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La poesia eroica nella tradizione germanica

Il genere letterario che meglio riflette l’indole più autentica e lo spirito guerriero
tipico della primitiva civiltà germanica, ancora pagana, è certamente quello della poesia
eroica o eroico-mitica. La letteratura di contenuto eroico costituisce un patrimonio culturale
di tutto il mondo germanico antico, presso il quale si trova documentata, a vari livelli e sotto
diverse forme. Appartengono a questo genere il Beowulf, il Widsith, il Deor, la Battaglia di
Finnsburg e il Waldere (per l’area anglosassone), il Carme di Ildebrando (unico
rappresentante nella tradizione tedesca antica)1, i Carmi dell’Edda (per la letteratura
norrena).

L’Età eroica

I temi e i motivi elaborati nella poesia eroica risalgono a quel particolare momento
storico delle genti germaniche che viene definito “età eroica”. Ogni gruppo etnico, nel corso
della sua evoluzione sociale e culturale, conosce un’“età eroica”: quella dei Greci, ad
esempio, corrisponde alla fase delle spedizioni militari intraprese allo scopo di espandersi in
Asia Minore e trova la sua più nobile espressione poetica nei poemi omerici dell’Iliade e
dell’Odissea. Si tratta di esperienze “eroiche” che hanno determinato il sorgere di una poesia
tesa all’idealizzazione di chi si è particolarmente distinto in guerra e delle sue gesta
esemplari. L’“età eroica” germanica coincide con il periodo delle invasioni barbariche (o età
delle migrazioni = Völkerwanderungszeit), compreso, grosso modo tra il 375 (anno della
morte del grande re ostrogoto Ermanarico) e il 568 (anno dell’ultima grande invasione
barbarica, quella dei Longobardi di Alboino in Italia).

L’eroe, il tempo mitico, la fama

La figura di spicco di questo genere poetico è senz’altro rappresentata dall’eroe


(Held). Di solito si tratta di un personaggio di nobili natali, se non addirittura di
discendenza divina (solo raramente proviene da uno strato sociale inferiore), vissuto in un
tempo così remoto, da avere ormai acquisito la dimensione del mito. È possibile
esemplificare questo primo concetto tramite una citazione da un carme eddico,2

1
Il Poema dei Nibelunghi assieme a tutti gli altri testi del cosiddetto ciclo “gotico” o “teodericiano”, alla
Kudrun e ai poemi del ciclo cosiddetto “franco”, sebbene siano riconducibili alle tematiche eroiche di
stampo pagano, si collocano, dal punto di vista cronologico, nella fase media della letteratura tedesca.
2
L’Edda poetica è una raccolta di 29 carmi anonimi, tramandata, in gran parte, nel cosiddetto Codex Regius,
2365, della seconda metà del XIII secolo, una volta a Copenhagen, dal 1971 a Reykjavík. I primi undici
canti sono dedicati ad argomenti di carattere mitologico e hanno per protagonisti divinità del pantheon
germanico e più specificatamente nordico (Odino, Thor, Týr, Loki, Freyia e tanti altri); gli altri sedici, più
due frammenti, narrano le avventure degli eroi e delle eroine dell’antichità germanica (Sigurðr, ossia il
Sigfrido nordico, Hagen, Brunilde, Attila, etc.).
l’Hamdhismál, ovvero “Il carme di Hamdhir” (II strofa): “Questa storia non accadde né oggi
né ieri / - molto tempo da allora è trascorso / - poche sono più antiche; questa è assai più
antica! - / quando Gudhrun, figlia di Giuki, / spinse i suoi giovani figli a vendicare
Svanhild.” (trad. Mastrelli). “Lontane nel tempo, queste vicende sono ancora vivissime nella
memoria, appassionano indicibilmente gli ascoltatori, echeggiano da un capo all’altro del
territorio occupato dai Germani. Perché se mai vi fu un legame consapevole e ancora saldo
fra quelle genti dopo che si dispersero in infiniti spostamenti e migrazioni, esso fu dato
proprio dal comune interesse per la canzone eroica, che un gruppo trasmetteva all’altro...”
(cit. da Scardigli, Manuale di filologia germanica, Firenze, 19899).
L’eroe, appartenente ormai ad un passato lontano e favoloso, rappresenta un modello
a cui i posteri guardano con stupore ed ammirazione. La forza fisica e il coraggio,
l’esuberanza e la determinazione sono le qualità che gli hanno consentito di misurarsi in
tremendi combattimenti contro pericolosi nemici della sue gente, mostri, giganti, etc.; quasi
sempre conduce a compimento le sue imprese eroiche riportando vittorie schiaccianti sui
suoi avversari, ma non è escluso che possa anche perdere: in tal caso andrà incontro al
sacrificio della morte con animo fiero ed intrepido, consapevole di obbedire ai disegni
imperscrutabili del fato, cui niente e nessuno può opporsi. Le grandi imprese in cui l’eroe si
distingue gli conferiscono la fama che durerà, presso le generazioni future, anche dopo la
sua morte. Illustriamo questo concetto attraverso una citazione da un altro carme eddico,
l’Hávamál, “La canzone dell’Eccelso”: “Periscono le greggi, periscono le stirpi; / anche tu
stesso morrai; / ma non perirà giammai la buona fama / che uno si acquista. / Periscono le
greggi, periscono le stirpi; / anche tu stesso morrai; / ma io so di una cosa che mai perirà : /
il giudizio che accompagna chi muore” (trad. Mastrelli, str. 76 e 77). L’eroe rivive dunque
per i suoi posteri nei carmi che ne celebrano le avventure, acquisisce una sorta di
immortalità, grazie alla gloria che, valorosamente, è riuscito a guadagnarsi in vita.

Le origini della Heldensage: la storia, il mito, le favole

Le leggende eroiche germaniche affondano le loro radici nella storia3 e i soggetti


principali sono, molto spesso, figure storiche note. Anzi, non di rado, accade che gli storici
attingano dalla poesia eroica (opportunamente sfrondata delle alterazioni della fantasia
rapsodica) per la ricostruzione di fatti e avvenimenti relativi ai popoli germanici antichi, di
cui non si posseggono sufficienti documentazioni (o non se ne posseggono affatto).
Tuttavia, il nucleo storico che costituisce il fondamento della leggenda eroica, da cui prende
lo spunto il carme, subisce alterazioni e modifiche profonde e talvolta radicali. Nel corso
della sua trasmissione, ovviamente orale, da un bardo all’altro, da una generazione all’altra,
o da una popolazione germanica ad un’altra, la verità storica viene continuamente
rielaborata e rimaneggiata, talvolta attraverso l’arricchimento di nuovi particolari, talaltra,
invece, attraverso la perdita o la modifica di elementi originari. I grandi fatti storici vengono
così spoliticizzati e le grandi guerre tra genti germaniche si riducono a faide private interne
alle stirpi regali (come nel caso dei Burgundi nella leggenda dei Nibelunghi). Un esempio

