Lezione 2
Un po’ di storia
Accenni di fonetica e prosodia (II):
accento
05/11/2021
Andrea Bramanti
Prosodia
L’accento è un tratto soprasegmentale la cui presenza permette di individuare le singole parole, ossia le unità
morfologiche intermedie tra il morfema (unità minima) e la frase (unità massima). Senza di esso la catena di
sillabe risulterebbe soltanto una scriptio continua inespressiva e uniforme.
Perciò in una catena sillabica avremo tante parole quanto sono le sillabe accentate. Si parla non a caso di
funzione centralizzante dell’accento: la sillaba accentata ha la capacità di subordinare altre sillabe atone che si
aggregano intorno a essa. Es. velocemente: veloceménte oppure velóce e ménte.
La sillaba accentata comporta per la sua pronuncia un aumento dell’intensità (cioè l’aria prodotta per
articolarla) o dell’altezza (ossia la frequenza delle vibrazioni prodotte dalle corde vocali). Questa credenza ha
comportato che per molto tempo si distinsero le lingue tra quelle ad accento intensivo (es. l’italiano) e quelle ad
accento d’altezza (o melodico, es. il latino): scuola tedesca da una parte e scuola francese dall’altra.
Ci si è resi conto, però, che in realtà entrambe le caratteristiche convivono sempre nella produzione di ogni
singolo suono. Ma perché allora una comunità di parlanti percepisce una caratteristica e non l’altra?
Fono ≠ Fonema
Per comprendere questa fenomeno dobbiamo distinguere tra fono e fonema. Nella lingua possono essere riprodotti
molti suoni/foni, ma non tutti questi vengono riconosciuti dai parlanti come aventi una funzione linguistica all’interno
del proprio sistema comunicativo.
In altre parole potremmo dire che gli alfabeti delle singole lingue sono il campionario selezionato di foni i quali, presi
singolarmente o in combinazione tra loro, vengono riconosciuti dalla comunità dei parlanti come gli unici aventi una
funzione all’interno del sistema della lingua, ossia ad essere riconosciuti come fonemi.
Ovviamente ogni fonema ha delle proprie caratteristiche fonetiche, ma non tutte sono state tipizzate dai parlanti, ossia
gli è stato conferito un valore fonologico. La r che sia apicale o uvulare (la r ‘moscia’) è indifferente, perché seppur
tale differenza fonica è percepita dai parlanti romanzi, come da quelli anglosassoni o germanici, non ha alcuna
influenza in termini di sistema linguistico. L’importante è che sia r e non s, ossia che sia distinguibile da altri fonemi
e permetta quindi di disambiguare caro da caso.
Lo stesso vale anche per l’accento. Il fatto che le lingue romanze abbiano un accento intensivo non significa che
l’elemento melodico (ossia l’altezza) non sia presente. Semplicemente non è percepita dai parlanti, perché essi non vi
hanno attribuito un valore fonologico, ma solo fonetico, ossia risulta una caratteristica che in nessun modo influisce
sul sistema linguistico. Soltanto l’intensità ha quindi valore distintivo. (Ma l’italiano per es. ricorre all’aspetto
melodico per l’intonazione della frase che distingue varie tipologie, ma si accompagna anche a segni grafici: ?, !).
L’accento latino
I greci antichi avevano un accento melodico, ce lo dicono i loro grammatici. Se dunque i latini hanno ereditato
la terminologia greca, acutus, gravis e circumflexus, va da sé che anche per i Latini a partire almeno dal 240 a.C.
fino ai primi secoli dell’impero avevano anch’essi un accento melodico.
Col passare delle generazione sempre di più l’unità linguistica dell’impero si infranse e la spinta delle parlate
alloglotte portò nel giro di molteplici generazioni a un cambiamento nella coscienza uditiva dei parlanti delle
strutture uditive che vide l’affermazione dell’intensità a scapito dell’altezza.
La sillaba
Come abbiamo detto l’accento permette di spezzare l’interrotta catena sillabica, individuando le singole parole.
Di queste la sillaba, atona o tonica, ne costituisce l’unità minima dal punto di vista fonologico, in quanto è la più
piccola unità dotata di una sua autonomia.
La sillaba è costituita infatti da uno o più fonemi, ossia quei foni dotati di una funzione distintiva. Essa viene
scolasticamente identificata con le vocali: tante vocali, tante le sillabe. Questo è vero, ma sappiate che la
distinzione tra vocali e consonanti è parzialmente arbitraria, perché si tratta sempre di fonemi che sono sullo
stesso piano. Si pensi per es. al nome slavo di Trieste, Trst, qui è la r la «vocale».
