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LINGUA E LINGUISTICA ITALIANA
APPUNTI DEL CORSO 2018-2019
INDICE
Fonetica dell’italiano p. 1
Morfologia flessiva p. 13
Morfologia lessicale p. 33
Sintassi p. 43
Il testo p. 63
Il lessico p. 76
La variazione linguistica, la situazione linguistica italiana, i dialetti p. 91
Le varietà linguistiche e le varietà dell’italiano p. 96
Cenni di storia della lingua p. 118
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FONETICA DELL’ITALIANO
La fonetica è la scienza che studia i suoni (o foni) sia nella produzione del
parlante sia nella ricezione dell’ascoltatore.
I suoni sono prodotti tramite l’apparato fonatorio, costituito da polmoni, bronchi,
trachea, laringe, cavità della bocca e cavità nasale.
Pochi foni si combinano in modi molteplici formano un altissimo numero di
parole (linguaggio verbale). Nessuna lingua utilizza tutti i foni possibili per
formare parole.
L’aria prodotta dai polmoni passa attraverso la laringe e nel fuoriuscire dalla
cavità orale subisce delle modificazioni che producono suoni distinti.
Ø Se nel passaggio dalla laringe le corde vocali poste ai suoi bordi vibrano,
si avranno suoni sonori;; se invece le corde vocali non si muovono,
avremo suoni sordi.
Ø Se l’aria passa attraverso le cavità nasali, si producono suoni nasali, ma
se il velo palatino (la parte posteriore e molle del palato) impedisce il
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passaggio attraverso il naso, si avranno soltanto suoni orali. In italiano
i suoni nasali sono pochi e sono soltanto consonantici, mentre tra i foni
orali distinguiamo tra vocali e consonanti.
Ø Quando produciamo le vocali, l’aria che passa attraverso la cavità orale
non incontra ostacoli, ma solo, in qualche caso, un restringimento;; le
corde vocali vibrano sempre, per cui le vocali sono soltanto sonore. Le
vocali sono gli unici foni dell’italiano su cui può cadere l’accento.
Ø Le consonanti possono essere sorde o sonore e l’aria incontra degli
ostacoli lungo il passaggio.
Ø Le semiconsonanti o semivocali sono suoni intermedi, prodotti quasi
come le vocali ma con durata più breve per il sopraggiungere di un
ostacolo.
La fonetica studia dunque l’articolazione fisica dei suoni ed è diversa dalla
FONOLOGIA che studia il valore astratto dei foni;; si occupa cioè dei fonemi.
Il fono è il suono fisicamente prodotto dal parlante, mentre il fonema è la
rappresentazione mentale di un fono che ha funzione distintiva in un preciso
sistema linguistico, che consente, cioè, di distinguere il significato di una parola
dall’altra. Il fono si rappresenta con un simbolo dell’alfabeto fonetico racchiuso
tra parentesi quadre [ʎ];; il fonema con un simbolo fonetico racchiuso tra barre
oblique /ʎ/.
Il fono è un qualsiasi suono linguistico, mentre il fonema è l’unità minima
utilizzata da una lingua per distinguere una parola dall’altra.
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Si tratta di una distinzione di estrema importanza per tutte le lingue. Ogni lingua
ha alcuni foni che corrispondono a fonemi distinti, che corrispondono cioè a
rappresentazioni mentali e astratte distinte. I parlanti però possono produrre
anche foni diversi e possono produrre anche in modi diversi il fono
corrispondente a un fonema;; possono dare cioè realizzazioni diverse dello
stesso fonema per variazioni personali, geografiche, sociali. Le realizzazioni
diverse dello stesso fonema si dicono allòfoni.
Pensiamo a un parlante che tenda a realizzare la s poggiando la punta della
lingua contro gli alveoli invece che contro i denti. Si tratterà solo di una
variazione, di un allofono cui non corrisponde un fonema specifico, diverso da
quello della /s/ italiana. Nell’ascoltarlo non terremo conto di questa variazione,
ma ricondurremo il suono al fonema dell’italiano. Si tratta dunque di una
variazione fonetica e non di una distinzione fonologica;; in una lingua, però,
esistono, come si vedrà, anche allofoni stabili, ovvero variazioni di suono
condizionati dal contesto fonetico.
La funzione distintiva dei fonemi è testimoniata dalla presenza di coppie
minime, cioè coppie di parole che si distinguono per un unico elemento:
rata ~ rada;; patto ~ matto;; pazzo ~ pozzo.
Se in una parola, sostituendo un fono con un altro, si ottiene un’altra parola di
senso compiuto, siamo di fronte a due fonemi (prova di commutazione) e a
una distinzione fonologica.
Il più diffuso sistema di trascrizione dei foni e dei fonemi è l’IPA (International
Phonetic Association).
I foni sono elementi della comunicazione orale, del parlato. Da secoli gli uomini
li fissano sulla carta attraverso segni grafici (grafemi). Lo studio dei grafemi e
dei segni paragrafematici che si adoperano solo nella scrittura (apostrofi,
accenti, interpunzione, ecc.) è detto grafematica.
Non bisogna mai confondere il segno grafico con il suono;; non sempre (e in
alcune lingue quasi mai) esiste un rapporto di esatta corrispondenza tra il fono
e la sua realizzazione grafica. La fonetica di una lingua muta più velocemente
della grafia, che registra spesso fasi più antiche.
Per lo studio delle lingue antiche, la grafia riveste una grande importanza,
mentre è secondaria nello studio delle lingue contemporanee.
In italiano il rapporto tra fonetica e grafia non pone grandi problemi, ma
esistono delle discordanze. Alcuni segni grafici, per esempio, non si realizzano
nella fonetica (si pensi al valore diacritico della i in parole come giallo o
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ciondolo);; a volte lo stesso fonema è reso in modi diversi (si pensi all’occlusiva
velare che può essere rappresentata dal digramma <ch>, chilo, o dal solo <c>,
cane).
Il sistema fonologico dell’italiano è costituito da sette vocali, da due semivocali
e da 21 consonanti. Un numero complessivo molto superiore ai 21 segni
dell’alfabeto, senza contare che molte consonanti, quando si trovano tra due
vocali (posizione intervocalica), possono essere lunghe e brevi, dette anche
doppie e scempie con riferimento alla realizzazione grafica.
VOCALISMO
Il vocalismo tonico dell’italiano è formato da:
una vocale centrale di massima apertura, /a/;;
tre vocali anteriori, /i/, /e/, /ɛ/, o palatali (la lingua si sposta in avanti, verso il
palato duro), aprocheile (realizzate cioè con distensione delle labbra);;
tre vocali posteriori /u/, /o/, /ɔ/, o velari (la lingua si sposta indietro, verso il
palato molle), procheile (realizzate cioè con arrotondamento delle labbra).
In base all’altezza della lingua distinguiamo tra vocali alte (/i/, /u/), vocali medio
alte (/e/, /o/), vocali medio basse (/ɛ/, /ɔ/), vocale bassa (/a/). Le vocali alte sono
di massima chiusura.
La grafia dell’italiano non segna la differenza di apertura e chiusura delle vocali
medio alte e medio basse. Si tratta di una distinzione fonologica come prova
l’esistenza di alcuna coppie minime come
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/bɔtte/ (plurale di botta) e /botte/ (recipiente per vino)
/pɛsca/ (‘frutto’) e /pesca/ (‘attività del pescare’).
Talvolta la distinzione si può segnare graficamente tramite l’accento. L’accento
acuto, è, segnala la vocale chiusa, quello grave, è, la vocale aperta.
La distinzione tra apertura e chiusura delle vocali medie si avverte soltanto
quando sono accentate (toniche);; se sono atone la distinzione si annulla e i
suoni vocalici si riducono a cinque.
La distribuzione dei suoni in ogni lingua ha delle restrizioni: non sempre tutti i
suoni, cioè, possono ricorrere in tutte le posizioni. Per quanto riguarda le vocali,
per esempio, in italiano la u non può ricorrere in fine di parola tranne nel caso
in cui non sia tonica (più, tribù, ecc.);; anche la o chiusa non ricorre mai in fine
di parola, dove si trova solo la /ɔ/ (però, contò, ecc.).
Quando due vocali appartengono a due sillabe diverse e si incontrano, si forma
uno iato: pa-é-se, le-ó-ne (diverso il caso dei dittonghi fài-da, buò-no). Quando
l’incontro tra le vocali di due sillabe distinte si realizza per l’incontro tra due
parole diverse (la entrata, lo impero), per evitare lo iato, spesso cade la vocale
finale della prima parola (l’entrata, l’impero). È un fenomeno fonosintattico (o
di fonetica sintattica) e di riduzione del corpo fonico della parola definito
elisione.
Si parla invece di iato quando due vocali accostate sono pronunciate in due
sillabe separate. Si verifica:
- quando nessuna delle due vocali contigue è una i o una u (be-ato, le-ale,
ero-e);;
- quando una delle due vocali è una i o una u colpite da accento (mío, búe);;
- in alcune parole formate con il prefisso ri- (ri-aprire, ri-avere) o, più in
generale, in cui la i è preceduta da r o da un gruppo consonantico con r: ori-
ente, ri-one, ecc.;;
- quando si tratti del derivato di una parola che aveva l’accento sulla i: vi-
abilità (da vì-a), spi-are (da spì-a).
L’italiano possiede anche due semiconsonanti o semivocali: la /j/ (o iod)
palatale e la /w/ velare che nella grafia dell’italiano sono rese con <i> e <u>.
La loro pronuncia è a metà tra le vocali e le consonanti;; si chiamano infatti
anche consonanti approssimanti, perché il canale dell’aria si restringe molto
ma non completamente come per le consonanti.
Questi foni possono comparire in italiano solo prima o dopo una vocale
appartenente alla stessa sillaba. Se compaiono prima formano un dittongo
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ascendente, piede, buono, accentato cioè sul secondo elemento vocalico. Se
compaiono dopo formano un dittongo discendente, accentato cioè sul primo
elemento vocalico: càusa, pòi.
La /j/ non può mai co-occorrere con la /i/;; la /w/ non può mai co-occorrere con
la /u/ e non può formare dittonghi discendenti con /i/, /ɔ/ e /o/.
La /u/ non può mai apparire in fine di parola tranne nel caso in cui non sia
tonica (più).
CONSONANTI
Fonemi consonantici dell’italiano
Luogo di articolazione
Modo di Bilabiali Labiodent. Dentali Alveolari Palatali Velari
articolaz. s.da s.da s.ra s.da s.da s.ra s.da s.da
s.ra s.ra s.ra s.ra
Occlusive p b t d k g
Laterali l ʎ
Vibranti r
Fricative f v s z ʃ
Nasali m n
ɲ
Affricate ts dz ʧ dʒ
Occlusive: chiusura completa del canale
Costrittive: c’è un forte restringimento che tuttavia consente il passaggio
dell’aria:
- fricative si producono con una frizione
- vibranti con vibrazione della lingua
- laterali con passaggio dell’aria ai lati della lingua
Affricate: c’è un’occlusione e poi un restringimento
La presenza di quattro affricate tra i fonemi consonantici è considerato un tratto
tipico dell’italiano;; le altre principali lingue europee ne hanno al massimo due.
Bilabiali: chiusura delle labbra
Labiodentali: denti e labbro inferiore
Dentali: punta della lingua contro i denti
Alveolari: punta della lingua contro gli alveoli
Palatali: dorso della lingua contro il palato anteriore
Velari: dorso della lingua contro il velo
Le poche discrepanze tra grafia e fonetica nell’italiano riguardano le
consonanti.
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L’occlusiva velare sorda /k/ha tre grafie differenti:
<c> davanti alla a e alle vocali velari o, u;;
il digramma <ch> davanti alle vocali palatali e, i;;
<q> in alcuni casi davanti a /w/: quando, quale, ecc., ma cuore, cuoco, ecc.
L’occlusiva velare sonora /g/ ha due grafie differenti:
<g> davanti alla a, alle vocali velari o, u, e alla semivocale /w/ (guanto);;
il digramma <gh> davanti alle vocali palatali e, i.
I suoni [kw] e [gw] sono definiti nessi labiovelari rispettivamente sordo e sonoro
e devono essere sempre seguiti da una vocale.
Le affricate palatali sorda e sonora, /ʧ/ e /dʒ/, hanno ciascuna due rese grafiche
differenti:
<c> e <g> davanti alle vocali palatali e, i (giro, cena, ecc.);;
i digrammi <ci> e <gi> davanti alla a e alle vocali velari o, u (cianotico, giallo,
ciocco, giunco, ciuco, ecc.).
La i ha in questo caso solo valore diacritico. Nella fonetica dell’italiano standard
contemporaneo, anche in parole come cielo, dove la i aveva valore fonetico
(era la semivocale del dittongo /jε/) o in latinismi come superficie, igiene, la <i>
ha ormai solo valore diacritico.
Abbiamo anche casi contrari in cui due suoni differenti hanno un solo segno
grafico.
Le affricate alveolari sorda e sonora /ts/ e /dz/ si rendono in italiano con il solo
grafema <z>:
zaino /’dzajno/, zucca /’tsukka/.
In posizione intervocalica le affricate alveolari sono sempre lunghe (intense),
anche se nella grafia talvolta sono scempie e talvolta doppie:
mezzo /’meddzo/;; pizza /’pittsa/
ma azoto /ad’dzɔto/;; azione /at’tsjone/.
Anche le fricative alveolari sorda e sonora /s/ e /z/ si rendono in italiano con il
solo grafema <s>.
La fricativa alveolare sonora /z/ si può trovare all’inizio di parola prima di
un’altra consonante sonora: sdolcinato, svegliarsi, ecc.;;
in posizione intervocalica dove è sempre di grado tenue:rosa /’rɔza/.
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In posizione preconsonantica le fricative alveolari sono sorde o sonore in base
al contesto fonetico.
In posizione intervocalica hanno valore fonologico:
fuso /’fuso/ (arnese per filare, fuso orario) e fuso /’fuzo/ participio passato di
fondere;;
chiese /’kjεse/ (participio passato di chiedere) e chiese /’kjεze/ (plurale di
chiesa).
Le consonanti laterale palatale, fricativa palatale e nasale palatale, /ʎ/, /ʃ/ /ɲ/,
in posizione intervocalica sono sempre lunghe, di grado intenso. Nella grafia
sono rese con un digramma o un trigramma.
/ʎ/ con il digramma <gl> davanti a /i/: gli, gliene, figli, ecc.
con il trigramma <gli> davanti alle altre vocali: aglio.
/ʃ/ con il digramma <sc> davanti alle vocali palatali: scena
con il trigramma <sci> davanti alle altre vocali: uscio
(fanno eccezione alcuni latinismi come scienza)
/ɲ/ con il solo digramma <gn>: pugno, ignorare
Nei digrammi <gli> e <sci> la i ha solo valore diacritico
Gli allofoni sono variazioni di suono che non hanno valore fonologico. La
variazione di suono è condizionata dal contesto fonetico.
Gli allofoni dell’italiano sono:
le velari che precedono la semivocale /j/, [kj] e [gj]: chiodo, chiesa, ghianda,
ghiotto – in alfabeto fonetico si indicano con [c] e [ɟ];;
la nasale che precede una velare [ŋ]: ancora, e la nasale che precede una
fricativa labiodentale [ɱ]: anfora.
Un tratto fonologico tipico dell’italiano è la lunghezza consonantica. È l’unica
delle lingue romanze ad aver conservato questo tratto dal latino e ha valore
distintivo:
pala/palla, cane/canne, fato/fatto
LA SILLABA
Anche all’interno delle parole i suoni non sono mai pronunciati isaolatamente
ma si legano l’uno all’altro in strutture che possono variare da lingua a lingua
e che costituiscono le sillabe.
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Elemento essenziale della sillaba è il nucleo che in italiano è sempre costituito
da una vocale. Il nucleo è quasi sempre preceduto da un attacco (pa-ne) e può
essere seguito da una coda (tut-to).
In italiano, e anche questa è una specificità della nostra lingua possiamo avere
sillabe costituite dalla sola vocale, mentre non possiamo avere sillabe costituite
solo da consonanti, con l’eccezione di onomatopee, dette anche ideofoni,
come brrr, bzzz.
L’attacco può avere diverse composizioni:
V: o-ro
CV: ma-no
CCV: tre-no
CVC: den-te
CCVC: trop-po
CCCV: stra-da
CCCVC: stret-to
La coda è sempre costituita da una sola consonante. La sillaba chiusa da una
consonante non si trova in fine di parola, tranne che in alcuni monosillabi come
per, del, ecc.
Le sillabe sono aperte quando finiscono per vocale e chiuse quando è presente
la coda e si chiudono quindi in consonante:
sillaba aperta ma-no
sillaba chiusa can-to
La sillaba aperta tonica è lunga;; la sillaba chiusa è breve, ma questa distinzione
in italiano non ha valore fonologico.
L’ACCENTO
È un tratto soprasegmentale, cioè al di sopra della sequenza dei suoni.
Consiste nel far sentire con più forza una sillaba sulle altre o, più esattamente,
il nucleo della sillaba.
L’accento italiano è intensivo, il nucleo della sillaba è cioè articolato con più
forza (diversi i casi in cui l’accentuazione è data dalla durata o dall’altezza
melodica = tono più acuto della voce).
L’italiano ha un accento mobile la cui posizione è impredicibile.
Ha valore fonologico:
rétina/retìna, àncora/ancóra, sùbito/subìto, ecc.
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Elisione
L’elisione (dal lat. elisio «atto di rompere») consiste nella cancellazione di una
vocale atona in fine di parola, quando questa sia seguita da una parola
iniziante per vocale. Il fenomeno ha luogo quindi solo al confine di parola e fa
parte della cosiddetta fonologia di giuntura o fonetica sintattica. La
cancellazione della vocale atona finale serve a rendere più fluida l’articolazione
dei suoni ed evitare il formarsi di iati come accadrebbe in lo emporio, la
avarizia, ecc.
L’eliminazione della vocale per elisione nella grafia è segnalata
dall’apostrofo: l’amica, un’altra, senz’altro, ecc.
Apocope
L’apocope (o troncamento) consiste nella caduta della vocale atona finale o
della sillaba nell’incontro con un‘altra parola che inizi perlopiù con consonante.
Nell’italiano contemporaneo l’apocope sillabica sopravvive solo in gran, san,
bel (gran caldo, san Gennaro, bel ragazzo) e nelle preposizioni articolate
(del/dello, al/allo, ecc.).
L’apocope vocalica può essere obbligatoria in casi come:
buon giorno, buon viaggio, signor Mario;;
e facoltativa in casi quali:
cuor mio, bicchier d'acqua, ancor più, ecc.
Perché l’apocope vocalica si verifichi
- la vocale finale deve essere preceduta da l, r, n, m;;
- deve essere vocale diversa da a, tranne che per i composti in -ora (suor
Maria, ancor più, ecc.);;
- le vocali finali -e, -i non devono indicare plurale;;
- la parola non deve trovarsi in fine di frase.
Si tratta, tuttavia, di un fenomeno impredicibile: secondo le regole precedenti,
infatti, la sequenza car padre sarebbe ammessa, eppure non si produce.
Attenzione: anche qual è è un’apocope ed è per questo motivo che non si
apostrofa (così come non si apostrofa qual era). La caduta della vocale in quale
può infatti avvenire anche davanti a consonante (qual buon vento). Anche altre
forme, come tal o buon, si comportano allo stesso modo e nella grafia non
richiedono l’apostrofo quando si trovino davanti a vocale (è un buon amico).
La grafia qual'è si sta diffondendo, soprattutto nella scrittura giornalistica ma la
regola grafica è ancora stabile. È diverso, invece, il caso di qual’erano, dove si
ha un’elisione della i di quali che richiede l’apostrofo.
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Aferesi
L’aferesi consiste nella caduta di uno o più foni all’inizio di parola. Oggi è un
tratto caratteristico del parlato, soprattutto nei registri trascurati o informali, e
nel parlato regionale o popolare. L’aferesi riguarda più frequentemente la
vocale atona iniziale delle parole, soprattutto negli articoli e quando precedono
un nesso nasale + consonante:
«come stai?» «’nsomma»;;
oggi non fatto ’n tubo;;
t’ho aspettato tutto ‘l tempo.
Si ha anche aferesi della sillaba iniziale;; nel parlato contemporaneo, sempre
di registro informale, è frequente l’aferesi sillabica del dimostrativo:
Tutte ‘ste storie m’hanno scocciato.
Il dimostrativo, nella forma aferetica, perde l’accento e si comporta come un
clitico, appoggiandosi all’accento della parola che segue (enclitico):
sempre ‘sto chiasso tutte le sere!
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MORFOLOGIA FLESSIVA
La morfologia studia le forme delle parole e il modo in cui queste forme
cambiano per esprimere diversi valori grammaticali.
L’italiano è una lingua flessiva: le sue forme nominali, verbali, pronominali
flettono, variano cioè la desinenza per esprimere significati grammaticali
diversi.
La morfologia flessiva studia il modo in cui si esprimo i diversi significati
grammaticali.
La flessione
Ø dei nomi, degli articoli e degli aggettivi indica genere
(maschile/femminile) e numero (singolare/plurale);;
Ø dei pronomi indica numero, persona (prima, seconda, ecc.) e funzione
sintattica (io soggetto, me oggetto);;
Ø dei verbi indica persona, numero, tempo, modo (amo, amerei, ecc.),
aspetto (amai, ho amato, amavo) e diatesi (amo, sono amato, ecc.).
La morfologia derivazionale o lessicale studia invece la formazione delle parole
attraverso la derivazione e la composizione. Da una parola base se ne
possono ricavare delle altre.
In base al sistema morfologico le lingue sono classificate in due grandi
categorie: le lingue analitiche e le lingue sintetiche.
Nelle lingue analitiche, dette anche isolanti, ogni significato è rappresentato
da un solo elemento, una sola parola autonoma che non cambia forma.
Nelle lingue sintetiche più elementi si uniscono, si legano in una sola parola
per esprimere significati diversi.
Gli elementi isolati o legati insieme in una parola sono i morfemi. Per morfema
intendiamo dunque la più piccola unità linguistica dotata di significato. Nelle
lingue analitiche abbiamo morfemi liberi, in quelle sintetiche morfemi legati.
