Sei sulla pagina 1di 25

ESAME DI FILOLOGIA ROMANZA

Linguistica.
Le lingue romanze, chiamate anche neolatine, sono diffuse in Europa, in America e, in misura minore, in Africa, Asia e Oceania. Nel
complesso, le lingue romanze contano circa 750 milioni di parlanti nativi. La più diffusa è lo spagnolo, seguita dal portoghese, dal francese,
dall’italiano, dal rumeno, dal catalano e dal galego. È molto difficile quantificare la diffusione delle lingue nel mondo e distinguere con precisione
la conoscenza di una lingua nativa (L1) da quella di una lingua seconda (L2), e la competenza produttiva (la capacità di parlare o scrivere una lingua)
da quella ricettiva (la capacità di capire o leggere una lingua). Per una serie di circostanze storiche, alcune lingue romanze hanno subìto un processo
di elaborazione e standardizzazione. Queste lingue sono considerate generalmente prestigiose e utilizzate in un ampio spettro di situazioni
comunicative.

Accanto alle lingue occorre considerare i dialetti. Nello spazio linguistico romanzo distinguiamo dialetti primari, discendenti direttamente dal
latino, e dialetti secondari, discendenti da un’altra varietà romanza. I dialetti sono lingue poco standardizzate, con debole tradizione letteraria e
scarsa codificazione grammaticale. Essi non godono, di solito, di grande prestigio presso gli stessi parlanti; la loro persistenza nel mondo
contemporaneo si deve al valore identitario attribuitogli dalla comunità. I dialetti romanzi formano un continuum, in cui la comprensibilità è
normalmente proporzionale alla prossimità geografica. Il numero dei dialetti romanzi non è facilmente precisabile. Occorre sottolineare come la
distinzione fra lingue e dialetti è puramente convenzionale e, in molti casi, tutt’altro che certa. Si tratta di una distinzione che riguarda la diffusione
nello spazio di una varietà linguistica e le sue funzioni nel contesto sociale. Una lingua comprende diversi livelli, o sottocodici, adoperati dai parlanti
in diverse situazioni comunicative; i dialetti offrono ai parlanti meno opzioni, almeno sul piano stilistico e lessicale. La percezione dei dialetti come
forme “corrotte” della lingua non ha alcun fondamento scientifico, e riflette solo lo scarso prestigio sociale goduto dalla maggior parte dei dialetti.
Per eludere il problema di distinguere caso per caso lingue e dialetti geneticamente affini, i linguisti ricorrono al termine neutro di “varietà
linguistica”, che può riferirsi sia alle une che agli altri.

Paragonando l’attuale diffusione delle lingue romanze con quella antica del latino, si possono osservare variazioni notevoli.

• Abbiamo in primo luogo un’ampia zona di sovrapposizione, che chiamiamo Romània continua. In qualche caso, la continuità con la
situazione antica è più apparente che reale.
• In molte aree un tempo latinizzate non si parlano oggi varietà romanze: è la cosiddetta Romània perduta. La latinità è stata cancellata
dalle province di Britannia, Raetia e Noricum dall’arrivo di popolazioni di lingue germaniche, alemanni, franchi, marcomanni, ostrogoti,
sassoni ecc.
• Le lingue romanze sono ad oggi parlate anche in territori dove non si è mai parlato il latino: la Romània nuova, che comprende l’America
centrale e meridionale, Québec e alcuni stati degli USA. Questa diffusione delle lingue romanze al di là degli spazi dell’antico Impero
Romano è legata essenzialmente all’espansione coloniale spagnola, portoghese e francese a partire dal Cinquecento.

I concetti di Romània continua, perduta e nuova tengono conto di due sole dimensioni della variazione linguistica: quella nello spazio (diatopica)
e quella nel tempo (diacronica). Per avere un quadro più realistico bisogna considerare anche la variazione attraverso gli strati sociali
(diastratica) e i contesti d’uso (diafasica).

Nelle società complesse si osserva in genere la compresenza di diverse lingue e/o dialetti, non necessariamente usati negli stessi contesti né dagli
stessi parlanti. L’asimmetria negli usi e nelle competenze linguistiche è molto comune e può essere analizzata ricorrendo ai concetti di
bilinguismo, cioè la padronanza di due lingue/dialetti, e di diglossia, cioè la distribuzione funzionale di due lingue/dialetti all’interno di una
comunità. Bilinguismo e diglossia non sono mutuamente esclusivi: la conoscenza di due lingue/dialetti può essere diffusa in una comunità che
attribuisce stabilmente funzioni diverse all’una e all’altra, ma può anche essere ristretta a piccoli gruppi, che sono i soli in grado di dominare la
totalità delle situazioni comunicative; può anche accadere che una comunità nel suo insieme utilizzi due lingue/dialetti senza stabili distinzioni
funzionali, oppure che utilizzi una sola lingua/dialetto poco o nulla differenziata al suo interno. Il panorama può essere ancora più articolato quando
entrano in gioco più di due lingue/dialetti. In tal caso, si parla di multilinguismo (o plurilinguismo). L’insieme delle lingue e dei dialetti
esistenti presso una comunità parlante è detta repertorio linguistico.

Nel dettaglio di alcuni paesi…

• Il Portogallo è caratterizzato dalla scarsa frammentazione dialettale e dall’assenza di rilevanti comunità alloglotte (di lingue diverse). Il
portoghese è la lingua ufficiale; il mirandese è riconosciuto come lingua co-ufficiale in quattro municipalità nel nordest del Paese.
• In Spagna, lo spagnolo condivide lo status di lingua ufficiale con il basco, il galego e il catalano. La Costituzione del 1978 stabilisce
l’obbligatorietà della conoscenza dello spagnolo; non è invece obbligatoria la conoscenza delle lingue co-ufficiali.
• In Francia, il francese è la sola lingua ufficiale dello stato. Nel 1951 la legge Deixonne ha introdotto l’insegnamento scolastico facoltativo
di alcune lingue minoritarie: il basco, il bretone, il catalano e l’occitano.
• In Belgio sono riconosciute tre lingue ufficiali: il francese, il fiammingo e il tedesco, ciascuna delle quali è usata da una delle comunità
nazionali distribuite in tre regioni (Fiandre, Vallonia, Bruxelles-capitale).
• Il Lussemburgo conosce un tipo particolarissimo e piuttosto armonioso di trilinguismo: delle tre lingue nazionali, il lussemburghese, il
francese e il tedesco, la prima è parlata dalla maggior parte della popolazione nativa, la seconda è usata nell’amministrazione e nella
legislazione, nei giornali e in televisione, e la terza è impiegata nei primissimi anni della scolarizzazione e condivide con il francese il
ruolo di lingua scritta.
• Ancora più complesso è il caso della Svizzera, che riconosce quattro lingue nazionali: francese, tedesco, italiano e romancio, la cui
distribuzione varia nei suoi ventisei cantoni. Il plurilinguismo istituzionale svizzero coinvolge l’amministrazione, l’istruzione, l’esercito,
ecc. di soli quattro cantoni, mentre nella maggior parte del Paese la situazione è quella di monolinguismo territoriale.
• In Italia, i dialetti sono molto numerosi e presentano una notevole distanza strutturale tra di loro e rispetto all’italiano standard. Secondo
le stime dell’ISTAT del 2015, il 45,9% degli italiani al di sopra dei sei anni si esprime in famiglia prevalentemente in italiano, il 14%
prevalentemente in dialetto, il 32,2% alterna italiano e dialetto, il resto ricorre a un’altra lingua. L’italiano è lingua materna di moltissimi
parlanti, per questo si è proposta l’etichetta di dilalia (i domini di utilizzo delle due lingue non sono rigidamente compartimentati,
come invece avviene in caso di diglossia) piuttosto che quella di diglossia. Fra l’italiano standard e i dialetti, inoltre, si colloca un continuum
di varietà intermedie di diffusione (quasi) generale. La Costituzione del 1948 prevede la tutela delle minoranze linguistiche, ma la legge
di attuazione in materia risale soltanto al 1999. La legge sancisce il carattere ufficiale dell’italiano e riconosce e tutela l’esistenza delle
minoranze di lingua francese, francoprovenzale, occitana, tedesca, ladina, friulana, slovena, sarda, albanese, catalana, greca e croata.
Con la legge del 1999 si rende possibile l’insegnamento delle lingue minoritarie nei territori di pertinenza e se ne permette l’uso nella
pubblica amministrazione, nell’onomastica e nella toponomastica.
• Il rumeno è la sola lingua ufficiale della Romania, dove pure esistono cospicue minoranze di lingua ungherese e romani (dei rom), e in
misura minore tedesca, ucraina, russa, turca, ecc.
• In Moldavia la lingua ufficiale è il rumeno. Al russo si riconosce lo status di lingua di comunicazione interetnica, al gagauzo quella di
lingua co-ufficiale nella regione autonoma di Gagauzia. Oltre al rumeno usato in Moldavia e Romania, occorre considerare anche le
varietà di rumeno meridionale usate in diversi Paesi balcanici.

Lo spazio linguistico romanzo europeo si è arricchito di un’altra importante componente, quella delle lingue delle comunità di lavoratori immigrati.
Queste lingue non hanno finora ricevuto alcuna forma di riconoscimento o tutela, a differenza delle lingue e dei dialetti delle minoranze “storiche”.

Consideriamo a questo punto lo spazio linguistico romanzo extraeuropeo.

• Il Canada ha due lingue ufficiali, l’inglese e il francese. Negli USA risiedono numerose comunità di lingua romanza, la più importante
delle quali è senz’altro quella ispanica. Si calcola che gli ispanici siano oggi ca. 45 milioni, pari al 15% della popolazione statunitense. Lo
spagnolo è la lingua di uso familiare, informale e soprattutto orale, mentre l’inglese è di solito la lingua della vita pubblica. Negli ultimi
anni, per influenza del movimento US English, che vede nelle lingue straniere un pericolo per la società americana, molti Stati hanno
dichiarato l’inglese lingua ufficiale: si tratta di politiche innecessarie e contrarie alla tradizione americana di tolleranza linguistica. Il
contatto fra l’inglese e lo spagnolo ha prodotto numerosi fenomeni di interferenza, dai prestiti linguistici ai calchi sintattici. Molti parlanti
pensano che esista una vera e propria lingua mista anglo-spagnola, lo spanglish.
• L’America Latina è caratterizzata da una grande diversità linguistica: oltre allo spagnolo e al portoghese, esistono oltre 700 lingue
amerindiane. Negli anni Ottanta e Novanta del Novecento le costituzioni di molti Paesi latinoamericani hanno ufficialmente riconosciuto
il carattere multietnico e pluriculturale delle loro popolazioni e di conseguenza l’opportunità di politiche linguistiche di tutela. Alcuni
Paesi dell’America Latina sono stati investiti, a partire dagli ultimi decenni dell’Ottocento, da un intenso flusso migratorio proveniente
dall’Europa. Fino al secondo dopoguerra l’emigrazione italiana è essenzialmente dialettofona e proviene tanto dalle regioni del nord
quanto da quelle del sud. L’incontro con la popolazione locale, di lingua spagnola o portoghese, ha avuto effetti importanti sul piano
linguistico.

Il contatto fra lingue e/o dialetti non produce in genere fenomeni di interferenza. Le cosiddette lingue di contatto, pidgin e creoli, emergono in
condizioni particolari e si collocano ai confini dello spazio romanzo non solo in senso geografico, ma anche in senso linguistico.

• I pidgin sono lingue nate in situazioni di multilinguismo dal contatto fra gruppi che parlano lingue non reciprocamente comprensibili e
non dispongono di altri strumenti di comunicazione. Il pidgin è sempre una L2. Lo scenario tipico della formazione dei pidgin è quello
legato all’espansione coloniale europea. Il contatto è limitato a pochi specifici contesti e non c’è integrazione fra i gruppi: manca perciò
la possibilità per i membri dell’uno di attingere pienamente alla lingua dell’altro. Nella formazione di un pidgin gioca normalmente un
ruolo preminente una sola lingua (detta “lessificatrice”); il contributo delle altre lingue (dette “di sostrato”) è più limitato e non sempre
di facile identificazione. Il lessico copre solo i campi semantici relativi alle situazioni proprie del contatto, elimina le parole funzionali e
fa largo uso di elementi polisemici, manca quasi del tutto la morfologia flessiva e derivazionale e la sintassi è limitata alla coordinazione
di brevi frasi. I pidgin possono estinguersi una volta venuta meno l’occasione del contatto fra i parlanti, ma anche restare in uso per
lunghi periodi di tempo.
• In particolari circostanze può anche accadere che un pidgin diventi lingua materna di una generazione di parlanti. Ciò porta alla nascita
di un creolo, una lingua a pieno titolo impiegata in una varietà di situazioni comunicative. Esistono nel mondo decine di creoli a base
romanza. Il creolo romanzo più diffuso è chiamato dai parlanti creyol. Si tratta di un creolo a base francese, lingua ufficiale della Repubblica
di Haiti. Esso è L1 della maggioranza della popolazione. Il capoverdiano è un creolo portoghese parlato dagli abitanti delle isole del Capo
Verde. Formatosi nel XVII secolo, il papiamentu sembra attingere allo stesso sostrato del capoverdiano e di altri creoli afro-portoghesi,
ma ha per lingue lessificatrici lo spagnolo e il nederlandese, e solo marginalmente il portoghese. Il palenquero è un creolo spagnolo. Il
termine “palenque” si riferisce a un insediamento fortificato fondato da schiavi fuggitivi. Il sostrato del palenquero è costituito da varie
lingue bantu.

Molto più rare dei pidgin e dei creoli sono le lingue miste, nate dalla fusione di due lingue in condizione di bilinguismo generalizzato. In questo
caso la nuova lingua emerge per motivi espressivi o identitari. Un caso di eccezionale interesse è rappresentato dal michif. Parlato come L1 dai
discendenti di unioni fra donne amerindiane di lingua cree e commercianti e avventurieri di lingua francese, il michif combina il sistema verbale
del cree con il sistema nominale del francese.

Le lingue romanze si possono classificare con criteri diversi. La più semplice e neutrale delle classificazioni è quella di tipo geografico, che
distribuisce le lingue e i dialetti ad esse affini in vari gruppi:

• balcanoromanzo (rumeno e dalmatico)


• italoromanzo (italiano e sardo)
• retoromanzo (romancio, friulano)
• galloromanzo (occitano, francoprovenzale)
• iberoromanzo (portoghese, catalano, castigliano)

Questa classificazione si deve al linguista Carlo Tagliavini. Il catalano rappresenta un ponte tra il gruppo iberoromanzo e quello galloromanzo, il
dalmatico un ponte tra il gruppo italoromanzo e quello balcanoromanzo. La classificazione delle varietà romanze può avere una base tipologica più
che storica: in questa prospettiva Georg Bossong ha proposto di distinguere le lingue romanze che hanno sistemi vocalici più complessi e/o vocali
anteriori arrotondate, da quelle che hanno sistemi vocalici più semplici.

Occitano, francoprovenzale, dalmatico, retoromanzo e sardo non presentano lo stesso grado di compattezza di portoghese, spagnolo, catalano,
francese, italiano e rumeno. L’occitano ha alle spalle una tradizione importante di scrittura letteraria e documentaria. Quanto al francoprovenzale
e al retoromanzo, essi sono stati individuati come entità a sé stanti nello spazio romanzo in epoca relativamente recente. Più complessa e difficile
da ricostruire, data la scarsa documentazione, è la situazione del dalmatico, nome attribuito convenzionalmente alle varietà romanze autoctone
usate un tempo nelle città della Dalmazia e oggi del tutto estinte. Ancora diverso è il caso del sardo, la cui individualità è stata precocemente
riconosciuta dagli studiosi, caratterizzato però da una forte frammentazione dialettale. Portoghese, catalano, spagnolo, francese, italiano e rumeno
si possono considerare lingue tetto, cioè sovraordinate ad altre varietà strettamente imparentate usate nello stesso territorio.

