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Tomasi
Storia E Critica Del Cinema
Università degli Studi di Padova (UNIPD)
27 pag.
CAPITOLO 1
Sceneggiatura e Racconto
1.1 Che cos’è una sceneggiatura?
La sceneggiatura di un film è definibile come un processo di elaborazione del racconto
cinematografico, che si articola in diversi stadi:
1) Soggetto
Si tratta della prima manifestazione concreta di un’idea, che si traduce in un piccolo racconto,
solitamente formato da poche righe per un massimo di un paio di pagine, della storia che deve
ancora prendere forma. Può avere esistenza legale, essere proprietà di qualcuno che può
rivendicare i diritti per un film che da quel soggetto prende spunto. Tuttavia, il soggetto di un film
può essere anche molto lungo e comprendere centinaia e centinaia di pagine: è il caso degli
adattamenti, ovvero quei film che si rifanno ad un’opera preesistente.
Il soggetto originale quindi dovrà essere articolato e ampliato, mentre al contrario il soggetto
letterario, sarà sottoposto ad una serie di tagli, selezioni e possibili variazioni che daranno vita ad
una rilettura personale dell’opera di partenza.
2) Trattamento
Consiste nella fase in cui gli spunti narrativi del soggetto vengono sviluppati e approfonditi.
In sostanza, è un racconto ancora scritto, ma più definito narrativamente e più funzionale alla
descrizione delle varie scene in cui si articola la vicenda. Solitamente è lungo una decina di
pagine, c’è una progressione drammatica, e i dialoghi sono già abbozzati in uno stile ancora
indiretto.
3) Scaletta
La scaletta segna la fase del passaggio da momento letterario a costruzione vera e propria del
film; il trattamento viene selezionato, scandito e diviso in scene numerate. Di solito non
supera le due pagine e i 20-30 episodi: la scaletta dunque serve a tenere sott’occhio l’intera
storia del film. È utile per controllare i ritmi della pellicola, vedere se l’inizio è lento o anticipa
troppo ciò che va svelato più avanti, se una determinata fase è troppo statica ecc.
4) Sceneggiatura
Trattamento e scaletta interagiscono tra loro, dando vita alla sceneggiatura del film: tutte le scene
vengono messe in ordine, vengono descritti con cura gli ambienti, i personaggi, gli eventi e i
dialoghi sono stesi con precisione.
5) Decoupage tecnico
Si tratta di un’ulteriore fase di elaborazione della sceneggiatura che consiste nella divisione delle
scene in singole immagini, ovvero le inquadrature e i piani, numerate. Viene indicato il
contenuto, il punto di vista della cinepresa, la presenza di particolari movimenti di macchina
ecc: il numero di indicazioni tecniche che un decoupage può contenere è potenzialmente infinito.
Ad una sceneggiatura inoltre, è possibile aggiungere dei disegni veri e propri che prefigurano
quelle che saranno le inquadrature del film: si tratta dello story-board, processo che dagli anni ’80
è talvolta accompagnato da forme di previsualizzazione elettronica.
Esiste anche un altro concetto legato alla sceneggiatura vera e propria, che procede però al
contrario; quando un critico o uno studioso vuole descrivere accuratamente un film già realizzato,
scrive la sceneggiatura desunta dalla copia definitiva del film: ne riporta dunque i dialoghi,
descrive accuratamente le diverse inquadrature e scene, indica le soluzioni tecniche. Ciò avviene
con il fine di costruire uno strumento che consenta di conoscere e studiare meglio una determinata
pellicola.
Algirdas Julien Greimas, un linguista e semiologo lituano, ha studiato le strutture profonde del
racconto, fondando il cosiddetto modello attanziale: è un modello paradigmatico fondato sulle
relazioni di opposizione esistenti fra sei fondamentali “attanti”, ovvero dei precisi ruoli narrativi
che sono:
1) Soggetto: colui che compie l’azione
2) Oggetto valore: la meta dell’azione
3) Adiuvante: l’aiuto al soggetto
4) Opponente: l’ostacolo al soggetto
5) Destinante: il mandante del soggetto all’inizio della narrazione
6) Destinatario: colui al quale viene affidato l’oggetto alla fine della narrazione
Un esempio concreto:
Un agente della CIA (soggetto) riceve dal governo (destinatore), il compito di recuperare la
formula di un pericoloso ordigno nucleare (oggetto), che, caduto nelle mani sbagliate, potrebbe
rappresentare un grave pericolo per l’umanità (destinatario); l’uomo dovrà vedersela con
pericolose spie (opponenti) ma riuscirà alla fine ad avere la meglio grazie alla sua intelligenza ed
abilità (adiuvanti).
