto rilevante
nella serie, più di quanto avvenga nel film. Alla NASA capiscono che l’opinione che gli americani
hanno del programma spaziale è importante quanto il programma stesso, forse anche di più. È vitale
che i contribuenti credano al progetto, altrimenti l’agenzia non potrebbe disporre dei fondi necessari
per il raggiungimento dell’obiettivo. L’incaricato a gestire le “public relations” è il colonnello John
“Shorty” Powers, interpretato da Danny Strong. In una scena del secondo episodio, Gilruth ha una
discussione con Shorty e Thomas Keith Glennan, l’allora amministratore generale della NASA, sul
ruolo delle pubbliche relazioni nel progetto. L’ingegnere capo non ha alcuna intenzione di perdere il
suo tempo su queste inutili sciocchezze: «I see my time being wasted on PR when i’ve got actual
work to do», dice ai due colleghi. In quel periodo, il programma spaziale statunitense stava
collezionando fallimenti su fallimenti, e si temeva che il congresso avrebbe tagliato i fondi al
progetto. Glennan e Powers illuminano Gilruth sull’apporto decisivo fornito dall’opinione pubblica:

Glennan: PR isn’t just Shorty’s concern. It’s what’s gonna make your work possible. You don’t
have a rocket problem; you have a people problem.
Powers: The papers like these guys. And people read the papers.
Glennan: People will wanna know how this story ends. People vote.
Powers: And what’s gonna make all our problems go away? What do votes mean, Bob?
Glennan: Money.
Powers: Let’s go get you some money.

71
Ivi, p. 129
36

«Congress is going to cut our funding if we do not win the hearts and minds of the American
people», dice Shorty agli astronauti poco dopo. La vittoria nella gara per lo spazio passava anche e
soprattutto da questo.
Più di ogni altra cosa, l’intenzione della serie tv, sulla scia del romanzo, è presentare gli astronauti
come persone comuni, «ordinary people», per usare di nuovo le parole del personaggio di Powers.
Sono frangibili, hanno tutti degli scheletri dell’armadio, hanno bisogni tremendamente umani e
commettono errori continuamente. Anche una figura impeccabile come John Glenn, alla fine, crolla
sotto i colpi delle sue ossessioni. La serie entra nelle loro vite per svelarne la loro ordinarietà, la loro
umanità. Sembra dirci: «Guardateli, sono esattamente come tutti voi». Allo stesso tempo, però, la
serie ci fa entrare nel mondo di un pilota, che risponde a regole diverse. Su quel terreno si fa
gruppo, si lavora sodo, si fa il proprio dovere. In quel campo, ognuno dei sette dimostra di avere la
stoffa giusta.

Dopo tutto, la stoffa giusta non era l’eroismo nel semplice senso di essere disposti a rischiare la
vita (viaggiando in cima ad un razzo vettore Redstone o Atlas). Qualunque fesso poteva
rischiarla. No: l’idea era (come tutti i piloti sapevano bene) che un uomo avesse la capacità di
viaggiare a bordo di un bolide e mettere in gioco la pelle e avere il fegato, i riflessi, l’esperienza,
il sangue freddo necessari per cavarsela all’ultimissimo istante.72

72
Ivi, p. 150
37

4 - Il programma Voskhod

Sul fronte orientale, i sovietici mettono in fila un successo dopo l’altro. Dopo il volo di German
Titov, è la volta della Vostok 3, con a bordo il maggiore Andrian Grigorovich Nikolajev, che parte
dalla base sovietica l’11 agosto 1962. Sembrerebbe una missione ordinaria, ma il giorno dopo la
Tass diffonde una notizia sorprendente: un’altra navicella, la Vostok 4, è stata lanciata in orbita,
pilotata da Pavel Romanovich Popovich:

Obiettivo di questo lancio di due navi spaziali in orbite vicine – precisa la Tass – è quello di
ottenere dati sperimentali sulla possibilità di stabilire contatti tra le due navi stesse, di
coordinare le manovre dei due piloti, e di controllare la diversa influenza delle identiche
condizioni di volo spaziale sugli organismi umani.73

La missione certifica l’ennesimo primo posto per gli uomini di Krushev, che, però, sembrano non
essere mai sazi. Il 14 giugno 1963 viene lanciata la Vostok 5, con a bordo il tenente colonnello
Valery Bykovsky. Era noto che sarebbe stata lanciata una seconda capsula, fin qui nulla di nuovo.
Ma, con un ulteriore mossa a sorpresa, in tipico stile URSS, il 16 giugno il programma spaziale
sovietico si regala un altro grandioso trionfo. A pilotare la Vostok 6 è Valentina Vladimirovna
Tereshkova, la prima donna a volare nello spazio.
Con questa straordinaria missione si chiude il programma Vostok, che ha incoronato l’Unione
Sovietica come nazione dominatrice dello spazio. Nel giro di pochi anni, però, gli equilibri sono
destinati a cambiare.

Da entrambe le parti si lavora alacremente per mettere a punto i progetti Voskhod e Gemini. Si
tratta di missioni con più uomini a bordo, di più lunga durata e tecnicamente più raffinate, grazie
alle quali dallo spazio arriveranno straordinarie foto a colori di mari e continenti, di laghi e di
città illuminate. La Terra, come non si era mai vista, si svela agli occhi dell’uomo comune, non
solo a quelli privilegiati degli astronauti.74

Il nuovo programma spaziale Voskhod avrà molta meno fortuna del predecessore. Lo si capisce già
dalla prima missione. Krushev chiede ai suoi progettisti una capsula in grado di portare in orbita tre
cosmonauti, in modo da battere ancora una volta gli americani, che con la Gemini hanno intenzione
di mandarne due. Nonostante il poco tempo a disposizione, il segretario generale viene
accontentato: il 12 ottobre 1964 viene lanciata la Voskhod 1, con a bordo il comandante Vladimir
Komarov, l’ingegnere Konstantin Feoktistov e il medico aerospaziale Boris Yegorov. La missione

73
Paolo Magionami, Gli anni della Luna. 1950-1972: l’epoca d’oro della corsa allo spazio, p. 91
74
Ivi, p. 101
38

dura poco più di un giorno. I media sovietici, come al solito, accolgono i cosmonauti con gioia,
lasciando intendere che il volo è andato come da copione. Ma la stampa mondiale dimostra delle
perplessità: 24 ore e 17 minuti è un tempo troppo breve per una missione spaziale in quel periodo
storico; basti pensare che Valery Bykovsky, pilota della Vostok 5, era rimasto in orbita per quasi
cinque giorni, stabilendo il record per un volo in solitaria, tuttora imbattuto. La verità viene fuori
qualche tempo dopo:

Pressati dalle domande, la cortina di ferro innalzata dalla propaganda inizia a cedere per mano
degli stessi scienziati. […] Così accade che al congresso internazionale di astronautica a
Varsavia, i professori Gazenko e Isakov, due esperti di medicina spaziale, riferiscono che gli
astronauti hanno subito gravi squilibri emotivi accompagnati da perdite del senso di
orientamento, da alterazioni delle percentuali delle sostanze chimiche che compongono il corpo
umano, da abbassamento di pressione e da notevole senso di affaticamento.75

Probabilmente, le condizioni di salute critiche dei tre cosmonauti hanno indotto i sovietici a
interrompere la missione prima del dovuto. Un cattivo presagio per il programma spaziale russo,
che si trova a combattere un nemico sempre più tenace e perseverante. Spinti dall’entusiasmo mai
domo di una nazione intera, che garantisce al progetto cifre mai viste prima, alla NASA lavorano
incessantemente: l’inerzia della corsa allo spazio sta cambiando, la supremazia socialista sta per
volgere al termine.

4.1 - Spacewalker - Il tempo dei primi

L’Unione Sovietica ha lanciato oggi in orbita attorno alla terra una nave spaziale con due
persone a bordo. […] La nave è denominata Voskhod 2.76

Il 18 marzo 1965 l’ANSA emette questo comunicato. L’URSS arranca nella corsa allo spazio, gli
americani stanno migliorando e si preparano al sorpasso. Krushev è stato deposto, il suo successore
Leonid Breznev ha molta meno simpatia nei confronti dello spazio, ma il programma spaziale
sovietico riesce comunque a regalare un ennesimo primato alla nazione. Quella della Voskhod 2,
infatti, non è una missione qualunque. Per la prima volta nella storia un uomo abbandona la propria
capsula e si lascia dondolare liberamente nello spazio, compiendo la prima attività extraveicolare

75
Paolo Magionami, Gli anni della Luna. 1950-1972: l’epoca d’oro della corsa allo spazio, p. 105
76
Ivi, p. 106
39

della storia. Si tratta del tenente colonnello Alexei Leonov. Leonov faceva parte del gruppo dei
primi venti cosmonauti sovietici. Lo vediamo anche in una scena di Gagarin: Primo nello spazio,
nella quale la macchina da presa indugia sul suo volto durante l’appello dei cosmonauti.
Spacewalker - Il tempo dei primi (Vremya Pervykh, Dmitriy Kiselev, 2017), a differenza del film di
Parkhomenko, non narra la vita di Leonov – interpretato da Evgeniy Mironov – ma si concentra
unicamente sulla missione: la scelta dei cosmonauti, la preparazione della capsula, l’addestramento
e il rocambolesco viaggio, che occupa i due terzi del film. Il volo, infatti, non andò esattamente
come previsto e i due piloti, Leonov e il suo compagno Pavel Belyaev – interpretato da Kostantin
Khabenskiy – si trovarono a fronteggiare numerosi problemi, rischiando la vita più volte. La
“passeggiata spaziale” di Leonov, per cominciare, fu tutt’altro che piacevole. Una volta fuori dalla
capsula, l’astronauta iniziò a fluttuare senza controllo nello spazio aperto e dovette usare tutte le sue
forze per riuscire a tornare sano e salvo all’interno. La Voskhod 2 ebbe poi dei problemi durante il
rientro nell’atmosfera terrestre. A causa di un guasto tecnico che aveva costretto i piloti a una
manovra di rientro manuale, la navetta fu costretta a compiere un’orbita aggiuntiva rispetto a quelle
prestabilite e mancò il sito d’atterraggio prefissato in Kazakistan, toccando terra nei pressi di una
foresta innevata negli Urali. Leonov e Belyaev dovettero aspettare delle ore al gelo prima di essere
trovati e recuperati. Le autorità sovietiche, tenendo fede ancora una volta alla segretezza che da
sempre aveva contraddistinto il loro programma spaziale, non fecero trasparire nulla, brindando
semplicemente al successo della missione. La verità sarebbe emersa solo qualche anno più tardi.
Kiselev sceglie, invece, di raccontare dettagliatamente tutti gli imprevisti della missione, potendo
contare sull’aiuto di chi li aveva vissuti sulla propria pelle. Leonov, infatti, ha partecipato alla
realizzazione del film come consulente (il film è del 2017, Leonov è deceduto due anni dopo, l’11
ottobre 2019). Il risultato è un disaster movie di impronta storico-biografica.
Rispetto a Gagarin: Primo nello spazio, Spacewalker rinuncia, almeno in parte, alla retorica del
perfetto cosmonauta e rappresenta dei piloti che sono fallibili: hanno difetti, disobbediscono agli
ordini, commettono errori. Leonov e Belyaev sembrano maggiormente “umani”, se confrontati con
l’impeccabile Gagarin del film del 2013. Leonov, soprattutto, appare molto più simile ai Mercury 7
che all’illustre collega sovietico. Nel suo personaggio ritroviamo tutte le caratteristiche del pilota
collaudatore che abbiamo descritto analizzando le varie versioni di The Right Stuff. Leonov ci viene
mostrato come un uomo audace, che prende decisioni avventate e punta ad essere il migliore. Il film
sembra quasi vantare queste caratteristiche, fin dalla scena iniziale. Alexei è a bordo di un aereo a
reazione che ha il motore in fiamme. Il pilota chiede di poter azionare l’estintore per spegnere le
fiamme, ma la risposta è negativa: se attiva l’estintore non potrà più accendere il motore. Così gli
viene ordinato di eseguire l’espulsione di emergenza, ma neanche questo va a buon fine: il suo
40

aiutante ha dimenticato di staccare il perno della catapulta che faceva partire il meccanismo.
Leonov non perde la calma, spegne le comunicazioni e aziona l’estintore, nonostante gli avessero
espressamente vietato di farlo. Ovviamente, questo tentativo scapestrato ha esito positivo, e Leonov
riesce a governare l’aereo per un soffio, arrivando a terra sano e salvo e riuscendo a salvare anche il
costoso aereo. In pochi minuti assistiamo a tutto quello che abbiamo accennato poco fa. Leonov non
prova paura, riesce a prendere le decisioni giuste sotto pressione, rischia la vita con sprezzante
naturalezza, disobbedisce chiaramente a un ordine diretto di un superiore. Come detto, la
sceneggiatura punta a lodare ed esaltare questi atteggiamenti, inserendo Leonov in quel gruppo
tanto ambito di “uomini veri”, che, ricordiamo, sono coloro che hanno “la capacità di viaggiare a
bordo di un bolide e mettere in gioco la pelle e avere il fegato, i riflessi, l’esperienza, il sangue
freddo necessari per cavarsela all’ultimissimo istante”. La perfetta descrizione della scena appena
narrata, Più tardi un generale dirà di lui che è “un tipo spericolato”. Uno stacco netto rispetto al
biopic su Yuri Gagarin. Nella scena successiva ne abbiamo la conferma. Leonov e Belyaev sono
nella stiva di un aeroplano, è il primo momento in cui li vediamo insieme. Sono lì per effettuare un
lancio col paracadute, ma il pilota li avverte che le condizioni non sono ideali. C’è troppo vento, e
lanciarsi in quel momento significherebbe mettere a rischio la propria vita. Belyaev consiglia di
tornare alla base, ma Leonov, in linea con il suo comportamento spericolato da “uomo vero”, insiste
per lanciarsi anche in quelle condizioni impervie. Dopo un po’ Belyaev si lascia convincere e
finisce per rompersi una gamba nell’atterraggio, mettendo a rischio la sua presenza nella missione.
Grazie anche all’aiuto di Leonov alla fine ci sarà, ma questa sequenza pone ancora una volta
l’accento sulla personalità spericolata e impavida di Leonov. Non agisce mai con saggezza, non
segue ordini e istruzioni. È molto più in linea con la figura del pilota collaudatore a cui siamo
abituati, a differenza dell’impeccabile Gagarin di Parkhomenko. Su questa linea di distacco dal
fervore filosovietico si pone un’altra componente importante del film. Il film sceglie di mostrare le
difficoltà del programma spaziale russo, con una sceneggiatura che restituisce molto bene la
difficile situazione in cui versava l’agenzia spaziale sovietica in quel periodo storico. Come detto,
l’avvento al potere di Breznev aveva tolto molto entusiasmo sul programma spaziale, e i fondi
destinati al progetto iniziavano a scarseggiare terribilmente. La volontà e la necessità di primeggiare
sugli avversari non faceva che peggiorare lo stato di un settore che era vicino al collasso. Lo
vediamo sin dalla scena successiva ai titoli di testa del film, in cui Korolev (Vladimir Ilyin), il
progettista capo sovietico, comunica ai suoi collaboratori di aver anticipato la data del lancio della
Voskhod 2 al 1965, due anni prima della data prevista in origine. «Gli americani hanno anticipato il
loro volo, hanno già pianificato la loro passeggiata nel cosmo. È inaccettabile, non possiamo
aspettare», afferma il generale Kamanin. L’impresa di Leonov e Belyaev è l’ultimo dei grandi
41

trionfi russi, prima del declino del programma spaziale sovietico, e questo nel lungometraggio si
capisce molto bene.
Nell’opera di Dmitriy Kiselev è presente, però, un’imprecisione storica. Nella scena della
“passeggiata spaziale”, Leonov riceve in collegamento la voce di Breznev. Cosa, questa, che non è
mai avvenuta. “L’usanza di parlare con gli uomini dello spazio è finita con Krushev e con esso
l’euforia per l’avventura spaziale e i suoi protagonisti.”77

