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WP1 Storia
WP2 Topografia nel corso dei secoli
WP3 Presentazione dinamica del rilievo 3D con il laser-scanner
WP4 Vista virtuale delle cavità
WP5 Evoluzione del rapporto tra la cavità
WP6 Aspetti e problematiche di natura geologica
WP7 Metodologie di estrazione
WP8 Metodi di trasporto sui luoghi di utilizzazione dei materiali
WP9 Le più importanti opere realizzate con il piperno della cava di Pianura
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WP1 Storia
Lungo il versante occidentale della collina dei Camaldoli, ad una quota di circa
210 metri, nei pressi della Masseria del Monte, si apre la galleria della cava di
Pianura (1).
Il piperno è uno dei prodotti vulcanici caratteristici della Campania, comunemente
usato nelle opere architettoniche soprattutto a partire dal XV secolo. Fino alla
metà del XX secolo era opinione prevalente che il piperno fosse stato prodotto
da un solo vulcano dei Campi Flegrei, il cosiddetto vulcano di Soccavo, ubicato
al bordo della caldera Archiflegrea, ai piedi della collina dei Camaldoli. Gli scavi
eseguiti dalla Commissione per lo studio del sottosuolo di Napoli, i cui risultati
sono stati pubblicati nel 1967 a cura del Comune di Napoli, hanno permesso,
però, di rinvenire lembi di piperno in diverse aree della zona urbana napoletana,
inducendo a formulare l’ipotesi che il piperno, più che il prodotto esclusivo di un
unico vulcano, sia da considerarsi frutto di un’attività eruttiva di diverse formazioni
vulcaniche (2). Varie cave di piperno, tutte sotterranee e ormai abbandonate, sono
presenti lungo i fianchi della collina dei Camaldoli, nei territori di Pianura e
Soccavo, ai margini della regione flegrea, nella zona boschiva ai confini degli
Astroni (3). La conca di Pianura comunica con Soccavo tramite la Cupa Fredda
percorsa dalla via romana che, partendo da Napoli, raggiungeva la via Campana.
Il più antico collegamento viario tra Cuma e Neapolis, databile al V sec. a.C.,
escludeva, infatti, la fascia costiera flegrea e si sviluppava attraverso Pianura e
Soccavo con diramazioni verso Quarto e Qualiano.
Poco si conosce delle vicende più antiche del territorio di Pianura che, come tutta
l’area dei Campi Flegrei, nei tempi preistorici e protostorici era ancora investita
da una significativa attività vulcanica che doveva rendere instabile l’orografia dei
luoghi e abitabili soltanto zone limitate (4). L’ultimo periodo eruttivo, databile a
2500-1500 anni fa, che ha interessato i territori di Agnano, Monte Spina, Astroni,
Solfatara-Olibano, Averno e Miseno, ha, inoltre, cancellato i resti di eventuali più
antichi insediamenti (5). Un’occupazione stabile del territorio è documentata dalle
tracce delle popolazioni riferibili alla cosiddetta “cultura del Gaudo”, databili tra
il 2500 e il 1500 a.C., ritrovate nell’arcipelago flegreo (Lacco Ameno ad Ischia),
sul monte Sant’Angelo e in una cava di pozzolana a Licola (6). All’età del bronzo
risalgono, invece, gli insediamenti preistorici di Vivara e della Montagna Spaccata,
nonché frammenti di ceramica d’impasto rinvenuti sul monte Gauro e nella piana
6 Portale monotematico sulle cavità di Pianura
di Quarto (7). Documentano, inoltre, la fase preellenica di Cuma gli scavi condotti
nel 1878 e il 1896 dal colonnello Stevens, appassionato collezionista, e nel 1903
dall’avvocato Ernesto Osta, le cui raccolte rivestono particolare importanza per
lo studio dell’età del ferro nel territorio flegreo (8). Alcuni studiosi ipotizzano una
frequentazione già in età preromana delle numerose grotte del territorio,
successivamente trasformate in cave (9).
Se l’abbondanza di dati materiali provenienti dalle necropoli di Cuma consente
di delineare il contesto sociale da cui prende avvio la diffusione della cultura
greca in Occidente dopo la fondazione della colonia di Kymae (Cuma) intorno al
725 a.C., l’estrema povertà di dati relativi all’area urbana e al territorio rende
particolarmente ardua la ricostruzione dello sviluppo della città e delle modalità
di controllo dell’area. L’acropoli di Cuma è destinata ad accogliere le aree sacre,
ma svolge, nello stesso tempo, una funzione di roccaforte per il controllo della
vasta piana circostante. Secondo Dionigi d’Alicarnasso l’area controllata da Cuma
si estendeva per gran parte della pianura campana e sulla costa di Miseno.
Strabone riporta che il golfo di Napoli era chiamato “cumano” e che la colonia
fondata nel 531 nell’attuale rione Terra a Pozzuoli ricadeva nel territorio cumano
(10). Sulla collina di Pizzofalcone, inoltre, era stanziata una colonia di cumani
che controllava tutta la costa e la piana circostante, documentata da un gruppo
di tombe rinvenute nel 1949 in via Nicotera che conferma l’ipotesi tradizionale
dell’ubicazione di Partenope sul colle di Pizzofalcone (11). La nuova città, nata
da fondatori cumani, si consolidò con il sostegno dei siracusani guidati dal tiranno
Hierone, al quale i cumani avevano chiesto soccorso contro gli Etruschi. Prova
dell’influenza siciliana è il rinvenimento di monete ateniesi e siracusane nel
ripostiglio numismatico rinvenuto a Pianura nel 1844 (12).
Nel IV secolo a.C. il territorio di Napoli comprendeva la parte orientale dei Campi
Flegrei e le isole; il limite occidentale era costituito dai colli Leucogei, dalle pendici
della Solfatara verso la conca di Agnano e, più a sud, dalla sella tra il monte
Olibano e la Solfatara. Più a nord anche Pianura rientrava nella sfera territoriale
di Napoli, come dimostrato dal rinvenimento di un termine prediale di età romana
(13).
Napoli non aveva facili comunicazioni con i Campi Flegrei: l’unico valico naturale
era costituito dalla Sella di Antignano che segna il limite tra l’Arenella e il Vomero.
Come disegnato nella Pianta della viabilità antica pubblicata nel 1952 da
Johannowsky (14) fig. 1, due erano i principali assi di collegamento tra Neapolis
e l’area occidentale: l’uno che, attraverso il vallone corrispondente all’attuale via
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nonché un cippo di tufo con iscrizioni di età repubblicana furono, inoltre, rinvenute
in una vigna di Pianura di proprietà di Catello Fusco (19). Nelle Notizie storiche
di Pianura, pubblicate nel 1914, si riporta che nel palazzo dei conti di Pianura si
potevano osservare due marmi sepolcrali con iscrizioni (20) fig.2 e fig. 3. Lorenzo
Giustiniani nel 1804 attesta l’esistenza nel territorio di Pianura di resti archeologici,
tra cui “gli avanzi di un acquidotto”, sepolcri e monete, nonché due marmi
sepolcrali che non giudica, però, significative testimonianze dell’esistenza di
Pianura o Chianura in epoca romana (21). Lo storico ritiene, infatti, contro
l’opinione del Galdi - autore di una Dissertazione sull’Antichità di Pianura – che
la presenza di reperti di epoca romana fosse da riferirsi agli interessi di antiquario
e collezionista di Francesco Enrico Grasso, conte di Pianura, che nel cortile del
palazzo baronale ospitava una personale raccolta di oggetti antichi (22). Il Beloch
indirettamente riferisce dell’esistenza di un vero e proprio museo del conte di
Pianura, ove erano conservati anche disegni e rilievi delle mura urbane di epoca
romana rinvenute nel centro di Napoli (23). La recente attività di ricognizione del
gruppo archeologico napoletano ha evidenziato la presenza, nel territorio di
Pianura, di un gruppo di cisterne inglobate in una masseria, costruite in opus
reticulatum e in opera laterizia rivestita di cocciopesto, nonché di un mausoleo
funerario detto “del Polo artigianale” fig. 4.
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Negli anni tra il I e II secolo d.C. Roma varò un piano di rinnovamento della rete
stradale del territorio Flegreo che contemplava anche il restauro della via Puteolis
Neapolim – documentato dalle iscrizioni dei miliari rinvenuti lungo il percorso,
di cui si conserva quello ritrovato presso Soccavo fig. 5 - e il miglioramento del
suo tragitto attraverso la creazione di una variante nella conca di Agnano (102
d.C.) per sostituire un tratto più antico, ma meno agevole, che seguiva con forti
pendenze l’andamento collinare (24). Le nuove infrastrutture stradali contributirono
a dare impulso allo sviluppo della zona di Fuorigrotta, Agnano e Pianura.
Anche se l’età medioevale segnò il declino di gran parte del territorio flegreo,
l’area tra Naepoli e Puteoli continuò ad essere frequentata, come sembrano
documentare sporadiche testimonianze archivistiche che riportano i toponimi
delle località situate nei pressi di Pianura.
Nel VII secolo il territorio di Pianura viene donato da Arechi II duca di Benevento
alla chiesa di San Gennaro ad corpus, eretta presso le mura della città di Napoli
(25). Nel X secolo le istituzioni monastiche della città di Napoli divennero
protagoniste di una complessa riorganizzazione economica e territoriale dell’area
occidentale, nel momento di passaggio dall’osservanza greca alla latina. Le
donazioni superstiti nei documenti d’età ducale registrano concessioni e vendite
dei terreni di Pianura alla congregazione della chiesa di San Pietro, al monastero
di San Sebastiano di Napoli, al monastero dei SS. Sergio e Bacco e, infine nel XII
secolo, al monastero di San Gregorio Maggiore di Napoli (26).
Nei Monumenta ad Neapolitani Ducatus Historiam pertinentia pubblicati a cura
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di Bartolomeo Capasso è riportato che non molto distante da Soccavo poco ultra
erat Pianura nescio cur major et aliquando ad S. Donatum appellata, atque locus
Prepontianum (27) e, nell’apparato di documenti allegato, sono trascritti alcuni
atti amministrativi del X secolo che attestano la presenza nell’area di grotte
naturali, probabilmente utilizzate come depositi di derrate o materiale: cum gripti
è riportato in una donazione del 996 (28). L’esistenza di cave legate ad uno
sfruttamento delle risorse litoidi emerge sporadicamente nella documentazione
medioevale a partire dalla fine del XIII secolo. Anche se non direttamente riferita
alla zona di Pianura una cava comunale è ricordata in un atto del 1271, la cava
de Olibano nel 1328 (29).
A tale epoca è riferita dal De Criscio la fondazione dell’originario nucleo urbano
di Pianura formato dall’addensarsi delle abitazioni degli operai addetti all’attività
estrattiva delle cave del territorio (30). Nei documenti di epoca angioina il territorio
appare, infatti, ampiamente modificato da stabili nuclei urbani: il toponimo
Planura o Planura majoris è usato per indicare una villa, ossia un più ampio
insediamento de pertinentiis Neapolis; accanto ad esso compaiono diverse località:
Iulianellu, ad Sanctu Nicola, ad Romanos.