Il latino, appartenente al ramo italico della famiglia delle lingue indoeuropee, è originariamente diffuso in una zona assai ristretta nella bassa valle
del Tevere. Le sue prime documentazioni risalgono al VI secolo a.C.

La diffusione del latino è strettamente legata all’espansione politica e militare di Roma. A partire dalla sua leggendaria fondazione, Roma sperimenta
diverse forme di governo, e agli sviluppi sul piano politico-istituzionale corrisponde una profonda trasformazione del ruolo e della vocazione della
città. Si assiste a un lento processo di integrazione sociale e culturale di genti di origine non romana né latina. La romanizzazione della Penisola
italiana e delle province passa per una serie di tappe intermedie e culmina nella concessione della cittadinanza alle comunità latine e agli alleati
rimasti fedeli a Roma nella guerra ai suoi antichi socii italici. La latinizzazione linguistica costituisce un elemento importante nel processo di
romanizzazione: il latino è la lingua dell’amministrazione e dell’esercito, del diritto e dell’istruzione scolastica. La diffusione del latino va vista
come un fenomeno complesso, variamente articolato sul piano diacronico, diatopico e diastratico. La latinizzazione trova però un limite quasi
insuperabile nel radicamento del greco nella parte orientale dell’Impero. Qui il latino vede ristretti i suoi spazi non solo come lingua veicolare e
di cultura, ma anche come lingua dello Stato.

In tutto l’arco della sua lunga storia, il latino si confronta sempre e ovunque con altre lingue. L’Italia antica è caratterizzata da una notevole
eterogeneità etnolinguistica. Molte lingue sono parlate anche nei territori conquistati da Roma al di fuori dell’ambito italiano; di alcune lingue
conosciamo appena i nomi o una manciata di parole, mentre di altre possediamo attestazioni più ricche. I romani non mostrano alcun interesse per
le altre lingue, fatta eccezione per il greco e, in minor misura, l’etrusco e il punico. Il processo di latinizzazione si conclude in genere con la
scomparsa delle lingue autoctone: l’assimilazione linguistica, però, ha tempi e modalità molto variabili e le diverse lingue possono convivere a
lungo con il latino, in condizioni di bilinguismo e/o diglossia. Poche delle lingue esistenti prima della conquista romana sono sopravvissute: fra
queste il basco, il berbero o l’albanese, le lingue celtiche insulari parlate in zone dell’antica Britannia come il Galles e la Cornovaglia, l’aramaico e
naturalmente il greco. La questione delle interferenze tra il latino e le lingue con cui è entrato in contatto resta sfuggente, a causa della natura delle
fonti a nostra disposizione, della lunga durata dei processi di cambiamento linguistico e della difficoltà di individuarne in modo univoco le cause.

• Gli studiosi parlano di sostrato in riferimento all’influsso esercitato sul latino di una certa area da una lingua autoctona estintasi in
seguito alla latinizzazione dei suoi parlanti. Le spiegazioni di tipo sostratistico sono problematiche da vari punti di vista: la nostra
conoscenza delle lingue di sostrato del latino non è sempre tale da fornire un’idea precisa del loro sistema fonologico e grammaticale;
inoltre, la coincidenza fra l’area antica della diffusione di un determinato fenomeno e quella moderna è spesso molto approssimativa.
Nel complesso, il lessico è considerato l’unico settore in cui l’influenza delle lingue di sostrato sia indiscutibile: attraverso la mediazione
di parlanti bilingui, entrano nel latino moltissime parole delle lingue locali, scomparse proprio in seguito al processo di latinizzazione.
• Si parla, invece, di superstrato del latino in riferimento all’influsso esercitato sul latino tardo dalle lingue parlate da gruppi dominanti
sul piano politico-militare, ma poi linguisticamente e culturalmente assimilati. Come nel caso del sostrato, non è sempre facile
individuare il ruolo del superstrato in rapporto all’evoluzione del sistema fonologico e grammaticale del latino tardo o delle lingue
romanze. Alcuni germanismi sono entrati in latino in un’epoca precedente le grandi migrazioni e sono pertanto da attribuire ai contatti
dei romani con le popolazioni germaniche residenti nella provincia di Germania o nella Germania libera al di là del Reno, oppure con i
soldati germanici entrati in gran numero nell’esercito imperiale.
• Si parla di adstrato nel caso di lingue di territori contigui, il cui contatto non porta alla scomparsa di una delle due. La distinzione fra
lingue di sostrato, superstrato e adstrato non è sempre evidente, è difficile distinguere con precisione le diverse fasi.
La lingua che ha con il latino più relazioni strette è il greco: il rapporto è così intenso che si è parlato di una vera e propria simbiosi linguistica
greco-latina. Il numero dei grecismi penetrati nel latino per vie diverse è enorme. Numerosi sono anche i calchi, cioè le parole create con materiale
lessicale latino sul modello greco. La profondità e la durata dei contatti fra greco e latino rende plausibile ipotizzare influenze che vanno al di là del
piano lessicale. Naturalmente, gli influssi vanno anche nell’altra direzione, dal latino al greco, e configurano una tendenza alla convergenza fra le
due lingue, almeno sul piano morfosintattico.

La condizione in cui lavorano latinisti e romanisti è molto favorevole se paragonata a quella di colleghi di settori affini, come i germanisti, perché
i primi posseggono una ricchissima documentazione della lingua originaria da cui discendono poi una serie di altre lingue. Il paradosso delle ricerche
di latinisti e romanisti consiste però nel fatto che, nonostante l’abbondante documentazione, in molti casi latinisti e romanisti fanno ricorso alla
ricostruzione per forme delle lingue romanze che non hanno corrispettivi in latino. La spiegazione del paradosso risiede nella natura delle fonti su
cui si basa la nostra conoscenza del latino, che non coprono tutto lo spettro delle manifestazioni di un sistema linguistico di grande complessità. La
documentazione a nostra disposizione è abbastanza soddisfacente dal punto di vista della profondità temporale, molto meno in relazione alla
diversificazione regionale, sociale e contestuale della lingua. Per avere un’idea di funzionamento del sistema latino possiamo ricorrere a fonti
diverse; analizziamo fonti tipologicamente varie, che rappresentano elementi reali per lo studio del latino.

• La prima sono i testi classici, ovviamente delle eccezioni: ex. Cicerone, autore epistolare di familiares, in cui utilizza uno stile più intimo
e meno formale, contiene forme che possiamo ritrovare nell’evoluzione del latino; anche Plauto; autore di commedie, in cui ritroviamo
alcune forme che si sono evolute in ambito romanzo; Petronio nel Satiricon, in un episodio particolare della scena della cena di
Trimalcione, riproduce la liberazione di alcuni schiavi e tenta di riprodurne anche il parlato.
• Un’altra tipologia di testi che ci aiuta a osservare il latino “non normativo” sono le grammatiche, in particolare APPENDIX PROBI che
è un’appendice del V secolo dello Pseudo-Probo. Questo testo si trova alla Biblioteca Nazionale di Napoli, ed è un elenco di 227 parole
ognuna con forma corretta e "scorretta" distante dal modo in cui si scrive, dal modo in cui si pronuncia e da un punto di vista morfologico.
• Un’ulteriore fonte di studio del latino non normativo sono gli autori cristiani, perché questi erano particolarmente interessati alla
comunicazione con il pubblico e dovevano quindi avere uno stile non aulico per rendere comprensibile il messaggio religioso a tutti. Tra
questi testi ricordiamo la Peregrinazio eterie, che rappresenta il resoconto di un viaggio nella Terrasanta di una nobildonna del IV secolo
che aveva un livello di cultura aulico, ma lo stile che utilizza presenta tratti che la accomunano più alla forma romanza che a quella
classica.
• Consideriamo una quarta fonte: i testi pratici, ovvero i trattati come il DE ARCHIETTURA, oppure il LOCUS AGRICOLTURAE,
o ancora la MULOMEDICINA CHIRONIS. Si tratta di testi tecnici per gli addetti ai lavori e usano uno stile gergale, adatto a chi si
occupa degli argomenti trattati, e quindi non formale.
• La quinta fonte sono le iscrizioni, tipo i graffiti di Pompei o le DEFIXIORUM TABELLAE, delle formule magiche scritte su delle
tabelle per l’appunto, che servivano per introdurre o togliere il malocchio.
• La sesta e ultima fonte sono i testi post-imperiali, cioè quei testi composti in latino ma successivi alla caduta dell’Impero Romano
d'occidente nel 476, dopo la quale viene meno il modello linguistico basato su Roma. Tra questi testi ricordiamo HISTORIA
FRANCORUM e CHRONICARUM LIBRI di Fredegario. Si tratta di opere di autori colti, ma non erano più in grado di rispettare
la norma classica perché non veniva più insegnata o praticata.

Si è osservato che, in senso stretto, non si è mai smesso di parlare latino: le lingue romanze di oggi sono forme di neolatino. Il latino non è mai
uscito del tutto dall’uso, trattandosi di una lingua impiegata in ambito religioso, filosofico, scientifico ecc., fino ad epoche recentissime (ha tuttora
un ruolo importante nella Chiesa cattolica romana). La distanza strutturale e tipologica fra il latino e l’insieme delle lingue romanze è tale da poter
parlare legittimamente di lingue diverse. Il latino è presente in molti settori della vita sociale e culturale del mondo medievale e moderno come
lingua appresa attraverso l’insegnamento scolastico, quindi non sottoposta all’evoluzione naturale delle lingue vive, e destinata prevalentemente a
forme di comunicazione scritta. È importante separare il problema della transizione dal latino tardo alle nuove realtà romanze da quello della
consapevolezza che i contemporanei hanno avuto di questo processo. Per quanto riguarda il primo, si può pensare a una cronologia articolata in
due fasi successive.

• Nella prima fase (II-V secolo) giungono a compimento una serie di cambiamenti fonologici e morfosintattici i cui esiti sono panromanzi
(diffusi in tutte le lingue). In questo periodo emerge dunque un nuovo tipo di latino. Fra le sue caratteristiche figurano: la scomparsa
delle opposizioni vocaliche basate sulla lunghezza; la monottongazione del dittongo AE, pronunciato [ε:]; la frequente sincope della
vocale in sede postonica; la caduta di -M in posizione finale di parola, di H in tutte le posizioni e spesso di -N- in posizione
preconsonantica; la palatalizzazione e l’affricazione di C, T, D, G davanti a I semivocalica (/j/); la trasformazione del sistema dei casi
classico in un sistema bi o tricasuale. Risalgono probabilmente a questa fase anche alcuni fenomeni fonologici, come la riorganizzazione
dei sistemi vocalici o la metafonesi, che cominciano a delineare delle divisioni regionali all’interno dello spazio latino.
• Nella seconda fase (VI-VIII secolo) si consuma la frammentazione dello spazio linguistico latino: la maggior parte dei cambiamenti che si
realizzano in questo periodo non sono diffusi ovunque e i loro esiti non risultano poi panromanzi. Fra i più significativi ricordiamo: la
perdita delle vocali finali di parola; la (quasi) completa scomparsa del sistema dei casi; la grammaticalizzazione delle nuove perifrasi
verbali. Alcuni fenomeni sono già attestati sporadicamente nei secoli precedenti, altri sono attribuiti a questo periodo ma documentati
solo più tardi.

Risale all’anno 813 il Concilio di Tours, in cui si chiede ai vescovi provenienti da varie regioni dell’Impero carolingio di predicare in volgare per
venire incontro alle esigenze degli ascoltatori. La decisione presa a Tours non resta isolata. Le lingue romanze accedono alla scrittura secondo
cronologie e modalità differenti, in rapporto tanto con fattori interni, cioè con l’evoluzione delle strutture linguistiche, quanto con fattori esterni,
come l’impatto della riforma carolingia, che accelera l’emergere del volgare ma non ne è causa diretta e necessaria.

Nel passaggio dal latino alle lingue romanze, il sistema vocalico ha subito una radicale trasformazione. Il latino ha dieci fonemi vocalici, cinque con
realizzazione breve e cinque con realizzazione lunga.

La differenza fra le due realizzazioni ha valore fonemico, serve a distinguere parole che hanno diverso significato. Oltre alle vocali, il sistema
comprende i dittonghi /aw ae oe/; questi sono, dal punto di vista prosodico, equivalenti a una vocale lunga, e mostrano una precoce tendenza al
monottongamento (confluenza dei due elementi in un’unica vocale). Al contrasto fonemico tra vocali lunghe e brevi è legata la prevedibilità della
posizione dell’accento, che cade sempre sulla penultima sillaba se questa è pesante (termina con una vocale lunga, un dittongo o una consonante)
mentre retrocede alla terzultima sillaba quando la penultima è leggera (termina con una vocale breve).

Ex1. Senātus

Ex2. Digitus

Questo sistema subisce, nel corso dei secoli, una serie di modifiche e assestamenti che conducono alla perdita del valore distintivo della quantità
vocalica. Questo fa sì che l’antica regola di accentuazione non si conservi in nessuna lingua romanza, dove la posizione dell’accento è libera e ha in
genere valore distintivo. Le lingue romanze riorganizzano i loro sistemi vocalici intorno a opposizioni che non sono più quantitative ma qualitative,
cioè basate esclusivamente sul timbro delle vocali.

A partire dalla disgregazione del sistema vocalico latino, diversi sistemi vocalici prendono forma e si affermano nello spazio linguistico romanzo.
Per quanto riguarda le vocali toniche, il sistema più diffuso è il cosiddetto “sistema romanzo comune”. Si tratta di un sistema simmetrico, in cui le
vocali centrali basse del latino confluiscono nel fonema /a/, le vocali alte lunghe passano a /i/ e /u/, le vocali alte brevi e medie lunghe
confluiscono in un fonema medio-alto anteriore /e/ e in uno posteriore /o/, mentre le vocali medie brevi passano a /ɛ/ e /ɔ/.

Il sistema romanzo comune presenta sette vocali su quattro gradi di apertura.

Particolare è il sistema vocalico sardo che vede la confluenza di ogni coppia di fonemi lunghi e brevi in un solo fonema. Presenta dunque cinque
fonemi su tre gradi di apertura.

Un diverso sistema è alla base del vocalismo rumeno e del dialetto italoromanzo parlato in un’area ristretta della Basilicata occidentale. Il sistema
vocalico balcanico coincide nella parte anteriore con quello romanzo comune e nella parte posteriore con quello sardo. Il risultato è un sistema
asimmetrico di sei vocali.
Va sottolineato come il vocalismo del rumeno si è poi largamente allontanato da questo sistema iniziale, con una serie complessa di dittongamenti,
monottongamenti e armonizzazioni.

Nel sistema vocalico siciliano le vocali medie lunghe del latino sono confluite con le alte in /i/ e /u/, mentre le brevi hanno dato come esito /ɛ/
e /ɔ/.

Il sistema vocalico siciliano presenta dunque cinque fonemi vocalici, analoghi a quelli del sardo ma sviluppatisi attraverso una trafila differente. Si
spiega, facendo riferimento a questo sistema vocalico, una particolarità della poesia italiana delle origini, la cosiddetta “rima siciliana”, cioè la
possibilità di far rimare fra loro parole che in toscano hanno come vocali toniche /e/ e /i/, /o/ e /u/. L’uso della rima siciliana perdura per circa
un secolo al di là delle circostanze specifiche che ne hanno causato la genesi, con affioramenti sporadici anche in Dante e Petrarca.

Dei tre dittonghi del latino, solo /aw/ arriva alle lingue romanze, in molte delle quali subisce un processo di monottongamento. I processi di
dittongamento sono comuni nella maggior parte delle lingue romanze. Il dittongamento spontaneo (dovuto cioè alla naturale tendenza
all’allineamento delle vocali accentate) è presente, con modalità differenti, in italiano, francese, spagnolo e rumeno. Considerando le vocali toniche
medio-basse /ɛ/ e /o/ e medio-alte /e/ e /o/ in sillaba aperta e chiusa, si può distinguere il comportamento dell'italiano e del francese, dove il
dittongamento si ha solo in sillaba aperta, da quello dello spagnolo e del rumeno, dove il dittongamento si ha tanto in sillaba aperta quanto in sillaba
chiusa. Concentrandosi sulle vocali coinvolte piuttosto che sulle restrizioni di natura sillabica, si osserverà che l'italiano condivide con lo spagnolo
il dittongamento delle sole vocali medio-basse, mentre in francese e in rumeno dittongano le vocali medio-basse e medio-alte. Si ipotizza che anche
il friulano, il dalmatico e il catalano siano passati per uno stadio di dittongamento spontaneo in sillaba aperta e chiusa.