Va notato che in ogni racconto si possono trovare più modelli attanziali a seconda dei diversi punti
di vista sulla base dei quali esso è strutturabile.
Roland Barthes, dal canto suo, ha insistito sul carattere di solidarietà interna degli elementi che
costituiscono un racconto: nulla in un racconto è insignificante, ogni elemento entra in relazione
con gli altri e dà vita ad un tutto organico. Tuttavia, non tutti gli elementi concorrono alla creazione
di sensi allo stesso modo:
2)Indizi: al contrario delle funzioni, rinviano a uno stato e servono ad arricchire il racconto,
divisibili in:
Indizi propriamente detti: una notazione che rinvia a un carattere, un sentimento, un atmosfera.
Implica quindi un’attività di decifrazione.
Informanti: un elemento del racconto che dà un’informazione esplicita, che situa qualcosa nel
tempo e nello spazio. Apporta una conoscenza già fatta.
Da tutto ciò emerge un aspetto chiave della narratività, ovvero la causalità: il racconto, almeno
nella sua forma classica, impone una struttura causale. Dunque, si può dire che la narratività è
quell’insieme di regole, modi e strutture profonde, che presiedono ad ogni racconto e ne
determinano la manifestazione verbale o audiovisiva. Ogni racconto quindi da vita ad un
mondo proprio, fatto di soggetti, oggetti, parole, musiche, sentimenti ecc: tutti gli elementi appena
elencati rappresentano la diegesi, termine derivante dal greco antico ripreso da Sorieau. Si può
definire la diegesi dunque come un costrutto di cui fanno parte tutti gli elementi interni al
racconto, siano essi fisici, sonori o astratti. Di conseguenza, è diegetico o intradiegetico tutto
ciò che fa parte del mondo della diegesi, e come extradiegetico tutto ciò che vi esula, pur magari
entrando a far parte di un film.
• Relazione di prossimità
Si ha ogni qualvolta che fra due spazi adiacenti non è possibile una comunicazione visiva o sonora
non amplificata (ad es binocolo e telefono: come se fossero due celle separate da un muro in cui
due detenuti possono comunque comunicare tra loro, o come la relazione tra due case dalle quali
ci si può spiare vicendevolmente.
• Relazione di distanza
Quella che viene a costituirsi tra due spazi privi di una possibilità di comunicazione visiva o sonora
diretta, come quando all’immagine della donna rimasta sola nella sua casa di campagna segue
quella del suo uomo recatosi nella grande città a fare fortuna.
La possibilità della macchina di passare da uno ad un altro dei 4 possibili spazi appena elencati è il
segno più evidente della sua ubiquità, e di conseguenza della presenza di un’istanza narrante in
grado di trasformare lo spazio della realtà rappresentata in un vero e proprio spazio narrativo.
Quello che lo spettatore ha davanti agli occhi è lo spazio del racconto, e tramite questo potrà farsi
un’idea mentale dello spazio della storia: quest’ultimo spazio dunque possiamo definirlo come
spazio diegetico. I diversi elementi che articolano questo spazio, vengono automaticamente
raggruppati in pacchetti dall’occhio dello spettatore che riesce, anche senza una diretta
conoscenza di un determinato luogo, a comprendere lo spazio della storia.
La rappresentazione di uno spazio tende sempre a dar vita a uno o più significati: tali significati
nascono dal lavoro di cooperazione dello spettatore, che deve sapere organizzare e decifrare i
segni che vede. Lo spazio rappresentato ha come suo referente primo uno spazio immaginario che
altri media hanno contribuito a diffondere dando vita a veri e propri stereotipi.
Lo spazio inoltre può assumere una funzione attanziale, difficilmente quella del soggetto-eroe, ma
certamente quella di destinatario, destinatore, oggetto, adiuvante e opponente: basti oensare alla
città, che può essere destinatario e destinatore di una storia in cui gli organi che la tutelano la
devono difendere da un’aggressione. Lo spazio può assumere anche una funzione narrativamente
attiva nel momento in cui si rapporta ai personaggi del racconto: in Psycho di Hitchcock per
esempio, gli uccelli rapaci impagliati del salotto del motel di Norman sono già degli evidenti indizi
della natura del personaggio.