In ogni caso, la sillaba perché si costituisca ha bisogno di un fonema vocalico, intorno al quale poi vi possono o
meno essere dei fonemi consonantici. Le relazioni tra queste due tipologie definisce 4 configurazioni generali
della sillaba:
1. a- di amo: 1 sola vocale
2. -mo di amo: cons. + voc.
3. al- di alto: voc. + cons.
4. fal- di falso: cons. + voc. + cons.
La sillaba è l’unità minima della catena parlata costituita da vocale in combinazione o meno con una
consonante precedente o seguente o in entrambe le posizioni.
Quantità della sillaba
Ogni fonema, che sia vocalico o consonantico, ha una sua durata di emissione. Gli studi fonetici hanno
dimostrato che la durata è massima nella vocale, minore nella consonante di chiusura e minima in quella di
apertura.
Si parla di quantità più precisamente quando per una comunità di parlanti la durata dell’emissione di un suono
assume un valore distintivo. Nel caso dei Latini solo la quantità della vocale e della consonante finale avevano
tale valore. Ciò significa che le quattro configurazioni generali delle sillaba possono ridursi in latino a 2 sole
tipologie:
1. Sillabe senza consonante di chiusura: sillaba aperta, ossia che finisce in vocale
2. Sillabe con consonante di chiusura: sillaba chiusa
La quantità sillabica si è persa nelle lingue romanze per l’emersione di altri elementi distintivi che ne hanno
surrogato le funzioni. Si pensi in italiano alla qualità delle vocali.
Ovviamente, però, non esiste un’unità di misura per indicare la quantità sillabica: i Latini distinguevano soltanto
le sillabe lunghe e le sillabe brevi. Lo stesso rapporto di una lunga = due brevi, che qualcuno di voi ha imparato
a scuola, è per l’appunto una convenzione e non certo un fatto di lingua.
Quantità della sillaba
Ora, in una sillaba aperta la quantità è determinata dalla quantità della sola vocale. Dunque sarà sillaba breve se
la vocale è breve, sarà lunga se la vocale è lunga.
In una sillaba chiusa invece la quantità sillabica è sempre lunga. La quantità della vocale si somma a quella
della consonante. Quindi se anche la vocale fosse breve essa si allungherebbe per via della presenza della
quantità, pur minore, della consonante finale. Se poi la vocale è già di per sé lunga, è chiaro allora che una sillaba
chiusa con vocale lunga sarà più lunga di una sillaba chiusa con vocale breve. Però, ai Latini questa eventualità
non importava perché essi distinguevano soltanto le lunghe dalle brevi, senza alcun tipo di gradazione.
Una sillaba chiusa è sempre lunga a prescindere dalla quantità delle vocale in essa contenuta
1. făcere = sillaba breve aperta perché ha vocale breve
2. fēci = sillaba aperta lunga perché ha vocale lunga
3. făctos = sillaba chiusa lunga anche se con vocale breve
4. factōs = sillaba chiusa lunga con in più vocale lunga
È breve soltanto la sillaba aperta con vocale breve. Tutte le altre sono lunghe
Tale struttura sillabica spiega meglio perché i dittonghi sono lunghi. Essi non sono propriamente l’insieme di due
vocali che però costituisce una sillaba. Essi sono l’incontro tra una vocale breve sillabica e un elemento asillabico
in tutto e per tutto assimilabile a una consonante. Perciò i dittonghi sono lunghi perché sono a tutti gli effetti delle
sillabe chiuse. I dittonghi con vocale lunga nel latino storico sono spariti: o si sono abbreviati, o hanno perso
l’elemento asillabico, o si sono monottongati.
Sillabazione
La sillabazione latina è pressoché identica a quella italiana. Se non per alcune accortezze.
