Esplora E-book
Categorie
Esplora Audiolibri
Categorie
Esplora Riviste
Categorie
Esplora Documenti
Categorie
Il genere letterario che meglio riflette l’indole più autentica e lo spirito guerriero
tipico della primitiva civiltà germanica, ancora pagana, è certamente quello della poesia
eroica o eroico-mitica. La letteratura di contenuto eroico costituisce un patrimonio culturale
di tutto il mondo germanico antico, presso il quale si trova documentata, a vari livelli e sotto
diverse forme. Appartengono a questo genere il Beowulf, il Widsith, il Deor, la Battaglia di
Finnsburg e il Waldere (per l’area anglosassone), il Carme di Ildebrando (unico
rappresentante nella tradizione tedesca antica)1, i Carmi dell’Edda (per la letteratura
norrena).
L’Età eroica
I temi e i motivi elaborati nella poesia eroica risalgono a quel particolare momento
storico delle genti germaniche che viene definito “età eroica”. Ogni gruppo etnico, nel corso
della sua evoluzione sociale e culturale, conosce un’“età eroica”: quella dei Greci, ad
esempio, corrisponde alla fase delle spedizioni militari intraprese allo scopo di espandersi in
Asia Minore e trova la sua più nobile espressione poetica nei poemi omerici dell’Iliade e
dell’Odissea. Si tratta di esperienze “eroiche” che hanno determinato il sorgere di una poesia
tesa all’idealizzazione di chi si è particolarmente distinto in guerra e delle sue gesta
esemplari. L’“età eroica” germanica coincide con il periodo delle invasioni barbariche (o età
delle migrazioni = Völkerwanderungszeit), compreso, grosso modo tra il 375 (anno della
morte del grande re ostrogoto Ermanarico) e il 568 (anno dell’ultima grande invasione
barbarica, quella dei Longobardi di Alboino in Italia).
1
Il Poema dei Nibelunghi assieme a tutti gli altri testi del cosiddetto ciclo “gotico” o “teodericiano”, alla
Kudrun e ai poemi del ciclo cosiddetto “franco”, sebbene siano riconducibili alle tematiche eroiche di
stampo pagano, si collocano, dal punto di vista cronologico, nella fase media della letteratura tedesca.
2
L’Edda poetica è una raccolta di 29 carmi anonimi, tramandata, in gran parte, nel cosiddetto Codex Regius,
2365, della seconda metà del XIII secolo, una volta a Copenhagen, dal 1971 a Reykjavík. I primi undici
canti sono dedicati ad argomenti di carattere mitologico e hanno per protagonisti divinità del pantheon
germanico e più specificatamente nordico (Odino, Thor, Týr, Loki, Freyia e tanti altri); gli altri sedici, più
due frammenti, narrano le avventure degli eroi e delle eroine dell’antichità germanica (Sigurðr, ossia il
Sigfrido nordico, Hagen, Brunilde, Attila, etc.).
l’Hamdhismál, ovvero “Il carme di Hamdhir” (II strofa): “Questa storia non accadde né oggi
né ieri / - molto tempo da allora è trascorso / - poche sono più antiche; questa è assai più
antica! - / quando Gudhrun, figlia di Giuki, / spinse i suoi giovani figli a vendicare
Svanhild.” (trad. Mastrelli). “Lontane nel tempo, queste vicende sono ancora vivissime nella
memoria, appassionano indicibilmente gli ascoltatori, echeggiano da un capo all’altro del
territorio occupato dai Germani. Perché se mai vi fu un legame consapevole e ancora saldo
fra quelle genti dopo che si dispersero in infiniti spostamenti e migrazioni, esso fu dato
proprio dal comune interesse per la canzone eroica, che un gruppo trasmetteva all’altro...”
(cit. da Scardigli, Manuale di filologia germanica, Firenze, 19899).
L’eroe, appartenente ormai ad un passato lontano e favoloso, rappresenta un modello
a cui i posteri guardano con stupore ed ammirazione. La forza fisica e il coraggio,
l’esuberanza e la determinazione sono le qualità che gli hanno consentito di misurarsi in
tremendi combattimenti contro pericolosi nemici della sue gente, mostri, giganti, etc.; quasi
sempre conduce a compimento le sue imprese eroiche riportando vittorie schiaccianti sui
suoi avversari, ma non è escluso che possa anche perdere: in tal caso andrà incontro al
sacrificio della morte con animo fiero ed intrepido, consapevole di obbedire ai disegni
imperscrutabili del fato, cui niente e nessuno può opporsi. Le grandi imprese in cui l’eroe si
distingue gli conferiscono la fama che durerà, presso le generazioni future, anche dopo la
sua morte. Illustriamo questo concetto attraverso una citazione da un altro carme eddico,
l’Hávamál, “La canzone dell’Eccelso”: “Periscono le greggi, periscono le stirpi; / anche tu
stesso morrai; / ma non perirà giammai la buona fama / che uno si acquista. / Periscono le
greggi, periscono le stirpi; / anche tu stesso morrai; / ma io so di una cosa che mai perirà : /
il giudizio che accompagna chi muore” (trad. Mastrelli, str. 76 e 77). L’eroe rivive dunque
per i suoi posteri nei carmi che ne celebrano le avventure, acquisisce una sorta di
immortalità, grazie alla gloria che, valorosamente, è riuscito a guadagnarsi in vita.