77
Ivi, p. 107
42

5 - Von Braun e Korolev, i migliori scienziati missilistici al mondo

5.1 - La doppia vita di Wernher Von Braun

Wernher Magnus Maximilian Von Braun nasce il 23 marzo 1912 a Wirsitz, una città della
Germania orientale. Figlio del barone Freiherr Magnus Von Braun e di Emmy von Quistorp, è il
secondo di tre fratelli. La sua passione per i razzi e per lo spazio comincia fin dalla fanciullezza e
nel 1930 entra a far parte della VfR, Società per i viaggi nello spazio, fondata, tra gli altri, da
Hermann Oberth, uno dei pionieri della missilistica e dell’astronautica. Il genio di Von Braun viene
presto notato dall’esercito tedesco, che gli offre un posto di lavoro nel 1932. Qui inizia la storia
dello scienziato che nel 1942 metterà a punto i primi missili V-2, portatori di distruzione sugli
Alleati nella Seconda Guerra Mondiale, nonché i primi in grado di fornire una foto dallo spazio, nel
1946. La seconda vita di Wernher Von Braun comincia con la fine della guerra, quando egli,
insieme ad un gruppo di scienziati e tecnici, si consegna alla quarantaquattresima divisione di
fanteria americana. Successivamente, il 1° ottobre 1945 ha inizio l’Operazione Paperclip,
un’operazione dell’Intelligence americana atta a trasferire le migliori menti al servizio del Reich in
suolo americano, per poterle sfruttare a proprio vantaggio. Von Braun si lascia alle spalle il passato,
diventando una persona nuova, una figura di spicco per la causa spaziale americana, uno dei
principali responsabili dell’impresa più importante: portare un uomo sulla Luna. È proprio questa
seconda vita che conosciamo attraverso il grande e il piccolo schermo, grazie alle due versioni di
The Right Stuff. Nel film del 1982, il nome dello scienziato non viene mai pronunciato, ma si
comprende subito che il personaggio dell’ingegnere capo dal marcato accento tedesco interpretato
da Scott Beach è riferito a lui. Nella serie tv, invece, il personaggio viene introdotto nel terzo
episodio, e diventa una presenza costante all’interno della serie, che riveste un ruolo di primaria
importanza per lo sviluppo della trama. Questa volta a dargli il volto sullo schermo è Sacha Seberg.
Von Braun viene chiamato dalla NASA in un momento di crisi per il programma spaziale
statunitense, che sta soccombendo sotto i colpi spietati del programma sovietico. La sua presenza fa
storcere il naso a molti. Ovviamente, avere un uomo che aveva lavorato per il terzo Reich non era il
massimo per l’agenzia spaziale americana, come lamentato dal personaggio di Chris Kraft in una
scena del serial. Siamo alla fine del 1960, gli astronauti hanno appena assistito all’esplosione di un
razzo durante un lancio di prova assieme alle loro famiglie. La NASA ha toccato il fondo, bisogna
immediatamente correre ai ripari, così ai piani alti decidono di affidare la progettazione dei missili
alla squadra di Von Braun:
43

Kraft: One more test launch before the holidays and they wanna give it to Von Braun?
Gilruth: It’s not just any launch. It is our most crucial launch yet. Our rockets keep exploding.
The children of our astronauts watched one blow up right in front of them. Washington is gonna
pull our funding if we don’t get this right.
Kraft: It’s all part of the process. We’ve never done this before.
Gilruth: Yeah, and they don’t know if we ever will. Von Braun built the Redstone for us, the
V-2 for Hitler, and one thing I can assure you is the german did not lose the war because of bad
engineering.
Kraft: Yeah, but he’s a…
Gilruth: Chris. You will use him, and I do not care whether you like him or not.
Kraft: He’s a Nazi. I don’t trust him.
Gilruth: He’s also the best goddamn rocket scientist in the world.

Il futuro della corsa allo spazio, con il lavoro di Von Braun che spedirà un uomo sulla Luna, darà
ragione a Gilruth. I graduali successi dei razzi statunitensi, uniti all’euforia della popolazione per
l’impresa spaziale fa progressivamente dimenticare il passato di Von Braun, rendendolo una
personalità molto celebre in ogni parte della nazione e, dopo lo sbarco sulla Luna, in tutto il mondo.
La sua prima esistenza agli ordini del Nazismo, però, non l’ha mai abbandonato. Quando
l’entusiasmo per la grande impresa si assopisce, Von Braun comincia ad essere percepito come un
personaggio scomodo nel gotha del governo statunitense. L’FBI torna ad indagare sul suo passato e
lo mette sotto sorveglianza fino al giorno della sua morte, avvenuta il 16 giugno 1977, a causa di un
tumore allo stomaco.

5.2 - Il solo indispensabile

In quei giorni […] conoscemmo finalmente l’uomo che qui chiamerò il «costruttore capo» della
nave cosmica. Con le sue larghe spalle, quest’uomo allegro e spiritoso, quest’uomo tipicamente
russo nel fisico e nel nome conquistò subito la nostra simpatia. Rivolgendosi a noi, ci trattava
come pari suoi, o come se fossimo stati i suoi più diretti collaboratori.78

L’uomo dal nome “tipicamente russo” della descrizione di Gagarin è Serghei Pavlovich Korolev,
l’uomo di punta del programma spaziale sovietico.
Korolev nasce in Ucraina il 12 gennaio 1907. Come Von Braun, sviluppa la passione per il volo sin
da giovane e frequenta prima l’Istituto Politecnico di Kiev, poi la Scuola di Scienza e ingegneria a
Mosca. Negli anni Trenta entra a far parte del Comitato centrale per lo studio della propulsione a
razzo (Gird), che, come accade per il VfR di Von Braun, entra molto presto nelle grazie dei militari,
venendo rinominato RNII (Istituto per le ricerche scientifiche sulla propulsione a reazione). Quelli

78
J. Gagarin, La via del cosmo. Sputnik, Lunik, Vostok: l’assalto sovietico al cielo, p. 147
44

sono anche gli anni delle Grandi purghe staliniane. Nel 1938 Korolev viene ingiustamente accusato
di eversione e condannato a dieci anni di lavori forzati. Dopo aver passato circa sei mesi brutali e
massacranti nelle miniere d’oro di Kolyna, in Siberia, viene trasferito in una sharashkas, una
prigione per scienziati e tecnici in cui le condizioni di vita migliorano sensibilmente. La libertà
giunge più di sei anni dopo, nel 1944. Dopo la fine della guerra, Korolev viene inviato a Berlino per
recuperare informazioni sui missili tedeschi e per assoldare scienziati da portare in Russia, allo
stesso modo della già citata Operazione Paperclip americana. Da qui inizia la storia dell’uomo che
è unanimemente riconosciuto come il principale artefice del programma spaziale sovietico.
L’entrata in scena di Korolev nel programma coincide con l’avvento al potere di Krushev, con cui
nasce subito una grande intesa. Leggiamo ne La via del cosmo:

Il costruttore capo ci aveva detto che Krusciov si interessava moltissimo alla astronautica
sovietica e ci aveva raccontato dei suoi incontri con lui al Comitato centrale, nei laboratori e al
cosmodromo. Sapevamo dal costruttore capo che il nostro presidente del consiglio consacrava a
questo nuovo settore molta della sua attenzione, della sua energia e del suo tempo.79

Il missile R-7, in grado di mettere in orbita circa 300 kg di strumentazione scientifica, è solo il
primo di una lunga lista di successi del sodalizio Krushev-Korolev, che per anni ha messo in
ginocchio gli Stati Uniti.
Data la straordinaria importanza di Korolev, il Partito impone su di lui assoluta segretezza, che
negli anni della Guerra Fredda diventa una vera e propria ossessione. Grazie ai due film russi fin qui
analizzati, abbiamo modo di conoscere questa figura che era stata tenuta nascosta per molti anni
dietro all’epiteto di “costruttore capo” o “progettista capo”, ma che ha svolto un ruolo
assolutamente fondamentale nella corsa allo spazio. Tutti i successi e i primati sovietici, infatti,
sono riconducibili a lui. Non è un caso che l’inizio del sorpasso americano coincida con la sua
dipartita, avvenuta il 14 gennaio 1966.
I due lungometraggi presentano il personaggio di Korolev in modo molto simile, e in linea con le
parole a lui dedicate da Gagarin nella sua autobiografia, nella quale lo descrive anche come un
uomo “buono e premuroso”80. Soprattutto nel film di Kiselev, Korolev trasuda giustizia e
correttezza, dimostrando un lato umano spiccato, che lo rende un capo molto comprensivo.
Capiamo tutto questo in una delle tante scene che svelano la drammatica situazione in cui si trovava
il programma spaziale sovietico in quel periodo: la base di Baikonur è in subbuglio, gli ingegneri
stanno lavorando senza sosta per progettare la capsula Voskhod 2, il tempo stringe, e per battere gli
americani sul tempo bisogna sorvolare su molte cose, compresa la sicurezza. Un ingegnere che

79
Ivi, p. 153
80
Ivi, p. 178
45

stava testando le funzionalità della capsula rimane folgorato e piomba a terra senza vita, proprio
subito prima di un’ispezione da parte della commissione del programma spaziale.

Da una scena di Spacewalker - Il tempo dei primi ((Vremya Pervykh, Dmitriy Kiselev, 2017)

A quel punto Konstantin Feoktistov – il primo ingegnere cosmonauta, già membro dell’equipaggio
della Voskhod 1, interpretato da Gennadiy Smirnov – suggerisce di annullare la visita, ma Korolev
la pensa diversamente:

Feoktistov: Suppongo che la visita venga annullata.


Korolev: Assolutamente no. Voglio che loro vedano tutto questo. Abbiamo disperatamente
bisogno che lo vedano, affinché riferiscano a chi di dovere.

Sotto la corazza di un burbero progettista, si nasconde un uomo dal cuore grande, che svolge il suo
lavoro con passione e tiene molto ai suoi cosmonauti, lottando contro tutto e tutti per assicurare la
loro incolumità. Questo è molto chiaro in un’altra sequenza di Spacewalker. A causa dei guasti
tecnici alla Voskhod 2, il centro di controllo è chiamato ad una scelta difficile: autorizzare la
manovra di rientro manuale, correndo il rischio che la capsula finisca in territorio nemico, oppure
abbandonare Leonov e Belyaev in orbita, per evitare che i congegni spaziali sovietici finiscano nelle
mani dei nemici. Il direttore del centro di addestramento per cosmonauti, generale Nikolay
Kamanin (Anatoliy Kotenyov) è per la seconda ipotesi, ma Korolev non è d’accordo:

Kamanin: Non siamo suore della misericordia, Serghei Pavlovich. Il segreto di stato non può
essere messo a rischio da un esperimento.
46

Korolev: Preferisco far finta di non capire, perché altrimenti la cosa mi sembrerebbe ancor più
grave. Sta dicendo che vuole tenerli [Leonov e Belayev, ndr] lassù in orbita? Eh? Ho capito
bene, generale?
Kamanin: Noi siamo in guerra. Guerra fredda, ma sempre guerra. Cosa accadrebbe se finissero
in Europa o, Dio non voglia, in Cina? Tutti i segreti del nostro programma spaziale cadrebbero
nelle mani del nemico.
Korolev: Allora cosa vuol fare? Lasciarli alla deriva nello spazio, sperando che prima o poi si
perdano da qualche parte?
Kamanin: Sono dei soldati, e i soldati spesso muoiono, si sacrificano per la loro nazione.
Korolev: Capisco. Bene, la ringrazio. L’idea non è nuova, ma… costruttiva, grazie. Io ci
rifletterò attentamente.
Korolev alza la cornetta del telefono in collegamento con i cosmonauti e la stringe
nervosamente. Poi parla
Korolev: Almaz, qui è Zarya [nomi in codice rispettivamente dei piloti e del centro di controllo,
ndr]. La commutazione al controllo manuale è autorizzata.

Questa sequenza fa anche comprendere il potere decisionale di Korolev. All’interno del programma
spaziale, egli godeva di assoluta fiducia ed era stimato da tutti. «Attenti! Sta arrivando il miglior
progettista del mondo!», dice un militare in una scena del film. E, forse, non ha tutti i torti. Ci
voleva una persona fuori dal comune per reggere le pretese del governo, lavorare nell’ombra e al
contempo conquistare così tante vittorie sugli americani, i quali potevano contare su fondi più
cospicui e si erano assicurati la collaborazione delle migliori menti tedesche del campo. Questo
concetto viene rimarcato in entrambe le versioni di The Right Stuff. Nel film, durante la già citata
scena della riunione tra i massimi esponenti dello stato americano, il vicepresidente Johnson
domanda se siano stati gli scienziati tedeschi assoldati dai russi sul finire della Seconda guerra
mondiale gli artefici dello Sputnik. «No. No it was not, senator. Our germans are better than their
germans», risponde Von Braun. Il merito dell’impresa è tutto di Korolev: «They’ve somehow
developed a program of stupendous dimensions and he’s clearly the genius behind it all», sentiamo
poco dopo. Per molti anni, l’operato dell’invisibile progettista capo è una vera spina nel fianco degli
americani:

Era come se il primo progettista sovietico, quel genio invisibile, stesse giocando con loro.
Nell’ottobre 1957, appena quattro mesi prima che gli Stati Uniti lanciassero il loro primo
satellite artificiale, lui aveva lanciato il suo primo Sputnik. Nel gennaio 1959, appena due mesi
prima che la NASA mettesse il primo satellite artificiale in orbita intorno al sole, lui aveva
lanciato Mechta I battendo gli americani sul tempo. Ma quel Vostok I fu il suo pezzo forte. Dati
i potenti razzi vettori di cui disponeva, sembrava in grado di giocare quei tiri birboni agli
avversari quando gli pareva. Si aveva la bizzarra sensazione che avrebbe seguitato a lasciare che
la NASA si affannasse furiosamente credendo di riuscire a raggiungerlo per poi lanciare sul più
bello una nuova sorprendente dimostrazione di quanto realmente più avanti lui fosse.81

81
Tom Wolfe, La stoffa giusta, traduzione di Pier Francesco Paolini, p. 189
47

Negli anni del redditizio binomio Krushev-Korolev, “qualsiasi traguardo si prefiggesse la NASA,
l’Unione Sovietica era in grado di tagliarlo per prima.”82
Il declino della cosmonautica sovietica, come detto, inizia proprio con la deposizione di Krushev.
Con la salita al potere di Breznev, le cose si fanno molto più difficili per Korolev, come si evince da
una scena di Spacewalker. Il costruttore capo incontra il nuovo segretario generale nella sala di un
cinema. Il lancio di prova della Voskhod 2 non è andato come previsto e Korolev ha premura di
illustrare al Segretario tutti i dettagli del fallimento. Breznev (Valeryi Grishko), in tutta risposta,
propone che la conversazione inizi alla fine del film. È disinteressato, dà l’impressione di non avere
tempo per le questioni spaziali. Alla fine, congeda Korolev dicendo: «Sappia che non c’è nessun
indispensabile per noi. Tranne lei, Pavlovich». Tuttavia, la lezione è chiara: il tempo delle stelle per
l’URSS sta per volgere al termine.