3
Chadwick H.M., The Eroic Age, Cambridge, 1912.

2
paradigmatico di tale processo di trasfigurazione storica è rappresentato dalla leggenda di
Teoderico. Com’è noto, Odoacre, re dei Turcilingi e degli Sciri, deposto nel 476 Romolo
Augustolo, l’ultimo imperatore romano d’Occidente, si era insediato al suo posto, restando
per diciassette anni signore incontrastato d’Italia. Fino a quando, cioè, l’imperatore
d’Oriente Zenone, per spodestarlo, inviò in Italia l’ostrogoto Teoderico, figlio di Teodemiro,
della nobile dinastia degli Amali, rimasto in Oriente come ostaggio per un decennio alla
corte di Bisanzio in giovane età. A lui Zenone conferì, per i servizi resi, il titolo di patricius.
Nel 488, dunque, Teoderico marciò con il suo esercito sulla penisola e sconfisse Odoacre
sull’Isonzo e a Verona, costringendolo successivamente a cercare riparo a Ravenna. Dopo
tre anni di assedio, Odoacre si arrese con la promessa di aver salva la vita; ma Teoderico lo
fece uccidere a tradimento (493), divenendo in tal modo padrone di tutta l’Italia. Eletto re
degli Ostrogoti, Teoderico fissò la sua residenza a Ravenna e cercò negli anni del suo regno
di stabilire dei buoni rapporti tra gli ostrogoti ariani e i romani cattolici. Ma alla sua morte i
contrasti interni si acuirono e della situazione approfittò l’imperatore Giustiniano, che in una
lunga guerra (535-555), piegò la forza degli ultimi re ostrogoti: Vitige, Tòtila e Teia. Questi
i fatti storici. Ma nella leggenda sorta intorno alla figura di Teoderico, i rapporti storici e
cronologici risultano falsati. Teoderico (che nella leggenda diventa Teoderico da Verona =
Dietrich von Bern) è il legittimo re d’Italia (da antico tempo sede dei Goti), il quale appare
leso dall’odio di Odoacre nei suoi diritti ereditari e costretto ad abbandonare la patria.
Durante il suo esilio, durato trent’anni (ossia, quasi la durata del regno storico di Teoderico
in Italia), trova rifugio presso la corte di Attila, signore degli Unni e sarà grazie all’aiuto di
quest’ultimo che riuscirà a radunare un esercito per tornare in Italia, spodestare l’usurpatore
Odoacre e reinsediarsi legittimamente sul suo trono. Si noti che Attila, nella realtà storica,
muore nel 453 e quindi prima della nascita di Teoderico (455), ma nella finzione eroica i due
personaggi vengono resi contemporanei. Il motivo della vicinanza e alleanza tra Ostrogoti e
Unni ha anch’esso radici storiche: il padre di Teoderico era stato infatti uno dei vassalli del
re Unno. Con tutta probabilità, tale infedeltà storica va attribuita ad un processo di
idealizzazione della figura di Teoderico, operato dagli Ostrogoti. Già in vita, il re era
benvoluto dai suoi sudditi; in seguito, fu oltremodo rimpianto, soprattutto in seguito alle
traversie cui il popolo Ostrogoto fu esposto dopo la sua morte (guerra visigoto-bizantina
535-555), e quindi trasfigurato in un eroe leggendario. La leggenda teodericiana non resta
legata esclusivamente alla nazione gotica, ma anzi ha avuto una diffusione “internazionale”
ampia e duratura, tra tutti i popoli germanici, raggiungendo anche le letterature della
Norvegia e dell’Islanda medievali (si pensi ai carmi dell’Edda e alla Thidrekssaga).
A questo punto è doveroso fare una precisazione circa il ruolo dei Goti nella
formazione e proliferazione del materiale epico germanico. Com’è noto, non ci è pervenuto
nessun monumento letterario di genere eroico scritto in lingua gotica; nondimeno, abbiamo
ragione di credere che i Goti conoscessero molto bene questo genere poetico. In primo luogo
lo stesso storico Giordano documenta nella sua De origine actibusque Getarum (V, 43)
l’usanza, diffusa presso i Goti, di celebrare, accompagnandosi con la cetra, le gesta degli
antenati. In secondo luogo, una buona parte delle saghe eroiche germaniche, trae origine
proprio da avvenimenti storici i cui protagonisti sono principi goti: tale eredità gotica
confluisce, successivamente, nel patrimonio letterario delle altre tradizioni germaniche.
Accanto al ben noto e già menzionato esempio della saga di Teoderico (che, oltre a
3
costituire il background storico-letterario del Carme di Ildebrando, ritroviamo al centro di
poemi del cosiddetto ciclo “teodericiano”, di epoca altotedesca media), ricorderemo la
leggenda di Ermanarico, che trova la sua trasfigurazione poetica nel carme di Hamdhir
(Edda poetica) e ancora quella di Attila (Cantare dei Nibelunghi, Atlakvidha).
Oltre al passato storico, contribuiscono alla formazione delle leggende eroiche
germaniche, sia pur in misura minore, temi e motivi culturali di diversa natura, ovvero: i
legami con l’antichità classica (es. la leggenda di Wieland, che presenta agganci con il mito
di Dedalo e di Vulcano), la materia mitologica, l’elemento favolistico. Tuttavia, nel corso di
questo secolo, il ruolo di tali tematiche — considerato preponderante dalla critica
ottocentesca (Grimm) — è stato fortemente ridimensionato ad opera di studiosi quali
Heusler e Schneider. Secondo Heusler, infatti, l’elemento mitologico esercita una funzione
di rilievo solamente nelle attestazioni nordiche (i carmi eddici della prima parte). Le
opinioni di tali studiosi hanno generato il sorgere di un acceso dibattito, che ha visto
scendere in campo (a favore del ruolo del mito nella formazione della Heldensage) studiosi
di psicologia (Jung) e di storia delle religioni (Eliade e Dumézil) e ancora filologi, quali
Schröder, de Vreis, Höfler. Certamente, sebbene l’influsso del mito non sia innegabile, è pur
vero che non bisogna sopravvalutarne la portata, specie se si opera il confronto con le
leggende eroiche greche o con quelle indiane. Del resto, non possiamo dimenticare che la
Heldensage germanica perviene ad una redazione scritta solamente dopo la conversione al
Cristianesimo delle genti germaniche.
Concorrono alla formazione della HS anche motivi favolistici (Panzer), ma il loro
ruolo (come quello del mito) è senz’altro marginale.

Il poeta (breve digressione sul genere encomiastico)

La poesia eroica veniva prodotta e veicolata, attraverso la recitazione orale, dal


menestrello di corte, il bardo o, se si vuole utilizzare la denominazione anglosassone, lo
scop4 (confrontabile con l’aèdo greco). Il suo compito era quello di allietare le feste e i
banchetti di corte con la poesia e con il canto; di solito, infatti, la recitazione era
accompagnata da uno strumento musicale. Il cantore frequentava i palazzi dei re e dei
capitribù e talvolta prestata servizio continuativo presso un solo signore, ossia poteva
appartenere stabilmente al seguito di questi, prestando anche servizio militare (in taluni
corredi funerari, ad esempio, sono state rinvenute sia la spada che l’arpa). Non di rado, il
bardo-guerriero celebrava imprese eroiche a cui egli stesso aveva preso parte, come seguace
del suo signore. In questo caso, il tipo di poesia prodotta non appartiene al genere eroico, ma
a quello “encomiastico” o di “occasione” (lode poetica del principe in occasione di una sua
vittoria o della sua morte, l’altro grande genere poetico che fiorisce nelle corti germaniche).
Un celebre passo del Beowulf (vv. 867b-900) offre, in immediata successione, un esempio
di poesia d’encomio e uno di poesia eroica. La scena si svolge nella sala del palazzo di
Heorot, durante il banchetto dato per festeggiare il primo duello tra l’eroe e il mostro

4
Dal punto di vista etimologico, il termine è probabilmente collegato ad una radice ie. da cui proviene anche
ingl. shape “creare” < ags. scieppan, v. forte VI. In tal senso, lo scop era colui che dava forma a qualcosa.

4
Grendel: un “vassallo del re” (cyninges þegn), con funzioni di scop viene introdotto per
celebrare Beowulf e la sua recente vittoria contro il mostro (vv. 867b-874a); segue il carme
eroico:

(vv. 874b-892b): “Wēl-hwylc gecwæð,


þæt hē fram Sigemunde secgan h‹rde,
ellen-dædum, unc|ūþes fela,
Wælsinges gewin, wīdes sīðas,
þāra þe gumena bearn gearwe ne wiston,
fæhðe ond fyrena, bū|ton Fitela mid hine,
þonne hē swulces hwæt secgan wolde,
ēam his nefan, swā hīe ā wæron
at nīða gehwām nīd-gesteallan;
hæfdon eal-fela eotena cynnes
sweordum gesæged. Sigemunde gesprong
æfter dēað-dæge dōm unlytel,
syþðan wīges heard wyrm ācwealde,
hordes hyrde. Hē under hārne stān,
æþelinges bearn, āna genēðde
frēcne dæde; ne wæs him Fitela mid;
hwæþre him gesælde, ðæt þæt swurd þurhwōd
wrætlīcne wyrm, þæt hit on wealle ætstōd,
dryhtlīc īren; draca morðre swealt.”