3
Chadwick H.M., The Eroic Age, Cambridge, 1912.
2
paradigmatico di tale processo di trasfigurazione storica è rappresentato dalla leggenda di
Teoderico. Com’è noto, Odoacre, re dei Turcilingi e degli Sciri, deposto nel 476 Romolo
Augustolo, l’ultimo imperatore romano d’Occidente, si era insediato al suo posto, restando
per diciassette anni signore incontrastato d’Italia. Fino a quando, cioè, l’imperatore
d’Oriente Zenone, per spodestarlo, inviò in Italia l’ostrogoto Teoderico, figlio di Teodemiro,
della nobile dinastia degli Amali, rimasto in Oriente come ostaggio per un decennio alla
corte di Bisanzio in giovane età. A lui Zenone conferì, per i servizi resi, il titolo di patricius.
Nel 488, dunque, Teoderico marciò con il suo esercito sulla penisola e sconfisse Odoacre
sull’Isonzo e a Verona, costringendolo successivamente a cercare riparo a Ravenna. Dopo
tre anni di assedio, Odoacre si arrese con la promessa di aver salva la vita; ma Teoderico lo
fece uccidere a tradimento (493), divenendo in tal modo padrone di tutta l’Italia. Eletto re
degli Ostrogoti, Teoderico fissò la sua residenza a Ravenna e cercò negli anni del suo regno
di stabilire dei buoni rapporti tra gli ostrogoti ariani e i romani cattolici. Ma alla sua morte i
contrasti interni si acuirono e della situazione approfittò l’imperatore Giustiniano, che in una
lunga guerra (535-555), piegò la forza degli ultimi re ostrogoti: Vitige, Tòtila e Teia. Questi
i fatti storici. Ma nella leggenda sorta intorno alla figura di Teoderico, i rapporti storici e
cronologici risultano falsati. Teoderico (che nella leggenda diventa Teoderico da Verona =
Dietrich von Bern) è il legittimo re d’Italia (da antico tempo sede dei Goti), il quale appare
leso dall’odio di Odoacre nei suoi diritti ereditari e costretto ad abbandonare la patria.
Durante il suo esilio, durato trent’anni (ossia, quasi la durata del regno storico di Teoderico
in Italia), trova rifugio presso la corte di Attila, signore degli Unni e sarà grazie all’aiuto di
quest’ultimo che riuscirà a radunare un esercito per tornare in Italia, spodestare l’usurpatore
Odoacre e reinsediarsi legittimamente sul suo trono. Si noti che Attila, nella realtà storica,
muore nel 453 e quindi prima della nascita di Teoderico (455), ma nella finzione eroica i due
personaggi vengono resi contemporanei. Il motivo della vicinanza e alleanza tra Ostrogoti e
Unni ha anch’esso radici storiche: il padre di Teoderico era stato infatti uno dei vassalli del
re Unno. Con tutta probabilità, tale infedeltà storica va attribuita ad un processo di
idealizzazione della figura di Teoderico, operato dagli Ostrogoti. Già in vita, il re era
benvoluto dai suoi sudditi; in seguito, fu oltremodo rimpianto, soprattutto in seguito alle
traversie cui il popolo Ostrogoto fu esposto dopo la sua morte (guerra visigoto-bizantina
535-555), e quindi trasfigurato in un eroe leggendario. La leggenda teodericiana non resta
legata esclusivamente alla nazione gotica, ma anzi ha avuto una diffusione “internazionale”
ampia e duratura, tra tutti i popoli germanici, raggiungendo anche le letterature della
Norvegia e dell’Islanda medievali (si pensi ai carmi dell’Edda e alla Thidrekssaga).
A questo punto è doveroso fare una precisazione circa il ruolo dei Goti nella
formazione e proliferazione del materiale epico germanico. Com’è noto, non ci è pervenuto
nessun monumento letterario di genere eroico scritto in lingua gotica; nondimeno, abbiamo
ragione di credere che i Goti conoscessero molto bene questo genere poetico. In primo luogo
lo stesso storico Giordano documenta nella sua De origine actibusque Getarum (V, 43)
l’usanza, diffusa presso i Goti, di celebrare, accompagnandosi con la cetra, le gesta degli
antenati. In secondo luogo, una buona parte delle saghe eroiche germaniche, trae origine
proprio da avvenimenti storici i cui protagonisti sono principi goti: tale eredità gotica
confluisce, successivamente, nel patrimonio letterario delle altre tradizioni germaniche.
Accanto al ben noto e già menzionato esempio della saga di Teoderico (che, oltre a
3
costituire il background storico-letterario del Carme di Ildebrando, ritroviamo al centro di
poemi del cosiddetto ciclo “teodericiano”, di epoca altotedesca media), ricorderemo la
leggenda di Ermanarico, che trova la sua trasfigurazione poetica nel carme di Hamdhir
(Edda poetica) e ancora quella di Attila (Cantare dei Nibelunghi, Atlakvidha).
