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noi vogliamo servire la storia


nei limiti in cui essa serve la vita
[friedrich w. nietzsche]
VWRULD>EUHYH@GL QDSROL
con
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JLURODPRLPEUXJOLDJLXVHSSHFLYLOH
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fotografie
OXFLDQRSHGLFLQL
PQHPRV\QH/storie
VWRULD>EUHYH@GLQDSROL

UHGD]LRQH
maria sapio
paola rivazio

cronologia comparata
giovanna bile

DUWGLUHFWRU a pagina 2
enrica d’aguanno veduta della collina
di san martino da montecalvario
LPSDJLQD]LRQH a pagina 7
chiara del luongo castel dell’ovo, sala delle colonne
(dalla villa di lucullo, circa 74 a.c.)
FRRUGLQDPHQWRWHFQLFR a pagina 31
stefania milano particolare della facciata
di palazzo penne (1406)
a pagina 51
IRWRJUDILH castel sant’elmo (1537)
luciano pedicini a pagina 73
archivio dell’arte palazzo della borsa, il salone
le immagini sono fruibili sul sito delle contrattazioni (1884-95)
www.pedicinimages.com a pagina 97
grattacielo di cristallo al centro
FDUWD direzionale (1982)
fedrigoni x-per premium white
copertina gr/mq 250
interno gr/mq 120
certificazione FSC

VWDPSD
born to print, napoli

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tutti i diritti riservati
sommario

7 stefano de caro
ODFLWWjJUHFDHURPDQD
31 roberto delle donne
LOPHGLRHYR
51 girolamo imbruglia
O·HWjPRGHUQD
73 giuseppe civile
O·RWWRFHQWR
97 adolfo scotto di luzio
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120 FURQRORJLDFRPSDUDWD
154 LQGLFHGHLQRPL
159 ELEOLRJUDILDHVVHQ]LDOH
VWHIDQRGHFDUR

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stefano de caro
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L’area in cui si impiantò la città di Napoli rappresenta l’estremo settore orien-


tale della regione flegrea, un territorio costellato di crateri vulcanici e costi-
tuito in massima parte da suoli tufacei (tufi gialli e grigi), prodotti di un’atti-
vità eruttiva particolarmente intensa nelle epoche preistoriche, ma ancora
presente in età recente (ovviamente in termini geologici), come testimonia
l’eruzione che tra il 29 e il 30 settembre 1538 portò alla formazione del Mon-
te Nuovo, presso il lago Lucrino. Ad est, oltre l’antico Sebeto, il fiume oggi
appena riconoscibile nel fosso di Volla che sfocia in mare all’altezza del pon-
te della Maddalena, comincia il territorio vesuviano.
Come nel resto dell’area del golfo, anche in questa porzione di territorio, fer-
tile e ricca d’acque, i primi insediamenti umani sono testimoniati almeno fin
dall’età neolitica. Lo scavo archeologico nell’area della stazione Toledo del-
la metropolitana ha consentito di recente di individuare un fossato artificiale,
databile al Neolitico finale per la relazione con l’eruzione flegrea denominata
Agnano 3 (circa 4.500 anni fa). Al di sotto, un suolo del VI millennio a.C., for-
matosi sui materiali depositati dell’eruzione detta di Pigna San Nicola (8.200
anni fa circa), ha rivelato la presenza di centinaia di buchi di palo, distribuiti
omogeneamente in tutta l’area, forse per piccole capanne, stazzi e recinti,
connessi all’allevamento non stanziale di bestiame. Una situazione analo-
ga è venuta in luce anche su un altro paleosuolo sottostante, formatosi sui
materiali di un’eruzione compresa tra gli 8.600 e 8.200 anni fa.
Un altro salto di qualche millennio ed eccoci nell’Eneolitico, o età del Rame,
con la cultura detta “del Gaudo” (2750-2250 a.C.), la prima ad adottare la
nuova tecnologia dei metalli, di origine orientale. Sulla collina di Materdei
si rinvennero due tombe di questa cultura, una delle quali aveva nel corre-

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do funebre una lama di pugnale in rame, mentre materiali di questo perio-
do si sono trovati più recentemente tra Fuorigrotta e Monte Sant’Angelo.
L’età del Bronzo antica (XX-XIX secolo a.C.), i cui caratteri sono stati di recente
straordinariamente illustrati in Campania dallo scavo del villaggio di Nola (Cro-
ce di Papa) sepolto dall’eruzione vesuviana detta delle pomici di Avellino, è
testimoniata a Napoli nella stazione di piazzale Tecchio della linea 6 della
metropolitana; vi doveva sorgere un villaggio, uno dei tanti che dovettero,
durante tutto il secondo millennio a.C., punteggiare le colline napoletane e
la valle del Sebeto. Alcuni tra di essi vennero certamente in contatto con i
coloni micenei, i primi greci, stanziatisi a Vivara, a Ischia e certamente an-
che sulla terraferma, come dimostra il recente scavo nell’area della stazio-
ne del treno ad alta velocità di Afragola.

La storia della Napoli greco-romana inizia sulla scia di quella di uno di que-
sti villaggi indigeni, quello sorto sull’acropoli di Cuma. Dapprima, nel IX se-
colo a.C., i suoi abitanti entrarono in contatto con dei mercanti greci da cui
ricevettero un po’ di tazze per vino dipinte in stile geometrico, di cui si ser-
virono come di preziosi beni esotici; ma presto quei mercanti fondarono, in-
torno al 770 a.C., una loro città sull’isola d’Ischia (essi le diedero il nome di
Pithecusa, o “isola delle scimmie”) e di qui dopo pochi decenni, cresciuti in
potenza e in numero con l’arrivo di nuovi immigrati dall’isola greca di Eubea,
passarono sulla terraferma e, conquistato con la forza il villaggio indigeno,
vi fondarono una nuova città, Kyme, la più antica dell’Occidente, come di-
cevano gli storici greci.
Cuma fu la madre della prima Napoli, la città di Partenope. I Cumani la co-
struirono verosimilmente come punto di controllo sull’arco del golfo che si
estende da Miseno alla punta della Campanella su cui andavano estendendo
il loro dominio. Analogamente posero altri simili scali navali (epineia) a Mi-
seno, a Pozzuoli e forse a Capri, mentre, per contrastare questa espansio-
ne, i loro avversari Etruschi si diedero ad intessere relazioni sempre più stret-
te con gli indigeni della valle del Sarno e della penisola sorrentina, favorendo
probabilmente il sorgere dei primi abitati a Pompei, Nocera, Stabiae, Vico
Equense e forse Sorrento.

