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Manuale del Film - Rondolino,

Tomasi
Storia E Critica Del Cinema
Università degli Studi di Padova (UNIPD)
27 pag.

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Riassunto Manuale del Film Rondolino-Tomasi

CAPITOLO 1
Sceneggiatura e Racconto
1.1 Che cos’è una sceneggiatura?
La sceneggiatura di un film è definibile come un processo di elaborazione del racconto
cinematografico, che si articola in diversi stadi:

1) Soggetto
Si tratta della prima manifestazione concreta di un’idea, che si traduce in un piccolo racconto,
solitamente formato da poche righe per un massimo di un paio di pagine, della storia che deve
ancora prendere forma. Può avere esistenza legale, essere proprietà di qualcuno che può
rivendicare i diritti per un film che da quel soggetto prende spunto. Tuttavia, il soggetto di un film
può essere anche molto lungo e comprendere centinaia e centinaia di pagine: è il caso degli
adattamenti, ovvero quei film che si rifanno ad un’opera preesistente.
Il soggetto originale quindi dovrà essere articolato e ampliato, mentre al contrario il soggetto
letterario, sarà sottoposto ad una serie di tagli, selezioni e possibili variazioni che daranno vita ad
una rilettura personale dell’opera di partenza.

2) Trattamento
Consiste nella fase in cui gli spunti narrativi del soggetto vengono sviluppati e approfonditi.
In sostanza, è un racconto ancora scritto, ma più definito narrativamente e più funzionale alla
descrizione delle varie scene in cui si articola la vicenda. Solitamente è lungo una decina di
pagine, c’è una progressione drammatica, e i dialoghi sono già abbozzati in uno stile ancora
indiretto.

3) Scaletta
La scaletta segna la fase del passaggio da momento letterario a costruzione vera e propria del
film; il trattamento viene selezionato, scandito e diviso in scene numerate. Di solito non
supera le due pagine e i 20-30 episodi: la scaletta dunque serve a tenere sott’occhio l’intera
storia del film. È utile per controllare i ritmi della pellicola, vedere se l’inizio è lento o anticipa
troppo ciò che va svelato più avanti, se una determinata fase è troppo statica ecc.

4) Sceneggiatura
Trattamento e scaletta interagiscono tra loro, dando vita alla sceneggiatura del film: tutte le scene
vengono messe in ordine, vengono descritti con cura gli ambienti, i personaggi, gli eventi e i
dialoghi sono stesi con precisione.

5) Decoupage tecnico
Si tratta di un’ulteriore fase di elaborazione della sceneggiatura che consiste nella divisione delle
scene in singole immagini, ovvero le inquadrature e i piani, numerate. Viene indicato il
contenuto, il punto di vista della cinepresa, la presenza di particolari movimenti di macchina
ecc: il numero di indicazioni tecniche che un decoupage può contenere è potenzialmente infinito.

Ad una sceneggiatura inoltre, è possibile aggiungere dei disegni veri e propri che prefigurano
quelle che saranno le inquadrature del film: si tratta dello story-board, processo che dagli anni ’80
è talvolta accompagnato da forme di previsualizzazione elettronica.
Esiste anche un altro concetto legato alla sceneggiatura vera e propria, che procede però al
contrario; quando un critico o uno studioso vuole descrivere accuratamente un film già realizzato,
scrive la sceneggiatura desunta dalla copia definitiva del film: ne riporta dunque i dialoghi,
descrive accuratamente le diverse inquadrature e scene, indica le soluzioni tecniche. Ciò avviene
con il fine di costruire uno strumento che consenta di conoscere e studiare meglio una determinata
pellicola.

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Il processo di costruzione della sceneggiatura tuttavia ha acquistato importanza dall’avvento del
sonoro: anche prima esistevano sceneggiatori (ad esempio Carl Mayer), ma grazie all’arrivo dei
dialoghi la precisazione di ogni particolare e dettaglio, l’arte della sceneggiatura ha acquisito
essenzialità. Il cinema americano classico, quello che va dall’avvento del sonoro fino alla fine degli
anni ’50, ha assegnato una notevole funzione alla sceneggiatura, tanto che il compito del regista
consisteva soprattutto nel rispettare le indicazioni fornite nel decoupage tecnico; al contrario invece
la Nouvelle Vague, per esempio, ha notevolmente modificato il ruolo della sceneggiatura,
facendone uno strumento da rimettere continuamente in discussione. Si può dunque pensare a
grandi linee a una distinzione in una sceneggiatura legata al cinema classico, chiusa in sè
stessa, rigida e strutturata, ed un’altra sceneggiatura legata al cinema moderno, più aperta e
manipolabile: fra questi due estremi ovviamente ogni posizione intermedia è possibile.

La sceneggiatura possiede determinate caratteristiche intrinseche alla sua natura.


• Si può dire che essa possiede un carattere fluttuante ed instabile, si tratta di un soggetto
dalla natura fortemente labile: gli eventi, le parole che la compongono possono modificarsi
continuamente, così come i personaggi possono cambiare di aspetto e di carattere. Di fatto una
sceneggiatura è ultimata solamente quando quel film per cui era stata pensata è giunto alla fine
della sua lavorazione, e l’ultima possibilità di reincarnazione è la sceneggiatura desunta dalla
copia definitiva, che tuttavia, è una sceneggiatura particolare: è frutto di un lavoro meticoloso di
trascrizione, non di creazione.
• Un’altra caratteristica essenziale è data dal suo darsi in funzione di immagini, non di parole
scritte: lo sceneggiatore Jean-Claude Carrière afferma che la sceneggiatura è effimera in
quanto non è concepita per durare, ma per eclissarsi e diventare altro. Ecco quindi che lo
sceneggiatore non cerca solamente parole, frasi, azioni, ma cerca anche, e forse prima di tutto,
delle immagini, delle inquadrature, dei suoni particolari ecc. Anche Pasolini insisteva su questo
carattere della sceneggiatura, definendola “struttura che vuol essere altra struttura”. È
importante dunque che il testo di una sceneggiatura sia scritto o letto non tanto a partire dal suo
valore letterario, ma dal suo valore di rapporto alle immagini e ai suoni del film per cui essa
esiste.
• La sceneggiatura ha anche funzionalità pratica: indica i materiale di produzione necessari, i
luoghi delle riprese, il numero di attori e comparse ecc. In una parola, indica anche il denaro
necessario alla realizzazione del film. Permette dunque al produttore di farsi un’idea
abbastanza precisa sull’opportunità o meno di finanziare una pellicola, e consente al direttore di
produzione di predisporre un piano di lavorazione.
• Non si tratta di un momento interno alla lavorazione di un film, ma piuttosto un lungo percorso
che precede la lavorazione, la accompagna, e nel caso della sceneggiatura desunta, la segue.

1.2 Che cos’è un racconto?


Il termine racconto raccoglie al suo interno almeno due significati diversi.
1) Storia: con questo termine possiamo intendere il concatenarsi di eventi ed azioni, più i
cosiddetti “esistenti”, ovvero i personaggi e gli elementi dell’ambiente. Sostanzialmente è
il “che cosa” viene narrato.
2) Discorso: l’espressione ed i mezzi con i quali viene comunicato il contenuto.
Sostanzialmente è il “come” viene narrato.
Il racconto dunque, inteso come storia, è una catena di eventi legati tra loro da relazioni di causa
ed effetto che accadono nel tempo e nello spazio; a monte però della definizione di racconto,
troviamo quella di narratività. Si può definire come l’insieme dei codici, procedure, operazioni
(che sono indipendenti dal medium nel quale esse si possano realizzare) la cui presenza in un
testo ci permette di riconoscere il testo stesso come un racconto. La narratività quindi ha una
natura virtuale, ed esiste solamente nel momento in cui è diventata un racconto. Qual’è quindi
l’operazione minimale di narratività che ci permette di riconoscere il testo come un racconto?
André Gardies propone questa figura minimale:
equilibrio - squilibrio - riequilibrio.
Riformulando lo schema in maniera più articolata:
equilibrio - eventi o serie di eventi - squilibrio - evento o serie di eventi - riequilibrio.

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Algirdas Julien Greimas, un linguista e semiologo lituano, ha studiato le strutture profonde del
racconto, fondando il cosiddetto modello attanziale: è un modello paradigmatico fondato sulle
relazioni di opposizione esistenti fra sei fondamentali “attanti”, ovvero dei precisi ruoli narrativi
che sono:
1) Soggetto: colui che compie l’azione
2) Oggetto valore: la meta dell’azione
3) Adiuvante: l’aiuto al soggetto
4) Opponente: l’ostacolo al soggetto
5) Destinante: il mandante del soggetto all’inizio della narrazione
6) Destinatario: colui al quale viene affidato l’oggetto alla fine della narrazione

Un esempio concreto:
Un agente della CIA (soggetto) riceve dal governo (destinatore), il compito di recuperare la
formula di un pericoloso ordigno nucleare (oggetto), che, caduto nelle mani sbagliate, potrebbe
rappresentare un grave pericolo per l’umanità (destinatario); l’uomo dovrà vedersela con
pericolose spie (opponenti) ma riuscirà alla fine ad avere la meglio grazie alla sua intelligenza ed
abilità (adiuvanti).
Va notato che in ogni racconto si possono trovare più modelli attanziali a seconda dei diversi punti
di vista sulla base dei quali esso è strutturabile.

Roland Barthes, dal canto suo, ha insistito sul carattere di solidarietà interna degli elementi che
costituiscono un racconto: nulla in un racconto è insignificante, ogni elemento entra in relazione
con gli altri e dà vita ad un tutto organico. Tuttavia, non tutti gli elementi concorrono alla creazione
di sensi allo stesso modo:

1) Funzioni: hanno il compito di far avanzare la storia, e sono divisibili in:


Funzioni cardinali: dette anche nuclei, sono quei momenti della narrazione che fanno a tutti gli
effetti procedere il racconto, che aprono o chiudono quelle alternative necessarie al suo sviluppo.
Catalisi: ovvero quelle azioni che si agglomerano intorno ad un nucleo o ad un altro senza
modificarne la natura alternativa.

2)Indizi: al contrario delle funzioni, rinviano a uno stato e servono ad arricchire il racconto,
divisibili in:
Indizi propriamente detti: una notazione che rinvia a un carattere, un sentimento, un atmosfera.
Implica quindi un’attività di decifrazione.
Informanti: un elemento del racconto che dà un’informazione esplicita, che situa qualcosa nel
tempo e nello spazio. Apporta una conoscenza già fatta.

Da tutto ciò emerge un aspetto chiave della narratività, ovvero la causalità: il racconto, almeno
nella sua forma classica, impone una struttura causale. Dunque, si può dire che la narratività è
quell’insieme di regole, modi e strutture profonde, che presiedono ad ogni racconto e ne
determinano la manifestazione verbale o audiovisiva. Ogni racconto quindi da vita ad un
mondo proprio, fatto di soggetti, oggetti, parole, musiche, sentimenti ecc: tutti gli elementi appena
elencati rappresentano la diegesi, termine derivante dal greco antico ripreso da Sorieau. Si può
definire la diegesi dunque come un costrutto di cui fanno parte tutti gli elementi interni al
racconto, siano essi fisici, sonori o astratti. Di conseguenza, è diegetico o intradiegetico tutto
ciò che fa parte del mondo della diegesi, e come extradiegetico tutto ciò che vi esula, pur magari
entrando a far parte di un film.

