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21 ottobre 201223 ottobre 2012

Questa frase è stata scritta da Sidney Lumet e posta all’inizio di “Making movies” un libro in cui racconta la difficile arte del fare
cinema vista dal punto di osservazione privilegiato  della sua lunga esperienza di regista.

Vi consiglio caldamente la lettura di questo libro come la lettura di qualsiasi testo dedicato a scritti di registi o romanzieri sull’arte
del fare cinema o dello scrivere.

Non vi consiglio libri di architetti sul fare architettura semplicemente perché, nella letteratura dedicata alla nostra disciplina,
questa tipologia di pubblicazione ha avuto finora effettivamente scarsa fortuna rispetto ai saggi teorici, ai scritti sull’urbanistica e
sulla costruzione delle città, oppure alle pubblicazioni monografiche dedicate ad architetti od infine ai libri di storia
dell’architettura. Andando in una libreria ben fornita troverete sicuramente degli interi scaffali dedicati alla letteratura sul fare
cinema e sullo scrivere ma difficilmente troverete un solo testo dedicato al fare architettura.

Gli scrittori ed i registi (come spesso anche i musicisti) sono abituati a parlare dello scrivere e del fare cinema in maniera semplice
e  senza troppi giri di parole. Gli architetti, come invece imparerete nel proseguo della vostra carriera, non si distinguono
sicuramente per questa bella abitudine.

Con un pò di semplificazione, potremmo dire che gli architetti sono divisibili in due categorie: quelli che non scrivono affatto
(spesso i migliori) e quelli che, quando  scrivono, si trasformano improvvisamente in filosofi e teorici con scritture criptiche,
fortemente teoriche e programmaticamente lontane dal racconto del fare.

Viceversa, se leggete gli scritti di Raymond Carver sulla scrittura o anche scrittori più commerciali come Stephen King con il suo
On Writing, oppure lo straordinario “Il cinema secondo Hitchcock” di François Truffaut (http://www.libreriauniversitaria.it/libri-
autore_truffaut+francois-francois_truffaut.htm), oppure i libri di David Mamet come i “Tre usi del coltello”, troverete molti più
consigli per il vostro mestiere di architetti di quanti potreste trovarne leggendo una quantità enorme di saggi di architettura.

In questi libri, scrittori e registi, non si perdono in elucubrazioni teoriche, ma vi raccontano semplicemente come hanno fatto a
girare una scena, come l’hanno inventata, le difficoltà tecniche della sua esecuzione, oppure vi parlano di come si scrive un
racconto o un romanzo, della fase delle ricerche iniziali, la prima stesura, i programmi di scrittura giornalieri, la lunga e complessa
fase delle correzioni di bozza.

Amo questi libri e sono sicuro che anche voi, se amate fare architettura e quindi praticare un arte che richiede intuito ma
complessità di esecuzione, amerete come me questi libri.

Ma, dopo questa doverosa premessa, torniamo alla frase di Lumet che ha aperto questa lezione. Se avete la pazienza di tornare
all’inizio di questo testo potreste rileggerla attentamente.

Credo che non vi sia frase migliore per iniziare questa lezione, questo corso ma, forse, anche una carriera di architetti. La frase di
Lumet, infatti, apre uno sguardo dentro la sala macchine del progetto e ci fa intuire le complessità che stanno dietro la magica
semplicità di un’opera finita.

Quando un’architettura è finita, se è finita bene e non è opera di un decostruzionista, ci appare sempre falsamente semplice.
L’opera bella, infatti, mente sempre perché nasconde gli sforzi, rende invisibili i compromessi, cancella i dubbi, scioglie i contrasti
che sono stati alla base della sua genesi e li trasforma nell’armonia di uno spazio, di una vista, di un’atmosfera unica.

Il nostro corso ha lo stesso scopo di questa frase e lo stesso obiettivo del libro di Lumet in quanto vi porterà dentro la sala
macchine del progetto, vi presenterà quali sono le complessità degli elementi che costituisco il fenomeno architettonico, vi
racconterà quali sono le diverse decisioni che deve prendere un architetto spaziando tra la prosaicità dalle questioni di budget e la
poesia dell’ispirazione divina.