Oltre al passato storico, contribuiscono alla formazione delle leggende eroiche
germaniche, sia pur in misura minore, temi e motivi culturali di diversa natura, ovvero: i
legami con l’antichità classica (es. la leggenda di Wieland, che presenta agganci con il mito
di Dedalo e di Vulcano), la materia mitologica, l’elemento favolistico. Tuttavia, nel corso di
questo secolo, il ruolo di tali tematiche — considerato preponderante dalla critica
ottocentesca (Grimm) — è stato fortemente ridimensionato ad opera di studiosi quali
Heusler e Schneider. Secondo Heusler, infatti, l’elemento mitologico esercita una funzione
di rilievo solamente nelle attestazioni nordiche (i carmi eddici della prima parte). Le
opinioni di tali studiosi hanno generato il sorgere di un acceso dibattito, che ha visto
scendere in campo (a favore del ruolo del mito nella formazione della Heldensage) studiosi
di psicologia (Jung) e di storia delle religioni (Eliade e Dumézil) e ancora filologi, quali
Schröder, de Vreis, Höfler. Certamente, sebbene l’influsso del mito non sia innegabile, è pur
vero che non bisogna sopravvalutarne la portata, specie se si opera il confronto con le
leggende eroiche greche o con quelle indiane. Del resto, non possiamo dimenticare che la
Heldensage germanica perviene ad una redazione scritta solamente dopo la conversione al
Cristianesimo delle genti germaniche.
Concorrono alla formazione della HS anche motivi favolistici (Panzer), ma il loro
ruolo (come quello del mito) è senz’altro marginale.
4
Dal punto di vista etimologico, il termine è probabilmente collegato ad una radice ie. da cui proviene anche
ingl. shape “creare” < ags. scieppan, v. forte VI. In tal senso, lo scop era colui che dava forma a qualcosa.
4
Grendel: un “vassallo del re” (cyninges þegn), con funzioni di scop viene introdotto per
celebrare Beowulf e la sua recente vittoria contro il mostro (vv. 867b-874a); segue il carme
eroico:
Per quanto concerne l’ambiente sociale in cui fiorì il carme eroico ed operò lo scop,
siamo ben informati da fonti letterarie sia anglosassoni che norrene. Gli ideali della poesia
eroica sono quelli propri di una classe aristocratica, virile e guerresca, quale è quella che si
afferma nell’età delle migrazioni (375-568).5 Al centro di questa società sta il signore con il
suo seguito; signore e guerrieri sono uniti da un legame, giuridico ed etico, che sta al di
sopra di qualunque altro vincolo, sia pure quello di sangue: il legame della fedeltà reciproca
fino alla morte. Nei capp. 13 e 14 della Germania, Tacito parla di questo nucleo dell’antica
società germanica, designandolo con un termine ben preciso, divenuto poi tecnico, di
comitatus, che indica propriamente l’insieme dei comites (colleghi).
In base al legame di fedeltà è un disonore per il guerriero tornare dalla battaglia senza
il proprio principe, come si legge nel cap. 14 della Germ.: “Quando si viene a battaglia, è
vergognoso per il principe lasciarsi superare in valore, ed è vergognoso per il seguito non
uguagliare il valore del principe. Inoltre è cosa infamante ed ignominiosa per tutta la vita
l’essere ritornati dalla battaglia sopravvivendo al proprio principe”. Storiografi greci e
romani (es. Procopio) raccontano, infatti, di casi in cui gruppi di Germani, morto il loro
condottiero, preferivano farsi uccidere anziché tornare a casa senza il loro capo (per la
citazione dalla Battaglia di Finnsburg, v. infra.)
Tra i compiti del signore del comitatus rientra l’obbligo di curarsi delle esigenze
materiali dei suoi uomini, e non limitatamente a quelle relative alla vita militare: Tacito
riferisce anche che i membri del comitatus esigono e ricevono dal loro signore “cavallo e
lancia” e che “contano come stipendio (cedunt pro stipendio) banchetti e sfarzi (epulae et
apparatus), sebbene rozzi, tuttavia abbondanti (quamquam incompti tamen largi...)”. Non è
5
In passato, si è tentato di rintracciare le origini del canto eroico all’epoca di Tacito, che negli Annali (II, 88)
fa menzione di alcuni canti commemorativi in onore di Arminio. In realtà, l’ipotesi più credibile è che questi
canti in onore di Arminio appartengano piuttosto ad una poesia di tipo genealogico. Il canto eroico, vero e
proprio, nasce invece molto più tardi, per l’appunto, nell’età delle migrazioni.
7
in caso, del resto, che il termine ingl. Lord derivi da un antico composto ags. *hlāf-weard >
hlaford “custode del pane”.