Oltre al dittongamento spontaneo, le lingue romanze conoscono varie forme di dittongamento condizionato dal contesto. Il dittongamento può
essere anche causato dalla presenza in posizione finale di parola di una vocale alta, indipendentemente dalla struttura sillabica: ex. in napoletano
“cientə”, “sientə”, “cuorpə”. I dittonghi sono [je] e [wo], con vocale medio-alta, mentre in posizione finale tutte le vocali sono confluite nella vocale
centrale [ə] o sono scomparse.

La metafonesi (o metafonia) è una forma di assimilazione a distanza che conosce grande diffusione nelle lingue romanze. Il tipo metafonetico più
comune prevede l’innalzamento delle vocali toniche medio-alte e/o medio-basse per influenza delle vocali finali alte latine e/o protoromanze /i/
e /u/. Le vocali che hanno originariamente innescato la metafonesi possono poi mutare o scomparire, rendendo opaco il processo. La metafonesi
può dare vita ad alternanze che esprimono categorie morfologiche: in napoletano, dal momento che le vocali finali sono indistinte, la differenza fra
il maschile e il femminile di alcuni aggettivi o fra il singolare e il plurale di alcuni nomi è affidata esclusivamente a un’alternanza metafonetica.

Ex1. Friddə/freddə

Ex2. Nepotə/neputə
La grande estensione e varietà dei processi metafonetici nelle lingue romanze fa pensare che questo tipo di armonizzazione vocalica sia da datare a
una fase relativamente antica.

Un altro tipo di assimilazione molto diffuso nelle lingue romanze è la nasalizzazione, che riguarda la vocale contigua a una consonante nasale. Il
latino non possiede fonemi vocalici nasali: le vocali che precedono /n/ e /m/ sono leggermente nasalizzate, per un normale processo fonetico di
coarticolazione, ma non costituiscono dei fonemi autonomi. Fonemi vocalici nasali si sviluppano in francese e in portoghese, nonché i vari dialetti.
Si tratta di diversi processi di fonologizzazione, in cui le vocali nasali sono passate dallo stato di allofoni a quello di fonemi autonomi, in contrasto
con altri di articolazione orale. Questo è accaduto perché la natalità della vocale è stata reinterpretata come una sua qualità inerente,
indipendentemente dal contatto con una consonante nasale, spesso poi caduta.
Il francese moderno ha quattro fonemi vocalici nasali: l’inventario fonemico del francese standard risulta uno dei più complessi del panorama
romanzo. In epoca medievale e nella prima età moderna, la nasalizzazione coinvolge sia le vocali in sillaba aperta che quelle in sillaba chiusa. Verso
le fine del XVI secolo le vocali nasali in sillaba aperta si denasalizzano.
Il portoghese moderno ha cinque fonemi vocalici nasali e tre dittonghi nasali. Caratteristica del portoghese è la caduta della consonante nasale in
posizione intervocalica: ex. lā “lana”.
In molte varietà romanze, la nasalizzazione provoca modifiche nel grado di apertura delle vocali. In rumeno la nasale seguente ha innalzato la
pronuncia delle vocali toniche medie e basse. Un processo analogo si ipotizza per l’italiano, e meno regolarmente per lo spagnolo e per il
portoghese, limitatamente a /e o/ davanti a [ŋ], cioè /n/ seguita da consonante velare. A questo particolare processo di innalzamento delle vocali
medio-alte si dà il nome di anafonesi.
In epoca medievale, l’occitano distingue due vocali /a/, una di articolazione centrale e l’altra di articolazione posteriore, esito della
denasalizzazione di [a] in parole in cui essa era originariamente in contatto con /n/ finale. Il fenomeno della cosiddetta “-n caduca” si ha anche in
catalano, senza alterazioni nel timbro delle vocali.

Nelle lingue romanze, l’inventario delle vocali atone è normalmente più semplice di quello delle vocali toniche; la riduzione avviene attraverso la
neutralizzazione di contrasti che sono operativi nel vocalismo tonico. Così nel sistema romanzo comune si perde la distinzione fra la vocale medio-
alta e quella medio-bassa.

Nel sistema romanzo balcanico si perde nella serie anteriore la distinzione fra la vocale medio-alta e la medio-bassa, conservata nel vocalismo
tonico.

Nel sistema siciliano tutte le vocali anteriori confluiscono in /i/ e tutte le posteriori in /u/.

Il sistema vocalico sardo è identico in sede tonica e in sede atona.

Nel latino si manifesta, fin dall’epoca arcaica, una tendenza alla riduzione o alla sincope (cancellazione di una vocale o una sillaba in una parola)
delle vocali brevi atone. Nel latino tardo questi fenomeni sono particolarmente frequenti nel caso delle vocali postoniche in contatto con le
consonanti /l/ e /r/, come testimoniano le tante occorrenze segnalate nell’Appendix Probi. Le lingue romanze proseguono la tendenza latina alla
sincope della vocale; il processo si sviluppa con ritmo diverso nelle varie lingue ed è probabile che si realizzi in più fasi.
Le vocali atone in posizione finale di parola sono soggette ad apocope (cancellazione di uno o più segmenti vocalici e/o consonantici in posizione
finale di parola) nella Romània occidentale più che in quella orientale: in antico francese, occitano e catalano l’apocope coinvolge tutte le vocali
finali tranne /a/ e la vocale di “appoggio” di gruppi consonantici complessi; in spagnolo e portoghese coinvolge solo /e/ dopo alcune consonanti
dentali e alveolari; in rumeno solo /u/. Il processo di riduzione delle vocali atone produce esiti diversi nelle varie lingue romanze: in francese
moderno tutte le parole sono accentate sull’ultima sillaba e perciò l’accento non ha più funzione distintiva. In tutte le altre lingue l’accento è libero
ed ha valore distintivo.

Anche il sistema consonantico latino ha subito profondi mutamenti.


Quasi tutti i fonemi consonantici latini hanno anche un’articolazione lunga (o geminata); in posizione intervocalica, /j/ è sempre articolata come
lunga, anche se la grafia ha la consonante semplice. Alla lettera latina v non corrisponde l’articolazione labiodentale [v] ma l’approssimante [w]. Le
trasformazioni più antiche del sistema consonantico latino sono di diffusione panromanza. È il caso della scomparsa della consonante laringale/h/,
non più pronunciata già dal I secolo a.C. Alcune lingue romanze hanno poi, per vie diverse, ristabilito nel loro inventario consonantico la laringale.
Una novità del latino di età imperiale è la confusione tra -B- e -V- (betacismo) in posizione intervocalica: il risultato è in un primo tempo la fricativa
bilabiale [β], mantenutasi in alcune lingue e passata in altre alla labiovelare [v] o scomparsa. In posizione iniziale di parola, invece, la distinzione fra
-B- e -V- normalmente si conserva.
I gruppi consonantici latini /kw/ e /gw/ subiscono spesso un’evoluzione nel passaggio alle lingue romanze, perdendo l’elemento labiale /w/ o
quello velare. Gli esiti sono diversi, e dipendono dalla vocale seguente; l’italiano è in questo caso particolarmente conservatore.

Il latino possiede una sola consonante palatale, l’approssimante /j/; in latino, /j/ non si distingue graficamente dalla vocale /i/ e può comparire
tanto in posizione iniziale di parola quanto in posizione interna. Le lingue romanze hanno sviluppato le consonanti /tʃ ʤ ʃ ʒ ʄ ɲ ʎ ts dz/, ignote al
latino; a questo processo di sviluppo si dà il nome di palatalizzazione.
Una delle novità del latino della prima età imperiale è la creazione di gruppi consonantici formati da dentali, velari, bilabiali, nasali o laterali seguite
da /j/; in questo caso, /j/ deriva dall’eliminazione di sequenze di vocali in iato, trasformate in dittonghi. La presenza di /j/ innesca un processo
di assimilazione, spostando l’articolazione della consonante precedente verso la zona alveopalatale della bocca.
Un altro effetto della risillabificazione è la formazione di sequenze sillabiche tendenzialmente instabili: in linea generale, le lingue preferiscono,
nel contatto fra consonanti poste al confine fra sillabe, che la consonante in coda non sia più forte di quella in attacco.
La più antica forma di palatalizzazione riguarda i gruppi latini /tj/ e /kj/ e coinvolge tutto il dominio romanzo, avendo come esito le consonanti
affricate [tʃ] o [ts]. Quando geminate, queste affricate sono in genere sottoposte nelle lingue romanze occidentali a degeminazione.
I gruppi latini /dj/ e /gj/ sono confluiti già nel I secolo d.C. in /j/; alcune lingue romanze conservano /j/, altre sviluppano le consonanti affricate
[ʤ] o [dz], che possono poi conservarsi, passare a fricative o scomparire. La palatalizzazione di /k/ e /g/ davanti a vocale anteriore sarebbe più
tarda rispetto a quella di /kj/ e /gj/: è possibile che la divergenza degli esisti di /k/, /g/ + vocale anteriore e /kj/, /gj/ dipenda da differenze
regionali del latino tardo, piuttosto che da uno scarto cronologico.
L’approssimante latina /j/ palatalizza in epoca abbastanza precoce anche le consonanti /l/ e /n/ in tutte le lingue romanze: gli esiti sono
normalmente [ʎ] per la laterale e [ɲ] la nasale, entrambe geminate. A questi processi di palatalizzazione/affricazione ne seguono altri che
coinvolgono un numero più ridotto di lingue.
Una palatalizzazione più irregolare e (probabilmente) tardiva investe i gruppi consonantici con /l/, che possono restare immutati o evolvere in
direzione palatale, con esiti diversi anche per la stessa lingua.

L’altro processo che trasforma profondamente il sistema consonantico latino nel passaggio alle lingue romanze è la lenizione, ossia un
indebolimento delle consonanti, una perdita della loro forza consonantica, misurata in una scala che vede a un estremo le occlusive e all’altro le
approssimanti.

La lenizione si ha prevalentemente in posizione intervocalica, che è una posizione di per sé debole, in cui i segmenti fonetici sono più esposti al
cambiamento. Per quanto riguarda le consonanti occlusive, il processo di lenizione comprende la degeminazione delle sorde geminate [p t k], la
sonorizzazione delle sorde semplici [b d g] e la fricativizzazione delle sonore [β δ γ], che in latino non sono quasi mai geminate. Si tratta
verosimilmente di un cambiamento a catena, anche se la cronologia delle diverse fasi è tutt’altro che certa. Il processo nella sua interezza coinvolge
le lingue dell’area iberoromanza, galloromanza, retoromanza e italoromanza settentrionale, con l’eccezione di alcuni dialetti aragonesi e guasconi.

Il francese è la lingua che ha portato più avanti il processo di lenizione, con il dileguo delle fricative sonore dentali e velari e la conservazione della
sola [v].
In spagnolo, catalano e in alcune varietà occitane [b] e [β], [d] e [δ], [g] e [γ] sono in distribuzione complementare e sono perciò considerati allofoni
dello stesso fonema.
La lenizione interessa anche la fricativa dentale /s/, che in latino non ha un correlativo sonoro, e le consonanti liquide e nasali /l r m n/, che
essendo intrinsecamente sonore non hanno correlativi sordi.
La situazione della lenizione in sardo, rumeno e italiano è tutt’altro che uniforme. In sardo non c’è degeminazione, ma è comune la sonorizzazione
delle occlusive sorde intervocaliche. Si tratta di un processo sincronico applicato anche in fonosintassi.
In rumeno c’è degeminazione ma non sonorizzazione delle occlusive sorde latine.
In italiano non c’è né degeminazione né sonorizzazione, tranne in un numero ristretto di parole che sarebbero entrate in antico toscano dai dialetti
italoromanzi settentrionali, ma potrebbero anche essere autoctone, suggerendo una situazione originariamente più varia rispetto al riassestamento
successivo.
In francese, le affricate /ts dz tʃ ʤ/ diventano fricative fra il XII e il XIII secolo; dileguano, inoltre, /s/ e /z/ preconsonantiche. L’accento
circonflesso è usato, a partire dal Seicento, per segnalare l’allungamento della vocale precedente, andato poi perduto.
Lo spagnolo e il portoghese sperimentano un riassetto complessivo del sistema delle sibilanti /s z ts dz tʃ ʃ ʒ/. Per quanto riguarda lo spagnolo, gli
indizi sono visibili già nel XV secolo. In entrambe le lingue le fricative/s/ e /z/ hanno in epoca medievale articolazione alveolare, mentre le
affricate /ts/ e /dz/ hanno articolazione dentale; il fonema /tʃ/, inoltre, non ha un correlativo sonoro, essendo [ʤ] un allofono di /ʒ/ in posizione
postconsonantica. In spagnolo /tʃ/ resta invariato, mentre la sorda e la sonora di ogni coppia si confondono; ne risultano tre fricative sorde di
articolazione molto vicina, alveolare, dentale e alveopalatale. Nel corso del XVI secolo la dentale avanza a interdentale, e la alveopalatale arretra a
velare: ne risulta il sistema spagnolo moderno.

Nel portoghese centromeridionale /ʒ/ resta immutato, mentre /ts/ si confonde con /s/, /dz/ con /z/ e, successivamente, /tʃ/ con /ʃ/, con
risultati sempre fricativi.

Fra i fenomeni di consonantismo di diffusione parziale nelle lingue romanze ricordiamo il rotacismo, cioè il passaggio di un’articolazione fonetica
a “-r”. Di grande interesse è anche l’articolazione retroflessa, cioè con l’apice della lingua flesso all’indietro, che si ritrova in sardo, corso
meridionale, siciliano, calabrese e salentino, nonché in diverse varietà di spagnolo europeo e americano.

Le consonanti finali latine sono nella maggior parte dei casi scomparse nelle lingue romanze. La /-m/ dell’accusativo singolare non si pronuncia
(quasi) più in età imperiale; per questo motivo quando si indica l’etimo latino di una forma romanza, normalmente al caso accusativo, la lettera M
è posta tra parentesi “()”.
La scomparsa della /-t/ della terza persona singolare e plurale è molto più tarda, e se ne trova ancora traccia nei testi più arcaici di area
iberoromanza e galloromanza.
La /-s/ dell’accusativo plurale si conserva nelle lingue dell’area iberoromanza, galloromanza, retoromanza e in sardo. La conservazione della
/-s/ è considerata, insieme alla lenizione, uno dei tratti che oppongono la Romània occidentale a quella orientale.

In catalano, occitano, francese e retoromanzo le consonanti occlusive e fricative in posizione finale di parola sono sempre sorde. Si ha dunque un
processo di desonorizzazione delle consonanti.

Il dileguo della consonante finale ha lasciato delle tracce in italiano e in francese. Il processo di assimilazione consonantica al confine di parola,
documentato nel latino di età imperiale, si è sviluppato nel raddoppiamento fonosintattico dell’italiano, del sardo, del corso e dei dialetti
italoromanzi centromeridionali. I fattori condizionanti del raddoppiamento fonosintattico variano nelle diverse lingue coinvolte nel processo.
Quanto al francese, si assiste al fenomeno della liaison: si elimina lo iato mediante l’articolazione, davanti a vocale iniziale, di una consonante finale,
altrimenti non pronunciata (ex. très bon [trè-bòn]).