Facciamo un esempio.

C’è un film di Lumet, penso sia il primo film di Lumet, che si chiama in italiano “La parola ai giurati” ma in inglese ha un titolo
sicuramente più suggestivo: “Twelve angry men” dodici uomini arrabbiati. Il film, racconta la tensione che si crea in un gruppo di
12 giurati chiusi in una stanza e costretti ad emettere un verdetto di innocenza o colpevolezza. Il film è molto bello ed in effetti
riesce a trasmettere questo crescendo emotivo ed il forte confronto psicologico che si genera tra i giurati. Ma com’è riuscito Lumet
a trasmetterci queste emozioni? Com’è riuscito a trasmettere il salire della tensione? Quali sono le tecniche ed i meccanismi messi
in atto, per esempio a livello di macchina da presa, per raggiungere questi effetti? Per fortuna è lui stesso a dircelo:

“……..immediatamente ho pensato ad una «trama di lenti». Man mano che il film andava avanti volevo che la stanza diventasse sempre più
piccola. Questo significava un passaggio progressivo ad obiettivi sempre più lunghi. Iniziammo con quelli a estensione normale (da 28 mm a 40
mm), per procedere con il 50 mm, il 75 mm e il 100 mm. Inoltre girai il primo terzo del film al di sopra dell’altezza degli occhi, poi, abbassando
la macchina da presa all’altezza degli occhi, girai la seconda parte del film, e infine girai l’ultima parte al di sotto del livello degli occhi. In quel
modo, verso la fine del film, si iniziava a vedere il soffitto. Non solo le pareti si restringevano, ma si abbassava anche il soffitto. La sensazione di
claustrofobia aumentava, e così nell’ultima parte del film aumentava anche la tensione. Per l’ultima sequenza, ripresi dall’esterno i giurati che
uscivano dall’aula con un quadrangolare molto più largo di qualsiasi altro usato per tutto il film. Alzai anche quanto più possibile la macchina
da presa rispetto al livello degli occhi. L’intenzione era quella di dare aria, di concedere finalmente il respiro dopo due ore incessanti di
clausura.”

Se voi vedete “La parola ai giurati” e non avete letto il testo di Lumet non vi rendete conto di questa complessità nascosta, vivete
delle emozioni e basta. Così accade anche per l’architettura. Entrante nel grande e straordinario vuoto del Pantheon con il suo
occhio di luce, la sua incredibile semplicità e leggerezza e non vi rendete conto della laboriosità che vi sta dietro. Una laboriosità
che non è solo strutturale o ingegneristica ma che coinvolge tutti quegli elementi che abbiamo visto  nella lezione precedente.

Il paragone tra cinema e l’architettura è abbastanza interessante in quanto sono entrambe arti complesse che richiedono il rapporto
di un numero enorme di figure e di esigenze contrastanti. Usando una metafora, potremmo dire, che l’architetto non è mai solo sul
tavolo da disegno. A fianco a lui, seppure invisibili, ci sono altri progettisti che, a tutti gli effetti, devono essere considerati coautori
del progetto: il luogo che richiama l’attenzione su di sé, il cliente con le sue giuste pretese ed aspettative in quando figura
finanziatrice, la normativa e l’apparato burocratico che sono sicuramente i coautori più scorbutici e meno elastici, la tecnologia che
chiede di essere determinante, la cultura della società che spinge a non innovare ma a lasciare le cose come stanno seguendo
l’inerzia delle abitudini.

Come vedete si tratta di un tavolo molto affollato non meno del tavolo che campeggia al centro delle riprese del film di Lumet.
Ogni architetto ha quindi molti coautori molti più di quelli di cui si accorge consciamente ed anche questi coautori possono essere
molto arrabbiati come i dodici giurati di Lumet.

L’architetto, ovviamente, è l’autore più importate perché è colui che fa sintesi, che deve mettere d’accordo tutti e che deve guidare
il progetto verso la sua costruzione.