Questi si svolgono nella sala, luogo che, nel “teatro” eroico germanico, assume
particolare importanza, essendo essa molto spesso centro e cornice della vita dei membri del
comitatus e del proprio principe: lì, infatti, arrivano i messaggeri e vengono prese le
decisioni; lì, bevendo idromele e birra, gli eroi si vantano delle gesta compiute (il dōm) o
promettono future prodezze al proprio signore; lì, fra gli ospiti, può scoppiare la lite
sanguinosa, e lì chi viene da lontano, porge omaggio al re; lì, infine, il principe promette ai
suoi sudditi il ricco bottino e lì questo viene distribuito poi dalle sue mani.
Il capo del seguito ha, infatti, anche il dovere di essere generoso verso i propri
uomini; per questa sua qualità egli viene chiamato “dispensatore d’oro”, “donatore degli
anelli” (ags. beaggifa, sincgifa, goldwine gumena).
La fedeltà del guerriero verso il proprio signore è intimamente connessa con il codice
d’onore, che costituisce la spina dorsale etica della poesia eroica germanica. Nella Battaglia
di Finnsburg la lotta dei bravi seguaci di Hnæf viene parafrasata con la seguente immagine
titpica:
(vv. 37-40) “Ne gefrægn ic næfre wurþlicor æt wera hilde
sixtig sigebeorna sel gebæran,
ne næfre swanas hwitne medo sel forgyldan
ðonne Hnæfe guldan his hægstealdas.”
La mancata osservanza di tale dovere verso il proprio signore è un marchio d’infamia per
tutta la vita. L’esempio più celebre di dedizione al proprio signore ci è offerto dalla
Battaglia di Maldon,6 che si riferisce ad un episodio riportato nella Cronaca, all’anno 991.
Riallacciandosi alla più antica tradizione epica, il poema ha per soggetto uno dei tanti scontri
che si ebbero fra Inglesi e Danesi per la supremazia del territorio anglosassone. Come
abbiamo puntualizzato, gli antichi poemi epico-eroici non prendevano a soggetto
avvenimenti storici recenti e neppure recavano tracce di un sentimento patriottico nazionale
(come fa invece, la BdM). Ciononostante, the Battle of Maldon è molto simile, nello spirito,
6
Verso la fine del periodo anglosassone, la vecchia nota eroica, per tanto tempo silenziosa, ritorna in due
bei poemi di soggetto contemporaneo. Il primo è la Battaglia di Brunanburg, riportato dalla Cronaca
all’anno 937: esso celebra la vittoria ottenuta da Æthelstan, re del Wessex e da Edmondo suo fratello, contro
le forze alleate di Olaf re di Norvegia, Costantino re di Scozia e dei Britanni del regno di Strathclyde. Si
avverte una notevole differenza tra la sostanza epica di questo poema e quella della tradizione anglosassone
precedente. In Beowulf e negli altri poemi l’accento era posto sull’eroe individuale, le cui origini nazionali
avevano scarsa importanza: egli era un eroe germanico e come tale godeva dell’ammirazione di tutti i popoli
germanici, senza alcun pregiudizio nazionale. In The Battaglia di Brunanburg, invece, trova espressione un
forte sentimento patriottico: la vittoria è una conquista delle forze inglesi sui nemici norvegesi, scozzesi e
gallici. L’altro è la Battaglia di Maldon.
8
a quell’antica poesia. È la storia di una sconfitta inglese disastrosa, in cui, tra gli altri, trova
la morte, l’ealdorman Byrhtnoth, in un disperato e coraggioso tentativo di arrestare le forze
danesi. Questo testo esemplifica la grande storia dei seguaci fedeli, che preferiscono morire
con il proprio signore per vendicarne la morte e per risparmiarsi il vergognoso ritorno a casa
senza di lui. Quando l’ealdorman Byrthnoth muore, ecco ciò che succede:
“Tutti videro,
i compagni del focolare che il loro padrone giacque.
Allora avanzarono i valorosi guerrieri,
gli uomini prodi si affrettarono con impeto:
tutti vollero una delle due cose,
o perdere la vita o vendicare il loro caro (signore)”.
Uno dei compagni esprime il desiderio di vendicare il suo signore con queste parole:
Come i seguaci del principe hanno il dovere di rimanere fedeli al proprio signore fino
alla morte, così il principe ha l’obbligo di curarsi delle esigenze materiali dei suoi uomini. Il
Widsith esalta costantemente la liberalità dei numerosi principi visitati dal poeta, i quali
9
sovente gli regalarono gioielli e bracciali d’oro, come ricompensa per il suo canto. Il più
generoso si dimostrò Alboino:
Tra i motivi che spingono l’eroe all’azione, oltre ad interessi materiali, come la conquista
dell’oro, armi e corazze, ve n’è uno che sta alla base di tutti (a cui già abbiamo accennato) e
ne costituisce il denominatore comune: l’orgoglio, l’onore, la gloria, il dōm, l’impulso a
rendersi immortali. Tali valori sono posti al di sopra del vincolo di parentela o di amicizia.