Nomi e aggettivi latini sono distribuiti in classi flessive, chiamate “declinazioni”; esse sono contraddistinte dalla presenza di una vocale tematica,
semanticamente vuota, inserita tra la base lessicale e la desinenza, a cui è affidata l’espressione di numero e caso. Le classi flessive dei nomi sono
cinque: la I e la V classe flessiva sono composte per lo più da nomi femminili, la II per lo più da nomi maschili e neutri, la III e la IV da nomi
maschili, femminili e neutri.
Nel passaggio dal latino alle lingue romanze si è avuta una riorganizzazione delle classi flessive: i nomi della V sono generalmente confluiti nella I
e più raramente nella III, i nomi della IV nella II. Ne risultano in italiano, sardo, spagnolo, portoghese e rumeno tre classi flessive molto ricche di
membri. La distinzione fra nomi appartenenti originariamente alla II e III classe latina si perde nelle lingue che hanno subìto l’apocope delle vocali
finali; in queste lingue gli aggettivi appartenenti alle due classi latine confluiscono in una sola. In italiano, sardo, spagnolo, portoghese e rumeno le
due classi aggettivali del latino si sono conservate. Ogni lingua ha poi altre classi nominali e aggettivali meno numerose, formatesi per vie diverse
nel corso della sua storia.

Il latino possiede sei casi:


• Nominativo > soggetto
• Accusativo > complemento oggetto diretto
• Dativo > complemento oggetto indiretto
• Genitivo > possesso e specificazione
• Vocativo > allocuzione
• Ablativo > locativo e strumentale
Ogni caso è espresso da diverse desinenze secondo il numero, il genere e la classe flessiva, e la maggior parte delle desinenze esprime più di un
caso. A questo fenomeno si dà il nome di sincretismo. I casi, inoltre, sono spesso associati alle preposizioni per l’espressione di alcuni complementi.
Il sistema dei casi latini subisce, in età imperiale, una progressiva riduzione, il cui esito finale è la presenza nelle lingue romanze moderne di
un’unica forma, a base essenzialmente accusativale. È possibile che a questo processo di riduzione contribuisca l’erogazione fonetica subìta dalle
consonanti finali, nonché il collasso della quantità vocalica e la riorganizzazione del sistema su base qualitativa. Il passaggio dal complesso sistema
casuale del latino a quello romanzo, sostanzialmente senza casi, avviene attraverso una serie di tappe intermedie di difficile ricostruzione: a partire
dalla fine del II secolo d.C. si trova testimonianza dell’estensione dell’uso dell’accusativo per il nominativo in funzione di soggetto in frasi con
verbi intransitivi oppure in contesti “a-sintattici”. Ci sono poi numerosi indizi della confluenza dell’ablativo nell’accusativo, e del genitivo e del
dativo in un’unica forma, il cosiddetto “caso obliquo”. In base a ciò si è ipotizzata l’esistenza, in latino tardo, di un sistema transitorio a tre casi. In
area galloromanza si neutralizza l’opposizione fra accusativo e obliquo. Il sistema bicasuale delle antiche varietà galloromanze è limitato ai nomi e
agli aggettivi maschili, soprattutto quelli derivanti dalla II classe latina. Nelle lingue moderne si conserva l’esito del caso regime, che marca con -s
il plurale di nomi e aggettivi.
Il sistema bicasuale rumeno, tuttora in uso, oppone invece un caso nominativo-accusativo a un caso genitivo-dativo. Il sistema riguarda i nomi e gli
aggettivi femminili singolari, che al plurale hanno un’unica forma, di solito identica a quella del genitivo-dativo singolare. L’opposizione fra i casi
nominativo-accusativo e genitivo-dativo si ha anche nei determinanti maschili e femminili. I nomi maschili e femminili con referenti animati hanno
in rumeno un caso vocativo.
Nel complesso, nella maggior parte delle lingue romanze, nomi e aggettivi non hanno casi e l’espressione della funzione sintattica dei nomi è
affidata all’uso delle preposizioni e all’ordine delle parole nella frase. La forma unica che si ritrova normalmente nelle lingue romanze deriva da
quella dell’accusativo latino. La forma del nominativo, però, si è perpetuata in non poche parole. Il fatto che si tratti sempre di nomi con referenti
animati ha condotto a ipotizzare l’emergere, nel latino tardo, di un orientamento sintattico attivo-inattivo, cioè che marca l’agente del processo
espresso dal verbo con un caso diverso da quello del paziente che ne subisce l’effetto. Questo orientamento attivo-inattivo ha lasciato delle tracce
anche in alcuni aspetti del sistema verbale.

Per quanto riguarda le lingue della Romània occidentale, la marca del plurale si ricollega senza difficoltà alla forma latina del caso accusativo: si ha
un plurale sigmatico (dal nome della lettera dell’alfabeto greco sigma, che rappresenta /s/).
Le lingue della Romània orientale, dove -s in posizione finale di parola scompare, hanno invece un plurale vocalico.
L’origine delle terminazioni romanze -i per il maschile ed -e per il femminile è molto discussa: in una prospettiva morfologica, si osserva che, dal
momento che nel processo di riduzione del sistema dei casi latini le lingue romanze orientali confondono il nominativo e l’accusativo, in esse il
dileguo di -s, unito alla scomparsa di -M e ai cambiamenti del vocalismo atono, avrebbe portato all’omofonia (coincidenza a livello fonetico) della
forma nominativo-accusativo del plurale con quella del singolare.
Una spiegazione alternativa, in una prospettiva di tipo fonetico, vede in -e e -i il risultato dell’evoluzione della terminazione -AS dell’accusativo
femminile plurale di I classe e -ES dell’accusativo plurale maschile di III. Per i maschili di II classe, però, bisogna necessariamente risalire alla forma
del nominativo -I, in quanto lo sviluppo dell’accusativo non è foneticamente plausibile.
In alcune varietà romanze moderne, l’evoluzione fonetica ha cancellato la marca del plurale del nome e dell’aggettivo; in questi casi, l’espressione
del numero è delegata ad altri elementi della frase, come i determinanti che precedono il nome o la desinenza verbale.

Il latino ha tre generi grammaticali: maschile, femminile e neutro; a ogni nome è assegnato un genere e gli aggettivi concordano con il genere del
nome cui si riferiscono. I nomi neutri hanno solo referenti inanimati (ma non tutti gli inanimati sono di genere neutro).
Nelle lingue romanze, i generi si riducono normalmente a due, maschile e femminile. In linea di massima, i nomi maschili e i femminili conservano
nelle lingue romanze il genere latino. I nomi neutri della II classe latina sono per lo più riassorbiti nel genere maschile, mentre per quelli della III
classe c’è oscillazione fra le varie lingue. I neutri plurali sono stati talvolta reinterpretati come femminili singolari. In italiano e rumeno alcuni nomi
corrispondenti al neutro latino hanno un genere alternante: sono maschili al singolare e femminili al plurale. In italiano antico si tratta di un genere
produttivo, usato anche per parole che non risalgono a neutri latini e con resti di accordo (corrispondenza formale fra due o più elementi di una
frase) aggettivale. Si hanno casi analoghi anche in rumeno dove, inoltre, è di notevole diffusione il plurale in -uri.
Riflessi della morfologia dei neutri latini si ritrovano anche nell’accordo di nomi non numerabili con aggettivi o determinanti: si tratta del cosiddetto
“neutro di materia” (l’uso dell’articolo neutro), documentato in diverse varietà della Spagna settentrionale e dell’Italia centromeridionale. L’origine
di questo fenomeno è controversa. Per quanto riguarda la situazione italoromanza, l’articolo ‘neutro’ deriva probabilmente da una forma
tardolatina.

Gli aggettivi latini possiedono un suffisso comparativo -IOR e uno superlativo -ISSIMUS. Questi comparativi e superlativi sintetici (che esprimono
relazioni grammaticali e sintattiche attraverso morfemi che modificano la parola) competono con formazioni di tipo analitico (che esprimono
relazioni grammaticali e sintattiche attraverso elementi lessicali indipendenti), in cui l’aggettivo è modificato da un avverbio. Nelle lingue romanze,
le forme analitiche si sono normalmente affermate a spese di quelle sintetiche. Per quanto riguarda il comparativo, nelle lingue iberoromanze e in
rumeno si conservano gli esiti di MAGIS, in francese, sardo, italiano e retoromanzo gli esiti di PLUS, in occitano entrambi. Per quanto riguarda i
superlativi, le forme in -ISSIMUS sono in uso in spagnolo, portoghese, catalano e italiano, mentre nelle altre lingue sono sostituite da diverse
perifrasi. La sostituzione di strutture sintetiche con nuove strutture analitiche rientra nella più ampia tipologia della grammaticalizzazione.
Il ricco sistema pronominale latino è solo parzialmente conservato dalle lingue romanze. Per quanto riguarda i pronomi personali, il latino ha
forme di 1a e 2a persona singolare e plurale, mentre per quelle di 3a persona singolare e plurale usa forme del dimostrativo. Il completamento della
serie pronominale tramite lo sviluppo del pronome di 3a persona è un’innovazione delle lingue romanze. I pronomi personali romanzi conservano
forme residuali del sistema dei casi latino. Nella serie dei pronomi tonici, alla 1a e alla 2a persona singolare il caso del soggetto, derivato dal
nominativo latino, si oppone comunemente al caso obliquo, derivato dall’accusativo o dal dativo latino. In rumeno, sardo, e in alcune varietà
retoromanze si distinguono tre casi (nominativo-accusativo-dativo). Alla 1a e alla 2a persona plurale la distinzione casuale si neutralizza ovunque
tranne che in rumeno. Alla 3a persona singolare e plurale la maggior parte delle lingue moderne non conserva la distinzione fra il caso del soggetto
e il caso obliquo. In spagnolo, portoghese, sardo, antico italiano e i vari dialetti italoromanzi si sviluppa un valore comitativo (caso sintattico che
esprime il complemento di compagnia) in alcune forme pronominali. Per quanto riguarda i pronomi atoni, si oppone normalmente alla 3a persona
singolare e plurale una forma accusativale a una dativale. In spagnolo le originariamente dativale è stato esteso all’oggetto diretto; il fenomeno, cui
si dà il nome di leísmo, è parte di un più ampio processo di neutralizzazione del caso dei pronomi di 3a persona.
Nell’ambito dei pronomi (e aggettivi) dimostrativi, il latino affianca a una serie di deittici (elementi che forniscono informazioni spaziali e temporali
sui partecipanti all’atto comunicativo), una serie di anaforici (elementi che si riferiscono a un antecedente già nominato o presupposto dal contesto).
Nei testi la distinzione funzionale fra i diversi pronomi è però spesso problematica. Nel passaggio alle lingue romanze il sistema ha subìto una
sostanziale ristrutturazione formale e semantica, il cui punto di partenza sembra essere la scomparsa degli elementi foneticamente più deboli.
Solo le lingue iberoromanze, l’italiano e il sardo conservano, almeno per una parte della loro storia, il sistema dimostrativo deittico a tre gradi del
latino:
It > questo-codesto-quello.

Il sistema dei dimostrativi romanzi conserva residui dei casi e del genere neutro del latino: l’antico francese distingue tre casi (soggetto-oggetto-
obliquo); in italiano antico si documentano, accanto a questo e quello, le forme questi e quelli. Le lingue dell’area iberoromanza hanno una forma
neutra; lo spagnolo ha anche un articolo neutro, lo, e un pronome personale neutro, ello.

I verbi latini sono distribuiti in quattro classi flessive, dette “coniugazioni”; anche i verbi sono caratterizzati da una vocale tematica: -A- per la I
classe, -Ē- per la II classe, -E- per la III classe e -I- per la IV classe. In tutte le lingue romanze sono numerosi i casi di verbi passati da una classe
flessiva all’altra. Sono ben documentati anche i passaggi dalla II e III classe alla IV. Al cambiamento di classe flessiva si dà il nome di metaplasmo.
L’appartenenza dei verbi a una delle classi flessive si manifesta, in ambito romanzo, solo in alcune forme del paradigma (insieme delle forme di un
lessema) e con l’intensità variabile da lingua a lingua: per esempio, al participio passato alcune lingue distinguono tre classi, altre due, altre ancora
neutralizzano la distinzione. Solo le classi flessive derivanti dalla I e IV classe latina risultano produttive nelle lingue romanze.

Sviluppi fonetici romanzi come il dittongamento delle vocali toniche in sillaba libera o la palatalizzazione delle consonanti davanti a vocali anteriori
hanno creato alternanze morfologiche, o allomorfie, all’interno del paradigma verbale. Queste alternanze sono state a volte conservate, a volte
eliminate ripristinando l’uniformità tramite riallineamenti analogici. Un caso molto comune è quello dell’alternanza, al presente indicativo, fra
forme dittongate e forme non dittongate. Lo schema di alternanza in cui la 1ª, 2ª, 3ª persona singolare e la 3ª persona plurale si oppongono alle
altre è detto schema a N per la sua somiglianza alla forma della lettera N nell’alfabeto Morse (_.).

Le lingue romanze conservano in larga parte le desinenze verbali latine.

Le divergenze fra le forme latine e quelle spagnole si devono all’evoluzione fonetica: la caduta di /-t/ per la 3ª persona singolare e plurale, la
lenizione delle consonanti sorde intervocaliche per la 2ª persona plurale.
Nel caso dell’italiano, si deve tener conto dell’allineamento analogico su altre forme del paradigma dello stesso verbo o di verbi di altre classi. Alla
2ª persona singolare, -i è estensione della desinenza dei verbi della III e IV classe latina, e forse anche della II. Alla 1ª persona plurale, -iamo si deve
alla sostituzione della desinenza originaria -amo con quella del congiuntivo presente dei verbi derivanti dalla II e IV classe latina. Per la 3ª persona
plurale si è fatto ricorso all’uscita -no, risultato della rianalisi della forma di 3ª persona plurale del verbo essere (> SUNT), in cui dopo la caduta
di /-t/, a /-n/ è stata aggiunta-o. Il successo di -no come marca pluralizzante in italiano è molto ampio.

Il sistema verbale latino conserva un’opposizione di tipo aspettuale, caratteristica dell’antenato indoeuropeo, fra forme perfettive e forme
imperfettive. La distinzione aspettuale ha però in latino un ruolo morfosintattico limitato e il sistema verbale latino è organizzato essenzialmente
intorno a valori temporali. Nel complesso, sono rimasti relativamente stabili dal punto di vista formale e funzionale il presente, l’imperfetto, il
perfetto, l’infinito e il participio passato.
Il futuro è in latino una forma debole e irregolare: nei testi preclassici può essere sostituito dal presente, mentre in quelli di età imperiale subisce
la concorrenza di perifrasi con il verbo ESSE e con il verbo HABERE. Nelle lingue romanze, la forma sintetica del futuro latino è scomparsa,
lasciando solo tracce residuali. In epoca medievale sussiste, almeno in alcune lingue, la percezione del futuro come forma analitica (o perifrastica):
è infatti possibile inserire i pronomi clitici (atoni) fra l’infinito e la desinenza. Questa possibilità si ha ancora oggi nel portoghese europeo, in sardo,
in rumeno e in alcune varietà retoromanze.
Il caso più notevole è quello del francese parlato, in cui gode di grande successo la perifrasi con il verbo aller ‘andare’ seguito dall’infinito; nel
francese del Québec la forma perifrastica ha completamente sostituito quella sintetica nelle frasi positive, mentre in quelle negative sono possibili
entrambe. In molte lingue è poi frequente l’uso del presente accompagnato da un avverbio o un complemento temporale per esprimere il futuro.
Il perfetto latino neutralizza l’opposizione fra valori aspettuali di tipo risultativo (che indicano gli effetti nel presente di una situazione passata) e di
tipo aoristico (che presentano una situazione passata come puntuale). Nelle lingue romanze su ripropone un’opposizione di questo genere
attraverso la creazione di un perfetto analitico romanzo che si affianca al perfetto semplice. La denominazione tradizionale di passato prossimo e
passato remoto sposta sul piano temporale una distinzione originariamente aspettuale. Nella perifrasi latina il verbo HABERE conserva il suo pieno
significato lessicale e il participio passato concorda con il complemento oggetto. Anche gli esempi più prossimi al costrutto romanzo restano
ambigui e sono passibili di interpretazioni diverse.