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La città di Partenope sorse sul colle di Pizzofalcone, a ridosso del promon-
torio di Castel dell’Ovo (l’antica Megaride): secondo la tradizione antica il nome
della città derivava da quella di una delle Sirene sepolta nelle vicinanze (Par-
thenope a tumulo Sirenis appellata – ricorda Plinio il Vecchio nella Naturalis
Historia) ed i suoi fondatori sarebbero stati alcuni Cumani allontanatisi in esi-
lio dalla loro città. Secondo altri scrittori antichi, invece, Partenope sarebbe
stata fondata dai Rodii, famosi navigatori che intorno al X secolo a.C. (se-
condo la cronologia di Eusebio di Cesarea, storico dell’età di Costantino), e
dunque ben prima della fondazione di Cuma, avrebbero battuto nei loro viag-
gi le rotte dell’Occidente. In seguito Partenope sarebbe divenuta troppo flo-
rida ed avrebbe suscitato presto la gelosia di Cuma, che l’avrebbe distrut-
ta: questa tradizione sembra in parte confermata dal rinvenimento, a via Ni-
cotera, di una necropoli greca arcaica impiantata nel VII secolo a.C. e interrotta
nell’uso alla metà circa del secolo successivo, in un momento di piena fio-
ritura della potenza cumana. In realtà abbiamo troppo pochi elementi per
valutare questa tradizione: l’abbandono della necropoli, esplorata solo in par-
te, potrebbe non essersi verificato, e, se pure la città fu realmente distrut-
ta, potrebbe non esserlo stata per opera dei Cumani (ma, ad esempio, per
opera degli Etruschi di Capua).
Fino a pochi anni fa la nascita di Napoli, Neapolis, la “città nuova”, chiamata
così in opposizione proprio a Partenope, che diventava da quel momento Pa-
laepolis, la “città vecchia”, veniva posta, sulla base dei più antichi materiali
rinvenuti, verso il 475 a.C. Gli scavi recenti in vari punti della città stanno por-
tando, con nuovi rinvenimenti, a rialzare tra la fine del VI secolo a.C. e gli ini-
zi del V questa datazione, nel periodo che vide l’ostilità tra Etruschi e Cumani
culminare, nel 524, nella famosa battaglia terrestre, combattuta nella pa-
lude a nord di Cuma in cui gli Etruschi furono battuti; è il periodo in cui Cuma
era governata da un tiranno, Aristodemo detto l’Effeminato (malakós), for-
te del favore del popolo e di una milizia personale di mercenari; un perso-
naggio famoso, presso il quale si rifugiò anche Tarquinio il Superbo. Non è
chiaro se si debba ad Aristodemo o ai suoi oppositori aristocratici la crea-
zione della nuova città, impiantata per una non grande estensione (circa 72
ettari), sul basso pianoro che poco ad est di Partenope digradava verso il

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le mura della città
greca a piazza bellini
(IV secolo a.c.)

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mare protetto dall’arco dei valloni che raccoglievano le acque torrentizie pro-
venienti dalle colline della Sanità e del Vomero-Quartieri Spagnoli, ma è cer-
ta per le fonti antiche l’origine cumana; di recente le ricerche sulle più an-
tiche mura di Neapolis hanno mostrato l’uso della stessa tecnica “ad orto-
stati” di quelle rinvenute a Cuma e datate con certezza proprio al tempo di
Aristodemo. D’altro canto è ben nota la presenza, tra le fratrie napoletane
(un’istituzione religiosa che associava famiglie che si riconoscevano in un
capostipite comune, con santuari e feste condivise) di elementi che richia-
mavano nei nomi e nei culti l’origine cumana ed euboica.
Risale alla fase della fondazione il nucleo principale dell’impianto urbanistico
della città, ancor oggi nitidamente riconoscibile nel tessuto del così detto “cen-
tro antico”, nell’area all’incirca compresa tra corso Umberto, via Foria, via
Mezzocannone e via Tribunali: anzi, proprio la persistenza di questo rego-
lare disegno urbano costituisce, come già ricordava Benedetto Croce, il più
importante monumento della Napoli greco-romana. La trama urbana era ar-
ticolata su tre assi maggiori orientati all’incirca est-ovest (i decumani, o, come
si chiamavano ancora nel Medioevo, plateiai: la settentrionale era in origi-
ne larga tredici metri, compresi i marciapiedi) e su altri minori (vici o stenopoí)
procedenti in senso nord-sud, in numero di ventidue o ventitré. Nella sua ma-
turità di concezione, il sistema risponde pienamente ai valori di coerenza e
organicità che si vennero affermando nell’urbanistica greca del VI-V seco-
lo a.C., e che gli antichi accostavano al nome di Ippodamo di Mileto: donde
quella definizione di ‘ippodamei’ che si suole attribuire a impianti quali que-
sto di Napoli, o quello di Ercolano.
La più settentrionale delle platee (o summa) correva da una porta orienta-
le presso via Santa Sofia, passava per via Anticaglia, e, lambendo le pen-
dici dell’acropoli, giungeva ad ovest fino alla zona di Santa Patrizia e al quar-
tiere detto della Marmorata. La platea mediana, sull’asse attuale di via dei
Tribunali, andava da una porta ad est (Capuana?) fino a San Pietro a Ma-
jella. Quella inferiore, che corrisponde all’attuale asse di Spaccanapoli, è rap-
presentata dalla linea di via Vicaria Vecchia - via San Biagio dei Librai - via
Nilo e correva da una porta Furcillensis (o Nolana) ad est ad un’altra trovata
nel XVIII secolo presso San Domenico Maggiore.