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1.3 Il racconto cinematografico

1.3.1 Narrazione e rappresentazione


Dove si colloca il cinema nella bipolarità di narrazione e mostrazione? Ad un primo sguardo
possiamo dire che il cinema si situi sul piano della rappresentazione, in quanto, come il teatro,
ricorre alla presenza di attori che interpretano dei personaggi e danno vita a una serie di azioni ed
eventi. Tuttavia, il rapporto tra attore/personaggio e spettatore non è diretto come nel teatro, ma è
mediato: la macchina da presa che riprende la recitazione dell’attore può modificare la percezione
che lo spettatore ha della prestazione degli attori, solamente anche tramite dei semplici movimenti.
La macchina da presa inoltre, oltre a mostrare, fa anche sentire suoni, voci, rumori, musiche:
dunque così come ci fa vedere immagini secondo un certo modo, accade lo stesso con i suoni.
La narrazione cinematografica quindi si evidenzia come tale nel momento in cui costruisce il suo
operare tramite i principi della selezione e della combinazione, così come succede in un
romanzo; un film che narra 80 anni di storia, non durerà di certo 80 anni, ma verranno mostrati
alcuni frammenti (ecco la selezione), disposti in un determinato ordine (combinazione). L’esempio
principe è Citizen Kane di Orson Welles, che narra tutta la vita del magnate della stampa Charles
Foster Kane, ma dura 2 ore (selezione), e gli eventi non sono disposti in maniera cronologica, in
quanto il film inizia con la morte del protagonista (combinazione), per poi procedere alla
ricostruzione di tutto il tempo precedente.
Esiste quindi una sorta di istanza invisibile, rapportabile al narratore letterario, che produce il
racconto, ed è essenziale al cinema narrativo ed il cui lavoro si articola su tre livelli (mostra - far
sentire - narrare). È invisibile, astratta e al di fuori del mondo diegetico; tuttavia quando questa
istanza si fa più concreta, manifestando la sua presenza tramite una voce che racconta i passaggi
visivi, spiega, commenta situazioni e personaggi: è il caso del narratore extradiegetico, che non
è altro che la manifestazione verbale dell’istanza narrante. Quando questo narratore coincide con
un personaggio della storia, si definisce narratore intradiegetico.

1.3.2 Lo spazio del racconto


Il racconto cinematografico trova nello spazio un elemento a sè costitutivo proprio quanto lo sono il
tempo e la causalità: lo spazio ha il compito di accogliere le trasformazioni operate da determinati
agenti su cui si costituisce la storia di un racconto. Quando parliamo di spazio del racconto
cinematografico possiamo intenderlo come:
1) Spazio della storia: è lo spazio diegetico rappresentato da un film, quindi i suoi luoghi ed
ambienti (palazzi, appartamenti, strade, montagne, mari, fiumi ecc).
2) Spazio del racconto: lo spazio che si forma sullo schermo attraverso il modo in cui il discorso
articola lo spazio della storia.
Facendo un esempio pratico; prendendo in considerazione un film western con ambientazione
desertica, brulla ecc. (spazio della storia), possiamo vedere un panorama sopraelevato dello
spazio sottostante, oppure possiamo vedere la roccia dal quale si può vedere quel panorama, o
ancora vedere solamente il terreno arido (spazio del racconto). Lo spazio del racconto quindi è una
porzione dello spazio della storia.
In un film si possono articolare 4 tipi fondamentali di rapporti spaziali:
• Relazione d’identità
È il rapporto spaziale più semplice, che articola due segmenti dello spazio diegetico in
sovrapposizione spaziale fra un’immagine e l’altra. Ad esempio, nella prima immagine vedo una
parete con 5 quadri appesi, nella seconda vedo, più da vicino, solo una parte della parete e solo
uno dei quadri appesi.
• Relazione di contiguità

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Il caso più evidente di questo tipo di rapporto spaziale è quello della conversazione tra due
personaggi in cui si alternano le immagini dell’uno e dell’altro: i due spazi sono adiacenti, congiunti
tra loro, legati da un rapporto di comunicazione visiva immediata.

• Relazione di prossimità
Si ha ogni qualvolta che fra due spazi adiacenti non è possibile una comunicazione visiva o sonora
non amplificata (ad es binocolo e telefono: come se fossero due celle separate da un muro in cui
due detenuti possono comunque comunicare tra loro, o come la relazione tra due case dalle quali
ci si può spiare vicendevolmente.
• Relazione di distanza
Quella che viene a costituirsi tra due spazi privi di una possibilità di comunicazione visiva o sonora
diretta, come quando all’immagine della donna rimasta sola nella sua casa di campagna segue
quella del suo uomo recatosi nella grande città a fare fortuna.

La possibilità della macchina di passare da uno ad un altro dei 4 possibili spazi appena elencati è il
segno più evidente della sua ubiquità, e di conseguenza della presenza di un’istanza narrante in
grado di trasformare lo spazio della realtà rappresentata in un vero e proprio spazio narrativo.
Quello che lo spettatore ha davanti agli occhi è lo spazio del racconto, e tramite questo potrà farsi
un’idea mentale dello spazio della storia: quest’ultimo spazio dunque possiamo definirlo come
spazio diegetico. I diversi elementi che articolano questo spazio, vengono automaticamente
raggruppati in pacchetti dall’occhio dello spettatore che riesce, anche senza una diretta
conoscenza di un determinato luogo, a comprendere lo spazio della storia.
La rappresentazione di uno spazio tende sempre a dar vita a uno o più significati: tali significati
nascono dal lavoro di cooperazione dello spettatore, che deve sapere organizzare e decifrare i
segni che vede. Lo spazio rappresentato ha come suo referente primo uno spazio immaginario che
altri media hanno contribuito a diffondere dando vita a veri e propri stereotipi.
Lo spazio inoltre può assumere una funzione attanziale, difficilmente quella del soggetto-eroe, ma
certamente quella di destinatario, destinatore, oggetto, adiuvante e opponente: basti oensare alla
città, che può essere destinatario e destinatore di una storia in cui gli organi che la tutelano la
devono difendere da un’aggressione. Lo spazio può assumere anche una funzione narrativamente
attiva nel momento in cui si rapporta ai personaggi del racconto: in Psycho di Hitchcock per
esempio, gli uccelli rapaci impagliati del salotto del motel di Norman sono già degli evidenti indizi
della natura del personaggio.

1.3.3 Il tempo del racconto


Il tempo è un altro elemento essenziale di ogni narrativa: le scene che vediamo si svolgono
attraverso certe articolazioni temporali. Se la fotografia dà l’impressione di presentare qualcosa
che è già accaduto, il cinema invece sembra piuttosto mostrarci qualcosa che sta accadendo: il
tempo del film è il presente.
È necessario fare una distinzione preliminare tra due tempi diversi:
1) Tempo diegetico: è il tempo della storia.
2) Tempo filmico: il tempo del discorso che dà vita al tempo del racconto che stiamo vedendo.
Ovviamente, l’istanza narrante non è obbligata a mostrarci gli eventi in tempo cronologico, non
deve quindi per forza rispettare la temporalità diegetica. Ecco che Gerard Genette ha messo a
punto tre categorie differenti, che hanno a che fare con il rapporto tra tempo della storia e tempo
del racconto: ordine, durata, frequenza.

Ordine
Non è insolito vedere un film in cui l’ordine degli eventi è diverso da quello della storia; è
frequentissimo l’uso per esempio di flashback, ovvero la presentazione di un evento in un
momento successivo a quello in cui si è realmente svolto all’interno del tempo della storia. Ciò che
si ritrova davanti lo spettatore quindi è l’ordine del discorso, ovvero il dato concreto del film, e non
quello della storia, ovvero la costruzione mentale dello spettatore sulle basi di ciò che il film gli
suggerisce. Contrariamente al flashback esiste il flashforward, ovvero la rappresentazione di un
evento futuro, un salto in avanti seguito da un ritorno al presente.

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Tuttavia, i momenti passati di una storia possono essere evocati anche semplicemente da un
narratore diegetico: in questo caso si parla di analessi e prolessi, entrambi termini di matrice
genettiana (Gerard Genette).
Le analessi consistono nell’evocazione a posteriori di un evento passato (di conseguenza, il
flashback è un particolare tipo di analessi), e sono distinguibili in interne, esterne, miste. Si ha
un’analessi esterna quando viene evocato un episodio che inizia e finisce fuori dal tempo in cui si
sta svolgendo il racconto; poniamo per esempio che un racconto prenda in considerazione un arco
di tempo che va dal 1990 al 2000, se le parole del narratore evocano un evento che è avvenuto nel
1988 abbiamo un’analessI esterna. L’analessi è interna quando l’evocazione prende in
considerazione un momento interno al racconto (evocazione di un episodio del 1992, per
esempio), mentre l’analessi mista si ha quando l’episodio passato inizia prima del racconto,
continua e termina poi all’interno del racconto (evocazione di un episodio nel 1988 che termina nel
1994). Secondo lo stesso ragionamento, anche le prolessi possono essere ovviamente di questi
tre tipi.
Ogni salto nel tempo non è casuale ma è dettato da una logica ben precisa; le analessi in
generale, e i flashback, assumono spesso il compito di completare un’omissione funzionale alla
comprensione di un carattere di un personaggio, o le cause di evento ecc. Le prolessi dal canto
loro, molto meno frequenti, hanno funzione di anticipazione: ecco quindi che lo spettatore non in tal
caso non sarà più portato a chiedersi cosa accadrà, ma come accadrà.
Già i formalisti russi avevano individuato la distinzione tra tempo della storia e tempo del racconto,
e proposto l’uso dei termini fabula, per definire l’ordine cronologico degli eventi della storia, e
intreccio, ovvero l’ordine degli eventi così come essi si presentano nel racconto: non si tratta di
una distinzione semplice, in quanto rivela la natura sofisticata del tempo cinematografico (in questo
caso). The Killing di Kubrick per esempio, all’inizio presenta una serie di scene che secondo
l’intreccio del film si svolgono così:
A. Sabato, ore 15:45, ultima settimana di settembre.
B. Un’ora prima, ovvero le 14:45.
C. Le 19:00 dello stesso giorno.
D. Mezz’ora prima, ovvero le 18:30.
E. George, un personaggio, rincasò invece alle 19:15.
In questo caso, l’ordine cronologico degli eventi della fabula è così scardinato da quello
dell’intreccio.

Durata
Ogni racconto ha la sua durata di fruizione, e la durata di un film è determinata dal numeri di metri
di pellicola impressionata: contrariamente ad un romanzo, un film ha durata di tot. minuti per tutti.
Tuttavia, esiste durata della storia, ovvero la durata che possiamo desumere vedendo il film,
ovvero l’arco di tempo coperto dalle vicende narrate; la durata del racconto invece coincide alla
durata del film stesso (un’ora, un’ora e mezza, due ore ecc).
Un problema che si pone dunque è quello del ritmo e della velocità narrativa che si può
modificare nel corso del film. Gerard Genette indica 5 diversi rapporti temporali tra durata della
storia e durata del racconto:
1) Pausa (TR = n, TS = 0): coincide, per esempio, con la rappresentazione di un paesaggio (un
albero, poi una veduta parziale ecc), e sostanzialmente si ha quando ad una certa durata del
tempo del racconto non corrisponde nessuna durata diegetica. Riguarda quelle che in
letteratura sono le descrizioni. La pausa cinematografica può darsi anche attraverso il campo
vuoto, ovvero un’immagine priva di elementi diegetici forti in cui nulla accade, o il fermo
fotogramma, ovvero il bloccaggio dell’immagine.
2) Estensione (TR > TS): quando il tempo del racconto è superiore a quello della storia che
tuttavia non è uguale a zero, come nella pausa. Si ad esempio con la tecnica dello slow
motion, dove la durata rallentata delle immagini impone una durata del tempo filmico
superiore a quello diegetico.
3) Scena (TR = TS): si ha quando il tempo del racconto è uguale al tempo della storia: nei film è
una forma assai comune, in quanto nella maggior parte delle scene in cui viene rispettata
l’integrità cronometrica delle azioni mostrate.

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4) Sommario (TR < TS): quando il tempo del racconto è minore del tempo della storia; è un’altra
configurazione temporale utilizzata spesso al cinema, per esempio per eliminare dei dettagli
considerati inutili o per accelerare il ritmo della narrazione. Ad esempio la preparazione di un
pasto o la pulizia di una pistola, possono essere rappresentati nella loro integrità (e in tal caso
avremmo una scena), oppure attraverso alcune immagini che ce ne mostrano i momenti
essenziali.
5) Ellisse (TR = 0, TS = n): ad un determinata del tempo della storia, non corrisponde nessuna
durata del racconto: siamo di fronte ad un silenzio testuale, ad una soppressione temporale.
Consiste per esempio nell’interrompere un’azione interessante per generare suspense, o
celare un evento di rilievo per poi mostrarlo nel momento più opportuno.

Frequenza
La frequenza è il rapporto che si stabilisce tra il numero di volte che un certo evento viene evocato
nel racconto ed il numero di volte che si presume che sia avvenuto nella storia. Genette indica
quattro possibili rapporti:
1) Racconto raccontato una volta e avvenuto una volta
2) Racconto raccontato n volte e raccontato n volte
3) Racconto raccontato N volte quando è avvenuto solo una volta
4) Racconto raccontato una volta quando è avvenuto n volte
Nei primi due casi, siamo di fronte al racconto singolativo o singolativo plurale (ovvero il più
frequente nel cinema), nel terzo abbiamo il racconto ripetitivo (più raro, ad esempio in Rashomon
di Kurosawa viene mostrato l’omicidio di un samurai in 4 versioni diverse), nel quarto racconto
iterativo (assai complesso, vedi pag. 40 manuale).