Ex. IN EA PROVINCIA PECUNIAS MAGNAS COLLOCATAS HABENT


In quella provincia soldi molti investiti hanno

“Hanno molti soldi investiti in quella provincia/hanno investito molti soldi in quella provincia” (Cicerone).

A lungo andare, l’ambiguità insita in queste strutture ne ha favorito la rianalisi: il verbo HABERE si è trasformato in ausiliare, il soggetto di
HABERE è stato identificato con quello del participio passato, che è slittato a una funzione pienamente verbale.
Ex. GALLUM ENIM DIACONUM ALIBI HABEO DISTINATUM
Gallo infatti diacono altrove ho nominato
“Ho infatti nominato Gallo diacono altrove” (Gregorio di Tours)

In epoca moderna il perfetto analitico si è normalmente esteso a spese del perfetto semplice. Nell’italiano parlato, gli usi del perfetto semplice
sono ormai molto ristretti.
Alla creazione del perfetto analitico si accompagna una più ampia ristrutturazione dei tempi del perfectum: le forme del piuccheperfetto, futuro
anteriore e infinito passato sono quasi ovunque sostituite da perifrasi. La forma del piuccheperfetto latino ha continuatori diretti nel portoghese e,
con funzione di condizionale, in antico occitano e in antico italiano. In spagnolo, nel Medioevo, questo tempo verbale svolge sia la funzione di
piuccheperfetto che quella di condizionale, passando nella prima età moderna al ruolo di congiuntivo imperfetto, che conserva tuttora. La forma
del futuro anteriore latino è confluita in portoghese e in spagnolo in quella del congiuntivo perfetto.

Il latino conosce anche una distinzione modale, che segnala l’atteggiamento del parlante rispetto al contenuto dell’enunciato: all’indicativo usato
per fatti oggettivi, si oppongono l’imperativo con valore iussivo (esprime un comando) e il congiuntivo che ruota intorno alle nozioni di volontà e
possibilità. Nel passaggio dal latino alle lingue romanze l’imperativo futuro è scomparso. Il congiuntivo perfetto latino sopravvive in portoghese,
dove indica situazioni ipotetiche nel futuro. Le forme del congiuntivo imperfetto sono all’origine di quelle dell’infinito flesso (o personale) del
portoghese, del galego e del sardo. A questa tipologia di infinito flesso appartengono anche le forme del napoletano antico, la cui origine si riconduce
piuttosto al piuccheperfetto.
L’innovazione più notevole delle lingue romanze in ambito modale è la creazione del condizionale, derivato da perifrasi latine con il verbo
HABERE. Il condizionale prosegue nella maggior parte delle lingue romanze la perifrasi con l’imperfetto, mentre l’italiano continua la perifrasi
con il perfetto. In portoghese europeo è possibile inserire un pronome clitico fra l’infinito e le forme del verbo avere, conservandosi la percezione
del carattere composto del condizionale.
Il condizionale romanzo si usa nell’apodosi dei periodi ipotetici dell’irrealtà oppure in funzione di futuro nel passato.

Il latino distingue morfologicamente anche la diatesi verbale, cioè la partecipazione attiva o passiva del soggetto all’azione descritta dal verbo.
Rispetto alla diatesi attiva, la diatesi passiva del latino è codificata nei tempi verbali dell’infectum tramite la terminazione -R. Nei tempi verbali del
perfectum, invece, la diatesi passiva è espressa in modo analitico, attraverso una perifrasi con il participio passato e il verbo ESSE.
Adottano la forma del passivo anche un gruppo di verbi con significato attivo, per lo più intransitivi, detti tradizionalmente deponenti. La forma
passiva si trova anche in costruzioni impersonali che coinvolgono verbi intransitivi di cui non sia espresso il soggetto e in costruzioni cosiddette
“medie” con verbi transitivi il cui soggetto è inanimato.
Nel passaggio alle lingue romanze le forme sintetiche del passivo latino sono andate perdute e al loro posto si sono affermate quelle analitiche, con
uno slittamento temporale dal passato al presente. I verbi deponenti sono scomparsi o sono stati trasformati in verbi attivi. Le costruzioni medie
sono state sostituite da costruzioni riflessive, che si affermano anche per l’impersonale.

L’articolo è il più comune dei determinanti del nome e rappresenta uno dei principali elementi di coesione nella struttura del gruppo nominale.
La categoria funzionale dell’articolo non esiste in latino e si può pertanto considerare una creazione delle lingue romanze.
L’articolo indefinito introduce nel discorso un referente nuovo. Le lingue romanze utilizzano in questa funzione gli sviluppi del numerale latino
UNUS. Nelle lingue iberoromanze l’articolo indefinito ha anche forme plurali quando usato con nomi che occorrono normalmente al plurale; più
comunemente, queste forme hanno funzione di quantificatori indefiniti. La situazione è analoga nelle lingue galloromanze. Nella maggior parte
delle lingue romanze moderne la funzione di articolo indefinito plurale e di quantificatore indefinito è svolta dall’articolo partitivo, formato a
partire dagli esiti della preposizione latina DE. Questa forma di articolo partitivo è sconosciuta al portoghese, allo spagnolo, al retoromanzo e al
rumeno.
L’articolo definito richiama nel discorso un referente noto, e ha anche la funzione secondaria di marcare un nome come esponente di una classe.
Le lingue romanze formano gli articoli definiti a partire dai dimostrativi latini ILLE o IPSE. Nel passaggio dal latino alle lingue romanze i dimostrativi
latini si sono indeboliti foneticamente e semanticamente. Nella maggior parte delle lingue romanze si affermano i continuatori di ILLE, mentre il
sardo e alcuni dialetti catalani preservano gli esiti di IPSE. Documentato a partire dall’VIII secolo nella Parodia della Lex Salica e in altri testi
successivi, l’articolo definito compare in alcuni dei più antichi testi romanzi. Nelle lingue medievali il suo uso è più ristretto che in quelle moderne.
Nelle lingue romanze moderne le antiche restrizioni permangono in espressioni proverbiali, locuzioni verbali e costrutti preposizionali. In francese
gli sviluppi finali che investono la parte finale della parola fanno sì che l’articolo sia spesso il solo elemento del gruppo nominale a portare le marche
di genere e numero.

A differenza del latino, le lingue romanze possiedono una doppia serie di pronomi personali: quelli tonici, o liberi, sono parole indipendenti,
mentre quelli atoni, o clitici, non hanno autonomia prosodica e sintattica, si trovano necessariamente in posizione adiacente al verbo e non possono
occorrere dopo preposizioni o in isolamento. I pronomi liberi e clitici hanno diverse funzioni pragmatiche, dal momento che, laddove possono
occorrere entrambi, il clitico ha normalmente referenti più attesi della forma libera, che ha valore piuttosto contrastivo o enfatico. Alla serie di
pronomi clitici personali alcune lingue romanze affiancano dei clitici avverbiali, con funzioni partitive e locative.
I clitici servono nella strutturazione del discorso a stabilire un collegamento con il contesto precedente; hanno dunque funzione anaforica. In latino
è possibile lasciare inespresso il riferimento a un elemento già introdotto nel discorso, anche quando si tratta di un argomento principale del verbo.
Nelle lingue romanze moderne l’espressione del riferimento anaforico per l’oggetto diretto e indiretto è normalmente obbligatoria.
L’origine dei pronomi clitici romanzi si può rintracciare negli usi deboli dei pronomi personali latini, varianti atone dei pronomi forti, con la stessa
gamma di funzioni sintattiche ma con posizioni più fisse; i clitici avverbiali derivano invece dagli avverbi latini INDE e IBI. Lo sviluppo dei clitici
in funzione di soggetto è più tardo e coinvolge solo una parte del dominio romanzo (francese, francoprovenzale, alcune varietà occitane e
retoromanze, dialetti italoromanzi settentrionali e fiorentino).
Una delle proprietà più notevoli dei clitici romanzi è la loro mobilità rispetto al verbo: i clitici possono (e in alcuni casi devono) ‘risalire’ verso il
margine sinistro della frase, separandosi dal verbo di cui sono argomento e appoggiandosi a un verbo modale, causativo o ausiliare di tempo finito.

Ex. Ci devo andare per forza > devo andarci per forza
Al fenomeno si dà il nome di risalita del clitico.

Altra proprietà di grande interesse è quella per cui in una frase si può avere un clitico insieme a un elemento non clitico con la stessa funzione
grammaticale.

Ex. Mia madre la sento tutti i giorni

Nonché, con i clitici soggetto:

Ex. Fiorentino = la mí figliola la studia troppo

Si parla in questo caso di raddoppiamento clitico.

Le lingue romanze si differenziano dal latino anche per la creazione di un ricco sistema di perifrasi verbali. In queste perifrasi un verbo ausiliare
ricorre con un verbo lessicale con cui costituisce un predicato unico. I verbi ausiliari, nati dai processi di grammaticalizzazione di verbi
originariamente lessicali, costituiscono nelle lingue romanze una categoria dalle proprietà assai varie.
Un punto di grande rilievo è la competizione fra gli ausiliari essere e avere nel perfetto composto, che delinea l’esistenza di due classi di verbi
intransitivi: quelli con soggetto attivo (o agente) e quelli con soggetto inattivo (o paziente). Ai primi si dà il nome di inergativi, ai secondi di
inaccusativi. La distinzione fra le due classi di intransitivi ha un ulteriore riscontro sul piano dell’accordo participiale: in presenza dell’ausiliare
essere il participio passato concorda in genere e numero con il soggetto, mentre in presenza dell’ausiliare avere non c’è accordo, il participio passato
può, e in alcuni casi deve, accordarsi con l’oggetto diretto in posizione preverbale.

L’ordine delle parole nella frase è in latino più libero che nelle lingue romanze. Esso non segnala rapporti sintattici ma è governato da fattori
pragmatici, dalla scelta cioè di dare rilievo a un elemento dell’enunciato (tematizzazione o focalizzazione). In questa prospettiva si inquadrano
anche le strutture discontinue, cioè quelle che spezzano la continuità logica fra elementi tra loro dipendenti. Simili strutture rappresentano una
delle modalità di organizzare e trasmettere l’informazione.
La notevole libertà posizionale del latino è connessa alla sua ricca morfologia flessiva, che fa sì che ogni parola porti in sé le marche di caso e di
accordo che consentono di attribuirle un ruolo nella frase. Non si può però stabilire uno stretto rapporto di causa-effetto fra la perdita del sistema
dei casi latini e l’irrigidimento dell’ordine delle parole romanzo. Si è proposto di interpretare questa libertà come effetto della concorrenza in
latino fra due tipi linguistici diversi: quello ereditato dall’antenato indoeuropeo, che tende alla ramificazione a sinistra, cioè in cui il modificatore
precede il nucleo del sintagma, e quello che si sviluppa gradualmente nel corso della storia della lingua, che tende alla ramificazione a destra, cioè
in cui il nucleo precede il suo modificatore.
Nella frase romanza prosegue la tendenza alla ramificazione a destra. Nel sintagma nominale l’aggettivo, il complemento genitivale e la frase relativa
seguono il nome; nel sintagma preposizionale il nome segue la preposizione; nel sintagma verbale oggetti e avverbi seguono il verbo. Resta
problematica la posizione dei determinanti, che precedono sempre il nome; costituisce un’eccezione l’articolo definito rumeno posposto al nome.
Il fenomeno della posposizione dell’articolo è condiviso da altre lingue della Penisola balcanica.

Nelle lingue romanze moderne si è affermato, con pochissime eccezioni, l’ordine SVO:
S > soggetto
V > verbo
O > oggetto
L’ordine con il verbo anteposto al soggetto si può trovare nelle strutture intransitive con soggetto non tematico, non però in francese, dove si
tratta di un ordine non grammaticale.
Rispetto alla situazione attuale le lingue romanze medievali presentano alcune peculiarità: il verbo può essere preceduto da costituenti diversi dal
soggetto e in questo caso il soggetto è normalmente collocato dopo il verbo. Così, con l’oggetto in posizione iniziale:

Ex. Nepote ho io di là c’ha nome Alagia (Dante)

O con diversi costrutti avverbiali:

Ex. Or torna messer Marco al Grande Kane co la sua ambasciata (Marco Polo)

Più raro è l’ordine con il verbo in posizione iniziale di frase, documentato soprattutto in costrutti intransitivi e nelle frasi interrogative.

Ex. Madonna, conoscete voi questo? (Boccaccio)

Secondo una ricostruzione oggi largamente accettata, le lingue romanze medievali avrebbero attraversato una fase V2 (ingl. verb second), in cui
cioè il verbo (V) occupa la seconda posizione nel corpo della frase, mentre la prima posizione può essere occupata da vari elementi (X) o anche
restare vuota. Il passaggio dall'ordine XV a quello SV sarebbe dovuto alla frequenza di S in posizione preverbale. Le lingue romanze moderne hanno
perduto il procedimento di inversione di soggetto e verbo, conservatosi nelle frasi interrogative con soggetti pronominali in francese, retoromanzo
e nei dialetti norditaliani. Nelle lingue romanze medievali come in quelle moderne i pronomi clitici sono sempre adiacenti al verbo, ma sono
diversi i meccanismi che ne regolano la posizione preverbale (proclitica) o postverbale (enclitica). Nelle lingue medievali, i clitici normalmente
seguono il verbo quando questo è in prima posizione.

Ex. Siena mi fé, disfecemi Maremma (Dante)


Quando la prima posizione è occupata da un altro elemento, i clitici precedono il verbo.

Ex. E tu l’adora (Guido Cavalcanti)

Nelle lingue romanze moderne si è affermata generalmente la proclisi (fenomeno per cui una parola costituisce un’unità prosodica con quella che
segue), tranne che all’infinito, al gerundio e all’imperativo, in cui si ha enclisi (fenomeno per cui una parola costituisce un’unità prosodica con
quella che la precede). In francese l’enclisi è più ristretta, mentre in portoghese europeo è più estesa.

Quando i clitici compaiono in gruppo, la sequenza ha normalmente un ordine fisso sia in proclisi che in enclisi:

Ex. Glielo chiedo - chiediglielo!

In latino le frasi completive (subordinate che fungono da soggetto, oggetto o complemento indiretto) sono espresse da forme verbali finite e non
finite; particolarmente produttiva appare la costruzione con il soggetto al caso accusativo e il verbo all’infinito. Questa costruzione non continua
nelle lingue romanze, se non raramente (e senza la marca dell’accusativo), in volgarizzamenti medievali o testi letterari di autori colti.

Ex. Confessò Bernabò così essere fatta la camera come diceva (Boccaccio)

L’infinito non è del tutto scomparso dalle frasi completive romanze: esso si usa dopo molti dei verbi che in latino prediligono l’accusativo con
l’infinito, a condizione che il soggetto del verbo della reggente e quello della completiva siano coreferenti (riferiti alla stessa entità); quando non
vi è coreferenza, si fa ricorso alla subordinata con verbo finito e soggetto esplicito.
L’uso dell’infinito è più limitato in rumeno e nei dialetti dell’Italia meridionale: questa impopolarità si può forse attribuire all’influenza del greco.
Il rumeno esibisce inoltre una doppia serie di complementatori (elementi introduttivi di una frase completiva): dopo verbi dichiarativi si usa ca con
l’indicativo, dopo verbi di volontà o di comando sa con il congiuntivo.
Anche nei dialetti italoromanzi di una vasta zona che va dalla Sicilia all’Abruzzo si usano come complementatori ca dopo i verbi dichiarativi e
che/chi/mu/ma/mi/cu dopo i verbi di volontà o di comando.

Nella maggior parte delle lingue romanze l’espressione del soggetto non è obbligatoria; in queste lingue pro-drop il soggetto pronominale è
considerato enfatico, ridondante o non grammaticale in contesti in cui il riferimento è prevedibile. Il soggetto è invece obbligatorio in un gruppo
di lingue che include il francese moderno e contemporaneo, alcune varietà occitane, francoprovenzali e retoromanze, i dialetti italoromanzi
settentrionali e il fiorentino odierno.