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Mura di fortificazione e terrazzamenti furono costruite in tufo locale, di cui si
è identificata in anni recenti sotto la chiesa di Santa Maria del Pianto a Pog-
gioreale la latomia principale. Si tratta di un’enorme cava, con la tipica con-
formazione a volta ogivale, che reca sulle pareti le tracce dei livelli orizzon-
tali, segnati da marche incise, seguendo i quali i cavatori tagliarono i blocchi.
L’antica via di cava lungo la quale i blocchi scendevano in città fu forse poi
trasformata in una via di uso più generale e ricalcata dal tracciato della stra-
da vecchia che in età aragonese raggiungeva la villa di Alfonso d’Aragona a
Poggioreale.
La principale infrastruttura della nuova città fu certamente il porto, che sap-
piamo collocato nella baia che si incurvava tra il piccolo capo dov’è oggi la
chiesa di Santa Maria di Portosalvo ed il più elevato promontorio di Castel
Nuovo. Attraverso esso giunsero e si manifestarono presto in città le nuove
influenze esterne che subentrarono a quella della madrepatria cumana. Dap-
prima quella di Siracusa, la città siciliana sostituitasi a Cuma nella funzio-
ne di baluardo dei Greci contro i barbari e protagonista con le sue navi del-
la nuova vittoria contro gli Etruschi, proprio nel mare di Cuma, nel 474 a.C.:
è ai Siracusani che, significativamente, viene ceduta dai Cumani l’isola di Pi-
thecusa. Poi quella di Atene, spinta in Occidente dalla politica imperialistica
avviata da Pericle; ne è una significativa testimonianza, alla fine del V seco-
lo a.C., la missione a Napoli dello stratego Diotimo, che vi istituì la festa an-
nuale delle Lampadoforie, in onore della sirena Partenope.
Meglio collocata strategicamente nel golfo, dotata di un porto meno soggetto
ad insabbiamenti, la giovane Napoli soppiantò rapidamente in importanza
Cuma e quando nel 466 a.C. i Siracusani abbandonarono Ischia, a seguito
di un’eruzione vulcanica, l’isola fu occupata, forse insieme a Capri, non dai
Cumani ma dai Neapolitani.
Le diverse influenze traspaiono chiaramente nei culti pubblici. Era dedica-
ta ai santuari l’acropoli, il settore occidentale della fascia a nord della pla-
tea summa. Qui doveva essere il tempio di Apollo, una delle divinità della
triade cantata dal poeta napoletano Stazio, e certo da riconnettersi a quel-
lo del dio archegeta della madrepatria cumana. Qui, presso San Gaudioso,
nell’area di Sant’Aniello a Caponapoli, era il tempio di Demetra, documen-

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tato indirettamente dal ritrovamento di una stipe con terrecotte votive con
l’immagine della dea; già presente a Cuma, essa era venerata a Napoli con
una corsa rituale con lampade di cui ci racconta ancora Stazio (Actaea Ce-
res, cursus cui sempre anel o/ votivam taciti quassamus lampada mystae)
e qualificata di thesmophóros (legislatrice e propiziatrice della fertilità). La
fama della dea napoletana si estese a Roma che da Napoli e da Velia fa-
ceva venire le sacerdotesse per il culto praticato a Roma. La terza divinità
della triade sacra napoletana era, com’è noto, la coppia dei Dioscuri, il cui
primo tempio, di età greca, nella parte settentrionale dell’agorá, fu com-
pletamente restaurato all’età di Tiberio dal liberto Tiberio Giulio Tarso ed ul-
timato da Pelagone, liberto e commissario dell’imperatore; in età paleocri-
stiana fu trasformato nella chiesa di San Paolo Maggiore.
Nella seconda metà del V secolo a.C. veniva intanto affacciandosi prepo-
tentemente sulla scena campana un nuovo soggetto politico, i popoli di lin-
gua osca dei Sanniti, provenienti dalle montagne del Sannio attraverso le
valli del Volturno e del Calore, ed i loro consanguinei Campani, discenden-
ti degli antichi indigeni della pianura del Volturno e costituitisi nel 438-437
a.C. in un’entità politica (“popolo”). La presa di Capua, che essi sottrasse-
ro alla signoria etrusca nel 423 a.C., fu l’inizio di un’ondata che nel giro di
pochi anni portò l’intera Campania nelle loro mani, mentre nello stesso tem-
po i loro cugini Lucani occupavano le città greche ed etrusche della costa
salernitana e cilentana. In questo mare sabellico, solo Napoli riuscì forse a
evitare l’occupazione militare, ma non un pesante assoggettamento politi-
co che si espresse nella conquista delle magistrature cittadine da parte di
gruppi dominanti sannitici o ad essi legati e che traspare, oltre che nei nomi
dei nuovi magistrati, nell’alterazione stilistica delle monete, i cui conii ven-
nero progressivamente imbarbarendosi.
Napoli divenne così il punto di attrito tra il mondo osco e l’espansionismo
romano. Nello scontro Cuma si schierò senza esitazione dalla parte di Roma
e ne ricevette nel 338 a.C. la civitas sine suffragio, ovvero la cittadinanza
senza voto; a Napoli prevalse invece il partito popolare, filosannitico, che por-
tò allo scontro con Roma (bellum Neapolitanum 328-326 a.C.) conclusosi
con l’occupazione da parte dei Romani, aiutati dall’elemento greco aristo-

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imbarcazione
di epoca romana
ritrovata a piazza
municipio nel corso
dei lavori per la
metropolitana
(foto soprintendenza speciale
per i beni archeologici di napoli
e pompei)

LA CITTÀ GRECA E ROMANA|15


cratico, di Palepoli, l’antico borgo di Partenope in cui s’erano asserragliate
le truppe sannitiche con i loro alleati venuti da Nola.
Quando, nel 290 a.C., si concluse, col pieno successo dei Romani, questo
convulso periodo, Napoli si ritrovò alleata (foederata) di Roma, una condi-
zione che le consentiva di conservare una sua formale autonomia, sia pure
con l’onere di fornire al potente alleato le navi della propria flotta in caso di
necessità: il che si verificò, ad esempio, nel 264 a.C. quando la città partecipò
alla spedizione romana in Sicilia. In cambio di tale subordinazione la città
acquisì peraltro i grandi vantaggi di natura commerciale derivanti dal libe-
ro accesso agli spazi economici aperti dalla penetrazione militare romana,
come testimoniano le iscrizioni contemporanee di area greca che parlano
dei suoi mercanti come di Romani da Napoli. Esempio della vivacità economica
e commerciale di Napoli in questo periodo è la produzione della ceramica
a vernice nera, la cosiddetta ‘Campana A’, lavorata con argille ischitane e
massicciamente esportata in tutto il bacino del Mediterraneo occidentale.
La scoperta nell’area di piazza Nicola Amore di officine per la produzione
di anfore di tipo greco-italico, marcate con gli stessi timbri di quelle di Ischia,
ha offerto un supporto archeologico alla tradizione su una produzione na-
poletana di vino. Virgilio nelle Georgiche faceva di Napoli la sede della pri-
ma coltivazione su suolo italico delle viti aminee; e Galeno collocava i viti-
gni aminei campani sulle colline napoletane (dove essi davano però un vino
leggero, Leptòs, e non denso come gli aminei siciliani e bitini). Ancora Ga-
leno cita un altro vino, il cosiddetto Trifillo, prodotto sulle colline napoleta-
ne, forse a quattro miglia da Napoli, se si tratta dello stesso Trebellikòs ci-
tato da Plinio e da Ateneo che lo dice forte, digeribile e di buon sapore (eu-
kratos, eustomachos, eumastos).
Alla luce di questi vantaggi commerciali, si comprende perciò come la città
restò fedele all’alleanza con Roma nelle successive vicende belliche, riget-
tando le profferte di Pirro e resistendo fermamente all’assedio di Annibale,
occasione in cui si colloca uno dei rari momenti gloriosi della sua storia mi-
litare, quando Hegea guidò l’attacco della cavalleria napoletana contro i Car-
taginesi. È d’altra parte sintomatico della reciprocità di tali rapporti econo-
mici con Roma il fatto che le prime emissioni romane di monete d’argento,