1.3.4 Vedere e sapere: focalizzazione e ocularizzazione


Genette conia il termine focalizzazione per definire la strategia narrativa con cui vengono regolati i
rapporti di sapere tra l’istanza narrante, personaggio e spettatore. L’istanza narrante sa sempre
tutto, ma decide, sul piano delle strategie narrative, quando e quanto del suo sapere dispensare
nel corso del progredire del racconto. Genette stila anche una serie di tipologie di focalizzazioni:
1. Racconto non focalizzato o a focalizzazione zero: è il caso della narrazione onnisciente in
cui il narratore comunica allo spettatore più di quanto sappiano i personaggi (narratore >
personaggio).
2. Focalizzazione interna: quando il narratore assume il punto di vista di un personaggio,
comunicando solo ciò che il personaggio sa (narratore=personaggio).
3. Focalizzazione esterna: quando il narratore non fa conoscere i pensieri e i sentimenti di un
personaggio, e quindi comunica ancora meno informazioni di quante ne sappia il personaggio
(narratore < personaggio).
Tuttavia avvengono almeno tre varianti che complicano tale schema; il narratore può focalizzare il
racconto su un personaggio all’inizio e su un altro ad un certo punto della narrazione, oppure
passare da una focalizzazione zero a una focalizzazione esterna. Nell’ultima variante, il narratore
può farci sapere di più rispetto ad alcune cose di un personaggio e meno rispetto ad altre.

Francois Jost ha introdotto il termine ocularizzazione per indicare la relazione che si instaura tra
ciò che la macchina da presa (o l’istanza narrante) mostra e ciò che si presume il personaggio
veda. Per spiegare meglio il concetto è necessario prima dividere in diversi tipi di ocularizzazione:
1) Ocularizzazione interna: dove ciò che vedo io è quel che è visto da un personaggio (è il caso
comunemente definitvo come soggettiva). Può essere primaria quando le singole immagini
recano in sé le tracce di qualcuno che guarda: ad esempio lo sguardo di un personaggio
ubriaco, oppure il modo di avanzare o arretrare che rimanda al movimento del personaggio. È
invece secondaria quando si alternano due immagini che mi mostrano l’una un personaggio
che guarda, l’altra ciò che è guardato.
2) Ocularizzazione zero: quanto vedo qualcosa direttamente, senza la mediazione di un
personaggio a vederlo. Corrisponde ad uno sguardo esterno alla diegesi, quello della sola
istanza narrante: gli americani la chiamano nobody shot. Un’ immagine a ocularizzazione zero
può scindersi a sua volta in un’immagine a enunciazione mascherata, quando vediamo delle
immagini ordinarie che ci evidenziano però alcuni elementi diegetici importanti, ed immagine a

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enunciazione marcata, quando l’istanza narrante mette in evidenza al contrario la sua
autonomia (ad esempio quando la cinepresa ci mostra l’ombra dell’assassino ma non il suo
volto).

Qual’è il rapporto dunque tra focalizzazione e ocularizzazione?


Vedere è sapere, ma sapere solo parzialmente. Inoltre le informazioni sul mondo diegetico di un
racconto filmico, non passano solo attraverso le immagini (cioè il vedere), ma anche attraverso
parole, rumori, musiche, menzioni scritte: questi elementi possono contraddire apertamente il
senso di un’immagine e smentire quindi il presunto sapere dello spettatore. Esistono quindi dei
rapporti tra ocularizzazione e focalizzazione, ma nel caso dell’ ocularizzazione mi riferisco solo al
vedere, mentre nel caso della focalizzazione mi riferisco al sapere, che contiene anche l’azione del
vedere, tra le cause del sapere.

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CAPITOLO 2
L’inquadratura

2.0 Che cos’è l’ inquadratura?


L’inquadratura è l’unità di base del discorso filmico, e rappresenta la continuità di un certo
spazio per un certo periodo di tempo: si tratta quindi di una rappresentazione con dimensione
spaziale e temporale. Spazialmente l’inquadratura è data dalla porzione di realtà rappresentata e
delimitata da una cornice ideale (i 4 bordi), mentre temporalmente è data dalla durata tra il suo
inizio (la fine dell’inquadratura precedente) e la sua fine (l’inizio dell’inquadratura successiva).
Nella confusione terminologica spesso si confonde l’inquadratura con il piano; tuttavia quando
parliamo di inquadratura, intendiamo una delimitazione, che ha a che fare con ciò che viene
mostrato e ciò invece che non lo è, in quanto fuori dai bordi dell’immagine. Quando parliamo di
piano invece, ci riferiamo alla porzione di spazio rappresentata e alle modalità della sua
organizzazione e composizione.
Ogni inquadratura è sempre il risultato di scelte relative al livello profilmico, ovvero tutto ciò che sta
davanti alla macchina da presa e che è lì appositamente per essere filmato (ambienti, personaggi
oggetti) e contemporaneamente al livello filmico, che concerne il piano discorsivo propriamente
detto, ovvero l’angolazione, la distanza, la dialettica di campo e fuori campo, piani oggettivi,
soggettivi, i movimenti della macchina da presa ecc. Inquadrare dunque non è una semplice
azione di registrazione passiva, ma, come dice Villain, “inquadrare è scegliere, selezionare,
mettere in evidenza gli elementi significati, quelli che lo spettatore deve individuare”.

2.1 Il profilmico e la messa in scena

2.1.1 L’ambiente e la figura


Prima dell’avvento del digitale, lo spazio ambientale di un’inquadratura può essere naturale,
parzialmente modificato, o interamente costruito. Nel secondo e nel terzo caso è corretto parlare di
scenografia; si tratta quindi della modificazione o la creazione di un ambiente in funzione della
ripresa cinematografica e della realizzazione di un film. È un elemento evidentemente di origine
teatrale, ma esistono grandi differenze tra la scenografia teatrale e quella cinematografica, in
quanto ogni inquadratura può rappresentare, a seconda delle scelte che detta l’istanza narrante,
un aspetto particolare, un dettaglio specifico, determinati arredi scenografici; attraverso il
montaggio poi, ovvero l’operazione che unisce e mette in relazione tra loro due inquadrature,
scene o sequenze, la “scenografia-madre” viene frazionata in una successione di piani che le
conferiscono una dimensione temporale.
L’ambiente, in ambito cinematografico non è quindi un semplice contenitore, ma al contrario può
dare un contributo essenziale alla definizione dei personaggi che lo abitano: basti pensare
all’importanza dell’ambientazione nella nouvelle vague e nel neorealismo. Un ambiente viene
ricostruito per diverse ragioni, che possono essere economiche (costruire in studio una piazza da
zero costa meno che occuparla interamente), pratiche (nei casi di film storici o ambientati in
epoche lontane, intrinseche (i musical). Gli ambienti ricostruiti, ovvero le scenografie possono
essere di tre tipi:
1. Realisti: l’ambiente non ha altra implicazione che la sua stessa, puntano cioè a significare
esattamente quello che sono (neorealismo).
2. Impressionisti: l’ambiente è modificato e ricostruito a partire dalla dominante psicologica
dell’azione: è il paesaggio di uno stato d’animo (ad esempio come in Cast Away).
3. Espressionista/artificiale: ambiente esplicitamente artificiale, rappresenta un mondo
deformato, stilizzato in funzione simbolica (Il gabinetto del Dr. Caligari).

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2.1.2 Scenografie virtuali


Ricorrere a delle scenografie virtuali, interamente o parzialmente create al computer, è una tecnica
frequentissima nel cinema contemporaneo; gli ambienti virtuali sono a tutti gli effetti dei simulacri
che potrebbero portare ad una tendenziale scomparsa del profilmico, almeno intendendo con tutto
ciò che sta concretamente davanti alla macchina da presa.

Ovviamente gli ambienti digitali possono interagire con ambienti presi dal vero, ed è necessario
distinguere tra ambienti digitali puri, interamente fatti al pc, e ambienti digitali parziali, che risultano
essere immagini dal vero sottoposte poi a trattamenti che modificano, o stravolgono, la loro
realisticità.
Ci troviamo dunque di fronte ad almeno 4 possibilità per quanto riguarda il rapporto tra ambiente e
digitale:
1) Ambiente realistico illusorio: si tenta di ricreare realisticamente (nel senso che viene messo
in scena un mondo possibile) un ambiente, in cui l’apporto digitale assume una dimensione
mascherata che lo spettatore non percepisce. Si tratta di una correzione digitale nei confronti
del realistico.
2) Ambiente realistico artificiale: quando viene ricreato un ambiente si realistico, ma nel quale
si percepisce visibilmente l’apporto digitale.
3) Ambiente fantastico illusorio: è il caso di Inception per esempio. Il mondo ricostruito fa parte
di un sogno, quindi è fantastico, ma è reso in maniera credibile, senza perdere l’aspetto
illusorio.
4) Ambiente fantastico artificiale: quando viene ricostruito un ambiente fantastico e non ci si
pone il problema di trasmettere realisticità.

2.1.3 La luce e il colore


Illuminare uno spazio non significa solamente dare luce sufficiente affinché la sua
rappresentazione cinematografica sia ben visibile agli occhi dello spettatore: illuminare spazio o
personaggio è soprattutto organizzarlo, dargli una struttura, imporne un certo tipo di lettura alla
quale lo spettatore non può e non deve sottrarsi. Si possono fare diverse distinzioni sulla luce, ma
la prima da indicare è quella tra:
1) Luce intradiegetica: ovvero tutte le fonti di luce che fanno parte della messa in scena, della
storia raccontata: lampadine, fuochi, candele ecc.
2) Luce extradiegetica: l’illuminazione prodotta da riflettori e superfici riflettenti che esistono solo
nella realtà extra-diegetica, nella produttività del film, e non nella sua diegesi. Tuttavia è proprio
l’effetto di questa luce ad entrare nella diegesi del film e determinarne la natura.
Parlando invece delle funzioni espressive della luce si possono fare distinzioni in base alla sua
qualità. Si ha un’illuminazione contrastata quando si creano contrasti molto netti tra zone di luce
e di ombra, con lo scopo di drammatizzare lo spazio e conferire determinato rilievo narrativo ad un
certo evento o azione; a volte possiamo avere un’illuminazione contrastata grazie alla luce
dinamica, ovvero quel tipo di illuminazione creata attraverso delle fonti di luci in movimento che
determinano una rappresentazione dello spazio in modo drammatico. Contrariamente
all’illuminazione contrastata, possiamo avere anche un’ illuminazione diffusa, che dà vita a una
rappresentazione più omogenea dello spazio, ricorre con maggior frequenza in situazioni narrative
meno forti, più distese o, talvolta, dal carattere idilliaco.
La direzione spaziale invece pone il problema del rapporto tra il percorso della fonte luminosa ed
il soggetto; una luce frontale tende ad eliminare le ombre e appiattire l’immagine; la luce laterale
invece tende a scolpire i tratti del volto e ad accentuarne il gioco di ombre e luci; mediante il
controluce la figura si stacca dallo sfondo ed emergono i contorni; la luce dal basso distorce i
tratti del volto, creando effetti drammatici; la luce dall’alto, molto poco frequente, suggerisce la
presenza di una fonte di luce diegetica sopra al personaggio.
Tuttavia lo spazio profilmico raramente viene illuminato da una ed unica sorgente di luce; esse
sono almeno due, ma il cinema americano classico privilegia un sistema a tre luci principali per
ogni inquadratura:
1) Key light / luce principale: struttura le ombre principali in quanto è la luce dominante. Viene
posta frontalmente ed evidenzia il personaggio.

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2) Fill light / luce di riempimento: serve a riempire l’immagine, a scolpire le ombre
(attenuandole o eliminandole) del personaggio.
3) Back light / controluce: si organizza attorno alla figura principale, per staccarla dallo sfondo.