Le lingue flessive come l’italiano appartengono alle lingue sintetiche. In quasi
tutte le parole dell’italiano, infatti, possiamo distinguere tra un morfema
lessicale, detto anche radice o radice lessicale, che porta il significato della
parola e uno o più morfemi grammaticali, che danno l’informazione
grammaticale e segnalano, attraverso gli accordi, il rapporto che la parola ha
con le altre contenute in una frase o in un testo o sono, in alcuni casi in grado
di cambiare il significato e il ruolo grammaticale della parola. Il morfema
grammaticale o l’insieme dei morfemi grammaticali di una parola è detto anche
desinenza. Se i morfemi grammaticali hanno la funzione principale di variare
la parola per darci le forme del genere, numero, tempo, aspetto, ecc. parliamo
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di morfemi flessivi;; se invece hanno anche il potere di cambiare il significato
della parola ed eventualmente la sua categoria grammaticale, parliamo di
morfemi derivativi:
morfemi morfemi morfemi morfemi
lessicali grammaticali - lessicali grammaticali
flessivi derivativi
ragazz- -o ragazz- -ata
am- -are am- -abile
cant- -erei cant- -ata
bell- -e bell- -ezza
La morfologia flessiva è dunque quella che si occupa delle trasformazioni
che la stessa parola subisce per trasmettere diverse informazioni grammaticali
(genere e numero per i nomi, tempo, modo, aspetto, persona per i verbi, ecc.).
La morfologia derivazionale o lessicale si occupa delle trasformazioni di una
parola in un’altra parola di diverso significato e riguarda quindi la formazione
delle parole.
La flessione ha un’importante funzione di economia linguistica: risparmia un
alto numero di elementi linguistici riuscendo a esprimere più cose con forme
sintetiche.
La flessione grammaticale in italiano si realizza attraverso i morfemi
grammaticali che si legano direttamente al morfema lessicale con qualche
eccezione come alcuni tempi verbali che si formano con l’aggiunta
dell’ausiliare (ho mangiato, avevo letto, ecc.);; come i casi in cui si realizza
tramite il cambiamento della vocale radicale (feci/faccio) o lo spostamento
dell’accento (amo/amò).
Anche in italiano quindi esistono casi di morfologia analitica, ma sono in
numero molto minore rispetto alle forme sintetiche. La distinzione tra lingue
analitiche e lingue sintetiche, infatti, si basa sul numero prevalente di forme
autonome (morfemi liberi) o di parole sintetiche (morfemi legati);; la tipologia è
valutata in base alle caratteristiche predominanti.
In ogni lingua dunque esistono sia elementi analitici sia elementi sintetici.
Anche in italiano possiamo avere formazioni analitiche (i verbi con ausiliare;; il
comparativo: più bello, meno grasso, ma a volte convive la forma sintetica
come nel caso di più cattivo e peggiore). Anche in italiano abbiamo morfemi
liberi come le congiunzioni (e, che, ecc.) gli articoli e i pronomi. In qualche caso
alcuni di questi morfemi sono detti semiliberi, perché, come avviene per gli
articoli, possono svolgere la loro funzione solo se legati a un nome.
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L’italiano deriva il suo carattere flessivo dal latino. La lentezza con cui l’italiano
è cambiato nei secoli in cui è stata lingua prevalentemente scritta ha fatto sì
che si generasse una forte allomorfia: convivono cioè forme diverse per
esprimere la stessa informazione grammaticale oppure si hanno esiti irregolari,
che cambiano nonostante ci si trovi davanti allo stesso contesto fonetico.
Per es. il plurale di amico è amici (con l’affricata palatale), ma il plurale di cuoco
è cuochi con occlusiva velare. Abbiamo paradigmi di verbi in cui cambia la
vocale della radice: tiene ma teniamo, irregolarità come posso, puoi, possiamo,
potevo, alternanza di radici come vado/andiamo.
Di solito questi allomorfi sono complementari: si escludono a vicenda,
possiamo cioè usare o l’uno o l’altro (non possiamo dire *ando o *vadiamo).
Esiste però anche un’allomorfia libera che fino agli inizi del Novecento si
incontrava spesso soprattutto nei testi scritti: la prima persona dell’imperfetto
poteva essere io amavo o io amava, questione/quistione, ecc. Oggi è rimasta
solo qualche traccia come nell’alternanza devo/debbo che è anche nel
congiuntivo deva/debba, anche se ormai deva quasi non si usa più.
Il carattere flessivo dell’italiano deriva, come si è detto, dal latino, che però
possedeva un grado maggiore di flessività. Il latino, infatti, cambiava desinenza
anche per esprimere la funzione sintattica:
ROS-A (“la rosa”) femminile, singolare, soggetto;;
ROS-AE (“della rosa”) femminile, singolare, genitivo, ecc.;;
Ora in italiano l’espressione della funzione sintattica è esterna alla parola:
avviene tramite preposizioni o tramite la posizione nella frase.
Tutte le forme che possono assumere nomi, verbi, pronomi, ecc.
rappresentano il paradigma (l’insieme di tutte le flessioni possibili). L’italiano
eredita dal latino paradigmi complessi con molte possibilità di flessioni, spesso
irregolari.
I paradigmi nominali sono più opachi: abbiamo gli invariabili, il morfema –e che
può indicare femminile plurale (rose) ma anche maschile singolare (cane);; il
morfema –i che può indicare anche il plurale femminile (mani), ecc.
Molto più trasparenti sono i paradigmi dei verbi, che indicano in un solo
morfema la persona, il tempo, il modo, l’aspetto (cant-avamo).
Rispetto al latino c’è stata comunque qualche semplificazione ma anche
qualche aggiunta, come il condizionale, comune a tutte le lingue romanze o i
cinque tempi del passato (passato prossimo, passato remoto, imperfetto,
trapassato prossimo, trapassato remoto).
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MORFOLOGIA NOMINALE
I NOMI
La flessione dei nomi indica le categorie di numero e di genere.
Il genere non sempre è legato al significato del nome, in rapporto al quale è
perlopiù immotivato. La distinzione maschile/femminile coincide spesso con il
genere naturale quando si tratta di nomi che indicano persone o esseri animati:
fratello/sorella;; ragazzo/ragazza;; leone/leonessa;; gatto/gatta, ecc.). Non è
però sempre così: il soprano (per un ruolo di cantante femminile), la sentinella
(anche per il soldato che fa la guardia alle caserme militari).
Per le cose inanimate o per i concetti astratti il genere maschile o femminile è
del tutto indipendente dal significato (il quaderno, la casa, la carità, il pensiero,
ecc.). È solo un genere grammaticale.
Il maschile è il genere non marcato in cui si inseriscono le parole nuove formate
senza suffissi e i prestiti stranieri. Se però hanno terminazione in –a è favorito
il genere femminile.
Molte discussioni si sono fatte riguardo alla correttezza politica da usare verso
le donne. Non tutti le parole o i suffissi hanno prodotto tradizionalmente il
femminile: maestro/maestra, dottore/dottoressa, direttore/direttrice;; oggi si
stanno affermando anche avvocata, ministra, sindaca e così via. Si è
abbastanza affermato l’uso dell’articolo femminile in casi come la presidente,
la preside. Le posizioni sono spesso contrastanti.
Per indicare il numero i nomi italiani sostituiscono sempre la desinenza e non
devono aggiungere un nuovo morfema come avviene in altre lingue:
spagnolo: amig-o / amig-o-s
italiano: ragazz-o / ragazz-i
È un sistema più economico perché un solo morfema grammaticale indica il
genere e il numero.
In base alle desinenze in italiano distinguiamo tra nomi che escono in -o, in -a
e in -e;; la flessione tra singolare e plurale per ciascuna delle tre uscite o
l’assenza di flessione ci consente di distinguere sei classi di nomi:
1. La classe dei nomi in -o / plur. -i: soldato/-i, lupo/-i, fatto/-i. Sono tutti
maschili, con eccezioni come mano/-i che è femminile.
2. La classe dei nomi in -a / plur. -e: donna/-e, cicala/-e, causa/-e. Sono tutti
femminili.
3. La classe dei nomi in -e / plur. -i: occasione/-i, fiore/-i. Sono sia maschili
sia femminili, con l’eccezione di il carcere maschile al singolare e
femminile al plurale: le carceri.
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4. La classe dei nomi invariabili: re, virtù, caffè, città, ecc. Sono sia maschili
sia femminili.
5. La classe dei nomi in -a / plur. -i: poeta/-i, papa/-i. Sono maschili con
l’eccezione di arma/-i, ala/-i che sono femminili.
6. La classe dei nomi in -o / plur. -a: dito/-a, ciglio/-a. Sono maschili al
singolare e femminili al plurale.
Le classi 1, 2 e 4 sono ancora produttive: si formano cioè ancora parole
maschili in -o/-i e femminili in -a/-e e il patrimonio lessicale continua ad
arricchirsi di parole invariabili. Sono ancora attive anche la classe 3, per le
parole formate con -tore, -trice, -zione e dai participi presenti (redattore,
redattrice, attore, cantante), e la classe 5 per la formazione di parole che
finiscono in -ista (giornalista) o in -ma per formazioni dal greco (enzima).
La classe 6 non è più produttiva. Non si formano più plurali in -a che derivavano
direttamente dal latino. Per molte di queste parole, infatti, si è affiancato anche
un plurale in -i: il lenzuolo, le lenzuola/i lenzuoli;; il braccio, le braccia/i bracci;; il
muro, le mura/i muri, ma in molti casi il significato dei due plurali può essere
diverso.
La classe 4 nell’italiano antico comprendeva soltanto i monosillabi (re, gru, tre,
ecc.);; in seguito si sono aggiunte le parole tronche (accentate sull’ultima
vocale) derivate da parole che avevano subito un’apocope:
virtu(de)/virtu(di) > virtù
Oggi le parole invariabili, riconducibili alla classe 4, sono molte di più e
comprendono:
- prestiti da altre lingue: bar, computer, sport;;
- parole in -a: mascara;;
- parole in -e: specie;;
- parole in -i: crisi;;
- parole in -o: radio.
È una classe di parole che in italiano si va sempre più ampliando, anche grazie
al fatto che i recenti prestiti dalle lingue straniere non sono più adattati alle
forme della nostra lingua.
La categoria del numero in questi casi è espressa dagli articoli o anche dal
verbo o dal contesto e così via. La stessa cosa in questi casi e per i nomi della
classe 3 vale per il genere che non è espresso dalla desinenza ma da altri
elementi.
I prestiti integrali dalle lingue straniere e, in particolare, dall’inglese vanno di
solito ad arricchire il serbatoio delle parole invariabili. La norma prevede infatti
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che il plurale con –s finale in italiano non sia espresso (il computer / i
computer). La norma è bene rispettata anche per i prestiti che terminano in –o
e che potrebbero essere assimilati ai nomi della classe 1 (il video / i video, il
jumbo / i jumbo). Nell’italiano popolare accade spesso però che la –s del
plurale non solo sia mantenuta ma sia estesa anche al singolare (i jeans ma
anche un jeans, un fans e, per lingue diverse dall’inglese, un murales). In
alcuni casi più rari il plurale originario si è stabilizzato (i Lieder, plurale tedesco
di un genere musicale, da Lied “romanza”, o anche i marines).
AGGETTIVI
Gli aggettivi si dividono in tre classi:
1. la classe in -o/-i per il maschile e -a/-e per il femminile, che comprende
le desinenze per entrambi i numeri ed entrambi i generi
(bello/belli/bella/belle);;
2. la classe in -e/-i con una sola desinenza per il singolare e una per il
plurale, senza distinzione tra maschile e femminile (triste/tristi);;
3. la classe degli aggettivi invariabili che comprende l’aggettivo pari,
alcuni aggettivi che indicano colori (rosa, viola, avana, ecc.), i prestiti
(trendy, ecc.) e altri elementi usati come aggettivi (è un locale in;; una
giornata no, ecc.).
Il comparativo in italiano è di tipo analitico:
più ricco, più triste, ecc.
Ma esistono relitti di comparativo sintetico modellati sul latino:
migliore, minore, peggiore, inferiore (accanto a più buono, più piccolo, più
cattivo, più basso).
Il superlativo assoluto è di tipo sintetico:
ricchissimo, tristissimo, ecc.
Sul latino sono modellati ottimo, minimo, pessimo, infimo (accanto a
buonissimo, piccolissimo, cattivissimo, bassissimo).
Oggi in italiano si affermano sempe di più, soprattutto nel parlato, superlativi
formati con prefissi: super-eroe, maxi-schermo, ecc.
Il superlativo relativo è di tipo analitico:
Mario è il più bravo studente della nostra scuola.
Anche gli alterati in italiano si formano tramite suffissi che si aggiungono alla
base lessicale di nomi e aggettivi:
pover-ino, ragazz-accio, palazz-one, pan-ino, ecc.
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c. Per la struttura informativa, si usa l’articolo determinativo se ci riferiamo a
un elemento dato, cioè a un referente già introdotto nel testo, o ben noto a chi
ascolta, o presente nel luogo in cui parliamo:
- Nel paese delle fate viveva una fanciulla... Un giorno la fanciulla decise
di partire…
- Questa mattina il postino non è venuto.
- Chiudi la porta.
Ma se l’elemento è introdotto per la prima volta, non è noto a chi ascolta, non
è presente nel luogo in cui parliamo, si usa l’indeterminativo:
- C’era una volta una fanciulla.
- Oggi è venuto un postino nuovo.
- Nell’aula dovrebbe essere rimasto un ombrello.
L’alternanza tra lo/gli e il/i o tra uno e un si è andata fissando nel corso del
tempo: a volte si tratta di convenzioni recenti (nell’italiano antico ancora fino
all’Ottocento era diffuso l’articolo il davanti all’affricata alveolare z), in altri casi,
di relitti che si sono trasmessi inalterati. Oggi l’uso di lo è previsto davanti a s
preconsonantica, laterale palatale, nasale palatale, fricativa palatale, affricata
alveolare, semivocale j (lo Ionio) e vocale, davanti alla quale si elide. Si usa
talvolta anche per gruppi consonantici estranei alla tradizione italiana (lo
psicologo, ma la psicologia) e oscilla nel caso della semivocale w (l’uomo ma
il week end).
I PRONOMI PERSONALI
I paradigmi dei pronomi sono più complessi di quelli di nomi. Distinguiamo
prima di tutto tra pronomi tonici e atoni, cioè pronomi accentati e pronomi privi
di accento. I primi sono forme autonome e sono quindi considerati morfemi
liberi. I secondi, detti anche clitici, si appoggiano sempre alla parola che segue
(proclitici: mi piace) o si legano alla parola che precede (enclitici: dimmi);; per
questo motivo sono considerati morfemi semiliberi.
I pronomi, oltre a esprimere nella flessione la persona, il numero e, talvolta per
la terza persona, il genere, esprimono anche la funzione sintattica: spesso cioè
cambiano in base al ruolo che debbono svolgere.
I pronomi tonici possono svolgere la funzione di soggetto o di complemento;;
per il complemento indiretto si associano a una preposizione (che un tempo si
chiamava segnacaso: a me, con te, per lui, ecc.). Nel paradigma dei pronomi
tonici in qualche caso le forme per il soggetto e per il complemento coincidono:
Pronomi tonici
Ruolo di soggetto Ruolo di complemento
Io Me
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Tu Te
Egli/ella/lui/lei [esso/essa] Lui/lei
Noi Noi
Voi Voi
Essi/esse/loro Loro
Come si vede, le forme di prima e seconda persona plurale sono identiche per
entrambi i ruoli sintattici. Anche per la terza persona, a dire il vero, è da tempo
in atto, nell’italiano di uso comune, un’ulteriore semplificazione. Si tende
sempre più a usare le forme del complemento per il soggetto: nel parlato è
quasi prevalente il ricorso a lui e lei;; sopravvive nello scritto molto formale egli,
mentre è considerato sempre più arcaico ed è visibilmente in regresso il
femminile ella.
In alcune aree della penisola, inoltre, si tende ad adoperare la forma del
complemento te in luogo del soggetto tu e, a causa dell’influenza dei media,
l’uso si sta estendendo. La distinzione più salda rimane dunque quella tra io e
me.
I pronomi atoni si adoperano solo per le funzioni sintattiche di complemento
diretto (oggetto) o indiretto (di termine). Per quanto riguarda la distribuzione, i
clitici hanno delle restrizioni: devono infatti sempre precedere o seguire il verbo
(ti regalo un libro;; regalati un momento di pausa;; non voglio regalarti niente).
La posizione sintattica dei pronomi clitici inoltre segue delle regole. Di norma
si pongono prima dei verbi, tranne nel caso degli imperativi e dei modi verbali
non finiti:
lo ascolti;; ascoltalo;; ascoltandolo impari.
La posizione è libera con l’imperativo negativo:
Non ascoltarlo, ma anche non lo ascoltare.
Oggi sta diventando libera anche la posizione in presenza di infinito dipendente
da un verbo, soprattutto se verbo modale come potere, dovere, ecc.:
Mario deve ascoltarlo ogni giorno tende a diventare, soprattutto nel parlato,
Mario lo deve ascoltare ogni giorno.
Si parla in questi casi di risalita o anticipazione del clitico, un fenomeno recente,
frequente nel parlato ma solo parzialmente ammesso nello scritto. D’altro canto
l’anticipazione del clitico è obbligatoria in casi come lo fai dormire o lo sento
cantare.
Rimane ancora in uso l’enclisi in forme come affittasi, vendesi o, come si legge
in alcuni testi burocratici, pregasi. È il relitto arcaico dell’enclisi pronominale
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che nell’antico italiano si poteva avere anche dopo le forme coniugate del
verbo.
Anche il paradigma dei pronomi atoni presenta delle semplificazioni:
Pronomi atoni (o clitici)
Complemento oggetto Complemento di termine
Mi Mi
Ti Ti
Lo/la Gli/le
Ci Ci
Vi Vi
Li/le Gli/[loro]
Come si vede i pronomi di prima e seconda persona, singolari e plurali,
coincidono per entrambi i ruoli sintattici, mentre variano per l’oggetto o il
complemento di termine i clitici di terza persona.
Un caso particolare è rappresentato da loro usato per il complemento di
termine. Si tratta di una forma in forte regresso, anche a causa delle sue
limitazioni d’uso:
1) prima di tutto è bisillabo e quindi non è un pronome atono;; è estraneo
alla serie dei pronomi che servono per i complementi e non può
combinarsi, a differenza di gli, con altri pronomi atoni. Con loro, cioè, non
sono possibili combinazioni come diglielo, mentre dirlo loro è ormai
arcaico e totalmente in disuso anche nelle situazioni più formali.
2) Il pronome loro in funzione di complemento indiretto ha poche possibilità
di movimento nella frase: deve collocarsi sempre dopo il verbo (ho detto
loro).
Anche per questi motivi dunque il pronome loro nel ruolo di complemento di
termine sta quasi scomparendo. Nel cosiddetto italiano neostandard e, in
generale, nell’uso vivo e comune, il sistema dei pronomi atoni per il
complimento di termine si sta riducendo a due sole caselle: gli per il maschile
singolare e per il plurale sia maschile sia femminile;; le per il femminile
singolare.
Nell’italiano popolare (o substandard) si assiste ancora a un’ulteriore
semplificazione, con il ricorso al solo gli anche per il femminile singolare, ma si
tratta ancora di una tendenza marcata come bassa.
Il pronome riflessivo ha una forma tonica (sé) per il ruolo del complemento e
una forma atona tanto per il complemento oggetto quanto per il complemento
di termine (si).
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Il pronome si è adoperato anche per le costruzioni impersonali: si dice bene di
te;; si parla poco quando non si sa, ecc. Richiede in questi casi l’ausiliare essere
e l’accordo al maschile nelle forme composte: quando si è vecchi. Il si è
adoperato anche nelle costruzioni passive, soprattutto in assenza di agente (si
è votato ieri), ma non è sempre facile distinguere la funzione impersonale da
quella passivante: si è scritto molto su questo tema. Sul piano semantico non
c’è molta differenza ma sul piano grammaticale la distinzione non è chiara.
In più di un caso i clitici perdono la funzione pronominale per assumere altri
ruoli, grammaticali e lessicali. Sono sempre più numerosi i verbi transitivi usati
come se fossero pronominali: mi bevo una birra, ci facciamo un bagno. Si tratta
però di usi ancora riservati al parlato più che allo scritto. Il pronome la assume
un valore indefinito in presenza di alcuni verbi: la sa lunga;; se la passa male,
anche con funzione soggetto in alcune espressioni fisse: o la va o la spacca.
Il pronome ne, i locativi ci e vi
Tra i pronomi atoni sono da includere anche ne, ci, vi (con funzioni diverse da
quelle dei personali ci e vi)
Ne svolge funzioni di partitivo (non ne voglio), di complemento di argomento
(non ne voglio parlare), di moto da luogo (non se ne andrà) ma in questo ruolo
sopravvive ormai quasi esclusivamente con il verbo andarsene;;
ci ha funzioni di locativo (non ci sono fiori, non ci vado), di complemento
indiretto se riferito a oggetti inanimati (non ci penso mai = “non penso mai a
ciò”) o talvolta a persone ma soprattutto in alcune espressioni tipiche del
parlato (non ci conto = “su di lui”;; non ci vado mai insieme = “con lui”);;
vi svolge il ruolo di locativo, ma è sempre più in disuso anche nello scritto.
Si assiste oggi a una sovraestensione della particella ci: si dice spesso nel
parlato molto informale ci parlo per dire “parlo a lui, lei, loro” invece di dire gli
parlo.
In generale ci è usato ormai in moltissimi contesti nei quali perde la propria
natura pronominale:
- ha preso quasi totalmente il posto di vi come locativo;; del resto con
essere è obbligatorio: c’è polvere e anche c’è polvere in casa (non è
possibile *è polvere in casa);; qui c’è il maestro (non è possibile *qui è
polvere, ma è possibile il maestro è qui);;
- ha valore attualizzante soprattutto con il verbo avere usato nel suo
significato pieno e non come ausiliare: ci ho mal di testa
- esserci ha assunto significati particolari in espressioni come ci sei? ci
siamo?
- Ha assunto significati particolari anche con i verbi
entrarci: non c’entra niente questa storia;;
farcela: ce l’abbiamo fatta per un pelo;;
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I ragazzi che hai incontrato al bar non sono gli stessi che ti ha presentato Mario;;
questi sono di Roma, mentre quelli vengono da Firenze.
Di recente si assiste a un fenomeno che tende ad assegnare ai dimostrativi il
semplice valore di articolo nel parlato. È un fenomeno del parlato, ma di
recente si legge anche in alcuni scritti informali;; non è ammesso nella scrittura
elevata e accurata:
Ho trovato un libro in classe e non so di chi sia, ma è probabile che l’abbia
perso Giovanni perché è andato via di corsa. Questo libro tra l’altro ha delle
note che sembrano scritte da lui.
In questo contesto sarebbe sufficiente l’articolo determinativo (Il libro tra
l’altro…).
La tendenza a sovrapporre la funzione dell’articolo a quella del dimostrativo fa
sì che nel parlato per precisare il valore di dimostrativo ricorriamo ad avverbi
come qui, lì, ecc. in funzione rafforzativa (questo qui, quello lì, ecc.).
Sono quasi scomparsi costui, costei, costoro, mentre resistono nello scritto,
soprattutto al plurale, colui, colei, coloro quando precedono una relativa (coloro
che/i quali vogliono aderire, rimangano).