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testimonianza dello sforzo di adeguare la propria valuta a mercati più ampi,
furono coniate probabilmente proprio nella zecca napoletana. Un riflesso del-
l’importanza del commercio marittimo per Napoli si può cogliere inoltre nel-
l’impegnativa opera di dragaggio con cui, tra IV e III secolo a.C., si approfondì,
per estendere la superficie utilizzabile, il fondo del bacino del porto di Na-
poli ai piedi della collina di Castel Nuovo. I segni di questa operazione si sono
chiaramente identificati sulla superficie dei fanghi messi in luce negli stra-
ti più profondi dello scavo della stazione della linea 1 della metropolitana,
mentre i materiali più antichi rinvenuti mostrano con le diverse provenien-
ze l’ampiezza dell’area raggiunta dai commerci napoletani.
Un altro riflesso di questo mondo ellenistico di cui Neapolis si poneva ad un
tempo a protagonista, sia pure minore, e a intermediaria con Roma, è la se-
quenza di tombe rupestri che allineavano le loro facciate ad edicola lungo
le strade funerarie che si disponevano a terrazza sulla collina della Sanità,
offrendo una straordinaria e scenografica visione di città dei morti; un pae-
saggio di colline che dobbiamo immaginare ancora coronate alla sommità
da vigneti e castagneti, quelli dei frutti decantati da Plinio e Marziale (V, 78,
15: Et quas docta Neapolis creavit/ lento castaneae vapore tostae). Della
maggior parte di queste tombe, adoperate fino ad età romana, resta or-
mai solo la documentazione, ma una visita alla ricostruzione di una di esse,
allestita nel Museo Archeologico Nazionale, permette di apprezzarne lo
straordinario apparato decorativo interno, con affreschi in stile architet-
tonico – dominati da una testa a rilievo di Gorgone dagli smaglianti co-
lori –, le klinai funerarie, i materiali del corredo, le stele dipinte e i rilievi scol-
piti con la scena di commiato con il tipico saluto in greco, chaire (salve).
La posizione commerciale privilegiata di Neapolis fu però pesantemente in-
debolita nel 194 a.C. dalla fondazione, nello stesso golfo, a pochissima di-
stanza dalla città, della colonia romana di Puteoli (Pozzuoli), insediata sul
luogo di una fortezza utilizzata durante la seconda guerra punica e sede, poco
dopo, di una dogana (portorium). Impiantata sul Rione Terra con funzione
militare, la nuova città di Puteoli conobbe viceversa un rapidissimo svilup-
po economico, fino a sostituire quasi completamente Napoli nella funzio-
ne di principale porto commerciale della Campania. La disponibilità di un

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ottimo bacino portuale, il collegamento, attraverso la nuova via Campana
con la via Appia e con Capua, che viveva allora un periodo di grande fiori-
tura economica, la funzione, assegnatagli da Roma, di proprio scalo mer-
cantile, fecero di Puteoli un emporio vivacissimo, in cui convenivano i ne-
gotiatores di tutto il mondo ellenistico per commerciarvi grano, spezie, vino,
vetri, schiavi, prodotti di lusso orientali destinati al sempre più esigente mer-
cato romano. Nel 126 a.C. il poeta Lucilio parla di Puteoli come di una “Delo
minore”, paragonandola cioè all’isola egea che, grazie al porto franco in-
sediatovi dai Romani, era il più grande centro di traffici del Mediterraneo in
quell’epoca.
Mentre Puteoli e Capua diventavano i centri di questo nuovo distretto eco-
nomico romano, sottoposto al più stretto controllo politico da parte di Roma
sia con la colonia puteolana, sia con la prefettura straordinaria per Capua
e Cuma, creata fin dal 318 a.C. rinnovata nel 211 a.C., la presenza stessa
della nobilitas romana, anche in forma privata, diventava più diretta e du-
ratura. Ne fu strumento fondamentale la moda, instauratasi a partire dal II
secolo a.C., della residenza in villa, iniziata nella zona termale di Baia e Mi-
seno, e poi estesasi a tutta la costa del golfo e oltre. La profonda romaniz-
zazione dell’area e la partecipazione delle classi dirigenti locali ai vantaggi
del potere romano impedì che la rivolta degli Italici, la cosiddetta guerra so-
ciale, toccasse questa parte della Campania. Quando nel 90 a.C., in virtù
della legge Giulia, Napoli diventò un municipio romano, la concessione del-
la cittadinanza, tanto agognata dagli Italici, suscitò invece vivo malconten-
to nei maggiorenti napoletani, che ritenevano di acquistare con essa solo
oneri indesiderati. Ma per queste stesse ragioni di implicazione nei ‘core bu-
siness’ della politica di Roma, l’area napoletano-flegrea non riuscì ad evi-
tare le conseguenze delle successive guerre civili. Schieratasi della parte di
Mario, esponente degli ambienti mercantili, Napoli fu pesantemente coin-
volta nella sua sconfitta, e per questo fu punita da Silla, oltre che con la stra-
ge dei suoi notabili, con la perdita della flotta militare e la sottrazione del-
l’isola di Ischia. Privata di alcune delle sue principali strutture economiche,
già in crisi per la concorrenza di Puteoli, Napoli entrò così in una fase di vita
politica ed economica del tutto opaca, continuando solo a vegetare come

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il mercato romano
coperto (I secolo d.c.)
sottostante la chiesa
di san lorenzo maggiore