Ordine
Non è insolito vedere un film in cui l’ordine degli eventi è diverso da quello della storia; è
frequentissimo l’uso per esempio di flashback, ovvero la presentazione di un evento in un
momento successivo a quello in cui si è realmente svolto all’interno del tempo della storia. Ciò che
si ritrova davanti lo spettatore quindi è l’ordine del discorso, ovvero il dato concreto del film, e non
quello della storia, ovvero la costruzione mentale dello spettatore sulle basi di ciò che il film gli
suggerisce. Contrariamente al flashback esiste il flashforward, ovvero la rappresentazione di un
evento futuro, un salto in avanti seguito da un ritorno al presente.
Durata
Ogni racconto ha la sua durata di fruizione, e la durata di un film è determinata dal numeri di metri
di pellicola impressionata: contrariamente ad un romanzo, un film ha durata di tot. minuti per tutti.
Tuttavia, esiste durata della storia, ovvero la durata che possiamo desumere vedendo il film,
ovvero l’arco di tempo coperto dalle vicende narrate; la durata del racconto invece coincide alla
durata del film stesso (un’ora, un’ora e mezza, due ore ecc).
Un problema che si pone dunque è quello del ritmo e della velocità narrativa che si può
modificare nel corso del film. Gerard Genette indica 5 diversi rapporti temporali tra durata della
storia e durata del racconto:
1) Pausa (TR = n, TS = 0): coincide, per esempio, con la rappresentazione di un paesaggio (un
albero, poi una veduta parziale ecc), e sostanzialmente si ha quando ad una certa durata del
tempo del racconto non corrisponde nessuna durata diegetica. Riguarda quelle che in
letteratura sono le descrizioni. La pausa cinematografica può darsi anche attraverso il campo
vuoto, ovvero un’immagine priva di elementi diegetici forti in cui nulla accade, o il fermo
fotogramma, ovvero il bloccaggio dell’immagine.
2) Estensione (TR > TS): quando il tempo del racconto è superiore a quello della storia che
tuttavia non è uguale a zero, come nella pausa. Si ad esempio con la tecnica dello slow
motion, dove la durata rallentata delle immagini impone una durata del tempo filmico
superiore a quello diegetico.
3) Scena (TR = TS): si ha quando il tempo del racconto è uguale al tempo della storia: nei film è
una forma assai comune, in quanto nella maggior parte delle scene in cui viene rispettata
l’integrità cronometrica delle azioni mostrate.
Frequenza
La frequenza è il rapporto che si stabilisce tra il numero di volte che un certo evento viene evocato
nel racconto ed il numero di volte che si presume che sia avvenuto nella storia. Genette indica
quattro possibili rapporti:
1) Racconto raccontato una volta e avvenuto una volta
2) Racconto raccontato n volte e raccontato n volte
3) Racconto raccontato N volte quando è avvenuto solo una volta
4) Racconto raccontato una volta quando è avvenuto n volte
Nei primi due casi, siamo di fronte al racconto singolativo o singolativo plurale (ovvero il più
frequente nel cinema), nel terzo abbiamo il racconto ripetitivo (più raro, ad esempio in Rashomon
di Kurosawa viene mostrato l’omicidio di un samurai in 4 versioni diverse), nel quarto racconto
iterativo (assai complesso, vedi pag. 40 manuale).
Francois Jost ha introdotto il termine ocularizzazione per indicare la relazione che si instaura tra
ciò che la macchina da presa (o l’istanza narrante) mostra e ciò che si presume il personaggio
veda. Per spiegare meglio il concetto è necessario prima dividere in diversi tipi di ocularizzazione:
1) Ocularizzazione interna: dove ciò che vedo io è quel che è visto da un personaggio (è il caso
comunemente definitvo come soggettiva). Può essere primaria quando le singole immagini
recano in sé le tracce di qualcuno che guarda: ad esempio lo sguardo di un personaggio
ubriaco, oppure il modo di avanzare o arretrare che rimanda al movimento del personaggio. È
invece secondaria quando si alternano due immagini che mi mostrano l’una un personaggio
che guarda, l’altra ciò che è guardato.
2) Ocularizzazione zero: quanto vedo qualcosa direttamente, senza la mediazione di un
personaggio a vederlo. Corrisponde ad uno sguardo esterno alla diegesi, quello della sola
istanza narrante: gli americani la chiamano nobody shot. Un’ immagine a ocularizzazione zero
può scindersi a sua volta in un’immagine a enunciazione mascherata, quando vediamo delle
immagini ordinarie che ci evidenziano però alcuni elementi diegetici importanti, ed immagine a
CAPITOLO 2
L’inquadratura
Ovviamente gli ambienti digitali possono interagire con ambienti presi dal vero, ed è necessario
distinguere tra ambienti digitali puri, interamente fatti al pc, e ambienti digitali parziali, che risultano
essere immagini dal vero sottoposte poi a trattamenti che modificano, o stravolgono, la loro
realisticità.