Nel cinema narrativo, la luce serve, tra i tanti compiti che ha, anche a mettere il evidenza il volto
del personaggio in modo tale che lo spettatore possa meglio seguirne le azioni esteriori ed interiori;
altre volte si mettono in atto soluzioni espressive legate alla luce per sottolineare il carattere
ambiguo, misterioso, contraddittorio dei personaggi.
Tuttavia il quadro generale fino a qui tracciato è certamente più pertinente al cinema classico che a
quello moderno: il cinema classico infatti assegna alla potenza espressiva della luce un ruolo
univoco, nel senso che allo spettatore non resta che il compito di registrare l’esistente. La luce nel
cinema classica serve a rendere ogni immagine chiara e riconoscibile, ed è fortemente codificata
al servizio dell’unicità del senso: obbedisce ad un cammino logico che converge verso solamente
un senso voluto e già designato.
Ben diverso è il modo di operare del cinema moderno: basti pensare al neorealismo o alla nouvelle
vague per capire che la luce è documentaria, procede attraverso un intervento minimamente
significante, nel quale le luci sono riprodotte così come sono, senza essere piegate e trasformate
dalla necessità del racconto e del senso. L’illuminazione sarà così drammaticamente indifferente,
ciò che conta è che essa renda conto del reale e della sua assenza di senso simbolico.

Riguardo il colore, esso si afferma in modo decisivo solo negli anni ’50 e ’60, sebbene la sua
introduzione nel cinema risalga alla metà degli anni ’30; del resto di colore si può parlare in un
certo senso anche per il cinema in bianco e nero, che già sfruttava per fini espressivi il gioco dei
bianchi, dei neri e delle tonalità di grigio.
L’avvento del colore fu pensato inizialmente in ambito critico e teorico, come un accrescimento
delle potenzialità realistiche del cinema: tuttavia i vividi colori degli anni ’50 erano tutt’altro che
realistici, tanto che inizialmente il colore si caratterizzò per la sua natura decorativa e spettacolare,
ma non realistica. Fu privilegiato da certi generi come il musical, o il western (esaltavano i
paesaggi), ma sarà solo negli anni ’60 che si affermò l’uso del colore anche nel cinema d’autore.
Il colore ovviamente gioca, insieme alla luce, un ruolo primario nella composizione dell’immagine,
ed è noto come i colori chiari attirino lo sguardo più di quelli scuri, come i toni caldi attraggono
maggiormente rispetto a quelli freddi. Tuttavia la funzione significante del colore, più che su
relazioni definite una volta per tutte, poggia su un processo di costruzione proprio a ogni specifico
film.
Tornando invece all’analisi del colore nel cinema da un punto di vista più storico, Michel Chion
individua tre grandi momenti:
1) Il periodo del bariolage (accozzaglia di colori): coincide con gli anni ’50 - ’60 e mette in
evidenza la novità del colore.
2) Il periodo anti-bariolag: coincide con gli anni ’60 - ’70, nel quale si cercava di far dimenticare i
colori, e a tal fine venivano limitati, resi discreti, denaturati.
3) Il periodo neo-bariolage: anni ’80, nel quale i colori tornano ad essere utilizzati in maniera
molto più marcata e cresce di intensità con gli sviluppi del cinema postmoderno.
Il cinema contemporaneo è sempre più interessato non ad attutire i contrasti bensì ad esaltare
tonalità sempre più accese del colore, puntando ad una resa iperrealistica del mondo che vuole
descrivere. La tendenza post-moderna del cinema contemporaneo ha rilanciato un uso dei colore
dai toni pop, che esalta contrasti e gioca con tonalità accese, puntando talvolta su un uso marcato
delle sue possibilità espressive.

2.1.4 Il discorso dell’attore, la costruzione del paesaggio


La recitazione al cinema discende, come molti altri elementi del profilmico cinematografico, da
quella teatrale, ma se ne distanzia per alcuni evidenti aspetti; la prima evidente differenza è data
dal fatto che l’attore cinematografico non recita davanti ad un pubblico, ma davanti ad una
cinepresa, e di conseguenza lo spettatore ha davanti la sua immagine preregistrata: manca quindi
il peso imprevedibile del rapporto diretto tra attore e pubblico che è proprio del teatro. La

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performance dell’attore di cinema è la medesima ad ogni proiezione, a differenza della
performance teatrale, che cambia ad ogni spettacolo, anche se si tratta della stessa storia.
L’espressività del volto dell’attore cinematografico inoltre, ha un peso maggiore di quella dell’attore
teatrale, in quanto è molto più visibile (primi piani, avvicinamenti di camera ecc).
Il montaggio poi determina l’evidente frammentazione della recitazione cinematografica non solo
per lo spettatore, ma anche per l’attore stesso, che spesso è costretto a recitare inquadratura per
inquadratura in modo discontinuo, a differenza della performance teatrale, che recita per forza in
un continuum spazio temporale.

Passando invece ad un discorso più specifico nei confronti dell’attore cinematografico, esistono
due diverse concezioni concernenti il rapporto tra l’attore ed il personaggio che esso deve
interpretare:
• Da una parte c’è l’idea che l’attore debba possedere un repertorio di tecniche ben precise fatto
di movimenti, gesti, espressioni facciali, cui fare ricorso per rappresentare dall’esterno il proprio
personaggio ed i suoi stati d’animo: il personaggio è dunque rappresentato.
• Dall’altra c’è il sistema che punta invece ad un rapporto interiore tra attore e personaggio, dove
il primo non deve più fingere sulla scena stati d’animo che non sono suoi, ma viverli dall’interno
in prima persona, in modi spesso intensi e sofferti: in questo caso invece il personaggio è
rivissuto.
Ad ogni modo, l’attore nella maggioranza dei casi creerà comunque un certo rapporto di
identificazione, almeno durante le prove e la recitazione vera e propria, fra se stesso ed il
personaggio; a tale modello di identificazione si può contrapporre quello di origine brechtiana dello
straniamento, in cui si nega l’identificazione tra attore e personaggio e si invita il primo a
mantenere una distanza rispetto al secondo.
Parlando poi di stile del discorso attoriale, possiamo individuare almeno tre grandi diverse
modalità:
1) Recitazione naturalista: l’attore interpreta il suo personaggio ricorrendo a gestualità e vocalità
con caratteristiche verosimili, optando quindi per una recitazione neutrale e invisibile.
2) Recitazione sovraccarica: l’attore accentua l’uso del gesto e della voce, caratteristica
spesso riscontrabile negli allievi dell’actors studio: Marlon Brando, James Dean, Robert de
Niro, Jack Nicholson.
3) Recitazione minimalista: si caratterizza per sobrietà del gesto e dell’azione.

Possiamo ancora distinguere tra altre due modalità di intepretazione:


1) Attore replicante: manda giù a memoria una parte, movimenti, gesti e battute.
2) Attore creativo: recita a partire da un canovaccio affidando una certa parte del proprio lavoro
all’improvvisazione.

Ogni regista inoltre ha un suo metodo di direzione degli attori, che potrà funzionare più o meno
bene: è anche per questo che la storia del cinema è piena di lunghe collaborazioni fra determinati
registi e determinati attori. Tendenzialmente, l’uso del primo piano è un momento in cui il lavoro del
regista lascia spazio all’individualità dell’attore e alle sue possibilità di ricorrere al gioco delle
espressioni del volto. Anche il ricorso a lunghe riprese, fa sì che l’attore si riappropri di una
maggiore autonomia espressiva nei movimenti, nei gesti e nelle posture. Nel rapporto tra attore e
regista, è assai importante anche l’ambito della prossemica, ovvero ciò che concerne la
collocazione dei diversi elementi e quindi anche delle figure umane, nello spazio dell’inquadratura:
nei primi anni del ‘900 per esempio, nei film di Porter e Griffith, i personaggi criminali occupavano
spesso i margini dello schermo, evidenziando il loro agire ai margini della società. Il cinema
classico, dal canto suo, attribuiva ai suoi protagonisti e quindi agli attori e ai divi che li interpretano,
una posizione di assoluta centralità nel contesto delle immagini che li mostrano.
Una componente essenziale dell’attore cinematografico, è la figura del divo. Il divo è un attore, ma
si differenzia per l’immagine semiotica che riesce sempre a imporre ai suoi personaggi. Frutto di
un attento processo mediale, il divo porta sempre qualcosa di sé in ogni suo personaggio,
proveniente dall’immagine che attorno a lui hanno costruito i media, o dalle sue precedenti
interpretazioni. Tale figura quindi si trascina dietro una sorta di Io residuo, un passato
extradiegetico che incide in ogni sua nuova interpretazione.

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Aspetti fondamentali sono anche il costume ed il make-up: i costumi soprattutto giocano un ruolo
essenziale, in quanto stabiliscono spesso lo status sociale di un personaggio. Al cinema inoltre, il
costume ha un ruolo potenzialmente più importante di quello teatrale e letterario, in quanto un
personaggio è sempre vestito, mentre in letteratura per esempio, quando viene descritto
l’abbigliamento non persiste nella nostra mente come nel cinema.

2.2 Il filmico

2.2.1 La scala dei piani e il volto umano


Il cinema delle origini si caratterizzava per la costruzione di uno spazio filmico assai simile a quello
teatrale: i film del primissimo periodo erano formati da un’unica inquadratura (niente montaggio),
con la cinepresa fissa (nessun movimento di macchina), e rappresentano quindi il grado zero del
linguaggio cinematografico. Il cinema come forma di espressione autentica e originale nasce
quando si incomincia a variare attraverso il montaggio o i movimenti di macchina la distanza e
l’angolo di ripresa di una stessa scena.
Quando si parla di scala dei piani si intende quindi la diversa possibilità di ogni inquadratura di
rappresentare un elemento profilmico da una maggiore o minore distanza:
• Campo lunghissimo: funzione descrittiva, se la figura umana è presente è ridotta ad un
elemento ambientale (western).
• Campo lungo: inquadratura sempre di ampie proporzioni, ma azioni dei personaggi più
riconoscibili pur lasciando all’ambiente un ruolo predominante.
• Campo medio: ristabilisce un certo equilibrio nei rapporti tra ambiente e figura umana.
• Figura intera: la figura umana occupa un’altezza pari a due terzi o più della verticale
dell’immagine. È la prima inquadratura che afferma la centralità del personaggio ed il suo
predominio rispetto all’ambiente.
• Piano americano: dalle ginocchia in su.
• Mezza figura: dalla vita in su.
• Mezzo primo piano: dal petto in su.
• Primo piano: dalle spalle in su.
• Primissimo piano: solo il volto umano.
• Particolare: riferito ad una parte del volto o del corpo umano.
• Dettaglio: riguarda il piano ravvicinato di un oggetto.

Tale distinzione va presa comunque con cautela, sia perché ogni piano concreto può collocarsi fra
due delle figure indicate e sia perché ogni inquadratura può assumere esplicitamente uno statuto
ambiguo, contrapponendo due elementi, uno in primo piano e uno in campo lungo, di pari
importanza drammatica. Alle diverse figure della scala dei piani va aggiunto poi il campo totale,
simile al campo medio o lungo, ma il suo elemento fondante è quello di rappresentare per intero o
quasi un ambiente (un interno o un esterno circoscritto), e in particolare di mettere in campo tutti i
personaggi che prendono parte alla scena rappresentata.
Di tutte le figure che compongono la scala dei piani, quella che ha fatto scaturire più dibattiti è
sicuramente quella del primo piano; allo spettatore contemporaneo il primo piano appare come
una delle soluzioni espressive più familiari, non lo era per i primi spettatori cinematografici. Il
cinema si appoggia naturalmente allo spettacolo teatrale, nel quale il corpo umano, come nella
realtà, mantiene costanti le sue proporzioni per tutta la durata dello spettacolo: ingigantire
all’improvviso una parte del corpo dell’attore tramite un piano ravvicinato era considerato come
qualcosa che, nella migliore delle ipotesi, avrebbe infastidito il pubblico. Infatti nel cinema primitivo,
quelli che noi oggi chiamiamo primi piani erano chiamati teste tagliate. Tuttavia c’era anche chi
incominciava, negli anni ’20 - ’30, a capire l’importanza dei piani ravvicinati, soprattutto in Francia
(registi come Dulac, L’Herbier) o in Russia (Ejzenstein dava molta importanza al primo piano).
Secondo il teorico ungherese Balasz il volto in primo piano è la geografia di un paesaggio; tale
figura non concerne solo un mutamento di ordine spaziale, ma il passaggio ad un’altra dimensione,
in quanto ciò che si afferma è la fisionomia, l’ espressione. In ogni caso, è un dato di fatto che il

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primo piano dia vita ad un processo di intimità tra personaggio e spettatore, innescando così
meccanismi di proiezione e identificazione sconosciuti.