Ovviamente, il semplice fatto di soddisfare un po’ tutti, pur essendo uno sforzo encomiabile, non basterà a rendere grande una
vostra opera di architettura.

Se è vero che ogni opera costruita è una sintesi degli elementi del fenomeno architettonico è vero anche che, assai raramente,
un’opera costruita raggiunge i più alti livelli della qualità architettonica e compositiva. Nei casi in cui accade si ha il miracolo della
architettura, chiamiamola, d’autore tanto per distinguerla dall’edilizia corrente

Questo può accadere per diversi fattori uno su tutti è, indubbiamente, l’abilità dell’architetto non solo come progettista ma come
figura in grado di far quadrare tutti gli ingranaggi. Vi sono architetti che vi riescono solo in pochi casi, altri vi riescono spesso e
altri ancora di continuo fino al raggiungimento di un certo credito che li porta ad avere posizioni di leadership sul tavolo del
progetto.

Ma il miracolo può accadere anche per la presenza di situazioni positive al contorno come una particolare sensibilità del
committente che ha fiducia nell’architetto, che lo segue e che ha sintonia con lui. Sono situazioni magiche in cui si riesce a lavorare
in maniera straordinaria, ma non bisogna aspettarle e, quando accadono, bisogna accettarle come regali e ringraziare dio, la
fortuna o il fato (a seconda di ciò in cui si crede).

A volte può accadere che gli architetti raggiungano uno status che li rende anche troppo influenti sul tavolo da disegno. Allora
diventano arroganti e la loro architettura li segue. E’ il caso delle cosiddette archistar che si contendono l’immaginario collettivo
con opere sempre più strabilianti progettate con lo scopo di stupire per la loro diversità o unicità.
Ma, lasciando stare questi casi particolari, abbiamo  visto che fare architettura significa affrontare una serie di questioni tra loro
contrastanti e confrontarsi con settori scientifici, persone e sguardi totalmente diversi. Ne emerge quel groviglio inestricabile che
abbiamo descritto la volta scorsa. Affrontarlo per parti in un corso come il nostro sarebbe sfiancante e sinceramente impossibile.
Credo che sia corretto considerare il fenomeno architettonico nella sua totalità con quell’atteggiamento di sintesi tra gli opposti che
sarà poi la vostra principale attività di progettisti e di leader sul tavolo del progetto.

Veniamo, così,  al taglio particolare di questo corso che consiste sostanzialmente nell’adottare la tecnica dello framing.
Nell’affrontare le tematiche complesse è stata da più parti studiata la questione del frame (cornice) ovvero dell’influenza che
determinati punti di vista hanno sulla percezione di un dato fenomeno. Quando un problema appare insormontabile ed
eccessivamente complesso guardare le cose da un punto di vista alternativo può influenzare positivamente la percezione ed avere
esiti estremamente interessanti.

In questo corso adotteremo questa tecnica e guardemo all’architettura attraverso sette punti di vista particolari che abbiamo
chiamato le sette cornici dell’architettura. Ovviamente sono solo dei punti di vista che ho selezionato in base alla mia esperienza e
sensibilità e non hanno valore oggettivo voi potreste costruirvi le vostre e vi invito da subito a capire quali sono.

La cornice della vita

La prima cornice ci insegna che progettare non partendo dalla forma ma dalla vita è un atto di fondamentale importanza.

La vita, infatti, è come l’acqua: si adatta agli argini che l’architettura le dà. Oggi viviamo, senza accorgercene, in architetture non
pensate correttamente per le nostre esigenze. Siamo talmente abituati a vivere in spazi sbagliati che per abitudine confondiamo le
funzioni (casa, parcheggio, ufficio) con i cattivi modelli che la società ed il mercato edilizio ci hanno dato. Tutto questo è
profondamente sbagliato. Dobbiamo liberarci dalla prigione dei modelli erronei, dalla tirannia delle cattive abitudini diventate,
per inerzia, sistema.

Dobbiamo re-invertire il processo: non più partire dai modelli, dalle forme, che associamo per abitudine ad una funzione ma che
non la rappresentano correttamente, ma dal “fuoco” e dall’ “energia” che quella funzione ordinaria emana.