Ci troviamo dunque di fronte ad almeno 4 possibilità per quanto riguarda il rapporto tra ambiente e
digitale:
1) Ambiente realistico illusorio: si tenta di ricreare realisticamente (nel senso che viene messo
in scena un mondo possibile) un ambiente, in cui l’apporto digitale assume una dimensione
mascherata che lo spettatore non percepisce. Si tratta di una correzione digitale nei confronti
del realistico.
2) Ambiente realistico artificiale: quando viene ricreato un ambiente si realistico, ma nel quale
si percepisce visibilmente l’apporto digitale.
3) Ambiente fantastico illusorio: è il caso di Inception per esempio. Il mondo ricostruito fa parte
di un sogno, quindi è fantastico, ma è reso in maniera credibile, senza perdere l’aspetto
illusorio.
4) Ambiente fantastico artificiale: quando viene ricostruito un ambiente fantastico e non ci si
pone il problema di trasmettere realisticità.
Nel cinema narrativo, la luce serve, tra i tanti compiti che ha, anche a mettere il evidenza il volto
del personaggio in modo tale che lo spettatore possa meglio seguirne le azioni esteriori ed interiori;
altre volte si mettono in atto soluzioni espressive legate alla luce per sottolineare il carattere
ambiguo, misterioso, contraddittorio dei personaggi.
Tuttavia il quadro generale fino a qui tracciato è certamente più pertinente al cinema classico che a
quello moderno: il cinema classico infatti assegna alla potenza espressiva della luce un ruolo
univoco, nel senso che allo spettatore non resta che il compito di registrare l’esistente. La luce nel
cinema classica serve a rendere ogni immagine chiara e riconoscibile, ed è fortemente codificata
al servizio dell’unicità del senso: obbedisce ad un cammino logico che converge verso solamente
un senso voluto e già designato.
Ben diverso è il modo di operare del cinema moderno: basti pensare al neorealismo o alla nouvelle
vague per capire che la luce è documentaria, procede attraverso un intervento minimamente
significante, nel quale le luci sono riprodotte così come sono, senza essere piegate e trasformate
dalla necessità del racconto e del senso. L’illuminazione sarà così drammaticamente indifferente,
ciò che conta è che essa renda conto del reale e della sua assenza di senso simbolico.
Riguardo il colore, esso si afferma in modo decisivo solo negli anni ’50 e ’60, sebbene la sua
introduzione nel cinema risalga alla metà degli anni ’30; del resto di colore si può parlare in un
certo senso anche per il cinema in bianco e nero, che già sfruttava per fini espressivi il gioco dei
bianchi, dei neri e delle tonalità di grigio.
L’avvento del colore fu pensato inizialmente in ambito critico e teorico, come un accrescimento
delle potenzialità realistiche del cinema: tuttavia i vividi colori degli anni ’50 erano tutt’altro che
realistici, tanto che inizialmente il colore si caratterizzò per la sua natura decorativa e spettacolare,
ma non realistica. Fu privilegiato da certi generi come il musical, o il western (esaltavano i
paesaggi), ma sarà solo negli anni ’60 che si affermò l’uso del colore anche nel cinema d’autore.
Il colore ovviamente gioca, insieme alla luce, un ruolo primario nella composizione dell’immagine,
ed è noto come i colori chiari attirino lo sguardo più di quelli scuri, come i toni caldi attraggono
maggiormente rispetto a quelli freddi. Tuttavia la funzione significante del colore, più che su
relazioni definite una volta per tutte, poggia su un processo di costruzione proprio a ogni specifico
film.
Tornando invece all’analisi del colore nel cinema da un punto di vista più storico, Michel Chion
individua tre grandi momenti:
1) Il periodo del bariolage (accozzaglia di colori): coincide con gli anni ’50 - ’60 e mette in
evidenza la novità del colore.
2) Il periodo anti-bariolag: coincide con gli anni ’60 - ’70, nel quale si cercava di far dimenticare i
colori, e a tal fine venivano limitati, resi discreti, denaturati.
3) Il periodo neo-bariolage: anni ’80, nel quale i colori tornano ad essere utilizzati in maniera
molto più marcata e cresce di intensità con gli sviluppi del cinema postmoderno.