“Fece poi versi di tutto quello che aveva sentito


raccontare di Sigemund; di fatti valorosi,
di molte ignote cose, degli scontri del Wælsing,
di avventure remote di cui i figli degli uomini
non sapevano a fondo, di faide e di violenze.
Fuorché Fitela: lui c’era quando lo zio
usava raccontare queste storie al nipote,
dato che si trovavano sempre, in qualunque attacco,
compagni di pericolo (avevano abbattuto
con le spade un’intera famiglia di giganti).
Ne nacque, per Sigemund, dopo il suo giorno di morte,
non poca gloria, perché, duro in battaglia,
aveva ucciso un serpente custode di un tesoro.
Sotto le rocce canute si era azzardato da solo,
il figlio dei principi; il temerario, all’impresa:
non c’era con lui Fitela. Pure, gli fu concesso
di trafiggere con la spada il drago meraviglioso:
che l’inchiodasse al muro, il ferro del principe.
Il drago morì di quel colpo.”
(trad. L. Koch)
5
Un’altra testimonianza della diffusione del genere encomiastico, quale prodotto dello
scop, ci viene fornita da fonti storiche e riguarda la corte degli Unni di Attila (V secolo).
L’ambasciatore bizantino Prisco (che accompagnava l’imperatore Massimino in una
missione diplomatica alla corte di Attila) narra che durante un banchetto al quale era stato
invitato, calata la sera e accese le fiaccole, entrarono nella sala due “barbari” (probabilmente
due Goti), che recitarono dei canti da loro composti, in cui esaltavano le vittorie e le virtù
guerriere del re degli Unni. Nel nord, a partire dal IX secolo, presso le corti dei Vichinghi,
questo genere poetico viene ulteriormente sviluppato dagli Scaldi, che elaborano un tipo di
poesia estremamente complessa, con un maggior uso di kenningar (perifrasi poetica, tipo
“fragor dei dardi” per “battaglia” o mere-hengest “corsiero del mare” per “nave”) ed una
costruzione sintattica particolarmente artificiosa e contorta.
Un componimento poetico ags. molto antico, che getta luce sulla funzione del bardo o
scop, è il Widsith “viaggiatore verso terre lontane” (143 vv.), conservato nell’Exeter Book e
scritto in sass.occ., ma certamente deve trattarsi di una copia posteriore (intorno al X secolo)
di un originale più antico, scritto in dialetto anglico. La parte centrale di quest’opera esprime
con eleganza la concezione eroica e illustra, in modo affascinante, il mondo germanico,
quale doveva apparire nell’immaginario collettivo del popolo anglosassone. Il Widsith
racconta i suoi vagabondaggi attraverso l’intero mondo germanico e ricorda i molti capitribù
presso cui ha prestato servizio. Molti dei personaggi da lui ricordati appaiono in altri poemi,
in Beowulf, in Waldere, etc. Sostiene di aver conosciuto quasi tutti i principi della
“Germania”, vissuti in un periodo di oltre duecento anni, da Eormanric (morto nel 375) a
Ætla (che poi germanico, non é, ma viene per così dire adottato), a Ælfwine (morto nel 572
ca.): ne nomina qualcosa come 70 ed altrettante tribù! È chiaro, dunque, che non può
trattarsi di un canto realmente ed autenticamente autobiografico! L’interesse del testo,
nondimeno, consiste nella rappresentazione storica e geografica della “Germania”
dall’angolo visuale di un bardo, vissuto presumibilmente nella Northumbria del VII secolo.
Quello che va sottolineato è lo spirito “universalistico”, per cui vengono esaltati, alla stessa
maniera, goti, burgundi, franchi, danesi, angli, sassoni, longobardi e molti altri. Nel Widsith
abbiamo dunque la mescolanza (cfr. supra) di ricordi storici e di tradizioni epico-eroiche,
che l’autore considerava ben note al suo pubblico; e, al tempo stesso, una descrizione
sommaria di tutto quel mondo di popoli barbari erranti e assetati di conquista, che entrano in
conflitto con l’impero romano.
Altra interessante testimonianza letteraria relativa alla funzione di un bardo
germanico è quella che ci viene fornita dal Deor, un componimento poetico di 42 versi, che
consiste sostanzialmente nel lamento di un menestrello, che dopo molti anni di servizio
presso il suo signore, è stato soppiantato dal rivale Heorrenda. Egli si consola raccontando le
prove affrontate dagli eroi germanici, tutte superate dopo lunga fatica (racconta circa sei
storie). Anche questa poesia è un’affascinante galleria di personaggi della leggenda
germanica: dal famoso fabbro Weland, a Teoderico degli Ostrogoti e altri ancora. Il
poemetto si articola in 6 stanze divise tra loro sempre dallo stesso ritornello:

(vv. 8-13) “Beadohilde ne wæs hyre broþra deaþ


on sefan swa sar swa hyre sylfre þing,
6
þæt heo gearolice ongieten hæfde
þæt heo eacen wæs; æfre ne meahte
þriste geþencan, hu ymb þæt sceolde.
þæs ofereode, þisse swa mæg!” (ritornello)

“Per Beodohild non fu la morte dei suoi fratelli


così penosa, nella sua mente, come la sua stessa vicenda;
giacché ella aveva chiaramente compreso
di essere incinta; non poteva mai
risolutamente pensare, come agire in quella circostanza.
Quella volta riuscimmo; così anche ora!”

Gli ideali della poesia eroica: la società aristocratica e guerriera

Per quanto concerne l’ambiente sociale in cui fiorì il carme eroico ed operò lo scop,
siamo ben informati da fonti letterarie sia anglosassoni che norrene. Gli ideali della poesia
eroica sono quelli propri di una classe aristocratica, virile e guerresca, quale è quella che si
afferma nell’età delle migrazioni (375-568).5 Al centro di questa società sta il signore con il
suo seguito; signore e guerrieri sono uniti da un legame, giuridico ed etico, che sta al di
sopra di qualunque altro vincolo, sia pure quello di sangue: il legame della fedeltà reciproca
fino alla morte. Nei capp. 13 e 14 della Germania, Tacito parla di questo nucleo dell’antica
società germanica, designandolo con un termine ben preciso, divenuto poi tecnico, di
comitatus, che indica propriamente l’insieme dei comites (colleghi).
In base al legame di fedeltà è un disonore per il guerriero tornare dalla battaglia senza
il proprio principe, come si legge nel cap. 14 della Germ.: “Quando si viene a battaglia, è
vergognoso per il principe lasciarsi superare in valore, ed è vergognoso per il seguito non
uguagliare il valore del principe. Inoltre è cosa infamante ed ignominiosa per tutta la vita
l’essere ritornati dalla battaglia sopravvivendo al proprio principe”. Storiografi greci e
romani (es. Procopio) raccontano, infatti, di casi in cui gruppi di Germani, morto il loro
condottiero, preferivano farsi uccidere anziché tornare a casa senza il loro capo (per la
citazione dalla Battaglia di Finnsburg, v. infra.)
Tra i compiti del signore del comitatus rientra l’obbligo di curarsi delle esigenze
materiali dei suoi uomini, e non limitatamente a quelle relative alla vita militare: Tacito
riferisce anche che i membri del comitatus esigono e ricevono dal loro signore “cavallo e
lancia” e che “contano come stipendio (cedunt pro stipendio) banchetti e sfarzi (epulae et
apparatus), sebbene rozzi, tuttavia abbondanti (quamquam incompti tamen largi...)”. Non è

5
In passato, si è tentato di rintracciare le origini del canto eroico all’epoca di Tacito, che negli Annali (II, 88)
fa menzione di alcuni canti commemorativi in onore di Arminio. In realtà, l’ipotesi più credibile è che questi
canti in onore di Arminio appartengano piuttosto ad una poesia di tipo genealogico. Il canto eroico, vero e
proprio, nasce invece molto più tardi, per l’appunto, nell’età delle migrazioni.