Dobbiamo prima immaginare un nuovo modo di vivere e poi immaginare il contenitore di quella nuova vita immaginata.
Dobbiamo ripartire dai gesti che vorremmo fare, dalla vita che vorremmo vivere. L’architettura, infine, sarà la cassaforma della
vita desunta per processo inverso dalla vita stessa.

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La cornice del luogo

La seconda cornice ci insegna che il


paesaggio deve essere il coautore
dell’architetto.

L’architettura non è un ferro da stiro che si


può spostare da un luogo all’altro: essa
deve nascere dal luogo e per questo deve
essere unica.

L’architetto, in questa lettura, non è mai


autore unico, il luogo è il suo complice, il
suo più grande alleato.

Per fare questo bisogna conoscere bene


l’ambiente in cui si costruirà, studiarlo
attentamente, ascoltarlo, guardarlo, andarci
più volte, camminarci, perderci del tempo e
poi disegnarlo attentamente. La conoscenza profonda dell’ambiente in cui si costruirà è, infatti, l’antidoto migliore alla malattia
endemica della nostra società che è l’indifferenza al luogo.

Una volta conosciuto attentamente il luogo, l’architetto, non potrà più distruggerlo, ferirlo, tagliarlo perché la conoscenza avvicina,
unisce, rompe i preconcetti, impedisce l’ignoranza.

Attraverso la cornice del luogo, l’architettura, diventa dialogo paritetico, rispettoso, diventa una danza amorosa, una fuga a più
voci dove la linea melodica dell’architettura si incrocia mirabilmente con la linea data dall’ambiente.
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La cornice del significato

La terza cornice è la più ignorata ma la più


importante perché riguarda il significato e la
comunicazione.

Ogni costruzione porta con sè un significato e


l’architettura comunica anche se chi l’ha costruita
non aveva intenzione di farlo.

Una favelas rappresenta l’incubo labirintico e senza


fine della povertà. Una casa cintata come un fortino
sub-urbano da alte siepi comunica paura, chiusura,
voglia di separazione.

Una stanza circolare con un punto luce al centro del


soffino ci dice che quel luogo è sacro.

Viviamo in una società pervasa dalla


comunicazione eppure non si considera il valore comunicativo delle architetture.

Tornare ad interrogarsi sul significato di ciò che facciamo e chiedersi cosa vogliamo comunicare con ciò che facciamo è un tema
ormai improcrastinabile.

Pensare, liberi dai modelli, al significato di una casa, di un parco, di una zona sportiva, di una sala polivalente, di un centro
lettura, di una scuola, ci può portare a concepirla in maniera diversa.

La semantica dell’architettura deve tornare ad avere un posto centrale nel fare architettura.

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La cornice della narrativa

La quarta cornice è quella della narrativa, ovvero del tempo, della quarta dimensione in architettura.

L’architettura è, intatti, sempre narrativa perché l’uomo esperisce lo spazio muovendosi, collegando in sequenza spazi e luoghi.

Tutto questo rende la quarta dimensione dell’architettura inscindibile dall’architettura stessa. Ogni architettura è narrativa, sia che
la narrazione sia stata costruita
consapevolmente, sia che sia stata
prodotta inconsapevolmente: le scale
che facciamo ogni giorno, la distanza
tra il parcheggio e la porta della mia
casa. Tutto questo può essere lasciato al
caso o saggiamente progettato.

L’architetto deve tornare a pensare con


forza alla narrativa in architettura, deve
tornare a mettere in sequenza gli spazi:
come lo scrittone non pensa solo ai
personaggi o alla trama ma anche a
mettere in successione i fatti, l’architetto
deve riportare la narrativa
nell’architettura ordinaria, nei piccoli
temi, nelle case, negli appartamenti, nei
parchi, negli uffici.

Dobbiamo liberarci dai modelli sbagliati, dobbiamo ripartire dall’esperienza, ripartire dal sentiero perché il sentiero è il cordone
ombelicale dell’architettura.