Il cinema contemporaneo è sempre più interessato non ad attutire i contrasti bensì ad esaltare
tonalità sempre più accese del colore, puntando ad una resa iperrealistica del mondo che vuole
descrivere. La tendenza post-moderna del cinema contemporaneo ha rilanciato un uso dei colore
dai toni pop, che esalta contrasti e gioca con tonalità accese, puntando talvolta su un uso marcato
delle sue possibilità espressive.
Passando invece ad un discorso più specifico nei confronti dell’attore cinematografico, esistono
due diverse concezioni concernenti il rapporto tra l’attore ed il personaggio che esso deve
interpretare:
• Da una parte c’è l’idea che l’attore debba possedere un repertorio di tecniche ben precise fatto
di movimenti, gesti, espressioni facciali, cui fare ricorso per rappresentare dall’esterno il proprio
personaggio ed i suoi stati d’animo: il personaggio è dunque rappresentato.
• Dall’altra c’è il sistema che punta invece ad un rapporto interiore tra attore e personaggio, dove
il primo non deve più fingere sulla scena stati d’animo che non sono suoi, ma viverli dall’interno
in prima persona, in modi spesso intensi e sofferti: in questo caso invece il personaggio è
rivissuto.
Ad ogni modo, l’attore nella maggioranza dei casi creerà comunque un certo rapporto di
identificazione, almeno durante le prove e la recitazione vera e propria, fra se stesso ed il
personaggio; a tale modello di identificazione si può contrapporre quello di origine brechtiana dello
straniamento, in cui si nega l’identificazione tra attore e personaggio e si invita il primo a
mantenere una distanza rispetto al secondo.
Parlando poi di stile del discorso attoriale, possiamo individuare almeno tre grandi diverse
modalità:
1) Recitazione naturalista: l’attore interpreta il suo personaggio ricorrendo a gestualità e vocalità
con caratteristiche verosimili, optando quindi per una recitazione neutrale e invisibile.
2) Recitazione sovraccarica: l’attore accentua l’uso del gesto e della voce, caratteristica
spesso riscontrabile negli allievi dell’actors studio: Marlon Brando, James Dean, Robert de
Niro, Jack Nicholson.
3) Recitazione minimalista: si caratterizza per sobrietà del gesto e dell’azione.
Ogni regista inoltre ha un suo metodo di direzione degli attori, che potrà funzionare più o meno
bene: è anche per questo che la storia del cinema è piena di lunghe collaborazioni fra determinati
registi e determinati attori. Tendenzialmente, l’uso del primo piano è un momento in cui il lavoro del
regista lascia spazio all’individualità dell’attore e alle sue possibilità di ricorrere al gioco delle
espressioni del volto. Anche il ricorso a lunghe riprese, fa sì che l’attore si riappropri di una
maggiore autonomia espressiva nei movimenti, nei gesti e nelle posture. Nel rapporto tra attore e
regista, è assai importante anche l’ambito della prossemica, ovvero ciò che concerne la
collocazione dei diversi elementi e quindi anche delle figure umane, nello spazio dell’inquadratura:
nei primi anni del ‘900 per esempio, nei film di Porter e Griffith, i personaggi criminali occupavano
spesso i margini dello schermo, evidenziando il loro agire ai margini della società. Il cinema
classico, dal canto suo, attribuiva ai suoi protagonisti e quindi agli attori e ai divi che li interpretano,
una posizione di assoluta centralità nel contesto delle immagini che li mostrano.
Una componente essenziale dell’attore cinematografico, è la figura del divo. Il divo è un attore, ma
si differenzia per l’immagine semiotica che riesce sempre a imporre ai suoi personaggi. Frutto di
un attento processo mediale, il divo porta sempre qualcosa di sé in ogni suo personaggio,
proveniente dall’immagine che attorno a lui hanno costruito i media, o dalle sue precedenti
interpretazioni. Tale figura quindi si trascina dietro una sorta di Io residuo, un passato
extradiegetico che incide in ogni sua nuova interpretazione.
2.2 Il filmico
Tale distinzione va presa comunque con cautela, sia perché ogni piano concreto può collocarsi fra
due delle figure indicate e sia perché ogni inquadratura può assumere esplicitamente uno statuto
ambiguo, contrapponendo due elementi, uno in primo piano e uno in campo lungo, di pari
importanza drammatica. Alle diverse figure della scala dei piani va aggiunto poi il campo totale,
simile al campo medio o lungo, ma il suo elemento fondante è quello di rappresentare per intero o
quasi un ambiente (un interno o un esterno circoscritto), e in particolare di mettere in campo tutti i
personaggi che prendono parte alla scena rappresentata.