2.2.2 Angolazioni e dintorni


Il punto di vista della macchina da presa non riguardo solo la distanza in rapporto ai soggetti
inquadrati (scala dei piani), ma anche l’angolazione, l’inclinazione e l’altezza. Ipotizzando un piano
ordinario, di base, il soggetto si trova solitamente centrato, in posizione frontale e ad una distanza
media dalla macchina; a partire da questa rappresentazione ordinaria è possibile ipotizzare una
serie infinita di riprese di uno stesso soggetto, differenti in altezza, angolazione, inclinazione.
Welles per esempio, è noto per l’angolazione dal basso, dominante in pressoché tutti i suoi film.
Quando si dice che il cinema primitivo era un cinema costruito su uno spazio tipicamente teatrale,
non si implica in modo automatico che in quel cinema non ci fossero già significativi esempi di
angolazione: basti pensare a L’arrivo di un treno alla stazione, uno dei primi film dei Lumière,
nel quale l’operatore optò ad un’angolazione di sbieco e non perpendicolare ai binari, in modo tale
che il treno apparisse in alto e a destra del piano.

2.2.3 La cornice e i due spazi


L’inquadratura è definibile sulla base di un doppio criterio spaziale: lo spazio campo e quello fuori
campo. Possiamo definire come campo tutto ciò che ci viene mostrato, e come fuori campo tutto
ciò che non ci viene mostrato, ma che fa parte dell’ambiente di cui quell’inquadratura non è che un
prelievo. Il fuori campo è dunque composto da quella serie di elementi profilmici non inclusi nel
campo, ma che con questo hanno una relazione spaziale di contiguità.
Burch afferma che lo spazio fuori campo sia suddivisibile in sei diverse aree: destra, sinistra, alto,
basso (ovvero i lati dell’inquadratura), una che è oltre la scenografia e un’ ultima che sta dietro la
macchina da presa.
Esistono poi diversi modi con i quali è possibile creare all’interno di un’ inquadratura un
dialogo col fuori campo, cioè far capire allo spettatore l’esistenza di questo spazio
1) Entrate e uscite di campo: movimento di chiara derivazione teatrale, consiste in una entrata o
uscita che può avvenire da/verso ognuna delle 6 aree sopraelencate, anche se le più comuni
sono quelle poste ai lati e quella oltre la scenografia.
2) Sguardo del personaggio: è un altro metodo per esplicitare il fuori campo, così come i suoi
gesti, le sue parole, in senso più generale le sue interpellazioni. Lo sguardo di un personaggio
verso un punto fuori campo indica qualcosa di esterno, lontano, implicando l’esistenza di
qualcosa al di fuori dell’inquadratura.
3) Suono-off: presenza di una componente sonora diegetica di cui però l’inquadratura non
mostra la fonte. La voce di un personaggio o la musica di una radio possono essere uditi dallo
spettatore senza che le immagini ci mostrino l’uomo che parla o la radio accesa. Il suono
esplicita allo spettatore l’esistenza di uno spazio fuori campo.
4) Inquadrature che tagliano il corpo di un personaggio: elementare modo di ricorrere alla
dialettica di campo-fuoricampo; tuttavia l’esplicazione del fuori campo è resa possibile solo
quando i tratti forti del personaggio sono confinati fuori campo, quando cioè lo spettatore è
invitato a interrogarsi sul non visibile.

Il fuori campo è distinguibile in:


1) Fuori campo attivo: proprio delle inquadrature a struttura centrifuga, ovvero quelle che
tendono verso l’esterno, rimandano a qualcosa che sta oltre i bordi delle immagini.
2) Fuori campo passivo: quello delle inquadratura a struttura centripeta, dove tutto converge
verso l’interno, e niente rinvia a ciò che sta oltre i bordi dell’immagine.

Altre due distinzioni riguardanti il fuori campo:


1) Fuori campo esterno: il fuoricampo “classico”, di cui abbiamo parlato fino ad ora, ovvero ciò
che non è ritratto nell’immagine, ma esiste al di fuori dell’inquadratura.

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2) Fuori campo interno: è quel particolare tipo di fuori campo che si trova però all’interno
dell’inquadratura, cioè di fatto in campo, ma è celato allo sguardo dello spettatore: l’intento è
quello di trarlo in inganno, facendogli credere che un certo oggetto o soggetto non sia in scena,
mostrandolo poi all’improvviso (ad esempio una tenda, un oggetto, un personaggio).

Altra distinzione:
1) Fuori campo concreto: lo spazio escluso dal piano di ripresa, ma che noi abbiamo avuto
modo di vedere in precedenza.
2) Fuori campo immaginario: quel campo a cui allude una determinata inquadratura, ma che
non abbiamo potuto vedere e che, al limite, non vedremo mai.

2.2.4 Soggettiva e sguardo


Le cosiddette inquadrature soggettive godono di uno statuto particolare: esprimono il punto di
vista di un personaggio, nel senso che la nostra vista coincide esattamente con quella del
personaggio. Solitamente la soggettiva esiste come tale solo a partire da un’oggettiva, cioè da
un’inquadratura che rappresenta il punto di vista della sola istanza narrante; ciò non è sempre
vero, in quanto le soggettive stilistiche sono delle inquadrature che invitano lo spettatore a
essere lette come soggettive senza essere esplicitamente rapportate allo sguardo di un
personaggio.
Esistono anche le semisoggettive, ovvero un’ inquadratura che pur rappresentando lo sguardo di
un personaggio non ne rispetta fino in fondo la posizione: ciò accade per esempio quando la
macchina da presa è più vicina o lontana dall’oggetto di quanto non lo sia il personaggio, o quando
lo inquadra da un’angolazione lievemente differente.
Le false soggettive invece sono delle inquadrature che pur simulando un carattere di soggettiva
stilistica si trasformano in piani oggettivi.
La soggettiva pone indirettamente la questione centrale dello sguardo: può suggerire sentimenti,
emozioni, stabilire dei rapporti, interpellare lo spettatore ecc. Lo sguardo in sostanza è un
elemento di importanza basilare; c’è inoltre un rapporto essenziale tra soggettiva e meccanismi di
identificazione, in quanto la soggettiva gioca indubbiamente un ruolo primario in questo senso,
come dimostrano bene i film di Hitchcock.

2.2.5 I movimenti di macchina


I movimenti di macchina sono un elemento essenziale nella costruzione dell’immagine
cinematografica, in quanto un’inquadratura può essere definita non solo a partire dalla sua
distanza, altezza e angolazione in rapporto a ciò che viene rappresentate, dal suo rinviare allo
spazio fuori campo, dal suo essere oggettiva o soggettiva, ma anche dal suo essere statica o
dinamica indipendentemente da ciò che accade sul piano del profilmico.
A determinare la dinamicità del filmico intervengono quindi i movimenti di macchina, in
quanto è attraverso essi che noi spettatori abbiamo l’impressione di muoverci nello spazio
rappresentato.

1) Panoramica: la cinepresa ruota attorno al proprio asse in senso orizzontale e verticale.


Esistono anche la panoramica a 360°, anche se non è di frequente utilizzo, e la panoramica “a
schiaffo”, caratterizzata da un movimento molto brusco e violento, legata all’effetto sorpresa.
2) Carrellata: cinepresa sistemata su un carrello che corre su binari o camera car (ovvero un
veicolo pneumatico) e compie un movimento che può essere avanti-dietro-destra-sinistra.
3) Travelling: con tale termine si indicano i movimenti di macchina più complessi realizzati con
macchine come la gru e il dolly (un veicolo a ruote sul quale viene posizionata la cinepresa).
Una nuova apparecchiatura che ormai è già diventata mitica è la cosiddetta steadicam
(abbreviazione di steady-camera), ovvero un intelaiatura dotata di ammortizzatori, indossata
direttamente dall’operatore e su cui viene fissata un’apposita cinepresa, consentendo di
mantenere stabilità dell’immagine indipendentemente dai movimenti dell’operatore. Altra
apparecchiatura è la louma, ovvero un braccio tubolare molto sottile che può essere lungo

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anche quasi dieci metri, che, fissata a una gru, è in grado di muoversi e ruotare in tutte le
direzioni possibili
4) Macchina a mano/spalla: la cinepresa non è più fissata sul cavalletto ma tenuta dall’operatore
tra le mani o appoggiata sulle spalle. Non c’è più la fluidità tipica del carrello, di una
panoramica o di un travelling, ma procede in modo discontinuo e irregolare.
Un problema a parte è quello posto dalla carrellata ottica, in cui la macchina da presa in realtà
non si muove ma, attraverso la variazione della lunghezza focale dell’obbiettivo può dar vita a
passaggi da un piano distanziato a uno più ravvicinato, o viceversa. La differenza tra un carrello e
uno zoom è che con la carrellata l’immagine acquista volume, solidità e lo sfondo ha profondità,
mentre con lo zoom dato dalla carrellata ottica, gli oggetti, lo sfondo e lo spazio sono più appiattiti
e artificiali. Tale artificialità ha favorito il suo uso nel cinema moderno, a partire dagli anni
sessanta, quando tale possibilità era vissuta come espressione di una soggettività d’autore.

La dinamica di un’inquadratura può riguardare tanto il movimento filmico quanto quello profilmico,
e c’è un rapporto tra queste due forme dinamiche:
• I movimenti subordinati sono quelli che seguono la traiettoria di un personaggio o un oggetto
in movimento, mantenendo la stessa velocità, distanza e angolazione di ciò che stanno
inquadrando, e servono quindi a mantenere l’attenzione dello spettatore sull’elemento
profilmico. Con il termine correzione di campo o re-inquadratura si intendono quei brevi
mpvimenti della macchina da presa rapportati a quelli di un personaggio che si sposta all’interno
di uno spazio limitato: alzandosi da una sedia, inchinandosi verso qualcuno ecc. Il compito delle
correzioni di campo, che sono di fatto dei movimenti subordinati, è quello di mantenere
l’equilibrio e la centratura del piano nonostante gli spostamenti profilmici che continuamente
minacciano la stabilità dell’inquadratura. Con i movimenti subordinati dunque la macchina
da presa punta a essere invisibile, a non mostrare la sua presenza.
• I movimenti liberi invece sono quelli subordinati dai movimenti profilmici, in cui la macchina da
presa si muova liberamente e autonomamente nello spazio rappresentato, per allontanarci da
qualcosa e avvicinarci a qualcos’altro. Con i movimenti liberi si fa emergere la presenza
della macchina da presa, in quanto essi si trasformano in marche d’enunciazione.

Riguardo invece le funzioni espressive dei movimenti di macchina:


1) Funzione descrittiva: nel percorrere un ambiente sia esterno che interno, il movimento di
macchina assolve al compito di dare una descrizione all’ambiente, di mostrarlo allo spettatore
per fargli cogliere i suoi caratteri principali.
2) Funzione connettiva: è evidente che i movimenti di macchina hanno la funzione, tra le altre,
anche di rendere reversibili campo e fuori campo, ma assume anche esplicitamente una
funzione connettiva, che stabilisce un legame filmico tra due elementi profilmici. Il movimento
di macchina con funzione connettiva dunque ha una forte valenza cognitiva.
3) Funzione selettiva ed estensiva: il movimento di macchina ha funzione selettiva quando
evidenzia un qualcosa a partire da un contesto più ampio in cui quel qualcosa è inserito (ad
esempio, da un’inquadratura di una classe di alunni il movimento di macchina evidenzia uno
solo di loro), mentre ha funzione estensiva, al contrario, si ha quando viene inserito un
qualcosa di particolare in un contesto che può conferirgli determinato senso.
4) Funzione tensiva: quando un movimento percorre con una certa lentezza uno spazio,
creando nello spettatore una situazione d’attesa.
5) Funzione affettiva: quando un movimento di macchina è raccordato allo sguardo di un
personaggio, concernendo cioè il sentimento ed il desiderio di brama di questo stesso
personaggio.
6) Funzione estetica: i travelling in particolare, possono anche assolvere ad una funzione
estetica, contribuire cioè alla valorizzazione artistica di ciò che essi mostrano.
7) Funzione semantica: i movimenti di macchina contribuiscono alla definizione del senso della
situazione rappresentata.