7
in caso, del resto, che il termine ingl. Lord derivi da un antico composto ags. *hlāf-weard >
hlaford “custode del pane”.
Questi si svolgono nella sala, luogo che, nel “teatro” eroico germanico, assume
particolare importanza, essendo essa molto spesso centro e cornice della vita dei membri del
comitatus e del proprio principe: lì, infatti, arrivano i messaggeri e vengono prese le
decisioni; lì, bevendo idromele e birra, gli eroi si vantano delle gesta compiute (il dōm) o
promettono future prodezze al proprio signore; lì, fra gli ospiti, può scoppiare la lite
sanguinosa, e lì chi viene da lontano, porge omaggio al re; lì, infine, il principe promette ai
suoi sudditi il ricco bottino e lì questo viene distribuito poi dalle sue mani.
Il capo del seguito ha, infatti, anche il dovere di essere generoso verso i propri
uomini; per questa sua qualità egli viene chiamato “dispensatore d’oro”, “donatore degli
anelli” (ags. beaggifa, sincgifa, goldwine gumena).
La fedeltà del guerriero verso il proprio signore è intimamente connessa con il codice
d’onore, che costituisce la spina dorsale etica della poesia eroica germanica. Nella Battaglia
di Finnsburg la lotta dei bravi seguaci di Hnæf viene parafrasata con la seguente immagine
titpica:
(vv. 37-40) “Ne gefrægn ic næfre wurþlicor æt wera hilde
sixtig sigebeorna sel gebæran,
ne næfre swanas hwitne medo sel forgyldan
ðonne Hnæfe guldan his hægstealdas.”

“Giammai udii sessanta uomini in battaglia


più degnamente, meglio comportarsi,
né ripagar meglio spumante idromele
di quanto a Hnæf tributarono i suoi seguaci”

La mancata osservanza di tale dovere verso il proprio signore è un marchio d’infamia per
tutta la vita. L’esempio più celebre di dedizione al proprio signore ci è offerto dalla
Battaglia di Maldon,6 che si riferisce ad un episodio riportato nella Cronaca, all’anno 991.
Riallacciandosi alla più antica tradizione epica, il poema ha per soggetto uno dei tanti scontri
che si ebbero fra Inglesi e Danesi per la supremazia del territorio anglosassone. Come
abbiamo puntualizzato, gli antichi poemi epico-eroici non prendevano a soggetto
avvenimenti storici recenti e neppure recavano tracce di un sentimento patriottico nazionale
(come fa invece, la BdM). Ciononostante, the Battle of Maldon è molto simile, nello spirito,

6
Verso la fine del periodo anglosassone, la vecchia nota eroica, per tanto tempo silenziosa, ritorna in due
bei poemi di soggetto contemporaneo. Il primo è la Battaglia di Brunanburg, riportato dalla Cronaca
all’anno 937: esso celebra la vittoria ottenuta da Æthelstan, re del Wessex e da Edmondo suo fratello, contro
le forze alleate di Olaf re di Norvegia, Costantino re di Scozia e dei Britanni del regno di Strathclyde. Si
avverte una notevole differenza tra la sostanza epica di questo poema e quella della tradizione anglosassone
precedente. In Beowulf e negli altri poemi l’accento era posto sull’eroe individuale, le cui origini nazionali
avevano scarsa importanza: egli era un eroe germanico e come tale godeva dell’ammirazione di tutti i popoli
germanici, senza alcun pregiudizio nazionale. In The Battaglia di Brunanburg, invece, trova espressione un
forte sentimento patriottico: la vittoria è una conquista delle forze inglesi sui nemici norvegesi, scozzesi e
gallici. L’altro è la Battaglia di Maldon.

8
a quell’antica poesia. È la storia di una sconfitta inglese disastrosa, in cui, tra gli altri, trova
la morte, l’ealdorman Byrhtnoth, in un disperato e coraggioso tentativo di arrestare le forze
danesi. Questo testo esemplifica la grande storia dei seguaci fedeli, che preferiscono morire
con il proprio signore per vendicarne la morte e per risparmiarsi il vergognoso ritorno a casa
senza di lui. Quando l’ealdorman Byrthnoth muore, ecco ciò che succede:

(vv. 203b-208) “Ealle gesawon


heorðgeneatas þæt hyra heorra læg.
Þa ðær wendon forð wlance þegenas,
unearge men efston georne:
hi woldon þa ealle oðer twega,
lif forlætan oððe leofne gewrecan”

“Tutti videro,
i compagni del focolare che il loro padrone giacque.
Allora avanzarono i valorosi guerrieri,
gli uomini prodi si affrettarono con impeto:
tutti vollero una delle due cose,
o perdere la vita o vendicare il loro caro (signore)”.

Uno dei compagni esprime il desiderio di vendicare il suo signore con queste parole:

(vv. 246-253a) “Ic þæt gehate, þæt ic heonon nelle


fleon fotes trym, ac wille furðor gan,
wrecan on gewinne, minne winedrihten.
Ne þurfon me embe Sturmere stedefæste hæleð
wordum ætwitan, nu min wine gecranc,
þæt ic hlafordleas ham siðie,
wende fram wige; ac me sceal wæpen niman,
ord ond iren”.

“Io giuro che di qui non mi muovo


neanche di un piede; voglio invece andare avanti all’attacco
per vendicare nel combattimento il mio amato signore.
Le genti di Stourmer, i costanti guerrieri, non potranno
rimproverarmi con le loro parole per il fatto che io, ora che
il mio signore è venuto meno, senza il mio lord, torni a casa,
diserti questa lotta; piuttosto l’arma mi dovrà cogliere (rapire),
la punta del giavellotto e il ferro della spada”.

Come i seguaci del principe hanno il dovere di rimanere fedeli al proprio signore fino
alla morte, così il principe ha l’obbligo di curarsi delle esigenze materiali dei suoi uomini. Il
Widsith esalta costantemente la liberalità dei numerosi principi visitati dal poeta, i quali

9
sovente gli regalarono gioielli e bracciali d’oro, come ricompensa per il suo canto. Il più
generoso si dimostrò Alboino:

(vv. 70-74) “Swylce ic wæs on Eatule, mid Ælfwine,


se hæfde moncynnes, mine gefræge,
leohteste hond lofes to wyrcenne,
heortan unhneaweste hringa gedales,
beorhtra beaga, bearn Eadwines.”

“Anche in Italia fui io con Alboino,


il quale ebbe, del genere umano, a mia conoscenza,
la mano più pronta ad acquistar lode,
il cuore più generoso nel donare anelli,
lucenti armille, il figlio di Aduino”.

Tra i motivi che spingono l’eroe all’azione, oltre ad interessi materiali, come la conquista
dell’oro, armi e corazze, ve n’è uno che sta alla base di tutti (a cui già abbiamo accennato) e
ne costituisce il denominatore comune: l’orgoglio, l’onore, la gloria, il dōm, l’impulso a
rendersi immortali. Tali valori sono posti al di sopra del vincolo di parentela o di amicizia.
Come dimostrano le numerose espressioni del linguaggio poetico anglosassone denotanti la
“gloria”, tale concetto deve avere avuto un ruolo particolare nella poesia eroica ed
encomiastica precristiana. La gloria è il compenso dell’eroe pagano: egli continuerà a vivere
dopo la morte (onorevole), e non nell’aldilà o in un regno di gloria, ma sulla bocca della
gente che racconterà le sue avventure. Dall’onore leso, scaturisce l’impellente necessità
della vendetta, che ovviamente è vendetta di sangue (tratto, questo, presente anche
nell’istituzione della Sippe, tipico, anche se non esclusivo, della cultura germanica
primitiva). La Battaglia di Finnsburg (da quanto possiamo dedurre dai pochi frammenti
rimasti) e il Poema dei Nibelunghi. tanto per citare solo due esempi, sono imperniati del
motivo della vendetta. L’onore leso, o la paura di perderlo, costituisce uno dei motivi
centrali anche nel Carme di Ildebrando.

