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Cesare Marinacci

Maurice Ravel - Le tombeau de Couperin

La suite Le tombeau de Couperin di Ravel appartiene a quel ricco filone della musica d'inizio
‘900 che andava riscoprendo le antiche forme del barocco, visto come un'epoca felice e
feconda in contrapposizione all'oscurità in cui stava cadendo il vecchio mondo. Dunque
il culto tipicamente francese per la miniatura preziosa, nelle pagine di autori come
Debussy, Faurè o Ravel, si screzia delle conquiste armonico timbriche del nuovo secolo,
ricomponendosi però nel nobile equilibrio della forma suite che si vela dunque di una
malinconica nostalgia per epoche lontane e luminose.
Nella seconda metà dell’Ottocento in Francia si assiste ad una progressiva ‘rinascita’
della musica strumentale che, come in Italia, era stata, per un ampio periodo, relegata in
un piano secondario dallo strapotere dell’opera. Prendono corpo le più sottili ricerche
sul mezzo timbrico che ben presto diviene addirittura principio strutturale e
compositivo, autonomo al pari degli altri parametri fondamentali della musica: Melodia,
Armonia e Ritmo. Questo mutato rapporto con il mezzo strumentale, in particolare
pianistico, si deve tra tutti alla maestria di compositori come Camille Saint-Saens, Gabriel
Fauré, Claude Debussy e Maurice Ravel. Ognuno a suo modo diede un contributo
fondante a quella ‘scuola francese’ che tanta influenza avrebbe avuto anche sulle più
audaci sperimentazioni novecentesche. Un elemento senza particolari differenze
accomuna questa generazione di compositori: il culto per la tradizione, le forme ed i
maestri del Barocco, epoca in cui ritrovare quelle caratteristiche autenticamente nazionali
che per tanto tempo erano state offuscate dall’insinuarsi in tutta Europa di quel
‘wagnerismo’ che proseguiva sul piano estetico il progetto di conquista territoriale
immaginato da Otto von Bismark. Debussy stesso ribadiva la necessità di rivolgersi ai
maestri del ‘700 francese per ricercare “una sensibilità armonica in grado di annotare
colori ed affinità…” , ed aggiungeva: “abbiamo bisogno di mediare l’esempio che ci
propongono alcuni piccoli brani di Couperin, adorabili modelli di una grazia e
naturalezza che noi non conosciamo più.”
Maurice Ravel, nato il 7 marzo 1875 a Cibure nella regione dei Pirenei atlantici, è il più
giovane di una splendida triade, Con Debussy e
Fauré, di compositori ai quali si deve il definitivo
rinnovamento della musica francese ed una
decisiva influenza sulla musica del ‘900. Di madre
basca e padre svizzero; con una battuta si potrebbe
dire che è indubbio da cosa gli derivassero da un
lato l’amore per la cultura iberica dall’altro la
passione per i meccanismi ad orologeria. Allievo
proprio di Gabriel Faurè a sua volta discepolo del
grande Saint Saens, Ravel rappresenta del suo
illustre retaggio artistico l’ideale punto di approdo
tra rigore formale ed esigenza espressiva. Si fece notare fin dagli anni di apprendistato al
Conservatorio di Parigi per una certa insofferenza all’eccesso di accademismo e fin dalle
prime opere manifestò uno stile così peculiare da essere visto con una diffidenza che
sfociò addirittura nell’ostilità preconcetta; concorse infatti ben quattro volte all’ambito
Prix de Rome senza che gli fosse mai assegnato; l’ultima volta le vibranti proteste di
alcuni artisti, tra cui il suo mentore Faurè, contro la commissione che si rifiutava per
l’ennesima volta di premiare un talento ormai divenuto celebre, costrinsero il direttore
del Conservatorio, Thodore Dubois, alle dimissioni. Da quel momento Ravel si ritirò
gradualmente da ogni ambiente ufficiale per dedicarsi unicamente alla composizione
fino al momento della scomparsa, avvenuta il 28 dicembre del 1937 a Parigi. Autore non
particolarmente prolifico, Ravel, soprattutto a causa della estrema meticolosità con cui
curava ossessivamente ogni dettaglio compositivo e persino interpretativo di ogni sua