82
Ivi, p. 190
48

6 - Gemini e Apollo, assalto alla Luna

Con l’avvento di Breznev e la morte di Korolev, dunque, l’Unione Sovietica comincia a perdere
terreno a favore della controparte, che vede il sorpasso sempre più vicino. Uno scenario prevedibile,
considerati i continui progressi tecnologici e i fondi sempre più cospicui di cui dispone il
programma statunitense nel corso degli anni. Già ai tempi dei satelliti privi di equipaggio umano,

[G]li americani iniziano, seppur a fatica, a recuperare lo svantaggio, se non altro da un punto di
vista puramente numerico. I fallimenti sono numerosi e tra Explorer, Discoverer e Pioneer
[satelliti lanciati dalla NASA, ndr] sono molti i satelliti andati perduti; ma non sono neanche
pochi quelli che vanno in orbita. Anzi, considerando un rapporto puramente numerico, alla
vigilia del volo di Gagarin, per ogni satellite russo ce ne saranno quattro americani.83

In quegli anni, nelle fila americane, prende piede l’idea secondo la quale i rivali, allo scopo di
generare stupore e fare notizia, si limitassero a lanciare nello spazio oggetti di grandi dimensioni,
che, però, non potevano competere con la tecnologia avanzata dei satelliti americani. Benché si
trattasse perlopiù di un modo per giustificare i continui trionfi sovietici, la tesi è senz’altro corretta,
come lucidamente notato da un portavoce del Pentagono:

Il nostro errore, se è un errore, è quello di creare mezzi avanzati per esattezza di congegni nelle
loro minuscole dimensioni. I russi non si curano delle raffinatezze e si concentrano nel lanciare
potenti ordigni che in un certo senso, a confronto con i nostri mezzi e strumenti filigranati,
possono sembrare rudimentali.84

Sulla stessa linea si pone il presidente Eisenhower:

I russi si concentrano sulle imprese spettacolari, […] noi abbiamo messo in orbita satelliti in
grado di fornirci informazioni di ogni tipo.85

Gagarin ce ne dà la conferma nella sua autobiografia, sebbene con l’obiettivo opposto, quello di
vantare le grandi navi spaziali sovietiche rispetto ai piccoli congegni americani:

Gli scienziati ed i costruttori sovietici […] s’erano sforzati di creare dei satelliti artificiali
pesanti della Terra e delle navi cosmiche di grandi dimensioni. Questa era la linea di principio
per lo sviluppo dei voli cosmici per l’Unione Sovietica. Il costruttore capo ci diceva che non
c’era altra via per realizzare il volo dell’uomo nel cosmo.86

83
Paolo Magionami, Gli anni della Luna. 1950-1972: l’epoca d’oro della corsa allo spazio, p. 52
84
Ivi, p. 46
85
Ivi, p. 52
86
J. Gagarin, La via del cosmo. Sputnik, Lunik, Vostok: l’assalto sovietico al cielo, a cura di Davide Rossi, p. 165
49

Con il passare degli anni, la strada della miniaturizzazione percorsa dalla NASA si rivela quella
giusta. Nel 1965, all’indomani dell’ultimo successo sovietico, l’amministratore della NASA James
Webb afferma:

I russi stanno facendo cose più spettacolari di noi […] però noi abbiamo attrezzature scientifiche
assai più raffinate. Abbiamo svolto missioni fotografiche superbe, abbiamo perfezionato
apparecchi e strumenti di valore incalcolabile.87

Tutto vero. Gli Stati Uniti stanno viaggiando a grande velocità verso il più grande dei traguardi: la
conquista della Luna. Un traguardo che è stato nelle menti della NASA per molti anni, sin da
quando il compianto presidente John Fitzgerald Kennedy fece il suo famoso discorso nel 1961. La
figura di Kennedy è fondamentale per le sorti della corsa allo spazio. Quando egli venne eletto
presidente nel gennaio del 1961, gli Stati Uniti stavano brutalmente perdendo la gara con i russi,
come abbiamo già avuto modo di constatare. Anche il popolo americano, ovviamente, aveva questa
impressione, che si rivelò azzeccata con la notizia del volo di Gagarin in aprile. A differenza del
predecessore Eisenhower, il nuovo presidente sembra comprendere l’importanza di questa gara e il
25 maggio 1961, a meno di un mese dall’impresa sovietica pronuncia un discorso in cui afferma la
volontà della nazione di vincere la corsa allo spazio:

È giunto il momento di compiere passi maggiori, il momento per una grande iniziativa
americana, il momento in cui la nazione deve assumere un ruolo di netta preminenza nelle
imprese spaziali. Ritengo che noi possediamo tutte le risorse e tutto il talento necessario.
Ritengo che il nostro paese debba impegnarsi a raggiungere, prima della fine del decennio in
corso, l’obiettivo di far atterrare un uomo sulla Luna e riportarlo sano e salvo sulla Terra.
Nessun altro progetto spaziale in questo momento sarà più emozionante, sensazionale, o
importante per la futura esplorazione dello spazio, e nessuno sarà altrettanto difficile e costoso
da realizzare. In senso più concreto non sarà un solo uomo ad affrontare il volo verso la Luna,
ma l’intera nazione, perché noi tutti dobbiamo adoperarci perché egli possa raggiungerla.88

Alla NASA non avevano dubbi: per quanto dispendioso e impegnativo, un viaggio sulla Luna era
possibile, persino entro la fine del decennio. Il dispendio economico per un’impresa del genere era
stimato intorno ai venticinque miliardi di dollari.
Kennedy sembrava aver compreso che un’impresa sulla Luna entro la fine del decennio fosse
l’unico modo per battere i russi. Il concetto è espresso molto bene dal personaggio di Donald

87
Paolo Magionami, Gli anni della Luna. 1950-1972: l’epoca d’oro della corsa allo spazio, p. 111
88
Ivi, pp. 130-131
50

Slayton nel prossimo film che andremo ad analizzare: First Man - Il primo uomo (First Man,
Damien Chazelle, 2018):

Sputnik, Sputnik 2, Vostok, Gagarin. The soviets have beaten us in every single major space
accomplishment. Our program couldn’t compete. So we’ve chosen to focus on a job so difficult,
requiring so many technological developments, that the russians are gonna have to start from
scratch. As will we.

Il presidente aveva altresì capito che senza il sostegno e l’entusiasmo dell’opinione pubblica
statunitense tutto ciò non sarebbe stato possibile, rimarcando il concetto espresso dai personaggi di
Glennan e Powers nella serie The Right Stuff: Uomini Veri: votes mean money, i voti significano
denaro.
Il discorso non fa subito presa sui cittadini, che non si aspettavano dichiarazioni del genere in quel
momento, soprattutto considerando i fallimenti del loro programma spaziale. Tali parole dovettero
apparire quantomeno azzardate.
Così, circa un anno dopo, con il celebre Discorso alla Rice University sullo sforzo spaziale della
nazione del 1962, il presidente rincara la dose:

Salpiamo su questo nuovo mare perché c'è nuova conoscenza da acquisire e nuovi diritti da
conquistare, che devono essere conquistati e utilizzati per il progresso di tutte le persone. Perché
la scienza spaziale, come la scienza nucleare e tutta la tecnologia, non ha una coscienza propria.
Se diventerà una forza positiva o negativa dipende dall'uomo, e solo se gli Stati Uniti
occuperanno una posizione di preminenza possiamo aiutare a decidere se questo nuovo oceano
sarà un mare di pace o un nuovo terrificante teatro di guerra. Non dico che dovremmo o
andremo senza protezione contro l'abuso ostile dello spazio più di quanto non ci proteggiamo
contro l'uso ostile della terra o del mare, ma dico che lo spazio può essere esplorato e dominato
senza alimentare i fuochi della guerra, senza ripetere gli errori che l'uomo ha commesso
estendendo il suo scritto intorno a questo nostro globo. Non ci sono ancora conflitti, pregiudizi,
conflitti nazionali nello spazio. I suoi rischi sono ostili a tutti noi. La sua conquista merita il
meglio di tutta l'umanità e la sua opportunità di cooperazione pacifica potrebbe non presentarsi
mai più. Ma perché, dicono alcuni, la Luna? Perché scegliere questo come nostro obiettivo? E
potrebbero chiedersi, perché scalare la montagna più alta? Perché 35 anni fa si volava
sull'Atlantico? Perché Rice gioca in Texas?
Scegliamo di andare sulla Luna. Scegliamo di andare sulla Luna... Scegliamo di andare sulla
Luna in questo decennio e fare le altre cose, non perché sono facili, ma perché sono difficili;
perché quell'obiettivo servirà a organizzare e misurare il meglio delle nostre energie e capacità,
perché quella sfida è una sfida che siamo disposti ad accettare, una che non siamo disposti a
rimandare e una che intendiamo vincere, e anche le altre.

Con questo discorso, Kennedy punta i riflettori sulla differenza delle intenzioni americane rispetto a
quelle sovietiche. Se si vuole evitare che questo nuovo terreno, lo spazio, divenga teatro di guerra e
51

terrore, è necessario che siano gli Stati Uniti d’America a vincere la gara. Per scongiurare un
“nuovo terrificante teatro di guerra”, per esplorare lo spazio “senza alimentare i fuochi della guerra”
bisogna arrivare primi.
La spinta dell’amato e compianto presidente ha un’importanza fondamentale. Senza il suo impegno
il programma spaziale statunitense non sarebbe riuscito a mandare un uomo sulla luna, o
quantomeno non l’avrebbe fatto in quel decennio. Kennedy riesce a smuovere il cuore e la mente di
una popolazione che si sentiva sconfitta, facendo leva sulla voglia di riscatto e di rivalsa. Da questo
momento in poi, il programma spaziale americano potrà contare sull’entusiasmo dell’intera
popolazione.
Dopo i voli dei Sette del Mercury, ha inizio la parte del programma spaziale statunitense dedicata
alla conquista della Luna. Apre i battenti il progetto Gemini, e il progetto Apollo lo seguirà qualche
anno più tardi. Dopo due anni di schiacciante supremazia sovietica, gli Stati Uniti, finalmente,
raggiungono il livello degli acerrimi rivali:

Malgrado i progressi effettuati con i lanci Mercury, l’altra metà del mondo aveva dimostrato di
possedere un programma spaziale superiore. Alla fine del 1963 un dato bastava a evidenziare il
divario: la sola Valentina Tereshkova era rimasta nello spazio 17 ore in più rispetto alle ore
accumulate in orbita da tutti gli astronauti Mercury messi insieme. Il programma Gemini […]
era stato elaborato non solo per colmare il divario ancora esistente ma per preparare l’uomo al
balzo più importante89

La missione principale del progetto Gemini era, infatti, preparare il terreno per il progetto Apollo,
sviluppando le tecniche per i viaggi spaziali avanzati che avrebbero portato un uomo americano
sulla Luna. Dopo le prime due missioni senza equipaggio, la Gemini 3 prende il volo il 23 marzo
1965, appena cinque giorni dopo la Voskhod 2. A bordo della capsula, studiata per poter ospitare
due astronauti, ci sono John Young e Gus Grissom. Al primo gruppo di astronauti Mercury si sono
aggiunti, infatti, altri nove uomini, scelti da una lista di 253 candidati: Neil Armstrong, Frank
Borman, Charles Pete Conrad, James A. Lovell, James McDivitt, Elliott See, Tom Stafford, Edward
H. White e John W. Young, ribattezzati dai giornalisti The New Nine. Una nuova pagina della storia
della prima era spaziale è pronta per essere scritta.

89
Ivi, p. 114
52

6.1 - First Man - Il primo uomo

Il lungometraggio di Damien Chazelle First Man - Il primo uomo prende le mosse proprio dalla
nascita del progetto Gemini. Il film, pur essendo più che altro una biografia del primo uomo a
calcare il suolo lunare (la pellicola è un adattamento della biografia ufficiale di Armstrong),
racconta con dovizie di particolari la storia dei progetti Gemini e Apollo, coprendo un periodo di
otto anni, dal 1961 al 1969. Nel film vediamo che la NASA, a differenza di quanto accaduto con il
progetto Mercury, per questo secondo gruppo è alla ricerca soprattutto di piloti-ingegneri. Lo
sentiamo nei primi minuti nel film. Dopo un volo in cui Armstrong (Ryan Gosling) rischia di uscire
fuori dall’atmosfera, uno dei suoi superiori dice: «Kid’s a good engineer». Non dice “il ragazzo è un
buon pilota”, ma “il ragazzo è un buon ingegnere”, a conferma che i tempi sono cambiati, la NASA
non ha più bisogno esclusivamente di piloti provenienti dalla branca militare, ma di uomini che
sappiano cavarsela in entrambi gli ambienti. Il tempo degli scimpanzé che erano in grado di volare
nello spazio allo stesso modo degli uomini è giunto a conclusione. Ora i piloti diventano parte
integrante dell’intero progetto, non solo del viaggio. La questione viene ribadita qualche minuto più
tardi, quando Armstrong viene a sapere che hanno chiesto di lui da Houston per il progetto Gemini:
«They’re looking for pilots with a solid background in engineering». Oltre ad essere stato un pilota
militare, infatti, Armstrong aveva conseguito una laurea in ingegneria.
Neil Armstrong nasce il 5 agosto del 1930 in una cittadina dell’Ohio e riceve il suo primo brevetto
di volo a soli 15 anni. Nel 1947 inizia i suoi studi al college presso la Purdue University, nel corso
di ingegneria astronautica. Per pagare la retta universitaria partecipa al Piano Halloway, secondo il
quale, dopo tre anni di studio, i candidati avrebbero prestato servizio militare per tre anni, per poi
laurearsi nei due anni seguenti. Così Armstrong partecipa alla Guerra di Corea come aviatore della
marina statunitense, portando a termine 78 missioni in volo. Dopo il servizio, consegue la laurea di
primo livello in ingegneria aeronautica nel 1955. Nel marzo dello stesso anno diventa un pilota
collaudatore per la NACA, il vecchio nome della NASA, dove effettua più di novecento voli. La
sua vita da astronauta inizia nel 1962, come uno dei New Nine del progetto Gemini. Nel film
assistiamo ad alcune fasi dell’addestramento dei nuovi piloti, nelle quali incontriamo due
personalità già viste negli adattamenti di The Right Stuff: Gus Grissom e Deke Slayton, stavolta
interpretati rispettivamente da Shea Whigham e Kyle Chandler. Dopo che gli viene diagnosticato il
problema al cuore, Slayton è costretto a rinunciare alla carriera di astronauta; il suo volo
costituirebbe un rischio troppo grande.
53

La notizia della sua inadeguatezza devasta Slayton.

Ecco dunque Donald K. Slayton, Deke per gli amici, capo degli astronauti e vittima della più
atroce sfortuna che possa capitare a chi fa il suo mestiere. Slayton infatti e non Glenn doveva
essere il primo americano a orbitare la Terra, sostenere il ruolo di eroe. Lo avevano scelto
perché era il migliore del gruppo: secondo i suoi stessi compagni, quello con maggior
preparazione e freddezza. E mancavano solo sette settimane quando i medici dell’Avazione gli
dissero che non sarebbe partito: il suo cuore non era perfetto. Soffriva di fibrillazione atriale
idiopatica: l’accelerazione violenta, la pressione sestuplicata avrebbero potuto causargli
un’anemia cerebrale e anche di più.90

Il difetto del cuore di Slayton era noto fin dal 1959 e, fino a un paio di mesi prima del suo lancio,
non aveva destato alcuna preoccupazione tra i medici della NASA:

«Si tratta di un disturbo non grave, difficile a udirsi anche nella fase più acuta, pericoloso solo
in chi è affetto da ipocondria. Ma egli è il contrario dell’ipocondriaco: lo distingue un controllo
eccezionale»91

Ma, col primo volo orbitale americano che si avvicina, la posta in gioco è troppo alta per correre
anche il più banale dei rischi. Dopo tutti i fallimenti, la NASA non poteva permettersi di perdere un
astronauta sotto gli occhi dell’opinione pubblica americana e mondiale

«No, non deve andar su. Se muore che figura ci facciamo con i russi?». «No, non bisogna
mandarlo. Se muore tutti si porranno contro la corsa spaziale.»92

Questa volta, la politica di chiarezza americana rema contro i suoi stessi fautori e a pagarne il
prezzo è il povero Donald Slayton, che continua comunque a perseguire il suo obiettivo:

[C]ominciò allora la più disperata battaglia che un uomo possa sostenere quando si vede
scivolar via dalle mani il suo sogno, lo scopo cui ha dedicato la vita. E di dottore in dottore,
ripassando ogni esame, la ruota centrifuga, la Camera Calda, i piedi nel ghiaccio, i supplizi che
nessuno di loro vorrebbe ripetere e darebbe chissacché per scordare, Slayton tentò di provare
che il difetto era innocuo, insignificante93

Le opere che abbiamo analizzato ci hanno dato modo di capire che la cosa che conta di più nella
vita di un pilota è volare; perciò, non è difficile comprendere la reazione di Deke quando ha saputo

90
Oriana Fallaci, Se il sole muore, p. 107
91
Ivi, p. 108
92
Ibidem
93
Ivi, pp. 107-108
54

di essere l’unico dei Mercury 7 a non poter compiere la propria missione. La scena di Uomini Veri;
The Right Stuff nella quale Kraft comunica a Slayton la decisione della NASA, una delle più
toccanti della serie, ci aiuta a capire il suo stato d’animo e sottolinea quanto raccontato da Fallaci
sulla prontezza di Deke: «I think you’re the best damn pilot in this whole program. If it was up to
me you’d be first», afferma Kraft. Slayton fa tutto ciò che è in suo potere per volare nello spazio,
ma alla NASA non ne vogliono sapere, e continuano a rimandare la sua missione. Deke vede
sfumarsi davanti i programmi Mercury, Gemini e Apollo senza poter mai partire per il cosmo. La
sua persistenza viene ripagata nel 1975, con la missione che sancisce convenzionalmente la fine
della corsa allo spazio. Egli è un membro dell’equipaggio della missione Apollo-Sojuz, in cui una
navicella statunitense e una sovietica si incontrando nello spazio, simboleggiando così la volontà di
una collaborazione pacifica tra le due superpotenze.
Nel frattempo, la NASA affida a Slayton un ruolo altrettanto importante all’interno dell’agenzia:
egli diventa il primo capo dell’ufficio astronauti della NASA, il responsabile del corpo astronauti. Il
suo compito è scegliere l’equipaggio delle missioni spaziali e sovrintendere all’addestramento degli
astronauti. Nel film, infatti, in quella che ha l’aspetto di una classe, assistiamo alla lezione tenuta da
Deke agli astronauti riguardo l’obiettivo del progetto Gemini:

If we want to ge this done [lo sbarco sulla luna, ndr], we need to prove that two ships can find
each other in orbit and dock without crashing. That’s the primary mission of project Gemini.
When we think you’re ready, each of you will be assigned a flight with a specific task. Only
after we master all these tasks we move on to Apollo. Consider trying to land on the moon.