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2.2.6 Inquadrature multiple e finestre


Le inquadrature multiple, sdoppiate in due o addirittura più immagini, hanno avuto un certo impulso
grazie al cinema digitale, anche se esse hanno attraversato, pur con metodi, tecniche e finalità
diverse, l’intera storia del cinema: già in film dei primi anni del ‘900 si possono vedere tali esempi
(The Life of an American Fireman del 1903 ad esempio).
La frammentazione dello schermo in due o più immagini viene definita split-screen, e si tratta di
fatto di una sorta di riduezione del montaggio al piano dell’inquadratura; anziché ricorrere a una
successione alternata di diverse immagini che ci mostrano azioni diverse, vengono mostrate
insieme, all’interno di un unico piano, diviso in due o più quadri. È una tecnica che godette di certa
popolarità negli anni ’60 e ’70 (ad esempio Pillow Talk del 1959 che ricorre allo split screen nelle
scene di conversazione telefonica, ma proponendo non solo una suddivisione in due porzioni, ma
anche disposizioni frantumate triangolari). Negli anni ’00 e nel cinema a noi contemporaneo lo split
screen è tornato a godere di una certa popolarità.

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CAPITOLO 3
Il montaggio

3.1 Che cos’è il montaggio


Il montaggio tecnicamente è l’operazione che consiste nell’unione tra la fine dell’inquadratura e
l’inizio di quella successiva. È la fase quindi nella quale il materiale proveniente dalle riprese potrà
essere modificato, eliminato o collocato in una determinata posizione precisa voluta dal regista; il
compito del montaggio quindi è quello di organizzare il flusso delle immagini.
Nei primi film di Lumiere e Melies non esisteva montaggio, il film era costituito da un solo piano di
un minuto circa, girato interamente in campo medio. Georges Melies però fu tra i primi a scoprire le
possibilità del montaggio, anche se ancora inteso nella forma del montaggio trucco, in quanto
utilizzava arresti e sostituzioni, ovvero effetti basici di tutto il suo cinema fantastico. Si trattava
ovviamente di un uso elementare del montaggio, dove lo stacco è accuratamente nascosto.
Sarà nel periodo di transizione fra l’età primitiva (1902 - 1908) e quella classica (1917 - 1960
secondo Bordwell), cioè negli anni 1909 - 1916, che il cinema di Hollywood inizia a dare forma sia
al proprio modo di produzione ma anche ai suoi modelli di narrazione e montaggio. Dal 1917 le
inquadrature vengono riprese da diverse angolazioni, i lungometraggi contengono fra i 250 e i 450
piani, e durano ormai anche 75 minuti. Il caso di David Wark Griffith è il più evidente e
significativo dell’evoluzione del montaggio: egli capì che una sequenza deve essere composta
da singole inquadrature incomplete, scelte e ordinate in base a motivi di necessità drammatica.
Capì anche che spezzando un avvenimento in brevi frammenti, ciascuno ripreso dalla posizione
più adatta, si poteva modificare l’importanza delle singole inquadrature, controllando
l’intensità drammatica dei fatti man mano che la narrazione progrediva.
Il compito del montaggio è destinato al montatore, che svolge il lavoro sotto lo stretto controllo del
regista; tuttavia nel cinema americano classico, i registi erano spesso assenti e sostituibili da
“supervisori del montaggio”: nel 1939 Frank Capra, regista, lamentava questa realtà, destinata poi
a cambiare.
Per lo spettatore, l’operazione del montaggio, si traduce nell’effetto montaggio, ovvero il
passaggio da una prima immagine ad una seconda. Il montaggio ha anche la funzione di mettere
in relazione elementi diveri (funzione connettiva), sia sul piano diegetico (personaggio A/
personaggio B) che su quello discorsivo (personaggio A inquadrato dall’alto/personaggio B dal
basso); unire due inquadrature vuol dire dare vita ad un progetto narrativo, semantico ed estetico.

Fanno parte del processo di montaggio gli effetti di transizione, elementi appartenenti al discorso
filmico:
1. Stacco: passaggio diretto da un piano a quello successivo;
2. Dissolvenza: che si distingue in tre forme:
a. d’apertura: l’immagine appare progressivamente dallo sfondo nero;
b. chiusura: l’immagine scompare progressivamente sino a diventare nera;
c. incrociata: l’immagine che appare e quella che scompare si sovrappongono per
alcuni
secondi;
3. Iris: un foro circolare si apre o si chiude intorno ad una parte dell’immagine (soluzione poi
caduta in disuso)
4. Tendina: la nuova immagine si sostituisce alla prima facendola scorrere via.

Piani di ambientazione: tipo di inquadratura prettamente descrittiva che avvia una scena col
compito di introdurne i caratteri ambientali, per consentire allo spettatore di conoscere il luogo in
cui sta per svolgersi una determinata sequenza; permettono allo spettatore di comprendere

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correttamente un determinato episodio, e svolgono un preciso ruolo, cioè di permettere un respiro
tra due scene ed evitare passaggi troppo bruschi.

3.2 Spazio e tempo


Dal punto di vista spaziale, il montaggio ha assunto la funzione di articolare lo spazio diegetico in
diverse unità, stabilendo poi delle connessioni secondo un certo progetto narrativo; ciò avviene
anche per quanto riguarda l’asse temporale, dato che il montaggio ha il compito di selezionare i
momenti che hanno importanza maggiore rispetto ad altri. Il montaggio quindi, è uno strumento
fondamentale attraverso cui l’istanza narrante costruisce il proprio racconto, conferendogli certi
caratteri anziché altri.
Partendo dalla riflessione che si può fare sul collegamento spazio-montaggio, si può dire che il
cinema organizza ciò che vediamo attraverso una successione di punti di vista diversi, che fanno
dello spazio diegetico uno spazio filmico. Esiste un ambiente - spazio diegetico - e una
rappresentazione di questo ambiente attraverso una serie di inquadrature - spazio filmico - scelte
dall’istanza narrante. Ci sono quindi due possibilità di dare vita alla rappresentazione filmica di uno
spazio diegetico:
1) Se si vuole prediligere la chiarezza espositiva, tipica del cinema classico, viene mostrato un
piano d’insieme dell’ambiente in questione e poi una serie di inquadrature che lo frammentano
2) Quando invece lo spazio d’insieme è costituito da una serie di inquadrature parziali che
mostrano sempre e solo una parte e mai la sua totalità, è chiaro che in tal caso è il montaggio
delle parti a comporre l’intero.

La durata delle singole inquadrature è uno degli elementi che determina il ritmo di una sequenza:
più le inquadrature sono brevi, più il ritmo è sostenuto, più sono lunghe, più il ritmo è lento. Le
scene d’azione quindi saranno costruite su inquadrature più brevi rispetto alle scene meno forti sul
piano spettacolare. Tuttavia il cinema moderno e postmoderno possono rovesciare spesso questa
abitudine.

• Flashback diegetici: prendono vita dalle parole o dai pensieri di un personaggio che racconta o
ricorda qualcosa avvenuto in passato.
• Flashback narrativi: propri dell’istanza narrante, che senza la mediazione di un personaggio
racconta un episodio passato.
• Flashforward: più raro del flashback, è l’anticipazione di un evento futuro. È quasi sempre
narrativo, come accade in Easy Rider nel quale il finale è anticipato nel corso della narrazione.
• Ellissi tecniche: sono i piccoli salti temporali che si trovano all’interno di una sequenza.
• Ellissi narrative: quei salti temporali più evidenti ed espliciti agli occhi dello spettatore, in
quanto possono essere omessi fatti irrilevanti, ma in alcuni casi anche fatti importanti del
racconto: in questo secondo caso, si parla di montaggio ellittico, che invita lo spettatore a una
partecipazione attiva, a lavorare con l’immaginazione colmando i vuoti.
• Sequenza a episodi / di montaggio: è un particolare caso di montaggio ellittico, nel quale
vengono allineate un certo numero di brevi scenette, separate nella maggioranza dei casi da
effetti ottici (dissolvenze ecc), che avvengono in ordine cronologico. Lo spettatore coglie il senso
proprio attraverso questa successione di brevi evocazioni.
• Montaggio alternato: figura fondamentale per capire il modo in cui il montaggio narrativizza
insieme lo spazio e il tempo. Il montaggio alternato consiste nell’alternanza di inquadrature di
due o più eventi che si svolgono in luoghi diversi, ma simultaneamente tra loro, e che a volte,
possono convergere nello stesso spazio (vedi Inception).

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3.3 Forme, funzioni e ideologie del montaggio


Il montaggio, a partire da Griffith ed Ejzenstein, è stato a lungo considerato come l’elemento
specifico del linguaggio filmico, la sua quintessenza. Negli anni ’40 - ’50 la centralità del montaggio
viene messa in discussione grazie al lavoro teorico di Bazin.

3.3.1 Il montaggio narrativo - decoupage classico


Per cinema classico, in accordo con Bordwell, si intende la produzione hollywoodiana tra 1917 e
1960; questo cinema mirava a dar vita a quello che possiamo definire uno spettatore
inconsapevole, che scivolasse facilmente e docilmente nel mondo della finzione, proiettandosi
nella vicenda narrata, identificandosi con i protagonisti del racconto ecc, finendo col confondere la
realtà rappresentata sullo schermo con la realtà tout court. Il lavoro di scrittura del film quindi
doveva essere il più mascherato possibile: il montaggio si presenta come una forza che può
disgregare la continuità spazio-temporale della realtà rappresentata, quindi esso viene utilizzato
nella maniera più discreta possibile, per cancellarne le tracce. Si può definire, da questo punto di
vista, cinema della trasparenza o montaggio invisibile: questo di fatto è il decoupage classico,
definito così da Bazin. La rappresentazione che il montaggio dà al tempo-spazio è subordinata alle
esigenze narrative legate alle chiarezza dell’esposizione per lo spettatore, concepito come se
fosse invisibile e situato in ogni piano nel migliore punto di vista possibile. Egli individua anche con
precisione le tre caratteristiche fondamentali del decoupage classico: motivazione, chiarezza,
drammatizzazione. Oltre che invisibile, il montaggio deve essere insensibile: ecco che emerge un
altro dei principi chiave del decoupage classico, ovvero la continuità. Non sono ammessi elementi
che spezzino il flusso narrativo, ma deve esserci costantemente un flusso di immagini da
un’inquadratura ad un’altra che faciliti la proiezione dello spettatore nel mondo finzionale, ed il suo
cullarsi nell’illusione di realtà.
Il metodo essenziale per inserire e mantenere degli elementi di continuità fra un piano e l’altro, in
modo che ogni mutamento di inquadratura sia meno evidente possibile, è quello del raccordo:
• Raccordo di sguardo: un’inquadratura ci mostra un personaggio che guarda qualcosa, quella
successiva ci mostra cosa sta guardando.
• Raccordo sul movimento: gesto iniziato dal personaggio nella prima inquadratura si conclude
nella seconda.
• Raccordo sull’asse: due momenti successivi di un’azione sono mostrati in due inquadrature, e
la seconda di queste è ripresa sullo stesso asse della prima ma più vicina o lontana.
• Raccordo sonoro: una battuta di dialogo, un rumore, una musica si sovrappone a due
inquadrature, legandole tra loro.
Un altro aspetto chiave del decoupage classico, è il sistema dello spazio a 180°; si tratta dello
spazio tipico del dialogo tra due personaggi, in cui uno guarda il suo interlocutore verso destra e
l’altro verso sinistra. In sequenza dunque daranno l’illusione di parlare guardandosi negli occhi.
I 180° sono dati dalla linea immaginaria che unisce i due interlocutori, e che non può essere
superata dalla cinepresa, in quanto ciò annullerebbe l’illusione narrativa e la scorrevolezza delle
immagini. Tuttavia, tale linea può essere superata per determinate motivazioni funzionali alla
drammaticità o alla ricerca di particolari effetti non convenzionali.
L’uso dello spazio a 180° determina l’esistenza di altri tre raccordi:
• Raccordo di posizione: due personaggi ripresi in un’inquadratura (uno a dx e l’altro a sx)
dovranno mantenere la stessa posizione in quella successiva.
• Raccordo di direzione: un personaggio che esce di campo a destra in un’inquadratura dovrà
rientrare a sinistra in quella successiva.
• Raccordo di direzione di sguardi: nel corso di un dialogo tra due personaggi, la macchina da
presa sarà sempre posizionata in modo tale da far sì che quando ognuno dei due viene
inquadratuo, il suo sguardo si rivolge verso l’altro personaggio.
Ciò che accomuna questi tre raccordi è la preoccupazione di rappresentare chiaramente lo spazio,

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in modo che lo spettatore possa agevolmente rendersi conto della disposizione dei personaggi. Lo
spazio filmico non deve creare effetti di disorientamente, poiché tali effetti sono avvertiti
come qualcosa che può distrarre lo spettatore dalla storia e dalla sua comprensione.