opera. Anche per questo ogni suo lavoro è un archetipo linguistico, formale, timbrico,
ogni sua opera porta con sé il fascino della pietra miliare. Straordinario virtuoso
dell’orchestrazione, Ravel è anche un musicista estremamente curioso e ansioso di
sperimentare la contaminazione tra linguaggi diversi. E’ per questo che nella sua opera
egli passa con disinvoltura dal culto per la tradizione barocca all’evanescenza
dell’impressionismo, dalla forma sonata al jazz, talvolta persino nella stessa opera.
La tradizione clavicembalistica della ‘Famiglia Couperin’ - Louis (1626-1661), François
detto ‘l’ancien’ (1630-1708) e il più illustre François soprannominato appunto ‘Le grand’
(1668-1733) - costituiva un punto irrinunciabile di
riferimento per il suo essere stata la prima importante
scuola strumentale francese; così pure la raffinatezza
timbrico armonica di Jean-Philippe Rameau (1683 –
1764) fu fonte costante d’ispirazione. Vengono
dunque riscoperti e coltivati, a cavallo tra Otto e
Novecento, generi di derivazione barocca, come il
pezzo caratteristico o la Suite. Offrono saggi
originalissimi, sia pur con intenti diversi, di questa
devozione sia Camille Saint-Saens con la Suite Algerienne sia Gabriel Faurè con Masque et
bergamasque, ma anche Alexis Emmanuel Chabrier (1841 –1894) con i suoi Pièces
pittoresques; su tutti Claude Debussy con la Suite bergamasque e Maurice Ravel con Le
Tombeau de Couperin. Quest’ultima opera, pubblicata da Durand a Parigi nel 1918, fu
iniziata nel 1914 e terminata nel 1917 dopo l’interruzione forzata, dovuta alla partenza
del musicista come volontario nella I Guerra Mondiale; non sorprende come quel che
doveva essere un omaggio ad un grande maestro francese ad una tradizione si sia
trasformato anche in un delicato tributo ai compatrioti caduti in battaglia. Ognuno dei
sei movimenti reca infatti una dedica particolare: a Jacques Charlot il Prélude, a Jean
Cruppi la Fugue, la Forlane a Gabriel Deluc, il Rigaudon a Pierre e Pascal Gaudin, a Jean
Dreyfus il Menuet e la Toccata a Joseph de Marliave.
Ravel, in queste preziose cesellature, propone melodie accennate come sospiri in un
finissimo incontro tra armonie tensive, di sapore estremamente moderno, e velature
modali, evocanti invece un paesaggio sonoro ormai smarrito, conferendo un fascino
malinconico ed indeterminato a tutta l’opera. Tuttavia non vi è sentimento patetico o
doloroso nella raccolta, ma una luminosa e nobile condotta, come luminosa e nobile
doveva essere la memoria di una stirpe e di una cultura. La collezione allude a Couperin
anche nell’architettura formale: una ‘suite’, o meglio alla francese un ‘ordre’ che allinea
una sequenza di danze proprie della tradizione settecentesca. Nel 1912, Ravel aveva
ascoltato la grande Wanda Landowska (1879-1959) riproporre Bach al clavicembalo
rimanendo impressionato dalle sonorità cristalline che infatti volle rievocare nella
versione pianistica del Tombeau. Ma la limpidezza del timbro clavicembalistico trova
echi anche nella successiva orchestrazione, completata dallo stesso Ravel nel 1919, che
come sempre nelle rielaborazioni del maestro francese, assume il valore di originale:
quattro, dei sei brani scritti per pianoforte, Prelude, Forlane, Menuet e Rigaudon,
propongono una scrittura in cui l’orchestra scivola via con liquida trasparenza, senza
alcuna reminiscenza delle dense masse orchestrali wagneriane.
Sottile ed agile, il Prelude propone una sola idea tematica, leggera e di sapore pentatonico,
che si snoda fluida fino a rivestire un episodio centrale più espressivo ed armonicamente
fluttuante prima di tornare su se stessa, spoglia di asperità. Dolce e malinconica la Fugue
a tre voci, giocata senza severità e senza toccare registri estremi; come fosse immaginata
per una intonazione di limpide voci femminili ed appena increspata dall’accentuazione
polimetrica tra soggetto e controsoggetto. E’ senz’altro un ulteriore omaggio alla
tradizione più antica sfumata di venature bachiane la scelta di aprire la suite con la