Pianura, agli inizi del XIV secolo è attestato come casale della città di Napoli,
collegato ad essa da una via di comunicazione, che nel 1307 viene disposto da
re Carlo II d’Angiò di riparare poiché ruinata ex tempestate aquarum (31). Tale
arteria stradale, secondo la testimonianza del Giustiniani, veniva utilizzata
soprattutto per il trasporto nella capitale partenopea di pietre di piperno, prodotto
tipico dell’attività estrattiva dell’area di Soccavo e Pianura largamente impiegato
nella costruzione degli edifici in epoca angioina e aragonese (32). Giuseppe De
Criscio nel suo saggio sul Comune di Pianura elenca alcune opere architettoniche
napoletane nelle quali è attestato l’uso del piperno della cava di Pianura, tra cui
la chiesa di Santa Maria delle Grazie a Caponapoli, oltre a numerosi edifici
residenziali che utilizzarono tale materiale costruttivo per gli elementi decorativi
degli interni e dei prospetti (33). Un particolare sviluppo ebbe, infatti, in età
aragonese l’attività estrattiva nelle cave di Pianura e Soccavo che fornivano il
piperno utilizzato nella nuova murazione della città.
L’entroterra napoletano, in particolare, fu luogo di intensa frequentazione da
parte della corte aragonese e oggetto di interessanti interventi per la realizzazione
di opere infrastrutturali a carattere territoriale sin dalla metà del XV secolo (34).
A tal riguardo basti consultare le località citate nelle Effemeridi del Leostello,
dove sono documentate cavallerizze reali a Caserta e a Marcianise e, tra i luoghi
12 Portale monotematico sulle cavità di Pianura
utilizzati a scopi venatori, sono nominati per la caccia al cinghiale Arnone, Eboli,
Pianura, Marianella e Giugliano, al cervo Quarto, alle volpi e lepri Foggia e
Cerignola, Pianura per le quaglie, Cuma, Pozzuoli, Monte di Procida per varie altre
cacce (35).
Secondo Bernardo Quaranta, Ferrante d’Aragona fu il primo che “usasse all’opera
del fortificare la pietra detta piperno delle lave di Succavo e Pianura (36), ma
alcuni studiosi hanno notato che di certo anteriore è l’uso del piperno nelle opere
napoletane di architettura civile e religiosa, come dimostrato dal rivestimento
esterno e dalla balaustra interna dell’ospedale della Pace (37).
Con il governo vicereale si registra un tentativo di recuperare le vaste zone incolte
e malariche nelle aree pianeggianti e nelle conche crateriche del territorio flegreo,
ma solo con i Borbone si attuerà un più ampio programma di bonifica della Terra
di Lavoro (38).
Recenti studi riportano brani di documenti che sembrano attestare l’uso del
piperno di Pianura in epoca borbonica nel Real Palazzo di Capodimonte; in
particolare si trascrive ”I piperni e i travertini di gran mole che servivano all’edificio,
essendo delle cave di Pianura, terra posta al di la della montagna di Posillipo
verso Pozzuoli, ebbero con immensa fatica ad essere condotti sulla vetta del
monte allora priva di una comoda ed ampia strada” (39).
Gli studi scientifici dedicati all’analisi della fenomenologia vulcanica, sviluppatisi
soprattutto a partire dalla fine del XVIII secolo, registrano un particolare interesse
per le cave di piperno del territorio di Soccavo e Pianura, fornendo indirette
testimonianze sullo stato dei luoghi a quell’epoca. In particolare Lazzaro Spallanzani,
biologo e professore di storia naturale, pubblicò nel 1825 una relazione sul viaggio
compiuto nel 1788 sui vulcani attivi in Italia, dedicando più di un capitolo all’area
flegrea da lui visitata insieme all’abbate Scipione Breislak, direttore della Solfatara
e professore di mineralogia (40). Quest’ultimo nel 1798 diede alle stampe la
Topografia fisica della Campania nella quale osserva che dal secondo cratere di
Napoli, ossia da Capodimonte, parte il monte delle Donzelle che è una collina
sviluppata nella direzione occidentale la quale forma un considerabil risalto che
dicesi il monte de’ Camaldoli (41). Tra Capodimonte e i Camaldoli, continua
l’abbate, vi è un vasto cratere intermedio, le cui pareti sono in gran parte composte
di pomici e di sostanze incoerenti. L’aspetto dei luoghi è caratterizzato da profondi
valloni, scavati dalle acque fluenti, e dalla presenza dell’eremo dei Camaldoli, da
cui deriva la toponomastica dell’area. A sud ovest di questo cratere vi è quello
di Soccava e ad ovest quello di Pianura. Dai due crateri di Soccavo e Pianura,
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riporta lo studioso, è sortita quella lava di cui si fa molto uso nelle fabbriche
napoletane, meglio conosciuta come piperno. “Essa trovasi nella parte inferiore
della montagna, mentre la superiore è composta di tufo in cui sono racchiuse
frequenti pomici bianche e pezzi erratici di lave. Il Piperno trovasi in un masso
unito come appunto deve essere una corrente di lava. Non ho potuto determinare
la sua altezza, ma credo, che non ecceda i 25 piedi. Poiché le persone addette
allo scavo tagliano la pietra sino alla profondità di 20 piedi, passati i quali trovasi
la pietra stessa fragile, di poca coerenza e che è perciò dagli architetti si rigetta.
Da questo ne segue, che non è possibile il vedere su qual materia posa il Piperno”.
Lo studioso esamina nei dettagli la composizione del piperno della cava di Pianura
notando che si differenzia nettamente dal peperino dei colli Albanesi e Tusculani.
Al piperno di Pianura dedica un’analisi petrografica Guglielmo Guiscardi, primo
titolare della cattedra di geologia presso l’Università di Napoli, nella relazione
letta nella regia Accademia di Scienze Fisiche e Matematiche di Napoli il 10
agosto 1867 (42). In essa si riporta che è possibile ritrovare il piperno alla profondità
di 90-100 palmi sull’intero dorso di Posillipo e del Vomero in molti luoghi “nel
cavare pozzi”, a Monte Spina presso il lago d’Agnano e sotto ai Camaldoli presso
Pianura e Soccavo “nelle grandi cave che provvedono Napoli d’una delle sue
piuttosto dure pietre da taglio” (43).
Nella seconda metà dell’Ottocento l’estrazione del piperno nelle cave di Pianura
è ancora documentata: nel 1872 vi lavorano 26 operai per 200 giornate lavorative
annue. Ma già nei primi decenni del Novecento a Pianura risulta attiva una sola
cava, da cui nel 1931 vengono estratte 180 tonnellate di piperno (44). Di quest’unica
cava, nel 1935, è attestata una saltuaria attività estrattiva eseguita con tecniche
ormai vetuste (“ancora tutta a mano”) e con alti costi, limitata alla fornitura di
piperno per i restauri di Castel Nuovo e per la Galleria della Vittoria (45).
note
(1) Rilievo geologico dei Campi Flegrei, estratto da «Bollettino del Servizio Geologico d’Italia», vol.
76, Roma 1955, pp. 155-156.
(2) Il sottosuolo di Napoli, Relazione della Commissione di studio, Napoli 1967, pp. 41-42.
(3) Gianni Picone, Da Posillipo a Cuma. Scienza, mito, storia e archeologia sui Campi Flegrei, Napoli
1981, p. 145.
(4) Su Pianura cfr. Nicola Del Pezzo, I Casali di Napoli, in «Napoli Nobilissima», I, 1892, p. 92; Domenico
Chianese, I casali antichi di Napoli, Napoli 1938; Gregorio E. Rubino, Pianura, in Cesare De Seta, I
14 Portale monotematico sulle cavità di Pianura
996 23 agosto: Iohannes Gige et Petrus De Mauro habitator in loco qui vocatur
Prepontianum, territorio planaria maiore, ricevono da D. Filippo igumeno del
monastero dei SS. Sergio e Bacco tres petias de terra posita in loco, qui vocatur
Campana, territorio Puteolano, una cum puteo aque vive et cum gripti et cum
introitas suas. (Monumenta, II, pp. 180-181).
1196 6 maggio: Cartula venditionis con la quale Gaita, figlia del fu Sergio de
Cancellum vende ad Anna, monaca nel monastero di San Gregorio Maggiore di
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Napoli, una terra campisi sita in loco qui nominatur Planura Maiore, nel luogo
detto As media planuria. (R. Pilone, Le pergamene di San Gregorio Armeno (1141-
1198), Salerno 1996, pp. 132-134).
Sec. XIII: a tale epoca è riferita dal De Criscio la fondazione dell’originario nucleo
urbano di Pianura formato dall’addensarsi delle abitazioni degli operai addetti
all’attività estrattiva delle cave del territorio. (G. De Criscio, op. cit., p. 6).
1245 A tale data viene riferita l’inizio dello sfruttamento delle cave di Pianura.
(R. Mele, S. Varchetta, op. cit., p. 70)
1299-1330 Nel registro di Guillelmi de’ Recuperantia capitano della città di Napoli
è riportato che Pianura, tra i casali di Napoli posti sotto il governo del magistrato
Johannis de Oferio, è tenuta al pagamento di “tareni duo”. (I fascicoli della
Cancelleria Angioina ricostruiti dagli archivisti napoletani, vol. I, Napoli 1995, p.
20).
1319 In un diploma di Carlo Duca di Calabria è registrato item petia terre sita in
loco ubi dicitur ad Romanos super villam Planure majoris, de pertinentiis Neapolis.
(Registri ..anno 1319 e 1320, f. 145).
1464 Evaristo di Sanseverino, maestro di pietre, stima alcuni lavori in piperno che
maestro Rubino Cioffo esegue per le case di Angelo Como in Napoli. (Prot. di Not.
Raguzzo a. 1464, a c. 22; da G. Filangieri, Indice …cit., vol. II, p. 417).
1470 Dalla cava di Pianura viene estratto il piperno necessario per la costruzione
della chiesa di Santa Maria delle Grazie a Caponapoli. (G. Filangieri, Indice, IV,
p. 60).
1487 12 luglio: Luigi Cossa di Napoli, piperniere, vende a messer Antonio Latro
una partita di piperni per le nuove mure della città di Napoli. (Prot. di Not.
Francesco Russo a. 1487, a c. 149; da G. Filangieri, Indice …cit., vol. I, p. 143).
20 Portale monotematico sulle cavità di Pianura
1488 11 febbraio: Luigi Cossa di Napoli, piperniere, vende ad Antonio Latro per
la ragione suddetta palmi 20000 di piperno. (Prot. di Not. Francesco Russo a.
1487, a c. 149; da G. Filangieri, Indice …cit., vol. I, p. 143).
Francesco Russo a. 1493-94 a c. 193; da G. Filangieri, Indice …cit., vol. II, pp. 132-
134).
1495 24 giugno: Luca de Franco di Napoli, piperniere, conviene col Rev. Petruccio
di Barletta, priore del monastero di S. Pietro a Majella, di vendergli la pietra di
piperno occorrente al compimento della fabbrica della chiesa. (Prot. Di Not. Cesare
Malfitano a. 1494-1495, a c.274; da G. Filangieri, Indice …cit., vol. I, p. 232).