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La cornice dell’atmosfera

La quinta cornice è quella più affascinante ma più difficile da cogliere perché è quella dell’atmosfera.

Che sia cosa voluta o meno, ogni architettura, produce una propria atmosfera. Davanti a sè, l’architetto ha quindi una scelta chiara:
progettare l’atmosfera o subirla senza averla considerata.

L’architetto che si stupisce dell’atmosfera prodotta da una sua architettura è l’architetto che non ha saputo immaginarla.

Come gli scenografi o i creatori dei film animati progettano in dettaglio “un mondo”, allo stesso modo gli architetti devono
progettare l’atmosfera delle loro architetture.

Colori, luci, suoni, superfici, riflessi, condizioni di luce, freddo, calore sono materiali di progetto alla stregua del mattone o del
cemento armato.

L’architetto deve sapere, prima di tutto, immaginare l’atmosfera potenziale, poi deve progettare la costruzione di quella specifica
atmosfera ed infine deve tutelarne l’effettiva realizzazione senza incertezze e cedimenti.

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La cornice della composizione

La  sesta cornice è quella  più difficile da vedere ma la più diffusa:

la composizione si nasconde dietro le grandi canzoni, dietro i grandi romanzi, dietro le grandi poesie, dietro questa lezione e
dietro le grandi
architetture.

Dietro ogni grande


architettura si cela
una grande
composizione.

Questo è vero per il


tempio greco, per il
Pantheon, per la
basilica romana,
per il gotico, per i
grandi architetti del
novecento, come
per la straordinaria
logica
dell’architettura
rurale.

La composizione è
la macchina segreta
che fa funzionare
l’architettura.
Come l’uomo ha
bisogno di una
grammatica allo
stesso tempo ha
bisogno della
composizione.

Come lo sportivo
rispetta le regole
del gioco,
l’architetto deve
rispettare le regole
della composizione.

L’architetto non
deve fermarsi alla
prima soluzione,
deve cercare,
provare, trovare la
composizione che
regola tutte le
problematiche del
progetto.

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La cornice della
costruzione

La settima cornice è
quella della
costruzione che va
sempre relazionata
con lo spazio.

Per raggiungere
l’essenziale
l’architettura deve
far coincidere lo
spazio con la
struttura. Quando
questo succede
logicamente,
l’architettura
diventa poesia,
sprigiona
l’emozione.

Così accade per la


chiesa, per il
monumento, per la
casa bella, per il
fienile, per
l’architettura
spontanea, per la
casa di Robinson
Crusoe.

Subiamo per
inerzia i sistemi
costruttivi. Dobbiamo fare un bar in un parco e pensiamo a muri, cemento armato, cappotti, cartongessi.

Subiamo i modelli e di conseguenza l’architettura diventa bugiarda e indifferente.

Ogni struttura perfetta è bella ed ogni struttura essenziale è poetica. Oggi più che mai abbiamo bisogno di bellezza e di poesia.

E’ per questo che la costruzione va pensata insieme allo spazio ed è per questo che lo spazio deve coincidere con la struttura.

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commenti
1.
CARLO HA DETTO:
22 ottobre 2012 alle 9:27 pm
The seven lamps of architecture…….. Sette le cornici , sette le note, sette o giorni della settimana come racconta Emile Zola . Il
sette che ritorna ciclico e puntuale.
Seven

2. Rispondi
EMILIO FAROLDI HA DETTO:
23 ottobre 2012 alle 8:48 am
Bravo Professor Bricolo: orgoglioso di te. Un ammiratore …. ef

3. Rispondi
ANDREA HA DETTO:
24 ottobre 2012 alle 3:44 pm
Bella lezione! Ci sono altre immagini del lavoro della cornice dell’atmosfera?

Rispondi
1.
BRICOLOFILIPPO HA DETTO:
7 novembre 2012 alle 1:03 pm
Gentile Andrea, non abbiamo ancora presentato la cornice dell’atmosfera. Sarà la quinta cornice. Se vuole comunque
informarsi può leggere il nel testo di Peter Zumthor dal titolo “Atmosfere”, Electa.

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