I RELATIVI
In italiano abbiamo tre forme diverse per il relativo:
che: invariabile per il soggetto e per il complemento oggetto, al singolare e al
plurale;;
articolo + quale: variabile per il plurale (quali) e nell’accordo con l’articolo o
con la preposizione nel genere e nel numero (il quale / la quale, dei quali, alle
quali, ecc.);; si può adoperare per tutti i ruoli sintattici;;
preposizione + cui: solo per i ruoli di complemento indiretto.
La seconda forma (articolo + quale) è in regresso, soprattutto per i ruoli di
soggetto e di oggetto, e anche nello scritto comincia a essere avvertito come
arcaico.
Con l’uso prevalente di che in luogo di il quale si assiste anche a una generale
semplificazione del relativo e a una sovraestensione del che. Nei casi di
sovraestensione si parla di che indeclinato.
Nella funzione di complemento di tempo, per esempio, è ormai diffusissimo
l’uso del solo che in frasi come la sera che ci siamo incontrati, il giorno che
abbiamo fatto la gita con Mario. Nel parlato non è più avvertito come marcato.
In altri casi invece il fenomeno è più frequente nelle varietà substandard:
una signora che conosco il marito;;
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Molto frequente è anche l’inserimento di un pronome che specifica il ruolo del
relativo:
un fatto che ne hanno parlato in televisione;; un posto che ci vado volentieri;;
un amico, che gli posso dire tutto;;
Il pronome che viene inserito serve a disambiguare il valore del che. Viene
infatti definito che relativo analitico, perché si serve di due elementi per
trasmettere due informazioni distinte: l’introduzione di una relativa con il che
(che svolge quasi il ruolo di una congiunzione) e la funzione sintattica con il
pronome. Il sistema reagisce a semplificazioni eccessive ricorrendo ad altri
mezzi per fornire le informazioni necessarie. Si tratta in ogni caso di fenomeni
molto marcati, connotati come bassi sia nello scritto sia nel parlato.
Diverso dal che indeclinato è il che congiunzione con valore indeterminato
o polivalente (subordinante generico):
facciamo cose che nemmeno capiamo perché;;
esci sempre, che quando rimani neanche me ne accorgo.
LA MORFOLOGIA DEL VERBO
La flessione del verbo in italiano è, come si è detto, di particolare trasparenza.
Può esprime il tempo, il modo la persona e il numero.
Il tempo va visto soprattutto come categoria deittica: indica, infatti, un tempo
in rapporto al momento dell’enunciazione. Ciò di cui parliamo è presente o
passato rispetto al momento in cui enunciamo qualcosa. Esistono, tuttavia,
come vedremo, anche tempi deittico-anaforici.
Il modo indica l’atteggiamento del parlante nei confronti dell’azione o
dell’evento: possibilità, irrealtà, incertezza, comando.
Abbiamo altre due categorie che riguardano la coniugazione e le funzioni del
verbo: l’aspetto e la diatesi.
L’aspetto descrive lo svolgimento dell’azione, dell’evento sotto determinati
profili o prospettive che interessano il parlante. Ci dice se si tratti di azioni
concluse o non concluse e durative nel tempo. L’opposizione principale è
quella tra aspetto perfettivo in cui l’azione è vista nella sua globalità e
completezza e aspetto imperfettivo in cui l’azione è visualizzata come ancora
in corso, non delimitata. Non c’è in italiano una vera e propria marca
morfologica, un elemento interno alla desinenza che esprima l’spetto.
Anche per esprimere la diatesi il verbo non varia attraverso l’alternarsi delle
desinenze. La diatesi è il modo con cui la persona o la cosa indicata dal
soggetto partecipa all’evento descritto dal verbo;; si ha diatesi attiva, passiva,
media. Quest’ultima in italiano si realizza con il pronome riflessivo: io mi lavo
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Tra le due principali categorie del tempo, il presente è quella centrale, perché
sul piano semantico ha possibilità di esprimere più informazioni:
indica coincidenza tra il momento dell’evento e il momento
dell’enunciazione (mangio un gelato);;
indica un’azione abituale al presente (bevo latte ogni mattina);;
indica una verità universale, priva di temporalità (il ferro è un metallo);;
nel modo indicativo il futuro ha una sua forma, ma, soprattutto nel parlato,
può essere sostituito dal presente (ci vado domani);; in tutti gli altri modi
il presente include direttamente il futuro.
Il passato serve per eventi che precedono il momento dell’enunciazione.
Per capire bene la funzione temporale dei verbi, dobbiamo ricordare che il
tempo fisico, quello che viviamo nella realtà extralinguistica, è cosa ben diversa
dal tempo grammaticale espresso dai verbi. Il tempo fisico è misurabile e infatti
abbiamo un sistema preciso di suddivisione dei secondi, dei minuti e così via.
Il tempo grammaticale invece esprime soltanto una relazione tra il momento
dell’avvenimento di cui stiamo dicendo qualcosa e quello del momento in cui
lo diciamo.
Il momento dell’avvenimento è indicato di solito con la sigla MA, mentre si
segnala con la sigla ME il momento dell’enunciato: MA può essersi verificato,
prima, dopo o contemporaneamente a ME. I tempi deittici specificano solo la
relazione tra MA e ME:
Ieri ho incontrato tuo padre: il rapporto, espresso dal passato prossimo, tra MA
(incontro con il padre) e ME (momento in cui lo riferisco) è passato.
Domani partirò con Giovanna: il rapporto, espresso dal futuro, tra MA
(partenza) e ME (momento in cui lo riferisco) è futuro.
Esistono, però, anche tempi deittico-anaforici che segnalano anche il rapporto
con avvenimenti che hanno preceduto o che seguiranno il MA e che
indicheremo con la sigla MA1:
Quando è arrivato Giovanni, avevo da poco finito di lavorare: l’avvenimento
“fine del lavoro” (MA1), precede quello dell’arrivo di Giovanni (MA) e dunque il
trapassato prossimo (avevo finito) esprime sia il rapporto tra MA1 e MA sia
quello con il momento dell’enunciato ME;; il passato prossimo (è arrivato) solo
quello tra MA e ME.
Quando avrai finito di fare i compiti, guarderai la televisione: l’avvenimento “fine
dei compiti” (MA1), precederà quello del guardare la televisione (MA) e dunque
il futuro anteriore (avrai finito) esprime sia il rapporto tra MA1 e MA sia quello
con il momento dell’enunciato ME;; il futuro (guarderai) solo quello tra MA e
ME.
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I tempi deittico-anaforici in italiano sono il trapassato prossimo, il trapassato
remoto ormai del tutto in disuso, il futuro anteriore e il condizionale passato
quando è usato per esprimere il futuro nel passato (Giovanni ha detto che
sarebbe partito alle 12,00).
Il futuro è presente solo nel modo indicativo. Nel parlato tende sempre più a
essere sostituito dal presente;; tuttavia occupa altri spazi assumendo, per
esempio, valore epistemico, per esprimere dubbio o incertezza: saranno le 10;;
sarà Maria.
L’aspetto
L’aspetto acquista maggiore importanza con i tempi del passato. Al modo
indicativo, infatti, abbiamo una forma imperfettiva e due perfettive (imperfetto,
passato prossimo e passato remoto).
L’imperfetto codifica:
• eventi passati abituali (vestivamo di bianco);;
• eventi durativi (ascoltavo la musica mentre leggevo);;
• eventi finiti in testi narrativi di tipo biografico o cronachistico (Nel 1840
Manzoni pubblicava i Promessi Sposi).
Un’azione perfettiva individua il punto iniziale e finale dell’avvenimento, mentre
un’azione imperfettiva individua il punto iniziale e non sempre mostra con
chiarezza quello finale.
Per comprendere la differenza tra passato remoto, passato prossimo e
imperfetto, ricorriamo, secondo le indicazioni di Luca Serianni, a tre esempi:
1) da giovane leggevo molto;;
2) da giovane lessi molto;;
3) da giovane ho letto molto.
L’azione descritta è la stessa, ma cambia il modo di percepirla da parte del
parlante. La frase (1) indica l’abitualità dell’azione e sfuma sui contorni (sulla
quantità, sull’accaduto successivo, ecc.);; la frase (2) inserisce l’azione in
coordinate temporali molto ben definite;; ne sottolinea la compiutezza e il
distacco dal presente;; la frase (3) rivive il processo nelle sue ricadute
successive: collega implicitamente l’enunciato a un risultato attuale («… e
quindi sono istruito», «… mentre oggi non posso più farlo», ecc.).
È chiara, per esempio, la distinzione tra è nato nel 1941, detto di persona
ancora vivente e nacque nel 1915 di persona non più in vita.
Nella percezione di chi parla o scrive l’azione espressa con il passato prossimo
perdura nel presente. L’azione designata dal passato prossimo, dunque, è
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sentita come vicina soprattutto dal punto di vista psicologico più che
cronologico. Il parlante tenderà a dire, per esempio, «mio padre ha cominciato
a lavorare giovanissimo» invece di «mio padre cominciò a lavorare
giovanissimo». Allo stesso modo può accadere di rappresentare con il passato
remoto un’azione vicina guardata con distacco mi telefonò ieri.
Il presente non prevede categorie d’aspetto (azioni finite o in via di
svolgimento), ma quando la sua funzione è strettamente deittica, cioè l’evento
riferito è strettamente connesso al momento dell’enunciazione, si ha
(soprattutto nel parlato) l’uso della forma progressiva: sto mangiando il gelato.
Le funzioni aspettuali rappresentate da perifrasi, in particolare da quelle che
indicano un’azione progressiva, formate dal verbo stare seguito dal gerundio
(sto parlando a telefono;; stavo studiando a casa di Giovanni) sono oggi in
espansione in italiano. Si tratta di un aspetto imperfettivo, che serve a indicare
l’azione nel suo svolgimento.
In alcuni verbi i suffissi posti tra il morfema lessicale e il morfema grammaticale
danno informazioni vicine a quelle aspettuali: fischi-ett-are, cant-erell-are,
leggiucchiare. Sono suffissi o, più esattamente, interfissi che indicano
un’azione continuativa ma priva di attenzione e impegno.
Il modo
In italiano esistono sette modi verbali: quattro finiti (indicativo, congiuntivo,
condizionale e imperativo) e tre non finiti (infinito, gerundio, participio). I modi
finiti subiscono flessione verbale per esprimere la persona;; quelli non finiti sono
privi di flessione personale.
L’atteggiamento del parlante verso l’enunciato, oltre che dal modo verbale, può
essere espresso, soprattutto nel parlato, anche da avverbi come forse,
sicuramente, ecc., dall’intonazione, dai gesti.
La principale funzione del modo, essendo legata a ciò che il parlante pensa di
ciò che dice, è di carattere semantico. Di solito, infatti, si lega il modo indicativo
alla certezza, il condizionale a qualcosa di possibile o di subordinato ad alcune
condizioni e il congiuntivo a qualcosa di possibile, di auspicabile, di desiderato
e così via. Tuttavia le cose non sono sempre così lineari e schematiche: al
modo si legano anche componenti, sintattiche e pragmatiche;; inoltre anche il
tempo può talvolta assumere le funzioni del modo.
Pensiamo, per esempio, al futuro epistemico di cui abbiamo detto. Nella frase
Che ore sono? Mah, saranno le 10, il futuro indica una possibilità e anche un
dubbio, un’incertezza da parte del parlante su ciò che sta dicendo. Dunque in
questo caso il modo indicativo non segnala una certezza del parlante e il
significato dubitativo è affidato al tempo e non al modo. Ricordiamo anche ciò
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che abbiamo detto a proposito del presente che esprime verità universali: è
ancora un tempo, cioè, che assume le funzioni semantiche del modo. Anche il
condizionale al passato, che abbiamo appena visto (Giovanni disse che
sarebbe partito per l’America), è un modo che adoperiamo in alcuni contesti
per esprimere un contenuto temporale, il tempo futuro al passato. In
conclusione con un tempo, il futuro, possiamo esprimere le funzioni
semantiche del modo e con un modo, come il condizionale, possiamo
esprimere le funzioni temporali.
Il modo congiuntivo può svolgere le funzioni semantiche tipiche del modo,
spaziando dalla probabilità all’impossibilità degli eventi, ma può anche
svolgere funzioni sintattiche. In generale si può dire che il congiuntivo è, molto
frequentemente, una marca della subordinazione e infatti, sebbene si continui
a parlare di morte del congiuntivo, in realtà in italiano resiste molto bene in
diverse costruzioni sintattiche. Nel parlato può effettivamente accadere che per
i processi di semplificazione si dica credo che hai capito invece di credo che tu
abbia capito;; l’importante, tuttavia, è sapere come funzioni e quali siano gli usi
del congiuntivo, per poter scegliere sempre il registro e la varietà giusta al
momento giusto. La vera competenza linguistica, infatti, non consiste solo nella
conoscenza delle norme ma anche nella capacità di passare consapevolmente
da un registro all’altro e da una varietà all’altra.
Il congiuntivo si può adoperare anche in proposizioni indipendenti, dove
assume il valore di:
- esortativo (anche con il senso di imperativo): si decida in fretta, signore e
scelga bene;;
- dubitativo: e se avesse preso la macchina?
- ottativo (augurio o anche timore): volesse il cielo!;; che Dio ci guardi!
- esclamativo: Vedessi che prezzi!
Nelle proposizioni subordinate, il quadro è più articolato e complesso e, come
si diceva, non sempre la scelta del congiuntivo dipende dall’espressione
dell’incerto o dell’impossibile. Nella scelta del congiuntivo è molto importante il
verbo della proposizione principale.
Reggono sempre il congiuntivo:
• i verbi che esprimono un ordine, una preghiera o un permesso (ordinò
che tutte le truppe fossero pronte per l’attacco;; voglio che tu sia qui per
le 9,00;; pregò che il Signore la esaudisse;; consento che la cena sia
spostata alle 21);;
• i verbi che esprimono opinione (suppongo che tu sia pronto);;
Con alcuni verbi si usa l’indicativo o il congiuntivo ma con sfumature diverse di
significato. Traiamo alcuni esempi dalla Grammatica italiana di Luca Serianni:
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LA MORFOLOGIA LESSICALE
Abbiamo già visto la differenza tra morfologia flessionale e morfologia
derivazionale che viene anche detta morfologia lessicale, visto che studia il
modo in cui si formano nuovi significati, nuove parole che hanno ampliato e
possono ancora ampliare il lessico italiano. I meccanismi di cui si serve sono
la derivazione e la composizione, che sono ancora oggi i modi più produttivi
per la formazione di parole nuove nella nostra lingua. Come informa Massimo
Palermo, anche solo indagando nel lessico del vocabolario di base, possiamo
notare che ben il 35% delle parole non viene dal latino e non è un prestito da
altre lingue: si tratta infatti di termini che sono stati ottenuti attraverso i
procedimenti della derivazione o della composizione.
La derivazione si realizza tramite gli affissi. Questi si distinguono in suffissi,
che si aggiungono di seguito alla parola base (decis-o > decis-ione), e prefissi
che si premettono alla parola base (deciso > in-deciso). Si parla anche di
interfissi quando si interpongono tra il morfema lessicale e il suffisso: regol-
abil-ità o tra il morfema lessicale e il morfema grammaticale: cant-icchi-are
I suffissi in realtà si interpongono il più delle volte tra la parola base e la
desinenza (forn-ai-o, pan-ific-are). Modificano il significato della parola base,
ma possono modificare anche la categoria grammaticale, possono cioè
operare una transcategorizzazione (deciso > decisione, lavorare > lavoratore,
bianco > biancheggiare, ecc. ).
Buona parte dei suffissi italiani deriva dal latino (arius > aio, ibilis > ibile, ecc.);;
altri sono stati introdotti attraverso altre lingue, come il suffisso -iere, che è
stato tratto da francesismi affermatisi nel medioevo, come cavaliere, destriero
(anticamente destriere), ecc.
I prefissi, a differenza dei suffissi, si premettono alla base lessicale e
soprattutto non consentono la transcategorizzazione: con la prefissazione,
cioè, da un sostantivo si avrà sempre un sostantivo o da un aggettivo un
aggettivo e così via (deciso > indeciso, visione > previsione, ecc.).
I suffissi non sono mai morfemi autonomi, mentre i prefissi possono avere
anche funzione di preposizioni o avverbi: sotto, con, sopra, ecc.
Altra proprietà dei suffissi è la ricorsività, la possibilità cioè di derivare un’altra
parola da quella già derivata tramite l’aggiunta di un suffisso, come nel caso di
socio > sociale (aggettivo) > socializzare (verbo) > socializzazione (sostantivo),
dove, come può accadere con la ricorsività, si ha una successione di
cambiamenti di categoria morfologica (transcategorizzazioni)
35
La ricorsività è possibile più raramente e solo in alcuni casi anche con i prefissi:
stabilizzare > de-stabilizzare > ri-de-stabilizzare
Nel parlato sono anche frequenti coniazioni spontanee come ex-ex-marito o
iper-iper-attivo, ma non sono formazioni stabili.
Molti verbi si sono formati a partire da un nome o da un aggettivo (denominali
o deaggettivali) con l’aggiunta di un prefisso e del morfema grammaticale
dell’infinito: bello > abbellire, nervoso > innervosire, coppia > accoppiare,
briciola > sbriciolare, ecc. Si parla in questi casi verbi parasintetici. Perché si
possa parlare di formazione parasintetica, non deve esistere una parola che
abbia solo quel prefisso o solo quel morfema grammaticale: abbellire,
innervosire, accoppiare, sbriciolare sono, infatti, parasintetici perché non
esistono *abbello, *innervoso, *accoppia, *sbriciola e neppure *bellire,
*nervosire, *coppiare, *briciolare. La derivazione è dunque avvenuta
aggiungendo contemporaneamente alla base lessicale il prefisso e la
desinenza. Si tratta di un procedimento ancora molto produttivo in italiano: si
pensi a formazioni nate soprattutto nei linguaggi giovanili come impasticcarsi,
incasinare, smanettare, ecc.
Si possono anche avere derivazioni di parole nuove senza l’aggiunta di suffissi:
si parla in questi casi di derivazione a suffisso zero. Si tratta quasi sempre di
sostantivi derivati da verbi, che sono anche definiti deverbali a suffisso zero,
come nel caso di verificare > verifica, arrestare > arresto. Sono piuttosto
frequenti nel linguaggio burocratico amministrativo che tende a produrne
anche di specifici come inoltrare > inoltro, reintegrare > reintegro, ripristinare >
ripristino, ecc.
Senza suffisso e in realtà non per derivazione può anche cambiare la categoria
morfologica di una parola: la congiunzione perché può diventare un sostantivo:
il perché delle cose;; il participio presente di cantare è divenuto stabilmente un
sostantivo: cantante, e così il verbo piacere è diventato un sostantivo: il
piacere. Parliamo in questi casi di conversione.
La derivazione è un procedimento che si introietta subito imparando l’italiano
e che rimane vivo nella coscienza dei parlanti. Ne abbiamo la prova quando i
bambini o anche gli stranieri, imparando la lingua, tendono a derivare per
analogia parole che non esistono, partendo però non da una base lessicale,
ma da una forma già derivata, per esempio *aviare da aviatore. Il fenomeno è
definito retroformazione perché al contrario di quanto avviene con la
derivazione, tramite la quale si aggiungono elementi per formare parole nuove,
in questo caso da una parola derivata si sottraggono elementi. Sono errori, ma
a volte alcune di queste formazioni errate con il passare del tempo si
affermano, e non vengono più percepite come erronee dalla comunità parlante.
36
prima, come cantante, sono lessicalizzazioni e si pensi al participio passato al
genere femminile condotta che ha assunto il significato di “tubatura”.
La lessicalizzazione, come si è detto, si verifica spesso con gli alterati. In
qualche caso con il suffisso –ino e qualche volta anche con il suffisso –one, si
verifica sia lessicalizzazione sia cambio di genere: capanna > capannone, rosa
> rosone, calza > calzino, spazzola > spazzolino, ecc. Quando un alterato si
lessicalizza non può più essere usato come alterato e quindi ricorriamo spesso
a una sostituzione di suffisso o a un doppio suffisso: carrozzella, fiorellino
(perché fioretto ha assunto un altro significato).
L’alterazione riguarda principalmente i nomi e gli aggettivi, ma come abbiamo
visto può interessare anche i verbi in forme come canticchiare, fischiettare, che
assumono un significato particolare. In questo caso l’alterazione si ottiene con
un interfisso invece che con un suffisso. Possiamo formare alterati anche con
prefissoidi come super, mega, maxi, mini, ecc.
La composizione
La composizione è il secondo più importante procedimento in italiano per la
formazione delle parole. Anche nel caso della composizione si ricavano parole
nuove partendo da basi già esistenti, ma a differenza della derivazione la
nuova parola non si forma aggiungendo un morfema derivazionale (un affisso)
al morfema lessicale, ma unendo due parole distinte e autonome per ottenerne
una di nuovo significato (chiaro + scuro > chiaroscuro;; porta + bagagli >
portabagagli).
I composti si distinguono principalmente in verbali e nominali. I composti
verbali sono formati dall’unione di verbo + nome (asciugamano, portabagagli)
o dall’unione di verbo + avverbio (benedire). I composti nominali derivano
dall’unione di due nomi (cassapanca), di nome + aggettivo (pellerossa), di due
aggettivi (agrodolce).
Le parole composte hanno di solito una grafia univerbata (portaombrelli,
pellerossa, agrodolce, ecc.), ma si possono incontrare anche composti
separati (croce rossa) o divisi da un trattino da un trattino (fono-morfologico,
afro-americano), che tuttavia si comportano sul piano morfologico esattamente
come tutti gli altri composti.
Il fatto che i composti si comportino e siano percepiti a tutti gli effetti come
termini autonomi del lessico è confermato dalla possibilità, non molto
frequente, di ottenere anche dei derivati, aggiungendo come sempre un
morfema legato (perlopiù un suffisso): pallavolo > pallavolista.
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Distinguiamo dunque tre gruppi:
a) Nel tipo 'x è il capo di y' il secondo nome ha la funzione di determinatore:
i due membri non formano un blocco unico e il segnale del plurale si aggiunge
al primo: il capogruppo > i capigruppo, il capostazione > i capistazione, ecc.
b) Nel tipo 'x è capo tra tanti x' capo è in funzione appositiva rispetto al
secondo nome;; il composto viene percepito come un'unica parola e il segnale
del plurale di aggiunge al secondo membro: il capocuoco > i capocuochi, il
caporedattore > i caporedattori, ecc. Rimane invece sempre invariato il
costituente capo- nel plurale dei nomi femminili, sia nel tipo la caporeparto > le
caporeparto, la coposala > le caposala, sia nel tipo la capoimpiegata > le
capoimpiegate, la caporedattrice > le caporedattrici.
c) Anche nel tipo 'un capo-x', affine al precedente, il costituente capo- ha
funzione appositiva e il plurale si forma modificando il secondo membro del
composto: il capoluogo > i capoluoghi, il capolavoro > i capolavori.