Poi chiede a Gus se ha qualcosa da aggiungere. «Just do your job», risponde Grissom. La risposta di
quest’ultimo potrebbe essere una citazione ad un fatto realmente accaduto agli albori del progetto
Mercury, quando gli astronauti stavano diventando idoli della popolazione. L’evento è raccontato
da Tom Wolfe ne La stoffa giusta:

Gus Grissom si trovò un giorno in visita agli stabilimenti Convair di San Diego dove si
costruiva il razzo Atlas e anche lui, al pari di Cooper, si sentiva a disagio in tali faccende di
pubbliche relazioni. Chiedere a Gus di dire due parole era come mettergli in mano un rasoio e
pregarlo di tagliarsi le vene. Senonché lì c’erano centinaia di operai raccolti nel principale
auditorium degli stabilimenti Convair per vedere Gus e gli altri sei e tutti sorridevano loro
raggianti e i pezzi grossi della Convair fecero i loro discorsetti quindi toccò agli astronauti dire
due parole e d’un tratto Gus si accorse che era arrivato il suo turno… e non seppe cosa dire. Si
sentì come pietrificato. Aprì la bocca… e ne uscirono quattro parole: « Be’… fate un buon
lavoro! » Era un’osservazione ironica, che sottintendeva: « …poiché dovrò sedermici io sopra il
vostro dannatissimo razzo ». Ma gli operai si misero ad applaudire come matti, come se
avessero ascoltato il più commovente ed esaltante messaggio della loro vita: fate un buon
lavoro! Dopotutto era il piccolo Gus che si doveva sedere in cima a quel razzo. Continuarono ad
55

applaudire per un’eternità, mentre Gus li guardava dall’alto della tribuna « papale ». Non solo:
gli operai, non i dirigenti dell’azienda, bensì gli operai, fecere confezionare un enorme
stendardo da appendere nell’officina principale sul quale erano ricamate quelle parole: FATE
UN BUON LAVORO.94

Successivamente nel film, vediamo la rabbia e il disappunto di Edward White (Jason Clarke) alla
notizia del volo di Leonov. White, infatti, avrebbe dovuto essere il primo uomo a compiere
un’attività extraveicolare nella missione Gemini 4, che ha luogo il 3 giugno 1965, quasi tre mesi
dopo i rivali.
Durante il lancio della missione Gemini 5 (21 agosto 1965, equipaggio Gordon Cooper e Charles
Conrad), Slayton comunica ad Armstrong che farà parte della missione numero 8, la prima a tentare
un rendezvous con il modulo Agena, cioè un aggancio tra due navicelle, manovra fondamentale per
il viaggio verso la Luna. Il lancio avviene il 16 marzo 1966 con a bordo Armstrong e David Scott,
interpretato nel film da Christopher Abbott. La manovra di aggancio viene effettuata con successo
senza problemi, ma una volta agganciati, la navicella comincia a ruotare incontrollabilmente su sé
stessa a grande velocità. La situazione è critica, i due piloti stanno per svenire, ma Armstrong riesce
a stabilizzarla, sprecando, però, troppo carburante e vedendosi costretto a iniziare la procedura di
rientro prima del tempo. La missione dura solo dieci ore e quarantadue minuti, a fronte delle
trecentotrenta ore della precedente, la Gemini 7. Come vediamo nel film, i pericoli corsi durante il
volo, fanno nascere dei dubbi sull’opinione pubblica circa il progetto. Si comincia a chiedersi se ne
valga ancora la pena, soprattutto considerando la tragica morte dei due astronauti Charlie Bassett e
Elliott See del 28 febbraio 1966, a causa di un incidente a bordo di un aereo T-38. Dopo quanto
accaduto con la Gemini 8, Armstrong, Scott e tutta la squadra della NASA finiscono sotto inchiesta
da parte della stampa e in una scena, durante una conferenza stampa, una giornalista rivolge ad
Armstrong una domanda che probabilmente occupava la mente di molti: «With this so hot on the
heels of the loss of Charlie Bass and Elliott See, do you question whether the program is worth the
cost? In money and in lives?».
I problemi della Gemini 8, in ogni caso, non alterano il prosieguo del programma, che vede il lancio
di ben quattro altre navicelle nel 1966. Il programma Gemini termina il proprio corso l’11
novembre, con la Gemini 12, nella quale Edwin Aldrin rimane fuori dalla capsula per il tempo
record di cinque ore e trenta minuti.
Il film non menziona queste ultime missioni, passando direttamente all’inizio del programma
Apollo. Alla NASA l’entusiasmo è palpabile, finalmente il tanto agognato sorpasso sui rivali è

94
Tom Wolfe, La stoffa giusta, traduzione di Pier Francesco Paolini, p. 119
56

realtà, le condizioni del programma sovietico sono pessime e il programma americano continua a
viaggiare molto velocemente. L’umore nella Space Agency è molto alto. Nessuno si aspetta la
tragedia che sta per accadere:

È il 27 gennaio, i serbatoi del razzo Saturn sono vuoti e dentro l’Apollo 204 gli astronauti Virgil
Grissom, Edward White, entrambi veterani dello spazio, e la matricola Roger Chaffee si
apprestano a fare pratica sulla nuova capsula, simulando una serie di manovre. Il programma
pare banale ma le stelle non sembrano propizie. “Come pensate di mandarci sulla Luna”, dice
Grissom alla sala di controllo, “se non riusciamo a parlarci nemmeno a poche decine di metri di
distanza?”. Le comunicazioni difettano in questo primo test a terra, ma si va avanti lo stesso,
dopotutto le simulazioni a terra servono proprio a questo. D’improvviso la tragedia. “C’è fuoco
in cabina”, urla White, cui segue la voce isterica di Grissom. Si capisce poco, le comunicazioni,
come aveva ammonito lo stesso astronauta, non sono buone. A bordo si lotta contro un incendio
divampato chissà come. Il tutto dura pochi secondi. […] Dal momento della prima drammatica
invocazione a quello in cui i medici riescono ad affacciarsi dentro la cabina passano 14 minuti.
All’interno lo spettacolo è pietoso. L’unica cosa che non è bruciata è un foglio di carta con gli
ordini del giorno che White teneva sulle gambe.95

Il film mostra quanto accaduto all’interno della Apollo 204 nel dettaglio, chiudendo la scena con
un’inquadratura del portello della capsula, quasi accartocciato dalla potenza dell’esplosione.

Da una scena di First Man - Il primo uomo (First Man, Damien Chazelle, 2018)

Nello stesso momento, Armstrong/Gosling è ad un ricevimento alla Casa Bianca, insieme a molti
pezzi grossi sia della NASA che del governo americano. Un senatore americano esprime tutte le

95
Paolo Magionami, Gli anni della Luna. 1950-1972: l’epoca d’oro della corsa allo spazio, pp. 127-128
57

titubanze dei contribuenti americani sulla missione in uno scambio di battute con Armstrong e Jim
Lovell (Pablo Schreiber):

Lovell: We finished strong with Gemini and we’re very, very bullish on Apollo, Senator.
Senatore: I should hope so, given the time we’ve spent developing it. Half the country doesn’t
think it’s worth it anymore.
Armstrong: Uh, well, we learned to fly only sixty years ago, so if you consider the
technological developments in the context of history…
Senatore (lo interrompe): I’m considering it in the context of taxpayer dollars.

Armstrong cerca di sottolineare l’importanza del progresso tecnologico legato all’impresa spaziale,
ma il senatore ci ricorda ancora una volta quanto affermato da Neil deGrasse Tyson: una delle
ragioni principali della corsa allo spazio è il denaro; l’esplorazione e le innovazioni tecnologiche
sono solo una mera conseguenza. La morte dei tre astronauti dell’Apollo 1 rafforza la tesi del
senatore e di una buona fetta di popolazione: se questo è il prezzo da pagare, forse non vale la pena
mandare un essere umano sulla Luna. First Man concede molto spazio alla contestazione popolare
riguardo la missione sulla Luna, anche nelle scene successive.
Contro questo pensiero si pone il direttore della NASA Robert Gilruth:

Per me è la più ambiziosa e impegnativa avventura nella storia dell’uomo. Indipendentemente


da quello che sta facendo l’Unione Sovietica, negli Stati Uniti dobbiamo procedere con il nostro
programma. La nostra opera deve rappresentare il meglio che uomini impegnati, capaci e
ispirati riescano a fare.96

Ancora più pertinenti le parole che Grissom aveva pronunciato al suo rientro dalla missione Gemini
3:

Se moriremo, vogliamo che la gente lo accetti. Siamo in un affare rischioso e speriamo che
qualunque cosa ci accada non ritardi il programma. La conquista dello spazio è una cosa degna
di rischiare la vita.97

Gli astronauti sapevano bene a cosa andassero incontro fin dall’inizio. Ancora una volta, il
programma continua secondo i piani.
Le missioni successive servivano a confermare la possibilità di uno sbarco sulla Luna:

In linea di massima l’attacco alla Luna prevedeva le seguenti tappe: lancio di una navicella
Apollo con Saturn V; separazione dal razzo e avvicinamento alla Luna della navetta Apollo

96
Ivi, p. 130
97
Ibidem
58

composta dai tre moduli agganciati; inserimento in orbita lunare; separazione della navicella in
un modulo orbitante e in uno di discesa, il LEM (Lunar Excursion Module); discesa sulla Luna
del LEM; viaggio di ritorno dello stadio superiore del modulo lunare verso il modulo rimasto in
orbita e successivo aggancio; rientro in orbita terrestre del Modulo di Comando.98

Le missioni Apollo dalla 2 alla 6 sono lanci privi di equipaggio. L’Apollo 7, con a bordo Wally
Schirra, Don Eisele e Walter Cunninghum parte verso lo spazio l’11 ottobre 1968, quasi due anni
dopo l’ultimo lancio americano con uomini a bordo, Gemini 12. La tragedia dell’Apollo 1 è ancora
vivida nella mente di tutti, ma fortunatamente tutto procede in modo impeccabile, nonostante il
fastidioso raffreddore dell’equipaggio, e la capsula ammara in acque americane il 22 ottobre. La
missione successiva acquista particolare importanza per un avvenimento unico: Frank Borman,
James Lovell e William Anders sono i primi uomini ad orbitare la Luna. Sulla Terra giunge una foto
storica: Earthrise, l’immagine del nostro pianeta che sorge.

Il 3 marzo 1969 è il turno dell’Apollo 9, il cui scopo principale è simulare in orbita terrestre la
procedura necessaria per uno sbarco sulla Luna. James McDivitt, David Scott e Russell Schweickart
svolgono tutte le manovre con successo, testando l’efficacia del LEM, ma non tutti i dubbi sono

98
Ivi, p. 132
59

fugati, così alla NASA decidono di effettuare un altro volo prima di intraprendere la missione più
importante. Obiettivo dell’Apollo 10 è

compiere quello che le due precedenti missioni avevano effettuato separatamente, ossia, volare
intorno alla Luna, come l’Apollo 8, ed effettuare le manovre di sgancio e aggancio tra modulo
di comando e modulo lunare, come l’Apollo 9, stavolta però intorno al nostro satellite naturale99

Data la fondamentale importanza della missione, l’equipaggio è uno dei migliori dell’intero
programma spaziale americano: Thomas Stafford, già a bordo di Gemini 6 e 9, John Young, già
Gemini 3 e 10 e Eugene Cernan, pilota della Gemini 9. La capsula parte da Cape Kennedy il 18
maggio 1969, La missione è un successo, tutte le manovre, anche le più complicate e pericolose,
sono state eseguite con sufficiente facilità. La navicella ammara dolcemente otto giorni dopo, il 26
maggio. La conquista della Luna è, ormai, solo questione di tempo.

6.2 - Il lato umano del primo uomo

Il lungometraggio di Chazelle non mostra le missioni citate precedentemente, passando direttamente


dall’incidente dell’Apollo 1 alla missione Apollo 11. La navicella parte alla volta della Luna il 16
luglio 1969, con a bordo Neil Armstrong, Edwin Aldrin e Micheal Collins.
L’equipaggio dell’Apollo 11 non godeva di grande simpatia tra i giornalisti, che lo indicavano con
il soprannome di “equipaggio silenzioso”:

L’equipaggio silenzioso, Neil Armstrong, Edwin “Buzz” Aldrin e Michael Collins, non ha nella
loquacità la caratteristica migliore. Stanno per andare nello spazio per compiere una missione:
sbarcare sulla luna, piantare una bandiera e tornare sani e salvi alla Terra. “Non chiamatela
avventura”, precisa Armstrong, “è un problema tecnico che cercheremo di risolvere nel migliore
dei modi”100

La conferma ci viene data nel settimo episodio della terza stagione della serie Netflix The Crown.
Se è vero quanto affermato dal personaggio di Loudon Wainwright in The Right Stuff: Uomini Veri,
ossia che i fatti, attraverso il filtro della finzione, possono avvicinarci alla verità, la “testimonianza”
presente in un’opera di fiction come The Crown è da considerarsi più che mai credibile e veritiera.
Il principe Filippo, grande appassionato di aviazione e astronautica, chiede un’udienza privata con i

99
Ivi, p. 148
100
Ivi, p. 162
60

tre piloti in visita a Buckingham Palace, per avere modo di conoscerli e porre loro delle domande. Il
grande entusiasmo del principe lascia posto ad una delusione cocente quando, dopo averci parlato,
capisce che tipo di uomini sono. «I expected them to be giant, gods. In reality they were just three
little men. […] They delivered as astronauts, but… they disappointed as human beings», sentenzia
amareggiato.
E ancora, scrive Oriana Fallaci di Neil Armstrong:

Io, quando lo conobbi cinque anni fa, me ne sentii respinta e molta gente m’ha detto d’aver
provato la medesima cosa. Anche a causa della sua timidezza che è enorme e che egli combatte
con l’arroganza. […] Chiunque te lo descriverà come «a cold, calculating guy. Un tipo freddo,
calcolatore». Il suo modo di pensare e di vivere è rigido quanto una operazione aritmetica, tutto
in lui è calcolato come dentro un computer e fra i cinquantadue astronauti americani è colui che
più di ogni altro possiede le virtù del robot. Vale a dire assenza di passioni, ordine e legge,
controllo, nessuna fantasia. […] Io, che l’ho visto più volte in questi anni, non sono mai riuscita
a stabilire con lui un contatto che assomigliasse a un contatto umano, a farlo mai indulgere a un
attimo di cordialità, di curiosità, di calore101

Armstrong mantenne la stessa freddezza anche nel momento dell’allunaggio:

Si pensa che per lo storico avvenimento Armstrong si lasci finalmente andare, descrivendo con
un poco di liricità quello che nessun uomo ha mai visto prima. Niente di tutto questo. Freddo e
calcolatore, con voce quasi annoiata, imposta con Houston un dialogo fatto di sigle e numeri102

Non bisogna, però, dimenticare che quelle che Fallaci chiama negativamente “le virtù del robot”
sono, per un astronauta, qualità lodevoli e necessarie.
Il Neil Armstrong interpretato in First Man da Ryan Gosling, in un certo senso, si porta dietro tutto
questo. Chazelle e lo sceneggiatore John Singer (premio Oscar per Il caso Spotlight) cercano di
restituire la complessità del primo uomo a calpestare il suolo lunare, concentrandosi sulla parte
della sua vita che è meno nota e analizzandola nel profondo. «Il mio obiettivo con questo film era
quello di condividere il non visto, gli aspetti più sconosciuti della missione. In particolare la storia
personale di Neil Armstrong e di ciò che ha pensato o sentito durante quelle celebri ore», afferma il
giovane regista. Il film, infatti, inizia con la morte di Karen, la figlia di quattro anni di Armstrong.
Questo avvenimento può essere visto come la causa principale dell’atteggiamento discreto e
riservato dell’astronauta, che a volte può risultare sgradevole. Forse, in questo modo, si spiega la
pessima impressione che i giornalisti ebbero di lui.