Come dimostrano le numerose espressioni del linguaggio poetico anglosassone denotanti la
“gloria”, tale concetto deve avere avuto un ruolo particolare nella poesia eroica ed
encomiastica precristiana. La gloria è il compenso dell’eroe pagano: egli continuerà a vivere
dopo la morte (onorevole), e non nell’aldilà o in un regno di gloria, ma sulla bocca della
gente che racconterà le sue avventure. Dall’onore leso, scaturisce l’impellente necessità
della vendetta, che ovviamente è vendetta di sangue (tratto, questo, presente anche
nell’istituzione della Sippe, tipico, anche se non esclusivo, della cultura germanica
primitiva). La Battaglia di Finnsburg (da quanto possiamo dedurre dai pochi frammenti
rimasti) e il Poema dei Nibelunghi. tanto per citare solo due esempi, sono imperniati del
motivo della vendetta. L’onore leso, o la paura di perderlo, costituisce uno dei motivi
centrali anche nel Carme di Ildebrando.
10
rima finale non attecchisce poiché le sillabe finali, non essendo accentate, vanno incontro a
fenomeni di indebolimento, che determina un loro livellamento o addirittura una loro caduta.
L’antico verso germanico non è altro che una stilizzazione di queste caratteristiche
ritmiche proprie della lingua e la sua struttura è in perfetto parallelismo con quella della
lingua stessa. Il verso germanico è un verso lungo, diviso in due semiversi (o versi brevi a e
b, o emistichi) da una cesura, ma legati dall’allitterazione; ciascun verso breve (che
costituisce l’unità di misura fondamentale della metrica germanica), si suddivide, a sua
volta, in due parti o “battute”, ognuna delle quali comincia con una sillaba fortemente
accentata (/); nelle battute polisillabiche può svilupparsi naturalmente anche un accento
secondario (\): perciò ogni verso breve aveva due accenti principali ed eventualmente due
accenti secondari, secondo il seguente schema: / ___\___/___\. Inoltre, ciascun semiverso
poteva essere riempito ritmicamente con una gran libertà, ovvero poteva presentare un
numero variabile di sillabe atone, sicché il verso lungo non aveva mai la stessa lunghezza. In
questo senso, la metrica germanica viene definita di tipo isoaccentuativo e non isosillabico
(come la metrica classica), poiché i due semiversi che compongono il verso lungo devono
presentare un uguale numero di accenti e non di sillabe: in genere, si avevano 4 sillabe
accentate (due in ciascun semiverso) e un numero variabile di sillabe atone. Ecco come
l’allitterazione funge da ponte fonetico tra i due semiversi, collegandoli tra loro: un fonema
iniziale accentato del I verso breve viene ripetuto nella medesima posizione (metrica e
fonetica) nel II semiverso, ossia il fonema viene allitterato nel secondo semiverso. È
importante ribadire che il fonema allitterante è colpito dall’accento: una semplice ripetizione
di suoni posti in inizio di parola, ma non accentati, non è allitterazione, ma semplicemente
assonanza (fischi per fiaschi).
Generalmente le parole accentate (e che quindi potevano essere interessate
dall’allitterazione) erano sostantivi, verbi flessi e poi, con minore frequenza, gli aggettivi, i
pronomi, le preposizioni e le congiunzioni. In tal senso, si aveva una corrispondenza tra il
livello fonetico, metrico e semantico.
Va precisato che i nessi consonantici allitteravano tra loro, così come allitteravano
sempre le vocali, qualunque fosse il loro timbro. Sono state avanzate alcune teorie
sull’allitterazione vocalica:
1) Teoria dell’occlusiva glottidale. Secondo questa teoria, tutte le parole germaniche
iniziavano per consonante; quelle scritte con vocale iniziale, venivano pronunciate con una
consonante glottidale (occlusiva laringale) rappresentabile forse con [?], che permetteva una
particolare forma di allitterazione graficamente invisibile.
2) Teoria della sonorità, secondo cui le vocali allitterano perché hanno il coefficiente di
sonorità (ma allora dovremmo aspettarci l’allitterazione tra l e r);
3) Teoria delle vocali identiche secondo la quale, in origine allitterassero solo vocali
identiche e poi anche vocali differenti (una volta identiche) divenute tali per effetto di varie
trasformazioni fonetiche (metafonie ecc.).
Ritornando alla descrizione del verso lungo germanico, occorre puntualizzare che la
parte più importante del verso, sia dal punto di vista logico-semantico, che da quello
metrico, è certamente il II semiverso. Infatti, ogni argomento, ogni tema iniziava sempre da
questa parte del verso lungo, laddove nel primo venivano fornite informazioni ridondanti e
superflue. Il motivo di tale strutturazione è dato dal fatto che si dava il tempo all’uditorio di
11
sistemarsi, di accomodarsi ai propri posti e di concentrarsi nell’ascolto del brano poetico. In
genere il primo verso (all’inizio di un poema ad es., o di una nuova sezione) conteneva
interiezioni o espressioni asseverative che non trasmettevano informazioni fondamentali ma
che avevano, più che altro, lo scopo di captare l’attenzione del pubblico. Es. cfr. l’ags. hwæt,
con cui si apre il Beowulf. Ciò spiega anche perché l’accento principale di tutto il verso era
quello che cadeva sulla prima battuta del secondo semiverso, che poi era quella che
individuava l’allitterazione chiave su cui si fondano tutte le altre (á à á. à).