1497 30 gennaio: Luca de Franco di Napoli, piperniere, vende a Franco della Gatta
per la sua casa in Napoli una porta in Piperno e sei finestre del pari di piperno,
la porta per ducati16 e le finestre per ducati 5 ciascuna. (Prot. Di Not. Cesare
Malfitano a. 1494-1495, a c.274; da G. Filangieri, Indice …cit., vol. I, p. 232).
WP1 | Storia 23
1504 17 luglio: Salvatore Sacrera, piperniere, vende piperni lavorati a messer Vito
Pisanelli per le sue casa in Sedile di Montagna nella Parrocchia di Sant’Angelo
a Segno in Napoli. (Prot. di Not. Giovanni Majorano a. 1503-04, a c. 189; da G.
Filangieri, Indice …cit., vol. II, p. 438).
1545 5 giugno: Pier Francesco di Napoli, piperniere, conviene con messer Sigismondo
di Orlando di Napoli di vendergli tutta quella quantità di piperni necessari alla
costruzione delle sue case. (Prot. di Not. Giov. Giacomo Cavaliere a. 1544-45, a
c. 307; da G. Filangieri, Indice …cit., vol. II, p. 211).
WP1 | Storia 25
1545 13 novembre: Martino Vitale di Napoli, piperniere, contratta con Pinelli per
la fornitura e lavoratura di piperni occorrenti alla costruzione di una villa a
Giugliano. (Prot. di Not. Pietro Cannabario a. 1544-45, a c. 69; da G. Filangieri,
Indice …cit., vol. II, p. 513).
1560 12 marzo: Giovan Antonio de Siano di Napoli, piperniere, vende alle suore
di San Gaudioso di Napoli quella quantità di piperni bianchi lavorati necessari
al lavoro di una porta simile a quella di Santa Maria delle Grazie Maggiore di
Napoli. (Prot. di Not. Giacomo Aniello della Porta a. 1560-76, a c. sn; da G.
Filangieri, Indice …cit., vol. II, p. 443).
1601 5 giugno: Il rettore della Chiesa di Santa Maria degli Angeli a Pizzofalcone
lamenta grosse difficoltà a reperire il materiale lapideo necessario al completamento
della chiesa perché tutto il piperno che si cavava a Pianura e Soccavo era utilizzato
per la costruzione del palazzo reale ( R. Ruotolo, Documenti sulla chiesa di S.
Maria degli Angeli a Pizzofalcone, in «Napoli Nobilissima», VII, 1968, pp. 219, 222).
publiees pour la premiere fois sur le manuscrit de l'auteur, suivies de son voyage
de Paris a Rome en 1630, Paris 1881).
1637 5 giugno: Pianura è compresa tra i casali della città di Napoli che presentarono
una protesta al vicerè contro l’editto che consentiva la vendita dei casali demaniali.
(R. Mele, S. Varchetta, op. cit., p. 72).
1670 Pianura rientra tra i XXVII casali di Napoli, cui erano riconosciuti privilegi
relativi alla tassa del focatico. (G. De Criscio, op. cit., p. 6).
1678 Il casale di Pianura viene venduto in feudum dalla Real Camera della
Sommaria per 5800 ducati al barone D. Francesco Antonio Grasso (o Grassi);
vendita ratificata con real assenso nel 1688. (G.E. Rubino, Pianura, in C. De Seta,
I casali di Napoli, Roma-Bari 1984, p. 102).
1680 Al barone D. Francesco Antonio Grasso succede il figlio Lorenzo Grasso. (G.
De Criscio, op. cit., p. 6).
1711 Diviene barone di Pianura Bartolomeo Grasso, conte Palatino del Sacro
Roamno Impero. (R. Mele, S. Varchetta, op. cit., p. 76).
1732 Giuseppe Coppola è regio governatore del casale di Pianura. (G. De Criscio,
op. cit., p. 13).
1739 22 ottobre: secondo il Giustiniani a tale data risalirebbe una frana fra le
più memorabili della cava di Pianura, che provocò la morte di undici operai addetti
allo scavo di piperno per le fabbriche di Capodimonte e Portici rimasti intrappolati
30 Portale monotematico sulle cavità di Pianura
1741 Papa Benedetto XIV dona al rev. Gennaro Sperandio alcuni benefici
ecclesiastici, tra cui quelli di San Giorgio Martire a Pianura. (R. Mele, S. Varchetta,
op. cit., p. 79).
1749 2 marzo: decreto reale che costituisce in ente morale la Congrega del SS.
Rosario di Pianura. (G. De Criscio, op. cit., p. 13).
1796 Nel Dizionario del Sacco è riportato che “ne’ contorni di questo Casale v’è
un cratere di volcano estinto, e nelle colline, che guardano l’occidente di questo
stesso cratere vi sono le pietraje, d’onde si cava il piperno, ch’è una pietra volcanica
fatta da rottami di lave a base di pietra di selce con frammenti di feldispato”. (F.
Sacco, Dizionario geografico-istorico-fisico del regno di Napoli, Tomo III, Napoli
1796, p. 59).
1797 Viene eletto vescovo di Pozzuoli Carlo Maria Rosini. (R. Mele, S. Varchetta,
op. cit., p. 88).
1804 Nel Dizionario del Giustiniani Pianura è descritta come “un villaggio assai
infelice” ove si respira “un’aria veramente micidiale ne’ tempi estivi. I suoi naturali
ascendono a circa 1800, parte addetti all’agricoltura, e parte al trasporto delle
pietre di piperno, che tagliansi da quelle colline tenute in affitto da’ nostri maestri
pipernieri da’ padroni delle medesime”. (L. Giustiniani, op. cit., p. 177).
1806 Nicola Cecere è il Regio Governatore di Pianura. (G. De Criscio, op. cit., p.
6).
1881 Il Comune di Pianura conta 3687 abitanti e viene segnalato nel Dizionario
Universale per la presenza delle cave di piperno e di ruderi di antichità romane.
(E. Treves, G. Strafforello, Dizionario Universale, Milano 1881, vol. II, p. 1663).
1967 Nella Relazione della Commissione per lo studio del sottosuolo di Napoli,
pubblicata a cura del Comune di Napoli, si riporta che le cave del territorio di
Pianura e Soccavo sono quasi tutte in disuso e pericolanti e che l’estrazione del
piperno è limitata a casi piuttosto rari, dettati quasi esclusivamente da necessità
legate all’utilizzazione per interventi di restauro (Il sottosuolo di Napoli, Relazione
della Commissione di Studio, Napoli 1967, p. 42).
WP2 | Topografia nel corso dei secoli 33
L’analisi topografica dei territori alle pendici dei Camaldoli - esperita attraverso
la lettura comparata di diverse iconografie e cartografie che documentano l’area
occidentale di Napoli dal Seicento al Novecento - ha permesso di evidenziare la
profonda relazione tra i luoghi agresti, gli insediamenti e le attività estrattive del
piperno, dei tufi e della pozzolana che, con continuità nei secoli, sono stati coltivati
nelle numerose cave a cielo aperto e in galleria.
In relazione alla geografia dell’area occidentale napoletana, la dorsale di Posillipo,
la collina del Vomero e quella dei Camaldoli possono essere interpretate come
elemento di confine tra Napoli e i Campi Flegrei. Un continuum orografico alle
cui pendici, in ragione anche di questa particolare condizione e dei risvolti socio-
economici ad esso riconducibili, si sono sviluppati i centri abitati di Fuorigrotta,
Soccavo e Pianura.
Facendo ricorso alla toponomastica locale è immediato il legame tra il titolo del
borgo di Soccavo e l’attività estrattiva in quei luoghi tanto che nei documenti di
età ducale, riportati da Bartolomeo Capasso (1) fig. 1, l’abitato è indicato come
riscontrabile nella zona fino agli anni cinquanta del Novecento (8). Questo
elemento simbolico peraltro servì a rafforzare l’identità del casale alle attività
estrattive del piperno: la torre sorgeva a poca distanza dagli ingressi alle cave e
sul percorso carrabile utilizzato per l’accesso ed il trasposto a valle delle masse
litoidi. Inoltre il suo toponimo è riferibile alla famiglia de Franco (9) che dalla
lettura di vari documenti d’archivio, risulta essere stata protagonista delle attività
estrattive nella zona. Nelle rappresentazioni pseudo-cartografiche prese in esame,
l’abitato di Pianura non fu riportato in quanto posto a settentrione della collina
camaldolese e quindi nascosto al punto di vista prescelto.
Il particolare ruolo di territorio di frontiera tra Napoli e Campi Flegrei, caratterizzante
l’area pedemontana dei Camaldoli, è altresì riscontrabile nell’articolata rete viaria
che nel corso dei secoli è si andata ramificando sui crinali e attraverso le colline
tra i maggiori centri abitati della regione.
La rete viaria utilizzata nei quattro secoli di commercializzazione del piperno
ricalcava quella disegnata sul territorio tra Pozzuoli, Napoli e l’entroterra campano
in epoca classica (10): una serie ramificata di diverticoli tra i quali emergevano
per funzionalità e percorribilità la via per colles (detta anche via Antignano) e
quella attraverso la crypta neapolitana, collegamenti terrestri, solo in parte selciati
logisticamente più affidabili (11), ai quali si affiancava il trasporto marittimo tra
il porto puteolano, quello napoletano e gli altri che punteggiavano la costa
campana e basso laziale. La rete infrastrutturale fu migliorata e potenziata a
partire dal Quattrocento quando in Napoli vi fu una epifania edilizia legata
all’avvento dei sovrani di Aragona che vide utilizzare in larga copia la pietra di
piperno insieme agli altri materiali di cava dell’area flegrea (12).
La via per colles, come evidenziato dalle fonti e dalle indagini archeologiche (13),
univa Pozzuoli a Napoli attraverso Agnano (al cui toponimo è da ricondurre la
radice etimologica della via (14)) seguendo le creste collinari con un percorso
non certo agevole caratterizzato da forti dislivelli ed un andamento tortuoso.
Caratteristica logistica che poco si prestava al trasporto di materiale voluminoso
e pesante: è da presumere che il piperno venisse trasportato dalle cave alla Città
(così come gli altri materiali litoidi da costruzione e le merci di notevole peso)
attraverso la crypta neapolitana detta anche Grotta di Posillipo.