101
Oriana Fallaci, Quel giorno sulla Luna, 1970, http://www.oriana-fallaci.com/armstrong/intervista.html (consultato il
22/08/2022)
102
Paolo Magionami, Gli anni della Luna. 1950-1972: l’epoca d’oro della corsa allo spazio, p. 169
61

Date queste premesse, Ryan Gosling, con il quale Chazelle aveva già lavorato in La La Land (id.,
Damien Chazelle, 2016), è una scelta assolutamente azzeccata per interpretare Armstrong. L’attore
canadese è un “virtuoso della dissimulazione”103 ed ha una certa dimestichezza con personaggi
silenziosi, come ha abilmente dimostrato in Drive (id., Nicholas Winding Refn, 2013). Nel corso
del film, sono rari i momenti in cui Gosling/Armstrong esprime delle emozioni. Il volto
volutamente inespressivo di Gosling restituisce pienamente il dolore privato e profondo di un padre
che affronta la perdita della figlia. Il clima in casa Armstrong è ovviamente molto teso, la tristezza e
l’incredulità regnano sovrane. Il regista restituisce queste emozioni affidandosi, per tutte le scene in
casa, a una ripresa con macchina a mano molto mobile, volutamente incerta, instabile,
singhiozzante, che non ricerca mai la completa stabilità. Il risultato ricorda molto i filmini di
famiglia realizzati con macchine da presa improvvisate. Nei momenti più duri per la famiglia
Armstrong l’inquadratura oscilla e trema, rispecchiando lo stato fragile e sgretolato della famiglia.
Questa scelta tecnica viene mantenuta per l’intera durata del lungometraggio.
Neil, suo malgrado, ha molta familiarità con la morte. Infatti nel film assistiamo non solo alla
perdita della figlia, ma anche ai decessi dei colleghi e amici astronauti. Ogni volta che Neil viene a
contatto con la morte, il ricordo della perdita della figlia, leitmotiv dell’intero lungometraggio,
riemerge prepotentemente nella sua mente. A cominciare dall’incidente di Elliott See, con cui Neil
aveva molto legato. Durante il funerale del povero astronauta, non riesce a reggere la tensione e il
dolore, e va via da casa See lasciando lì sua moglie Janet (Claire Foy). Una volta giunto nel
giardino della propria abitazione, Neil è sconvolto, trema nervosamente, e così si rifugia nell’unica
cosa che riesce a calmarlo, guardare la luna attraverso un cannocchiale. Quando Edward White lo
raggiunge per parlargli, gli risponde in maniera scontrosa: «Do you think i left there ‘cause i wanna
talk to somebody?». Come accaduto dopo la morte di Karen, anche in questo caso assistiamo ad un
progressivo distacco dalla moglie e dai figli Rick e Mark, tenuti volutamente a distanza, non
partecipi del suo immenso dolore.
La travagliata missione Gemini 8 non fa che esacerbare questa situazione. Neil finisce nel mirino
della stampa e della NASA, che deve accertarsi che il problema non sia stato causato da errori degli
astronauti durante il volo. Quando arriva il verdetto, che scagiona completamente Armstrong da
qualsiasi colpa, la vita di Neil sembra finalmente andare per il verso giusto. L’amicizia con gli altri
astronauti è solida, specialmente con White, con cui trascorre molte piacevoli giornate in famiglia.
Anche l’atmosfera in casa è più serena, piena di sorrisi e risate da parte di tutti. Neil si apre con
White, parlando di sua figlia per la prima volta di tutto il film, anche se solo per poco. Questo è

103
First Man – Il primo uomo, recensione di Marzia Gandolfi, https://www.mymovies.it/film/2018/firstman/
(consultato il 24/08/2022)
62

anche il primo momento in cui un sorriso si palesa sul volto di Armstrong al pensiero della figlia,
suggerendo un ricordo felice.
Per questo, la tragedia dell’Apollo 1 ha l’aspetto di un fulmine a ciel sereno che colpisce in pieno la
vita di Neil proprio nel momento in cui era riuscito finalmente a concedersi una parvenza di felicità.
La morte degli astronauti, e soprattutto quella del grande amico Edward White, lo fa ripiombare nel
dolore, che gestisce come ha sempre fatto: distacco e solitudine, una reazione misurata, intima,
silenziosa, che non lascia trasparire alcuna emozione. Non si scompone nemmeno quando apprende
da Deke che sarà il comandante dell’Apollo 11. Durante la conferenza stampa precedente alla
missione, si dimostra antipatico e scontroso, rispondendo in modo freddo alle domande dei
giornalisti. Qui, sembra di vedere trasportato su schermo ciò di cui parlava Fallaci quando si riferiva
a lui come un uomo rigido, freddo e calcolatore:

Giornalista: Neil, when you learned you were going to command this flight, were you
surprised? Overjoyed?
Neil: I was pleased.
Giornalista: Okay, but how would you compare this feeling to winning an automobile or being
selected as an astronaut?
Neil (scocciato): I was pleased.

E ancora:

Giornalista: Neil, will you take anything [sulla Luna, ndr]?


Neil: Uh, if I had a choice, I’d take more fuel.

Il tragico evento provoca anche una spaccatura insanabile all’interno della famiglia. Neil si fa
sempre più schivo e restio ai rapporti umani, passa sempre meno tempo in casa e scambia sempre
meno parole con Janet, finendo per assomigliare sempre di più al “robot” descritto da Oriana
Fallaci.
Proprio per questo, un ruolo che possiamo definire “principale”, data la grande rilevanza nel film, è
quello di Janet Shearon, la moglie di Neil, interpretata dall’attrice britannica Claire Foy, autrice di
una prova di recitazione memorabile che le è valsa una candidatura ai Golden Globe per la migliore
attrice non protagonista.
Nel film di Chazelle il ruolo di Foy è fondamentale per ritrovare l’equilibrio e la tranquillità
famigliare – scossi dall’immenso dolore per la morte della piccola Karen e dalla tensione dovuta
alla partenza di Neil per la Luna – e per costruire un consapevole contrasto presenza/assenza di
emozioni con Gosling. Al Neil enigmatico, freddo e distaccato si contrappone il carattere passionale
di Janet. Questa contrapposizione dà vita ad una delle scene più intense del film. Nella parte finale,
63

nei momenti subito precedenti alla partenza di Neil, ha luogo una forte discussione tra i due. Janet,
stanca di essere la sola figura genitoriale per i suoi figli, vorrebbe che Neil smettesse di essere un
fantasma (o un robot) in casa e li salutasse, mettendoli al corrente che la missione avrebbe potuto
avere esito negativo, con la possibilità che lui non tornasse: «You’re gonna sit’em down. Both of
them. And you’re gonna prepare them for the fact that you might not ever come home. You’re
doing that. You. Not me». Così, assistiamo alla perfetta dimostrazione del contrasto
presenza/assenza di emozioni di cui parlavamo prima. Tramite un campo-controcampo alternato a
movimenti repentini di macchina a mano, quasi delle panoramiche a schiaffo, l’inquadratura – qui
più instabile che mai – passa dal primo piano di Gosling – freddo e quasi indifferente – a quello di
Foy – visibilmente nervosa e adirata. In questa scena, il Gosling “virtuoso della dissimulazione”
emerge pienamente con uno sguardo impassibile, quasi di pietra. Ribaltando il campo, Foy
restituisce magistralmente tutta l’esasperazione, la tristezza e la paura di Janet, che si traduce in
collera di fronte al comportamento arido e imperturbabile del marito.

Il volto inespressivo di Gosling/ Armstrong… …e quello agitato di Foy/Shearon


Da una scena di First Man - Il primo uomo (First Man, Damien
Chazelle, 2018)

Questo è lo scenario che Neil si lascia dietro quando parte per la madre di tutte le missioni spaziali.
Il tormento di Neil sembra avere fine durante la sua permanenza sul suolo lunare. Una volta rimasto
solo nell’assoluto silenzio del nostro satellite, il primo uomo rivive tutti i momenti vissuti con la
figlioletta, e lascia un suo ricordo in un cratere, un braccialetto con la scritta Karen che vediamo
nelle prime scene del film. Benché questo non sia un fatto storicamente verificato, è credenza
diffusa che Armstrong abbia portato sulla Luna qualcosa dedicato alla figlia. L’astronauta non ha,
infatti, mai rivelato interamente gli oggetti presenti nel suo kit personale (ogni astronauta aveva la
possibilità di scegliere una lista di oggetti da portare in viaggio con sé), come aveva fatto, invece, il
64

secondo uomo a mettere piede sulla Luna, Edwin Aldrin. In più, sappiamo che l’astronauta ha
passato circa dieci minuti in silenzio radio proprio sul ciglio di un cratere. Conoscendo questi
retroscena, Singer ha avuto buon gioco nella scelta del braccialetto, attribuendo a quel gesto la
volontà di Neil di fare pace col suo passato, abbracciando anche i ricordi gioiosi legati a Karen.
Al suo ritorno sulla Terra, infatti, si risolve la tensione con Janet: nella scena finale i due si
guardano in silenzio attraverso una parete di vetro (gli astronauti rimasero in isolamento per tre
settimane per paura che l’aria lunare potesse portare delle malattie). I due coniugi sembrano rivivere
in quei brevi momenti tutti i problemi che hanno dovuto affrontare durante la loro vita insieme.
Negli ultimi secondi del film, Gosling bacia la propria mano e la appoggia sul vetro. Foy fa lo
stesso con la sua, simboleggiando la volontà di rappacificazione. Questa costruzione scenica è un
marchio di fabbrica di Chazelle, presente in tutti i suoi lungometraggi. Anche Whiplash (id., 2014) e
La La Land, infatti, si chiudono allo stesso modo, con i due personaggi principali che si guardano
senza proferire verbo, ma con sguardi che comunicano molto.

Da sinistra a destra: Ryan Gosling (Neil Armstrong), Claire Foy (Janet Shearon). Scena conclusiva di First Man - Il primo uomo (First
Man, Damien Chazelle, 2018)
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7 - La fine della corsa allo spazio

La bandiera a stelle e strisce piantata sulla superficie lunare sancisce la vittoria della corsa allo
spazio da parte degli Stati Uniti. I sovietici, ancor prima dell’impresa americana, avevano fatto
sapere di non aver intenzione di inviare cosmonauti sulla Luna, limitandosi a raggiungerla
utilizzando delle sonde automatiche prive di equipaggio. Quasi in contemporanea con l’Apollo 11, i
russi avevano lanciato la Lunik 15, facente parte di un programma che aveva portato degli ottimi
risultati, soprattutto con la Lunik 9, “che era atterrata sulla Luna inviando numerose fotografie della
sua superficie, e la numero 10, primo manufatto umano a diventare un satellite artificiale della
Luna”104. La sonda numero 15 ebbe meno fortuna: mentre gli americani celebravano il più
grandioso dei successi, un bollettino della Tass avvisava, nel solito criptico stile sovietico, che la
sonda non aveva centrato i propri obiettivi. Appare ormai evidente che l’Unione Sovietica è fuori
dalla grande corsa allo spazio. La supremazia acquisita all’inizio dell’era spaziale, e saldamente
mantenuta per molti anni, aveva lasciato posto ad un divario incolmabile nei confronti della NASA,
manifestatosi per una serie di ragioni. In primo luogo, si tratta di una questione di denaro. Il
prodotto interno lordo sovietico è molto inferiore a quello statunitense, circa la metà a quel tempo.

104
Paolo Magionami, Gli anni della Luna. 1950-1972: l’epoca d’oro della corsa allo spazio, p. 181
66

Il settore spaziale non poteva reggere a lungo un confronto con un avversario che poteva contare su
fondi così cospicui. Il secondo motivo è da ricercare nella struttura dell’industria sovietica. Al suo
interno si lavora per compartimenti stagni, privi di comunicazione. Il programma americano, per
contro, ha fatto nascere un’industria di dimensioni colossali, nella quale la collaborazione e la
comunicazione sono all’ordine del giorno. La causa probabilmente più importante di questa
sconfitta sta nel ritardo dei computer sovietici rispetto a quelli americani. Gli Stati Uniti potevano
contare su calcolatori di quarta generazione, nell’URSS erano fermi alla seconda. Un’altra ragione
può essere trovata nelle parole di Deke Slayton, intervistato da Oriana Fallaci:

Il punto di vista russo è diverso: nella scelta degli astronauti non seguono il criterio di
selezionare i piloti. Non gliene importa nulla che siano buoni piloti […] Noi abbiamo sempre
pensato che il successo di un volo spaziale dipenda dall’uomo dentro la capsula, dal lavoro
dell’uomo dentro la capsula. È molto difficile costruire macchine completamente automatiche:
le macchine hanno la tendenza a fondere le valvole, ad andarsene per proprio conto, le macchine
non possono fare a meno dell’uomo. E allora tanto vale che l’uomo sia un tipo che se ne
intenda105

Quali che fossero le ragioni, alla fine degli anni ’60 la differenza tra le due superpotenze era
talmente grande che si può dire che gli USA stavano gareggiando con sé stessi. Per questo la
missione Apollo 12 non viene accolta con il solito entusiasmo da parte della popolazione, che si
chiede perché continuare:

Il leader del movimento nero, Ralph Aberrnathy, torna alla carica al motto “Luna no, Terra sì”,
invocando riforme economiche per i più poveri e diseredati; per il sociologo Marshall McLuhan
è solo una “ridicola arroganza” tornare sulla Luna, cui si associa il 59 per cento della
popolazione americana per cui, secondo i risultati di un sondaggio, la corsa allo spazio è
pressoché inutile.106

Alla polemica si aggiunge la delusione degli scienziati della NASA, che lamentano il fatto che fino
ad allora nessuno di loro è stato nello spazio. Ora che la competizione con i sovietici è giunta al
termine, essi sentono che il momento è propizio per inserire uno di loro tra i membri
dell’equipaggio, arricchendo la missione di esperimenti scientifici. Come abbiamo compreso dalle
parole di Neil DeGrasse Tyson, perché uno scienziato sia presente nell’equipaggio di una missione
lunare, bisognerà aspettare l’Apollo 17, l’ultima missione sul satellite della Terra, il 7 dicembre
1972. L’Apollo 12 parte da Cape Kennedy il 14 novembre 1969, con a bordo Richard Gordon,
Charles Conrad, Alan Bean e nessuno scienziato.