I mezzi espressivi della poesia epico-eroica

La metrica germanica si basa sull’impiego massiccio dell’allitterazione, cioè della


ripetizione di fonemi uguali in posizione iniziale e in posizione accentata, quindi rilevante
dal punto di vista metrico e fonetico insieme. Altrimenti detto, l’allitterazione è la
ripetizione dell’elemento iniziale di sillabe toniche. Lo sviluppo di una metrica di questo
tipo è in stretto collegamento con la struttura stessa delle lingue germaniche, in cui, com’è
noto, si afferma la rizotonìa. L’uso dell’allitterazione (e non della rima finale) è
conseguenza dell’accento protosillabico. In altri termini, i fonemi iniziali della parola
vengono privilegiati sul piano fonetico e, di conseguenza, anche sotto il profilo metrico. La

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rima finale non attecchisce poiché le sillabe finali, non essendo accentate, vanno incontro a
fenomeni di indebolimento, che determina un loro livellamento o addirittura una loro caduta.
L’antico verso germanico non è altro che una stilizzazione di queste caratteristiche
ritmiche proprie della lingua e la sua struttura è in perfetto parallelismo con quella della
lingua stessa. Il verso germanico è un verso lungo, diviso in due semiversi (o versi brevi a e
b, o emistichi) da una cesura, ma legati dall’allitterazione; ciascun verso breve (che
costituisce l’unità di misura fondamentale della metrica germanica), si suddivide, a sua
volta, in due parti o “battute”, ognuna delle quali comincia con una sillaba fortemente
accentata (/); nelle battute polisillabiche può svilupparsi naturalmente anche un accento
secondario (\): perciò ogni verso breve aveva due accenti principali ed eventualmente due
accenti secondari, secondo il seguente schema: / ___\___/___\. Inoltre, ciascun semiverso
poteva essere riempito ritmicamente con una gran libertà, ovvero poteva presentare un
numero variabile di sillabe atone, sicché il verso lungo non aveva mai la stessa lunghezza. In
questo senso, la metrica germanica viene definita di tipo isoaccentuativo e non isosillabico
(come la metrica classica), poiché i due semiversi che compongono il verso lungo devono
presentare un uguale numero di accenti e non di sillabe: in genere, si avevano 4 sillabe
accentate (due in ciascun semiverso) e un numero variabile di sillabe atone. Ecco come
l’allitterazione funge da ponte fonetico tra i due semiversi, collegandoli tra loro: un fonema
iniziale accentato del I verso breve viene ripetuto nella medesima posizione (metrica e
fonetica) nel II semiverso, ossia il fonema viene allitterato nel secondo semiverso. È
importante ribadire che il fonema allitterante è colpito dall’accento: una semplice ripetizione
di suoni posti in inizio di parola, ma non accentati, non è allitterazione, ma semplicemente
assonanza (fischi per fiaschi).
Generalmente le parole accentate (e che quindi potevano essere interessate
dall’allitterazione) erano sostantivi, verbi flessi e poi, con minore frequenza, gli aggettivi, i
pronomi, le preposizioni e le congiunzioni. In tal senso, si aveva una corrispondenza tra il
livello fonetico, metrico e semantico.
Va precisato che i nessi consonantici allitteravano tra loro, così come allitteravano
sempre le vocali, qualunque fosse il loro timbro. Sono state avanzate alcune teorie
sull’allitterazione vocalica:
1) Teoria dell’occlusiva glottidale. Secondo questa teoria, tutte le parole germaniche
iniziavano per consonante; quelle scritte con vocale iniziale, venivano pronunciate con una
consonante glottidale (occlusiva laringale) rappresentabile forse con [?], che permetteva una
particolare forma di allitterazione graficamente invisibile.
2) Teoria della sonorità, secondo cui le vocali allitterano perché hanno il coefficiente di
sonorità (ma allora dovremmo aspettarci l’allitterazione tra l e r);
3) Teoria delle vocali identiche secondo la quale, in origine allitterassero solo vocali
identiche e poi anche vocali differenti (una volta identiche) divenute tali per effetto di varie
trasformazioni fonetiche (metafonie ecc.).
Ritornando alla descrizione del verso lungo germanico, occorre puntualizzare che la
parte più importante del verso, sia dal punto di vista logico-semantico, che da quello
metrico, è certamente il II semiverso. Infatti, ogni argomento, ogni tema iniziava sempre da
questa parte del verso lungo, laddove nel primo venivano fornite informazioni ridondanti e
superflue. Il motivo di tale strutturazione è dato dal fatto che si dava il tempo all’uditorio di
11
sistemarsi, di accomodarsi ai propri posti e di concentrarsi nell’ascolto del brano poetico. In
genere il primo verso (all’inizio di un poema ad es., o di una nuova sezione) conteneva
interiezioni o espressioni asseverative che non trasmettevano informazioni fondamentali ma
che avevano, più che altro, lo scopo di captare l’attenzione del pubblico. Es. cfr. l’ags. hwæt,
con cui si apre il Beowulf. Ciò spiega anche perché l’accento principale di tutto il verso era
quello che cadeva sulla prima battuta del secondo semiverso, che poi era quella che
individuava l’allitterazione chiave su cui si fondano tutte le altre (á à á. à).
3 2 4 1
Da qui la denominazione di Hackenstil (o Bogenstil) in riferimento alla struttura del verso
lungo germanico: esso presentava, infatti, un andamento rappresentabile graficamente con la
sagoma di un uncino.
All’interno di tale struttura, che collega l’un con l’altro i versi lunghi, ponendo al
centro il punto fermo della frase (il primo accento del II semiverso) e venendo così a
formare un enjambement tra un verso e l’altro, si inserisce una figura stilistica caratteristica
per l’epos germanico che risponde al nome di variatio: si tratta della ripetizione di uno
stesso concetto mediante l’impiego di altri termini, sinonimi o quasi sinonimi, kenningar o
altri composti poetici, allo scopo di ribadire l’idea già enucleata o di precisarla con
l’aggiunta di nuovi particolari. Il risultato era la creazione di versi ridondanti che
producevano una dilatazione ed enfatizzazione del discorso epico-eroico.

* * *

Si dice che il poeta orale avesse un bagaglio di conoscenze, ma che utilizzasse anche
formule che potrebbero appartenere all’oralità, ovvero stilemi poetici germanici assieme ad
elementi latini, inserendoli in una metrica di tipo isoaccentuativa. Quindi, non sarebbe stato
un analfabeta che componeva canzoni con formule orali, ma un poeta dotto, che conosceva
le fonti classiche e cristiane e che, però, faceva uso di formule dell’oralità germanica.
Sul piano delle formule, lo scop disponeva di questo bagaglio di formule
“preconfezionate” e anche di un bagaglio di sinonimi, che iniziavano con fonemi diversi,
sicché potevano essere utilizzati in contesti metrici diversi. Quindi, si avevano elementi
semantici diversi, collegati con un fonema allitterativo uguale. Ad es.: “il mare che
mormora”.
La formula: per essere tale deve ricorrere più volte, un sintagma che ricorre sempre
nella stessa posizione metrica. Può essere modificata variando, scegliendo un sinonimo,
senza variare l’allitterazione. Interessante è notare che la presenza di questo tipo di elementi
anche nella prosa può incoraggiare questo tipo di analisi anche per componimenti non
poetici (ad es., nell’uso dell’allitterazione, come in Wulfila). Sul piano del contenuto le
formule potevano essere applicate anche in componimenti di tema diverso. Ad es., la vittoria
dell’eroe e la morte dell’eroe sono temi diversi, ma possono presentare anche formule uguali
o temi uguali.
Il Tema: è un nucleo concettuale, un insieme di elementi di contenuto uguale, una
concatenazione di argomenti che ricorrono più volte in posizioni analoghe nei diversi
componimenti poetici. Ad es., il tema delle bestie di battaglia (il lupo, l’aquila o il corvo),
che può essere inserito prima, dopo o addirittura al posto della battaglia. Questo tema
12
traduce il concetto della predestinazione, della wyrd, alla quale nessuno si può sottrarre; esso
può preannunciare o sottolineare la morte cui molti guerrieri vanno incontro.7 Il tema
dell’eroe sulla spiaggia precede la battaglia. Nella “Battaglia di Finnsburh” ci sono tutt’e
due.
Il tema dell’eroe sulla spiaggia è evocativo, di rottura, serve ad allertare, serve a dare
suspense (come le musichette dei film gialli o dell’orrore!). È un cronotopo, un elemento
liminare tra due realtà. Implica, infatti, il ricorrere complessivo di elementi liminari: la
soglia, la spiaggia; inoltre, ci deve essere un elemento di luminosità, un bagliore. Un cluster,
un insieme di elementi. Quindi, è più evocativo che strumentale. Si noti che in un epigono,
come la Battaglia di Brunanburh, questi temi sono utilizzati male, essendo stati inseriti in
posizioni errate. Ad es., nella Battaglia di Brunanburh si ha la descrizione oggettiva della
battaglia e poi si ha il tema delle bestie di Battaglia in posizione ridondante, diventando così
meramente esornativo, non funzionale. Altro es.: la Giuditta, componimento tardo, il tema
dell’eroe sulla spiaggia c’è, ma inserito dopo l’uccisione di Oloferne da parte dell’eroina,
quindi in posizione errata. Questo tema, infatti, è anticipatore, da suspense, e però viene
messo alla fine, in posizione sbagliata.
Nella Battaglia di Finnsburh il tema delle “bestie di battaglia” è presente al posto
della battaglia:

(vv. 5-8) “ fugelas singað,


gylleð græghama, guðwudu hlynneð,
scyld scefte oncwyð. Nu scyneð þes mona
waðol under wolcnum.”

“ gli uccelli cantano,


l’ammantato di grigio ulula, rumoreggia il legno di guerra,
lo scudo echeggia alla lancia. Ora riluce la luna
vagante tra le nuvole”

In questo passo si nota:


1) La presenza del tema delle bestie di battaglia, gli uccelli e il lupo (che sostituisce la
battaglia stessa);
2) la presenza di composti poetici quali græghama per “lupo”, lett. “l’ammantato di grigio”
e guðwudu per “asta, lancia”, lett. “il legno di guerra”;
3) la presenza di un elemento di luminosità (la luce della luna);
4) la presenza della formula “waðol under wolcnum”, presente in moltissimi altri contesti
poetici.

Ancora dalla BdF:

7
Il tema è presente, ad esempio, anche nel carme eddico Brot, dove un corvo, che ha visto morire Sigurðr,
colpito a morte dal fratello di Gunnar, preannuncia la tragica fine dei fratelli omicidi (i Burgundi) alla corte
di Atli.

13
(vv. 34-36) “ Hræfen wandrode,
sweart and sealobrun. Swurdleoma stod,
swylce eal Finnsburh fyrenu wære.”

“ Il corvo roteava
nero e funesto. C’era un lampeggiar di spade
come se tutta Finnsburh fosse in fiamme.”

Anche in questo passo ritorna il tema delle bestie di battaglia (il corvo), completato
dall’elemento di luminosità (swurduleoma). Si noti anche la coppia di aggettivi “sweart and
sealobrun”, legati dall’allitterazione.

Il Carme di Ildebrando [FACOLTATIVO]

Si tratta di un testo straordinario, la più antica testimonianza a noi nota di poesia


epico-eroica di una lingua germanica (assieme al Beowulf) e per le sue qualità letterarie e per
i complessi problemi che solleva è assurto subito a grande fama, divenendo oggetto di uno
sterminato ed ininterrotto numero di studi, che ancora oggi non accennano ad esaurirsi.
Scoperto nel 1715 nella Biblioteca di Kassel dall’erudito J. V. von Eckhart, amico e
collaboratore di Leibniz, ebbe nel 1729 la sua primissima edizione, seguita dal 1812 da
quella più scientifica dei fratelli Grimm. Il manoscritto che ce lo tramanda raccoglie
trattazioni in latino di argomento teologico e risale al IX secolo; stilato presumibilmente
nello scriptorium dall’abbazia di Fulda in Assia, scomparve nel 1946, per essere poi
ritrovato in America nel 1947. Il testo è stato trascritto intorno all’830, da due mani diverse,
sul retro della prima pagina (1r) e sul verso dell’ultima (76v): ciò spiegherebbe come, per
mancanza di spazio, i copisti non avessero più potuto inserire anche la chiusa del
componimento che, per l’appunto, si arresta bruscamente al v. 68a.

Contenuto: trama, temi e motivi

Il HL costituisce la più antica manifestazione letteraria della leggenda eroica formatasi


intorno alla figura di Teoderico (v. supra), che (come è stato già accennato) troverà nuova
espressione, variata ed arricchita per il processo evolutivo proprio della leggenda, in
molteplici documenti successivi, ovvero quelli del cosiddetto “ciclo teodericiano” (v. infra).
Ma la guerra fra Teoderico ed Odoacre nel HL è sullo sfondo; i personaggi principali sono
Ildebrando e suo figlio Adubrando, impegnati in un mortale duello, i quali non sembrano
aver alcun riscontro storico, ma essere solo creazioni letterarie.
Con la consueta formula asseverativa epica (“Ik gihorta ðat seggen”) ha inizio la
concisa descrizione dei rapidi preparativi allo scontro tra i due guerrieri, esponenti di opposti
eserciti. La situazione si rivela subito drammatica, giacché sappiamo dal poeta, sin dalla
breve introduzione al dialogo tra i contendenti, del loro stretto legame di parentela. Il motivo
14
del tragico duello tra padre e figlio appare anche in altre letterature e mostra particolare
aderenza alla versione germanica nella poesia eroica persiana, irlandese e russa. Tale
rispondenza, che non può ritenersi casuale, ha sollevato il problema circa l’origine e lo
sviluppo del motivo stesso, la cui soluzione ha dato vita a due diverse teorie: 1) migrazione
del motivo letterario dal luogo in cui era sorto, con conseguente legame di dipendenza
tradizionale tra le varie manifestazioni; 2) comune retaggio indeuropeo, che trova
espressioni parallele indipendenti. Nel canto germanico il motivo assume una maggiore
carica di drammaticità, giacché, mentre nelle altre versioni la tragedia è determinata dalla
fatale ignoranza del rapporto di parentela che si palesa soltanto quando il padre ha già ucciso
il proprio figlio, qui I. conosce ben presto chi è il rivale che gli sta di fronte, e pur straziato
nel cuore, è costretto ad uccidere il suo unico discendente: dietro la sua richiesta, infatti,
Adubrando dichiara il proprio nome e ricorda il destino del padre, costretto, insieme a
Teoderico, per l’ostilità di Odoacre, a cercar scampo in oriente e poi senza dubbio caduto in
battaglia. I. si affretta a rivelargli la propria identità e a mostrargli benevolenza con l’offerta
di preziose decorazioni ricevute dal re degli Unni, ma incontra la diffidenza e il deciso
rifiuto di Adubrando: convinto, come gli è stato riferito, che suo padre sia morto, egli vede
nell’atteggiamento dell’avversario soltanto l’astuzia di un vecchio unno aduso alla frode,
che con raggiri cerca di indurlo a deporre le armi e non esita ad esprimergli il suo disprezzo.
L’insulto riempie di sconforto l’animo del padre, il tragico dilemma non gli lascia scampo:
pur nell’intimo conflitto di amor paterno e dignità di guerriero, non può sottrarsi
all’impegno mortale e legale di difendere l’onore del proprio esercito. Dopo tante ardue
imprese felicemente concluse, dovrà ora uccidere il proprio figlio o rimanerne vittima: con
una disperata invocazione all’Onnipotente, va incontro al tragico destino. Ha così inizio lo
scontro: al rovescio di colpi delle sfreccianti lance, segue accanito il duello ad armi bianche,
finché gli scudi sono ridotti in frantumi: qui, con il primo semiverso del v. 68, il canto si
interrompe, lasciandoci all’oscuro dell’esito del duello. Ma la conclusione non può essere
che luttuosa: lo esige il tono tragico che informa tutto il canto, oltre che il confronto con
documenti posteriori, dedicati alla stessa leggenda, quali la gli esametri latini riportati nel
secolo XII dallo strorico danese Saxo nelle Gesta Danorum ed il rispondente Hildebrands
Sterbelied interpolato nella Asmundarsaga islandese del secolo XIV. Si ricordino, in questa
sede, anche la Thidrekssaga nordica (1250) e lo Jüngeres Hildebrandslied, che però
presentano un lieto fine, assolutamente estraneo allo spirito del canto originario.
Il motivo del tragico scontro tra padre e figlio è strettamente collegato con un altro
tema tipico dell’epos, quello del ritorno dell’eroe. Infatti la situazione è quella della
“riconquista” dell’Italia da parte dell’esercito di Teoderico, in cui Ostrogoti e Unni sono
alleati, riconquista del legittimo regno dopo un lungo esilio del re. Il motivo del ritorno
dell’eroe è presente in molti episodi epici. Il più famoso è quello cantato dall’Odissea:
Ulisse, dopo un’assenza ventennale, ritorna per riappropriarsi della sua Itaca, dove annienta
i Proci usurpatori del regno. Anche Ulisse, come I. , è astuto, saggio ed esperto della vita, ha
fama di prode e ardito, è reduce da un famoso assedio, essendo scampato vivo alle battaglie
sotto le mura di Troia. Anche Ulisse, una volta tornato in patria, ha l’aspetto di un vecchio
(ma è stato così tramutato da Atena); anch’egli, infine, come I. non è inizialmente
riconosciuto, ma si rivela solo al momento della strage finale. Anche Ulisse, come I,. in
patria era creduto morto.
15
Sullo sfondo della nobiltà nobiliare e guerriera dell’alto Medioevo, si rappresenta un
conflitto di valori tra diritto della Sippe, del sangue, e senso dell’onore del guerriero. È vero
che il HL è un canto eroico nella forma e nella struttura, con sfondo prettamente germanico,
in cui è radicata un’etica guerriera dalle leggi inderogabili, che sfocia nella concezione
pessimistica dell’inesorabilità della vita. Ma l’ambiente è cristiano: Teoderico e i suoi
seguaci sono cristiani. Ora, qui il contrasto etico, tipicamente germanico, tra legame di
sangue e codice d’onore guerriero è impostato in termini estremamente aspri: sia il Padre
che il figlio si rendono colpevoli, levando le armi contro un consanguineo; d’altro canto,
entrambi, legati da indissolubile impegno di fedeltà al proprio signore, non possono non
compiere il loro dovere di guerrieri, secondo i canoni della vita eroica. Non è da escludere
che una tale aporìa potrebbe denunciare un sintomo di insofferenza verso i drastici
imperativi del codice eroico e l’insinuarsi del dubbio circa la loro validità, palese specie
nell’atteggiamento di I.: a differenza degli eroi degli antichi canti, che sorridenti affrontano
il loro destino, egli muove incontro ad esso con animo esacerbato, con profonda e toccante
consapevolezza dell’orrore della tragedia, sicuro influsso dell’etica cristiana.