La crypta, opera ingegneristica romana, fu scavata nel I sec. aC su progetto di
Lucio Cocceio Aucto (15), al di sotto del promontorio di Posillipo mettendo in
comunicazione la città di Napoli con il tracciato pedemontano della via Antignano
presso l’abitato di Foris Grypta (Fuorigrotta) escludendo il più articolato percorso
collinare. Fin dalla sua realizzazione, la galleria carrabile fu costantemente
WP2 | Topografia nel corso dei secoli 39
utilizzata per i collegamenti tra i Campi Flegrei e la città di Napoli subendo via
via nel corso dei secoli opere di manutenzione e di ristrutturazione per adeguare
il percorso sotterraneo alle diverse esigenze logistiche. Ciò accadde anche in
concomitanza con l’epifania architettonica aragonese e la crescente domanda di
piperno per i cantieri regi: verso la metà del Quattrocento vennero aperte alcune
bocche d’aereazione per garantire il riciclo d’aria nella cavità che poteva essere
interessata - come le altre in area flegrea - da esalazioni venefiche ed inoltre fu
abbassata la quota stradale di circa tre metri, modificando così la pendenza media
su tutto il tratto sotterraneo. Opere di sistemazione e di continuo adeguamento
alle necessità logistiche furono realizzate costantemente in età vicereale, borbonica
e post-unitaria. Tra i più importanti interventi sono da ricordare quelli del vicerè
don Pedro de Toledo che, ristrutturando l’abitato di Pozzuoli in seguito all’eruzione
di Monte Nuovo del 1538, volle lastricare e aumentare in alcuni tratti la sezione
della galleria (16).
Alla metà del Cinquecento, la crypta e diversi scorci del paesaggio flegreo furono
riprodotti nell’Atlante Civitates Orbis terrarum del canonico Georg Braun edito
a Colonia tra il 1572 e il 1617. Nel quinto volume, la tavola 65 dal titolo
Elegantissimus ad mare Tyrrenum fig. 8 (su incisione di Ioris Hoefnagel) riprende
prosegue per la Cintia - alle pendici dello Sperone della Pagliarella - e punta in
linea retta verso la Tavernola (toponimo non trascritto in pianta). Questa strada
continua risalendo le pendici del costone di Pianura passando per Masseria Spadari,
per lo Mandracchio fino al Nazaret; da qui le curve di livello sfumano verso nord
per poi essere nuovamente delimitate dalla strada che dai Camaldolilli scende
verso Villa Mongibello per poi finire su Riviera di Chiaja seguendo la pedemontina
che scende a mare. La linea di costa della spiaggia di Mergellina chiude il disegno
alle pendici della collina di Posillipo sul versante cittadino.
Nel disegno monocromatico, così delineato, è identificabile la fitta rete di percorsi
che attraversavano i luoghi pianeggianti e si adagiavano ai rilievi collinari; percorsi
oggi solo in minima parte riscontrabili sul territorio. Grazie ad una scala di
rappresentazione molto ampia, nel disegno sono riportati tutti i manufatti urbani
e quelli extraurbani accompagnati dai toponimi utili alla loro identificazione a
paragone con le più recenti mappe topografiche.
Nell’area oggetto del presente studio, sono identificabili la Masseria del Monte
con il percorso pedemontano che mena alla cava e quindi alla Masseria Pagliarello.
Inoltre, dato ben più interessante, la zona estrattiva ai piedi del Nazaret già
riscontrata nelle Carte di Carafa e La Vega è riportata con grande dovizia di
WP2 | Topografia nel corso dei secoli 49
note
(1) Bartholomaei Capasso, Monumenta ad neapolitani ducatus historiam pertinentia, Neapoli 1892,
tomo ii, parte i, pp. 88, 102, 180; tomo ii, parte ii, pp. 172-174, 183-187.
(2) Alessandro Baratta, Fedelissimae urbis neapolitanae cum omnibus viis accurata et nova delineatio
aedita in lucem ab Alexandro Baratta MDCLXX, 1670.
(3) Francesco Cassiano de Silva, Pianta della Città di Napoli e de suoi borghi, ante 1699. Ornella
Zerlenga, Il disegno della città. Napoli rappresentata in Pianta e Veduta in «Ikhnos. Analisi grafica e
Storia della Rappresentazione», Università degli studi di Catania Facoltà di Architettura Siracusa,
Lombardi Editori, Siracusa 2004, pp. 11-34; Giosi Amirante, Maria Raffaella Pessolano, Immagini di
Napoli e del Regno. Le raccolte di Francesco Cassiano de Silva, ESI, Napoli 2005.
(4) Gabriel Bodenehr, Napoli da Curioses Stadts und Kriegs Theatrum in Italien, 1720.
(5) Johan Bapt. Homan, Urbis Neapolis Cum praecipius eius aedificiis secuundum planitiem exacta
delineatio …, 1727.
(6) Paolo Petrini, Pianta ed alzata della città di Napoli, 1748.
(7) Antonio Parancandola, I vulcani occidentali di Napoli in «Bollettino della Società Naturalistica in
Napoli», vol. 48, Napoli 1936; Giuseppe De Lorenzo, Geologia dell’Italia meridionale, Bari 1904 (prima
edizione) Napoli 1937 (seconda edizione); Rittmann Alfredo, Vighi Luciano, Ventriglia Ugo, Nicotera
Pasquale, Rilievo geologico dei Campi Flegrei, Roma 1951.
(8) Anna Giannetti, Benedetto Gravagnuolo, Soccavo in Cesare De Seta, I Casali di Napoli, Editori
Laterza, Roma-Bari 1989, pp. 89-96.
(9) Nei volumi di Gaetano Filangieri, Indice degli artefici delle arti maggiori e minori, la più parte ignoti
o poco noti, si napoletani e siciliani, si delle altre regioni d’Italia o stranieri, che operano tra noi, con
notizia delle loro opere e del tempo del loro esercizio, da studi e nuovi documenti, (Napoli 1891) sono
riportati almeno cinque persone riconducibili alla famiglia de Franco o di Franco che tra il 1484 e il
1556 -stando agli atti notarili- furono prima tagliamonti e poi pipernieri operanti a Napoli ma forse
provenienti dall’area cilentina. Nel 1484 Bonifacio de Franco è detto tagliamonti (cfr Gaetano Filangieri,
Indice… cit, vol. i, p. 135); dal 1495 al 1504 Luca de Franco fu piperniere a Napoli (cfr. Gaetano
Filangieri, Indice… cit, vol. i, p. 232 e vol. ii, p. 392); dal 1499 al 1514 Michele di Franco, piperniere
a Napoli, ebbe rapporti documentati con la cava di piperno di Soccavo (vedi “Regesto delle fonti
storiche”: 28 febbraio 1500; cfr Gaetano Filangieri, Indice… cit, vol. i, p. 232); al 1504 è citato il
piperniere Matteo de Franco originario di Vallonovi ovvero Vallo Lucano (ibidem); dal 1545 al 1556
operò a Napoli il piperniere Jacobo de Franco che doveva essere artigiano di valore se fu chiamato
a collaborare da Giovan Francesco de Palma alias Mormando (cfr Gaetano Filangieri, Indice… cit, vol.
i, p. 231 e vol. ii, p. 236-37).
(10) Dall’età repubblicana al I sec dC, Puteoli con il Portus Iulius -tra le più grandi opere di ingegneria
portuale dell’antichità- collegato a quello di Neapolis e quello militare di Misero fu cerniera dei
commerci mediterranei: mercato delle derrate agricole della Campania Felix e luogo di carico del
pulvis puteolanus (la pozzolana), materiale vulcanico prezioso inerte per l’edilizia segnalato da Vitruvio
(De Architectura, libro ii, iv, 6.). Puteoli fu il porto dell’Urbe fino alla costruzione del porto di Ostia (I
sec dC); il collegamento viario tra i due centri così distanti era garantito dalla Via Campana che univa
Puteoli a Capua e della Via Appia che conduceva fino a Roma.
(11) Sterpos Daniele, Comunicazioni stradali attraverso i tempi. Roma-Capua e Capua-Napoli, voll.
2, Autostrada del Sole, Istituto Geografico De Agostani, Novara 1959, pp. 19-20.
(12) Il potenziamento ed il miglioramento delle arterie stradali flegree, perpetuatosi con continuità
attraverso tutte le Corone che regnarono a Napoli, è solo in parte riconducibile alla commercializzazione
dei materiali di cava; infatti, i sovrani dagli Aragonesi ai Borbone erano usi all’arte venatoria che
esercitavano anche nei boschi flegrei in particolare negli Astroni.
WP2 | Topografia nel corso dei secoli 51
(13) Werner Joannovsky, Domenico Mallardo, La via Antiniana e le memorie di San Gennaro in
“Rendiconti dell’Accademia d’Archeologia Lettere e Belle Arti di Napoli”, 1938-39, pp. 303-338;
Werner Joannovsky, Contributi alla topografia della Campania antica, La via Puteolis-Neapolim, in
“Rendiconti dell’Accademia d’Archeologia Lettere e Belle Arti di Napoli”, xxvii, 1952, pp. 83-143.
(14) In età ducale viene indicata come via Antonianum, Antunianum, Antiniarum e quindi Antignano.
Werner Joannovsky, Domenico Mallardo, La via Antiniana e le memorie di San Gennaro in “Rendiconti
dell’Accademia d’Archeologia Lettere e Belle Arti di Napoli”, 1938-39, pp. 303-338;
(15) Cfr. Carlo Viggiani, Un ingegnere Romano di epoca tardorepubblicana. Lucio Cocceio Aucto in
Alfredo Buccaro, Giulio Fabricatore, Lia Maria Papa, a cura di, Storia dell’Ingegneria, Atti del Primo
Convegno Nazionale, Napoli 8-9 marzo 2006, Cuzzolin Editore, Napoli 2006, tomo ii, pp. 785-796;
in particolare pp. 792, 794.
(16) La galleria continuò ad essere utilizzata fino al 1930 quando fu chiusa al traffico per carenze
strutturali e logistiche che vennero soddisfatte dalla vicina Grotta detta poi “delle Quattro Giornate”.
(17) Aa Vv, Campi Flegrei mito storia realtà, catalogo della mostra Napoli Castel Sant’Elmo 27 ottobre
2006-30 gennaio 2007, Electa Napoli, Napoli 2006; in particolare la scheda di Ileana Creazzo su Ioris
(Georgius) Hoefnagel (pp. 95-96) con bibliografia precedente.
(18) Fabio Benzi (a cura di), Gaspare Vanvitelli e le origini del vedutismo, Catalogo della Mostra, Roma-
Venezia 26 ottobre 2002 - 1 giugno 2003, Roma 2002.
(19) Vedi nota 3.
(20) Franco Strazzullo, Edilizia e Urbanistica a Napoli dal ‘500 al ‘700, Arturo Berisio Editore, Napoli
1968, p. 18, 76-78.
(21) Sulle pubblicazioni, sulle edizioni e i diretti riferimenti ai luoghi e alle cave di Pianura, si rimanda
al “Regesto delle fonti storiche”.
(22) Cfr. Ciro Robotti, Immagini di Ercolano e Pompei, Ferraro, Napoli 1987; Maria Gabriella Pezone,
Francesco La Vega e la cultura architettonica neoclassica. La formazione e l’attività di ingegnere militare
in Alfonso Gambardella (a cura di), Napoli-Spagna Architettura e Città nel XVIII secolo, Atti del
Convegno Internazionale di Studi, Napoli 17-18 dicembre 2001, ESI, Napoli 2003, pp. 73-90. La
citazione riportata è a p. 78. Per una visione completa della personalità del Nostro è da leggere, nello
stesso volume, il saggio di Concetta Lenza, Studio dell’antico e internazionalismo neoclassico. L’attività
di Francesco La Vega nei cantieri vesuviani e la “fortuna” dei disegni, pp. 51-72.