A conclusione, il decoupage classico si fonda sulla necessità di uno spettatore inconsapevole, che
va aiutato nei suoi processi di scivolamento nella finzione; da qui l’uso di un montaggio invisibile
che però sappia nel contempo fondarsi sui presupposti della motivazione, chiarezza e
drammaticità. L’invisibilità del montaggio si costruisce principalmente attraverso un rapporto di
continuità tra piano e piano, attraverso tecniche quali i raccordi di sguardo, movimento e
d’asse. Importante è l’uso di uno spazio a 180° che permette allo spettatore di osservare lo
svolgersi degli eventi rimanendo sempre dalla stessa parte dell’azione.
Nel decoupage classico anche il tempo è subordinato allo sviluppo della narrazione, si tende cioè
a dare rilievo a ciò che si vuole affermare come più importante di altro; vengono di solito presentati
gli eventi nel loro ordine naturale, con l’unica sostanziale eccezione del flashback; vengono
preferite la continuità del tempo e della storia (scena) e le contrazioni temporali (sequenze) alle
estensioni temporali; si ha quindi uso frequente delle ellissi, con conseguente omissione delle
azioni inutili alla narrazione. Il montaggio del cinema classico decide per lo spettatore sia cosa
questi deve vedere, ma anche come, quando e per quanto tempo lo deve vedere.

3.3.2 Il montaggio connotativo


Ogni forma di montaggio è funzionale a qualcosa, non esiste in assoluto una forma di montaggio
migliore di un’altra. Il modello del cinema classico ovviamente è il modello che ha avuto e in parte
ha ancora, la diffusione maggiore. Per montaggio connotativo si intende quel montaggio in cui
il tratto dominante è la costruzione del significato, anche se è una forma in cui sono
riscontrabili elementi provenienti da altri tipi di montaggio.
Si può dire che il più importante esponente del montaggio connotativo è indubbiamente
Ejzenstein: il montaggio ejzensteianiano trova il suo elemento costitutivo nella costruzione del
senso. Prima di procedere alla sua descrizione, è necessario definire il cosiddetto effetto
Kulesov, dal nome del suo ideatore: è un effetto che dimostra chiaramente come l’associazione di
due immagini può produrre un senso diverso da quello che ognuna di esse ha presa in sé e per sé.
L’unire B ad A, può far si che A venga interpretata dallo spettatore in modo inedito.
Per Ejzentein, la rappresentazione filmica della realtà non ha in sé nessun particolare interesse:
ciò che conta è il senso che di essa si cattura attraverso la sua interpretazione. In antitesi quindi ad
ogni tipo di rappresentazione narrativa aderente al realismo, il cinema deve interpretare il reale,
costituendosi come un discorso articolato, nel quale il montaggio diventa lo strumento principale
col quale arrivare a questa interpretazione: montaggio come produzione di senso. Egli stesso
elabora la sua teoria delle attrazioni, che consiste nel il libero montaggio di azioni / attrazioni
autonome ma dotate di un preciso orientamento verso un effetto tematico finale. Alla base
dell’intera concezione ejzensteiniana c’è dunque il conflitto, la collisione tra due inquadrature
che si trovano l’una di fianco all’altra, ed è tramite ciò che il suo montaggio risulta fortemente
intellettuale, in quanto la sua tensione-conflitto serve a creare nuovi concetti e visioni. Per lui tale
conflitto compositivo all’interno dell’inquadratura è un nucleo, una cellula di montaggio: è in totale
disaccordo con l’invisibilità e la subordinazione del montaggio alla chiarezza dell’esposizione
narrativa tipiche del decoupage classico.

3.3.3 Il montaggio formale


Il montaggio formale è quello che predilige la funzione estetica delle immagini, che mette in primo
piano, non il realismo, non l’intellettualità generata dal montaggio, ma le qualità grafiche e ritmiche.
La funzione estetica del montaggio è quella che tende a porre in primo piano degli effetti formali,
attraverso l’accostamento di immagini che instaurano tra loro un rapporto di volumi, superfici, linee,
punti, al di là della concreta natura degli elementi rappresentati. Non è un montaggio in conflitto
con quello connotativo di Ejzenstein, in quanto non prescinde dalla conflittualità delle immagini.
Tale tipo di montaggio trova spazio nel cinema d’avanguardia degli anni ’20 con grande intensità,
nel modo in cui accade oggi nell’ambito della pubblicità e del video commerciale. Un regista che

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certamente ha elaborato un modello di rappresentazione alternativo a quello classico, è il
giapponese Yasujiro Ozu; egli rifiuta i modi usuali del campo e del controcampo, ponendo la sua
macchina da presa non a fianco dell’uno o dell’altro interlocutore, ma sulla linea che li unisce,
ovvero frontalmente. In Fiori d’equinozio del 1958, riprende frontalmente i due personaggi che
stanno parlando tra loro, disponendo simmetricamente alle spalle oggetti dalle forme rettangolari:
le immagini così si stilizzano, ed i principi di continuità del cinema classico vengono portati
all’eccesso. Le inquadrature sembrano quasi sovrapporsi, in un gioco di reciproche somiglianze:
c’è armonia visiva piuttosto che una logica conflittuale visiva, che nel caso della pellicola
sopracitata riflette l’armonia tra i due giovani.

3.3.4 Il montaggio discontinuo


Un’altra categoria di montaggio che rifiuta i codici della continuità hollywoodiana è quella del
montaggio discontinuo, che già a partire dalla definizione, trasgredisce alle regole della
continuità classica, senza però rientrare in quelle caratteristiche connotative, grafiche e ritmiche
dei montaggi fin qui analizzati.
Una prima forma di discontinuità, può essere dalla violazione del sistema a 180°; alcuni registi,
come il sopracitato Ozu, utilizzano talvolta piani a 360°, che permettono alla macchina di girare
attorno ai personaggi, affinché la posizione dei personaggi muti continuamente sullo sfondo.
Un’altra modalità è quella del jump cut, reso in italiano come falso raccordo o montaggio a
salti. Dietro a tale espressione, si nascondono due diverse forme di raccordi irregolari:
• La prima è quella che mette in successione due o più inquadrature dello stesso personaggio
molto simili l’un l’altra sul piano della distanza e angolazione (nel cinema classico invece due
inquadrature messe in successione devono essere diverse e sufficientemente differenziate in
modo da giustificare il passaggio da una all’altra).
• La seconda interviene sul tempo, e consiste in una successione di inquadrature sempre su uno
stesso personaggio, ma che viene mostrato in posizioni che cambiano di netto, senza
transizione nel passaggio da un’inquadratura all’altra: nella prima seduto, poi in piedi.
Un jump cut dunque verrebbe considerato un grave errore nel cinema classico; Hitchcock usa
inquadrature poco differenti tra di loro in Psycho per creare suspense, non per entrare in rottura
con il cinema classico.
Un altro mezzo può essere quello di ricorrere a inserti non diegetici, che rompono la narrazione e
suggeriscono associazioni metaforiche: Godard per esempio usa manifesti pubblici, fotografie,
riviste o altro nei suoi film, ovvero degli inserti non diegetici che interrompono la continuità
narrativa mediante bruschi stacchi che sospendono l’ideazione della storia.
La discontinuità si può rendere anche sul piano temporale; viene rotta la successione cronologica
classica 1-2-3 attraverso numerosi flashback e flashforward, e sul piano della frequenza; inoltre,
sul piano della durata, frequente è il ricorso alla pratica dell’estensione, dove la durata della
rappresentazione è superiore a quella dell’evento rappresentato; ulteriore stratagemma è quello
della sovrapposizione temporale, o overlapping editing, in cui l’inquadratura B non inizia dove
finisce l’inquadratura A, ma un poco prima.

3.3.5 Il montaggio proibito: profondità di campo e piano sequenza


Il teorico e critico francese André Bazin ha dato vita ad una concezione di montaggio, in sede
teorica, ad una concezione di montaggio che si oppone ai modelli fin qui esaminati, in particolare
quelli del decoupage classico e del montaggio ejzensteiniano: entrambi i due modelli appena citati
decidono cosa mostrare allo spettatore, e come mostrarlo.
La sua ipotesi si basa su due postulati:
• La vocazione ontologica del cinema sia quella di rappresentare il reale nel rispetto delle sue
caratteristiche essenziali.
• Il reale sia caratterizzato da una sostanziale ambiguità, non ha un senso determinato a priori.
Da questo ne consegue che il cinema debba rappresentare la realtà pur rispettandone l’ambiguità,
che parte da un ambito fotografico della continuità spazio-temporale. Egli arriva a parlare
addirittura di montaggio proibito ogni volta che il cinema classico ricorre a soluzioni quali il
campo e controcampo, o il montaggio alternato, ovvero quando l’essenziale di un avvenimento
dipende dalla presenza simultanea di due o più fattori dell’azione. Secondo lui la strada che il
cinema deve seguire p quella della riproduzione del mondo reale nella sua continuità fisica, nel

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rispetto fotografico della continuità spazio temporale. Ecco che qui affiorano due modalità
espressive di importanza primaria nell’ambito del linguaggio cinematografico: profondità di
campo e piano sequenza.

• Profondità di campo: si tratta di un’ immagine nella quale gli oggetti in primo piano e quelli
sullo sfondo sono perfettamente a fuoco. Tanto più un oggetto sarà vicino all’obbiettivo, e lo
sfondo lontano dal primo piano, allora tanto maggiore sarà la profondità di campo. Già i
primi film di Lumiere, a causa del tipo di pellicola allora esistente, ne facevano un grande
uso, non in termini espressivi ovviamente. L’introduzione di pellicole a colori, che
necessitavano aperture dei diaframmi più ampie, determinarono messe a fuoco parziali ed
effetti di sfocatura (flou). Tale effetto conferma l’effetto di montaggio, appartiene allo stile
del racconto. Fino agli anni trenta saranno pochi i registi che useranno la profondità di
campo, tra i quali Renoir e Mizoguchi; grazie a Todd, direttore della fotografia di Quarto
Potere, torna in auge. Secondo Bazin, di fronte alla messa in profondità di un’immagine, lo
spettatore è costretto ad un proprio decoupage, senza l’intervento di imposizioni che
modifichino la sua percezione.

• Piano sequenza: si tratta di un piano che da solo svolge la funzione di una sequenza
o di una scena, e come la profondità di campo, anche il piano sequenza si caratterizza per
il rifiuto del montaggio. Gli americani preferiscono la definizione più duttile di long take,
intendendo una ripresa che non costituisce un episodio, ma si caratterizza per un volontario
rifiuto del montaggio. Anche il piano sequenza ha le sue origini nei primi filmati dei Lumiere
o di Melies: erano veri e propri long take in quanto errano realizzati in un’unica
inquadratura. Il piano sequenza, secondo Bazin, nel mantenere la continuità spazio
temporale della realtà determina un maggiore realismo, e quindi riporta il cinema alla sua
vera natura ontologica: siamo noi a dover cogliere gli elementi significanti delle immagini, in
quanto lo spazio, tramite tale tecnica, non è più temporalizzato e frammentato, ma al
contrario, è rappresentato per blocchi unitari. Una critica mossa a Bazin però, è quella
secondo la quale il cinema sia rappresentazione della realtà, e come una cornice ponga
una prima interpretazione nelle sue scelte (inquadrature, tempi, luci..); in secondo luogo,
Bazin sottovaluterebbe messe in profondità che imporrebbero una lettura univoca della
scena.

Piano sequenza e messa in profondità non annullano il montaggio, ma lo obbligano ad una


particolare forma, il montaggio interno; per tale si intende il montaggio non più tra le diverse
inquadrature, ma all’interno di un solo piano. In sostanza, piano sequenza e profondità di campo
possono dar vita a inquadrature che, possono essere frammentate in più piccole unità significanti
attraverso un gioco di variazioni operato dai diversi codici del linguaggio cinematografico. Queste
variazioni interne all’inquadratura quindi tendono così a sostituirsi a cambiamenti di piano veri e
propri.