Struttura del carme

Le tematiche che abbiamo appena descritto e che costituiscono il nucleo centrale del carme
sono inserite in una struttura essenziale e contenuta, semplice e sintetica. Non ci sono
divagazioni, episodi secondari o aggiuntivi, non ci sono abbellimenti narrativi, si evitano
aggettivi e descrizioni particolareggiate. Questa è la classica struttura del carme eroico
germanico delle origini: non vi sono intrecci troppo complicati, né una grande quantità di
protagonisti. L’azione si svolge rapidamente e il carme (anche quando abbraccia un lungo
giro di anni) è sempre molto breve. Lo stile (soprattutto dei carmi più antichi) è secco e
conciso, scarno ed essenziale. Le figure del dramma si muovono senza indugio e i loro
discorsi non hanno nulla di superfluo; l’azione procede rapida e lineare, passando, il poeta,
senza intervalli, da un punto culminante all’altro (von Gipfel zu Gipfel; Gipfel = cima, vetta,
sommità, vertice, culmine). Non c’è spazio per le lunghe descrizioni dell’ambiente o del
paesaggio, né per l’approfondimento psicologico dei personaggi, che vedremo attuato solo
nei carmi più recenti (ad es. nel I e II carme di Gudrhun, nell’Edda poetica) o in poemi di
più ampio respiro epico, quali il Beowulf o il Nibelungenlied.

Lingua e origine

Il HL solleva enormi problemi di lingua, provenienza, datazione, di interpolazione letterale e


perfino di scansione in versi. Non si pretenderà certo qui di sviscerarli tutti; in questa sede ci
si limiterà solo a fare degli accenni in proposito.
A proposito della datazione, non è semplice stabilire in che periodo il HL sia stato
composto. Da un lato, la sua brevità e lo stile scarno ed essenziale, assolutamente privo di

16
ridondanze, l’hanno fatto considerare un esemplare assai antico di poesia epica.8 Dall’altro,
la perfezione dello stile, frutto di una tradizione ben stabilita, e la maestria nel trattamento
multiplo dei temi narrativi non ci portano certo a considerarlo un componimento
“primitivo”, tutt’altro.
Come si è detto il manoscritto è fuldense, ma il dialetto non ha nulla a che vedere con
la lingua parlata nell’area in cui è collocato il monastero. Essa presenta molte forme
fonetiche di tipo meridionale, ma non si tratta di un testo bavarese; vi sono, infatti,
mescolate qua e là, specie nei versi iniziali, molte forme settentrionali, ovvero basso-
tedesche. In altri termini, la lingua del HL non corrisponde a quella di nessun preciso
dialetto e, a tutt’oggi, costituisce un problema aperto e non di poco conto. L’ipotesi ancora
oggi più accreditata è quella che vede per il nostro testo un’originaria provenienza
meridionale, con successivi rifacimenti che hanno portato alla forma finale di Fulda, dove la
stesura scritta che conosciamo, avrebbe accolto molti sassonismi. Questa teoria è in ultima
analisi collegata con la tesi che il tema, realizzato nella versione meridionale bavarese, fosse
a sua volta stato importato, nella seconda metà dell’VIII secolo, dall’Italia Longobarda,
dove, infatti, la materia della saga di Ildebrando sarebbe stata inserita nella leggenda storica
teodericiana. Quindi si potrebbe postulare il seguente percorso: un originale longobardo9 (o
gotico) sarebbe giunto in Baviera, poi sarebbe arrivato a Fulda, dove avrebbe acquisito, la
coloritura sassone prima di venir copiato un’ultima volta nel manoscritto che ce lo tramanda
(Baesecke, De Boor).
Presentiamo degli esempi per rendere conto di tale mescolanza dialettale: al v. 17,
troviamo la forma “ibrida” heittu (“mi chiamo”, ted. “ich heiße”): la forma corretta ata. è
heizzu con passaggio di germ. *ai ad ata. ei (cfr. got. haitan) e -zz- per II rotazione
consonantica, laddove la forma sa. è hētu con monottongazione tipica dal sa. di germ. *ai in
ē e mancata II rotazione consonantica. Altro es.: al v. 1 abbiamo ik, che è un sassonismo
(ata. ih); ðat, mentre la forma ata. è daz; altro esempio di forma “ibrida”: al v. 13 si legge
chud “noto”: la forma sassone dovrebbe essere kâd, senza II rot. cons. e con la caduta di
nasale davanti a (ex) fricatica, con allung. della vocale preced., laddove la forma ata.
regolare dovrebbe essere chunt con II rot. cons. e senza caduta di nasale. E si potrebbe
continuare ancora con tanti altri esempi.