LA CITTÀ GRECA E ROMANA|19


piccola (mikrà) città – si stima una popolazione di sette o ottomila abi-
tanti – che si affidava alla cultura, alla presenza di scuole e di studenti, at-
tratti dall’illusione di vivere, nel cuore dell’Italia romana, nella più schietta
tradizione greca.
La successiva restituzione, decisa da Augusto, dell’isola di Pithecusa in cam-
bio di Capri, eletta dall’imperatore a suo ‘buen retiro’, non poteva certo ri-
sollevare le sorti di Napoli. Impulso maggiore venne dall’istituzione, nel 2 d.C.,
da parte dello stesso imperatore, dei giochi “Italici Romani Augusti Isolim-
pici”, le famose Italidi celebrate con cadenza quinquennale tra luglio e ago-
sto con agoni sia atletici sia culturali, destinate a costituire d’allora in poi la
massima preoccupazione della città. I nuovi scavi della stazione della me-
tropolitana di piazza Nicola Amore, con la scoperta del tempio per il culto
imperiale, hanno confermato i dati a suo tempo prodotti dagli scavi del Ri-
sanamento sulla presenza nell’area tra le mura meridionali e il mare del com-
plesso principale dedicato a questi giochi, con edifici ornati da iscrizioni ce-
lebrative delle vittorie degli atleti e aule decorate da statue degli dei del gin-
nasio. Nella stessa fascia costiera doveva sorgere lo stadio, testimoniato,
oltre che dalla menzione di gare di corsa, dal ricordo che nel 344 il vesco-
vo Fortunato I fu sepolto in una chiesa foris urbem quasi ad stadia. È pos-
sibile che la corsa ricordata fosse in origine la stessa con le lampade (lam-
padikòn agòna kai dromon) istituita dall’ateniese Diotimo verso il 433 a.C.
per onorare la memoria della sirena Partenope con un percorso al suo tu-
mulo, citato da Strabone come il monumento più famoso della città. Ed è
possibile, sulla base della definizione come “tumulus” che Plinio dà della
tomba di Partenope, che piuttosto che di una costruzione nella zona del-
l’attuale Molosiglio (come suppose il Beloch), si trattasse invece di una col-
lina naturale, forse l’intero promontorio di Pizzofalcone-Castel dell’Ovo, allo
stesso modo in cui a capo Licosa fu collegato il mito dell’altra Sirena, Leu-
kosia, o in cui Virgilio immaginò che Capo Miseno fosse il tumulo del noc-
chiero di Enea, e che Capo Palinuro fosse quello del trombettiere di Ulisse.
Alla stessa sfera delle Italidi rinviano anche le testimonianze letterarie riferentisi
al teatro, legate alla passione per questa scena ‘greca’ manifestata da Clau-
dio e Nerone. Del primo si racconta che partecipò agli agoni del 42 d.C. con

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una sua commedia greca, scritta in onore del fratello Germanico, e che per
gran parte del tempo delle gare girò per la città vestito alla greca con tutto
il suo seguito; il secondo volle fare del teatro napoletano, l’unico ritenuto
degno di tanto, il banco di prova della sua arte di cantore prima di esibirla
in Grecia; e Svetonio riferisce con abbondanza di dettagli delle sue recite
napoletane, ivi compreso l’allestimento della claque di Alessandrini fatti ve-
nire appositamente per stimolare il plauso dell’uditorio cittadino. Ancorché
riportati con intento denigratorio, i racconti degli exploits imperiali testimo-
niano tuttavia la fama di città colta e schiettamente greca di cui Napoli go-
deva nel I secolo d.C. Di questo teatro, conservatosi pressoché integro fino
alle soglie dell’età moderna – immagini quattrocentesche dell’esterno del-
l’edificio, come icona dal passato classico della città, erano nel rilievo del-
l’arco di Alfonso di Aragona a Castel Nuovo e al centro dell’altare maggiore
di San Lorenzo Maggiore – sono da alcuni anni in corso di scavo i resti lun-
go la via Anticaglia e negli isolati delimitati dalle vie San Paolo e Giganti; inol-
tre è da sempre in vista, ben conservato, l’edificio della scena di cui si può
osservare un tratto del muro posteriore, alto ventuno metri, nel convento dei
padri Teatini. Gli scavi recenti hanno riportato alla luce parte della cavea e
delle gallerie che la circondavano: l’edificio, in reticolato e opera laterizia, ave-
va una capienza stimata in circa 8.000 spettatori ed è databile ad età giu-
lio-claudia, mentre non sembra che il teatro di età greca giacesse nello stes-
so luogo. Un carattere urbanistico che Napoli condivideva con Pompei era
l’esistenza, accanto al teatro, di un odeion, o teatro coperto, come testimonia
un passo di Stazio che esalta la “mole gemella del teatro scoperto e coperto”
(geminam molem nudi tectique theatri); di questo edificio non sopravvivo-
no oggi che scarsissimi resti di muri in opera mista, incorporati negli edifi-
ci moderni all’angolo tra via Pisanelli e via San Paolo.
Non è questa la sede per descrivere gli altri monumenti pubblici napoleta-
ni, basti ricordare la presenza dell’agorà, e poi del foro, sul lato meridiona-
le della plateia di via dei Tribunali, pervenutaci sotto il complesso di San Lo-
renzo Maggiore in una sistemazione urbanistica di epoca romana – l’edifi-
cio più evidente è il macellum – che ricalca quella risalente al IV secolo a.C.;
quella del santuario delle divinità alessandrine, nel quartiere di piazzetta Nilo,

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la regio Nilensis della tradizione medievale, localizzazione confermata dal
rinvenimento, in via Pignatelli, di un’iscrizione greca dedicata nel I secolo d.C.
da Marco Opsio Navio Fanniano a Iside, Arpocrate e Oro-Apollo.
Il monumento più esemplare della Napoli di età augustea, e da alcuni anni
oggetto di un meritorio lavoro di restauro dopo decenni di chiusura, è la cryp-
ta neapolitana, la grandiosa galleria stradale tagliata nel fianco del colle
del Vomero per migliorare le comunicazioni tra Pozzuoli e Napoli, prece-
dentemente affidate alla più lunga e malagevole via Antiniana, attraverso
le colline. L’ardita opera di ingegneria, i cui sbocchi si trovano presso la chie-
sa di Piedigrotta (nel parco “virgiliano”, alle spalle dell’omonima chiesa di
Santa Maria di Piedigrotta) e a Fuorigrotta (a monte dell’uscita del tunnel
moderno), è più volte menzionata nelle fonti antiche, e Strabone la ricor-
da come opera di Lucio Cocceio Aucto, l’architetto di Augusto che mise a
punto il grande progetto di potenziamento strategico dei porti flegrei; Se-
neca, in una sua epistola, si lamenta per l’oscurità e la polvere al suo in-
terno; Petronio la critica trovandola troppo bassa. In realtà la galleria, com-
pletamente scavata nel tufo, ha una lunghezza di settecentocinque metri,
una larghezza media di circa quattro metri e mezzo, e un’altezza media di
circa cinque metri ed era illuminata e ventilata da due pozzi di luce obliqui.
Una dedica del vir clarissimus Appius Claudius Tarronius Dexter apposta
su un bassorilievo in marmo bianco con la raffigurazione di Mitra, datato
tra la fine del III e l’inizio del IV secolo d.C., rinvenuto in età rinascimenta-
le, ci informa dell’esistenza di un mitreo nella galleria.
Alla crypta e al momento augusteo di Napoli è indirettamente legata anche
la tradizione del sepolcro di Virgilio (che non è il monumento così denomi-
nato nel parco “virgiliano”). È nota dai biografi antichi di Virgilio – partico-
larmente Donato – la predilezione del poeta di Mantova per Napoli dove, an-
cor giovane, avrebbe appreso dal greco Sirone la filosofia epicurea e, ormai
maturo, avrebbe concepito le Georgiche, nonché i vari passi dell’Eneide le-
gati all’area flegrea. Agli stessi biografi si deve la notizia che dopo la sua mor-
te, avvenuta a Brindisi all’età di 51 anni, nel 19 a.C., di ritorno da un viag-
gio di studi in Grecia, i suoi resti, trasportati a Napoli, furono raccolti in un
sepolcro sulla via Puteolana, tra il primo e il secondo miglio dall’uscita da