(23) Per il presente studio è stata visionata la ristampa anastatica pubblicata da Vladimiro Valerio
nel 1999; inoltre cfr. Alfredo Buccaro, Pianta della Città Città di Napoli e de’ suoi contorni in Giancarlo
Alisio, Vladimiro Valerio (a cura di), Cartografia napoletana dal 1781 al 1889, Napoli 1983, pp. 178-
179.
(24) Alessandro Dal Piaz, I Casali nel XIX in Cesare De Seta, I Casali di Napoli, Editori Laterza, Roma-
Bari 1989, pp. 61-71.
(25) Gli esemplari di questa cartografia sono conservati presso la sala Manoscritti della Biblioteca
Nazionale di Napoli, divisa in 16 fogli di cm 62x94.
(26) I disegni sono stati pubblicati e commentati da Vladimiro Valerio, Società Uomini e Istituzioni
cartografiche nel Mezzogiorno d’Italia, Istituto Geografico Militare, Firenze 1993, p. 266- 67. Il grafico
conservato a Firenze misura cm 108x69, mentre quelli conservati a Napoli intitolati Rilievo dei contorni
di Pianura e Saggio di rilievo a curve di livello misurano rispettivamente cm 42x66 e cm 38x56.
WP3 | Presentazione dinamica del rilievo 3D con il laser-scanner 53
sistemazione delle pietre nei carrelli per il trasporto all'esterno nonché luogo di
concentrazione del personale attivo nei settori più impervi della cavità .
Seguendo il progetto delle riprese laser scanner 3d sono state poste alle pareti
della cavità numerosi target cartacei utili alla mosaicatura delle nuvole di punti.
Dato l'alto tasso igrometrico all'interno della cavità sono stati predisposti target
cartacei plastificati in modo da impedire che il supporto assorbisse umidità. Nel
caso contrario, la deformazione del foglio avrebbe reso vana la materializzazione
topografica al momento delle riprese laser scanner che sono state eseguite in più
fasi intervallate nel tempo così come previsto da progetto,. Il pre-trattamento
superficiale dei target ha inoltre garantito la loro duratura indeformabilità
permettendo, così, l'utilizzo di tutti i punti fotografici di appoggio per eventuali
altre campagne di rilevamento laser scanner 3D.
E' opportuno precisare che, della cavità fino alla più profonda galleria percorribile,
sono stati disposti circa cento target materializzati con stazione integrata
robotizzata Trimble VX.
Questo strumento fortemente innovativo si è rivelato di particolare importanza
nelle operazioni topografiche grazie alle sue caratteristiche di “autoriconoscimento”
dei prismi ed “intercettazione” dei punti con collimazione a raggio laser: peculiarità
utili in condizione operative già difficili ed esasperate dalla forte penombra.
Sempre il secondo step è stato altresì documentato con immagini fotografiche
digitali e numerosi eidotipi: elaborati rivelatisi utili per il trattamento dei dati
topografici in laboratorio.
Verificata la fattibilità del progetto delle prese laser scanner 3d e della disposizione
dei target già determinati, le operazioni di scansione sono state articolate in più
giornate al fine di poter verificare al termine di ogni sessione quotidiana
l'attendibilità della grande messe di dati acquisiti.
Partendo dall'area esterna all'ingresso sono state realizzate venti riprese laser
scanner 3d di cui diciotto generali e tre particolari per il monitoraggio più
dettagliato di alcuni settori dalla morfologia più complessa.
Le operazioni strumentali si sono rivelate di particolare efficacia in relazione alle
condizioni ambientali morfologiche della cavità. Se per accezione teorica il laser
scanner 3d si attesta preventivamente come il miglior strumento oggi esistente
per il rilievo digitale di un manufatto tanto complesso, la concretizzazione delle
riprese è risultata superiore alle aspettative in relazione alla totale assenza di
luce ed soprattutto all'ambiente della cava conformato da un materiale prossimo
alla gradazione cromatica del nero.
Attestato, infatti, che l'illuminazione artificiale in questo particolare ambiente
generava “rumore” ovvero interferenze alle riprese laser, si è scelto di operare in
totale assenza di illuminazione durante l'attività strumentale.
Le scansioni, acquisite con laser scanner Leica HDS4500, sono state concentrate
su particolari ambiti morfologici: ad esempio, per restituire un esile pilastro, posto
al centro della antro maggiore della cavità, sono state necessarie tre riprese
generali e due di particolare rilevando per intero la complessa forma litoide.
Completate tutte le sessioni di lavoro previste, le venti nuvole di punti sono state
processate in laboratorio al fine di restituire un'unica nuvola di punti complessiva
della cavità antropica.
La mosaicatura delle nuvole è avvenuta per collimazione di almeno quattro target
comuni a coppie di nuvole concorrenti.
WP3 | Presentazione dinamica del rilievo 3D con il laser-scanner 55
fig. 55 AEREOFOTOGRAMMETRIA
VOLO REGIONE CAMPANIA, 1998
Si individuano due centri ben sviluppati, uno al centro del Tirreno in corrispondenza
del centro eruttivo sottomarino Vavilov e l’altro nella parte meridionale del bacino
in corrispondenza del vulcano sottomarino Marsili. Il vulcanismo ricordato è di
tipo tholeitico caratteristico di sorgenti magmatiche che si generano in condizioni
di alta temperatura e bassa pressione, coerenti con zone caratterizzate da crosta
assottigliata e temperature elevate, proprie delle aree interessate dai rami
ascendenti di celle convettive sviluppate nel mantello. Un terzo centro di espansione,
in corso di formazione, è ai margini del bacino tirrenico lungo la costa della
Campania. Qui la risalita del mantello ha prodotto prima la tumescenza della
litosfera, poi la risalita dei magmi nella crosta, successivamente eruzioni e collassi,
fino alla costruzione dei tre centri eruttivi principali: Vesuvio, Ischia e Campi
Flegrei fig. 3. Il Vesuvio si formerà come apparato poligenico da un originario
campo vulcanico, Ischia ed i Campi Flegrei conserveranno le caratteristiche di
campi vulcanici.
Non è noto l’inizio del vulcanismo nell’area flegrea che può farsi risalire alla fase
tettonica quaternaria che ha investito il bordo tirrenico della penisola. La risalita
di un notevole volume di magma ha prodotto, circa 39.000 anni fa, un eruzione
esplosiva con l’emissione di oltre 250 Km3 di prodotti piroclastici che hanno dato
luogo alla formazione dell’Ignimbrite Campana e della caldera flegrea. Il prodotto
92 Portale monotematico sulle cavità di Pianura
tipico di questa eruzione è noto come Tufo Grigio Campano, diffuso in tutta la
Piana e nelle valli circostanti. Il piperno rappresenta una fase di questa eruzione
fig. 4 e fig. 5.
Successivamente alla grande eruzione dell’Ignimbrite Campana, segue un’attività
intracalderica, prevalentemente esplosiva di più modesta entità. Tra i prodotti di
maggiore diffusione di questa fase eruttiva si annoverano i così detti Tufi Biancastri
di cui risulta problematica la definizione dei centri di emissione, in quanto la
parte interna della caldera dell’Ignimbrite sarà soggetta a profonde modifiche in
seguito all’eruzione del Tufo Giallo Napoletano, circa 15.000 anni fa, con l’emissione
di circa 50 Km3 di prodotti piroclastici. Quest’eruzione modificherà profondamente
il paesaggio del territorio dove si svilupperà la città di Napoli, in quanto i flussi
generati dall’eruzione, mantelleranno le alture formatesi con le eruzioni precedenti.
Anche a questa eruzione si associa un collasso calderico di minori dimensioni,
rappresentato dall’attuale conca flegrea, ad occidente della collina di Posillipo
fig. 6 e fig. 7.
fig. 5 Stralcio della carta geologica dei Campi Flegrei – (collina dei Camaldoli)
con gli affioramenti del piperno da Rosi e Sbrana 1987.
La parete della collina dei Camaldoli nella parte retrostante la Masseria del Monte
è costituita dal basso verso l’alto da un deposito di Piperno (Ca2) per uno spessore
di circa 5 m, di cui non si osserva la base. I primi 3 m di questo affioramento sono
in facies non saldata, costituiti prevalentemente da frammenti di lave arrotondati,
di colore grigio scuro e di dimensioni variabili da cm a dm. I 2 m successivi sono
in facies saldata con diffusa presenza di “fiamme” (struttura vetrosa allungata).
Al di sopra del banco di Piperno si rinviene un deposito cineritico di colore
biancastro (Ca3) in cui sono immerse pomici alterate di color ocra. Lo spessore
di questo livello è variabile ma inferiore al metro. Le pomici alterate crescono in
numero e dimensioni nella parte alta del deposito. Gli elementi litici sono
soprattutto lavici di dimensioni variabili fino ad un massimo di 20 cm. I litici di
dimensioni maggiori sono addensati nella parte bassa del deposito al contrario
di quanto si osserva per le pomici. Si è in presenza, quindi, di una gradazione
diretta per i litici ed inversa per le pomici. Infine, in questo livello cineritico, si
osservano strutture di degassazione di piccola sezione e lunghe circa 50 cm. A
questo deposito segue in continuità verso l’alto un deposito grossolano (Ca4) che
raggiunge uno spessore di circa 8 m. Tale deposito è costituito da pomici, spesso
molto alterate e simili a quelle immerse nella cinerite biancastra sottostante, e
da litici prevalentemente lavici talvolta alterati di colore rosso – mattone.
Introduzione
Il rapporto uomo-ambiente
In tal senso assume una importanza fondamentale la recente messa a punto del
PRAE, Piano Regionale Attività Estrattive (nello specifico della regione Campania),
che si sviluppa su alcuni punti cardine, come
a) il RECUPERO dell’ambiente interessato, che nel caso in cui la cava venga definita
non coltivabile può essere:
ambientale ricostruzione ecologica
funzionale assolve ad una funzione del contesto sociale
morfologico raccorda i caratteri morfologici post operam
idraulico provvede alla regimazione delle acque
pedologico ricostituisce il suolo pedologico
vegetazionale provvede all’insediamento di specie vegetazionali
b) i MATERIALI, cui va prestata massima attenzione nello smaltimento e nella
differenziazione, quali:
terreno vegetale
materiali inerti
scarti di cava
limi fluviali
c) le TIPOLOGIE DI RECUPERO,
determinate dalla LEX e dal PRAE (v. testo integrale PRAE).
WP7 | Metodologie di estrazione 99
Le metodologie estrattive
Per cava deve intendersi la localizzazione di un certo sito della superficie terrestre
finalizzata all’estrazione di materiali utili, avvenuta a cielo aperto o in sotterraneo.
Esistono differenti tipologie di cave: cave a cielo aperto, cave di versante, cave in
galleria, cave in pianura, cave in fosso, etc., a seconda di come vengono prese sul
monte. Tra queste il PRAE riconosce diverse denominazioni, tra cui emergono:
cave storiche (da cui si ricavano pietre ornamentali di pregio) e cave da estrazione
(materiali da costruzione). Esistono di conseguenza diversi metodi per la coltivazione
delle cave a seconda del tipo di cava e del tipo di materiale da estrarre.