Di tutte le figure che compongono la scala dei piani, quella che ha fatto scaturire più dibattiti è
sicuramente quella del primo piano; allo spettatore contemporaneo il primo piano appare come
una delle soluzioni espressive più familiari, non lo era per i primi spettatori cinematografici. Il
cinema si appoggia naturalmente allo spettacolo teatrale, nel quale il corpo umano, come nella
realtà, mantiene costanti le sue proporzioni per tutta la durata dello spettacolo: ingigantire
all’improvviso una parte del corpo dell’attore tramite un piano ravvicinato era considerato come
qualcosa che, nella migliore delle ipotesi, avrebbe infastidito il pubblico. Infatti nel cinema primitivo,
quelli che noi oggi chiamiamo primi piani erano chiamati teste tagliate. Tuttavia c’era anche chi
incominciava, negli anni ’20 - ’30, a capire l’importanza dei piani ravvicinati, soprattutto in Francia
(registi come Dulac, L’Herbier) o in Russia (Ejzenstein dava molta importanza al primo piano).
Secondo il teorico ungherese Balasz il volto in primo piano è la geografia di un paesaggio; tale
figura non concerne solo un mutamento di ordine spaziale, ma il passaggio ad un’altra dimensione,
in quanto ciò che si afferma è la fisionomia, l’ espressione. In ogni caso, è un dato di fatto che il
Altra distinzione:
1) Fuori campo concreto: lo spazio escluso dal piano di ripresa, ma che noi abbiamo avuto
modo di vedere in precedenza.
2) Fuori campo immaginario: quel campo a cui allude una determinata inquadratura, ma che
non abbiamo potuto vedere e che, al limite, non vedremo mai.
La dinamica di un’inquadratura può riguardare tanto il movimento filmico quanto quello profilmico,
e c’è un rapporto tra queste due forme dinamiche:
• I movimenti subordinati sono quelli che seguono la traiettoria di un personaggio o un oggetto
in movimento, mantenendo la stessa velocità, distanza e angolazione di ciò che stanno
inquadrando, e servono quindi a mantenere l’attenzione dello spettatore sull’elemento
profilmico. Con il termine correzione di campo o re-inquadratura si intendono quei brevi
mpvimenti della macchina da presa rapportati a quelli di un personaggio che si sposta all’interno
di uno spazio limitato: alzandosi da una sedia, inchinandosi verso qualcuno ecc. Il compito delle
correzioni di campo, che sono di fatto dei movimenti subordinati, è quello di mantenere
l’equilibrio e la centratura del piano nonostante gli spostamenti profilmici che continuamente
minacciano la stabilità dell’inquadratura. Con i movimenti subordinati dunque la macchina
da presa punta a essere invisibile, a non mostrare la sua presenza.
• I movimenti liberi invece sono quelli subordinati dai movimenti profilmici, in cui la macchina da
presa si muova liberamente e autonomamente nello spazio rappresentato, per allontanarci da
qualcosa e avvicinarci a qualcos’altro. Con i movimenti liberi si fa emergere la presenza
della macchina da presa, in quanto essi si trasformano in marche d’enunciazione.
CAPITOLO 3
Il montaggio
Fanno parte del processo di montaggio gli effetti di transizione, elementi appartenenti al discorso
filmico:
1. Stacco: passaggio diretto da un piano a quello successivo;
2. Dissolvenza: che si distingue in tre forme:
a. d’apertura: l’immagine appare progressivamente dallo sfondo nero;
b. chiusura: l’immagine scompare progressivamente sino a diventare nera;
c. incrociata: l’immagine che appare e quella che scompare si sovrappongono per
alcuni
secondi;
3. Iris: un foro circolare si apre o si chiude intorno ad una parte dell’immagine (soluzione poi
caduta in disuso)
4. Tendina: la nuova immagine si sostituisce alla prima facendola scorrere via.
Piani di ambientazione: tipo di inquadratura prettamente descrittiva che avvia una scena col
compito di introdurne i caratteri ambientali, per consentire allo spettatore di conoscere il luogo in
cui sta per svolgersi una determinata sequenza; permettono allo spettatore di comprendere
La durata delle singole inquadrature è uno degli elementi che determina il ritmo di una sequenza:
più le inquadrature sono brevi, più il ritmo è sostenuto, più sono lunghe, più il ritmo è lento. Le
scene d’azione quindi saranno costruite su inquadrature più brevi rispetto alle scene meno forti sul
piano spettacolare. Tuttavia il cinema moderno e postmoderno possono rovesciare spesso questa
abitudine.
• Flashback diegetici: prendono vita dalle parole o dai pensieri di un personaggio che racconta o
ricorda qualcosa avvenuto in passato.