L’obbligatorietà del soggetto è solidale con altri cambiamenti morfosintattici, come la generalizzazione dell’ordine SVO. Il panorama attuale
presenta una notevole complessità e l’obbligatorietà può essere generale o parziale. Un caso a parte è rappresentato dal portoghese del Brasile,
lingua originariamente a soggetto nullo che si sta trasformando in lingua a soggetto obbligatorio.

La relazione soggetto-oggetto viene espressa nelle lingue romanze tramite la loro collocazione rispettivamente prima e dopo il verbo. In larga parte
dello spazio linguistico romanzo affiora la tendenza al marcamento preposizionale dell’oggetto diretto. La preposizione è in genere a ma in rumeno
è pe; l’oggetto può essere un pronome personale non clitico o un sintagma nominale, preferibilmente definito e designante un essere umano.

Ex. No appo bidu a nesciune > non ho visto nessuno

La genesi dell'oggetto diretto preposizionale è molto complessa: essa si può ricondurre a un nucleo di verbi, che in latino preclassico e post-classico
ammettono la costruzione con il caso dativo in alternativa all'accusativo. Un ruolo importante è svolto anche dalla sovraestensione dell'uso del
dativo in ambito pronominale. Occorre infine considerare la concorrenza portata al dativo semplice dalla costruzione AD + accusativo. L'oggetto
diretto preposizionale si sviluppa con cronologie diverse nelle varie lingue.

Le lingue romanze ereditano dal latino la negazione no(n)/nao/nu/ne (< NON), normalmente usata in posizione preverbale. Nel corso del
Medioevo si sviluppa in francese una forma di negazione discontinua, in cui all'elemento preverbale ne se ne aggiunge un altro in posizione post-
verbale.

Ex. …ne…pas…

Questa costruzione è tuttora quella normativa, ma nel parlato è frequente l’omissione dell’elemento preverbale.
Con questo sviluppo si completa il ciclo della negazione; in molte lingue l’avverbio negativo tende a indebolirsi foneticamente e/o semanticamente;
esso viene perciò rinforzato in contesti prima enfatici e poi neutri, essendo infine eliminato del tutto, mentre l’elemento originariamente
rinforzante assume il ruolo di avverbio negativo. In ambito romanzo si possono osservare stadi diversi del ciclo della negazione, senza che sia
evidente il motivo per cui in alcune lingue il sistema originario è relativamente saldo, mentre in altre è stato superato.
I dialetti italoromanzi settentrionali e il portoghese del Brasile hanno invece raggiunto uno stadio analogo a quello del francese parlato.

Il lessico delle lingue romanze è in gran parte di origine latina, costituendo un importante elemento di continuità diacronica. Per limitarsi
all’italiano, è riconducibile al latino il 52% del vocabolario di base, quello cioè a più alta frequenza e disponibilità, poco meno di 7000 lessemi che
coprono il 98% di qualunque testo italiano, scritto o orale. L’alta frequenza d’uso non ha impedito la scomparsa di voci comunissime in latino. Fra
le cause che contribuiscono alla perdita di una parola vi sono la scarsa consistenza fonetica e l’isolamento morfosemantico. Sono però soprattutto
i cambiamenti socioculturali a provocare il rinnovamento del lessico. I campi lessicali che mostrano maggiore stabilità nel passaggio dal latino alle
lingue romanze si riferiscono a:
• Parentela
• Parti del corpo
• Mondo naturale
• Animali
• Alimentazione
• Artigianato
• Tempo e calendario

È poi quasi generale la conservazione di un nucleo di aggettivi o verbi latini in qualche modo fondamentali, dei numerali, e delle parole funzionali.
Anche nei campi lessicali più stabili, si riscontrano casi di innovazione semantica (non in rumeno e sardo):

Ex. Padre, madre

In italiano, la parola frate continua nella forma il latino FRATER, ma ha acquisito il significato di “membro di un ordine religioso”, mentre il
diminutivo “fratello” ha ormai preso il posto di frate per il suo antico significato.
Nella Penisola iberica, invece, si affermano gli esiti di FRATER GERMANUS > hermano.
Nessuna lingua romanza conserva la distinzione latina tra zio paterno e zio materno. Ai continuatori di AVUNCULUS si contrappongono quelli di
THIUS, grecismo diffuso a partire dall’Italia meridionale.
Per quanto riguarda i meccanismi dell’innovazione, il punto di partenza è spesso una situazione latina di abbondanza lessicale. Per esempio, il latino
EQUUS (cavallo) è affiancato da CABALLUS (cavallo da tiro), ma solo il secondo ha continuatori diretti nelle lingue romanze. Spesso fra più parole
latine appartenenti allo stesso dominio nozionale sopravvivono nelle lingue romanze quelle con più forte espressività: così la voce latina FLERE
(piangere) è andata perduta, mentre hanno continuatori PLORARE (lamentarsi, gemere) e PLANGERE (battersi il petto per il dolore, lamentarsi).
Nel latino parlato hanno grande circolazione i diminutivi di valore vezzeggiativo, che hanno talvolta finito per sostituire nelle lingue romanze le
stesse basi lessicali da cui derivano:

Ex. AGNUS > AGNELLUS > agnello

Le innovazioni lessicali possono procedere anche per slittamenti semantici di tipo metonimico o metaforico: un esempio del primo è offerto dal
latino BUCCA (guancia) conservatosi nella maggior parte delle lingue romanze con il significato di “bocca”. Se la metonimia si basa sulla contiguità
spaziale, temporale o causale, la metafora utilizza il principio di similarità fra concetti appartenenti a contesti d’uso diversi:

Ex. TESTA (anfora) > CAPUT (capo > in senso anatomico)

Il passaggio dal latino alle lingue romanze è naturalmente solo una parte della storia del vocabolario patrimoniale romanzo. Occorre sottolineare
il carattere eccentrico del lessico rumeno nel panorama linguistico romanzo: la continuazione esclusiva di alcune parole latine rimanda
all’isolamento della Dacia nella fase tardolatina. La situazione per molti secoli appartata del rumeno spiega anche le innovazioni semantiche non
condivise da altre lingue romanze.

Accanto alle parole latine ereditarie, il lessico delle lingue romanze include un gran numero di parole latine di trasmissione indiretta a cui si dà il
nome di latinismi o cultismi. I latinismi sono molto più abbondanti delle parole latine ereditarie: circa l’86% delle 35.000 parole di etimo latino
del Grande dizionario italiano dell’uso (GRADIT). L’ingresso dei latinismi nelle lingue romanze è un processo di lunga durata, che copre l’intero
arco della loro storia. Non è sempre facile determinare se un latinismo diffuso in diverse lingue romanze sia stato preso in prestito più volte e
indipendentemente in ogni area, o sia stato introdotto dapprima in una lingua e poi di lì sia passato alle altre. I latinismi delle lingue romanze sono
di tipo diverso. Abbiamo in primo luogo un ristretto numero di parole latine non adattate alla fonetica e alla morfologia romanza (prestiti moderni).
La maggior parte dei latinismi ha subìto però qualche tipo di adattamento. In italiano i latinismi più recenti sono normalmente meno adattati (ex.
adepto o optare). In molte lingue si è avuta, in età umanistica e rinascimentale, una tendenza alla rilatinizzazione, a livello grafico e/o fonetico (ex.
estoria > historia). Sul piano formale, i latinismi si distinguono dalle forme patrimoniali perché si sottraggono alla regolare evoluzione fonetica e
risultano perciò più conservativi. Può anche accadere che la stessa voce latina passi alle lingue romanze per via orale e, più tardi, come prestito dal
latino scritto: avremo allora dei doppioni, detti anche allotropi (ex. da CAUSA > cosa).
Un caso particolare è costituito dai cosiddetti “semicultismi”, quelle parole trasmesse oralmente dal latino alle lingue romanze, ma che per influenza
del latino scritto hanno subìto solo parte dei mutamenti fonetici propri delle parole ereditarie.

Con il nome di prestiti o esotismi ci si riferisce alle parole straniere utilizzate in una lingua diversa da quella di origine. Nel caso dell’italiano, i
prestiti costituiscono il 12% del vocabolario di base. L’integrazione dei prestiti, insieme alla creazione di parole nuove (neologismi) e
all’attribuzione di significati nuovi a parole già esistenti, è uno dei segni di vitalità e di creatività delle lingue naturali. I prestiti sono il risultato di
processi di interferenza linguistica verificatasi in seguito al contatto fra utenti di lingue diverse. Le parole trasmesse da una lingua all’altra possono
avere per referenti nozioni nuove o già esistenti nella comunità linguistica. Tradizionalmente le prime sono considerate “prestiti di necessità”, le
seconde “prestiti di lusso”. L’uso di esotismi anche in presenza di parole corrispondenti nella lingua di arrivo risponde, almeno in origine, a esigenze
terminologiche dei parlanti bilingui.
L’uso occasionale o abituale di una parola straniera da parte di uno o più parlanti non comporta necessariamente la sua integrazione. I prestiti sono
in genere sostenuti dal prestigio sociale di cui gode la lingua di partenza e possono riflettere la superiorità tecnica di una comunità in un determinato
periodo. Essi possono anche provenire da lingue di popolazioni remote e/o di scarso peso politico-economico, o di gruppi socialmente marginali.
La motivazione dell’integrazione di un prestito può essere sfuggente: saranno in ogni caso determinanti i ruoli e le funzioni delle lingue in contatto
nelle interazioni comunicative tra i gruppi in cui il prestito ha avuto origine, mentre la sua diffusione su larga scala risponde a dinamiche complesse
e di altra natura.
Ai prestiti entrati in una lingua per via scritta si dà il nome di prestiti colti o libreschi. Il lessico del latino classico e tardo aveva già assorbito un
enorme numero di grecismi, ed è sempre il latino a fungere da mediatore per molti di questi grecismi dotti. Il greco costituisce il serbatoio più
ricco cui si attinge per la coniazione di nuovi termini; quindi, si tratta per lo più di neologismi, formati a partire da morfemi.

Il lessico che le lingue romanze ereditano dal latino contiene anche un certo numero di germanismi. Nella fase formativa dello spazio linguistico
romanzo, l’influenza lessicale germanica è sensibile; a differenza dei prestiti più antichi, quelli successivi alla disgregazione politico-culturale
dell’Impero hanno in genere una diffusione più ristretta. Non mancano germanismi altomedievali comuni a più lingue romanze, ma si tratta
normalmente di fenomeni di diffusione secondaria.
Ai grecismi già presenti nel lessico latino e a quelli di trafila colta, si aggiungono le parole trasmesse per via orale, cui si dà il nome di bizantinismi.
Tramite di questi prestiti sono in genere i volgari italiani. I bizantinismi sono per lo più di ambito marittimo e mercantile. Il ruolo giocato dalla
Corona di Aragona sullo scenario politico ed economico del Mediterraneo spiega come alcuni bizantinismi siano arrivati al catalano senza passare
la mediazione italiana e conoscano poi, proprio grazie al catalano, un’ulteriore diffusione.
Una componente di grande importanza del lessico romanzo è costituita dagli arabismi di epoca medievale. Gli arabismi incorporati nel lessico
iberoromanzo sono circa 2000, ma il loro uso si è molto ridotto nei secoli, a causa dell’obsolescenza delle tecniche, dei costumi e degli oggetti ad
essi associati. In siciliano si contano circa 450 arabismi, appartenenti per lo più all’ambito della cultura materiale. Qualche arabismo siciliano si è
diffuso al di là dei confini dell’isola, penetrando nei dialetti italoromanzi meridionali o in italiano.
A partire dalla fine del XV secolo, l’esplorazione e la conquista del continente americano da parte di spagnoli, portoghesi, inglesi, francesi e olandesi
portano con sé l’introduzione nelle lingue europee occidentali di un gran numero di prestiti relativi alle nuove realtà incontrate. Gli americanismi
penetrati in spagnolo, e poi diffusi in molte altre lingue, provengono da diverse lingue amerindiane.
Tra il Settecento e l’Ottocento la categoria dei germanismi romanzi si arricchisce di un nuovo contingente di parole di origine tedesca e inglese,
spesso di ambito tecnico-scientifico. Nel Novecento è l’inglese a fornire la quota più cospicua di parole straniere. Gli anglismi appartengono a una
grande varietà di campi nozionali.
La stratificazione dei prestiti in rumeno è parzialmente diversa da quella che si riscontra nelle altre lingue romanze. Va considerato il ruolo delle
lingue slave, presenti come adstrato o superstrato lungo tutto l’arco della storia del rumeno. È significativo anche il lascito lessicale del turco,
dell’ungherese e del greco.

Si è visto come sia tutt’altro che raro il passaggio di parole da una lingua romanza all’altra: si parla, in questo caso, di prestiti interni.
Sono passati dal francese medievale ad altre lingue romanze un gran numero di voci relative alla vita sociale, soprattutto delle classi alte. I
francesismi di età moderna appartengono ai domini nozionali più svariati, con particolare incidenza di quello militare, politico e amministrativo.
Di particolare rilievo l’impatto del francese sul lessico rumeno a partire dalla fine del Settecento, che porta all’ingresso di un buon numero di
francesismi.
Grazie al successo internazionale della lirica trobadorica, le lingue romanze incorporano varie voci dell’occitano medievale. Risale a una fase
cronologicamente successiva un altissimo numero di occitanismi entrati nella lingua francese.
Nel Medioevo alcuni volgari italiani propagano italianismi di ambito commerciale e marinaresco. In questo secondo gruppo troviamo non pochi
casi di “parole viaggiatrici” di origine incerta, in quanto documentate nello stesso periodo in varie lingue romanze. Molti gli italianismi di ambito
artistico e culturale diffusi a partire dal Cinquecento.
Nei secoli XVI-XVII il lessico romanzo accoglie una buona quantità di parole spagnole, ispanismi relativi a diversi aspetti della vita e dei riti sociali
dell’epoca.
Numerose parole catalane penetrano nello spagnolo e nei dialetti italoromanzi delle regioni sotto il dominio aragonese, mentre sono più rari i
catalanismi di irradiazione panromanza.
La situazione del portoghese è per certi versi analoga a quella del catalano: il numero dei portoghesismi entrati nelle lingue romanze è relativamente
esiguo, mentre è notevole quello dei prestiti da lingue esotiche veicolati dal portoghese lungo le rotte dell’Impero marittimo lusitano.

Le neoformazioni romanze rappresentano una cospicua quota di lessemi: in italiano, per esempio, esse ammontano al 34% del vocabolario di base.
I processi di derivazione consistono nella formazione di parole nuove attraverso l’aggiunta a una base lessicale di un elemento non libero, detto
affisso (prefisso o suffisso).
I pochi prefissi del latino (EX-, IN-, RE-, ecc.) sono passati alle lingue romanze in forme in cui la derivazione è spesso irriconoscibile (ex. riposare
> RE PAUSARE). La maggior parte dei prefissi romanzi esprimono localizzazione spaziale o temporale, negazione, ripetizione, quantificazione,
ma possono anche avere valore accrescitivo, diminutivo o intensificativo.
A differenza dei prefissi, i suffissi possono determinare il cambiamento di categoria lessicale della base. Nelle lingue romanze, i suffissi derivazionali,
pari a circa il doppio dei prefissi, sono in gran parte di origine latina. Con i suffissi si formano nomi di azione, di qualità, di luogo, di agente, nomi
astratti, verbi, aggettivi denominali e deverbali. Un’importante funzione dei suffissi è l’alterazione di nomi, aggettivi, verbi e, marginalmente,
avverbi. I diminutivi hanno la tendenza, (quasi) universale nelle lingue del mondo, a sviluppare valori affettivi e confidenziali. I suffissi diminutivi
sono usati solo in alcune lingue, mentre in altre si preferisce l’uso di forme perifrastiche.
Si può anche avere la formazione di parole nuove attraverso processi di derivazione senza aggiunta di affissi: si parla in questo caso di conversione.
Sono esempi di conversione la nominalizzazione di aggettivi, infiniti, participi presenti e passati.