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il palazzo degli spiriti
o scuola di virgilio
resti di una villa romana
a posillipo

LA CITTÀ GRECA E ROMANA|23


Napoli (e dunque grosso modo da Santa Chiara), forse nei pressi del cam-
po o della villa che aveva acquistato da Sirone. Sul suo sepolcro sarebbe sta-
to inciso il famoso distico, composto – sempre secondo la tradizione – dal-
lo stesso poeta morente: “Mantova mi ha generato, la Puglia mi ha rapito;
ora mi tiene Partenope. Cantai i pascoli, i campi, i condottieri” (Mantua me
genuit, Calabri rapuere, tenet nunc/ Parthenope; cecini pascua, rura, du-
ces). Già per tempo su tale tomba si raccolse, come su un tempio, la ve-
nerazione di letterati e poeti: Stazio, il poeta napoletano di età domizianea,
dice di sé: “e sedendo sulla soglia del tempio di Marone, riprendo cuore e
canto al tumulo del grande maestro”; allo stesso modo, Plinio il Giovane ri-
ferisce che Silio Italico, il poeta autore delle Puniche, “celebrava il giorno na-
tale di Virgilio più religiosamente del suo stesso, e soprattutto a Napoli, dove
era solito andare al suo sepolcro come a un tempio”. Nel Medioevo la figu-
ra di Virgilio acquistò a Napoli i caratteri di mago e taumaturgo; i suoi resti
– narrano le cronache del tempo – furono traslati e nascosti, per evitare che
venissero rubati, nel Castel dell’Ovo, lo stesso che Virgilio avrebbe costrui-
to su un uovo posto nelle fondamenta.
Più che alla vita urbana di Napoli, cristallizzata nelle forme scolastiche e ri-
tuali che abbiamo detto, la presenza di Virgilio si riallaccia a quella, ben più
vitale, delle ville d’otium, esplosa subito fuori città su scala enorme, mag-
giore perfino che nella stessa Baia. Gli scavi recenti, condotti nell’area di Ca-
stel Nuovo, hanno permesso di scoprire che la bassa altura tufacea su cui
sorse il castello medievale ha ospitato già dall’età repubblicana una villa ro-
mana, che potrebbe aver costituito il settore più orientale dell’immenso com-
plesso appartenuto a L. Licinius Lucullus, il famoso console dell’anno 74 a.C.,
ben nota dalle fonti antiche che l’attestano sull’isolotto di Megaride/Castel
dell’Ovo, l’insula carissimi adulescentis Luculli di cui parla Cicerone che vi
si recò con Bruto dopo l’uccisione di Cesare. È la villa ad Neapolim celebre
per le sue costosissime peschiere costruite exciso monte e per le quali Pom-
peo chiamava Lucullo “Serse in toga” alludendo al famoso taglio della pe-
nisola calcidica ordinata dal re persiano all’epoca dell’invasione della Gre-
cia. È noto che alla morte di Lucullo la vendita dei pesci allevati in queste
peschiere rese quaranta milioni di sesterzi. In età imperiale la villa divenne

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proprietà del fisco imperiale. In età tardoantica la parte della villa posta sul-
l’isolotto di Megaride fu fortificata; si tratta, sulla base di documenti medievali,
di quel castrum Lucullanum in cui morì nel 476 l’ultimo imperatore roma-
no d’Occidente, Romolo Augustolo.
Ad ovest del colle di Pizzofalcone, ubicata tra Posillipo e Castel dell’Ovo, non
lontana da questo, sulla base della testimonianza di Stazio, si deve collo-
care un’altra villa, quella detta Limon (“il prato”), di quello stesso Pollio Fe-
lice che aveva un’altra famosa residenza di piacere a Sorrento, con stanze
provviste di finestre che permettevano al fortunato proprietario di vedere dal-
l’una l’altra villa. E proprio a proposito del Limon di Pollio Felice, ricordiamo
la singolare testimonianza di un’epigrafe trovata a Posillipo, che ci dice come
nell’anno dei consoli Nerva e Vestino, il 65 d.C., “Macrino … qui passeggiò
dalla villa di Pollio Felice che è Epilimones fino alla foce Paconiana”.
Ancora più ad ovest, il colle di Posillipo offriva in misura straordinaria i ca-
ratteri più adatti alla localizzazione di ville maritimae. La più famosa, che oc-
cupava la maggior parte dell’area, su un’estensione maggiore di quella di
tutta la città di Neapolis, era appunto quella detta Pausilypon (in greco “che
libera dalle preoccupazioni”), costruita da Publio Vedio Pollione, un cavaliere
di origine beneventana partigiano di Augusto e accredidato da Cicerone di
una pessima fama di truffatore, donnaiolo e spregiudicato politicante (“mai
ho conosciuto tipo peggiore”). L’amicizia del princeps gli aveva permesso una
carriera folgorante che l’aveva portato nel 30 a.C. al governo dell’Asia, la più
ricca provincia dell’Impero, ma quando Augusto aveva imposto una radica-
le svolta dei costumi, proponendo il ritorno ad un ideale di vita sobrio e se-
vero, era caduto in disgrazia per non essersi adeguato al nuovo corso. È fa-
moso l’episodio della rottura tra Pollione e il princeps, svoltosi proprio nel
Pausilypon e del quale ci resta il vivace resoconto di Seneca: “il divino Au-
gusto un giorno stava a pranzo da Vedio Pollione. Uno dei servi aveva rotto
una coppa di cristallo. Vedio lo fece prendere per infliggergli una morte in-
solita, comandando che fosse gettato in pasto ad enormi murene che teneva
in un vivaio. Il servo riuscì a sfuggire alle mani che lo tenevano e si gettò ai
piedi di Cesare per chiedergli che gli si desse un’altra morte e non lo si la-
sciasse cibo per i pesci. L’imperatore fu scosso dalla stranezza di quella cru-