Le cave di marmo sono generalmente prese sul versante delle montagne a quote
variabili dagli 800 ai 1000 metri di altezza. Inizialmente si effettuano indagini
geologiche mediante carotaggi in profondità per stabilire le caratteristiche dei
materiali da estrarre e le potenze degli spessori dei banchi presenti nel sito.
Successivamente con mezzi meccanici e, laddove non è possibile, con l’ausilio di
operai specializzati, si procede alla scoperta delle bancate da estrarre ripulendo
tutto il materiale sovrastante (cappellaccio) ed il terreno presente sulla parete
degli strati. Ottenuta la parete ripulita, si procede ad una ispezione per stabilire
le dimensioni e le potenzialità dei blocchi da ottenere, tenendo conto della stabilità
dei fronti di cava che altrimenti potrebbero crollare.
Solo a questo punto si possono valutare le tecniche di estrazione più idonee e
definire le modalità e la programmazione degli investimenti necessari ad una
razionale estrazione per questo tipo di cava, tenendo conto ovviamente del valore
di mercato che potrebbe avere il prodotto ottenuto. Nel caso delle cave a cielo
aperto (di versante, a culmine od in fossa) la coltivazione avviene generalmente
per gradoni partendo dall’alto in basso, in modo da ridurre il pericolo di instabilità
dei fronti di cava e contemporaneamente avere dei piani regolari per eseguire i
tagli delle bancate. Una volta all’anno è necessario che il proprietario di concessione
relazioni al riguardo presso l’Ente Regionale di competenza, calcolando la stabilità
dei fronti tramite formule a norma di legge.
In passato tali tagli si eseguivano con un impianto di filo elicoidale costituito da
una serie di volani montati su pali e piantati in decine di punti nel perimetro di
cava, necessari al raffreddamento del filo stesso ed azionati da una macchina
completa di rinvii avviata da motore elettrico. L’impianto terminava su due pulegge
tra le quali passava il filo a grossa velocità. Tale sistema permetteva di dare grossi
tagli al monte, benché il vero e proprio taglio veniva prodotto mediante il passaggio
100 Portale monotematico sulle cavità di Pianura
e lo strofinamento con acqua e sabbia silicea sulla roccia. Quando il filo iniziava
a tagliare rallentando la velocità, bisognava adoperarsi alla cala mediante ingranaggi
azionati manualmente e montati sui due piantoni usati per il taglio. La maggior
parte delle cave di marmo è stata inizialmente coltivata in questo modo, ed ancora
oggi sono presenti in alcune di esse resti di impianti di filo elicoidale, seppure
non più adoperati. In seguito, agli inizi degli anni settanta e ottanta, con la
scoperta di nuovi abrasivi e tecniche di taglio come lame e dischi diamantati,
subentrarono nuovi sistemi che consentirono una precisione ed una velocità nel
taglio fino ad allora impensabili. Nelle cave, in particolare, l’avvento del settore
diamantato modificò e rinnovò totalmente gli impianti presenti fino a quel
momento: l’input tecnologico delle macchine a filo diamantato e di quelle a
catena con settori diamantati fu notevole. A quel punto anche l’impiego di
manodopera poté diminuire per la semplicità del posizionamento delle tagliatrici
a filo, anche se questo tipo di macchine si rivelarono fin dall’inizio abbastanza
pericolose per gli addetti ai lavori.
I miglioramenti sostanziali rispetto all’impianto col filo elicoidale si possono
riassumere:
Nelle cave di granito, dove è molto diffuso l’impiego dei martelli perforatori
montati in batterie su slitte idrauliche o applicati su adattatori per escavatori,
ha preso piede ad esempio l’impiego del filo diamantato adattato per tagliare un
materiale che, come è noto, è ben più resistente e compatto del marmo.
Un’altra macchina di rilevanza notevole per i processi di escavazione è la segatrice
a catena diamantata, molto utilizzata nelle cave a cielo aperto ed in galleria.
Questo tipo di macchinario, che si muove su binari, utilizza una catena formata
da settori diamantati montata su di una lama che può raggiungere i 3 metri di
lunghezza, e pu˜ ruotare a seconda se il taglio da effettuare sia sovrastante,
laterale o sottostante.
Fondamentale nella storia estrattiva è stato anche l’apporto del “Derrick”, gru
fissa tralicciata, montata nei punti centrali della cave a cielo aperto, che consente,
WP7 | Metodologie di estrazione 101
• compressori ad aria;
• gruppi elettrogeni;
• martelli perforatori;
• cuscini divaricatori;
• martinetti idraulici;
• centraline idrauliche per il passaggio del filo;
• mezzi meccanici di grande portata;
• automezzi idonei al trasporto di blocchi etc. etc.
102 Portale monotematico sulle cavità di Pianura
Conclusioni
CAVE
AUTORIZZATE n° 23
CHIUSE n° 23
ABBANDONATE n° 180
tot. Cave n° 226
CAVE IN AREA
COMPLETAMENTO n° 23
CRISI n° 108
ZONE CRITICHE n° 8
Z. A. C. n° 14
A. P. A. n° 34
ALTRO n° 95
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tri
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110 Portale monotematico sulle cavità di Pianura
fig. 1, 2 e 3 Villard vedranno in Francia la pubblicazione di veri e propri trattati di alto livello scientifico,
benché di contenuti e finalità dichiaratamente didattiche e divulgative.
Il problema più generale che la stereotomia si propone di risolvere si presenta,
come è noto, secondo un duplice aspetto: quello della genesi geometrica e
configurativa di particolari superfici – la conoscenza della quale ne rende possibile
la relativa rappresentazione e quindi la progettazione – e insieme (come del resto
ogni corretta soluzione architettonica richiede) quello della realizzazione in termini
costruttivi e statici dell’opera stessa. Tutto ciò appare particolarmente evidente
nel caso più semplice e noto dell’arco a tutto sesto, in cui la soluzione statica è
affidata al rigoroso taglio radiale dei relativi conci, e soprattutto al concio che
viene posto in chiave e che non a caso è detto appunto “chiave dell’arco”: ma
questo ruolo coincide ancora con l’aspetto estetico, in quella logica costruttiva
che ‘materializza’ rette altrimenti non visibili, tuttavia strettamente legate alla
forma circolare, precisamente i raggi dell’arco.
Il grande trattato Le premier tome de l’Architecture di Philibert De l’Orme fu
stampato per la prima volta nel 1567, quando ancora non si era affermata una
vera cultura del progetto, come lo intendiamo oggi, benché ne venisse già
WP9 | Le più importanti opere realizzate con il piperno della cava di Pianura 111
fig. 7 e 8 Désargues
suo paese, con il Libro de Traças de Cortes de Piedras, tuttavia pubblicato solo
in epoca recente; e l’autore di un altro manoscritto dal titolo Livre d’architecture
de Jean Chereau, tailleur de pierre, natif de Joigni, il cui interesse risiede
essenzialmente nella associazione della stereotomia alle altre scienze, come la
gnomonica e l’astronomia, che si occupano di rappresentare forme e misure dello
spazio, come poi farà in maniera assai più rigorosa nel secolo successivo Girard
Désargues, quel concittadino lionese di De l’Orme che ne riprenderà gli studi sulla
stereotomia dando loro vera dignità scientifica e denominandoli a sua volta con
l’espressione trait à preuves. Tali studi tuttavia avrebbero avuto un’accoglienza
ancora più ostile da parte di matematici, volendo l’autore enunciare unificandoli
i principi scientifici di tutte le geometrie pratiche, quali la prospettiva, la stereotomia
e la gnomonica, dando a ciascuna una forma universale.
L’architetto-geometra Girard Désargues pubblica infatti nel 1640 uno scritto di
sole quattro pagine in folio con cinque tavole, dedicato alla …pratique du trait
à preuves pour la coupe des pierres en l’Architecture…, il cui lunghissimo titolo
comprende anche ulteriori note sulla prospettiva (da lui stesso studiata in altro
testo) e sui quadranti solari.
Secondo la scelta già adottata e annunciata nel titolo del suo precedente scritto
di prospettiva del 1636, Example de l’une des manières universelles… - questo
pure redatto in poche pagine, e accompagnato da una sola tavola splendidamente
incisa -, l’autore anche per il taglio delle pietre si occupa di un solo esempio, la
cui estrema complessità ha il preciso scopo di proporre la coesistenza del maggior
numero di possibili problemi: si tratta infatti del disegno in prospettiva de La
descente biaise dans un mur en talus, cioè della struttura muraria di una volta
WP9 | Le più importanti opere realizzate con il piperno della cava di Pianura 113
note
(1) M. Chasles, Aperçue historique sur l’origine et le développement des mèthodes en géométrie,
Bruxelles 1837, p.355.
(2) G. Guarini, Architettura civile, a cura di B. Tavassi La Greca, Milano 1968, p.282.
(3) R. Taton, L’oeuvre scientifique de Monge, Parigi 1951, p.72.
116 Portale monotematico sulle cavità di Pianura
L’ampio utilizzo del piperno coltivato nella cava di Pianura, attestato da noti
regesti di documenti e dalle fonti archivistiche (1), è sicuramente un elemento
di nodale importanza per una conoscenza approfondita dell’edilizia storica
napoletana, poiché le qualità meccaniche di questa pietra hanno offerto agli
artefici, nel corso dei secoli, possibilità di dare forma alle idee e alle invenzioni
degli architetti, utilizzando un materiale che, insieme ad altre rocce di origine
vulcanica – il tufo giallo, il tufo pipernoide, il basalto – ancora oggi colora
l’ambiente costruito della Campania Felix.
In realtà, non è possibile un censimento attendibile delle opere realizzate con il
piperno di Pianura sulla scorta esclusiva dei materiali d’archivio, perché le notizie
desunte dai documenti spesso sono imprecise o frammentarie, tuttavia proprio
il presente studio prospetta nuovi campi di ricerca, riunendo le competenze di
architetti, ingegneri, storici e geologi. Le notizie desunte dallo studio dell’edilizia
storica, corrente o monumentale, i risultati di analisi condotte in situ da chi
possiede specifiche competenze litografiche, il rilievo e la conseguente comprensione
dei fabbricati e degli elementi che li compongono, potrebbero, infatti, accorpare
un patrimonio di dati che, opportunamente incrociati, costituirebbero una
straordinaria piattaforma sia per una conoscenza più approfondita del patrimonio
architettonico campano sia per eventuali interventi volti al recupero di edifici
costruiti con i materiali lapidei considerati.
In particolare, l’uso del piperno, e delle altre pietre da taglio di origine vulcanica
utilizzate in Campania, assume uno speciale significato nella produzione edilizia
napoletana tra Quattrocento e Cinquecento, poiché edifici costruiti con questi
materiali rinnovarono la cultura architettonica del Regno di Napoli attraverso un
articolato processo di relazioni politiche, economiche e culturali e materiali, che
avrebbe condotto alla realizzazione di edifici considerati tra i primi per qualità
costruttive ed estetiche dai contemporanei e assunti come modello per altre
importanti opere realizzate in diversi centri italiani del Rinascimento (2).