Altro meccanismo fondamentale per la formazione di parole nuove è la composizione, cioè la combinazione di due (o più) parole. Le lingue
romanze usano abbondantemente la composizione per formare sia parole funzionali che parole lessicali. I composti romanzi più comuni sono
combinazioni di aggettivi, e nomi formati dall’unione di un verbo e un nome, un nome e un aggettivo, o un nome e un altro nome. La categoria
dei verbi composti è molto esigua e al giorno d’oggi non più produttiva. Per quanto riguarda l’ordine delle parole nei composti, le lingue romanze
prediligono la ramificazione a destra; quindi, il verbo precede il nome e il nome precede l’aggettivo (nel caso di nome-aggettivo, è frequente anche
l’ordine inverso).
Il racconto nel Medioevo.

Nel campo delle esperienze narrative romanze si operano distinzioni di tipo contenutistico (contrasto prod. ispirazione cortese/borghese), o di
tipo formale (contrasto stile tragico/comico, versi/prosa). Quando parliamo di prassi classificatoria dei copisti medievali, es. oitanici del XIII
secolo, questi criteri di catalogazione perdono importanza; qui predomina l’unico criterio di narrativa breve opposta a quella lunga.
La lirica (conservata nei canzonieri) è distinta dalla narrativa (di minor prestigio); all’interno di quest’ultima produzione, le canzoni di gesta hanno
una tradizione propria, mentre troviamo riuniti in grandi collettori unici componimenti brevi di ogni tipo: exempla e fabliaux, lais e legendae, fables
e dits, senza raggruppare i componimenti in base al contenuto o alla forma. In questi manoscritti, antologie del narratif bref, il profano confina col
religioso, serio con comico, morale con osceno, poesia con prosa; questo sulla base dell’unico criterio della brevitas. Questi testi, infatti, sono affini
per l’appartenenza alla tipologia retorica della narratio brevis.
La brevitas è un elemento per formalizzare il testo: in senso storico, in quanto detta le regole compositive fondamentali che permettono di
strutturare un testo narrativo, e in senso tassonomico, in quanto consente di catalogare i testi così ottenuti.
In generale, per trattare una determinata materia, è prevista una doppia possibilità, quella dell’amplificatio o quella dell’abbreviatio; la scelta tra le
due tecniche è importante per la strutturazione del testo. In particolare, il testo narrativo può costruirsi secondo tre modalità fondamentali (sulla
base della trattazione di Heinrich Lausberg cerchiamo di definirle):
1)La narratio aperta ha di mira il massimo di comprensibilità riguardo a ciò che racconta; enuncia un fatto reale di cui espone tutti gli elementi
rilevanti. (importante è l’ordo: quello seguito di preferenza è l’ordo naturalis, lo sviluppo temporale dei fatti). Lo scopo è docere: si elimina ogni
oscurità del discorso, facendo uso limitato dell’ornatus.
2)La narratio probabilis aspira alla persuasione, vuole convincere il pubblico sulla verità del fatto narrato, sia reale sia fittizio. Lo scopo è movere:
giocare sull’emotività dell’udienza, creare persuasione per mezzo dell’ornatus, usando figure retoriche, strumenti psicologici, coinvolgendo il
pubblico nella narrazione.
3) La narratio brevis si oppone alla narratio aperta per il suo essere “chiusa”, cioè sintetica non analitica, nel senso che mira all'estrema concisione; ha
una sua autosufficienza interna, la sua comprensione è immediata, presentificata, non dilazionata nel tempo. Si diversifica anche rispetto alla
probabilis, sia perché raramente è verosimile, sia perché il suo scopo non è soltanto il movere, ma soprattutto il delectare; finalità orientata verso il
divertimento e il piacere artistico.
Una simile tripartizione retorica viene a incontrarsi con un'altra, quella dei genera narrationum all'interno della quale fabula si oppone sia a historia
che ad argumentum. La fabula, infatti, con le sue narrazioni «neque verae neque verisimiles», ritaglia lo spazio della narratio brevis, mentre l'historia,
che si riferisce alle “res gestae” del passato, rinvia alla narratio aperta, e l'argumentum, con le sue “res fictae” ma possibili, calza a pennello con la
definizione di narratio probabilis.
Alla base della denominazione del fabliau, tra i generi più rappresentativi della narratio brevis romanza, agisce questa imposizione di una modalità
del discorso narrativo (la brevitas) a un tipo particolare di narrazione (la fabula): il fabliau è infatti etimologicamente una «favola breve».
Precisare i tratti distintivi della narratio brevis romanza:
a) Fissiamo i limiti della brevitas. La brevità non è soltanto un fatto misurabile, una quantità, ma anche una durata interiore, una qualità. Nella sua
articolazione, a una misura temporale quantificabile, si aggiunge una misura psicologica di più difficile obiettivazione (il tempo dell'ascolto o della
lettura interiore). Il tempo del racconto è pertanto vissuto anche come esperienza intima.
b) La linearità. L'azione narrativa segue una progressione lineare: nel senso che la fine esaurisce tutte le potenzialità narrative annunciate dal
principio. Il principio è esaustivo per quanto riguarda le informazioni necessarie per comprendere il fatto; la fine non lascia niente di irrisolto.
c) La delectatio: l'aspirazione principale della narratio brevis diventa sempre più quella di divertire, di intrattenere il pubblico, allontanandolo dalle
preoccupazioni dei negotia e proiettandolo nel regno degli otia dello spirito. Per raggiungere tale obiettivo è necessario, al livello di elocutio, l'abile
uso dell'ornato retorico e, al livello di dispositio, il ricorso all'ondo artificialis, e quindi un notevole travaglio di letterarizzazione:
d) La veritas della narrazione si identifica alla fine con l'atto stesso di raccontare. Il senso che si vuole traghettare fa sempre meno riferimento a
idealità religiose e morali imposte dall'alto o dall'esterno, e tende sempre più a coincidere con le parole stesse che servono all'af fabulazione; fino
al limite estremo in cui il sensus si risolve nella spie gazione etimologica del nome del protagonista, o si condensa nell'in ventio divertita delle
dramatis personae. Il senso comunicato è sempre comunque univoco e concreto, chiaramente indicato o facilmente estraibile dal testo.
Questi tratti compaiono nella narratio brevis come tendenze, si trovano realizzati in modo non perfettamente cosciente. Ma è il diverso dosaggio e
la diversa modalità di applicazione di questi elementi che ci consentirà di definire e di opporre l'uno all'altro i vari generi che costituiscono tale
narrativa. In una società così rigidamente gerarchizzata come quella medievale, i generi narrativi che stiamo considerando sono posti sotto il segno
della marginalità. Basti riflettere sul fatto che essi ci sono tramandati da una tradizione manoscritta poco prestigiosa e frammentaria, che ricevono
scarsissima attenzione nei coevi trattati di poetica e di retorica, che si affidano all'esecuzione estemporanea di menestrelli o giullari. Essendo l'oralità
il modo attraverso il quale questa letteratura si comunica, è ovvio che una delle sue qualità più essenziali rimanga per noi difficilmente afferrabile.
Uno strumento per ricostruire la vita storico-sociale della narrativa breve noi lo possediamo: sono i rimaneggiamenti, la serie quasi illimitata di
adattamenti a cui essa ha dato luogo nel corso del suo sviluppo (possiamo addirittura estendere a questa produzione il principio ecdotico di “quot
codices, tot recensiones”, o quello critico del tradizionalismo di Menéndez Pidal). Questo studio diacronico ha già offerto delle indicazioni che in
qualche modo confermano le risultanze emerse dallo studio sincronico: e cioè che la novella costituisce il approdo finale del processo di
elaborazione e di rinnovamento della narratio brevis romanza.

L'avvento di una tradizione narrativa in volgare è posto sotto segno dell'agiografia. Questa direzione iniziale è importante perché marcherà gran
parte della produzione letteraria successiva, in quanto da una parte la chanson de geste e dall'altra il roman saranno influenzati dal modello agiografico.
Per designare il racconto agiografico ci si serve del termine legenda, col quale si vuole indicare la passio del martire, la vita del santo confessore, i
miracula (le prove cioè della santità) la translatio (il trasferimento del corpo o delle reliquie). Legenda sintetizza il trittico di «vita, morte e miracoli»,
la totalità agiografica. Il significato originario del termine è quello di “lettura”; presto però esso comincia ad assumere un'accezione più estensiva:
ciò che il cristiano deve leggere nel progetto di santificazione liturgica e paraliturgica del tempo.
Modelli mediolatini: all'interno della tradizione agiografica mediolatina, dobbiamo operare una distinzione fondamentale, al livello del contenuto,
fra passiones e vitae sanctorum. L’imitatio Christi, che è la definizione più vera di santità, si può svolgere in due modi: il santo imita la morte di
Cristo=passio; imita la sua attività didascalica=vita. Nel primo caso si ha una contrapposizione fra storia terrena (paganesimo) e storia divina
(cristianesimo), che trova nel sacrificio della croce la sua risoluzione finale. Nel secondo caso si ha invece un iter formativo che porta alla graduale
scoperta dei valori celesti e al conseguente abbandono delle cure mondane; siamo in un momento in cui il cristianesimo si è già affermato, e quando
si stabilisce fra i cristiani una sorta di competizione per imitare più compiutamente Cristo. Se all'inizio il santo è un guerriero che combatte fino
alla morte per l'affermazione dei valori cristiani (testo esemplare di tale atteggiamento spirituale è la passio di san Giorgio), successivamente egli
diventa un eroe dello spirito che prova con le sue opere la verità della parola di Cristo (testi archetipici possono essere considerati la Vita Martini
di Sulpicio Severo, la vita di san Benedetto contenuta nel secondo libro dei Dialogi di san Gregorio Magno, e la Vita Sancti Cuthberti di Beda).
L'eccezionalità assoluta del «martire» viene così a contrapporsi all'eccezionalità relativa (che si evidenzia cioè rispetto alla norma cristiana) del
«confessores». Questa tipologia oppositiva va completata con alcune categorie più specifiche di santità: come quella degli apostoli (che comprende
vitae e passiones dei dodici apostoli) o quella dei «dot tori» (rappresentata dai santi fondatori della dottrina cristiana: quali Agostino, Girolamo,
Gregorio, Dionigi l'Areopagita e Ambrogio). La funzione fondamentale del santo è quella di stabilire un pattern di comportamento degno di essere
imitato. Il santo, avendo imitato la vita e/o la morte di Cristo, e avendo dimostrato la sua similarità con Lui per mezzo del miracoli, diventa nella
prassi della Chiesa simile a Cristo, intermediario fra la Storia e Dio. il suo diretto coinvolgimento nel processo di conversio umana dal peccato alla
grazia, lo rendono certo più imitabile (cioè più prossimo alla dimensione normale di cristianità) del paradigma stesso di santità, Cristo. Il santo
diventa così il modello per la formazione di nuovi santi: di qui il senso di omogeneità che regna fra le varie legendae, dovuto sia all'unicità
dell'archetipo cristologico, sia alla ripetizione di tale archetipo nelle sue numerose attualizzazioni storiche che sono gli stessi santi cristiani.
Un sottotipo delle Vitae Sanctorum sono le Vitae Patrum. Gli eroi di queste narrazioni sono gli anacoreti, quegli uomini e quelle donne che a partire
dal III secolo cominciarono ad abitare i deserti dell'Egitto, della Siria e della Palestina, per poter sfuggire ai pericoli della vita mondana. L'Egitto e
il deserto sono prima di tutto dei luoghi geograficamente determinati; la pienezza del senso la acquistano però a un livello più profondo: essi
richiamano infatti il pattern biblico dell'Esodo, il tema della peregrinatio, e alludono alle tappe storico-esistenziali del peccato e del pentimento,
attraverso le quali l'anima si trova a passare prima di poter raggiungere la Gerusalemme celeste, il paradiso. Nella vita eremitica il santo ingaggia
una lotta spietata da una parte con il corpo, che viene umiliato e ignorato fino a essere reso quasi irriconoscibile, e dall'altra con il diavolo, le cui
apparizioni nelle forme ora di un animale ora di una vergine rappresentano la dose quotidiana di tentazioni da superare. I modelli di questa
letteratura agiografica sono greci: e comprendono biografie di monaci (Vita Antoni, IV secolo da Atanasio e tradotta in latino da Evagrio), resoconti
di viaggi fra le sparse comunità eremitiche (la Historia monachorum della fine del V secolo e la Historia lausiaca degli inizi del V), oltre ad antologie
di detti memorabili (gli Apophtegmata). Il primo autore latino a trattare queste avventure spitituali è san Girolamo; lui stesso accorso nel deserto
di Calcide in Siria per sconfiggere in sé l'homo vetus aristocratico e ciceroniano.
Il miraculum, prima di costituirsi in genere narrativo, forma la documentazione necessaria sulla quale il processo di canonizzazione può essere
avviato; questi signa della santità passano a far parte dell'appendice alla vita o alla passio del santo, Il miraculum assume funzioni diverse: inserito nella
passio, tende a dimostrare dove sta la verità, evidenzia la parte dalla quale si schiera Dio, con i martiri e contro i persecutori; associato con la vita,
rivela il livello di eccezionalità nel servizio divino raggiunto dal scopo santo, diventa il mezzo per confermare e rafforzare la fede del cristiano
«normale» .Il significato del miraculum è quindi apologetica: presenta una serie di esempi per mezzo dei quali si edifica l'anima del cristiano in
rapporto a qualche punto dottrinale come la comunione o la confessione, o come il suffragio dei defunti. In questo senso il miraculum può essere
definito come un rac conto che illustra narrativamente un mistero della fede cristiana. Una tradizione miracolistica latina si costituisce nella seconda
metà del VI secolo, e trova in Gregorio di Tours e in Gregorio Magno i suoi più straordinari cultori. Il grande capolavoro del genere sono infatti i
Dialogorum libri IV di san Gregorio. Dall'abitudine della Chiesa a utilizzare le vitae dei santi con scopi liturgici di sacralizzazione del tempo, comincia
a svilupparsi una tendenza volta a provvedere degli inventari completi del patrimonio agiografico cristiano. Tali inventari, chiamati «leggendari»,
sono costruiti in base a principi tassonomici rigorosi: l'ordinamento temporale per circulum anni, per cui la legenda del santo è riportata nel giomo
corrispondente alla sua celebrazione liturgica, o quello gerarchico, per cui i santi vengono suddivisi in varie categorie (Cristo, Vergine, apostoli,
ai martiri). I leggendari hanno un doppio obiettivo: pastorale (mirano ad affermarsi come strumenti di consultazione per predicatori) e propagandistico
(esaltando i santi di un convento o ordine, fanno opera di promozione spirituale di quel convento o di quell'ordine). Queste compilazioni, di solito
anonime, danno vita nel corso del XIII secolo alle Legendae novae: che esibiscono il nome dell'auctor, e sono meno esposte al rischio dell’alterazione
del contenuto. Si presentano come libri, come opere organiche e omogenee. Il capolavoro di questo genere, dopo lo Speculum historiale di Vincenzo
di Beauvais, che contiene più di 500 fra vitae e miracula, è la Legenda aurea di Iacopo da Varazze, redatta verso il 1260. Il racconto agiografico
entrando a far parte di organismi onnicomprensivi, come i Dialogi gregoriani o la Legenda aurea, tende ad accorciarsi. In questi casi la brevitas non
ha soltanto una motivazione economica (quella di consentire la catalogazione della santità cristiana nei limiti di un solo liber), ma diventa un ideale
stilistico. La brevitas, infatti, permette la condensazione del significato delle narrazioni, e quindi una messa in prospettiva dei valori da esse
rappresentati. La singola vita, il miraculum particolare, ci appaiono alla fine come tessere di un grandioso piano divino di salvazione universale;
vengono cioè proiettati sullo schermo della grande palingenesi cristiana, della totale renovatio della civitas terrena.
Il nuovo auctor, nel riprendere la tematica leggendaria latina, tenta di vivificarla e di attualizzarla per poterla adattare alle esigenze e ai gusti del
pubblico che ha da vanti. Per raggiungere il suo scopo egli deve procedere a una sottile manipolazione psicologica del suo uditorio. Se all'inizio tale
coinvolgimento è motivato da ragioni religiose, man mano che l'agiografia oitanica evolve, esso comincia a rispondere a esigenze che sconfinano
nel mondo dell'evasione letteraria. La legenda viene a ricongiungersi e quasi a sovrapporsi alle altre forme profane della narratio brevis, come il
fabliau e il lai, e a preannunciare l'avvento di una nuova forma che raccoglie in sé le potenzialità narrative di tutti questi generi: la novella.