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deltà. Ordinò di liberare lo schiavo e di gettare subito alla sua presenza tut-
te le coppe di cristallo nel vivaio, sicché ne fu pieno”. Non sappiamo se l’epi-
sodio sia vero o falso: esso sembra fatto apposta per far risaltare l’umani-
tà dell’imperatore a fronte della crudeltà di Pollione: sta di fatto che il dis-
sidio proseguì oltre la stessa morte di Vedio Pollione. Quando questi morì,
nel 15 a.C., e lasciò l’imperatore erede dei suoi immensi beni, con la sola
richiesta di funerali pubblici, Augusto glieli rifiutò e fece radere al suolo il pa-
lazzo dell’Aventino, famoso per il suo lusso, per far costruire un edificio pub-
blico, il Portico di Livia. Nella greca Neapolis, lontano quanto bastava da Roma,
poté sopravvivere invece il Pausilypon; anzi esso fu ingrandito dopo che en-
trò a far parte del demanio imperiale.
Il complesso che si affaccia sulla baia di Trentaremi è uno degli esempi più
straordinari di villa d’otium, uno dei primi esempi di ville costruite adeguando
completamente l’architettura alla natura dei luoghi, con una distribuzione
delle funzioni (residenziali, termali, di accoglienza, di spettacolo) prima rac-
colte in un unico edificio, in più corpi scenograficamente disposti in tutte le
pieghe di un intero paesaggio: non a caso Dione Cassio (LIV, 23) ne parla
come di un “villaggio (chorion) tra Napoli e Pozzuoli”. L’edificio meglio con-
servato è il teatro, appoggiato alla collina, capace di almeno duemila posti
e caratterizzato dalla presenza, in luogo del consueto edificio scenico, di una
natatio per spettacoli acquatici circondata da un giardino recintato da un muro
curvilineo, richiamante la forma della cavea. Anche qui come in città, il quar-
tiere teatrale aveva due cavee: di fronte al teatro, appoggiato alla collina, era
infatti un odeion, il theatrum tectum per audizioni di poesia, retorica o con-
certi. L’elemento più singolare è il palco imperiale dell’età di Nerone, una gran-
de aula pavimentata in opus sectile, con abside e podio per statua al cen-
tro della media cavea. Gli scavi recenti hanno mostrato che tutta la collina
nella quale fu ricavato l’invaso dell’odeion era stata completamente coper-
ta da costruzioni: cisterne, portici panoramici, rampe e gradinate; questa par-
te del complesso imperiale venne abbandonata entro la fine del I secolo d.C.,
probabilmente a causa di danni alle strutture o ai costoni rocciosi provocati
dagli eventi sismici legati all’eruzione del Vesuvio del 79 d.C. Ad est dell’odeion
è stato esplorato un porticato con il muro di fondo affrescato e traforato da

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finestroni aperti verso il mare; esso volgeva il colonnato verso un giardino –
se ne sono ritrovati i vasi da vivaio – decorato con statue, tra cui una di bam-
bino, in marmo, rinvenuta nella fossa scenica. Allo stesso settore dei teatri
appartiene il cosiddetto tempio, che potrebbe essere il vestibolo di accesso
al quartiere. Altri settori del complesso sono ancora meno chiari; tra i più ri-
conoscibili è il quartiere termale, dove resta tuttora visibile, nella folta vege-
tazione mediterranea, un bell’esempio di caldarium con un interessante ed
originale sistema di circolazione dell’aria calda. Di grande effetto sono tut-
tora le facciate degli edifici che si allineavano lungo la strada che scendeva
ai quartieri residenziali (disposti su terrazze, alcuni con interessanti resti di
pitture in IV stile pompeiano e mosaici in pasta vitrea), a quelli più propria-
mente marittimi della villa e al porto privato, che doveva assicurare alla pic-
cola corte residente comunicazioni rapide con Napoli e con gli altri siti dei
Campi Flegrei. Le indagini del Gunther hanno permesso, ora è quasi un se-
colo, di riconoscere le pilae del porto, resti di porticati, di ninfei, e degli im-
pianti di peschiere per le quali la villa era famosa (Plinio narra di un pesce
gettato da Vedio Pollione nelle piscine la cui morte a sessant’anni sarebbe
stata descritta da Seneca); una di queste strutture era famosa nel Settecento
col nome di “scuoglio (o scuola) di Virgilio”, che qui avrebbe compiuto i pro-
digi di magia di cui lo accreditava maestro la tradizione medioevale napo-
letana. Al complesso del Pausilypon era strettamente legata, costituendo-
ne la principale via d’accesso terrestre dal lato di Coroglio, la crypta detta
dalla tradizione umanistica “di Seiano”, un tunnel – lungo circa settecento-
settanta metri, alto da cinque a otto metri e largo da quattro a sei metri –
munito di un ingresso monumentale dal lato di Bagnoli che funse probabil-
mente da via pubblica anche quando cessarono i fasti della villa imperiale
di Posillipo.
Un’altra villa famosa era quella di Bruto, il cesaricida, a Nisida (il nome, gre-
co, sta per “isolotto”). Dalle fonti sappiamo che essa ospitò talvolta Cicero-
ne; in essa Bruto e Cassio avviarono la congiura contro Cesare e qui si sui-
cidò Porzia, la moglie di Bruto, dopo la sconfitta di Filippi.
Non sappiamo invece localizzare altre celebri ville napoletane, tutte ap-
partenute a illustri personaggi romani: L. Domitius Ahenobarbus (console