3 2 4 1
Da qui la denominazione di Hackenstil (o Bogenstil) in riferimento alla struttura del verso
lungo germanico: esso presentava, infatti, un andamento rappresentabile graficamente con la
sagoma di un uncino.
All’interno di tale struttura, che collega l’un con l’altro i versi lunghi, ponendo al
centro il punto fermo della frase (il primo accento del II semiverso) e venendo così a
formare un enjambement tra un verso e l’altro, si inserisce una figura stilistica caratteristica
per l’epos germanico che risponde al nome di variatio: si tratta della ripetizione di uno
stesso concetto mediante l’impiego di altri termini, sinonimi o quasi sinonimi, kenningar o
altri composti poetici, allo scopo di ribadire l’idea già enucleata o di precisarla con
l’aggiunta di nuovi particolari. Il risultato era la creazione di versi ridondanti che
producevano una dilatazione ed enfatizzazione del discorso epico-eroico.
* * *
Si dice che il poeta orale avesse un bagaglio di conoscenze, ma che utilizzasse anche
formule che potrebbero appartenere all’oralità, ovvero stilemi poetici germanici assieme ad
elementi latini, inserendoli in una metrica di tipo isoaccentuativa. Quindi, non sarebbe stato
un analfabeta che componeva canzoni con formule orali, ma un poeta dotto, che conosceva
le fonti classiche e cristiane e che, però, faceva uso di formule dell’oralità germanica.
Sul piano delle formule, lo scop disponeva di questo bagaglio di formule
“preconfezionate” e anche di un bagaglio di sinonimi, che iniziavano con fonemi diversi,
sicché potevano essere utilizzati in contesti metrici diversi. Quindi, si avevano elementi
semantici diversi, collegati con un fonema allitterativo uguale. Ad es.: “il mare che
mormora”.
La formula: per essere tale deve ricorrere più volte, un sintagma che ricorre sempre
nella stessa posizione metrica. Può essere modificata variando, scegliendo un sinonimo,
senza variare l’allitterazione. Interessante è notare che la presenza di questo tipo di elementi
anche nella prosa può incoraggiare questo tipo di analisi anche per componimenti non
poetici (ad es., nell’uso dell’allitterazione, come in Wulfila). Sul piano del contenuto le
formule potevano essere applicate anche in componimenti di tema diverso. Ad es., la vittoria
dell’eroe e la morte dell’eroe sono temi diversi, ma possono presentare anche formule uguali
o temi uguali.
Il Tema: è un nucleo concettuale, un insieme di elementi di contenuto uguale, una
concatenazione di argomenti che ricorrono più volte in posizioni analoghe nei diversi
componimenti poetici. Ad es., il tema delle bestie di battaglia (il lupo, l’aquila o il corvo),
che può essere inserito prima, dopo o addirittura al posto della battaglia. Questo tema
12
traduce il concetto della predestinazione, della wyrd, alla quale nessuno si può sottrarre; esso
può preannunciare o sottolineare la morte cui molti guerrieri vanno incontro.7 Il tema
dell’eroe sulla spiaggia precede la battaglia. Nella “Battaglia di Finnsburh” ci sono tutt’e
due.
Il tema dell’eroe sulla spiaggia è evocativo, di rottura, serve ad allertare, serve a dare
suspense (come le musichette dei film gialli o dell’orrore!). È un cronotopo, un elemento
liminare tra due realtà. Implica, infatti, il ricorrere complessivo di elementi liminari: la
soglia, la spiaggia; inoltre, ci deve essere un elemento di luminosità, un bagliore. Un cluster,
un insieme di elementi. Quindi, è più evocativo che strumentale. Si noti che in un epigono,
come la Battaglia di Brunanburh, questi temi sono utilizzati male, essendo stati inseriti in
posizioni errate. Ad es., nella Battaglia di Brunanburh si ha la descrizione oggettiva della
battaglia e poi si ha il tema delle bestie di Battaglia in posizione ridondante, diventando così
meramente esornativo, non funzionale. Altro es.: la Giuditta, componimento tardo, il tema
dell’eroe sulla spiaggia c’è, ma inserito dopo l’uccisione di Oloferne da parte dell’eroina,
quindi in posizione errata. Questo tema, infatti, è anticipatore, da suspense, e però viene
messo alla fine, in posizione sbagliata.
Nella Battaglia di Finnsburh il tema delle “bestie di battaglia” è presente al posto
della battaglia:
7
Il tema è presente, ad esempio, anche nel carme eddico Brot, dove un corvo, che ha visto morire Sigurðr,
colpito a morte dal fratello di Gunnar, preannuncia la tragica fine dei fratelli omicidi (i Burgundi) alla corte
di Atli.
13
(vv. 34-36) “ Hræfen wandrode,
sweart and sealobrun. Swurdleoma stod,
swylce eal Finnsburh fyrenu wære.”
“ Il corvo roteava
nero e funesto. C’era un lampeggiar di spade
come se tutta Finnsburh fosse in fiamme.”