105
Oriana Fallaci, Se il sole muore, p. 127
106
Paolo Magionami, Gli anni della Luna. 1950-1972: l’epoca d’oro della corsa allo spazio, p. 184
67

7.1 - Apollo 13, un catastrofico successo

Il film diretto da Ron Howard Apollo 13 viene distribuito nelle sale nel 1995, venticinque anni dopo
la missione più tribolata del programma spaziale americano, datata 11 aprile 1970. A bordo della
sfortunata navicella numero 13 ci sono Jim Lovell, Fred Haise e Jack Swigert, interpretati nel film
rispettivamente da Tom Hanks, Bill Paxton e Kevin Bacon. Il lungometraggio ha inizio in casa
Lovell, dove le famiglie di alcuni astronauti sono riunite per assistere alla diretta dello sbarco sulla
Luna. Ci sono ovviamente i tre futuri astronauti Apollo 13, vediamo anche Pete Conrad (David
Andrews), membro Apollo 12, e Ken Mattingly (Gary Sinise), che avrebbe dovuto partecipare alla
missione 13 come pilota del modulo di comando Odissey. Pochi giorni prima del lancio, però, si
scopre che Charles Duke, uno dei membri dell’equipaggio di riserva, era stato esposto alla rosolia.
Lovell e Haise avevano già avuto entrambi la suddetta malattia, quindi ne erano naturalmente
immuni, Mattingly, invece, no. Perciò, per scongiurare la possibile apparizione della malattia
proprio nel giorno dello sbarco, il medico di volo impone di sostituirlo con il pilota di riserva, ossia
Swigert.
La scena presenta subito Lovell come veterano dello spazio, con Swigert che, introducendolo ad
una donna, dice: «This is the man. Gemini 7, Gemini 12, Apollo 8. They were the first ones around
the moon. They did ten laps». La macchina da presa inquadra anche la copertina del New York
Times “Men of the year” appesa al muro di casa Lovell.

Da una scena di Apollo 13 (id., Ron Howard, 1995)


68

La missione Apollo 8, infatti, era stata una vetrina importante per la NASA, dimostrazione della
perfezione del calcolo delle traiettorie degli ingegneri americani. La navicella, infatti, riesce a
orbitare la Luna perfettamente, senza il bisogno di correggere la rotta tracciata a terra, motivo di
grande soddisfazione per la space agency. Dopo aver compiuto dieci orbite intorno alla Luna, per
un totale di 20 ore, la capsula accende i motori e fa rotta verso la Terra, ammarando nelle acque del
Pacifico il 27 dicembre 1968. Oltre alla perfetta riuscita della missione, fa sensazione la magnifica
foto della Terra che sorge dalla Luna, che abbiamo già visto. Tutto questo fa sì che i tre astronauti,
Lovell, Borman e Anders si guadagnino la copertina del Times, diventando “Uomini dell’anno” e
ritagliandosi di fatto un posto nella storia. Per questo si può dire che l’ultimo traguardo nella
grandiosa carriera di Lovell sia proprio lo sbarco sulla Luna, una meta da lui molto ambita. Lo
capiamo molto presto nel film, quando, avvicinandosi con uno zoom, la macchina da presa inquadra
in primo piano il suo volto colmo di invidia e desiderio mentre assiste in diretta ai primi passi di
Armstrong sulla superficie lunare. Lo sguardo di Lovell/Hanks trasmette anche una sorta di
malinconia per non essere stato lui il primo a raggiungere quel traguardo eccezionale.

Primo piano di Tom Hanks (Jim Lovell). Da una scena di Apollo 13 (id., Ron Howard, 1995)

«I want to go back there», dice poco dopo alla moglie Marylin guardando la Luna. Il programma
della NASA pianificava di mandare Lovell sulla Luna con l’Apollo 14, come scopriamo nella scena
seguente, in cui Jim sta accompagnando alcuni visitatori in un tour di Cape Kennedy:

Visitatore: When are you going up again, Jim?


Lovell: I’m slated to be the commander of Apollo 14 sometime late next year.
69

Visitatore (sorride imbarazzato): If there is an Apollo 14. Now, Jim, people in my state have
been asking why we’re continuing to fund this program now that we’ve beaten the Russians to
the moon.
Lovell: Imagine if Christopher Columbus had come back from the New World and no one
returned in his footsteps.

Neanche l’Apollo 13 incontra il benestare dell’opinione pubblica. La risposta di Jim sottintende


l’importanza dell’esplorazione per ogni popolo e descrive la situazione di un astronauta come
Lovell in quel periodo: egli si trova suo malgrado invischiato in faccende politiche e
socioeconomiche che non lo riguardano. Come abbiamo più volte affermato, il desiderio di un
pilota è volare, esplorare, raggiungere nuove mete. Ma i contribuenti americani non condividono
questa visione, vedono soltanto i propri risparmi impiegati in qualcosa di ormai inutile.
Nella stessa scena, Jim viene informato da Deke Slayton (ennesima apparizione del personaggio,
stavolta interpretato da Chris Ellis) che, a causa di un problema di salute di Alan Shepard, sarà lui il
comandante della missione numero 13. Shepard era affetto dalla sindrome di Ménièr, una malattia
dell’orecchio interno che provoca disorientamento, stordimento e nausea, non esattamente il
massimo per un astronauta. L’infezione gli viene diagnosticata nel 1964, e lo porta all’esclusione
dell’idoneità di volo. Così, in modo simile a quanto successo a Slayton, viene assegnato ad un
nuovo impiego d’ufficio, diventando comandante dell’ufficio astronauti. L’idoneità gli verrà
nuovamente riconosciuta nel 1969, grazie a un’operazione correttiva concepita in quegli anni, ed è
per questo che la missione Apollo 13 in un primo momento viene assegnata a lui. Ma un
peggioramento della condizione dell’infezione spinge la NASA a scegliere la squadra di Lovell.
Alan Shepard sarà il comandante della missione 14, datata 31 gennaio 1971, che sbarcherà con
successo sulla Luna il 5 febbraio 1971. All’infezione auricolare di Shepard viene dedicato molto
spazio in The Right Stuff: Uomini veri, già dal primo test con la centrifuga presente nel primo
episodio. Questo macchinario, puntualmente mostrato in tutti i film di cui abbiamo parlato finora, è
utilizzato per simulare la fase di rientro della navicella nell’orbita terrestre. La serie, quindi,
parrebbe suggerire che il disturbo di Shepard si sia manifestato già durante gli addestramenti dei
Mercury Seven, cioè dal 1959. Non sappiamo se questo sia vero, probabilmente si tratta di
un’aggiunta fittizia, frutto dell’invenzione dell’autore, ma nella struttura della serie costituisce un
modo per aggiungere mordente all’intreccio, rendendolo più avvincente per il target di riferimento.
Nel corso della trama, infatti, la comparsa ripetuta dei sintomi generano tensione, minacciando la
vita di astronauta di Shepard, che tenta in tutti modi di nascondere la sua condizione, specialmente
quando viene scelto per essere il primo americano nello spazio con la Mercury 1.
70

Tornando ad Apollo 13, Lovell è naturalmente felice ed euforico quando apprende la notizia,
vedendo finalmente il suo sogno prossimo ad avverarsi. Lo stesso non si può dire della moglie
Marylin (Kathleen Quinlan), molto preoccupata: «Why 13?», chiede a Jim. Il regista intende
rappresentare la superstizione popolare diffusa al tempo della missione, che attribuiva il pessimo
esito del volo alla sfortuna legata al numero 13. Nella prima mezz’ora del film vediamo susseguirsi
sullo schermo una serie di segnali che puntano ad alimentare questa credenza: il sogno di Marylin in
cui il marito perde la vita nello spazio, l’auto di Jim che non parte, ancora Marylin che perde
l’anello di fidanzamento nello scarico della doccia proprio nel giorno del lancio. Per di più, appena
due giorni prima del lancio, il team composto da Lovell, Haise e Mattingly viene diviso, con
Swigert che prende il posto di quest’ultimo. I tre astronauti originali si conoscevano perfettamente,
avevano compiuto la preparazione al volo insieme, passato centinaia di ore fianco a fianco nel
simulatore ed erano ormai in grado di predire ogni mossa dei propri compagni. L’inserimento di
Swigert non lascia presagire nulla di buono e Lovell lo sa molto bene: «He’s a fine pilot, but when
was the last time he was in a simulator?». Una sostituzione con così poco tempo mancante al lancio
non può che essere un azzardo. In ogni caso, per Jim andare sulla Luna è troppo importante, così
accetta questo cambiamento.
Il giorno del lancio la macchina da presa ci trasporta all’interno del Centro di controllo missione
NASA, la sala che gestisce i lanci aerospaziali americani. La macchina da presa segue uno scatolo
bianco che passa di mano in mano; i presenti dicono che è per un certo “Gene”. Con un movimento
che punta a generare attesa nello spettatore, la macchina evita di inquadrare il volto di questo
misterioso personaggio, soffermandosi prima sulle mani, poi sul busto. Solo dopo alcuni secondi,
l’inquadratura sale e svela un attore noto al pubblico del cinema della corsa allo spazio: si tratta,
infatti, di Ed Harris, che, come sappiamo, aveva incarnato il personaggio di John Glenn dodici anni
prima in Uomini Veri. Stavolta interpreta Gene Kranz, ingegnere della NASA e storico direttore
delle operazioni di volo durante i programmi Gemini e Apollo. La modalità di presentazione di
Harris intende dare più importanza all’attore rispetto al personaggio che interpreta, giocando sulla
memoria cinematografica del pubblico, che ritrova sul grande schermo uno dei protagonisti di un
altro celebre lungometraggio dello stesso genere e sullo stesso argomento.
71

Primo piano di Ed Harris (Gene Kranz). Da una scena di Apollo 13 (id., Ron Howard, 1995)

Il viaggio della navicella procede bene per i primi giorni e, seguendo la scaletta programmata, i tre
astronauti eseguono una diretta dalla capsula indirizzata alle emittenti televisive di tutto il mondo.
La realtà a terra, però, è ben diversa. L’interesse della popolazione per le missioni spaziali era ai
minimi storici, e le tv mondiali decidono di non trasmettere il broadcast dell’Apollo 13. Dopo le due
precedenti missioni riuscite perfettamente, andare sulla Luna era considerato un volo di routine. A
questo bisogna aggiungere che la competizione tra Stati Uniti e Unione Sovietica che aveva
infuocato gli animi dei cittadini per lunghi anni era ormai giunta al termine, persino l’incredibile
traguardo posto da Kennedy nel 1962 era stato raggiunto. Allora, il presidente aveva fatto presa
sulla voglia di riscatto della popolazione, per controbattere, uniti, alla supremazia sovietica. Ora che
l’impresa è compiuta, il coinvolgimento della popolazione viene a mancare. I poveri astronauti
credono di parlare al mondo intero con la loro diretta, ma in realtà gli unici ad assistervi – oltre,
ovviamente, agli ingegneri NASA – sono le loro famiglie nella sala VIP del Centro di controllo
missione.
72

Da una scena di Apollo 13 (id., Ron Howard, 1995)

Durante la notte del 14 aprile, il disastro: Swigert attiva il mescolatore del serbatoio di ossigeno
come ordinato dal controllo missione, ma qualcosa non va per il verso giusto e nella navicella
sentono un’esplosione. Quando Lovell vede una sostanza gassosa fluttuare nello spazio dal
finestrino, si capisce che si tratta di un problema grave. Il modulo di comando sta perdendo
ossigeno molto velocemente, presto gli astronauti non riusciranno più a respirare; la situazione è la
più grave mai capitata alla NASA. L’unico modo per rientrare sani e salvi è eseguire una manovra
mai tentata prima:

Per l’equipaggio dell’Apollo 13 l’unica possibilità è quella di servirsi del LEM Acquarius
[questo il nome del modulo di escursione lunare, ndr] con le sue scorte di ossigeno ed energia,
come rifugio dove riparare e come razzo per spingere Odissey verso casa. […] La manovra che
si apprestano a compiere è rischiosa oltre ogni immaginazione: il LEM non è stato progettato
per spingere l’intera navetta a circumnavigare la Luna per poi indirizzarla verso terra.107

Il rischioso utilizzo del LEM non è l’unico problema da affrontare per i tre astronauti, ce ne sono
altri altrettanto seri:

[B]isogna risparmiare energia spegnendo tutti i sistemi non vitali e risolvere il problema
dell’aumento rapido di anidride carbonica all’interno dell’abitacolo. Houston è provvidenziale e,
facendo un rapido controllo di tutto il materiale all’interno della Odissey, suggerisce
all’equipaggio come costruirsi un filtro con il materiale recuperato. A turno due astronauti
prendono posto dentro il modulo Acquarius mentre il terzo rimane su Odissey. La temperatura
cala velocemente e dentro il modulo è completamente buio.108

107
Ivi, p. 193
108
Ibidem
73

La situazione è critica. Nel frattempo, nelle televisioni nazionali e internazionali i programmi


vengono interrotti per lasciare spazio alle informazioni sull’Apollo 13. Quella che all’inizio era una
missione di routine con scarso coinvolgimento da parte della popolazione, diventa d’un tratto la
storia più interessante del mondo. Il film restituisce molto bene questa situazione, mostrando tutta
l’invadenza dei giornalisti che si presentano nel giardino di casa Lovell. «I thought they didn’t care
about this mission», afferma ironicamente Marylin Lovell. La tragica vicenda dell’Apollo 13 ha
conferito nuovamente interesse alla causa spaziale, ora tutto il mondo segue con trepidazione l’esito
della missione, pregando per i tre sfortunati astronauti. Le probabilità di successo sono minime, e
alla NASA lavorano incessantemente per scongiurare la tragedia. Ogni dipendente della space
agency è al lavoro per dare una mano, compreso un perfettamente sano Ken Mattingly, che non
contrarrà mai la rosolia. Conoscendo perfettamente la navicella, Mattingly fornisce un aiuto
fondamentale, passando molte ore nel simulatore della NASA per trovare un modo per far
guadagnare ai suoi compagni nello spazio l’energia necessaria a rientrare sulla Terra. Nel
lungometraggio Kranz è molto chiaro: «We never lost an american in space, we’re sure as hell
we’re not gonna lose one on my watch. Failure is not an option». Miracolosamente, grazie all’aiuto
di tutti, Lovell, Haise e Swigert tornano a casa sani e salvi, scrivendo una delle pagine più belle
della storia americana. L’aveva detto lo stesso Kranz nel film: «This is gonna be our finest hour».
Da possibile catastrofe, la missione numero 13 si trasforma in un successo incredibile,
testimonianza della straordinaria capacità della NASA di lavorare insieme verso un unico obiettivo.
In più, l’Apollo 13 restituisce valore e rilievo alle missioni spaziali. «A successful failure», come
dice Jim nel monologo finale del film.
All’indomani del rientro a casa degli astronauti, per la space agency è il momento di capire che cosa
è andato storto. Alcuni insinuano che Jack Swigert non aveva né l’esperienza, né la preparazione
giusta per la missione, e potrebbe aver commesso un errore che ha dato via all’esplosione. Solo
tempo dopo, grazie ad una lunga indagine sull’incidente, si saprà che la colpa dell’esplosione non è
da attribuire a nessuno degli astronauti, ma ad una serie di sfortunate coincidenze difficilmente
pronosticabili avvenute nel serbatoio. Questo dà agli ingegneri la possibilità di attuare delle
correzioni, in modo che le missioni successive non incappino in un disastro simile. Prima che il
programma Apollo chiuda i battenti, sono quattro le missioni che sbarcano con successo sulla Luna.
L’ultima di queste, l’Apollo 17, parte da Cape Kennedy il 7 dicembre 1972, con a bordo Eugene
Cernan, Ronald Evans e il geologo Harrison Schmitt, primo e unico scienziato a calpestare il suolo
lunare. La navicella raggiunge la meta l’11 dicembre, e, dopo aver svolto numerosi esperimenti
scientifici e attività extaveicolari, abbandona il satellite il 14 dicembre. Da quel giorno nessun uomo
è più tornato sulla Luna.
74