classica accoppiata Preludio e Fuga che proprio nel maestro di Eisenach aveva trovato
il massimo interprete per poi essere offuscata dal turbine del romanticismo. Infatti come
Bach aveva nelle sue monumentali raccolte accostato l’elemento più estemporaneo del
preludio alla rigorosa struttura della fuga, così Ravel. Eppure anche in questa scelta il
maestro francese sembra voler invertire i termini di percezione del materiale musicale
con una mirabile scelta poetica e dunque laddove il Prelude con il suo vivace moto
perpetuo trasmette un che di regolare e simmetrico la Fugue con i suoi tentennamenti
ritmici e le sue armonie finemente eluse par suggerire un percorso estemporaneo e quasi
irrisolto.
La seconda delle tre parti in cui può essere idealmente suddivisa la suite prevede tre
danze: del resto nella tradizione più antica proprio la forma suite si incentrava su quattro
o più movimenti di danza stilizzati cui alcuni autori aggiungevano altri elementi più o
meno affini. Raffinata incostanza ritmica anima anche la Forlane, costruita su un
archetipo popolare di provenienza veneto-friulana, così come l’ambiguità armonica
accompagna la sinuosa melodia che incornicia tre intermezzi e fascinosamente si sfida,
nel ritornello, con le cadenze dal gusto antico. Segue l’animato Rigaudon, d’origine
provenzale, il cui brio ricorda la Danse Villageoise di Emmanuel Chabrier; è un brano
tripartito con una sezione centrale dall’andamento più moderato ed intimo tra due
vigorose scene danzanti; quasi come se assistessimo prima ad un ballo campestre
collettivo e poi all’assolo accompagnato da un nostalgico strumento arcadico. La
seconda parte della suite si apre con la grazia ineffabile del Menuet: delicate e trasparenti
armonie, ancora tinte di modalità, si compongono ulteriormente nella Musette centrale,
dove un classico bordone tenuto richiama, appunto, il suono di una cornamusa,
sostenendo una melodia armonizzata con accordi paralleli. Nella ripresa i due elementi
tematici si rinforzano vicendevolmente in un aristocratico contrappunto fino ad un
accordo finale, risolutivo ma insoluto ed evanescente nel suo corollario di tintinnii.
Sembra quasi esprimere una volontà antologica la scelta di Ravel di concludere la Suite
con una brillante Toccata, un tentativo di fondere insieme, come spesso del resto
nell’opera raveliana, tradizioni provenienti da mondi diversi; dunque dopo l’apertura di
reminiscenza bachiana, il trittico di danze dal sapore francese ed infine una brillante
toccata che sembra omaggiare anche i grandi clavicembalisti italiani. La toccata è anche
lo sfavillante coronamento di un’opera che si era per lo più espressa attraverso delicati
chiaroscuri. Compimento straordinario e quasi inatteso. Se Ravel nei brani precedenti
aveva in certo qual modo evocato sonorità e strumenti obliati, nell’ultimo sprigiona
l’audacia di un pianismo stupefacente ed una energia cinetica inesauribile; ci trascina dalla
prima all’ultima misura in questo gioiello caratterizzato dal continuo scambio tra le mani
del materiale tematico che crea una cornice, fitta e contigua come un merletto, al tema
esposto in una regione mediana. Solo un momento di riposo può scorgersi nel motivo
semplice e soave che si insinua, per un attimo, tra gli ‘ingranaggi’ inarrestabili del
meccanismo pianistico. Scrittura avanzata ed efficacissima quella della Toccata - che si
ripresenta, con la medesima intenzione, anche in Gaspard de la Nuit e nel Concerto in Sol –
destinata a convogliare tutta l’energia custodita nelle pagine precedenti per estrinsecarsi
nell’apoteosi finale.

© Cesare Marinacci 2020 - BlogDellaMusica


Bibliografia essenziale

Alfred Cortot – La musica pianistica francese, Curci, 2016


Vladimir Jankélévitch – Ravel edizioni Abscondita collana Aesthetica, 2018
M. Long – Au Piano avec Maurice Ravel, Billaudot, 2016
C. Marinacci, Ravel Genio e Regolatezza, in Musicus Discologus 2 – Ets Pisa 2007

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