In un momento storico nel quale la costruzione di residenze appropriate al ceto
nobiliare e magnatizio della Napoli aragonese e vicereale si arricchisce di valenze
morali di ricaduta sul benessere comunitario, in osservanza ai principi della
magnificentia civile diffusi dalla cultura umanistica anche presso le corti dell’Italia
WP9 | Le più importanti opere realizzate con il piperno della cava di Pianura 117
apposta sul portone d’ingresso, il palazzo venne costruito a partire dal 1406 da
Antonio e da Onofrio Penne, rispettivamente consigliere e segretario del re Ladislao
di Durazzo. Si deve tuttavia interpretare tale data come quella in cui il re concesse
di fregiare il palazzo con le armi e i simboli della sua casata. Si ritiene, infatti,
che l’edificio sia stato costruito successivamente, circa un decennio più tardi. La
residenza dei Penne, attribuita all’architetto e scultore Antonio Baboccio da
Piperno – artista che eseguì, nello stesso periodo, anche la sepoltura dei due
committenti nella chiesa di Santa Chiara – posta sul declivio di Santa Barbara,
collegato all’antica via Sedile di Porto e quindi il mare, originariamente godeva
di area salubre e della vista sul golfo di Napoli. Al centro della facciata, animata
da bugne decorate con le insegne dei proprietari alternate a gigli angioini e
conclusa da un coronamento sorretto da archetti gotici trilobati, si apre il portale
marmoreo ad arco ribassato, che accoglie un ornato scolpito a rilievo caratterizzato
dalla plastica decorazione a nastro assimilato ad altre opere di Baboccio. Gli
elementi architettonici di epoca durazzesca all’interno dell’edificio anticipano
analoghe soluzioni presenti in noti palazzi napoletani ma anche in edifici di
Aversa, Capua, Fondi e Carinola, a testimonianza della vitalità di una cultura
architettonica capace, già nel primo Rinascimento, di raccogliere ed elaborare in
espressioni originali elementi eterogenei, desunti dalla tradizione locale, dal nuovo
linguaggio dell’architettura angiono-durazzesca, dall’esperienza di artefici
provenienti dalla toscana e dall’Italia settentrionale. Di particolare significato,
anche per l’uso del materiale, una scenografica scala in piperno, descritta da una
perizia del 1622, aperta sul panorama sottostante, che portava al giardino e agli
appartamenti disposti intorno alla corte (6).
Costruito nei decenni centrali del Quattrocento presso il seggio di Nido, il palazzo
di Diomede Carafa si inserisce a pieno titolo tra le più significative residenze del
pieno Rinascimento, realizzate in quegli anni in diversi centri italiani da personaggi
del rango di Cosimo de’ Medici, Giovanni Rucellai, Ludovico Gonzaga (7). Poco è
rimasto dell’originaria distribuzione interna e anche dopo approfonditi studi resta
indiziaria l’originaria collocazione di alcuni ambienti; anche la rinomata collezione
di antichità, che adornava il cortile, il giardino e gli spazi interni, è andata
smembrata nel tempo. Recenti ricerche riconducono la costruzione del palazzo
a due fasi distinte: una prima negli anni cinquanta del secolo, quando si sarebbe
allestito anche il rivestimento a opus isodomum, forse suggerito da palazzo Penne
o dalle residenze fiorentine dei Medici e dei Rucellai; una fase di completamento
avviata probabilmente nel 1466 – data riportata sulla cornice del portale – quando,
WP9 | Le più importanti opere realizzate con il piperno della cava di Pianura 119
anche in virtù del titolo comitale conferitogli nel 1465, Diomede aggiornò l’edificio
secondo le istanze del nuovo gusto classicista, forse ispirategli direttamente da
Leon Battista Alberti, presente a Napoli proprio tra la fine di marzo e l’inizio di
giugno del 1465, ospite di Filippo Strozzi (8). Difatti, secondo una modalità
confrontabile con l’intervento albertiano a palazzo Rucellai, anche a palazzo
Carafa, concluse le complesse vicende di acquisizione della proprietà, il committente
volle rendere la propria residenza un esempio di magnificenza civile, cercando
di conferire simmetria e regolarità all’interno della casa organizzandola intorno
al cortile e avvolgendo l’insieme delle parti accorpate in un omogeneo involucro
all’antica. Le evidenti discontinuità presenti nella regolare apparecchiatura del
rivestimento lapideo sembrano confermare che il portale ionico, le mensole
reggibusto, le finestre trabeate e il cornicione terminale all’antica furono posti
in opera in un momento posteriore rispetto al resto della fabbrica e in particolare
rispetto alla realizzazione del paramento. Quest’ultimo, per l’inconsueta alternanza
di blocchi squadrati regolari di tufo giallo e grigio, comunque attinente alle
indicazioni di Filarete, che nel suo trattato consiglia l’uso di superfici murarie fig. 12 Palazzo Como, particolare
multicolori (9), deve essere senz’altro rapportato alla torre campanaria della
cappella Pappacoda (1415 circa), attribuita ad Antonio Baboccio da Piperno, e
alla bicroma facciata di palazzo Rinaldi-Milano a Capua.
Palazzo Como fig.12, attuale sede del Museo Civico Gaetano Filangieri, eretto
tra il 1451 e il 1499, deriva dall’accorpamento di edifici preesistenti, disposti nelle
vicinanze dell’antica basilica di San Giorgio Maggiore. Nel 1488 venne aggregato
al palazzo un ampio giardino, donato ai Como da Alfonso d’Aragona, duca di
Calabria, e nel 1490 vennero acquistate e demolite alcune case adiacenti all’edificio
sul versante meridionale per ottenere la vista del mare. Notizie sui lavori si ricavano
da documenti d’archivio: nel 1464 Rubino de Cioffo, lapicida di Cava, eseguì le
cornici in piperno di alcune porte e finestre; nel 1490 gli artefici toscani Francesco
di Filippo, Ziattino de Benozzis da Settignano e Domenico de Felice da Firenze,
operanti nella cerchia di Giuliano da Maiano, realizzarono altre finiture in pietra,
simili a quelle dell’appartamento del duca di Calabria in Castel Capuano. Alla
morte di Angelo Como il palazzo era interamente terminato, come si ricava da
una descrizione riportata nel suo testamento del 19 aprile 1499 (10). Purtroppo,
non rimane traccia dell’originaria disposizione degli ambienti interni, a causa
delle molteplici trasformazioni subite dall’edificio nel tempo; al contrario, il
prospetto principale e quello meridionale si sono conservati abbastanza integri.
Sopra uno stilobate in piperno si eleva il paramento a bugnato rustico del
120 Portale monotematico sulle cavità di Pianura
mazze ferrate per essere poi adottato, nel tardo medioevo, in sequenze di piccoli
elementi scolpiti in pietra ad incorniciare portali e finestre, infine nella confezione
dei paramenti murari di importanti edifici rinascimentali.
In particolare, il palazzo del principe di Salerno, deve essere considerato il prototipo
dei successivi edifici impreziositi dal medesimo rivestimento ma dall’impaginato
decisamente diverso. È, infatti, il caso di ribadire la sicura dipendenza dal palazzo
Sanseverino di quello dei diamanti di Ferrara, di alcuni palazzi pugliesi e siciliani
e anche degli altri edifici rinascimentali connotati da un simile assetto murario,
tutti posteriori a quello napoletano. Nonostante la fama acquisita dal palazzo dei
principi di Salerno, decantato da cronisti e letterati, relativamente alla sua
costruzione si registra l’autorevole dissenso di Giovanni Gioviano Pontano,
principale protagonista degli ambienti dell’umanesimo napoletano, che forse
avrebbe preferito un palazzo di marmo bianco, come il ferrarese palazzo dei
diamanti, costruito con materiali pregiati, pagati il giusto prezzo, e non con pietre
importate a basso costo dai feudi della Lucania (15). Tuttavia, la provenienza dei
“piperni” che compongono la facciata dai feudi lucani o cilentani dei Sanseverino
sarebbe poco attendibile, perché in quelle regioni non sarebbe mai esistita una
cava di questo materiale. Secondo alcuni studiosi le pietre utilizzate per le facciate
esterne dell’edificio proverrebbero, piuttosto, da località più vicine a Napoli, forse
da Casolla di Caserta, da Nola o da Fiano di Nocera, dove nel XV secolo erano
cave di tufo nero pipernoide (16); proponiamo, in questa sede, una possibile
provenienza proprio dalla cava di Pianura, rimettendo ai geologi il compito di
effettuare opportune analisi di verifica. Circa le critiche mosse da Pontano a
Roberto Sanseverino relativamente all’uso del piperno, materiale considerato
meno nobile del marmo, è opportuno ricordare che egli stesso realizzò il proprio
sacello di famiglia – la cappella Pontano, altro edificio di nodale importanza per
lo studio dell’architettura rinascimentale napoletana – rivestendolo completamente
con paramenti e modanature in piperno.
Palazzo Gravina (1513-1549), sede della Facoltà di Architettura della “Federico
II” dal 1936, considerato da Roberto Pane, che lo attribuisce a Giovanni Mormando
e a Francesco di Palma, «il maggior palazzo cinquecentesco di Napoli», venne
sostanzialmente rielaborato dal restauro ottocentesco condotto dall’architetto
Nicola d’Apuzzo, che conferì all’edificio «… la vaga impronta di un classicismo
accademico» (17). Dopo numerose trasformazioni, l’ultimo restauro del palazzo,
quando da sede delle Poste passò alla Facoltà di Architettura, restituì alla facciata
principale l’assetto rinascimentale, ripristinando il primitivo rapporto di pieni e
WP9 | Le più importanti opere realizzate con il piperno della cava di Pianura 123
la paternità dell’opera, potrebbe essere ricondotta agli artisti impegnati nel vicino
monastero di Montevergine tra il 1480 e il 1515, quando furono installati gruppi
scultorei che gli esperti indirizzano alla mano di Tommaso Malvito, Giovanni da
Nola e Giovan Tommaso Malvito (21). In particolare, la scuola dello scultore
comasco, formatosi in ambiente lombardo al fianco di Francesco Laurana, potrebbe
essere stata il tramite per consentire l’innesto di soluzioni desunte dalla tradizione
costruttiva lombarda e marchigiana nella rinnovata cultura tecnica del classicismo
napoletano; né si può escludere che il singolare registro del paramento murario
del palazzo costituisca una originale interpretazione dei più noti modelli napoletani,
dal palazzo di Diomede Carafa a quello del principe di Salerno Roberto Sanseverino.
Il palazzo Milano-Rinaldi di Capua, in via Ottavio Rinaldi, si connota per la
singolarità della facciata a bugne lisce, che si colloca tra quelle napoletane di
palazzo Penne, per la confezione dei conci, e del palazzo di Diomede Carafa, per
la bicromia del paramento a faccia vista in tufo (22). Il fatto che nell’edificio il
tema classicistico non sia sviluppato come nel palazzo di Diomede Carafa,
nonostante l’evidente affinità dei muri esterni, induce a ritenere l’edificio capuano
antecedente a quello napoletano, pertanto andrebbe collocato prima del 1466.