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CAPITOLO 4
Il suono, l’immagine

Il cinema nasce come semplice successione di immagini, privo dell’accompagnamento di un suono


registrato, anche se già nei suoi primi anni di vita si avvertiva l’esigenza di una presenza sonora, in
particolare di quella musicale. Le ragioni di tale esigenza sono varie, e gli storici si stanno ancora
dibattendo: forse c’era il bisogno di vincere la terribilità del silenzio, o quello di coprire il rumore
fastidioso della macchina di proiezione, oppure voler aggiungere alle immagini la dimensione
sonora per accrescere la “verità” delle immagini. In molte sale di proiezione si ricorreva alla
presenza di un pianista, e nelle grandi occasioni di un’intera orchestra. Già agli inizi degli anni dieci
i problemi tecnici essenziali inerenti alla possibilità di registrare e riprodurre il suono erano in parte
risolti, ma il sistema produttivo come spesso accade preferì utilizzare il più a lungo possibile le
tecniche già esistenti.
Il primo film con un commento sonoro registrato direttamente su pellicola, ma ancora privo di
dialoghi, fu Don Giovanni e Lucrezia Borgia (Don Juan) del 1926, diretto da Alan Crosland.
L’accoglienza fu entusiastica e la Warner Bros mise subito in cantiere un altro film sonoro, stavolta
musicato e parlato, diretto ancora dallo stesso Crosland: nel 1927 esce Il cantante jazz (The Jazz
Singer. Ebbe talmente tanto successo che aprì senza ombra d’incertezze la strada al sonoro: agli
inizi degli anni ’30 il muto negli Stati Uniti era stato abbandonato, in Europa si arrivò a tale obiettivo
con un paio di anni di ritardo. L’inserimento del sonoro però, fece perdere gran parte delle capacità
di espressione raggiunte dal cinema muto, e le nuove soluzioni tecniche limitavano le possibilità di
espressione dei registi e degli attori, che vennero loro restituite solo successivamente grazie alla
capacità di inserire l’audio in un momento diverso da quello della registrazione video. È alla fine
degli anni ’20, nel giro quindi di un breve periodo rispetto alla rivoluzione del sonoro, che nasce la
colonna sonora, cioè l’insieme di parole, suoni e musiche.

4.1 Le funzioni del suono


La percezione visiva influenza quella sonora, così come quella sonora influisce su quella visiva: ciò
sta a significare innegabilmente che un’ immagine, accostata ad un suono, produce un effetto
diverso rispetto a quando ne è ancora priva. A tale riguardo Michel Chion, il teorico che più di ogni
altro ha studiato le funzioni del suono al cinema, parla di valore aggiunto, per definire il valore
espressivo ed informativo di cui un suono arricchisce un’immagine data, sino a far credere, che
questa informazione si liberi naturalmente da ciò che si vede, e sia già contenuta nella sola
immagine.
L’avvento del sonoro ha fatto evolvere il linguaggio cinematografico, e si è stabilizzato nelle forme
del decoupage classico, nel quale ha assunto un ruolo di primo piano; la sua funzione chiave infatti
è quella di giocare un ruolo determinante nell’unificazione del flusso delle immagini,
nell’attutire quell’effetto di netta rottura implicita in ogni stacco: il sonoro nel cinema
classico è stato utilizzato perlopiù in questa direzione. La stessa funzione unificante è giocata
dal suono ambientale che può rimanere costante e continuo: essenziale a questo riguardo è il
ruolo della musica che avvolge e immerge le diverse immagini in un unico e continuo flusso
sonoro.
Come per le immagini, anche il suono è sottoposto a momenti di selezione e di combinazione,
ovvero ad un vero e proprio montaggio sonoro: si tratta della combinazione tra suoni, in cui
diventa molto importante il volume di ogni singolo. Il montaggio dei suoni e la regolazione dei
volumi è l’operazione che viene comunemente definita missaggio sonoro. Il montaggio sonoro e
quello visivo mantengono strette relazioni, confluendo nel montaggio audio-visivo, che possiede
caratteristiche di simultaneità tra immagini e suoni.

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4.1.1 Suono e spazio


Il rapporto tra immagini e suono, e di conseguenza tra suono e racconto, è regolato in relazione
allo spazio e al tempo; dal punto di vista dello spazio possiamo distinguere:
• Suono diegetico, ovvero ogni suono che proviene direttamente dalla diegesi del film (voce di
un personaggio, rumore del traffico stradale); può essere a sua volta diviso in suono in campo,
ovvero quando la fonte sonora è all’interno dell’inquadratura, o suono fuori campo, se la fonte
sonora è al di fuori dell’inquadratura. Il suono fuori campo ha spesso la funzione di estendere lo
spazio dell’inquadratura.
• Suono extradiegetico, ovvero quello che udiamo noi ma i personaggi non possono udire (come
la musica d’accompagnamento per esempio). Ovviamente una musica può nascere diegetica e
trasformarsi in extradiegetica.

Michel Chion individua inoltra tre tipi di suoni che creano perplessità a riguardo della loro
collocazione fra campo e fuori campo:
Suono ambiente: quel suono inglobante che avvolge una scena (ad esempio, sentire il cinguettio
di uccelli non porta a chiedersi se essi siano in campo o fuori campo)
Suono interno: proviene dalla realtà interna del personaggio, noi lo sentiamo in quanto ricordato o
immaginato da un personaggio.
Suono on the air: il suono che sentiamo in quanto trasmesso da strumenti quali la radio, un
altoparlante, un telefono ecc.

Ogni suono quindi, può essere diviso in suono over (extradiegetico), suono in (diegetico, in
campo) e suono off (diegetico, fuori campo).

Chion propone poi il concetto di suono acusmatico, con il quale definito ogni suono off o over
che udiamo ma del quale non vediamo la fonte (ad es. radio, telefono, disco musicale), al quale si
oppone il suono visualizzato, che è quindi per definizione un suono in.
Originariamente il suono aveva una direzione unica, in quanto proveniva da dietro lo schermo; con
le tecnologie dolby il suono possiede un’articolazione spaziale, dando vita al supercampo, una
sorta di campo audiovisivo, determinato non solo dalle immagini ma anche dal suono ambiente, di
parole, musiche e rumori, che finisce per rimettere in discussione certe forme del decoupage
tradizionale.

4.1.1 Suono e tempo


Per quanto riguarda il rapporto tra suono e spazio, la prima distinzione da fare è quella tra:
• Suono simultaneo: sonoro e immagine si danno in uno stesso tempo narrativo.
• Suono non simultaneo: effetto sonoro che anticipa o segue le immagini che noi stiamo
vedendo in un momento dato (un personaggio evoca un avvenimento, e noi vediamo l’evento,
continuando a sentire le parole; sound bridge: suoni dell’inquadratura successiva si iniziano a
sentire già da quella prima).
Il ritmo è una questione centrale dei rapporti fra suono e tempo, in quanto si può parlare di ritmo,
come suggeriscono Bordwell e Thompson, a partire dalle sue componenti chiave: la velocità e la
regolarità degli intervalli. La velocità è determinata dalla durata degli intervalli (se un intervallo è
breve il suono avrà un ritmo veloce e viceversa), e la regolarità nasce sulla base della coincidenza
o meno di queste durate (se le durate degli intervalli coincidono il ritmo sarà regolare e viceversa).
Spesso ritmo visivo e quello sonoro vengono adeguati l’uno all’altro, come nei musical o nei film di
animazione Disney.

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4.2 Suono e racconto: ll punto d’ascolto


Così come esiste il punto di vista visivo, è possibile parlare di punto di vista sonoro, ovvero il
punto d’ascolto, che ha trovato nel suo suono stereofonico e nel dolby ulteriori possibilità
d’esistenza; l’aspetto però più interessante del punto d’ascolto è quello che riguarda la sua
dimensione narrativa, quella cioè inerente il rapporto fra ciò che noi sentiamo e ciò che sente un
determinato personaggio. Jost, propone a tale riguardo l’uso del termine auricolarizzazione, in
parallelo con quello di ocularizzazione.
• Auricolarizzazione interna: un suono è legato in maniera particolare ad un determinato
personaggio (la coincidenza tra punto di vista e sonoro si ha, e non è mediata); è primaria
quando questo suono ha una dimensione esplicitamente soggettiva (ad esempio la voce si
presenta deformata, a causa di una determinata situazione del personaggio; si ha coincidenza,
mediata da tecniche apposite); è invece secondaria quando determinate soluzioni di montaggio
o inquadratura evidenziano un certo suono (un personaggio che si volta verso un orologio
rintoccante);
• Auricolarizzazione esterna: suoni non legati al personaggio (se lo fossero sarebbe interna);
suoni ambientali, rumori che non rivestono un particolare significato, e musiche extradiegetiche.

4.3 Parole e voci


Come con la musica, anche la parola non è nata con l’avvento del sonoro: si avevano narratori in
sala e didascalie che esplicitavano il movimento della labbra degli attori. Il commentatore
pronunciava parole in simultaneità con l’immagine, ma il suo testo comportava un margine di
improvvisazione, dovuta alla personalità del commentatore e al contesto in cui eseguiva la sua
performance. La registrazione sonora permette di ritrovare la simultaneità di parola e immagine.
La voce è il materiale sonoro più importante sul quale si fonda un film. Come scrive Chion, il
cinema è voce-centrista. Lo stesso Chion distingue tre tipi di parola:
•parola-teatro: assoluta intelligibilità /è emanata dai personaggi; è il dialogo, che assume diverse
funzioni (info, drammatica..)
•parola-testo: assoluta intelligibilità/parola del narratore, erede delle didascalie, stabilisce e evoca
il senso corretto delle immagini.
•parola-emanazione: la parola diviene emanazione dei personaggi; può essere di personaggi o
del narratore, e si caratterizza perché i contenuti non sono interamente compresi, si applica
quando il regista decide di privilegiare lo cambio di battute, le articolazioni del testo , le esitazioni,
piuttosto che le parole.

In molti film girati in presa diretta, ovvero quando la registrazione sonora e concomitante a quella
visiva, i rumori ambientali possono limitare l’intelligibilità delle parole, ma in alcuni casi questo è il
risultato di una cosciente scelta operativa.
Un ruolo particolare del narratore è il caso in cui le sue parole si rivolgono direttamente al pubblico,
e non agli attori; avremo allora le seguenti situazioni:
1) Quantità delle informazioni enunciate:
- La parola dice più di quello che dicono le immagini;
- La parola dice quanto dicono le immagini;
- La parola dice meno di quello che dicono le immagini;
2) Qualità delle informazioni enunciate:
- Immagini e parole dicono la stessa cosa
- Immagini e parole dicono cose diverse;
La parola può essere utilizzata per ridurre l’ambiguità di una serie di inquadrature.

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4.4 Musiche
Non solo dal 1927, ma sin dal 1895 ci si è incominciati a porre il problema del rapporto tra musica
e immagini, sia intendendo la prima come supporto alle seconde, sia elaborando complesse e più
articolate situazioni di interrelazione tra le due entità.
Nel corso degli anni dieci vengono pubblicati i primi repertori musicali, secondo il proposito che la
musica dovesse accompagnare lo spettatore e immergerlo nel clima della scena.
Negli anni venti, grazie alle avanguardie, si cerca un rapporto estetico-strutturale tra inquadratura e
musica in base alla natura ritmica che li accumuna.
Ci sono due grandi modi attraverso i quali la musica si accumuna alle immagini:
• Partecipazione: la musica partecipa alla scena assumendone direttamente il ritmo;
• Distanza: la musica si sviluppa in modo autonomo, indifferente al ritmo delle immagini.

Anche la musica ha dato vita a figure dominanti i modelli di produzione classica:


• Leitmotiv: tema melodico ricorrente che caratterizza fatti, momenti o personaggi nel corso
dello spettacolo teatrale o filmico.
• Avvio o interruzione improvvisa: la musica si avvia o cessa di colpo per sottolineare un
momento drammatico della scena.

4.5 Rumori
Al contrario di quello che accade per la musica, non esiste una copiosa biografia sul rumore;
nell’ambito del cinema classico, infatti, aveva scarsa incidenza; è solo l’avvento del dolby e della
registrazione su più piste ad avere permesso di far sentire rumori ben definiti.
Nel cinema muto, per esprimere un silenzio opprimente, veniva inquadrato un rubinetto dal quale
cadevano lentamente alcune gocce.
Nel cinema sonoro la prima è più evidente funzione del sonoro è quella di rendere più credibile
l’ambiente; quindi è fondamentale, ad esempio, in un primo piano nel quale il rumore lo situa in
uno spazio ben definito.

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