1. Come due consonanti consecutive si separano, così anche le consonanti doppie: x = cs e z = ds
2. La i intervocalica ha funzione consonantica (tranne nei grecismi) e dunque chiude la sillaba precedente:
maius = mai-ius
3. La h è ininfluente.
4. Non c’è la s impura italiana: per cui ma-gis-ter
5. La gn e sc davanti a vocale palatale (e e i) non sono dei digrammi, ma sono due fonemi distinti, perciò
vanno separati: mag-nus, dis-cen-do
6. La qu non è un digramma ma la labiovelare sonora: q seguita da u consonantica. Dunque è inscindibile: a-
qua, e-quus
7. Se gu- + voc. è preceduto da n si tratta allora della labiovelare sonora e dunque, come sopra: an-guis. Ma se
la n non c’è, allora: ar-gu-o
8. Il gruppo muta cum liquida, ossia le consonanti occlusive (p b; c g; t d) + l e r. Esse, come impropriamente
è detto, non fanno posizione. Si tratta in realtà di un gruppo consonantico che non si separa, andando a
chiudere così la sillaba precedente, perché nelle loro differenti combinazioni (pl, pr etc.) si trovano
all’inizio di parola. Quindi pa-trem. Anche se nella metrica, per esigenze di versificazione, potremmo
trovare anche pat-rem. (Attenzione ai composti, perché lì prevale il fattore semantico: ab-ripio).
Leggi dell’accento
Esistono 4 leggi che regolano il funzionamento dell’accento:
1. Legge del trisillabismo: l’accento latino non va oltre la terz’ultima sillaba.
2. Legge della baritonesi: l’accento latino non cade mai sull’ultima sillaba, che è sempre grave.
3. Legge della penultima: l’accento latino cade sulla penultima sillaba se questa è lunga, altrimenti reclina
sulla terzultima.
4. Legge dell’ènclisi: entra in gioco quando le parole enclitiche, piccolo particelle che non sono di per sé
atone, ma perdono l’accento per il carattere accessorio del loro significato o per l’esiguità del corpo
fonetico (in latino le enclitiche son tutte monosillabiche), si appoggiano alla parola precedente formando
una nuova unità fonica. Tale unità per le leggi del trisillabismo impone un nuovo accento, l’accento
d’enclisi, che si pone sulla sillaba che precede l’enclitica, prescindendo dalla sua quantità: rosăque.
Le enclitiche sono: -que -ne -ce -ve -met -pse -pte -dem -nam -dum e -quis.
Quando il nesso encliticale non è più riconosciuto come tale, ma si grammaticalizza diventando una nuova
parola, ossia l’unità fonica assume un nuovo valore semantico, si parla di epectasi. Per es. denique «infine» =
de + ne + que. O la differenza tra ítaque «pertanto» e itáque = et ita.
Particolarità
1. Composti di facio
I composti di facio, come vedremo, si dividono in due gruppi:
a. facio + i preverbi: conficio
b. facio + avverbio o temi verbali: satisfacio, cale-facio
A differenza del primo gruppo, i componenti del secondo gruppo non sono dei veri e propri composti, ma sono
elementi giustapposti che possono trovarsi scritti separati e che dunque mantengono una propria identità anche
per quel che riguarda l’accento. Perciò il primo elemento si comporta da proclitico e facio continua ad avere
l’accento come se fosse nella sua forma semplice: calefís allora non infrange la legge della baritonesi.
2. Ossitonie secondarie
Come per calefís, esistono altri casi in cui l’accento cadendo sull’ultima sembra infrangere la legge dell’accento.
Ma in realtà si tratta di un’ossitonìa secondaria, ossia l’accento non era originariamente sull’ultima sillaba, ma
viene a trovarsi lì a seguito di fenomeni che portarono alla scomparsa dell’ultima sillaba, atona, originaria.
c. apocope della e breve di -ce: illic < illice
d. apocope della e breve di -ne: satin < satisne
e. apocope della e breve degli imperativi di 2 sing. pres. ind. di dico e duco: dic e duc
f. sincope della i breve nella sillaba finale dei nomi in -atis: Maecenas < *Maecenatis
g. sincope di u semivoc. tra vocali dello stesso timbro: perf. audit < audiit < audiuit
h. sincope di ui nei perfetti del tipo fumat < fumavit
Particolarità
3. Volucres
Ricordate che il differente comportamento di muta + liquida condiziona il posizionamento dell’accento:
volucres ha la u breve, ma se scomponiamo il gruppo consonantico, la sillaba si chiude e dunque diventa lunga e
l’accento cade sulla u. Al contrario, se la vocale che precede questo gruppo consonantico è già lunga, allora
qualunque tipo di sillabazione non creerà alcun effetto. Salubris verrà sempre pronunciata con accento sulla u
che è lunga.
