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IL CANTO GREGORIANO E I MODI ECCLESIASTICI

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Il canto gregoriano inizialmente era trasmesso solo oralmente. La notazione si definì


con notevole ritardo in confronto alla nascita della musica e dei canti quando i cantori
si accorsero che la trasmissione orale era un modo insufficiente per tramandare il
repertorio musicale alle successive generazioni.
Il repertorio gregoriano fu tramandato oralmente fino al sec. VIII poi si cominciarono
ad utilizzare dei segni, derivati probabilmente dagli accenti grammaticali acuto e
grave, che venivano scritti sopra il testo da cantare. Dagli accenti grammaticali si
venne a poco a poco sviluppando un sistema di segni, i neumi, che indicavano uno o
più suoni, riferiti alla nota o alle note da cantare su una stessa sillaba (notazione
neumatica adiastematica o in campo aperto).
Questo tipo di scrittura non dava indicazioni precise sulla natura degli intervalli tra
una nota e l’altra.
A partire dai sec. IX-X nelle varie parti d’Europa, nelle quali si diffuse il canto
cristiano d’occidente, si vennero definendo diverse famiglie di notazioni neumatiche,
distinte per specifiche caratteristiche grafiche.

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Un notevole passo avanti nella definizione dell’altezza dei suoni fu fatto con
l’introduzione di una linea e poi di due linee e ancora di più con l’introduzione delle
chiavi dapprima F (fa) e C (do) (notazione neumatica diastematica). L’introduzione
della lettera G per il sol avvenne più tardi.
La diastemazia perfetta fu raggiunta quando si adottò il rigo di 4 linee nel quale,
come avviene per il nostro pentagramma, i neumi si scrivevano sulle linee e negli
spazi.
Il rigo di 4 linee o tetragramma portò al rapido declino delle varie famiglie
neumatiche e all’unificazione delle scrittura. Infatti in tutti i libri corali posteriori
all’XI sec. Furono impiegati i neumi di forma quadrata.

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IL NOME DELLE NOTE E LA NOTAZIONE ALFABETICA

Un tentativo di adattare la teoria greca tramandata da Boezio alla pratica


contemporanea del canto fu effettuata dal monaco Hucdald (840-930 ca.) che
impiegò le lettere dell’alfabeto dalla A (do) alla P, omettendo la J, per indicare una
scala di 2 ottave.
Nel X sec. Oddone di Cluny applicò la notazione alfabetica al sistema perfetto dei
greci, vi premise la nota gamma, lettera dell’alfabeto greco; utilizzò la successione di
lettere dalla A (la) alla G; differenziò graficamente le ottave, impiegando le lettere
maiuscole per la prima ottava, le lettere minuscole per la seconda, le doppie
minuscole per la terza; distinse il suono B (si) in rotondo o molle (bemolle) e
quadrato o duro (bequadro), creando così la successione di suoni che Guido
D’Arezzo pose poi a base della sua teoria.

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“Cantus durus” e “cantus mollis”

Benché le sillabe esacordali fossero entrate stabilmente nell’uso fin dall’epoca


di Guido d’Arezzo (per la solmisazione e l’esacordo cfr. Cap. 2), fino
alla seconda metà del XIII secolo non è attestata la loro connessione con
la teoria delle qualità modali. Fra le primissime trattazioni di questo argomento
va segnalato il Tractatus de musica di Hieronymus di Moravia (ultimi
decenni del ’200), cui va affiancato lo Speculum musice di Jacques de
Liège (inizio del ’300). In questi trattati vengono prese in considerazione:
1. le finales «regolari» dei modi 1-2, 3-4, 5-6, 7-8, indicate rispettivamente
dalle sillabe re, mi, fa, sol quando si usa l’esacordo naturale, quelle dei
modi 5-6, designate dalla sillaba fa ut quando si usa l’esacordo molle (ossia
quando la melodia contiene il sib = cantus mollis), e quelle dei modi 7-8,
contrassegnate dalla sillaba sol ut quando si usa l’esacordo duro (ossia con
il si bequadro nella melodia = cantus durus);
2. le affinales (o confinales, ossia le finales dei modi trasposti in tessiture diverse da
quelle «regolari», peraltro già contemplate da Guido d’Arezzo) dei modi 1-2, 3-4 e
5-6 rispettivamente sui suoni la, si bequadro, do', corrispondenti alle sillabe re, mi, fa
dell’esacordo duro;
3. le finales «trasformate» dei modi 1-2 e 3-4 sui suoni sol e la, corrispondenti
alle sillabe re e mi dell’esacordo molle, che, inserendo stabilmente
il sib nella melodia, di fatto «trasforma» un protus con finalis «regolare»
re in un protus con finalis sol, ed analogamente «trasforma» un deuterus
con finalis «regolare» mi in un deuterus con finalis la (è possibile vedere in
questo principio della trasformazione quello più tardo della trasposizione
dei modi con aggiunta di accidenti in chiave).

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Categorie modali

Fra i vari aspetti della teoria modale va segnalata


la distinzione dei modi in cinque categorie, a seconda dell’ambito
toccato dalla melodia:
1. modo perfetto: è tale quando l’ambito della melodia occupa l’intera 8a
modale, e precisamente nel modo autentico quando esso si estende superiormente
fino all’8a sopra la finalis e inferiormente al massimo fino a una
2a sotto di essa, nel plagale quando superiormente arriva alla 6a sopra alla
finalis e inferiormente alla 4a sotto di essa;
2. modo imperfetto: nell’autentico l’ambito non arriva fino all’8a sopra la finalis,
nel plagale non arriva fino alla 4a sotto di essa;
3. modo piuccheperfetto: nell’autentico l’ambito arriva superiormente fino
alla 9a o alla 10a sopra la finalis, nel plagale scende oltre la 4a sotto di essa;
4. modo misto: è tale quando l’ambito della melodia si presenta come autentico,
ma tocca anche gradi propri del plagale (dello stesso modo) o viceversa,
e precisamente nel caso del modo autentico quando l’ambito oltrepassa
la 2a sotto la finalis, nel caso del modo plagale quando esso oltrepassa
la 6a sopra la finalis;
5. modo commisto: deriva dalla commistione delle specie di 4a e di 5a, ovvero
dalla presenza in una certa melodia di specie di 4a e di 5a estranee a
quelle proprie del modo in cui la melodia viene esposta.

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