• Flashback narrativi: propri dell’istanza narrante, che senza la mediazione di un personaggio
racconta un episodio passato.
• Flashforward: più raro del flashback, è l’anticipazione di un evento futuro. È quasi sempre
narrativo, come accade in Easy Rider nel quale il finale è anticipato nel corso della narrazione.
• Ellissi tecniche: sono i piccoli salti temporali che si trovano all’interno di una sequenza.
• Ellissi narrative: quei salti temporali più evidenti ed espliciti agli occhi dello spettatore, in
quanto possono essere omessi fatti irrilevanti, ma in alcuni casi anche fatti importanti del
racconto: in questo secondo caso, si parla di montaggio ellittico, che invita lo spettatore a una
partecipazione attiva, a lavorare con l’immaginazione colmando i vuoti.
• Sequenza a episodi / di montaggio: è un particolare caso di montaggio ellittico, nel quale
vengono allineate un certo numero di brevi scenette, separate nella maggioranza dei casi da
effetti ottici (dissolvenze ecc), che avvengono in ordine cronologico. Lo spettatore coglie il senso
proprio attraverso questa successione di brevi evocazioni.
• Montaggio alternato: figura fondamentale per capire il modo in cui il montaggio narrativizza
insieme lo spazio e il tempo. Il montaggio alternato consiste nell’alternanza di inquadrature di
due o più eventi che si svolgono in luoghi diversi, ma simultaneamente tra loro, e che a volte,
possono convergere nello stesso spazio (vedi Inception).
A conclusione, il decoupage classico si fonda sulla necessità di uno spettatore inconsapevole, che
va aiutato nei suoi processi di scivolamento nella finzione; da qui l’uso di un montaggio invisibile
che però sappia nel contempo fondarsi sui presupposti della motivazione, chiarezza e
drammaticità. L’invisibilità del montaggio si costruisce principalmente attraverso un rapporto di
continuità tra piano e piano, attraverso tecniche quali i raccordi di sguardo, movimento e
d’asse. Importante è l’uso di uno spazio a 180° che permette allo spettatore di osservare lo
svolgersi degli eventi rimanendo sempre dalla stessa parte dell’azione.
Nel decoupage classico anche il tempo è subordinato allo sviluppo della narrazione, si tende cioè
a dare rilievo a ciò che si vuole affermare come più importante di altro; vengono di solito presentati
gli eventi nel loro ordine naturale, con l’unica sostanziale eccezione del flashback; vengono
preferite la continuità del tempo e della storia (scena) e le contrazioni temporali (sequenze) alle
estensioni temporali; si ha quindi uso frequente delle ellissi, con conseguente omissione delle
azioni inutili alla narrazione. Il montaggio del cinema classico decide per lo spettatore sia cosa
questi deve vedere, ma anche come, quando e per quanto tempo lo deve vedere.
• Profondità di campo: si tratta di un’ immagine nella quale gli oggetti in primo piano e quelli
sullo sfondo sono perfettamente a fuoco. Tanto più un oggetto sarà vicino all’obbiettivo, e lo
sfondo lontano dal primo piano, allora tanto maggiore sarà la profondità di campo. Già i
primi film di Lumiere, a causa del tipo di pellicola allora esistente, ne facevano un grande
uso, non in termini espressivi ovviamente. L’introduzione di pellicole a colori, che
necessitavano aperture dei diaframmi più ampie, determinarono messe a fuoco parziali ed
effetti di sfocatura (flou). Tale effetto conferma l’effetto di montaggio, appartiene allo stile
del racconto. Fino agli anni trenta saranno pochi i registi che useranno la profondità di
campo, tra i quali Renoir e Mizoguchi; grazie a Todd, direttore della fotografia di Quarto
Potere, torna in auge. Secondo Bazin, di fronte alla messa in profondità di un’immagine, lo
spettatore è costretto ad un proprio decoupage, senza l’intervento di imposizioni che
modifichino la sua percezione.