Struttura dei composti
La derivazione e la composizione si differenziano anche sul piano diacronico:
mentre la derivazione, infatti, è stato un procedimento attivo e importante fin
dalle origini della nostra storia linguistica, i composti, tranne qualche eccezione
più antica, come biancospino, hanno cominciato a essere prodotti con sempre
maggiore frequenza a partire dalla fine del Settecento.
Nei composti italiani possiamo molto spesso distinguere una testa e un
modificatore: in questo caso li definiamo composti endocentrici, composti
cioè in cui la testa è rappresentata da uno dei componenti della parola. Se
prendiamo l’esempio di caposquadra, vediamo che la testa del composto è a
sinistra e oltre a guidare il comportamento morfologico del composto ne
indirizza anche i tratti semantici. Nella flessione morfologica, infatti, per il
maschile il plurale è dato dalla testa (capisquadra – per il femminile la forma
rimane invariata, le caposquadra);; inoltre noi ricaviamo tratti rilevanti del
significato sempre dalla testa, poiché sappiamo che nel significato di questa
parola è presente il tratto [+ animato] da capo e non [- animato] da squadra (si
tratta di una “persona che comanda la squadra”).
In base all’ordine proprio dell’italiano, che prevede la successione determinato
+ determinante (il libro di Mario, la bottiglia vuota), nei composti la testa è quasi
sempre rappresentata dal componente di sinistra e il modificatore da quello di
destra (cassapanca “cassa a forma di o con funzione di panca”;; pescespada,
portaombrelli, ecc.). Ci sono però delle eccezioni, come i composti che
derivano o sono formati basandosi su elementi delle lingue classiche
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Non dobbiamo confondere lemma e lessema con parola. Parola è una
definizione impropria che adoperiamo comunemente e che ha un significato
ampio e generico. Possono per esempio svolgere la funzione di parole anche
alcuni sintagmi fissi o polirematiche
Se consideriamo il significato delle parole composte, come aspirapolvere,
capodanno, ecc., siamo di fronte a parole distinte da quelle che costituiscono
la base della loro formazione (aspirare – polvere, capo di anno). È una
distinzione evidente sia per la diversità della forma sia e soprattutto per la
diversità di significato. Nei dizionari, infatti, i composti sono quasi sempre
considerati come lemmi e viene loro riconosciuto lo statuto di parola.
Diversamente dai composti, le polirematiche presentano quasi sempre, nelle
costruzioni nominali, degli elementi di raccordo come congiunzioni o
preposizioni (giacca a vento) e posseggono, nelle costruzioni verbali, un grado
di maggiore separabilità (rendersi conto – si rende perfettamente conto).
Nelle polirematiche come ferro da stiro, carta di credito o anche chiedere
scusa, diversamente dai composti, la natura di costituente semantico è meno
evidente, perché tendenzialmente il loro significato, per quanto unitario, si
deduce dal significato dei singoli elementi che le compongono.
Tuttavia anche in casi come carta di credito o ferro da stiro dobbiamo
ammettere che si tratta di sequenze particolari: non possiamo sostituire un
elemento e dire *attrezzo da stiro, non possiamo neppure modificarne le
singole parti con l’aggiunta di determinanti: *la carta nuova di credito, *il ferro
caldo da stiro ecc. Diremo al contrario la carta di credito nuova o la nuova carta
di credito o anche il ferro da stiro caldo. Non sono possibili né le inversioni
(acqua e sapone e non *sapone e acqua) né le pronominalizzazioni: non
possiamo dire, per esempio, quelli animati sono i cartoni che mi piacciono. Una
maggiore possibilità di separabilità tra gli elementi si ha invece con le
polirematiche frutto di costruzioni verbali, come rendere conto, dove possiamo
anche inserire un avverbio: rendere adeguatamente conto.
Queste espressioni, che hanno un significato unitario, anche se è deducibile
dai significati delle parti che le compongono (sala d’aspetto), hanno
comportamenti particolari che le assimilano a parole semplici. Sono
espressioni linguistiche costituite da più parole chiamate in vari modi:
unità lessicali superiori, sintagmi fissi, unità polirematiche o
semplicemente polirematiche.
Se consideriamo infine espressioni nominali come palla al piede, vicolo cieco,
lacrime di coccodrillo, sala d’aspetto, carta di credito o espressioni verbali
come vuotare il sacco, prendere sotto gamba, chiedere scusa, ci troviamo di
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fronte a casi molto diversi tra loro. Tuttavia se il criterio principale in base al
quale distinguiamo le parole una dall’altra è quello semantico, queste
sequenze, pur essendo costituite da più elementi, si avvicinano molto di più,
dal punto di vista lessicologico, a delle parole autonome, perché esprimono un
concetto e un significato nella loro globalità, un significato unitario. Sono, sia
pure con modalità diverse, un costituente semantico.
Il fatto che espressioni come palla al piede, lacrime di coccodrillo, vuotare il
sacco, che appartengono alla fraseologia italiana, siano costituenti semantici
è dimostrabile facilmente: la palla al piede non è una palla, ma una persona o
una situazione che rappresentano un peso e un ostacolo;; una persona che
piange lacrime di coccodrillo, non versa dagli occhi le lacrime dell’animale
feroce, ma mostra un falso pentimento. Allo stesso modo chi vuota il sacco non
svuota un contenitore di tela ma racconta la verità.
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SINTASSI
Le singole unità di cui si compone la sintassi italiana sono il sintagma, la frase
semplice e la frase complessa.
Rapporti paradigmatici e sintagmatici
Le parole non vivono isolate le une dalle altre ma instaurano legami tra loro. I
rapporti che le parole possono avere tra loro sono o di natura
sintagmatica o di natura paradigmatica.
I rapporti sintagmatici sono i legami che si instaurano tra le parole che
compaiono in una stessa frase: nella frase Il fratello di Mario ha indossato
una camicia verde osserviamo almeno due tipi di rapporti sintagmatici. Una
relazione sintagmatica, infatti, intercorre tra due o più elementi quando sono
combinati per formare unità linguistiche più complesse come i sintagmi e le
frasi.
I rapporti paradigmatici sono detti anche associativi;; sono relazioni che si
stabiliscono tra due elementi di una lingua sulla base di un’associazione
grammaticale, morfologica, lessicale. L’associazione che compiamo è
un’operazione mentale che ci induce ad accostare parole che condividono
qualcosa.
Quando l’associazione è fondata sulla forma, possono aversi insiemi di parole
come libro, libricino, libraio, libreria. Tutte queste parole hanno in comune la
presenza del morfema lessicale libr-. Quando l’associazione è basata
principalmente sul significato può dare vita a insiemi come libro, volume, testo,
tomo, ecc. Queste parole sono accomunate da uno o più aspetti del loro
significato: tutte hanno a che fare con l’oggetto indicato dalla parola libro. Molto
spesso le relazioni basate sulla forma e sul significato si intrecciano, come per
esempio nel caso delle parole libro e libreria: c’è una relazione formale perché
condividono la stessa base lessicale, ma anche una relazione semantica. Le
associazioni tra le parole possono avvenire anche in base alla loro categoria
grammaticale (nomi, verbi, ecc.).
I rapporti paradigmatici si creano dunque per associazione tra parole che in
una frase potrebbero essere sostituite le une con le altre in una stessa
posizione sintagmatica: sono rappresentati, cioè, dai legami tra le parole che
in un enunciato possono comparire nello stesso posto:
Il fratello di Mario ha indossato una camicia verde
Azzurra
Gialla
Il fratello di Mario ha indossato una camicia verde
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Cravatta
Sciarpa
Il fratello di Mario ha indossato una camicia verde
Il cugino
Il padre
L’amico
La relazione paradigmatica, come si è detto, può essere vista anche dal punto
di vista grammaticale: nei punti della frase in cui abbiamo operato delle
sostituzioni possono stare solo sostantivi;; tutti i sostantivi hanno una relazione
paradigmatica.
Il linguista Hjelmslev ha definito i rapporti paradigmatici come rapporti in
absentia che rispondono alla funzione “o l’uno o l’altro”: può comparire cioè o
l’uno o l’altro elemento;; i rapporti sintagmatici sono invece rapporti in
praesentia che rispondono alla funzione “entrambi” e devono comparire uno
dopo l’altro.
I sintagmi sono sequenze strettamente legate, unità coese che all’interno della
frase possono spostarsi solo tenendo insieme tutti gli elementi che le
compongono. Nella frase che abbiamo visto, Il fratello di Mario ha indossato
una camicia verde, non posso spostare singoli componenti dei sintagmi: *di
Mario ha indossato verde il fratello una camicia. D’altro canto anche l’intero
sintagma non sempre si muove con facilità all’interno della frase: ha indossato
una camicia verde, il fratello di Mario (dove è anche da immaginare un diverso
tono di voce).
Abbiamo sintagmi nominali (SN: Il fratello di Mario), verbali (SV: ha indossato
una camicia verde), preposizionali (SP: ho studiato per l’esame), aggettivali
(SA: sono contento di te), avverbiali (SAvv: ho viaggiato assai comodamente).
Ciò che determina la natura del sintagma è la testa, da cui dipendono il suo
nome e le sue funzioni sintattiche: la testa di un sintagma nominale è un nome,
di un sintagma preposizionale una preposizione e così via.
Gli altri elementi che si legano alla testa sono modificatori o complementi.
La testa del sintagma è sempre essenziale e indispensabile. C’è una
differenza, tuttavia, tra i SN, SV, SA, SAvv e i SP: nei primi quattro la testa è
autonoma, mentre nel sintagma preposizionale deve necessariamente essere
accompagnata da un modificatore, perché rappresenta la funzione sintattica
ma non è autonoma.
I sintagmi dell’italiano sono detti continui. Gli elementi che compongono i
sintagmi, infatti, tendono a non essere separati da altri elementi o hanno molte
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restrizioni: non possiamo avere *Il fratello mio amico di Mario. Sono invece
sintagmi discontinui i cosiddetti verbi sintagmatici, accostabili in parte alle
polirematiche andare giù, tirare su, portare su, mettere sotto, ecc. Hanno una
struttura verbo + particella;; il verbo è di solito un verbo di movimento e la
particella un avverbio locativo. Sono discontinui perché è possibile spezzare la
sequenza interponendo altri elementi: non andare troppo giù con il colore.
Anche in questi casi però ci sono molte limitazioni.
Ordine dei costituenti
Come abbiamo detto più volte, l’ordine dei costituenti di una frase, dei
componenti di un enunciato e così via in italiano segue sempre la direzione da
sinistra a destra. Anche nel sintagma nominale la testa è posta a sinistra ed è
seguita dai complementi/modificatori: seguono quindi una costruzione
progressiva (contraria a quella delle lingue germaniche e anglosassoni che è
di tipo regressivo). Un ordine progressivo segue tendenzialmente anche il
sintagma verbale che preferibilmente pone prima il verbo, cioè la testa del
sintagma, poi l’oggetto e di seguito gli altri complementi (Il giovane portava
una valigia al deposito).
La prevalenza di questa struttura fa sì che l’ordine delle parole a base
dell’italiano sia SVO (Soggetto -Verbo - Oggetto), mentre il latino e altre lingue
moderne presentano l’ordine SOV, non progressivo dunque ma regressivo.
Come abbiamo detto più volte, questi tratti che caratterizzano una lingua sono
sempre tendenziali: sono cioè prevalenti ma non sono assoluti. Molte sono
infatti le eccezioni. Abbiamo notato questa costruzione progressiva in più
occasioni:
- le parole composte seguono perlopiù l’ordine testa + modificatore
(capostazione);;
- i SN seguono lo stesso ordine (il fratello di Mario);;
- il verbo pone dopo di sé l’oggetto e poi i complementi (diamo un fiore ai
caduti).
Anche nella sintassi del periodo le frasi principali tendono a precedere le
subordinate. Tuttavia abbiamo anche visto molte eccezioni: la composizione
neoclassica (archeologia), la posizione spesso libera dell’aggettivo (Il mio buon
amico), l’anticipazione stabile di possessivi e dimostrativi (il mio collega, questa
bottiglia). Allo stesso modo non sempre è stabile l’ordine SVO né è fissa la
successione principale – subordinate.
Si cerca in linguistica di capire le tendenze più frequenti per cercare di
ricostruire meglio il funzionamento delle lingue;; si compiono astrazioni che
facilitano la descrizione, ma ovviamente le lingue non rientrano mai in schemi
rigidi e fissi.
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La frase
La frase è l’unità minima del discorso dotata di senso compiuto senza l’apporto
di altro contesto verbale o del contesto situazionale (piove, Giovanni è andato
al mare);; è anche detta l’unità di massima estensione della grammatica,
composta di unità inferiori (parole, sintagmi).
La frase semplice, detta anche frase nucleare, è costituita da una sola
proposizione e non dalla combinazione di più proposizioni, che si definisce
invece frase complessa. Nella grammatica tradizionale la frase complessa è
denominata periodo. Frase e proposizione non sono perfettamente sinonimi:
la seconda è da intendersi, infatti, come componente del periodo o della frase
complessa.
Guardandone la struttura dal punto di vista delle relazioni sintagmatiche, la
frase si presenta come una sequenza governata dai rapporti gerarchici che
legano i suoi componenti
(D = determinativo, S = sostantivo, V = verbo)
(di Carlo potrebbe anche classificarsi come SP)
Gli alberi rappresentano nelle immagini la struttura gerarchica che governa i
rapporti tra tutti i componenti della frase. Come si vede, alcuni sintagmi
possono contenerne altri: mangia l’osso o ha visto poca gente per strada sono
sintagmi verbali che però contengono al loro interno sintagmi nominali e
preposizionali. I sintagmi che ne contengono altri al loro interno sono sintagmi
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Gli operai hanno demolito il muro > la demolizione del muro da parte degli
operai
In alcune costruzioni il significato che potrebbe essere espresso da un solo
verbo è affidato a un sostantivo preceduto da un verbo più generico sul piano
semantico:
Il presidente ha dato lettura del nuovo provvedimento.
Ho preso la decisione di non partire.
In questi casi le categorie di tempo, modo, aspetto e persona sono affidate al
verbo, ma l’informazione semantica è demandata al nome.
A volte la nominalizzazione condensa un’intera frase e consente di racchiudere
due frasi in una:
Gli operai protestano perché gli stipendi sono stati ridotti > Gli operai
protestano per la riduzione degli stipendi
Con la nominalizzazione si riduce il numero delle frasi nel periodo, ma si
perdono informazioni su tempo, modo, aspetto e persona: si costruiscono testi
meno trasparenti, che spesso possono più facilmente nascondere l’agente:
Gli operai protestano perché il Consiglio d’amministrazione ha ridotto gli
stipendi
può diventare
Gli operai protestano per la riduzione degli stipendi
Con la cancellazione dell’agente. Lo stesso risultato si può spesso ottenere
con il passivo:
Gli operai protestano perché gli stipendi sono stati ridotti.
Nel passivo, infatti, il soggetto della frase è tale dal punto di vista grammaticale
ma non dal punto di vista logico-semantico: l’azione è da attribuire all’agente
che può anche essere cancellato.
La frase ellittica è diversa dalla frase nominale, perché il verbo assente è in
realtà sottinteso e si ricava da una frase precedente (Mario vorrebbe andare al
mare, sua moglie in montagna);; una frase, come sappiamo, può essere anche
ellittica del soggetto (La popolazione è infuriata, vuole giustizia)
Principali tipi di frase semplice
Le frasi dichiarative o enunciative: contengono un’affermazione positiva (i
giovani amano la musica), negativa totale (i giovani non amano la guerra),
negativa parziale (non tutti i giovani amano la musica).
Le frasi esclamative sono segnalate dal punto esclamativo nello scritto e da
un tono discendente nel parlato. Sono verbali (come passa il tempo!) o
nominali (Che bello!).
Le frasi volitive esprimono comando (torna presto), esortazione (state attenti),
concessione (fai con comodo), auspicio (abbiate la fortuna che meritate!).
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Le frasi interrogative dirette sono segnalate dal punto interrogativo nello
scritto da un tono ascendente nell’oralità e possono essere introdotte da un
pronome/aggettivo/avverbio interrogativo (chi viene a cena?). Sul piano
semantico abbiamo interrogative totali che riguardano l’intera frase e
richiedono una risposta sì/no (Verrai a cena?) e interrogative parziali che
riguardano un solo elemento (Che cosa vuoi per cena?). Diverse sono le
cosiddette interrogative retoriche che hanno già una risposta e non la
richiedono veramente (non vorrai comprare quel libro scadente?).
Principali tipi di frase complessa
La frase complessa (o periodo) è composta da proposizioni legate tra loro in
vario modo. È una costruzione macrosintattica essenziale che sostiene la
comunicazione e che assume particolare rilievo nello scritto. L’italiano
contemporaneo tende a semplificare la composizione dei periodi, ma un
eccesso di semplificazione ha talvolta conseguenze negative per
l’argomentazione e l’elaborazione della riflessione nella scrittura.
Il periodo può essere monoproposizionale, composto cioè da una sola
proposizione e quindi coincidente con la frase semplice, biproposizionale (il
tipo più frequente nel parlato e spesso anche nello scritto), triproposizionale,
pluriproposizionale. Quest’ultimo non si incontra quasi più nella sintassi
dell’italiano, mentre era frequente nell’italiano antico discendente dal modello
della prosa latineggiante del Boccaccio.
In ciascun periodo si distinguono proposizioni principali o reggenti o
sovraordinate e proposizioni secondarie o dipendenti o subordinate. Le
proposizioni nel periodo si legano per coordinazione o paratassi e per
subordinazione o ipotassi.
La coordinazione può legare tra loro sia principali sia subordinate. Può essere
sindetica, quando le frasi sono legate tra loro da congiunzioni (Studia e si
impegna), polisindetica quando più frasi sono connesse da più congiunzioni
(Studia e si impegna, ma va male a scuola) e asindetica quando si legano
senza congiunzioni e nello scritto sono separate da segni interpuntivi. La
coordinazione asindetica è detta anche giustapposizione (sono stanco, ho
sonno, vado a dormire).
Con la paratassi le proposizioni si allineano sullo stesso piano, senza
esplicitare rapporti di gerarchia o logico sintattici. Oggi tende a prevalere sulla
subordinazione, soprattutto nel parlato, anche quando due frasi non si trovano
sullo stesso piano dal punto di vista logico sintattico. Possiamo esprimere lo
stesso contenuto in modi diversi:
Poiché sono stanco, preferisco tornare a casa.
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tu smetta di pensare assumono funzione di soggetto del periodo. Queste frasi
vengono anche chiamate argomentali, perché si comportano come gli
argomenti del verbo della frase principale: che Giovanna è brava si comporta
come argomento di ammettere (che è verbo bivalente), come se fosse
un’espansione dell’oggetto la bravura di Giovanna;; allo stesso modo che tu sia
coraggioso è il soggetto che funge da argomento di è chiaro, quasi espansione
di Il tuo coraggio.
Interrogative indirette
Sono da considerarsi argomentali anche le interrogative indirette contengono
un dubbio o esplicitano una domanda contenuta nella reggente.
Mi chiedo che cosa pensi di me;;
Si possono considerate una sottospecie delle completive, perché si
comportano come oggettive e divengono argomento del verbo della principale.
Sono introdotte, tuttavia, da diverse congiunzioni di subordinazione (se,
quando, come, perché, che cosa...) e inoltre riferiscono un dubbio o una
domanda mentre le oggettive contengono un’enunciazione.
Abbiamo interrogative indirette esplicite che in un registro informale possono
servirsi dell’indicativo (non errato) e in un registro formale del congiuntivo,
preferibile quando la reggente è negativa (non so se sia arrivato). Le
interrogative indirette implicite sono costruite con l’infinito presente (mi
chiedo se uscire o restare) e i due soggetti, della reggente e della subordinata,
coincidono.
Le altre frasi subordinate non sono argomentali (non argomentali) e
svolgono lo stesso ruolo degli elementi extranucleari che abbiamo visto per la
valenza dei verbi;; consentono quindi di specificare, cause, tempo, circostanze
e così via.
Causali
Le proposizioni causali esprimono la causa di una determinata azione
espressa nella reggente (Non mangio perché non ho tanta fame).
Le causali esplicite sono costruite con l’indicativo e, in alcuni casi, con il
congiuntivo e il condizionale. Il congiuntivo, in particolare, compare quando si
tratta di una causa fittizia (Non mangio non perché non abbia fame ma perché
non mi piace la minestra) e il condizionale in causali con intento attenuativo e
valore desiderativo, potenziale (La chiamo perché vorrei parlarle della mia
attività).
Le proposizioni causali implicite sono introdotte da per/a/con/per il fatto di +
infinito o sono costruite con il gerundio (non torna per non soffrire;; avendo
perduto al gioco non sa come arrivare a fine mese).
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Finali
Indicano lo scopo, il fine (Sono uscito per cercare Mario;; ti pago affinché te ne
vada).
Possono essere implicite (con l’infinito) o esplicite (con il congiuntivo presente
o imperfetto), ma il costrutto implicito è oggi il più utilizzato, soprattutto nella
lingua parlata.
Consecutive
Indicano la conseguenza dell’azione della reggente. Esistono due tipi di
costrutti consecutivi: i primi presentano un antecedente nella reggente, i
secondi sono costrutti deboli semplicemente introdotti da una congiunzione o
da una locuzione congiuntiva (tanto che, che, sicché, ecc.):
Era così strana che tutti si giravano a guardarla;;
Non ho lavorato ieri, tanto che oggi mi trovo in difficoltà.
Anche le consecutive possono essere implicite e sono le più frequenti quando
il soggetto è lo stesso della reggente: è stato tanto sciocco da perdere tutto.
Ipotetiche
Indicano la condizione per cui accade o potrebbe accadere l’azione espressa
nella principale. La reggente (apodosi) e la subordinata ipotetica (protasi)
formano insieme il periodo ipotetico. Di solito la protasi, introdotta da
congiunzioni come se, qualora, nel caso che, ecc., precede l’apodosi ma può
avvenire anche il contrario:
Se tu fossi in casa, verrei;;
Verrei se tu fossi in casa.
Nel periodo ipotetico del primo tipo o della realtà i fatti sono presentati come
certi e si usa l’indicativo in entrambe le proposizioni:
se parli ti ascolto
Nel periodo ipotetico del secondo tipo o della possibilità i fatti sono presentati
come possibili e in quelli del terzo tipo o dell’irrealtà come impossibili;; si usano
il congiuntivo nella protasi e il condizionale nell’apodosi:
se ti riuscisse di venire, sarei contento;;
se fossi ricco, comprerei una Ferrari.
Nel parlato molto informale si sta diffondendo un periodo ipotetico con il doppio
imperfetto indicativo:
Se lo sapevo, non ci venivo.