4. Abiete
Esistono delle parole proceleusmatiche ossia con quattro brevi consecutive e che dunque hanno l’accento sulla
terz’ultima. Per esigenze metriche però i poeti sfruttavano la tendenza della i interna prevocalica a
consonantizzarsi al pari della i iniziale prevocalica (es. iam). Questo porta che le sillabe da 4 passano a 3 e che
la sillaba iniziale da breve aperta (a-bi-e-te) diventa chiusa lunga (ab-ie-te) e così l’accento reclina sulla a.
Tips & Tricks
Come sapere dove cade l’accento? Ovviamente, come avrete inteso, il vero dubbio si pone soltanto per le parole
con più di due sillabe che hanno la penultima sillaba aperta. Per tutte le altre: monosillabi, bisillabi (che non
siano tronchi!) e per le parole polisillabe con penultima sillaba chiusa non vi è incertezza.
Traina e Bernardi Perini forniscono una ricca casistica molto utile per avere un quadro del comportamento
prosodico di varie categorie di parole, offrendovi una serie di suggerimenti e scorciatoie.
Se i dittonghi e le sillabe chiuse hanno una quantità immediatamente riconoscibile, problematica è la natura delle sillabe
aperte, la cui natura dipende dalla quantità della vocale, non sempre riconoscibile senza l’ausilio del vocabolario.
Vi sono però alcune piccoli indizi che possono aiutarci a identificare la quantità sillabica, senza dover
ricorrere sempre al vocabolario (il cui uso verrà trattato successivamente).
1. Vocalis ante vocalem corripitur: se sillaba aperta è seguita da vocale appartenente a sillaba successiva la
sillaba si abbrevia generalmente: docĕ-am
2. Le consonanti doppie (x e z) si sillabano come c+s e s+d, quindi chiudono la sillaba: contēxi perché si
sillaba con-tec-si, ma contĕgo
3. Sono brevi in latino le e e le o che in italiano diventano ie e uo, sŏnet perché suona, convĕnit perché
conviene
4. Vi è poi il fenomeno dell’apofonia latina. Si tratta di un’alternanza vocalica per la quale le vocali che
non si trovano né nella prima né nell’ultima sillaba si indeboliscono mutando in e i u. Noi lo
incontreremo presto sia nella flessione del nome che del verbo, ma in questa sede è utile perché tale
fenomeno fonetico risponde a un principio quasi universale della linguistica storica, ossia che se una
vocale muta allora è breve. Pensiamo a făcio. Come possiamo sapere noi neofiti del latino che la a è
breve, perché in un suo composto, conficio, quella a è diventata i. E al contrario se individuo in perficis
il fatto che si tratta di un composto di facio, allora ricavo la quantità della penultima sillaba e
pronuncerò correttamente pérficis e non perfìcis. Ma lo stesso vale per i nomi: il nominativo regimĕn
come faccio a sapere che ha la e breve. Semplice perché il genitivo è regiminis: se la e si è chiusa in i
significa che è breve.
Vi sono poi altri accorgimenti per conoscere la quantità delle sillabe aperte, ma non è qui il caso di assediarvi
con troppe eccezioni.
Perché tanto insistenza sul corretto riconoscimento della quantità vocalica? Senza di essa
non potremmo sapere come pronunciare le parole latine
L’accento in latino è definito da 3 leggi.
1. Legge del trisillabismo: l’accento non va mai oltre la terzultima sillaba
2. Legge della penultima: l’accento cade sulla penultima sillaba se e solo se questa è lunga altrimenti si
sposta sulla terzultima
3. Legge della baritonesi: l’accento non cade mai sull’ultima sillaba
Casi particolari:
4. Ossitonie secondarie: trattasi di parole con accento sull’ultima ma non perché è l’accento che si è
spostato, ma perché l’ultima sillaba è caduta a seguito dell’uso: per es. gli avverbi con particella deittica –
ce: istúc(e), illúc(e), adhúc(e)
5. Accento d’enclisi: ci sono parole dette enclitiche che prive di accento proprio si appoggiano alla parole
che le precede: -quĕ ‘e’, -vĕ ‘o’, –nĕ ‘forse che?’, comportando una quarta legge, ossia che in presenza di
una enclitica, l’accento si sposta sulla sillaba precedente l’enclitica: puélla fa puelláque
Sappiate, in ogni caso, che la conoscenza della quantità è abilità che si acquisisce con una
lunga frequentazione, quindi non preoccupatevi se vi capiterà più volte di sbagliare la
pronuncia.