7.2 - La corsa allo spazio cinematografica: quando il cinema ricalca la storia

Sebbene la fine della corsa allo spazio, come abbiamo visto, venga convenzionalmente fatta
coincidere con la missione Apollo-Sojuz del 1975, in anni molto recenti si sta delineando una
curiosa tendenza che vede Russia e Stati Uniti ancora in opposizione. Questa volta, però, sul piano
dell’intrattenimento. Nel secondo decennio del ventunesimo secolo assistiamo, infatti, ad una sorta
di corsa allo spazio cinematografica, in cui le due ex superpotenze si affrontano esibendo sul grande
schermo i propri astronauti più celebri. Se prendiamo in esame tre dei film che abbiamo analizzato,
ossia Gagarin: Primo nello spazio, Spacewalker: Il tempo dei primi e First Man - Il primo uomo,
notiamo, infatti, una serie di singolari coincidenze, che sembrano ricalcare quanto successo nella
storia vera della corsa allo spazio. Per prima cosa, i tre lungometraggi vengono rilasciati nell’arco di
soli cinque anni: il biopic su Gagarin nel 2013, Spacewalker nel 2017 e First Man nel 2018. La data
d’uscita delle tre opere riproduce la successione delle vicende nella vera corsa allo spazio, con il
volo di Gagarin che avviene per primo, nel 1959, l’impresa di Leonov e Belyaev nel 1965 e per
ultima la missione di Armstrong e compagni, nel 1969. È quasi sorprendente che in un paese così
profondamente patriottico come gli Stati Uniti occorra attendere così tanto tempo per assistere al
primo lungometraggio di finzione ispirato ad una delle imprese più grandi della storia americana.
Dal 1959 al 2018 passano quasi cinquant’anni, nonostante prima fossero state realizzate altre
produzioni su altre imprese spaziali statunitensi: i già citati Uomini Veri (1983), Apollo 13 (1995) e
Il diritto di contare (2015) – di cui parleremo più approfonditamente in seguito. Il film di Chazelle,
se ragioniamo in questi termini, assume le sembianze di una severa risposta degli Stati Uniti, che
controbattono ai lungometraggi dei colleghi d’oltreoceano mostrando sul grande schermo la propria
impresa spaziale più celebre appena un anno dopo la distribuzione di Spacewalker. Il tutto è ancora
più calzante se pensiamo che anche nella corsa allo spazio reale, a partire dallo Sputnik e negli anni
seguenti, è il programma spaziale sovietico a primeggiare, e quello americano impiega anni per
raggiungere il livello degli avversari, proprio come First Man esce cinque anni dopo il primo
“attacco” russo con Gagarin: Primo nello spazio. Ne La grande corsa allo spazio – riferendosi alle
motivazioni che hanno spinto gli Stati Uniti ad andare sulla Luna – Neil deGrasse Tyson afferma:

Durante l’era d’oro dell’esplorazione dello spazio – che associamo agli anni ’60 e allo sbarco
sulla luna – noi [gli americani, ndr] eravamo dei veri pionieri, ma in realtà abbiamo solo reagito
alle dichiarazioni fatte dai sovietici. […] Siamo più bravi a reagire che ad agire.

A quanto pare, questo vale anche per la corsa allo spazio cinematografica.
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Il particolare interessante è che in tutti e tre i titoli dei film sia presente la parola “primo” –
naturalmente declinata secondo necessità – e non solo nella versione italiana. Appare, dunque,
chiara la volontà di mettere in mostra di fronte al pubblico i rispettivi primati spaziali. Gli Stati
Uniti si spingono ancora oltre. Nel film di Chazelle, Neil Armstrong non è “Il primo uomo sulla
luna”, ma “Il Primo Uomo”, in assoluto, come se quest’impresa definisse l’uomo in quanto tale,
accentuando, di fatto, la straordinaria risonanza della missione lunare statunitense.
76

8 - Hidden Figures: il lato femminile dell’era spaziale

La nostra analisi dei film storici di finzione sulla prima era spaziale si conclude con il
lungometraggio del 2016 Il diritto di contare (Hidden Figures, Theodore Melfi, 2016), tratto dal
libro omonimo dell’autrice Margot Lee Shatterly. Si tratta di un’opera leggermente diversa dai
prodotti analizzati finora, in quanto non tratta principalmente i fatti relativi ad una o più missioni
spaziali, ma si concentra anche e soprattutto su degli elementi di contorno alla storia dei primi voli
spaziali umani americani del progetto Mercury. Il film porta sullo schermo la storia vera mai
mostrata prima del contributo delle matematiche di colore al programma spaziale statunitense, nel
clima di assoluta supremazia bianca maschile della Virginia segregazionista degli anni Sessanta e,
nello specifico, dell’ambiente di lavoro della NASA. Le dipendenti afroamericane della space
agency (West Computing Group) lavorano nella West Area Computers del Langley Research
Center a Hampton, in un ufficio separato dalla sede principale indicato dal cartello “Colored
computers”, dove “[v]eniva chiesto loro di fare, rifare e controllare calcoli di ogni tipo, così che
altri ingegneri, fisici e matematici potessero dedicarsi ad altro, ottimizzando il loro tempo”109.

Da una scena de Il diritto di contare (Hidden Figures, Theodore Melfi, 2016)

La protagonista è Katherine Johnson (Taraji Penda Herson), matematica eccellente, affiancata dalle
amiche e colleghe Dorothy Vaughan (Octavia Spencer), supervisore non ufficiale del team, e Mary
Jackson (Janelle Monáe), aspirante ingegnere. Nel corso del film, le tre donne percorrono, ognuna
nel proprio settore, un cammino di crescita professionale: Mary riesce, con caparbietà e ostinazione,

109
https://www.ilpost.it/2017/03/10/il-diritto-di-contare-storia-vera/ , consultato il 18/09/2022
77

a seguire le lezioni della scuola di ingegneria serale per bianchi, necessarie per diventare un
ingegnere della NASA. Dorothy chiede da tempo di essere promossa ufficialmente a supervisore,
ruolo che svolge ormai da un anno senza che questo venga riconosciuto e regolamentato, e senza
percepire la paga che il ruolo assicurerebbe. Alla NASA sono anni di grandi cambiamenti, con
l’imminente arrivo del nuovo computer IBM 7090 non ci sarà più bisogno di calcolatrici umane:
tutto il West Computing Group rischia di perdere il lavoro. Vaughan è la prima ad intuire il pericolo
e sceglie di giocare d’anticipo: notando le difficoltà dei colleghi bianchi nel far funzionare il nuovo
computer, si informa sul Frostran, il linguaggio di programmazione dell’IBM, e istruisce tutto il
gruppo sul suo utilizzo. In questo modo, non solo riesce a mantenere saldo il posto di lavoro, ma
guadagna una promozione ai piani alti. Katherine, che ha vissuto un’infanzia da bambina prodigio
in matematica, entra a far parte dello Space Task Group, il team, composto unicamente da maschi
bianchi, che si occupa di calcolare le traiettorie di lancio e atterraggio dei voli spaziali americani.
Nonostante forniscano un apporto rilevante alla causa statunitense, le tre amiche ricevono
comunque un trattamento disdicevole, incontrando la discriminazione dei colleghi, che non perdono
occasione per ricordare loro il gruppo sociale a cui appartengono: Katherine è costretta a bere il
caffè da una caffettiera diversa da quella dei colleghi bianchi e a percorrere quasi un chilometro per
usare il bagno per neri nella West Computer Area, in quanto non le è concesso di usare quello
riservato ai bianchi presente nella struttura; Dorothy viene cacciata dalla biblioteca pubblica perché
aveva provato a prendere in prestito un libro dal reparto per bianchi; Mary viene rifiutata come
ingegnere solo perché è una donna. Dimostrando il proprio valore nelle rispettive aree di
competenza, tutte e tre riescono ad abbattere le barriere di razza e di genere, facendo un grande
passo nel cammino verso l’integrazione e l’uguaglianza. Questo viene rappresentato
splendidamente in una scena del lungometraggio. Dorothy sta discorrendo in bagno con la
supervisore bianca del West Computing Group, Vivian Mitchell (Kirsten Dunst). La conversazione
ci viene mostrata tramite la classica tecnica del campo-controcampo, ma con una struttura delle
inquadrature piuttosto singolare.

Da una scena de Il diritto di contare (Hidden Figures, Theodore Melfi, 2016)


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Nella prima inquadratura, Dunst è di quinta e il primo piano di Spencer è riflesso nello specchio.
Nel controcampo le posizioni si ribaltano, con la quinta di Spencer e il primo piano di Dunst. Grazie
a questa particolare prospettiva, sembra che le due figure si stiano specchiando, una scelta registica
che ha il chiaro obiettivo di far passare il tema più importante del lungometraggio: le due donne
sono uguali. Il fatto che il dialogo avvenga nel bagno che, inizialmente riservato alle sole donne
bianche, viene ora condiviso pacificamente rafforza ulteriormente il messaggio.
Vivian Mitchell e le altre due figure con ruoli importanti nel film, il capo dello Space Task Group
Al Harrison e l’ingegnere capo Paul Stafford (Jim Parsons), sono personaggi fittizi, così come è
stata leggermente esagerata la rappresentazione del trattamento riservato alle donne di colore alla
NASA. Esse sapevano, ovviamente, di essere segregate e confinate nell’ala ovest dell’edificio, ma
non lo sentivano più di tanto, poiché la loro condizione all’interno dell’agenzia era meno grave di
quanto venga mostrato nel film. La storia delle tre protagoniste, invece, corrisponde quasi del tutto
alla realtà. Mary Jackson (1921-2005) lavora alla NASA dal 1951 (quando era ancora NACA) e nel
1958 diventa il primo ingegnere donna della space agency. Dorothy Vaughan (1910-2008) diventa
il primo supervisore di colore della NACA molto prima di quanto mostrato nel film, nel 1949. Nel
1961 diviene un’esperta di programmazione informatica, e insegna il Fortran a tutti i suoi
collaboratori, esattamente come si vede nella pellicola. Katherine Johnson (1918-2020) è
dipendente della NACA dal 1953. Matematica formidabile, calcola le traiettorie dei voli dei progetti
Mercury e Apollo, inclusa la missione dello sbarco sulla Luna. La scena del film in cui John Glenn
(interpretato da Glen Powell) chiede che sia lei a verificare i calcoli della traiettoria per il suo volo,
sebbene possa sembrare frutto dell’invenzione dello sceneggiatore, è assolutamente vera. Glenn si
rifiutava di decollare se i calcoli operati dall’IBM non fossero stati ricontrollati personalmente dalla
donna, e così avvenne. Johnson riceve la Medaglia presidenziale della libertà e la Medaglia d’oro
del congresso, oltre ad altre onorificenze.
Il film di Melfi ha il merito di mettere in mostra un palcoscenico occupato da donne, cosa che
accade di rado nella storia della prima era spaziale. L’unica donna a ritagliarsi un posto rilevante
nella corsa allo spazio è Valentina Tereshkova. Per la propaganda statunitense, così incentrata sul
concetto di libertà, la notizia del volo della Tereshkova è un vero choc. La donna diviene il simbolo
dell’emancipazione femminile in tutto il mondo, qualcosa di piuttosto strano considerato il clima di
assoluta chiusura perpetuato dal programma sovietico. La mossa dell’Unione Sovietica, sembra,
perciò, più un modo per perorare la propria causa agli occhi dell’opinione pubblica mondiale, che
un passo verso l’affermazione dell’emancipazione della donna nel mondo. Come già affermato più
volte, il ruolo della propaganda è fondamentale, per questo si può comprendere la mossa dell’URSS
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che, infatti, fa di tutto perché Valentina venga presentata al pubblico internazionale nel miglior
modo possibile, mascherando le sue vere condizioni all’atterraggio:

[N]ell’impatto Valentina sbatté la faccia contro il casco e si provocò un gran livido sul naso.
Dolorante, sporca, semisvenuta venne portata subito in ospedale. Ma per l’onore dell’Unione
Sovietica il rientro della prima donna dallo spazio non poteva essere così mesto e umiliante.
Così la curarono prontamente, abbellendole il viso ammaccato con una buona dose di make up
e, appena fu in grado di reggersi in piedi, fu riportata nella stessa zona con una tuta immacolata
e pronta a esibire il suo miglior sorriso per le cineprese che rigirarono completamente la scena
dell’atterraggio.110

Ovviamente, non è solo questione di pubblicità positiva. Con questa missione i russi aggiungono
un’altra spunta alla loro folta lista di primati spaziali: oltre al primo uomo, anche la prima donna a
volare nello spazio viene dall’Unione Sovietica. Negli Stati Uniti, in ogni caso, non si paventano
candidature femminili per il ruolo di astronauta. Le motivazioni si possono ricercare nelle parole di
Deke Slayton, nel già citato dialogo con Oriana Fallaci:

Vi sono almeno duemila piloti, in America, più qualificati della pilota più qualificata: dovrei
scegliere questa duemillesima solo perché è una donna e mi fa pubblicità? I russi hanno
mandato la Tereshkova. Io non l’avrei mandata. Non è nemmeno una pilota, è una paracadutista.
Tecnicamente a che serve? Le donne andranno su, certo. Per esempio, se avremo bisogno di un
geologo e il migliore geologo sarà una donna, manderemo la donna. Non perché è una donna:
perché è un bravo geologo. Essere una donna non è né una qualifica né una squalifica per andar
sulla Luna. Noi non facciamo discriminazioni di sesso, né a favore né contro. Ciascuno
dev’essere scelto per i propri meriti e non perché è un uomo o una donna, bianco nero giallo o
viola. I meriti e basta.111

Il discorso di Slayton è condivisibile, ma non rispecchia lo stato effettivo delle cose:

Quando la NASA aveva avviato le selezioni per aspiranti astronauti, aveva aperto le iscrizioni
anche al gentil sesso. Alla fine della solita trafila di test ed esami fisico attitudinali era stata
compilata una lista che comprendeva 13 candidate, alcune delle quali avevano ottenuto punteggi
negli esami superiori a molti colleghi maschi. Dunque, la possibilità di impiegare una donna per
i viaggi spaziali non fu, almeno a priori, scartata. Il veto giunse con ogni probabilità proprio dai
colleghi, da quei sette che avevano firmato per Life. Glenn, Shepard e compagnia, gente
temprata da decine di battaglie, non potevano ammettere che una donna potesse fare il loro
mestiere. Era una questione di ruoli, insomma, un po’ come era toccato alle scimmie. A un certo
punto i primati è bene che se ne ritornino nelle gabbie e le donne a fare il ruolo delle mogli in
attesa che l’eroe torni dalla guerra.112

110
Paolo Magionami, Gli anni della Luna. 1950-1972: l’epoca d’oro della corsa allo spazio, p. 100
111
Oriana Fallaci, Se il sole muore, p. 128
112
Paolo Magionami, Gli anni della Luna. 1950-1972: l’epoca d’oro della corsa allo spazio, p. 98
80

Questa situazione viene rappresentata in The Right Stuff: Uomini Veri. A un certo punto della serie,
Trudy Cooper, la moglie di Gordo, viene contattata dalla pilota Jerrie Cobb (interpretata da Mamie
Gummer) per entrare a far parte di un gruppo di aspiranti astronaute. Nella realtà, Cobb è la figura
di spicco delle Mercury 13 (anche conosciute come FLAT, Fellow Ladies Astronaut Trainees), le
13 donne candidate al ruolo di astronauta. Tra queste non era presente Trudy Cooper, ma è vero che
era anch’ella una pilota, come si vede nella serie. Nella trama di The Right Stuff: Uomini Veri, Cobb
si rivolge a Trudy con l’obiettivo di guadagnare consensi grazie all’intercessione di Gordo,
sfruttando la posizione di quest’ultimo all’interno della NASA. La notizia viene accolta con favore
da Gordo, almeno in un primo momento. Quando, durante una conferenza stampa a cui partecipa
con Schirra e Grissom, gli viene fatta una domanda sull’argomento, però, le cose cambiano:

Giornalista: It’s been recently recorded that a group of women will train to go to space. Well,
what do you men think about the idea of female astronauts?
Schirra: Gordo has some strong opinions about this one, don’t you now, Gordo?
Cooper (sorride ironicamente): We sent up a chimp, didn’t we? May as well send up a lady
someday.