La protasi può avere una costruzione implicita:
a saperlo sarei venuto;;
lavorando guadagneresti di più;;
56
Talvolta l’elemento dislocato può anche essere un’intera frase:
Che tu sia bravo lo abbiamo sempre saputo.
A questo costrutto si può anche ricondurre l’oggetto diretto personale
anteposto e preceduto da a: a Maria non l'ha invitata
In tutti questi casi l’elemento spostato a sinistra è noto agli interlocutori: è
un tema dato e il pronome che riprende l’elemento dislocato ha valore
anaforico.
La dislocazione a sinistra è ormai da tempo ammessa anche nello scritto,
soprattutto nella scrittura giornalistica, nei testi di ampia e brillante
divulgazione, nelle scritture espositive e così via. È meno consentita nella
scrittura scientifica, dove, tuttavia, è possibile ottenere lo stesso effetto di
tematizzazione tramite il passivo. Se trasformo al passivo la frase
Il pane l’ha comprato Giuseppe
avrò il costrutto
Il pane è stato comprato da Giuseppe
Dove rimane al primo posto non l’agente, ma il soggetto grammaticale che
funge da tema dato. In entrambi i casi la frase risponde alla domanda Chi ha
comprato il pane? e in entrambi i casi il rema, coincidente con l’informazione
nuova, è Giovanni.
In un testo scientifico in cui l’autore voglia porre in evidenza il tema non potrà
scrivere La teoria della relatività l’ha elaborata Einstein, ma otterrà lo stesso
effetto ricorrendo al passivo: La teoria della relatività è stata elaborata da
Einstein.
Tema sospeso
A volte due costrutti distinti sono posti nella stessa frase;; il primo dei due
però rimane sospeso, mentre il secondo completa il senso della frase
seguendo un diverso percorso sintattico. Quando si lascia in sospeso il tema
noto (il tema-dato) dell’enunciato, introdotto a inizio di frase come se dovesse
svolgere il ruolo di soggetto, si ha un tema sospeso:
Io, non mi piace per niente questa cosa.
Questa storia, non ci credo proprio.
Luigi, non voglio più avere a che fare con lui.
Dolci, ne ho mangiati abbastanza a Natale.
In questo caso il tema introdotto è sempre ripreso o da un pronome o da
un dimostrativo o da un altro elemento e, pur non avendo una prosecuzione
sintattica, ha con il resto della frase una prosecuzione semantica.
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La dislocazione a destra e il tema sospeso sono solo del parlato e non sono
ammessi nello scritto, a meno che non si tratti di un testo letterario in cui si stia
riproducendo il parlato.
Nel caso delle dislocazione a sinistra e del tema sospeso parliamo di
costruzioni tematizzanti. Lievemente diverso è invece la costruzione della
cosiddetta dislocazione a destra.
Dislocazione a destra
Quando l’oggetto o un complemento non sono spostati ma sono isolati a destra
e anticipati da un pronome atono si ha dislocazione a destra:
Lo prendi un caffè?
Anche in questo caso la dislocazione a destra può interessare, oltre all’oggetto,
un complemento o una frase:
Non gli ho detto niente a Giovanni.
Ne abbiamo abbastanza di queste storie.
Ci torno sempre volentieri in questa città.
Lo sapevo che eri stato tu.
Nella dislocazione a destra il pronome che anticipa un costituente ha valore
cataforico.
Se l’elemento posto a destra della frase è preceduto da una pausa sospensiva
(che nello scritto potremmo rappresentare con una virgola), la dislocazione a
destra può essere una ripresa chiarificatrice di quanto già enunciato:
Lo hai comprato tu, il giornale?
Se non c’è pausa sospensiva, può talvolta anche dare rilievo al rema, perlopiù
rappresentato dal predicato, lasciando in secondo piano il tema:
Fateli una buona volta questi compiti!
Ci vai o no a Roma?
Sul piano pragmatico la dislocazione a destra crea una sorta di comunicazione
confidenziale: sottintende all’inizio qualcosa la cui conoscenza gli interlocutori
condividono e che viene esplicitato alla fine. In generale, tuttavia, si parla nei
casi delle dislocazioni e del tema sospeso di costruzioni tematizzanti.
Topicalizzazione (o anteposizione) contrastiva
Nel parlato possiamo dare enfasi al rema anche con il tono della voce:
IL PANE ha comprato Mario.
In questo caso la nostra frase può rispondere alla domanda Che cosa ha
comprato Mario? (e non come nella dislocazione a sinistra Chi ha comprato il
pane?). Dunque il rema coincidente con l’informazione nuova è il pane e noi lo
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In questi casi l’elemento in comune con la frase scissa è soprattutto la divisione
in due frasi di un unico contenuto informativo. Quasi sempre è il verbo essere,
verbo copulativo, che introduce l’elemento focalizzato.
La topicalizzazione contrastiva e la frase scissa sono dette costruzioni
focalizzanti.
Sia le costruzioni tematizzanti sia quelle focalizzanti fanno parte della sintassi
marcata. Con il termine marca in linguistica ci si riferisce alla particolarità che
distingue un elemento dall’altro: per esempio il fonema b ha una marca di
sonorità che lo distingue da p;; il femminile ragazza ha una marca morfologica
che lo distingue da ragazzo e così via dicendo. Da qui discende anche il
significato che oggi si dà al termine marcato per segnalare qualcosa che è
particolarmente caratterizzato rispetto a qualcos’altro considerato più usuale,
più frequente, talvolta anche più vicino alla norma scritta.
Quando parliamo di sintassi marcata, parliamo dunque di costruzioni in cui
l’ordine base dell’italiano SVO viene modificato. Ci si riferisce principalmente
allo spostamento nella frase degli elementi nucleari (quelli che, come si è detto,
costituiscono gli argomenti del verbo, formando il nucleo della frase), perché
gli elementi extranucleari possono invece disporsi con maggiore libertà.
Le costruzioni marcate hanno quasi sempre un valore pragmatico: tramite la
diversa collocazione dei costituenti della frase, infatti, è possibile comunicare
informazioni che vanno al di là del significato letterale. Nelle frasi fateli questi
compiti o che tu sia bravo lo sappiamo, come abbiamo visto, diamo un’enfasi
particolare ad alcuni componenti solo disponendoli in un particolare ordine.
Anche con le costruzioni sintattiche la marcatezza si oppone a qualcosa che
non è marcato. Con una marca fonologica, per esempio, la sonorità di b si
oppone alla sordità di p e viceversa. Allo stesso modo, le frasi appena viste si
oppongo a frasi non marcate che seguono un ordine lineare:
Fateli questi compiti (marcata) – Fate questi compiti (non marcata).
Che tu sia bravo lo sappiamo (marcata) – Sappiamo che sei bravo (non
marcato).
IL SOGGETTO NELLA FRASE
Il soggetto è l’elemento della frase più strettamente legato al verbo. Di solito lo
precede, tranne in alcune strutture in cui stabilmente lo segue come nel caso
di è successo qualcosa o è arrivato un acquazzone. Come abbiamo visto, però,
in italiano è possibile spostare il soggetto con finalità pragmatiche (Canta Mario
oggi;; qualcosa è successo).
62
L’accordo del verbo nella persona, nel numero e, con le forme composte con
il participio, anche nel genere è determinato dal soggetto.
La vecchia definizione per cui il soggetto è colui che compie l’azione è vera
solo in alcuni casi. Non possiamo dire che il soggetto compia l’azione in una
frase come Mario ha ricevuto uno schiaffo da sua madre. Molto dipende dal
significato del predicato, dal suo ruolo semantico, in base al quale il soggetto
può essere attivo o passivo. È la stessa distinzione che abbiamo esaminato a
proposito della costruzione passiva, specificando la differenza tra soggetto
grammaticale (con cui il verbo si accorda) e soggetto logico.
L’italiano è una lingua pro-drop che consente di non esprimere il pronome
soggetto. Tuttavia, l’espressione del soggetto è obbligatoria
nel caso in cui sia necessario distinguere tra forme verbali uguali (penso
che tu/lui sia stanco);;
quando per focalizzazione, in funzione pragmatica, lo posponiamo al verbo
o lo inseriamo in frasi scisse (lo faccio io;; è lui che piange);;
quando è sottolineato da un determinante (loro tre non sanno da che parte
andare;; io che sono la vittima devo sempre subire);;
quando si trova in correlazioni o disgiunzioni (né tu né lui ve la cavate bene;;
o tu o lui dovete uscire).
IL VERBO NELLA FRASE
Si è già detto altrove della diatesi del verbo e della distinzione tra verbi
predicativi che hanno un pieno significato lessicale e verbi copulativi che
mettono in relazione soggetto e verbo (La strada è tortuosa;; i tuoi voti
costituiscono un problema, ecc.).
Inergativi e inaccusativi
È ben nota la distinzione tra verbi transitivi e intransitivi. La loro differenza è
anche sottolineata dall’uso degli ausiliari nella formazione dei tempi composti.
Per quanto riguarda l’uso degli ausiliari, i verbi transitivi hanno sempre avere
alla forma attiva e essere per il passivo;; i verbi intransitivi a volta hanno
l’ausiliare essere a volte avere.
I verbi intransitivi che ricorrono all’ausiliare avere si definiscono verbi
inergativi (Mario ha dormito bene);; quelli che ricorrono all’ausiliare essere
sono detti verbi inaccusativi (Giovanni è caduto). L’italiano possiede, tra le
lingue romanze, il maggior numero di verbi inaccusativi.
In italiano, per distinguere i verbi inaccusativi dagli inergativi si usano di solito
alcuni test.
- La scelta dell’ausiliare (essere per gli inaccusativi, avere per gli inergativi).
Va osservato che l’ausiliare essere accomuna i verbi inaccusativi ai verbi
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IL TESTO
Testualità e sintassi sono strettamente connesse tra loro e tuttavia si occupano
di cose sensibilmente differenti: la sintassi guarda al modo in cui le parole si
organizzano per formare sintagmi o frasi, mentre la testualità si occupa
soprattutto di capire come i componenti di una frase o più frasi instaurino
relazioni per fornire al testo coerenza e coesione. In sostanza la testualità
guarda ai rapporti tra le frasi o a quelli tra gli elementi che le compongono da
un punto di vista diverso.
Per testo possiamo intendere una qualsiasi comunicazione che abbia una
chiara relazione con un contesto e che abbia un senso coerente: anche un
saluto come buongiorno può costituire un testo, se è un saluto riconosciuto da
chi mi ascolta e se viene detto nel momento opportuno, non di notte per
esempio né a una persona che è stata appena investita da un’automobile. Non
esiste comunicazione senza i testi.
Una sola frase o anche una parte di frase che siano collocate in un adeguato
contesto e abbiano un significato costituiscono un enunciato. Un solo
enunciato, come abbiamo appena visto, può costituire un testo;; più
frequentemente un testo è costituito da una combinazione di enunciati e può
essere realizzato oralmente, essere scritto o trasmesso. Le caratteristiche che
però assumono maggiore rilevanza per l’esistenza di un testo sono possedere
un senso, essere collegato a un determinato contesto e possedere funzioni
comunicative.
Se io produco un enunciato come la spider rossa parlava con la berlina azzurra
ho prodotto un testo che ha una sua correttezza grammaticale e sintattica, ma
non è un testo perché è privo di senso e non realizza alcuna comunicazione;;
tuttavia se la frase fosse inserita nel racconto di un cartone animato potrebbe
acquistare un senso e riuscire a comunicarci qualcosa. Ancora se produco un
enunciato come Giovanni cammina da solo sulla spiaggia, attribuisco alla frase
un determinato senso nel caso Giovanni sia un adulto e può comunicare molti
altri messaggi in base alla conoscenza che ho di Giovanni e di ciò che gli è
capitato, ma può cambiare completamente senso se Giovanni è un bambino
di tre anni, suscitando allarme per il fatto che si trova da solo sulla spiaggia.
Dunque ogni frase ha un significato letterale e invariabile (che in questo caso
potremmo sintetizzare in “un essere animato e umano si sta spostando lungo
una spiaggia”), ma ha anche un significato che cambia in base al contesto e
ciò che conosciamo del contesto.
La testualità dunque non si occupa della correttezza grammaticale dei testi, né
studia le loro relazioni grammaticali, ma del modo in cui i testi riescono a
comunicare con efficacia qualcosa. Le relazioni testuali sono più difficili da
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individuare rispetto a quelle grammaticali e tuttavia se il parlante o lo scrivente
non è capace di rispettarle la comunicazione non è sufficientemente efficace o
può anche non andare a buon fine.
La comunicazione avviene proprio attraverso lo scambio di testi e per avere
successo deve poter mettere in relazione le conoscenze condivise da
emittente e ricevente. Le conoscenze condivise, il contesto, i riferimenti corretti
alla realtà esterna sono essenziali nella produzione dei testi: se ne deduce che
come il lessico anche il testo è l’aspetto della lingua che più collega sistema
linguistico e realtà extralinguistica.
Per comprendere il significato essenziale di una frase di solito mettiamo in atto
un processo di decodifica, ovvero individuiamo le più piccole unità e a mano
a mano le colleghiamo per comporre unità più ampia (fonemi, parole dotate di
senso, nomi, verbi, ecc. fino alla frase, all’insieme di frasi, ecc.). Tutto ciò non
basta per comprendere un testo: abbiamo anche bisogno, infatti, di partire,
come abbiamo detto, dalle nostre conoscenze extralinguistiche o dal contesto
per giungere al significato di ciò che leggiamo o ascoltiamo. È un procedimento
contrario al precedente, perché con il primo da unità più piccole passiamo a
unità più grandi;; con il secondo compiamo il cammino inverso, compiamo
dunque un’inferenza.
Un testo si comprende inoltre nel suo insieme: non lasciamo separati gli
elementi informativi che di volta in volta vengono aggiunti, ma li combiniamo
insieme. Dunque comprendere un testo è un’operazione complessa che
richiede competenze linguistiche vere e proprie (morfologiche, sintattiche,
ecc.), competenze testuali, conoscenza del mondo e del contesto in cui il testo
è prodotto.
Se volessimo schematizzare queste competenze, potremmo dire che
fonologia, morfologia, sintassi, lessico e testualità sono tutte competenze
linguistiche, ma il lessico e la testualità richiedono anche conoscenze
extralinguistiche.
Principi costitutivi del testo
Un testo compie la sua funzione comunicativa solo se è dotato di un senso,
ovvero di coerenza, e se è adeguatamente costruito sul piano grammaticale
(coesione). I principi costitutivi del testo sono la coerenza, la coesione.
La coerenza riguarda il livello profondo del testo, l’unità concettuale, e
coinvolge la visione e la conoscenza del mondo di ciascun parlante. Diciamo,
tuttavia, che sul piano linguistico consiste nel collegamento logico di tutti i
contenuti del testo e nella sua continuità semantica. Senza una coerenza
semantica non esisterebbe alcun testo: non posso dire Giovanni respira con la
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mano perché piange tutto il giorno, perché (a meno che non si tratti di una
costruzione narrativa fantastica) ho detto parole inconcludenti, non ho costruito
un testo coerente.
La coesione è ugualmente importante, perché tutti gli elementi di un testo
devono essere ben connessi tra loro e costituire un insieme coeso, altrimenti
si pregiudica la comprensione.
La coesione consiste sia nel collegamento grammaticale tra tutte le parti di un
enunciato (coeso: Maria è una bella ragazza, ma è molto timida – non coeso:
Giovanni sono un bel ragazzo, ma è molto timida), sia nel legare tra loro le
parti del testo tramite mezzi di varia natura linguistica, detti coesivi, come il
ma degli esempi precedenti.
I mezzi con cui si attua la coesione sono molti:
• i connettivi (infatti, perché, ma ecc.);;
• sequenze che segnalano le relazioni endoforiche (che legano cioè tra loro
elementi interni al testo), per esempio le espressioni come si è detto, come
si è visto anche come vedremo, ecc., che rinviano a passi del testo già
pronunciati o già scritti o a passi del testo ancora da vedere;;
• le forme sostituenti (o proforme), che hanno funzione coesiva quando
rinviano a un elemento di cui si è già parlato e di cui non si vuole ripetere il
nome (Maria ha dato molti consigli a Giovanni, ma lui non le ha dato retta;;
Manzoni non era soddisfatto della prima stesura del romanzo: lo scrittore
lombardo cercava una lingua più efficace).
Coerenza e coesione sono dunque essenziali per la costituzione di un testo,
ma non sono sullo stesso piano. Se un parlante poco istruito, che domina male
la morfologia e la sintassi della lingua pronuncia una frase come Giovanni ha
arrivato con ritardo e non ha portato i chiavi, noi faremo comunque uno sforzo
per capirlo e in base alla nostra capacità di collegare ciò che ascoltiamo o
leggiamo a ciò che conosciamo daremo un senso all’enunciato. Se invece
ascoltassimo un testo come I bambini sono sempre belli, perché il parlamento
ha votato la legge elettorale non riusciremmo a trovare un senso, pur
trattandosi di un testo ben costruito sul piano grammaticale. Dunque la
condizione veramente indispensabile perché un testo ci sia e riesca a
comunicare è la coerenza;; la coesione è di estrema importanza ma svolge
soprattutto un ruolo di supporto.
Come abbiamo detto, per la buona realizzazione di un testo e per la sua
comprensione, il contesto è essenziale. Il contesto è caratterizzato da molti
elementi e in una comunicazione orale è fondamentale il luogo che
condividiamo con il nostro interlocutore;; in un testo scritto dobbiamo
immaginare il contesto cui si riferisce chi scrive, ma ci vengono in soccorso le
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È anche opportuno segnalare quale sia l’oggetto che vogliamo trattare, oggetto
che in un testo lungo e articolato rimarrà come sfondo, e quali le informazioni
che a mano a mano intendiamo aggiungere su quell’oggetto. In un enunciato
l’oggetto di cui parliamo e che rappresenta il punto di partenza per realizzare
la comunicazione è il tema, le informazioni che aggiungiamo (cioè l’insieme
della nostra “predicazione”) costituiscono il rema. Di solito il tema coincide con
le informazioni già note all’interlocutore (o che riteniamo note per
l’interlocutore) e il rema con le informazioni nuove (o che riteniamo nuove) per
l’interlocuore.
Una semplice frase come
Mario ha regalato un libro a Giovanni
può essere analizzata da diversi punti di vista, quello della distribuzione delle
informazioni, cioè della struttura tematica e della struttura delle
conoscenze, e quello delle funzioni logico-sintattiche:
Struttura tematica:
Mario (tema) ha regalato un libro a Giovanni (rema).
Struttura delle conoscenze:
Mario (dato) ha regalato un libro a Giovanni (nuovo).
Struttura logico-sintattica:
Mario (soggetto) ha regalato (predicato) un libro (complemento oggetto) a
Giovanni (complemento di termine).
Nella frase che abbiamo analizzato il tema e il soggetto coincidono e si trovano
a sinistra dell’enunciato, mentre il predicato coincide con il rema e si trova a
destra dell’enunciato. Si tratta della successione statisticamente più diffusa in
italiano e che più caratterizza le costruzioni tematiche della nostra lingua,
tuttavia sono possibili anche costruzioni differenti. Sul piano della struttura
logico-sintattica ogni componente della frase continuerà a svolgere sempre lo
stesso ruolo in qualsiasi comunicazione io inserisca la frase, ma sul piano della
struttura delle conoscenze non è sempre così. Se la frase è una risposta alla
domanda Che cosa è successo? L’intera frase si presenta per chi la riceve
come informazione nuova:
Che cosa è successo? Mario ha regalato un libro a Giovanni (nuovo).
Supponiamo, invece, che la frase sia una risposta alla domanda Chi ha
regalato un libro a Giovanni? Nella risposta, magari espressa con un diverso
tono di voce, avremo una diversa struttura delle conoscenze:
Chi ha regalato un libro a Giovanni? Mario (nuovo) ha regalato un libro a
Giovanni (dato).
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L’italiano, inoltre, ha la possibilità di modificare l’ordine dei componenti di una
frase e ciò offre, come vedremo, la possibilità di mettere più in evidenza alcune
parti lasciandone sullo sfondo altre in costruzioni che sono denominate
costruzioni marcate.
TIPOLOGIE TESTUALI
Per quanto attiene alla tipologia testuale, la retorica antica individuava, oltre a
vari generi oratori (giudiziale, deliberativo, epidittico o celebrativo), diversi tipi
di discorso prosastico: descrizione, narrazione, esposizione, argomentazione.
Una simile partizione torna nelle più tradizionali proposte di tipologia basate
sulla funzione dei diversi testi nel processo comunicativo.
Le cinque tipologie comunemente indicate sono:
1. Testi narrativi: vi acquista particolare rilievo la categoria del tempo
(romanzi, novelle, cronache, ecc.).
2. Testi descrittivi: rappresentano persone, oggetti, ambienti in una
dimensione spaziale. La descrizione è condotta nello spazio o per via
logica, dal particolare al generale e viceversa (descrizioni di guide, di
monumenti, descrizioni nei testi letterari, ecc.).
3. Testi espositivi: organizzazione e trasmissione di concetti attraverso
analisi e sintesi, per es. un’esposizione del modo di misurare la superficie
(manuali, saggi divulgativi, ecc.).
4. Testi regolativi: danno norme e regole (istruzioni, testi legislativi, ecc.)
5. Testi argomentativi: dimostrano una tesi (saggi scientifici, politici, ecc.).
In realtà in ogni testo possono convivere più tipi testuali. Tra questi ve n’è uno
dominante che consente di ascrivere quel particolare testo a una determinata
tipologia. Romanzi e novelle, per esempio, sono prodotti e fruiti come testi
narrativi, anche se quasi sempre comprendono sia dialoghi, che nel loro
carattere mimetico si accostano al tipo rappresentativo, sia sezioni descrittive,
che possono occupare ampio spazio e svolgere funzioni importanti.
Sono pertanto modelli da assumere come punti di riferimento indicativi, senza
dimenticare la complessità costitutiva dei testi.
più o meno forte, con precise conseguenze sulla formulazione linguistica del
messaggio, ossia sulla scelta tra i vari mezzi offerti dalla lingua.
La prima categoria di testi, secondo Sabatini, prevede un vincolo interpretativo
estremamente rigido: il testo non può essere in alcun modo interpretato o
valutato secondo criteri soggettivi e il significato degli enunciati per il ricevente
e per l’autore deve essere lo stesso. Questa categoria si articola in tre
categorie intermedie o sottogruppi, ciascuno dei quali riveste una specifica
funzione e prevede determinate conseguenze sul piano pragmatico in caso di
rifiuto o rottura del patto comunicativo:
I testi del sottogruppo (a) hanno una funzione cognitiva;; sono fondati su
assiomi di partenza e rispondono al criterio di vero/falso. Quelli del sottogruppo
(b) hanno funzione prescrittivo-coercitiva, basata sull’imposizione di una
volontà, espressione di una autorità costituita alla quale i membri di una data
comunità non possono sottrarsi. Quelli del sottogruppo (c) hanno una funzione
strumentale-regolativa, basata sull’adesione spontanea del destinatario a
istruzioni fornite e necessarie per conseguire il successo.