Stile e mezzi espressivi della poesia orale

Nel carme molti elementi stilistici rimandano a tratti propri della poesia eroica: l’incipit di
tipo epico, le formule di introduzione dialogica, ripetizioni e variazioni espresse soprattutto
in formule binarie, l’uso di una terminologia ricca e specializzata, oltre ovviamente
all’impiego dell’allitterazione, anche se talvolta questa presenta delle irregolarità. I motivi

8
Secondo alcuni studiosi, infatti, il tipo del carme breve germanico avrebbe preceduto cronologicamente,
nella storia evolutiva del genere epico-eroico, la concezione di lunghi poemi come il Beowulf.
9
L’origine longobarda si basa, tra le altre cose, sulla presenza delle forme in -brand nei nomi degli eroi (ma,
in realtà, tali forme sono ampiamente attestate anche in Baviera, nella zona del lago di Costanza e nell’area
di Fulda).

17
epici sono trattati in modo tradizionale, nelle espressioni formulari, secondo gli stilemi
consacrati della poesia orale e, insieme, vengono intrecciati in una sintesi originale e
stringata, quale è quella del carme breve. Altri mezzi stilistici, come ad esempio, l’iperbole e
gli epiteti esornativi, sono invece rari: in primo piano non sta l’abbellimento poetico, ma la
tematica tragica, sviluppata in crescendo nella struttura del carme
Esaminando questi tratti in maniera più dettagliata ed approfondita, non potremo fare
a meno di osservare che la struttura del carme si rivela assai più complessa di quanto non
possa apparire a prima vista.

La formula iniziale “Ik gihorta ðat seggen” (questo ho sentito dire) crea aspettative
tra gli ascoltatori, in quanto era lo stilema tipico che annunciava un brano di genere eroico
(cfr. con la preghiera di Wessobrunn). Tale formula è a sé stante, il verso è costituito da un
solo emistichio, che serve a captare l’attenzione degli ascoltatori e sottolineare il carattere
introduttivo. Quindi, una formula che serviva a far capire che stava per iniziare un brano
epico, probabilmente di tema anche assai drammatico.
Un chiaro esempio di allitterazione è al v. 47: dat du habes heme / herron goten;
oppure al v. 42: dat sagetun mi / seolidante, dove, peraltro, il primo semiverso è una tipica
espressione formulare che ricorre anche al v. 15: dat sagetun mi / usere liuti.
La ripetizione insistita di corpose formule introduttive del discorso diretto, come
“Hiltibrant gimahalta, Heribrantes sunu” (vv. 7, 14, 36, 45), scandisce in modo volutamente
solenne l’alternarsi del dialogo, anche perché il verbo gimahalta “parlò”, non è un verbo
banale ma è un termine appartenente al linguaggio giuridico, un verbo che indicava
l’affermare, il sentenziare in assemblea (cfr. glosse malbergiche). Altra formula spesso
ripetuta è “quad H.” costruita come un inciso sintattico (verbo-soggetto). Si noti la
mancanza del verbo semplice “sprah”, che viene evitato perché appartenente al registro del
parlato quotidiano e non a quello elevato di questo genere poetico.
Il poeta recitava davanti all’uditorio: non era poesia scritta per un pubblico di lettori,
ma poesia orale da declamare o cantare davanti ad un pubblico, dal vivo. Il poeta creava e
ricreava, adattando di volta in volta i suoi materiali, i motivi narrativi a sua disposizione e
usando gli elementi formulari come unità costitutive del verso. Accade infatti, molto spesso,
che le frasi formulari occupino un semiverso, come “ferahes frotoro” (v. 8), “fireo in
folche” (v.10), dove il carattere formulario è rafforzato dall’allitterazione. In questo senso, il
HL occupa una posizione esemplare tra la poesia germanica antica, come carme
particolarmente ricco di elementi formulari e di variazioni epiche, ossia espressioni variate
di uno stesso concetto, ripetizioni con altre parole (sinonimi o quasi-sinonimi) in due diversi
emistichi: es. “suertu hauwan” (menar fendenti) , / “breton mit sinu billiu” “infrangere con
la sua spada” (vv. 53-54); oppure “hrusti giwnnan” (conquistare la corazza), / “rauba
birahanen” (appropriarsi delle spoglie) (vv. 56-57); ancora “se imo se der chuning gap, /
Huneo truhtin” (vv. 34-35).
Non riscontriamo, invece, nel HL l’impiego di Kenningar, se si eccettua il caso
dibattuto di “staim bort” (scudi) al v. 65, da tradurre come “tavole di battaglia”, ma la
traduzione è incerta. Nella designazione delle armi, si impiegano, invece, le caratteristiche
metonimie della poesia germanica: come “askim” (v. 63), lett. “frassini” per “giavellotti”,
“lintum” (v. 67), lett. “tigli”, per “scudi”, dove il materiale sta per l’oggetto (HEITI).
18
Dal HL: (vv.1-3) “Ik gihorta seggen,
ðat sih urhettun ænon muotin,
Hiltibrant enti Haðubrant untar herium tuem.”

“Questo ho sentito dire


che si scontrarono in singolar tenzone
Ildebrando ed Adubrando tra i due eserciti.”

Da notare in questo brano:


 la formula asseverativa iniziale, che costituisce un verso breve a sé, privo di allitterazione
e avulso dalla restante struttura metrica che impiega il verso lungo;
 i sassonismi: ik, ðat, seggen (con metafonia e geminazione della vocale radicale vs. ata.
sagen);
 per sih urhettun ænon muotin l’interpretazione varia, dato che urhettun è un hapax
comunque lo si consideri, verbo o sostantivo; se è sostantivo, significa “combattimento”,
e se muotin è verbo, potrebbe valere “scontrarsi”;
 si noti l’allitterazione tra i nomi del padre e del figlio, come era costume presso i
Germani;

(vv. 7-10) “Hiltibrant gimahalta (Heribrantes sunu): her uuas


[heroro man,
ferahes frotoro; her fragen gistuont
fohem uuortum, wer sin fater wari
fireo in folche,...”

“Ildebrando parlò (il figlio di Eribrando): era costui il più vecchio


il più esperto della vita; egli cominciò a domandare
con poche parole, chi mai fosse suo padre
fra il popolo degli uomini,...”

Da notare in questo brano:

 il v. 7 è eccezionalmente lungo: la lunga formula crea un verso più lungo del solito; si
tratta di un’irregolarità metrica compatibile con l’uso di un’espressione formulare
solenne;
 ferahes: è un antichissimo termine poetico per “anima, mondo, vita, età” di carattere
prettamente germanico;

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(52-57) “so man mir at burc enigeru banun nu gifasta,
nu scal mih suasat chind suertu hauwan,
breton mit sinu billiu, eddo ih imo ti banin werdan.
doh maht du nu aodlihho, ibu dir din ellen taoc,
in sus heremo man hrusti giwinnan,
rauba birahanen, ibu du dar enic reht habes”

“pure davanti ad alcuna città mai mi colse la morte,


ora dovrà il mio proprio figliolo colpirmi con la spada,
uccidermi con la sua arma, oppure io sarò per lui causa di morte.
ma tu ora puoi facilmente, se ti basta l’animo,
a un uomo così vecchio conquistar l’armatura,
rapirne le spoglie, se ne hai qualche diritto.”

Da notare in questo brano:


 le variazioni: “suertu hauwan” / “breton mit sinu billiu” e “hrusti giwinnan” / “rauba
birahanen”;
 “breton” e “billiu”: ambedue queste voci sono rare e poetiche; il v. “breton” (infrangere) è
un hapax, ha confronti solo nella poesia ags. (CTR); “billi” (arma da taglio) è già voce
antiquata in tedesco, mentre ricorre nella poesia ags.;
 “hrusti”, con h- iniziale è voce arcaica;
 i dittonghi “ao” sono tipici del tedesco superiore;
 man mir...banun ni gifasta “non mi si dette morte” è espressione poetica per “uccidere”
che utilizza l’antico termine bana “morte, uccisione”, assai raro in tedesco; lo stesso tema
ricompare in banin “uccisore” (v. 54), anche lì in un giro di frase ricercato e poetico per
“uccidere”. I termini semplici, vale a dire del registro quotidiano, per “uccidere”,
“morte”, “morire” non vengono mai impiegati.

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