Questa battuta infelice di Gordo mette a repentaglio la partecipazione di Trudy nel progetto di
Cobb, la quale non può permettersi di inserire nella squadra la moglie di un astronauta che fa
dichiarazioni di questo tipo. Negli Stati Uniti degli anni Sessanta, le donne dovevano ricoprire
unicamente il ruolo di mogli, e questo valeva in misura ancora maggiore per le consorti degli
astronauti. Abbiamo già accennato a quanto fosse importante dare al mondo esterno un’immagine
dell’ideale di famiglia felice. Con il progetto Mercury, non solo gli astronauti, ma anche le loro
mogli diventano personaggi pubblici a tutti gli effetti, svolgendo una funzione importante nella
propaganda spaziale statunitense. Anche loro, come i mariti, vengono immortalate nella copertina di
Life, nella stessa posizione dei Mercury Seven.
81

Con l’ingresso dei loro partner nel gruppo dei primi sette astronauti americani, la vita delle sette
donne cambia completamente: tutta la nazione vuole saperne di più sulle loro vite, sulle loro
giornate, sui loro interessi. Si ritrovano spesso e volentieri giornalisti nel giardino di casa, bramosi
di carpire qualsiasi informazione dalle nuove paladine d’America, come si capisce dal racconto di
Tom Wolfe, riguardante un episodio accaduto a Betty Grissom, la moglie di Gus:

Betty, praticamente senza preavviso, era stata assediata dai giornalisti nella loro casa di Dayton.
Entravano dalle finestre, come fameliche termiti, come mosche, a scattar foto e a far domande a
gran voce.113

Per questo, l’accordo con Life fu una vera manna dal cielo:

[Betty] non avrebbe voluto passare di nuovo attraverso una esperienza come quella. E infatti
non le sarebbe più toccato! Bastava che parlasse con i giornalisti di Life e costoro si rivelarono
perfetti: erano educati, gentili, ben vestiti, cordiali, cortesi, veri gentiluomini e gentildonne. Non
avevano alcun desiderio di farle fare brutta figura.114

Il contratto firmato con la nota rivista americana garantiva alle famiglie dei Sette del Mercury
protezione dagli assalti famelici degli altri giornalisti, garantendo a Life l’esclusiva sulle storie delle

113
Tom Wolfe, La stoffa giusta, traduzione di Pier Francesco Paolini, p. 126
114
Ibidem
82

famiglie più chiacchierate d’America. Le mogli non erano abituate a parlare di sé su un giornale, ma
l’accordo era assolutamente accomodante:

Quelli di Life erano molto comprensivi. […] Gus, Betty e gli altri uomini con le loro mogli
avevano il diritto, per contratto, di censurare tutto ciò che doveva venire firmato da loro. E non
s’intimidivano affatto a esercitare quel loro diritto! Telefonavano in redazione e ripassavano il
manoscritto, riga per riga, con l’incaricato di Life, dicendo senza mezzi termini quello che
poteva restare e quello che andava tolto.115

Per le mogli era tutto perfetto: la penna sapiente dei giornalisti di Life poteva cancellare
magicamente qualunque difetto, donando alle sette donne l’immagine pubblica che desideravano, e
quella che appariva migliore agli occhi dei lettori, per assicurare al programma spaziale americano
la pubblicità positiva di cui aveva disperatamente bisogno all’inizio degli anni Sessanta:

La moglie di Deke Slayton, Marge, era divorziata e la cosa era insolita, ma di ciò non si doveva
fare neppure un cenno su Life. Una moglie di astronauta che prima fosse stata moglie di un
comune mortale era inconcepibile.116

E abbiamo già parlato della situazione simile vissuta dalla famiglia Cooper, che, naturalmente, non
finì mai sulle pagine del magazine per non screditare l’immagine degli astronauti. Se a questo
quadro aggiungiamo il lauto compenso destinato dalla rivista ai sette astronauti, si comprende che
l’accordo con Life rappresenta un cambiamento incredibile. Ciò che, senza dubbio, rimane invariato
nel modo di vivere delle mogli, è il loro ruolo nel matrimonio. Gli astronauti, infatti, provenivano
quasi tutti dal mondo dell’aviazione, e, per quanto riguarda la condizione delle consorti, non c’era
una grande differenza tra pilota e astronauta. La moglie di un pilota sa che ci sono delle regole da
rispettare per entrare a far parte del suo mondo. Oltre a “non dire e non fare niente che potesse
gettare il discredito sui mariti”117, anche un altro aspetto spinoso della vita matrimoniale è, in
qualche modo, regolamentato. Stiamo parlando delle relazioni extraconiugali, che tante tensioni
hanno creato all’interno del gruppo dei sette compagni astronauti:

C’era sempre stata una clausola nel contratto della moglie del militare che tacitamente
concedeva a un ufficiale un certo spazio di manovra in quel campo. Naturalmente c’erano
momenti in cui un militare veniva mandato lontano da casa magari per lunghi periodi e lui
poteva trovare necessario soddisfare le sue sane voglie maschili con chi gli capitava. Era anche

115
Ivi, pp. 127-128
116
Ivi, pp. 128-129
117
Ivi, p. 128
83

implicito che tali voglie erano un buon sintomo di virilità nel combattente. Quindi la moglie e le
forze armate chiudevano un occhio e stavano zitte, purché l’ufficiale non desse scandalo e non
mettesse a repentaglio la solidità del matrimonio e della famiglia.118

Naturalmente, la popolarità di cui godeva un astronauta, soprattutto nei primi anni dell’era spaziale,
è infinitamente superiore rispetto a quella di un semplice militare, così come maggiore è la loro
responsabilità nei confronti della nazione. Considerando il valore delle azioni di quei sette uomini
comuni agli occhi del grande pubblico, si può comprendere il sermone di John Glenn: non era il
caso che dei personaggi che dovevano costituire un esempio per il mondo intero si rivelassero degli
sfascia famiglie. Nella serie tv la storia che porta al discorso di Glenn viene raccontata in modo
diverso, con l’obiettivo di romanzare la vicenda per renderla più accattivante. Il particolare che
viene aggiunto dagli sceneggiatori riguarda una foto scattata ad Alan Shepard, pizzicato con una
donna in un motel da un fotografo di un noto giornale. Questo, oltre a rovinare il matrimonio di Al,
rischiava di mettere a repentaglio l’intero programma spaziale, più che mai bisognoso di pubblicità
positiva. Shepard si rivolge a John, che riesce a risolvere la questione. Il giorno seguente lo stesso
John convoca una riunione con i compagni, nella quale si acuisce la tensione e la competizione con
Alan, temi principi della serie. La discussione tra i due, che riportiamo quasi integralmente, è molto
importante, perché ci aiuta a capire la mentalità di Alan Shepard, che incarna alla perfezione il
prototipo di pilota collaudatore americano. Lo scontro con le convinzioni puritane del devoto John
Glenn è inevitabile:

Glenn: Guys, come on, we’re heroes here. We haven’t even done anything yet, but that’s how
folks see us. And all we got to do… is not screw that up. Now, what happened last night put this
program at risk. Make no mistake. And we have to make sure that nothing like that happens
again. And we all need to agree.
Shepard: I said thank you, John. I think we can just leave it at that.

Quando Alan apprende che John si è rivolto a Shorty Powers, il responsabile delle relazioni
pubbliche della NASA, per risolvere la faccenda, comprende che il gesto apparentemente benevolo
del compagno è stato solo un subdolo espediente per screditarlo agli occhi dell’agenzia, in modo da
poter essere il primo americano nello spazio:

Shepard: You sold me out so you can win. At least have the guts to admit it.
Glenn: Hey, you’re the one who came to me, all right? You asked for my help.
Shepard: I did.

118
Ivi, p. 136
84

Glenn: You begged me for help. “I made a mistake, John. I messed up John. They’re gonna run
a story, John”.
Shepard (sovrapponendosi a Glenn): We help each other, John. That’s what we do. We help
each other and we don’t crow about it. We pick each other up and we move on. That’s what
men like us do.
[…]
Glenn: It matters how people see us, guys. It matters what we do. The example we set. And not
just for the country, by the way. Your own children are looking at you. You’re husbands and
fathers. All of you. Just show some self-control.
Shepard: Oh, for God’s sakes. We wouldn’t be the pilots that we are today if we didn’t have
control. But do we have appetites? Yeah, I’m a human being. And I’m going to die one day. We
all are. We are test pilots! And we get that fact, we stare in it in the face for a living.

Gli altri membri del gruppo sono tutti d’accordo con Alan. La loro posizione sull’argomento è figlia
di una tradizione secolare della vita militare, riassunta nella frase pronunciata dal personaggio di
Shepard nel film Uomini Veri: non puoi dire ad un pilota cosa fare mentre non sta volando. Ma
vorremmo porre l’attenzione sull’ultima battuta di Shepard, che delinea il tratto distintivo di un
pilota, e, di conseguenza, della moglie di un pilota: la familiarità con la morte. Per questo motivo, le
donne che incontriamo nei prodotti d’intrattenimento che abbiamo analizzato sono tutte
rappresentate come donne forti, temprate da un’esistenza al fianco di un uomo che rischia la vita
ogni giorno. A cominciare dal primo film di cui abbiamo parlato, Gagarin: Primo nello spazio, in
cui Valentina Gagarina (Olga Ivanova), affronta la notizia del possibile volo nello spazio del marito
insieme a Tamara Titova, la moglie del cosmonauta German Titov:

Tamara: Noi dovremmo scrivere a Kamanin per chiedergli… Per chiedergli che mandino un
uomo celibe per primo! Come ad esempio Bykovsky, o Nikolayev. Valya…
Valentina: Non sono d’accordo. Penso che sia sbagliato.

La reazione di Valya è in linea con la retorica presente in tutto il film. Come Yuri, anche lei si
dimostra una donna moralmente impeccabile, e senza dubitare sceglie di non ostacolare il percorso
del marito, che avrebbe portato il suo paese verso la gloria. L’atteggiamento delle mogli nei film
americani riguardo all’argomento è profondamente diverso. Abbiamo già accennato alla
preoccupazione della Marylin Lovell di Kathleen Quinlan in Apollo 13, quando apprende che Jim è
stato scelto per la missione. Spesso, è proprio nei momenti di maggiori tensione e preoccupazione,
che le donne in questione dimostrano la loro forza e la loro determinazione. Quando viene a sapere
che qualcosa è andato storto durante la missione e il marito è in pericolo, Marylin pretende di sapere
tutti i dettagli dalla NASA: «No, don’t give me that NASA bullshit! I wanna know what’s
happening with my husband!», urla al dipendente dell’agenzia dall’altra parte del telefono. Più
85

tardi, quando i giornalisti le chiedono di piazzare le loro attrezzature sul suo prato, rifiuta con
fermezza, trattenendo le lacrime: «Those people don’t put one piece of equipment on my lawn. If
they have a problem with that, they can take it up with my husband. He’ll be home on Friday».
Questo connubio preoccupazione-forza si verifica anche in First Man - Il primo uomo, con il
personaggio di Janet. Oltre alla già citata scena della discussione con Neil, il carattere forte e
determinato di Janet emerge nella sequenza che racconta la missione Gemini 8, in cui Armstrong e
Scott rischiano la vita girando incontrollabilmente all’interno della capsula nello spazio. Janet sta
seguendo la missione tramite un box radio collegato con il Centro di controllo missione della
NASA. Quando avviene l’incidente, Slayton interrompe la comunicazione radio, e Janet si presenta
direttamente al controllo missione e, in collera, intima a Deke di ricollegare la trasmissione:

Slayton: Jan, the ship is stable. They’re gonna be all right.


White: He’s okay, Jan.
Slayton: I need you to go home.
Janet: Fine. Turn the box back on.
Slayton: I’ll see what I can do…
Janet (lo interrompe): Now. Turn the box back on now.
Slayton: Well, there’s security protocol that’s…
Janet (lo interrompe ancora): Well, I don’t give a damn. I’ve got a dozen cameras on my front
lawn, Deke. Do you want me telling them what’s going on?
Slayton: Jan, you have to trust us. We’ve got this under control.
Janet (infervorata): No, you don’t. All these protocols and procedures to make it seem like you
have it under control. But you’re a bunch of boys making models out of balsa wood. You don’t
have anything under control!

Il film di Chazelle è anche quello in cui si sente maggiormente la difficile convivenza con una vita
terribilmente legata alla sfera della morte. Dopo i numerosi lutti a cui ha partecipato la famiglia
Armstrong, la notizia della partecipazione di Neil alla missione numero 11 turba Janet, che si
rifugia in salotto, pensierosa. Vedendola in quello stato, il figlio le si avvicina: «What’s wrong?»
«Nothing, your dad’s going to the moon» risponde lei, con uno sguardo assente e un’espressione
preoccupata, ripresa dalla camera tremante tipica delle scene in casa Armstrong.
86

Claire Foy/Janet Shearon. Da una scena di First Man - Il primo uomo (First Man, Damien Chazelle, 2018)

Nella mente della donna non c’è spazio per la felicità per il grande traguardo professionale del
marito, ma solo per il ricordo dell’immenso dolore vissuto da Pat (Olivia Hamilton), la moglie di
Edward White, quando ha perso il coniuge nel disastro dell’Apollo 1. A differenza del
comportamento di Valya in Gagarin: Primo nello spazio, in questo film il personaggio di Janet non
è spinto da alcun interesse etico o nazionalistico, solo dalla comprensibile inquietudine della moglie
di un uomo che guarda la morte in faccia per lavoro. Uno stato d’animo riassunto in una frase
pronunciata da Glennis (Barbara Hershey), la moglie di Chuck Yeager, in una scena di Uomini
Veri:

The government spends just all kinds of time and money teaching you pilots how to be fearless,
but… But they don’t spend a goddamn penny teaching how to be the fearless wife of a test pilot.

First Man è, tra le opere che abbiamo analizzato, quella che più di tutti dà valore alla figura della
moglie, per la complessità conferita al personaggio e, come già detto, per l’importanza rivestita
nello sviluppo della trama. Chazelle rimarca questo concetto nella costruzione del quadro della
scena finale del lungometraggio.
87

Abbiamo già visto questa immagine, ma ora ci interessa analizzarla soffermandoci su un punto di
vista differente. L’inquadratura è stata costruita in modo che il riflesso del volto di Claire Foy/Janet
Shearon sul vetro sia situato esattamente dietro il volto di Ryan Gosling/Neil Armstrong. In questo
modo, il regista trasmette un messaggio molto forte, sottolineando l’importanza di Janet nella vita di
Neil, come se per compiere il primo passo più celebre di sempre egli avesse avuto bisogno del
sostegno e del supporto della moglie, come se lei fosse alle sue spalle a vegliare su di lui.
88

Bibliografia

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Filmografia

- Apollo 13 (id.) di Ron Howard, 1995


- First Man - Il primo uomo (First Man) di Damien Chazelle, 2018
- Gagarin: Primo nello spazio (Gagarin. Pjervyi v kosmosje) di Pavel Parkhomenko, 2013
- Il diritto di contare (Hidden Figures) di Theodore Melfi, 2016
- La grande corsa allo spazio (Fight for Space) di Paul J. Hildebrandt, 2016
- La vera storia di The Right Stuff: Uomini veri (The Real Right Stuff) di Tom Jennings, 2020
- Mercury 13 (id.) di Heather Walsh, David Sington, 2018
- Spacewalker: Il tempo dei primi (Vremya Pervykh) di Dmitriy Kiselev, 2017
- The Astronaut Wives Club (id.) di Stephanie Savage, 2018
- The Right Stuff: Uomini veri (The Right Stuff) di Mark Lafferty, 2020
- Uomini veri (The Right Stuff) di Philip Kaufman, 1983

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