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nel 54), L. Iulius Caesar, L. Papirius Paetus – la villa poi passò a Servilia, ma-
dre di M. Iunius Brutus –, Q. Selicius, Iulius Menecrates, un Lucilius jr., P. Pa-
pinius Statius, L. Stertinius Quintilianus Acilius Strabo (degli inizi del II se-
colo d.C.), un Appius Claudius del III secolo. Notevole dovette essere quel-
la di Simmaco, il famoso Q. Aurelius Symmachus Eusebius console del 391,
che aveva una proprietà vicina a quella di suo genero, Virius Nicomachus
Flavianus; questi si offrì di collegare le nuove costruzioni di Simmaco alle
sue con una gemina porticus, continua e curva. Un altro suo vicino di villa
fu Caecina Decius Albinus (praefectus urbis, prefetto, nel 402), a cui forse
si deve la marcatura di una fistula usata per il restauro delle terme sotto il
monastero di Santa Chiara.
Colpita dal terremoto del 62 d.C. e dell’eruzione vesuviana del 79 d.C., la
città venne ristrutturata in epoca flavia ed antonina e nel II secolo d.C. fu og-
getto di un nuovo cambiamento istituzionale, con la trasformazione da mu-
nicipio in Colonia Augusta Antoniniana Felix Neapolis. La città di età impe-
riale continuò nella sua vita dignitosamente media: la decadenza del por-
to puteolano, manifestatasi sempre più intensamente a partire dagli inizi del
II secolo d.C., dopo la costruzione dei nuovi porti di Traiano a Ostia-Fiumi-
cino e a Centumcellae (Civitavecchia) e l’intensificarsi del fenomeno del bra-
disismo, dovette in qualche modo toccare anche Napoli, il cui porto si ali-
mentava indirettamente del commercio puteolano. Ma la crisi appariva a Na-
poli meno grave per la minor incidenza del commercio nella vita economi-
ca della città. La città era chiusa nella sua quieta atmosfera di centro di cul-
tura, nel quale confluivano, come racconta Stazio, folle di studenti dalla Lu-
cania, dalla Daunia e dalla Campania, letterati e atleti per le Italidi; accan-
to a questi, i colti ‘pensionati’ proprietari di ville descritti da Strabone: “ap-
prezzano specialmente il modo greco di vivere di Napoli quei pedagoghi che
si ritirano da Roma per cercare la tranquillità, o quelli che per la lunga età
e l’infermità desiderano vivere senza sforzo; frequentano inoltre felicemente
la città e vi prendono residenza anche alcuni Romani cui piace questa vita
guardando il gran numero di uomini colti come loro che ci vivono”. Che sia
descrizione di una situazione reale, collocata nel suburbio verso il mare, o
solo un’eccezionale prova di retorica, in questo clima culturale ben si col-

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loca la localizzazione a Napoli della galleria di pitture (Eikones o Imagines)
descritta da Filostrato di Lemno nel III secolo d.C.
Tra gli edifici risalenti a quest’epoca, le numerose terme, elemento impor-
tante di questo stile di vita. Il loro ricordo si conservava sia nel toponimo di
regio Thermensis dato nel Medioevo alla zona tra il Duomo e via San Nico-
la dei Caserti, sia in resti archeologici conservati, come il piccolo impianto
di vico I Carminiello ai Mannesi, di età medio-imperiale, eretto inglobando
nelle fondazioni i resti di un’insula di abitazione formata forse da varie case
di età repubblicana, rimaneggiato in età tardo-imperiale con l’adattamen-
to a mitreo di due tra gli ambienti del piano inferiore. Di ben maggiori di-
mensioni è l’edificio termale compreso all’interno del trecentesco conven-
to di Santa Chiara, situato in un’area che ricadeva al di fuori della cinta mu-
raria greca, ad ovest di una porta urbana. Il complesso, esteso oltre nove-
cento metri quadrati, e datato tra la metà e la fine del I secolo d.C., conservò
la sua funzione sino all’età tardo antica e rappresenta tuttora il più completo
esempio del genere in città.
La crisi economica venne progressivamente accentuandosi nei due secoli
successivi. Fino al IV secolo d.C., coincidendo ancora i confini dell’area ur-
bana con la città classica, i servizi della città appaiono oggetto di cure, come
mostra durante il IV secolo il restauro dell’acquedotto cittadino; ma nel se-
colo successivo si verificò un parziale abbandono dell’impianto viario, men-
tre ampie zone coltivate si disponevano all’interno dell’abitato e gruppi di
tombe occupavano le aree degli edifici crollati e non più restaurati. Un al-
tro segno evidente di decadenza è l’interramento in età tardoantica del por-
to nell’area della stazione della metropolitana di piazza Municipio; non più
dragato, né ripulito dei resti delle sistemazioni precedenti, il fondale si ricoprì
dei sedimenti apportati dalle acque torrentizie fino a sparire progressivamente.
Restava tuttavia una qualche cura per gli aspetti della difesa militare: nel
440 d.C., sotto Valentiniano III, la cerchia muraria fu ampliata nel lato oc-
cidentale (in direzione di piazza Bovio) a proteggere dalle invasioni gotiche
le aree extraurbane sviluppatesi in età romana verso il porto. Ed un ulteriore
sviluppo in questo settore si ebbe al tempo della guerra greco-gotica (535-
553), ad opera di Narsete, anch’egli spinto dalla necessità di proteggere il

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porto e la costa: nello stesso momento dovette essere costruita la nuova cor-
tina in opera listata di tufo su tutto il fronte a mare delle mura, rinvenuta di
recente nello scavo per la linea uno della metropolitana, tra l’inizio di via Duo-
mo e piazza Nicola Amore; su questo rifacimento della fortificazione si in-
nestarono delle torri pentagonali, tipiche dell’architettura fortificata bizan-
tina, una delle quali rinvenuta su corso Umberto.
Sull’avanzamento della linea di costa, tra il VI e il VII secolo fu costruita la
strada che doveva collegare la via per Palepoli con il nuovo fronte del por-
to. Accanto ad essa si è rinvenuta una tubatura di piombo su cui un’iscri-
zione ricorda che l’opera di ripristino delle condotte idriche era stata realizzata
da un patricius ed ex console Agapitos, di una gens già nota nell’Italia teo-
doriciana, il quale avrà certo rivestito un ruolo importante nella Napoli del-
l’epoca. Non siamo comunque lontani da quell’anno 598 in cui papa Gre-
gorio Magno scrisse una lettera al vescovo di Napoli ordinandogli di resti-
tuire la cura dell’acquedotto e delle porte cittadine alle autorità civili.
Ma siamo ormai in un’altra storia, quella di Napoli bizantina, la città delle
chiese paleocristiane con i magnifici mosaici di stile costantinopolitano, le
catacombe con i santi martiri, la sua liturgia consacrata nel famoso calen-
dario marmoreo da San Giovanni Maggiore, un ducato che svolgerà un ruo-
lo di primo piano tra i potentati di scala regionale e che farà maturare quel-
le condizioni che porteranno i Normanni e poi gli Svevi a scegliere la “pic-
cola città” come centro continentale del loro regno e infine gli Angioini a
farne la loro capitale.

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