Oltre al paramento isodomo, risalta il pregevole portale a gioco che accoglie nei
tondi lo stemma familiare, decorato da un fregio a girali di quercia e da leoncini
rampanti di gusto tardo gotico. I rimaneggiamenti subiti dall’edificio appaiono
evidenti: le facciate prospettanti sulla corte interna, la scala aperta a rampa
singola, la loggia che disimpegna gli appartamenti, di impianto rinascimentale,
sono ricoperte da stucchi settecenteschi; le aperture dei vani bottega, inseriti ex
novo nel piano basale, e i balconi, ricavati ampliando le preesistenti finestre, sono
probabilmente ottocenteschi.
La chiesa di San Giovanni Battista fig. 18 ad Angri, eretta nel 1302 sulle vestigia
di un preesistente tempio dedicato a Sant’Angelo da Vincenzo Caiazzo, comandante
di cavalleria del conte di Nola Romano Orsini, fu dichiarata “insigne collegiata”
con bolla pontificia da papa Sisto IV nel 1475 (23). Da questa data ai primi decenni
del XVI secolo l’edificio venne sostanzialmente rinnovato, tuttavia dell’assetto
rinascimentale si conserva solo la facciata e un pregevole polittico del primo
Cinquecento attribuito al pittore Simone da Firenze posto sull’altare maggiore,
poiché l’attuale allestimento degli ambienti interni è il risultato di rimaneggiamenti
settecenteschi e di ulteriori modifiche ottocentesche e del primo Novecento,
queste ultime meno significative. Il fronte rinascimentale, caratterizzato dalla
conformazione a spiovente dei profili della copertura e dal bugnato isodomo di
WP9 | Le più importanti opere realizzate con il piperno della cava di Pianura 125
piperno, ha subito consistenti danni durante la seconda guerra mondiale: due dei
tre rosoni che lo impreziosivano sono andati distrutti e il portale principale,
risalente al 1540, ha perso il gruppo scultoreo con la Vergine e il Bambino tra i
santi Giovanni Evangelista e Giovanni Battista, che ospitava nella lunetta
sovrastante. Circa il rivestimento della facciata, di pregevole fattura per la regolarità
dell’apparecchiatura, deve essere senz’altro riferita ai noti esempi napoletani dei
palazzi Penne, Carafa e Como, i cui bugnati sembrano più simili a quello della
chiesa angrisana rispetto ai paramenti di palazzo Sanseverino, di palazzo dei Tufi
o della Dogana Aragonese.
Il palazzo dei Tufi a Lauro fig. 19 e fig. 20, costruito da Giovanni IV De’ Capellani,
decano della cattedrale di Nola e cameriere segreto del pontefice Giulio II,
probabilmente tra il 1513 e il 1529, ovviamente meno noto di palazzo Sanseverino,
può essere considerato la riuscita espressione in un’area periferica delle imponenti
manifestazioni di magnificenza civile della Napoli quattrocentesca e della Roma
bramantesca, frequentate dal committente dell’edificio (24). La diretta filiazione
di questo palazzo dal modello napoletano trova un significativo riscontro nel De
cardinalatu del protonotario apostolico Paolo Cortesi, edito a Roma nel 1510 e
dedicato proprio a Giulio II; l’autore, infatti, trattando dell’abitazione conveniente
126 Portale monotematico sulle cavità di Pianura
La residenza del vescovo di Bovino non rimane l’unica espressione della cultura
architettonica rinascimentale nell’area di Lauro, poiché a essa vanno collegati
altri edifici di impianto cinquecentesco edificati nei suoi dintorni probabilmente
intorno alla metà del secolo, dei quali permangono interessanti frammenti. Mi
riferisco, in particolare, al convento di Sant’Angelo a Taurano e alla chiesa dei
Santi Protettori (San Sebastiano e San Rocco) a Lauro, i cui portali potrebbero
dipendere da quello del palazzo De’ Capellani, che li precede di qualche decennio.
Proprio la possibilità di individuare ancora episodi poco conosciuti, come dimostrano
i censimenti condotti nel corso delle ricerche più recenti (28), suggerisce l’opportunità
di ulteriori studi, fondati sul confronto interdisciplinare, volti all’approfondimento
della conoscenza del patrimonio artistico e architettonico del Rinascimento
campano, in modo da poter dipanare anche soltanto alcune delle controverse
questioni ancora insolute, che periodicamente richiamano l’interesse degli studiosi.
128 Portale monotematico sulle cavità di Pianura
note
(1) Cfr. i contributi di P. Argenziano e D. Jacazzi nella presente ricerca.
(2) Cfr. D. Jacazzi, Tradizione e innovazione nell’architettura campana del Rinascimento, in Architettura
del classicismo tra Quattrocento e Cinquecento. Campania ricerche, a cura di A. Gambardella e D.
Jacazzi, Gangemi, Roma 2007, pp. 15-29; Ead., Sperimentazione e diffusione dell’architettura del
classicismo: idee, modelli e artisti nella Campania del Quattrocento, in Architettura del classicismo tra
Quattrocento e Cinquecento. Campania saggi, a cura di A. Gambardella e D. Jacazzi, Gangemi, Roma
2007, pp. 25-53. Ai citati saggi si rimanda per i riferimenti relativi all’argomento.
(3) Cfr. L. Giordano, Edificare per magnificenza. Testimonianze letterarie sulla teoria e la pratica della
committenza di corte, in Il principe architetto, Atti del Convegno Internazionale, Mantova 21-23
ottobre 1999, Leo S. Olschki, Città di Castello 2002, pp. 215-227.
(4) Cfr. A. Beyer, Napoli, in Storia dell’architettura italiana. Il Quattrocento, a cura di F.P. Fiore, Electa,
Milano 1998, p. 444.
(5) Cfr. R. Gargiani, Principi e costruzione nell’architettura italiana del Quattrocento, Laterza, Bari
2003, p. 340.
(6) Per i riferimenti relativi a palazzo Penne cfr. G. Borrelli, Il Palazzo Penne: un borghese a corte, Arte
tipografica, Napoli 2000, passim.
(7) Per i riferimenti relativi al palazzo di Diomede Carafa cfr. B. de Divitiis, Architettura e committenza
nella Napoli del Quattrocento, Marsilio, Venezia 2007, passim.
(8) Cfr. L. Boschetto, Nuove ricerche sulla biografia e sugli scritti volgari di Leon Battista Alberti. Dal
viaggio a Napoli alla nascita del “De iciarchia” (maggio-settembre 1465), in «Interpres», 20, 2001 [ma
2003], pp. 180-211. Per le influenze albertiane nella cultura architettonica napoletana cfr. S. Borsi,
Leon Battista Alberti e Napoli, Edizioni Polistampa, Firenze 2006, passim.
(9) Cfr. Antonio Averlino detto il Filarete, Trattato di Architettura, a cura di A.M. Finoli, L. Grassi,
Milano 1972, 2 voll., I, p. 247.
(10) Per i riferimenti relativi a palazzo Como cfr. C. Tempone, Presenze rinascimentali a Napoli: la
zona dei Banchi, in Architettura del classicismo tra Quattrocento e Cinquecento. Campania saggi, cit.,
pp. 107-109.
(11) Cfr. A. Gambardella, L’influenza albertiana nel rinascimento napoletano, in Tra il Mediterraneo
e l’Europa. Radici e prospettive della cultura architettonica, a cura di A. Gambardella, Edizioni Scientifiche
Italiane, Napoli 2000, pp. 51-75.
(12) Cfr. R. Pane, Il Rinascimento nell’Italia meridionale, Edizioni di Comunità, Milano 1975, 2 voll.,
I, pp. 220-21.
(13) Per i riferimenti relativi a palazzo Sanseverino cfr. R. Serraglio, Palazzi dei diamanti campani,
in Architettura del classicismo tra Quattrocento e Cinquecento. Campania saggi, cit., pp. 180-197.
Una indispensabile referenza sull’argomento è il saggio di A. Ghisetti Giavarina, Il bugnato a punta
di diamante nell’architettura del Rinascimento italiano, in Architettura nella storia. Scritti in onore di
Alfonso Gambardella, a cura di G. Cantone, L. Marcucci, E. Manzo, Skira, Milano 2008 (in corso di
pubblicazione).
(14) Cfr. Itinéraire d’Anselmo Adorno en Terre Sainte (1470-1471), edd. J. Heers, G. de Groer, Centre
National de la Recherche Scientifique, Paris 1978, p. 392. Il brano è segnalato in C. Gelao, Palazzi
WP9 | Le più importanti opere realizzate con il piperno della cava di Pianura 129
con bugnato a punta di diamante in Terra di Bari, in «Napoli nobilissima», XXVII, 1988, pp. 18-19.
(15) Cfr. G.G. Pontano, De magnificentia, cap. VII, pp. 93-94, in I trattati delle virtù sociali, a cura di
F. Tateo, Edizioni dell’Ateneo, Roma 1965.
(16) P. Natella, Arte e Artisti, in D. Cosimato, P. Natella, Il territorio del Sarno. Storia, società, arte, Di
Mauro, Cava de’ Tirreni 1981, pp. 41-45.
(17) Cfr. R. Pane, Il Rinascimento … cit., pp. 249-253.
(18) Ivi, p. 250.
(19) Ivi, p. 259.
(20) Cfr. O. Cirillo, Modelli architettonici e contaminazioni formali nell’architettura rinascimentale
irpina: il cosidetto “Palazzo della Dogana” di Mercogliano, in Architettura del classicismo tra Quattrocento
e Cinquecento. Campania saggi, cit., pp. 168-179.
(21) Ivi, p. 179.
(22) Cfr. I. Di Resta, Capua, Laterza, Bari 1985, pp. 11-36; A. Filangieri, G. Pane, Capua architettura
e arte. Catalogo delle opere, Arti Grafiche Salafria, Capua 1990, 2 voll., II, pp. 318-319.
(23) Cfr. Angri. Territorio di transiti, a cura di M. Bignardi, Electa, Napoli 1997, pp. 45-51; A.L. De
Simone, Angri chiesa di San Giovanni Battista, in Architettura del classicismo tra Quattrocento e
Cinquecento. Campania ricerche, cit., pp. 354-55.
(24) Per i riferimenti relativi al palazzo dei Tufi cfr. R. Serraglio, Palazzi dei diamanti campani, cit.,
pp. 192-195.
(25) Cfr. P. Cortesi, De Cardinalatu Pauli Cortesii protonotarii apostolici ad Iulium Secundum Pont.
Max., Nardi Symeoni Nicolai, Siena MCCCCCX, f. LII v. L’esemplare consultato è custodito presso la
Biblioteca Arcivescovile di Capua (cfr. Le cinquecentine della Biblioteca Arcivescovile di Capua, a cura
di F. Ciociola, Tipolitografia Boccia, Capua 1996, p. 78.
(26) Cfr. P. Natella, P. Peduto, Il palazzo dei tufi di Lauro, in «Napoli nobilissima», VIII, 1969, pp. 107-
111.
(27) Cfr. R. Serraglio, Palazzi dei diamanti campani, cit., pp. 194-195.
(28) Cfr. Architettura del classicismo tra Quattrocento e Cinquecento. Campania ricerche, cit., passim.