Le altre due categorie previste dalla classificazione di Sabatini cambiano con
l’allentarsi del vincolo interpretativo:
IL LESSICO
Il lessico non va confuso con il dizionario: il primo è l’insieme delle parole di
una lingua;; il secondo è la descrizione di questo insieme. Sono l’uno (il lessico)
il contenuto dell’altro (il dizionario). Il dizionario è un oggetto materiale, un libro
o, oggi, un testo consultabile online;; il lessico è un oggetto astratto, un insieme
di parole e di informazioni associate a queste parole, immagazzinato nella
nostra mente e descritto nel dizionario. Una relazione analoga troviamo tra le
regole sintattiche o morfologiche di una lingua, che costituiscono una struttura
della lingua stessa, e il libro di grammatica che le descrive.
La struttura del lessico non corrisponde alla struttura del dizionario.
Quest’ultimo organizza le informazioni in base alla leggibilità del testo, alle
esigenze del pubblico cui è destinato (comune nel caso di dizionari dell’uso,
specialistico nel caso di dizionari storici o specialistici), alla natura specifica del
dizionario (etimologico, storico, ecc.). Il dizionario monolingue, per esempio,
segue l’ordine alfabetico;; il lessico non è organizzato alfabeticamente, ma per
famiglie di parole legate dalle forme (fiore, fiorellino, rifiorire, ecc.;; o
sensazione, costruzione, fissazione, ecc.), per campi semantici (acquistare,
comperare, vendere, trattare, ecc.), per classi grammaticali (nomi, aggettivi,
verbi, ecc.).
Il dizionario in realtà non è la descrizione del lessico, ma piuttosto un tentativo
di descrizione;; non per nulla esistono più dizionari di una stessa lingua, che
presentano il lessico secondo aspetti diversi. Il dizionario non costituisce mai
una rappresentazione totale di tutte le parole di una lingua, dei loro usi, dei loro
significati. Rappresenta soltanto un repertorio incompleto. È difficile, infatti,
stabilire il numero esatto di parole che compongono una lingua ed è
ugualmente difficile individuare le proprietà di ogni singola parola.
D’altro canto la competenza lessicale dei parlanti non è tale da contenere tutte
le informazioni trasmesse da un dizionario: nessun parlante nativo conosce
tutte le parole e le informazioni specifiche trasmesse da un dizionario. È anche
vero del resto che molte espressioni che appartengono al nostro uso
quotidiano non sono contemplate dal dizionario perché considerate formazioni
ricreabili all’occorrenza. Se, per esempio, il diminutivo carrozzina, nel
significato oggi diffuso e diverso dall’originario “piccola carrozza”, è entrato nel
dizionario come voce autonoma grazie al suo specifico significato, altri
diminutivi, come, per esempio, caffeino, non sono accolti, pur venendo
adoperati da molti di noi nella comunicazione quotidiana.
Analogamente al lessico e al dizionario abbiamo le discipline rispettivamente
della lessicologia e della lessicografia. La prima studia il lessico di una lingua
per individuare il modo in cui le parole, grazie al loro significato, possono
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combinarsi o entrare in relazione tra loro;; individua gli aspetti strutturali del
lessico e l’organizzazione dell’informazione lessicale.
La lessicografia, d’altro canto, ha come scopo principale la compilazione delle
fonti lessicografiche. È più applicativa e si occupa di trovare i modi migliori per
descrivere le proprietà grammaticali e gli usi delle parole e di cercare di
presentare le informazioni nel modo più utile per l’utente. Le due discipline
sono in connessione tra loro e richiedono competenze reciproche.
Il significato
Il lessico più di altre componenti della lingua ha un rapporto evidente con la
realtà extralinguistica, anche se non riesce mai a rappresentarla nella sua
interezza e complessità. L’arbitrarietà del segno indica il rapporto arbitrario tra
il significato e il significante ma anche tra le parole e le cose cui si riferiscono.
Ciò che le parole indicano è definito referente (in latino designatum e al plurale
designata). Il modo in cui nominiamo i referenti non ha motivazioni precise,
come dimostrano le differenze tra le diverse lingue. In una lingua una stessa
parola può indicare più cose: a glass e al suo plurale in italiano corrispondono
vetro, bicchiere, occhiali, ma all’italiano tempo in inglese corrispondono time,
weather, tense.
In base al significato possiamo distinguere tra parole lessicali e parole
grammaticali, una distinzione che abbiamo in parte già visto parlando dei
morfemi liberi.
Esistono nel lessico di una lingua parole contenuto e parole funzione, per le
quali si parla anche di parole lessicali e parole grammaticali. Di solito si dice
che le categorie lessicali maggiori, nomi, verbi, aggettivi e talvolta anche
avverbi, fanno parte della prima classe, mentre le categorie lessicali minori,
pronomi, articoli, congiunzioni, preposizioni, appartengono alla seconda.
Si tratta di una spiegazione imprecisa ma utile perché mette subito in evidenza
il modo in cui le due diverse classi di parole contribuiscono al significato delle
frasi. Le prime forniscono il contenuto, le seconde svolgono delle funzioni,
come quella di chiarire le relazioni tra le parole che introducono il contenuto.
Se pensiamo a una frase come Alle otto di mattina vado a lavoro in auto e
togliamo tutte le parole funzione, otteniamo una sequenza come otto mattina
vado lavoro auto che è ancora in grado di trasmettere un significato, anche se
le relazioni tra gli elementi sono offuscati e non possiamo neppure definirla una
frase. Non esistono più infatti indizi grammaticali o sintattici, tranne l’ordine
delle parole che potremmo mescolare senza ripercussioni sulla nostra
interpretazione: vado auto lavoro otto mattina. Al contrario se togliamo tutte le
79
in «un biglietto del treno». Molte parole non possono definirsi sinonimi perché
appartengono a registri diversi (morire, scomparire, spegnersi, salire al cielo).
Per una definizione più accettabile di sinonimia dovremmo dire che la
sinonimia è una relazione tra due parole che in un dato contesto, e quindi in
un dato significato, possono essere sostituite una all’altra senza che ciò abbia
conseguenze sull’interpretazione della frase. In questo caso due parole sono
sinonimi quando possono essere intercambiabili in almeno un contesto.
Antinomia
Nell’opposizione abbiamo coppie o serie di termini che si oppongono in
relazione a uno o più aspetti del loro significato.
Abbiamo diversi tipi di relazione di opposizione Gli antonimi sono coppie di
parole che designano una proprietà o un evento graduabili o scalari, come
facile/difficile, bello/brutto, basso/alto, pulire/sporcare, I due antonimi cioè sono
agli estremi, ai poli opposti di una scala possibile: si parla infatti di opposizione
polare. Tra facile e difficile, bello e brutto ci sono gradazioni intermedie e
qualcosa può essere né facile né difficile, ne troppo bella né troppo brutta.
Due termini sono invece complementari quando si escludono a vicenda
(vivo/morto, promosso/bocciato);; non sono cioè su due poli opposti congiunti
da gradazioni intermedie, ma su due sezioni totalmente separate. Si parla in
questo casi anche di opposizione binaria.
Si parla anche di inversione per due termini che esprimono la stessa relazione
semantica vista da due prospettive diverse: slegare non significa non legare e
così uscire non vale non entrare.
I dizionari dell’italiano
L’italiano, come la gran parte delle lingue, ha dizionari dell’uso, dizionari storici
e dizionari etimologici. Sono tutti strumenti indispensabili per chi lavora con le
lingue o le insegna e per chi si occupa di testi e di traduzioni.
Il primo vocabolario dell’italiano è stato il Vocabolario della Crusca, stampato
per la prima volta nel 1612. Oggi tutte le edizioni del vocabolario sono
consultabili sul sito: www.accademiadellacrusca.it
Un vocabolario storico si distingue perché, oltre alle parole e alle definizioni,
include anche le citazioni d’autore. Un tempo queste citazioni servivano anche
come esercitazione di stile per chi voleva cimentarsi nella scrittura elevata;;
oggi hanno una funzione di documentazione utile per le ricerche storiche e
linguistiche.
82
Una menzione a parte merita il LEI, Lessico etimologico italiano, fondato da
Max Pfister (Wiesbaden, Reichert, 1979 e seguenti) che ha un’impostazione
monumentale. Si propone, infatti, di raccogliere tutte le attestazioni dell’italiano
e dei suoi dialetti, antichi e moderni, dalle origini fino a oggi. Ciascuna voce,
considerabile una monografia, è distinta in tre parti, contrassegnate da numeri
romani e corrispondenti a una lettura etimologico-storica ben precisa. Il numero
I corrisponde alle parole di trafila popolare, il II a quelle di trafila dotta, il III ai
prestiti di origine straniera. In questo modo ciascun lettore ha in un solo
sguardo una serie di informazioni fin qui disperse in una pluralità di fonti diverse
(le fonti del LEI sono più di 10.000). Diventa visibile una serie di dati culturali
sulla cronologia e sulla diffusione geografica della parola: se è usata o meno
in italiano, da quando è usata, se è attestata in qualche dialetto moderno o
antico, se da essa si sviluppano unità polirematiche e modi di dire, se la sua
vita si incrocia con quella di altre parole.
Per quanto riguarda i principali dizionari dell’uso, molto importante è oggi il
GRADIT, Grande dizionario dell’uso di Tullio De Mauro (Torino, Utet, 2000,
con supplementi di neologismi fino al 2008). Il GRADIT comprende al suo
interno il Vocabolario di base della lingua italiana, ovvero le circa 7000 parole
che hanno maggiore frequenza d’uso. Le voci che appartengono al
Vocabolario di base sono contraddistinte dalle marche d’uso:
Ø FO: «fondamentali», le 1991 parole più usate in assoluto (fare, cosa,
amore, ecc.);;
Ø AU: «di alto uso», le 2750 parole molto usate ma con ricorrenza minore
delle precedenti;;
Ø AD: «di alta disponibilità», le 2337 parole meno frequenti delle precedenti
ma molto usate nel parlato.
Un’edizione parziale del GRADIT si può consultare al sito:
http://dizionario.internazionale.it
Gli altri dizionari dell’uso più frequentemente adoperati e di riferimento sono:
lo Zingarelli (Bologna, Zanichelli) che viene aggiornato ogni anno;; il Devoto Oli
(di Giacomo Devoto e Gian Carlo Oli, Firenze, Le Monnier nella nuova
versione);; il Sabatini Coletti di Francesco Sabatini e Vittorio Coletti, pubblicato
con più editori;; una delle edizioni è consultabile gratuitamente on line:
http://dizionari.corriere.it/dizionario_italiano/
Ottimo è il Vocabolario Treccani e, in generale tutto il portale Treccani, dove è
possibile reperire anche il dizionario dei neologismi:
http://www.treccani.it
84
secondi sono indotti dalla moda o dal prestigio che in alcune fasi storiche
assumono alcune lingue ma potrebbero essere sostituiti da parole italiane:
trend si sovrappone a tendenza, baby sitter a bambinaia, ecc.
Tra i prestiti che sono arrivati all’italiano un gran numero di grecismi, cioè
forme, costrutti di origine greca introdotti in italiano, si era già acclimatato nel
latino d’età classica e postclassica, e da qui si è introdotto nella nostra lingua
a partire dai testi più antichi: si pensi ai nomi di oggetti quotidiani e domestici
(ampolla, borsa, canestro, ecc.), alla terminologia ittica (balena, delfino, cefalo,
ecc.), ai termini di base della filosofia e delle scienze dell’antichità (filosofia,
retorica, aritmetica, geometria, geografia, ecc.), alla lingua dei cristiani
(apostolo, battesimo, martirio, ecc.).
Il travaso di elementi lessicali greci è continuato anche in epoca altomedievale.
Al greco bizantino risalgono voci comuni (anguria, basilico, indivia, ecc.), voci
marinaresche – spesso penetrate attraverso Venezia e il suo territorio relative
a imbarcazioni (galera, gondola) o ad attrezzi e operazioni marittime (argano,
molo, ormeggiare, sartia, ecc.).
Per i germanismi più antichi dobbiamo distinguere gotismi, longobardismi e
franconismi. All’elemento gotico appartengono termini della vita militare
(bando, elmo, guardia), anche con evoluzioni semantiche successive, come
albergo «rifugio dell’esercito», oltre che parole della vita quotidiana e dell’uso
domestico (nastro, fiasco, rocca, spola, arredare).
Dalla dominazione longobarda entra il lascito più consistente, in molti casi vivo
ancora oggi, con tracce significative anche nella toponomastica e
nell’antroponimia: bara, biacca, federa, ricco, russare, scaffale, schermire,
sguattero, balcone, zuffa, parti del corpo umano (schiena, stinco, milza, anca,
guancia), staffa, strofinare, scranna, gruccia. Sono invece scomparsi dall’uso
termini strettamente legati alla cultura longobarda (arimanno);; altri sono
relegati all’uso letterario (strale).
Per i franconismi il problema è più complesso, perché i Franchi che arrivarono
in Italia dalla Gallia, dove si trovavano già stabilmente da due secoli, dovevano
essere bilingui, se non già romanizzati: pertanto non è facile attribuire una
parola al franco o al galloromanzo o alla probabile mediazione del latino
medievale.
Importanza rilevante hanno i francesismi che hanno cominciato il loro
cammino verso i nostri volgari già nella prima età medievale. Molti termini sono
relativi all’organizzazione feudale: conte e contea, marca «contea di confine»
e marchese, cavaliere (specializzato semanticamente rispetto all’allotropo
89
Un gruppo di voci e locuzioni soprattutto di gergo militare viene dal piemontese:
battere la fiacca, cicchetto, passamontagna, pelandrone, ramazza.
Dalla Lombardia provengono: barbone, essere in bolletta, far ridere i polli,
maneggione, menabò, menagramo, mezze maniche, mica male, teppa e più
di recente tampinare “assillare”;; a queste voci si possono aggiungere quelle
genericamente settentrionali: brufolo, magone, mettersi il cuore in pace,
piantarla, sberla, scimmiottare e, da non molto, pirla “sciocco, sprovveduto”,
sfiga “sfortuna” e sfigato, che sembrano ormai più diffusi delle rispettive varianti
a fonetica centromeridionale (cioè sfica e sficato).
Al Veneto si devono termini del commercio e dell’amministrazione (anagrafe,
bancogiro, catasto, scontrino), della marineria (arsenale, gondola, palombaro,
pontile, traghetto, zattera) e due espressioni divenute un simbolo dell’identità
linguistica italiana: ciao e grazie.
La varietà romana è forse la più conosciuta per le influenze del cinema e della
televisione: bagarino, buonuscita, caso mai, dritto “furbo”, fasullo, frocio
spregiativo per “omosessuale”, iella, lasciar perdere, pacchia “abbondanza,
vita comoda”, prendere fischi per fiaschi, ragazzo/-a “fidanzato/-a”, sputare
l’osso, tardona, tintarella, ecc. e una serie di parole in -aro (benzinaro,
borgataro, casinaro, cravattaro “strozzino”, gattaro “chi dà da mangiare ai gatti
randagi”, usato di solito al femminile, ecc.).
Spesso espressivo e ancora in parte riconoscibile l’apporto napoletano:
ammanicato, bancarella, cafone, carosello, fesso, iettatore e iettatura, patito
“appassionato”, scassato, sceneggiata, smammare, smorfia “manuale per
l’interpretazione dei sogni nel gioco del Lotto”, scippo, ecc. Per il tramite del
napoletano passano poi molte voci genericamente meridionali come
mannaggia o sfizioso.
Dal siciliano viene un gruppo di termini della malavita (cosca, intrallazzo,
mafia, omertà, pezzo da novanta, picciotto, pizzo) e della gastronomia
(arancini, cannoli, cassata). È ancora marcato fuitina “fuga prematrimoniale di
una coppia per mettere le famiglie di fronte al fatto compiuto, rendendo così
inevitabile il matrimonio riparatore”.
Diverso è il fenomeno dei geosinonimi, cioè sinonimi distribuiti sul territorio
italiano. Si hanno geosinonimi quando lo stesso oggetto è indicato con nomi
diversi nelle varie regioni;; il frutto indicato in Toscana come cocomero è
l’anguria nelle regioni centro-settentrionali e il melone o mellone al Sud. La
spigola è denominata branzino nel Veneto e in generale al Nord. Spesso i
geosinonimi convivono e non creano problemi di incomprensione;; in altri casi
uno dei sinonimi prevale sugli altri.
91
Il lessico di ogni lingua tuttavia si arricchisce sempre di nuove parole, dette
neologismi. Non bisogna confondere i neologismi con i cosiddetti
occasionalismi, parole coniate a seguito di avvenimenti particolari ma che non
vivono più di qualche mese o anno. Oggi il linguaggio della politica e ancor più
quella della cronaca politica sono fonti costanti di occasionalismi. I giornalisti,
per esempio, ricavarono dallo slogan di Umberto Bossi. Gli esempi nei
quotidiani sono molteplici: alcuni anni fa, per esempio, sono entrati termini
come mattarellum (“sistema elettorale maggioritario col correttivo di una quota
proporzionale”, così chiamato perché proposto da Sergio Mattarella),
rutellismo, veltronizzare, ecc.
Oggi la maggior parte dei dizionari dell’uso è molto prudente nel registrare gli
occasionalismi, per evitare di fornire ufficialità a parole effimere. Al contrario,
nel passato furono frettolosamente inserite nei dizionari occasionalismi come i
termini che designavano balli alla moda – lo shimmy (1921) o il black-bottom
(anni Trenta) –, che oggi nessuno più conosce e che appaiono inutilmente nei
dizionari dell’uso.
Alcune formazioni però si mantengono nel tempo: si pensi alla parola
buonismo (1995), ormai inserita in Devoto-Oli, GRADIT, Zingarelli e Sabatini-
Coletti, o alla voce dialettale napoletana inciucio nel significato di
“compromesso poco trasparente, accordo pasticciato” (1995), accezione
registrata da Devoto-Oli, GRADIT e Zingarelli.
Più difficile prevedere le sorti di parole come euroconvertitore, sempre meno
utile dopo la definitiva affermazione dell’euro, papamobile “particolare
autoveicolo costruito per favorire gli spostamenti dell’anziano Giovanni Paolo
II nelle visite”, o altre analoghe
Un utile strumento sono le raccolte di neologismi, come gli ultimi volumi del
GDLI e del GRADIT o lo studio importante di Giovanni Adamo e V. Della Valle,
Neologismi quotidiani. Un dizionario a cavallo del millennio (1998-2003),
Olschki, Firenze, 2003. Entrambi gli studiosi lavorano all’Osservatorio
neologico della lingua italiana.
Nel passato tali raccolte erano spesso compilate con intenti puristici, cioè con
l’idea di fornire un elenco di parole da non usare. Nonostante le intenzioni dei
compilatori, tuttavia, questi elenchi forniscono informazioni preziose. Molti
termini infatti sono attestati per la prima volta proprio in repertori del genere:
cartone animato nel Barbaro dominio di Paolo Monelli (Hoepli, Milano 1933),
contabile “ragioniere” e rivalsa in una raccolta ottocentesca del funzionario
napoleonico Giuseppe Bernardoni (Elenco di alcune parole oggidì
frequentemente in uso [...], Milano 1812).
92
colloquiale, ciò non è stato più vero. Per questo motivo il linguista Gaetano
Berruto per definire la situazione italiana ha parlato di dilalia, con la quale
indichiamo l’esistenza di due lingue, una l’italiano, comune all’intera comunità
linguistica e adoperato in tutte le situazioni, l’altra il dialetto, diverso da regione
a regione e adoperato solo per gli usi privati e colloquiali.
In caso di diglossia, le due lingue si alternano in base alla situazione
comunicativa, mentre con la dilalia uno stesso parlante può a volte commutare
il codice nella stessa situazione comunicativa.
Carta dei dialetti italiani:
http://ioparloitaliano.yolasite.com/resources/00italica.jpg?timestamp=1264274
803461
Figg. 1 e 2 Dialetti italiani e parlate alloglotte
94
I confini di una carta geolonguistica sono segnati dalle isoglosse. Un’isoglossa
è una linea immaginaria che unisce tutti i punti estremi di un’area geografica
che condivide lo stesso fenomeno linguistico. Il fenomeno può essere
fonologico (e in questo caso definiamo la linea isòfona), morfologico
(isomòrfa), sintattico, lessicale (isolessi).
L’isoglossa delimita pertanto un’area linguistica che possiede un determinato
fenomeno linguistico e la separa dal territorio confinante che non lo possiede.
95
• Dialetti settentrionali parlati a nord della cosiddetta linea La Spezia - Rimini
che corre tra il Tirreno e l’Adriatico.
I dialetti settentrionali si possono distinguere in
- dialetti galloitalici, parlati in aree abitate anticamente da popolazioni
celtiche: Piemonte, Liguria, Lombardia, Emilia Romagna e, per effetto di
antiche migrazioni, in alcune piccole aree linguistiche della Basilicata e
della Sicilia;;
- dialetti veneti, parlati in aree abitate anticamente dai veneti: Veneto,
Trentino, Venezia Giulia.
• Dialetti centromeridionali parlati a sud della linea La Spezia - Rimini.
Tra i dialetti centromeridionali distinguiamo
- i dialetti toscani;;
- i dialetti còrsi, parlati nella Corsica che rientra nel territorio politico
francese;;
- i dialetti mediani, parlati nelle altre regioni dell’Italia centrale e in
particolare quelle a sud della cosiddetta linea Roma - Ancona, Marche
centrali, Lazio a est del Tevere, Abruzzo aquilano;; quelli a nord della
linea Roma - Ancona, detti mediani di transizione, condividono alcuni
tratti con i dialetti toscani.
• Dialetti meridionali o alto-meridionali, parlati nelle aree più a sud delle
Marche e del Lazio, in quasi tutto l’Abruzzo, in Molise, in Campania, in
Basilicata, nella Puglia centro settentrionale, nella Calabria settentrionale.
• Dialetti meridionali estremi, parlati nel Salento (Puglia meridionale), nella
Calabria centromeridionale e in Sicilia.
• Hanno sistemi linguistici autonomi nell’insieme delle varietà italo-romanze il
ladino, parlato in alcune vallate del Trentino-Alto Adige e del Veneto, e il
friulano, parlato nel Friuli. A parte vanno considerati i dialetti sardi, distinti
tra gallurese e sassarese, a nord (più vicini al toscano), logudorese,
campidanese.
In Italia esistono minoranze alloglotte che parlano lingue minoritarie, non
considerate nel novero delle varietà italo-romanze, come l’arbäresh, il grico, lo
sloveno, il francoprovenzale, ecc.