• Piano sequenza: si tratta di un piano che da solo svolge la funzione di una sequenza
o di una scena, e come la profondità di campo, anche il piano sequenza si caratterizza per
il rifiuto del montaggio. Gli americani preferiscono la definizione più duttile di long take,
intendendo una ripresa che non costituisce un episodio, ma si caratterizza per un volontario
rifiuto del montaggio. Anche il piano sequenza ha le sue origini nei primi filmati dei Lumiere
o di Melies: erano veri e propri long take in quanto errano realizzati in un’unica
inquadratura. Il piano sequenza, secondo Bazin, nel mantenere la continuità spazio
temporale della realtà determina un maggiore realismo, e quindi riporta il cinema alla sua
vera natura ontologica: siamo noi a dover cogliere gli elementi significanti delle immagini, in
quanto lo spazio, tramite tale tecnica, non è più temporalizzato e frammentato, ma al
contrario, è rappresentato per blocchi unitari. Una critica mossa a Bazin però, è quella
secondo la quale il cinema sia rappresentazione della realtà, e come una cornice ponga
una prima interpretazione nelle sue scelte (inquadrature, tempi, luci..); in secondo luogo,
Bazin sottovaluterebbe messe in profondità che imporrebbero una lettura univoca della
scena.
CAPITOLO 4
Il suono, l’immagine
Michel Chion individua inoltra tre tipi di suoni che creano perplessità a riguardo della loro
collocazione fra campo e fuori campo:
Suono ambiente: quel suono inglobante che avvolge una scena (ad esempio, sentire il cinguettio
di uccelli non porta a chiedersi se essi siano in campo o fuori campo)
Suono interno: proviene dalla realtà interna del personaggio, noi lo sentiamo in quanto ricordato o
immaginato da un personaggio.
Suono on the air: il suono che sentiamo in quanto trasmesso da strumenti quali la radio, un
altoparlante, un telefono ecc.
Ogni suono quindi, può essere diviso in suono over (extradiegetico), suono in (diegetico, in
campo) e suono off (diegetico, fuori campo).
Chion propone poi il concetto di suono acusmatico, con il quale definito ogni suono off o over
che udiamo ma del quale non vediamo la fonte (ad es. radio, telefono, disco musicale), al quale si
oppone il suono visualizzato, che è quindi per definizione un suono in.
Originariamente il suono aveva una direzione unica, in quanto proveniva da dietro lo schermo; con
le tecnologie dolby il suono possiede un’articolazione spaziale, dando vita al supercampo, una
sorta di campo audiovisivo, determinato non solo dalle immagini ma anche dal suono ambiente, di
parole, musiche e rumori, che finisce per rimettere in discussione certe forme del decoupage
tradizionale.
In molti film girati in presa diretta, ovvero quando la registrazione sonora e concomitante a quella
visiva, i rumori ambientali possono limitare l’intelligibilità delle parole, ma in alcuni casi questo è il
risultato di una cosciente scelta operativa.
Un ruolo particolare del narratore è il caso in cui le sue parole si rivolgono direttamente al pubblico,
e non agli attori; avremo allora le seguenti situazioni:
1) Quantità delle informazioni enunciate:
- La parola dice più di quello che dicono le immagini;
- La parola dice quanto dicono le immagini;
- La parola dice meno di quello che dicono le immagini;
2) Qualità delle informazioni enunciate:
- Immagini e parole dicono la stessa cosa
- Immagini e parole dicono cose diverse;
La parola può essere utilizzata per ridurre l’ambiguità di una serie di inquadrature.
4.4 Musiche
Non solo dal 1927, ma sin dal 1895 ci si è incominciati a porre il problema del rapporto tra musica
e immagini, sia intendendo la prima come supporto alle seconde, sia elaborando complesse e più
articolate situazioni di interrelazione tra le due entità.
Nel corso degli anni dieci vengono pubblicati i primi repertori musicali, secondo il proposito che la
musica dovesse accompagnare lo spettatore e immergerlo nel clima della scena.
Negli anni venti, grazie alle avanguardie, si cerca un rapporto estetico-strutturale tra inquadratura e
musica in base alla natura ritmica che li accumuna.
Ci sono due grandi modi attraverso i quali la musica si accumuna alle immagini:
• Partecipazione: la musica partecipa alla scena assumendone direttamente il ritmo;
• Distanza: la musica si sviluppa in modo autonomo, indifferente al ritmo delle immagini.
4.5 Rumori
Al contrario di quello che accade per la musica, non esiste una copiosa biografia sul rumore;
nell’ambito del cinema classico, infatti, aveva scarsa incidenza; è solo l’avvento del dolby e della
registrazione su più piste ad avere permesso di far sentire rumori ben definiti.
Nel cinema muto, per esprimere un silenzio opprimente, veniva inquadrato un rubinetto dal quale
cadevano lentamente alcune gocce.
Nel cinema sonoro la prima è più evidente funzione del sonoro è quella di rendere più credibile
l’ambiente; quindi è fondamentale, ad esempio, in un primo piano nel quale il rumore lo situa in
uno spazio ben definito.