Anche in questo passo ritorna il tema delle bestie di battaglia (il corvo), completato
dall’elemento di luminosità (swurduleoma). Si noti anche la coppia di aggettivi “sweart and
sealobrun”, legati dall’allitterazione.
Le tematiche che abbiamo appena descritto e che costituiscono il nucleo centrale del carme
sono inserite in una struttura essenziale e contenuta, semplice e sintetica. Non ci sono
divagazioni, episodi secondari o aggiuntivi, non ci sono abbellimenti narrativi, si evitano
aggettivi e descrizioni particolareggiate. Questa è la classica struttura del carme eroico
germanico delle origini: non vi sono intrecci troppo complicati, né una grande quantità di
protagonisti. L’azione si svolge rapidamente e il carme (anche quando abbraccia un lungo
giro di anni) è sempre molto breve. Lo stile (soprattutto dei carmi più antichi) è secco e
conciso, scarno ed essenziale. Le figure del dramma si muovono senza indugio e i loro
discorsi non hanno nulla di superfluo; l’azione procede rapida e lineare, passando, il poeta,
senza intervalli, da un punto culminante all’altro (von Gipfel zu Gipfel; Gipfel = cima, vetta,
sommità, vertice, culmine). Non c’è spazio per le lunghe descrizioni dell’ambiente o del
paesaggio, né per l’approfondimento psicologico dei personaggi, che vedremo attuato solo
nei carmi più recenti (ad es. nel I e II carme di Gudrhun, nell’Edda poetica) o in poemi di
più ampio respiro epico, quali il Beowulf o il Nibelungenlied.
Lingua e origine
16
ridondanze, l’hanno fatto considerare un esemplare assai antico di poesia epica.8 Dall’altro,
la perfezione dello stile, frutto di una tradizione ben stabilita, e la maestria nel trattamento
multiplo dei temi narrativi non ci portano certo a considerarlo un componimento
“primitivo”, tutt’altro.
Come si è detto il manoscritto è fuldense, ma il dialetto non ha nulla a che vedere con
la lingua parlata nell’area in cui è collocato il monastero. Essa presenta molte forme
fonetiche di tipo meridionale, ma non si tratta di un testo bavarese; vi sono, infatti,
mescolate qua e là, specie nei versi iniziali, molte forme settentrionali, ovvero basso-
tedesche. In altri termini, la lingua del HL non corrisponde a quella di nessun preciso
dialetto e, a tutt’oggi, costituisce un problema aperto e non di poco conto. L’ipotesi ancora
oggi più accreditata è quella che vede per il nostro testo un’originaria provenienza
meridionale, con successivi rifacimenti che hanno portato alla forma finale di Fulda, dove la
stesura scritta che conosciamo, avrebbe accolto molti sassonismi. Questa teoria è in ultima
analisi collegata con la tesi che il tema, realizzato nella versione meridionale bavarese, fosse
a sua volta stato importato, nella seconda metà dell’VIII secolo, dall’Italia Longobarda,
dove, infatti, la materia della saga di Ildebrando sarebbe stata inserita nella leggenda storica
teodericiana. Quindi si potrebbe postulare il seguente percorso: un originale longobardo9 (o
gotico) sarebbe giunto in Baviera, poi sarebbe arrivato a Fulda, dove avrebbe acquisito, la
coloritura sassone prima di venir copiato un’ultima volta nel manoscritto che ce lo tramanda
(Baesecke, De Boor).
Presentiamo degli esempi per rendere conto di tale mescolanza dialettale: al v. 17,
troviamo la forma “ibrida” heittu (“mi chiamo”, ted. “ich heiße”): la forma corretta ata. è
heizzu con passaggio di germ. *ai ad ata. ei (cfr. got. haitan) e -zz- per II rotazione
consonantica, laddove la forma sa. è hētu con monottongazione tipica dal sa. di germ. *ai in
ē e mancata II rotazione consonantica. Altro es.: al v. 1 abbiamo ik, che è un sassonismo
(ata. ih); ðat, mentre la forma ata. è daz; altro esempio di forma “ibrida”: al v. 13 si legge
chud “noto”: la forma sassone dovrebbe essere kâd, senza II rot. cons. e con la caduta di
nasale davanti a (ex) fricatica, con allung. della vocale preced., laddove la forma ata.
regolare dovrebbe essere chunt con II rot. cons. e senza caduta di nasale. E si potrebbe
continuare ancora con tanti altri esempi.
Nel carme molti elementi stilistici rimandano a tratti propri della poesia eroica: l’incipit di
tipo epico, le formule di introduzione dialogica, ripetizioni e variazioni espresse soprattutto
in formule binarie, l’uso di una terminologia ricca e specializzata, oltre ovviamente
all’impiego dell’allitterazione, anche se talvolta questa presenta delle irregolarità. I motivi
8
Secondo alcuni studiosi, infatti, il tipo del carme breve germanico avrebbe preceduto cronologicamente,
nella storia evolutiva del genere epico-eroico, la concezione di lunghi poemi come il Beowulf.