I dialetti settentrionali sono caratterizzati da sonorizzazione delle consonanti
sorde intervocaliche, caduta delle vocali atone, assenza di consonanti lunghe:
96
Esempi dal calabrese meridionale
Dialetto arcaico Dialetto italianiz. Italiano
custureri sartu sarto
muccaturi fazzolettu fazzoletto
cantunera angulu angolo
LE VARIETÀ LINGUISTICHE E LE VARIETÀ DELL’ITALIANO
Le fondamentali dimensioni della variazione sincronica di TUTTE le lingue
sono costituite:
dall’area geografica in cui la lingua è usata (o più esattamente dall’area
di provenienza dei parlanti e dalla loro distribuzione geografica) -
variazione diatopica;;
dallo strato o gruppo sociale cui appartengono i parlanti (o più
specificamente dalla posizione che il parlante occupa nella stratificazione
sociale) - variazione diastratica;;
dalla situazione comunicativa nella quale si usa la lingua - variazione
situazionale o diafasica;;
dal mezzo fisico-ambientale attraverso cui si svolge la comunicazione,
dal canale attraverso cui la lingua è usata (scrittura o oralità) - variazione
diamesica.
La variazione diamesica riguarda le varietà dello scritto e del parlato, o anche
dello scritto trasmesso e del parlato trasmesso.
Per quanto riguarda la variazione diatopica, in Italia l’influenza dei diversi
dialetti sullo standard ha dato vita agli italiani regionali.
La varietà diastratica bassa dell’italiano, parlata e scritta da persone con un
basso grado di istruzione, è l’italiano popolare. Sono varietà diastratiche
anche quelle condizionate dall’età (linguaggi giovanili) o dall’appartenenza a
gruppi sociali come la malavita, gli emarginati ecc. (gerghi).
All’interno della variazione diafasica distinguiamo tra registri (formali e
informali) e sottocodici o lingue speciali.
La variazione diacronica è invece legata al tempo, che provoca mutamenti
nelle lingue. I mutamenti linguistici possono avvenire per cause interne alla
lingua, come la grammaticalizzazione e la lessicalizzazione.
98
Altri linguisti, tuttavia, preferiscono parlare di uno standard aperto, in alcune
situazioni comunicative, a usi innovativi, senza individuare una varietà diversa.
Sottolineano la resistenza dello standard tradizionale rispetto ad alcune
innovazioni. Luca Serianni, in particolare, documenta, in alcuni studi, come
l’italiano comune non marcato sia adoperato non solo nello scritto, ma anche
nel parlato di persone colte, in situazioni non molto formali, e come nella
scrittura i fenomeni innovativi siano poco presenti.
Non tutti i fenomeni del cosiddetto neostandard, infatti, sono così estesi
e non tutti sono accolti allo stesso modo in tutte le situazioni e in tutti i tipi di
comunicazione.
In Italia, soprattutto nella seconda metà del XX sec., trasformazioni sociali,
politiche ed economiche profonde hanno provocato anche rapidi cambiamenti
nella lingua.
Alcuni fenomeni un tempo considerati inaccettabili ora sono del tutto usuali e
accolti soprattutto nel parlato, come
• il pronome obliquo di terza persona plurale gli usato al posto di a loro: Ho
incontrato gli amici e gli ho detto di venire.
• l’uso del pronome soggetto di terza persona lui, lei, loro, in luogo di egli,
ella, essi, essa;;
• la semplificazione dei dimostrativi (da tre uscite a due): questo, per
indicare persona o oggetto vicina a parlante e ascoltatore, quello,
distante da entrambi, codesto, distante da chi parla ma vicino a chi
ascolta. Quest’ultimo rimane soltanto nell’uso toscano e nella scrittura
burocratica;;
• la particella ci ha ampiamente sostituito, in funzione locativa, la forma più
arcaica vi;;
• il relativo che prevale nettamente su il quale, la quale, ecc.
• il che indeclinato con valore temporale (la sera che ci siamo incontrati).
Altri tratti coincidono con le caratteristiche del parlato.
L’ITALIANO REGIONALE
La variazione geografica è fondamentale nel repertorio dell’italiano e determina
differenze sul piano fonetico, lessicale e sintattico, non su quello morfologico.
Nell’italiano parlato la resa fonetica, l’intonazione e il lessico possono arrivare
a essere molto influenzati dalla lingua locale;; nella scrittura i regionalismi
incidono in misura molto minore, ma come sempre molto dipende
dall’emittente e dalla situazione.
100
L’italiano regionale è, pertanto, una varietà diatopica dell’italiano, che presenta
differenze fonetiche, tonetiche, sintattiche e lessicali.
La Toscana è la prima regione in cui, per la particolare storia linguistica del
paese, si forma un italiano regionale. L’italiano regionale toscano è unico non
tanto per essere stato il primo, ma per il modo in cui si è formato: in continuità
con l’uso.
Anche il romanesco è un esempio di precoce italiano regionale, determinatosi,
tuttavia, per storia e motivazioni differenti, dovute alle condizioni demografiche
e all’influenza dei papi fiorentini a partire dal XVI sec. Anche in questo caso,
però, la formazione dell’italiano regionale romano non è stata analoga a quella
degli altri italiani regionali, apparsi con più forza dopo il 1861.
Ogni parlante della comunità italofona è in grado di riconoscere se il suo
interlocutore proviene da un’area settentrionale, centrale o meridionale. Più
difficile è circoscrivere l’esatta zona di provenienza del parlante. In generale,
un settentrionale distingue con più esattezza la provenienza di un altro parlante
settentrionale o di un toscano e di un romano, ma include in una generica
definizione di “meridionale” i parlanti del Sud. Analogamente un parlante
meridionale individua la regione di un altro meridionale e la provenienza di
toscani e romani, ma include in un’unica area i settentrionali.
Alcuni tratti accomunano le grandi aree: sarà per esempio comune a buona
parte del Settentrione l’uso di tirare giù in luogo di “abbassare”, o a tutto il
Meridione il ricorso a tenere con il significato di “avere” o a cercare nel senso
di “chiedere”. Analogamente, sul piano fonetico, la tendenza a scempiare le
consonanti lunghe accomuna la più ampia area settentrionale, mentre quella
ad allungare le b e le g intervocaliche unifica la gran parte del Meridione.
Ci sono anche tratti, soprattutto lessicali, che aiutano a circoscrivere meglio le
singole aree. Se un parlante settentrionale, per esempio, usa il termine bigiare
per “marinare la scuola” è quasi sicuramente lombardo;; se dice conforme per
“dipende”, “a seconda”, sarà veneto, e se usa l’avverbio solo più per “solo”
verrà dal Piemonte. Analogamente se un parlante meridionale dirà perciò per
dire “sì” la sua provenienza sarà la Sicilia e se parlerà di scatolo invece che di
scatola verrà da Napoli o dalla Campania.
Non sempre nella conversazione ricorrono tratti specifici e più frequentemente
è la fonetica che può indirizzarci con maggiore precisione;; chiara è la tendenza
dei piemontesi a pronunciare quasi come dittonghi alcune vocali davanti a
nasale (pwonte per “ponte”) o quella dei milanesi a rendere con la vocale
aperta la e tonica finale ([per’kɛ] invece di [per’ke]) e così via.
101
Il lessico è ciò che più ci aiuta a distinguere tra registro formale e italiano
colloquiale. Per dire, per esempio, che qualcuno è morto possiamo utilizzare
termini ed espressioni differenti da un massimo di formalità (registro solenne)
a un massimo di informalità (registro basso o anche volgare): è salito al cielo,
ha reso l’anima a Dio, è scomparso, se n’è andato, è deceduto, è morto, è
crepato.
Esempi di coppie di sinonimi o di duplici espressioni attribuibili a uno standard
neutro e formale (a sinistra) o classificabili come colloquialismi (a destra):
schiaffo sberla
annoiarsi scocciarsi
averne abbastanza rompersi
mangiare molto abbuffarsi
ho molta fame ho una fame bestiale
azione meschina carognata
cogliere di sorpresa beccare
supporre mettere il caso
essere irritato con avercela con
altrimenti se no
tuttavia solo che
Come avviene per il parlato di uso comune, l’italiano colloquiale è
caratterizzato da genericismi (tizio, cosa, fare, fatto, ecc.), dall’uso di termini
abbreviati (tele, bici, ecc.), dal ricorso al turpiloquio attraverso termini che
hanno perso il significato originario.
Appartengono, invece, a un registro molto basso e trascurato cumuli di
congiunzioni come mentre che, siccome che, ecc., uso del transitivo per
l’intransitivo (per es. lo telefono invece di gli telefono, l’ha sparato invece di gli
ha sparato), sequenze come essendo che, ecc.
LE LINGUE SPECIALI
Le lingue speciali sono contraddistinte da un lessico specialistico funzionale
alla trattazione di argomenti specifici nella comunicazione di alcuni ambienti
professionali. Possiamo dividerle in due gruppi.
Le lingue speciali del primo gruppo sono dette anche sottocodici o lingue
specialistiche e riguardano settori scientifici di alta specializzazione
(matematica, medicina, economia, linguistica, ecc.) che hanno necessità di
usare un lessico molto specifico. Si adoperano soprattutto all’interno dei gruppi
professionali, ma hanno in molti casi una circolazione esterna.
104
Le lingue speciali del secondo gruppo sono dette anche lingue settoriali e
riguardano ambiti di comunicazione non specialistica (giornali, politica,
pubblicità, ecc.). Non hanno un vero lessico specialistico e attingono al
vocabolario della lingua comune e di altre lingue speciali.
C’è uno scambio reciproco tra lingue speciali e lingua comune. Molti
tecnicismi passano alla lingua comune soprattutto attraverso i media. Nel
passaggio però perdono spesso la natura di tecnicismi e si genericizzano (si
pensi all’uso nella lingua comune di termini come nevrosi, paranoico, ecc.).
Anche le lingue speciali traggono termini dal lessico comune, facendogli però
subire il processo inverso. Si attribuisce, cioè, un significato specialistico a un
termine di uso quotidiano (si pensi a candela nella meccanica
automobilistica).
Il lessico delle lingue specialistiche ha natura internazionale;; circola tra le
lingue di cultura. A ciò si aggiunge il fatto che molti termini sono tratti dal latino
o dal greco.
Spesso si parla anche di linguaggi speciali oltre che di lingue. La lingua è un
linguaggio verbale e in molti casi le lingue specialistiche si servono di simboli
e grafici oltre che delle parole. Si osservi l’esempio riportato da Serianni:
Linguaggio non verbale:
BaO2 + H2SO4 = BaSO4 + H2O2;;
Linguaggio verbale:
Il perossido di bario combinato con l’acido solforico dà solfato di bario e acqua
ossigenata;;
Riformulazione divulgativa:
L’acqua ossigenata si ottiene comunemente combinando il perossido di bario,
un composto adoperato nell’industria come mezzo di sbiancamento, con
l’acido solforico, ossia con il potentissimo acido corrosivo noto popolarmente
come vetriolo.
Il lessico specialistico è caratterizzato da precisione, oggettività, denotatività,
monoreferenzialità. I tecnicismi si riferiscono a un unico concetto o oggetto;;
hanno quindi un unico significato e sono privi di connotazioni.
I suffissi di cui ci si serve per formare i tecnicismi sono tendenzialmente
specializzati a designare un determinato senso. Il suffisso -ite in medicina
forma parole che designano un’infiammazione acuta (artrite);; il suffiso -osi si
lega tendenzialmente a termini che indicano una condizione patologica
degenerativa (artrosi). In chimica -ato è il suffisso dei termini che designano i
sali (bicarbonato), -ico gli acidi (solforico).
105
I linguaggi giovanili hanno diverse funzioni: una è comune ai gerghi e serve
ad affermare l’identità del gruppo rispetto al mondo esterno. Hanno anche
funzione ludica e scherzosa e servono ad affermare la propria autonomia
e creatività rispetto al mondo degli adulti.
Gli studi sul linguaggio giovanile in Italia connettono la sua data di nascita al
diffondersi della lingua nazionale e al retrocedere dei dialetti. Il linguaggio
giovanile, infatti, aiuta a sostituire le funzioni di espressività e affettività dei
dialetti. Ciò spiegherebbe perché i linguaggi giovanili siano più diffusi laddove
il dialetto è meno utilizzato (al Nord, nei centri urbani e tra gli studenti).
Il linguaggio giovanile esalta l’informalità (prevale il tu, il saluto è sempre ciao)
e l’espressività.
Si caratterizza soprattutto per un uso particolare del lessico:
Ø colloquialismi spesso molto informali: essere nel pallone, megagalattico,
casinaro, lessico sessuale;; hanno con la lingua nazionale uno scambio
continuo e reciproco, per cui non è semplice capire da dove sia partito
un determinato uso;;
Ø regionalismi e dialettismi: tosa, tomo, racchia;; inserti dialettali più ampi
sono usati con funzione espressiva o scherzosa;;
Ø tecnicismi deformati o con genericizzazione del significato o uso traslato:
spastico, schizzato, arterio;;
Ø espressioni gergali: cuccare “conquistare una ragazza” (dai cosiddetti
“paninari” milanesi degli anni Ottanta);;
Ø espressioni tratte da canzoni, pubblicità, programmi televisivi, ecc.;;
Ø forestierismi soprattutto con funzione ludica, spesso inventati
(arrapescion, vamos).
Nella resa fonetica spesso i linguaggi giovanili presentano deformazioni,
allungamenti vocalici, velocità nell’eloquio. La sintassi coincide con quella del
parlato, ma con radicalizzazione dei fenomeni del parlato informale.
VARIAZIONE DIAMESICA
Le differenze essenziali tra scritto e parlato possono essere ricondotte a fattori
quali il grado di pianificazione del discorso, massimo nello scritto e minimo
nel parlato e il modo pragmatico di organizzare il testo, facendo prevalere le
esigenze della semantica su quelle della forma corretta e dell’esplicitazione
sintattica.
111
La distanza tra scritto e parlato è determinata anche dal diverso legame con il
contesto e con gli interlocutori. Alla vicinanza comunicativa che caratterizza il
parlato si oppone la distanza comunicativa dello scritto.
Non dobbiamo dare giudizi di valore sul parlato o sullo scritto. Non è
ammissibile una penetrazione indebita del parlato nello scritto quando si
compongono alcuni tipi di testo, ma ciò non vuol dire che scritto e parlato
abbiano superiorità o inferiorità intrinseche. Sono strumenti adeguati a
situazioni comunicative differenti.
La differenza tra scritto e parlato è la più evidente anche per un parlante che
abbia una competenza metalinguistica ingenua. È la situazione comunicativa
che determina le principali differenze tra le due varietà.
Gli elementi che più influiscono sui caratteri del parlato sono:
1. il mezzo fonico-acustico;;
2. un contesto comune di enunciazione;;
3. la compresenza di parlante e interlocutore.
Il mezzo fonico-acustico condiziona la linearità e l’immediatezza del parlato
rispetto allo scritto.
Il parlato si produce in maniera lineare e continua, lo scritto in modo
discreto e dilatato. La produzione del parlato è lineare perché segue la
catena fonica: un suono segue l’altro sia nella produzione sia nella ricezione.
Al contrario, quando scriviamo, possiamo tornare indietro, lavorare su porzioni
di testo non contigue e così via.
Per quanto riguarda l’immediatezza, nel parlato, comunicazione e ricezione
avvengono immediatamente e contemporaneamente;; ciò richiede la
compresenza di ricevente ed emittente che si scambiano continuamente i
ruoli. Tutto ciò è assente dallo scritto, dove l’emittente può sospendere la
scrittura, può ritornarvi più volte, può pensare e progettare a lungo. D’altro
canto nel parlato non sono ammessi silenzi e pause troppo lunghi.
Da tutto ciò derivano tratti minori che caratterizzano il parlato.
In rapporto al mezzo fonico-acustico:
- scarsa possibilità di pianificazione → diversa strutturazione sintattica e
testuale;;
- impossibilità di cancellazione → autocorrezioni, modulazioni;;
- non permanenza → tendenza alla ridondanza, ripetizioni;;
- incidenza di intonazione e prosodia.
112
§ con verbo singolare prima di soggetti plurali: non c'era tante comodità
come oggi;;
§ mancati accordi di genere e numero anche per attrazione di elementi
interposti: l'importanza dell'argomento è stato adeguatamente
sottolineato.
Ø Prevalenza di paratassi:
§ con congiunzioni e, ma, però, poi, così, allora, solo (che);;
§ per giustapposizione: passo da casa, mangio un boccone, ritorno.
Ø Caratteri prevalenti dell’ipotassi:
§ le subordinate tendono a collocarsi dopo la principale (con l'eccezione di
ipotetiche e causali);;
§ le congiunzioni subordinanti sono qualitativamente e quantitativamente
diverse: per le causali invece di poiché, giacché si ha siccome o locuzioni
formate con che (dato che, visto che, dal momento che);; per altre
dipendenti si ha a parte (il fatto) che, basta che, una volta che;;
§ le subordinate implicite sono perlopiù infinitive: stare + gerundio,
stare + a + infinito, andare, venire, riuscire a + infinito, cercare + infinito,
ecc.;;
§ la subordinata più diffusa è la relativa, spesso legata a un singolo
elemento della reggente che fa da «testa» al pronome;; sono assenti il/la
quale e prevale che.
Ø Il che indeclinato (già esaminato a proposito dei relativi), che ha rilevanza
diastratica o segnala una varietà diafasica molto trascurata:
una signora che conosco il marito;;
(con ripresa) un fatto che ne hanno parlato in televisione;; un posto che ci
vado volentieri;;
il postino, che l'ho incontrato uscendo, mi ha dato una lettera per te;;
§ molto meno connotato e sempre più diffuso è invece il che indeclinato
con valore temporale: la sera che ci siamo incontrati.
Ø Si sovrappone talvolta al che indeclinato il che polivalente, subordinante
generico:
facciamo cose che nemmeno capiamo perché;;
esci sempre, che quando rimani neanche me ne accorgo.
LESSICO DEL PARLATO
Termini generici di alta frequenza:
cosa (coso), roba, affare, tipo, fatto, cosare, fare (che cambia significato
con il complemento oggetto, farsi una macchina, in luogo talvolta di un
unico verbo, farsi la barba "radersi").
114
Perifrasi:
quello della luce (“elettricista”), rientra nella tendenza all'analiticità del
parlato.
Parole alterate:
cosine, firmetta, maschietti, famona, partaccia (attimo e attimino usati
anche come avverbio, senza riferimento al tempo, una situazione un
attimo più critica).
Superlativi con valore espressivo:
hai ragionissima.
Espressioni con valore superlativo spesso marcate regionalmente:
un sacco bello, una boiata pazzesca, un freddo della madonna, un casino
di gente.
Disfemismi e detabuizzazione
SEGNALI DISCORSIVI
I segnali discorsivi sono tipici del parlato e sono costituiti da elementi linguistici
(parole, sintagmi, brevi frasi) che hanno funzione prevalentemente pragmatica.
Non trasmettono contenuto informativo, ma assumono funzioni diverse in base
al contesto in cui sono prodotti. Ricordiamo in particolare i segnali discorsivi
con funzione di:
demarcativi per inizio e fine discorso o per presa di turno:
di apertura: allora, ecco, beh, dunque, cioè, niente, comunque;; di
chiusura: ecco, chiaro, no?, basta, insomma;;
segnali fàtici per sollecitare pragmaticamente assenso o
partecipazione:
guarda, senti, vedi, sai, dai, scusa, figurati, figuriamoci, vero?, ho reso
l'idea?;; anche da parte di chi ascolta: davvero?, ma guarda!, hai capito!,
già;;
particelle modali
per attenuare: praticamente, in pratica, mi sembra, diciamo, per dire,
voglio dire, come dire?, una specie di, tra virgolette;; per enfatizzare:
veramente, davvero, proprio, ti dico.
Per quanto riguarda la morfologia, nel parlato si ha una generale
semplificazione. I tratti più innovativi coincidono con quelli già visti del
cosiddetto italiano neostandard.
CARATTERI DELLO SCRITTO
La funzione principale della lingua scritta è quella di mantenere nel tempo e
nello spazio il messaggio verbale. È infatti indispensabile ed è stata usata per
115
fissare le leggi, garantire il rispetto degli accordi, conservare e trasmettere la
conoscenza, soprattutto storica e scientifica.
I segni grafici che riproducono i suoni del parlato si dispongono nello spazio e
il testo scritto nella sua interezza rimane sotto gli occhi di chi legge. Non può
contare sul supporto dell’intonazione e dei gesti.
Produzione e ricezione del testo scritto non sono simultanee. Chi scrive ha
pertanto il tempo di pianificare e di correggere, offrendo al lettore solo il testo
definitivo. Analogamente chi legge può ritornare sul testo tutte le volte che
vuole.
Chi scrive tendenzialmente non sa mai con assoluta certezza quanti e quali
saranno i suoi lettori. Emittente e destinatario non condividono la stessa
situazione e ciò impone nella scrittura una maggiore esplicitezza, un uso
minore di deittici e l’assenza di segnali fàtici. Ripetizioni e ridondanze
possono interferire con la lettura e la buona comprensione del testo;; saranno
dunque di natura molto diversa da quelle del parlato.
Lo scritto dura più a lungo nel tempo ed è dunque più soggetto a
valutazioni sociali. Chi scrive infatti tende ad adoperare una varietà linguistica
più elevata e a rispettare la norma. Il testo scritto presenta un’organizzazione
più regolare della sintassi e si serve con più frequenza della subordinazione. Il
lessico dello scritto è più ampio.
L’assenza dell’emittente riduce il grado di coinvolgimento ed emotività e ciò
rende lo scritto tendenzialmente più oggettivo. Sono invece più rilevanti nella
scrittura le funzioni informative.
Nella grafia sono in atto alcune tendenze innovative che tuttavia non
riguardano tutti i tipi di testo:
Ø Recupero di k: nelle scritture commerciali, negli scritti giovanili
(okkupazione);; sigla di Crotone KR,ecc.
Ø Definitiva affermazione delle forme univerbate: soprattutto, invece, peraltro,
pressoché, nonostante, ciononostante, perlopiù, ecc.
Ø Accento grafico:
§ stabilizzata la differenza tra è per il verbo, cioè, ahimè (timbro aperto
– accento grave) e perché, affinché, ecc. (timbro chiuso accento
acuto);;
Ø Sempre oscillante l'uso delle maiuscole: in regresso grafie come Stato,
Paese, S. per Santo (tranne che per luoghi ed edifici religiosi)
Ø Sempre più diffuse le sigle ormai senza punti: Cgil piuttosto che C.G.I.L. e
le abbreviazioni, soprattutto in scritture burocratiche, sig., dott., pp. o pagg.
Ø Riduzione di elisioni e apocopi:
116
IV. Dal 1525 all’Unità d’Italia: grazie alla proposta avanzata da Pietro
Bembo,si fissa una norma fondata sul fiorentino letterario trecentesco e si
raggiunge l’unificazione di una lingua che sarà adoperata da tutti gli scrittori
della penisola italiana e si estenderà sempre più velocemente dagli ambiti
letterari a quelli scientifici, tecnici, amministrativi e così via. L’Accademia della
Crusca inizia nel 1582 la redazione del primo Vocabolario della nostra lingua,
che vede per la prima volta la luce nel 1612. La comunicazione orale in contesti
familiari e informali continuerà a svolgersi prevalentemente in dialetto.
V. Dal 1861 agli anni Quaranta del XX secolo: l’unificazione politica
consente, sia pure tra molte difficoltà, un insegnamento scolastico unitario, una
migliore circolazione della popolazione tra una regione e l’altra, un servizio di
leva comune, un unico apparato burocratico amministrativo. Tutti questi fattori
favoriscono una maggiore diffusione e una migliore conoscenza dell’italiano,
cui contribuisce anche la prima, vistosa emigrazione all’estero delle classi più
povere.
VI. Dagli anni Cinquanta del Novecento a oggi: l’italiano diviene, con
sempre maggiore velocità, lingua d’uso comune, anche nella comunicazione
orale quotidiana;; si restringe invece lo spazio occupato dai dialetti. Il ruolo dei
media acquisterà un peso notevole, ma daranno un contributo non indifferente
anche l’accesso sempre più ampio all’istruzione scolastica, l’incremento delle
vie di comunicazione e lo sviluppo dell’economia. Tornerà a incidere sulla
nostra storia linguistica la seconda ondata di emigrazione che, tra gli anni ’50
e ’70 del Novecento, si dirigerà sia all’estero sia verso il Nord del paese.
L’italiano usato sempre più frequentemente nella comunicazione orale subirà
rapidi cambiamenti.
Molti volgari da un latino variegato
Cerchiamo prima di tutto di capire che cosa si intenda quando comunemente
si dice che l’italiano deriva dal latino. Alcuni studiosi non trovano corretto
servirsi del verbo derivare a proposito di latino e italiano, perché il secondo non
nasce dal primo ma è frutto di una sua lenta e continua trasformazione.
Il verbo derivare, in realtà, era in origine riferito al fluire delle acque: giunto dal
latino DERīVĀRE e composto dal prefisso DE- e il verbo RīVĀRE (a sua volta
da RīVUS ‘ruscello, canale’), passa, attraverso varie fasi, dal significato di ‘far
defluire le acque’ a ‘sgorgare, scaturire, trarre’, fino a perdere in molti casi il
legame con le acque e ad assumere, come ci confermano i dizionari dell’uso,
anche il senso traslato di ‘ricavare conclusioni da alcune premesse’ e quindi
‘desumere’ o ancora quello di ‘avere origine da qualcuno o qualcosa’.
Da quest’ultima accezione è disceso l’uso ormai antico tra i linguisti di
adoperare il verbo per indicare ‘l’avere origine da un’altra parola o da un’altra
121
sintagmi fissi producendo, in seguito, per ellissi le parole cattivo e domenica;;
costruzioni sintattiche già presenti nel latino parlato, come credere in (crēdĕre
in Deum), furono usate così frequentemente da stabilizzarsi e giungere fino a
noi.
Il colpo più energico fu dato all’unità del latino dal lento disgregarsi politico e
amministrativo dell’Impero, che portò, nel 395 d.C., con la morte di Teodosio I,
alla divisione tra parte orientale e parte occidentale, e nel 476, con la
destituzione, a opera di Odoacre, dell’ultimo imperatore, Romolo Augustolo,
alla fine dell’Impero romano d’Occidente. La penetrazione delle popolazioni
germaniche, iniziata già nel IV sec., e la dissoluzione di un governo centrale
fecero sì che si riducessero le vie di comunicazione tra le province, che se ne
modificasse profondamente l’economia e se ne accentuassero le differenze,
con inevitabili conseguenze anche sull’uso della lingua.
In ciascun territorio la gran parte della popolazione non ebbe più né modo né
necessità di apprendere la norma del latino scritto, che sarebbe divenuta di lì
a breve privilegio di pochi, lasciando al resto della popolazione l’uso esclusivo
di una lingua un tempo adoperata solo per la comunicazione informale.
L’unitarietà delle aree di lingua latina, pur allontanandosi dalla compattezza
dell’età classica, resistette fino a tutto il VI sec., ma non si arrestò la
frantumazione, resa inevitabile dalla riduzione degli insediamenti urbani e dalla
nascita di nuovi centri di potere nella nostra penisola, dove si era
progressivamente disgregato il tessuto linguistico e culturale.
Non è possibile circoscrivere l’arco temporale, compreso tra il VII e il IX secolo,
lungo il quale fattori numerosi portarono a percepire gradualmente l’esistenza
di una lingua autonoma dal latino: è facile supporre il perdurare di una lunga
situazione di diglossia, in cui gli ambiti d’uso del volgare erano limitati alla
comunicazione orale degli incolti incapaci di scrivere (illitterati), mentre
l’impiego del latino, dominato solo da pochi colti alfabetizzati (litterati), era
destinato alla comunicazione alta, prevalentemente scritta.
Prima che il volgare affiorasse nella scrittura sarebbe passato dunque molto
tempo e non è neppure semplice stabilire quando fosse avvertita questa
necessità: non siamo in grado, infatti, di cogliere con certezza, per alcuni dei
primi documenti giunti fino a noi, il grado di consapevolezza e l’intenzionalità
degli scriventi di servirsi di una lingua diversa dal latino.
Gli storici della lingua sono concordi nel considerare come prima, autentica
testimonianza scritta del volgare una formula di giuramento trascritta in una
serie di placiti emanati tra il 960 e il 963 nelle località campane di Capua, Sessa
Aurunca e Teano.
124
Nel medioevo i placiti erano l’udienza durante la quale un sovrano o un signore,
aiutato dai giudici, amministrava la giustizia e dirimeva le controversie;; per
estensione il termine è passato a designare anche la sentenza emessa dalle
autorità giudiziarie e il documento in cui viene trascritta. Il più antico dei placiti
che tramandano la formula in volgare fu emesso a Capua nel 960 ed è per
questo denominato Placito capuano;; vi si riferisce della controversia per la
proprietà di alcune terre tra l’abbazia di Montecassino, dove oggi si conserva
il documento, e un tal Rodelgrimo di Aquino. Il territorio in cui si era svolta la
causa rientrava nella giurisdizione del ducato longobardo di Benevento e
obbediva, dunque, alla legge longobarda, che, per il riconoscimento del
possesso, prevedeva che una delle parti avesse goduto di un bene per almeno
trent’anni. Tre testimoni asseriscono che effettivamente l’abbazia aveva
utilizzato le terre contese per il numero di anni necessario e ripetono la formula
seguente:
Sao ko kelle terre, per kelle fini que ki contene, trenta anni le possette parte
Sancti benedicti
(“So che quelle terre, entro quei confini che qui [nel documento] sono contenuti,
le possedette per trenta anni la parte [contendente] di San Benedetto”).
Il verbale in cui si leggono queste parole è in latino, ma il notaio Atenolfo,
incaricato di redigere l’atto, sceglie di conservare il volgare per riprodurre le
parole dei testimoni, confermando la piena consapevolezza di una lingua
diversa e contrapponendole al latino di cui normalmente si serve.
Per l’ufficialità e il valore posseduti dal documento, si è soliti parlare del Placito
capuano come dell’«atto di nascita» della nostra lingua, ma si tratta di una
definizione impropria, che semplifica eccessivamente le origini della lingua che
oggi adoperiamo. Incorriamo in un’imprecisione anche quando parliamo di
prime testimonianze scritte del volgare, perché in nessuno dei territori della
dominazione romana la lenta e progressiva trasformazione del latino parlato
aveva dato vita a un solo volgare, come conferma, in particolare, lo sviluppo
nella nostra penisola di numerose varietà locali.
I testi scritti in tante di queste varietà, dapprima esigui e sporadici, poi sempre
più numerosi a partire dal XIII secolo e fino al XV, sono testimonianza di volgari
diversi tra loro, ognuno caratterizzato da proprie strutture fonetiche,
morfologiche e sintattiche. Il Placito capuano, infatti, mostra i tratti di un volgare
centromeridionale e dunque, pur vantando il primato del primo documento
consapevolmente scritto in uno dei volgari medievali, non può dirsi all’origine
della nostra lingua. L’italiano poggia le sue basi sul fiorentino, che, tuttavia,
all’epoca in cui il notaio Atenolfo stendeva il proprio verbale, era solo uno dei
tanti volgari della penisola, senza alcuna distinzione di peso e valore;;
sarebbero dovuti trascorrere molti secoli prima che si dessero condizioni
125
Nel ricopiare i testi dei poeti siciliani, i copisti, seguendo la consuetudine del
tempo, non ne rispettano la veste linguistica ma la adattano alla propria,
lasciando del siciliano solo alcune tracce. Il Vaticano latino 3793, peraltro, che
possiamo considerare la più importante delle tre raccolte, è copiato a Firenze
e accoglie anche le rime dei cosiddetti poeti siculo-toscani. Con la fine della
dinastia sveva, infatti, dopo la sconfitta, nel 1266, del figlio di Federico II,
Manfredi, a opera di Carlo I d’Angiò, il centro della poesia lirica diviene la
Toscana, le cui città e Firenze più delle altre sono polo di diffusione di forme
liriche particolarmente innovative.
Tra il Due e il Trecento, in realtà, i centri al di fuori della Toscana in cui si
sviluppa una produzione scritta in volgare sono molti;; basta pensare a città
importanti per la loro vita economica e culturale, come Venezia, Padova,
Genova, Bologna, Napoli e ancora altre, dove le testimonianze, anche di
natura letteraria, dei tanti volgari che vi convivono si producono a volte
precocemente a volte con ritardo, ma sempre stabilizzandosi e moltiplicandosi
rapidamente. Nulla però è paragonabile alla forza propulsiva e modellizzante
che avranno i componimenti dei poeti toscani e soprattutto i versi dello «Stil
nuovo», il movimento poetico così denominato da Dante Alighieri e
rappresentato, oltre che da lui stesso, da Cino da Pistoia, Guido Guinizelli,
Lapo Gianni, Guido Cavalcanti.
Non è possibile riassumere in poco tempo né la rottura che i versi, la prosa, la
riflessione di Dante hanno rappresentato sul piano dell’innovazione linguistica
e letteraria né l’impatto che la letteratura fiorentina trecentesca ha avuto sulla
nostra stessa identità linguistica e culturale. È importante almeno accennare
al ruolo esercitato da Dante Alighieri, a cominciare dalla riflessione
metalinguistica che tra il 1304 e il 1306 svolge nel Convivio e nel De vulgari
eloquentia: nel primo individua il volgare come mezzo per la diffusione del
sapere tra le nuove classi che governano le città, mentre con il secondo
dimostra come un «volgare illustre» possa esistere, al di là delle tante lingue
municipali che segnano il policentrismo italiano.
Il tributo maggiore si deve però alla Commedia, che affrontando ogni genere
di argomento, anche quelli fino ad allora estranei al volgare, contribuisce a
potenziarne in modo sostanziale il lessico e le strutture. Fin dai primi decenni
del Trecento, la popolarità che riscuote un’opera nettamente superiore a
qualunque altra scritta fino ad allora contribuisce a influenzare, in misura
maggiore o minore, la scrittura degli autori successivi e ad affermare il
fiorentino anche fuori dai confini della Toscana.
A stabilizzare la posizione che la lingua di Firenze stava assumendo giungono
anche le opere di Francesco Petrarca e Giovanni Boccaccio. Il primo lavora
con cura incessante alla lingua poetica, cercando di nobilitare il fiorentino
127
piemontese, avrebbe istituito anche nel nuovo Stato una scuola pubblica, con
gratuità e obbligo di frequenza dei primi due anni di scuola elementare.
Successivamente, a partire dal 1877, il sistema scolastico fu regolato dalla
legge Coppino, che portò l’obbligo ai primi tre anni delle elementari e previde,
per il suo mancato rispetto, sanzioni pecuniarie, che purtroppo non furono
sempre di grande efficacia. Solo nel 1904, con la legge Orlando, l’obbligo si
estese fino a 6 anni, prevedendo un sesto anno di scuola elementare per chi
non avesse continuato gli studi.
Nei primi 50/60 anni di vita del nuovo Stato furono però importanti anche altre
componenti della storia sociale, politica ed economica, come, tra gli altri:
• il fenomeno dell’industrializzazione, che si tradusse nello
spostamento dalla campagna di molta parte della popolazione contadina, con
il conseguente abbandono dei dialetti originari a favore di quelli delle città
d’arrivo o, con il tempo, di varietà regionali dell’italiano;;
• la creazione di un’unica amministrazione pubblica, che contribuì a
diffondere un italiano burocratico tendenzialmente arcaico e di non facile
comprensione ma in grado di fissarsi, soprattutto con alcune delle sue formule
ricorrenti, anche nella memoria dei parlanti meno colti;;
• l’istituzione del servizio militare obbligatorio che fece incontrare
soldati di regioni distanti tra loro, costringendoli a optare per l’italiano (peraltro
insegnato nelle scuole militari) o almeno verso forme di italiano regionale;;
• la prima grande ondata di emigrazione degli italiani verso l’estero, che,
nei paesi d’arrivo, fece spesso convergere verso l’italiano persone provenienti
da aree linguistiche diverse, mentre in Italia contribuì indirettamente
all’italofonia grazie all’incitamento a dare un titolo di studio ai propri figli da
parte di chi si era trovato a lavorare senza alcuna istruzione in un paese
straniero;;
• l’affermarsi, a partire dagli anni Ottanta dell’Ottocento, dei
quotidiani, che cominciarono a essere venduti in edicola, raggiungendo un
pubblico sempre più ampio e interessato alle vicende del paese, e aumentando
tirature e introiti anche grazie all’ingresso delle prime pubblicità.
Dopo la metà del Novecento
I primi anni dopo la seconda guerra mondiale non furono semplici per l’Italia,
che appariva stremata dalla durezza conflitto, dalle divisioni politiche che si
erano create con il fascismo e dalla povertà che colpiva la popolazione con
particolare durezza. Dopo poco si avviò, tuttavia, un periodo di grandi
trasformazioni economiche, culturali e sociali, che già a metà degli anni
Cinquanta del Novecento fecero registrare una fase di grande ripresa, legata,
in particolare, allo sviluppo dell’industria meccanica e siderurgica.
Nonostante gli squilibri di una crescita economica che negli anni Sessanta
avrebbe manifestato i propri limiti e prodotto le prime tensioni, i risultati
130
raggiunti fecero parlare di miracolo economico italiano e si tradussero in un
miglioramento delle condizioni di vita dei cittadini e della loro istruzione, con
conseguenze palesi sull’affermazione sempre maggiore dell’italiano.
Nel giro di pochi anni, infatti, si realizzò una sorta di rivoluzione linguistica,
che consentì alla lingua unitaria di bruciare tappe fino a quel momento solo
parzialmente raggiunte, ponendosi sullo stesso piano delle altre grandi lingue
europee. La novità più vistosa fu la presenza sempre più ampia e inarrestabile
dell’italiano nella comunicazione orale e quotidiana, con una conseguente
invasione degli spazi prima occupati dai dialetti.
Nella gran parte delle famiglie formatesi tra gli anni Cinquanta e Sessanta del
secolo scorso, al di là del ceto sociale di appartenenza, si sollecitarono i figli
all’uso dell’italiano, favorendo l’abbandono della lingua locale, che veniva
percepita come esclusione dalla modernità e dal progresso. In realtà non ci fu
mai un’autentica situazione di conflitto: nei confronti del dialetto rimase e
rimane tutt’ora da parte degli italiani un legame affettivo ed emozionale che ne
ha consentito la sopravvivenza e lo spostamento su altre funzioni
comunicative.
I dialetti, dunque, non sono morti ma, soprattutto a causa dell’influenza
dell’italiano, sono mutati con velocità maggiore rispetto al naturale evolversi
delle lingue, anche perché una distribuzione equa e rigorosa tra gli spazi della
formalità da assegnare a una lingua e quelli della colloquialità familiare da
destinare all’altra avrebbe richiesto una programmazione rigida, difficile se non
impossibile da imporre, come sempre accade, a una qualsiasi comunità
linguistica. Nei venti/trenta anni seguiti alla seconda guerra mondiale,
l’adozione dell’italiano per ogni circostanza non fu solo la via più semplice
da seguire, ma fu, da molti punti di vista, anche quella più necessaria, e
se è vero che alcuni, soprattutto a scuola, interpretarono questa necessità
come cancellazione delle lingue materne e imposizione ottusa della lingua
unitaria, è anche vero che per tantissimi giovani provenienti da ambienti e ceti
sociali disagiati la conquista dell’italiano fu uno straordinario e insostituibile
trampolino di lancio.
Divenuto finalmente lingua parlata e adoperata per tutti gli usi, anche l’italiano
ha mostrato cambiamenti vistosi e rapidi: le varietà del suo repertorio sono
diventate più numerose e articolate e si sono stabilizzati gli italiani regionali,
che caratterizzano, almeno nella resa fonetica, l’oralità di tutti gli abitanti della
penisola, anche quando siano interamente italofoni. Si è colmato il divario
che separava lo scritto dal parlato e la lingua della letteratura ha cessato
di essere il modello che aveva così a lungo caratterizzato la storia linguistica
del nostro paese: l’italiano letterario ha vinto poco per volta le sfide che la
modernità gli imponeva, conservando la specificità propria di ogni scrittura che
131
dei giovani allievi in ogni area della penisola. Nel 1962 il percorso di
istruzione successivo alle elementari, che prima si divideva tra la scuola
media destinata a chi avrebbe proseguito gli studi e la scuola di avviamento
professionale, fu unificato e la scuola media divenne sbocco unico e
obbligatorio per chiunque. Alla fine degli anni Settanta, quando si era ormai
consolidato, sia pure in modi e misure differenti, l’uso dell’italiano per ogni
situazione comunicativa, si adottarono nuovi programmi di insegnamento,
che cominciarono a tener conto dell’importanza dei dialetti e del loro
valore anche sul piano culturale. La sempre più ampia riflessione degli studiosi
sull’educazione linguistica portò a ridimensionare il taglio normativo
dell’insegnamento grammaticale e a intensificare l’attenzione sulle
diverse varietà del repertorio italiano e sul modo di adoperarle
adeguatamente in base alle diverse necessità della comunicazione.
Il progresso fu indiscutibile e, se già nel 1951 il tasso di analfabetismo era
sceso al 12,9%, il più recente Censimento generale della popolazione,
condotto dall’ISTAT (Istituto nazionale di statistica) nel 2011, indica un tasso
del solo 1,06%.
Ciò non vuol dire, però, che tutti i problemi relativi a una piena competenza
linguistica o a un’adeguata istruzione di base siano stati risolti: indagini recenti
offrono dati preoccupanti sul cosiddetto analfabetismo funzionale, su
quell’analfabetismo, cioè, che non si traduce nell’incapacità di leggere e
scrivere, ma in un possesso meramente strumentale dell’alfabeto,
insufficiente alla comprensione di strutture sintattiche complesse, di
lessico colto o di testi che presentino grafici e simboli. Ciò non deve far
pensare, come molti fanno, a un italiano che, divenuto nuovamente lingua
sconosciuta, verserebbe in condizioni miserevoli: il paese ha vissuto, come
abbiamo visto, un’autentica rivoluzione linguistica e la lingua unitaria ha
mostrato possibilità inattese dal parlato della quotidianità alla comunicazione
specialistica, alla scrittura letteraria.
Se dunque si confronta la situazione attuale con quella dei primi decenni del
secolo scorso, non si può non confermare che l’italiano gode di ottima salute,
anche se sorgono problemi nuovi provocati dal concorrere di cause diverse,
solo in parte imputabili al sistema scolastico. Dalle indagini di cui si è detto, in
particolare da quelle svolte da OCSE-PIAAC (Organizzazione per la
cooperazione e lo sviluppo economico - Programme for the International
Assessment of Adult Competencies), i cui dati sono stati pubblicati nel 2016,
risulterebbe che più del 40% degli italiani ha una capacità elementare di
analizzare e interpretare i testi, con la pericolosa conseguenza di non riuscire
a rapportarsi alla complessità dei fenomeni sociali, culturali, e politici che lo
circondano.
133
Per quanto riguarda, in particolare, la comprensione dei testi, la ricerca misura
livelli diversi di profondità e implicazioni su una scala che va da un livello
minimo di competenza pari a 1 fino a un livello molto alto pari a 5. I risultati
dicono che in Italia solo il 3% circa degli adulti raggiunge livelli di competenza
linguistica di grado 4 o 5, in contrasto con il quasi 12% della media dei
ventiquattro paesi presi in esame;; il 26% raggiunge il livello 3, mentre più del
27% degli adulti italiani possiede competenze di livello 1 o inferiore, contro il
solo 15% della media degli altri paesi considerati .
A tutto ciò si aggiunge l’esito sconfortante dell’indagine condotta dall’ISTAT nel
2015 sulla quantità e frequenza di lettura nel nostro paese: quasi un italiano su
cinque, infatti, non legge neppure un libro all’anno , né si dedica stabilmente
alla lettura dei giornali, affidandosi preferibilmente all’informazione dei canali
televisivi o dei social network. In un’intervista di qualche anno fa , Tullio De
Mauro ricordava che alla fine degli anni Sessanta la scuola era riuscita a
portare il 100% dei giovani (per tre quinti figli di persone non scolarizzate) alla
licenza elementare;; agli inizi degli anni Novanta, 9 giovani su 10 erano stati
condotti fino alla licenza media e all’apparire degli anni 2000 molto più del 70%
era arrivato al diploma di scuola superiore.
All’alto grado di scolarità raggiunto, tuttavia, oggi non corrisponde un’effettiva
acquisizione di competenze e lo stesso De Mauro, rilevando in numerose altre
occasioni l’espandersi dell’analfabetismo funzionale, osservava con
preoccupazione che moltissimi giovani, pur riuscendo a leggere, scrivere e
comprendere periodi semplici, non riuscivano a dominare o riprodurre periodi
composti da più subordinate e che molti di loro manifestavano, anche alla fine
dell’intero ciclo scolastico, una conoscenza limitata del vocabolario.
È una realtà nuova, con la quale un paese moderno, in grado di affrontare le
sfide del tempo, deve sapersi confrontare in modo costruttivo, servendosi delle
risorse della rete senza farsene dominare, ridando alla scuola e agli insegnanti
la centralità e la dignità che meritano, diffondendo la conoscenza dell’inglese
senza lasciarsene prevaricare, assicurando, dunque, ai propri giovani una
competenza dell’italiano che consenta di scegliere sempre con
consapevolezza il proprio posto nella società.