9
L’origine longobarda si basa, tra le altre cose, sulla presenza delle forme in -brand nei nomi degli eroi (ma,
in realtà, tali forme sono ampiamente attestate anche in Baviera, nella zona del lago di Costanza e nell’area
di Fulda).
17
epici sono trattati in modo tradizionale, nelle espressioni formulari, secondo gli stilemi
consacrati della poesia orale e, insieme, vengono intrecciati in una sintesi originale e
stringata, quale è quella del carme breve. Altri mezzi stilistici, come ad esempio, l’iperbole e
gli epiteti esornativi, sono invece rari: in primo piano non sta l’abbellimento poetico, ma la
tematica tragica, sviluppata in crescendo nella struttura del carme
Esaminando questi tratti in maniera più dettagliata ed approfondita, non potremo fare
a meno di osservare che la struttura del carme si rivela assai più complessa di quanto non
possa apparire a prima vista.
La formula iniziale “Ik gihorta ðat seggen” (questo ho sentito dire) crea aspettative
tra gli ascoltatori, in quanto era lo stilema tipico che annunciava un brano di genere eroico
(cfr. con la preghiera di Wessobrunn). Tale formula è a sé stante, il verso è costituito da un
solo emistichio, che serve a captare l’attenzione degli ascoltatori e sottolineare il carattere
introduttivo. Quindi, una formula che serviva a far capire che stava per iniziare un brano
epico, probabilmente di tema anche assai drammatico.
Un chiaro esempio di allitterazione è al v. 47: dat du habes heme / herron goten;
oppure al v. 42: dat sagetun mi / seolidante, dove, peraltro, il primo semiverso è una tipica
espressione formulare che ricorre anche al v. 15: dat sagetun mi / usere liuti.
La ripetizione insistita di corpose formule introduttive del discorso diretto, come
“Hiltibrant gimahalta, Heribrantes sunu” (vv. 7, 14, 36, 45), scandisce in modo volutamente
solenne l’alternarsi del dialogo, anche perché il verbo gimahalta “parlò”, non è un verbo
banale ma è un termine appartenente al linguaggio giuridico, un verbo che indicava
l’affermare, il sentenziare in assemblea (cfr. glosse malbergiche). Altra formula spesso
ripetuta è “quad H.” costruita come un inciso sintattico (verbo-soggetto). Si noti la
mancanza del verbo semplice “sprah”, che viene evitato perché appartenente al registro del
parlato quotidiano e non a quello elevato di questo genere poetico.
Il poeta recitava davanti all’uditorio: non era poesia scritta per un pubblico di lettori,
ma poesia orale da declamare o cantare davanti ad un pubblico, dal vivo. Il poeta creava e
ricreava, adattando di volta in volta i suoi materiali, i motivi narrativi a sua disposizione e
usando gli elementi formulari come unità costitutive del verso. Accade infatti, molto spesso,
che le frasi formulari occupino un semiverso, come “ferahes frotoro” (v. 8), “fireo in
folche” (v.10), dove il carattere formulario è rafforzato dall’allitterazione. In questo senso, il
HL occupa una posizione esemplare tra la poesia germanica antica, come carme
particolarmente ricco di elementi formulari e di variazioni epiche, ossia espressioni variate
di uno stesso concetto, ripetizioni con altre parole (sinonimi o quasi-sinonimi) in due diversi
emistichi: es. “suertu hauwan” (menar fendenti) , / “breton mit sinu billiu” “infrangere con
la sua spada” (vv. 53-54); oppure “hrusti giwnnan” (conquistare la corazza), / “rauba
birahanen” (appropriarsi delle spoglie) (vv. 56-57); ancora “se imo se der chuning gap, /
Huneo truhtin” (vv. 34-35).
Non riscontriamo, invece, nel HL l’impiego di Kenningar, se si eccettua il caso
dibattuto di “staim bort” (scudi) al v. 65, da tradurre come “tavole di battaglia”, ma la
traduzione è incerta. Nella designazione delle armi, si impiegano, invece, le caratteristiche
metonimie della poesia germanica: come “askim” (v. 63), lett. “frassini” per “giavellotti”,
“lintum” (v. 67), lett. “tigli”, per “scudi”, dove il materiale sta per l’oggetto (HEITI).
18
Dal HL: (vv.1-3) “Ik gihorta seggen,
ðat sih urhettun ænon muotin,
Hiltibrant enti Haðubrant untar herium tuem.”
il v. 7 è eccezionalmente lungo: la lunga formula crea un verso più lungo del solito; si
tratta di un’irregolarità metrica compatibile con l’uso di un’espressione formulare
solenne;
ferahes: è un antichissimo termine poetico per “anima, mondo, vita, età” di carattere
prettamente germanico;
19
(52-57) “so man mir at burc enigeru banun nu gifasta,
nu scal mih suasat chind suertu hauwan,
breton mit sinu billiu, eddo ih imo ti banin werdan.
doh maht du nu aodlihho, ibu dir din ellen taoc,
in sus heremo man hrusti giwinnan,
rauba birahanen, ibu du dar enic reht habes”
20