Dai modelli mediolatini ai primi testi oitanici. Nella letteratura oitanica (e romanza) riscontriamo l'opposizione passio/vita. La sequenza di
Sant’Eulalia e il poemetto di Sant’Alessio si rifanno rispettivamente alla passio e alla vita. Il metro di questi racconti agiografici è il distico di octosyllabes
a rima baciata. Segno di un progressivo adeguamento e inserimento della legenda nell'area delle esperienze letterarie cortesi e comiche è il fatto
che iniziamo a riscontrare un meraviglioso religioso accanto a un meraviglioso profano. Altre due forme che trovano ampia rappresentazione nella
letteratura oitanica sono le Vitae Patrum e il miraculum. Si organizzano in ampie collezioni e si passano i materiali narrativi in maniera reciproca. Le
prime collezioni sono i Miracoli della Vergine in octosyllabes a rima baciata. La raccolta più importante è quella dei Miracles de Nostre Dame di Gautier
(1230), capolavoro del genere, si compon gono di due libri, articolati in modo simmetrico: precede un prologo, con annesse sette canzoni in onore
della Vergine. A esso fanno seguito i miracles veri e propri, di un'estensione che varia fra i 100 ei 300-400 versi, con punte massime eccezionali
oltre i 2.000 versi: abbiamo 35 racconti nel primo libro e 23 nel secondo. A chiusura del primo libro ci sono tre canzoni in onore di santa Leocadia,
il ritrovamento delle cui ossa costituisce il tema dell'ultimo miracle, mentre a chiusura del secondo c'è un epilogo seguito da vari saluts di congedo
in onore della Vergine. Infine, ricordiamo una seconda collezione anglonormanna di miracles della Vergine, composta verso la metà del XIII secolo.
L'azione narrativa di questi componimenti ha una struttura molto precisa:
1) il protagonista commette un peccato, la cui gravità ci dimostra l'interferenza dello spirito maligno;
2) quando il protagonista sta per soccombere alle forze del male, viene salvato dall’intervento meraviglioso della Vergine;
3) abbiamo un riconoscimento della realtà del miracolo e rafforzamento della fede.
La differenza fondamentale del miracle rispetto agli altri generi agiografici è che il protagonista qui non è l'eroe perfettissimo della fede cristiana,
ma un uomo imperfetto, un peccatore, col quale più immediata diventa l'identificazione del pubblico.
Rispetto al miraculum mediolatino, la funzione didascalicaviene meno e il miracle oitanico diventa divertimento narrativo.
Nel corso della prima metà del XIII secolo si costituisce anche il corpus oitanico delle Vies des Pèrer, dei racconti agiografici ispirati alle Vitae Patrum.
L'opera si compone di 74 racconti, nel distico di octosyllabes, divise in due parti diverse per stile e ispirazione, e riunite insieme verso la fine del
secolo. La prima parte comprende 42 racconti e la seconda i rimanenti 32. Le ragioni di tale divisione sono anzitutto testuali: la grande maggioranza
dei manoscritti che ci ha trasmesso l'opera contiene soltanto la prima parte; inoltre dopo il racconto n. 42 c'è un explicit, una formula conclusiva.
Prima del racconto n. 43 si ha un prologo con funzione prefatoria a una nuova serie. A queste ragioni se ne possono aggiungere altre di natura più
storico-letteraria.
-I racconti della prima parte appaiono costruiti secondo uno schema fisso che include un prologo, un apologo o la narrazione vera e propria, e un
epilogo a carattere moralistico; funzionalizzati alla catechesi.
-Nella seconda parte invece i racconti sono privi di prologo, e l'epilogo ha funzione di generica esortazione al culto divino.
Se guardiamo a questo racconto in maniera diacronica, osserviamo che scompaiono ogni scrupolo di veridicità, spesso il protagonista è anonimo,
e l’interesse didattico. Quello che ormai attira il lettore è l’intreccio narrativo, il movimento dell’azione, il contrasto drammatico bene/male,
peccato/pentimento, e l’intervento della divinità, praticamente l’apertura al quotidiano e al meraviglioso. Alla veritas del fatto si sostituisce quella
del racconto, e prevale la finzione.
III. Il racconto esemplare. Il racconto agiografico si compone di facta (vita, morte e miracoli), e di dicta (apoftegmi, sentenze). L'exemplum medievale
si costituisce proprio attorno a questo patrimonio narrativo. Una distinzione, naturalmente, sin da subito s'impone: l'exempla di cui qui ci
occupiamo è quello narrativo, da distinguere da quello retorico di cui parlano i retort classici (da Aristotele, che lo chiama paradeigma, a Cicerone),
benché, come vedremo subito, la tendenza che si manifesta progressivamente nel corso del Medioevo è quella che porta alla sovrapposizione delle
due forme.
Le raccolte di exempla del XII, XIII e XIV secolo possono essere considerate come delle grandi enciclopedie di dicta e facta da imitare. C’è
l’imitazione di una serie di gesti, azioni, parole, che costituiscono un ricettario completo del comportamento dell'uomo. L'esistenza umana viene
così regolata in ogni sua più piccola manifestazione: l'exemplum in qualche modo completa la funzione modellizzante della legenda.L'accesso all'
exemplum avviene collettivamente e pubblicamente attraverso la predicazione. Infatti, esso nasce come legato agli ambienti monastici, per poi
avere un momento di forte sviluppo che coincide con l’ascesa degli ordini mendicanti. Nel suo essere legato all’omelia e alla predica risiede uno
dei suoi tratti essenziali, perché l’attività predicatoria in volgare che dà vita a questo genere era affidata all’oralità e quindi quasi del tutto perduta.
Ciò che ci rimane sono delle registrazioni dalla viva voce del predicatore, le reportationes, in latino. Ci forniscono solo un breve resoconto del
materiale narrativo utilizzato; il loro scopo è infatti quello di servire a predicatori futuri, e non di sostituirsi alla predica. Bisogna aspettare il XIV
secolo perché siano attestate delle prediche in volgare: quelle di fra Giordano da Pisa e san Bernardino da Siena per l'Italia, e di Vincent Ferrer per la
penisola iberica.
Si viene a creare un aspetto paradossale dell’esempio; da un lato è un genere fondamentale, ma dall’altro le fonti sono poche e isolate. Il legame
con l’oralità ha portato all’idea sbagliata che si trattasse di un prodotto letterario marginale. Questo atteggiamento è stato parzialmente superato
grazie alle posizioni assunte da Jacques le Goff. Dal pov strutturale, distinguiamo due elementi costitutivi:
-la narratio, il riferimento a un fatto o detto memorabile accaduto ad un uomo degno di essere nominato. Può prevedere una parte introduttiva, di
solito la citazione della fonte, e una parte centrale, che è il racconto vero e proprio (questa parte è obbligatoria: senza di essa non si ha exemplum);
- il sensus, la lezione o morale che si estrae dalla narrazione, e che può stare prima o dopo di essa. Nelle raccolte di exempla questo elemento di
solito manca: è affidato all'interpretazione personale del predicatore. Questo sensus da spirituale e metastorico si trasforma in mondano e artistico:
si finisce per ricercare solo la bella parola, o il bel motto; ciò comporta un processo di letterarizzazione dell'exemplum, (acquista coscienza della sua
validità artistica e della sua capacità di attirare l'attenzione del pubblico) e la sua evoluzione verso una forma narrativa nuova, la novella.
“Il fenomeno ora descritto” PAG 25 FINO A PAG 28 “la monotonia della catechesi” CAPISCI SE IMPO.
Fra narratio e sensus c'è quindi un rapporto di «imitabile» a «imitato». ????
Non è possibile qui tratteggiare le linee evolutive dell'exemplum nel Medioevo. Possiamo dire soltanto che il passaggio da un ambiente monastico
chiuso a uno aperto modificò il ruolo e il significato di questo genere. I domenicani e i francescani prendono alla lettera l'insegnamento di Cristo,
e vanno nel mondo ad annunciare la buona novella a tutti gli uomini. Per far questo si muniscono di un bagaglio di narrazioni esemplari, con le
quali sperano da una parte di suscitare interesse e anche divertimento nel loro uditorio, e dall'altra di sottrarre proseliti ai generi narrativi profani,
che proprio in quel momento, nella prima metà del XIII secolo, cominciano la loro penetrazione negli ambienti borghesi e popolari. L'esito è che
l'exemplum viene sempre meno raccontato per insegnare, e sempre più per intrattenere.
Due conseguenze derivano dalla mutazione di mentalità:
-la prima è quella che conduce all'ampliamento delle fonti dell'exemplum: all'agiografia si aggiungono altre fonti, classiche e moderne, storiche,
narrative e scientifiche e la fonte scritta si trova a dover affrontare la concorrenza della fonte orale; --la seconda conseguenza è che la distinzione
fra exemplum (racconto che pertiene al paradigmatico e all'universale) e aneddoto (racconto che afferisce al non-paradigmatico e al personale) viene
abolita; e l'aneddoto, l'esperienza privata ed evenemenziale, riceve uguale diritto di cittadinanza al pari dell'exemplum, dell'esperienza codificata
e ideale.
La grande maggioranza delle raccolte di exempla è stata realizzata, per lo più a opera di monaci appartenenti all'uno o all'altro ordine mendicante,
proprio nel corso del XIII e XIV secolo. Stefano di Borbone, domenicano, è quello che ci ha lasciato la collezione più ricca di exempla: ne raccoglie
ben 2.900 nel suo Tractatus de diversit materiis praedicabilibus. In ambiente francescano si producono delle raccolte di exempla ordinate
alfabeticamente e provviste di un indice generale della materia trattata: esponenti di questo metodo sono gli anonimi Liber exemplorum ad usum
praedicantium, la Tabula exemplorum secundum ordinem alphabeti, e lo Speculum laicorum, composti verso la fine del Duecento. I racconti esemplari
vengono qui raggruppati in capitoli o titoli, ognuno dei quali provvisto di rubrica indicativa; tipiche rubriche sono quelle collegate con l'impianto
dottrinale della Chiesa o con i vizi che impediscono l'accesso alla vita eterna, o con momenti decisivi del cammino di perfezionamento umano.
All'inizio del Trecento un domenicano, Arnoldo di Liegi, sforna un nuovo Alpbabetum narrationum, forse la collezione di exempla più diffusa e
popolare nel Medioevo; la grande novità di quest'opera è la presenza di una fitta serie di rimandi incrociati, per cui un exemplum inserito sotto
una rubrica viene anche segnalato per un suo possibile uso in una rubrica diversa, con la formula «hoc etiam valet ad...»; in tal modo, come
giustamente osserva Le Goff, l'exemplum perde l'univocità di applicazione, può essere sottoposto a interpretazioni molteplici; la rete dei rinvii
inoltre fa sì che i circa 800 exempla effettivi, radunati sotto più di 500 rubriche, si trasformino in più di 3.000 virtuali.
Accanto a queste raccolte di exempla, collochiamo un diverso tipo di collezioni, sviluppatosi nel XIV secolo, in cui l'interpretazione del racconto
e la moralità si trovano aggiunte alla fine del racconto stesso. Il passaggio da una moralisatio discrezionale a una imposta indica il trasferimento di
queste raccolte dalle mani del predicatore a quelle di lettori generici, incapaci di trovare da soli il significato profondo del racconto che hanno
davanti. Di conseguenza, l'exemplum non viene più raccontato per la ricreazione di un uditorio popolare, ma viene letto in privato da un pubblico
più raffinato. A questa tipologia appartengono le Narrationes di Odo di Cheriton, che riuniscono 45 racconti moralizzati, fra i quali predominano
favole e parabole; i Gesta Romanorum, composti in Inghilterra verso il 1340, raccolta di exempla di origine classica, ma anche orientale, e infine i
Contes moralisés di Nicola Bozon, la prima collezione oitanica di exempla, che includono racconti e aneddoti per servire a verità morali. Indichiamo,
infine, anche le collezioni di racconti di origine orientale assimilabili agli exempla. Fra queste ricordiamo la Disciplina clericalis, degli inizi del XII
secolo, scritta dall'ebreo convertito Pietro Alfonsi; il Dolopathos, tradotto in latino verso il 1184, per le cure di un monaco cistercense chiamato
Giovanni di Altaselva, da una versione araba dell'antica leggenda mediopersiana di Sindbad; il Liber Kalilae et Dimnae, tradotto in latino, nella seconda
metà del XIII secolo, da un altro ebreo convertito, Giovanni da Capua, da una redazione araba dei racconti orientali del Panchatantra. Oltre al
fatto di avere arricchito la narrativa occidentale di una massa ingente di exempla nova, queste raccolte orientali hanno introdotto la tecnica della
«cornice»; le varie storie che le costituiscono sono infatti collegate fra loro da una storia portante.
Nella Disciplina clericalis è il padre che, sentendo prossima la morte, racconta al figlio una serie di exempla con lo scopo di amministrargli quelle
regole di comportamento sociale e civile che dovranno accompa gnarlo in sua assenza (si tratta quindi di un progetto non di edificazione religiosa,
ma di formazione mondana). Il Dolopathos presenta invece il caso dell'imperatrice che, come la moglie di Putifar, accusa il suo figliastro di aver
tentato di sedurla, senza che questi possa difendersi per l'interdizione impostagli dal suo precettore a parlare; sette saggi uomini di Roma raccontano
allora delle storie per provare la malvagità delle donne e pertanto avvalorare l'innocenza del principe: e questo nel tentativo di dilazionare la sua
esecuzione ordinata dal padre, il re Dolopathos appunto; finché il precettore toglie l'interdizione, e il principe, recuperato l'uso della parola, può
difendersi dalla false accuse della matrigna (anche qui le storie esemplari hanno una funzione chiaramente mondana: sono tese a raggiungere una
salus solo terrena, mi rando a preservare la vita del principe). D'altro canto, Kalila et Dimna è una raccolta ordinata di apologhi con personaggi
animali come pro tagonisti; il suo scopo è quello di rivelare le verità fondamentali della natura umana, che trovano negli archetipi animali la loro
realizzazione più perfetta. Nel Dialogus, infine, alle verità alte enunciate dal saggio re Salomone, si contrappongono le verità basse espresse dal suo
in terlocutore, lo stolto Marcolfo; anche qui perseguendo un progetto di descrizione totale della natura umana. SONO TRAME PAG 32 VEDI SE
IMPO

Il narratif bref si afferma in Francia alla fine del XII secolo, e si consolida nel corso del XIII secolo come risposta a forme narrative alte tipo l'epica e
il romanzo cortese risposta dettata naturalmente da una nuova situazione storico-sociale (venuta a crearsi a causa del passaggio da una società
feudale a una urbana e borghese) e da una diversa domanda dell'utenza. Mentre la chanson de geste e il roman rispondevano alle esigenze di una società
che voleva perpetuare il ricordo delle sue lontane origini, e dei mitici eroi che l'avevano fondata, il narratif bref cerca invece di rievocare una realtà
più vicina, presente o presentificabile, i cui protagonisti sono persone che si pongono allo stesso livello degli ascoltatori/lettori e non tanto dal pov
psicologico.Contrariamente all'auctor epico o romanzesco, che si presentava come imago terrena dell'Architetto divino, in totale controllo della
sua opera, il giullare si presenta invece come intermediario di un patrimonio narrativo alla portata di tutti, facendo così capire all'udienza di esservi
direttamente coinvolta.
I.Il «lai»: È la prima realizzazione profana importante della narrativa breve antico-francese. La parola lai proviene dal celtico laid, che significa
«canto»: una composizione musicale eseguita con l’arpa o la viola. Si compone di distici di octosyllabes a rima baciata; la sua estensione varia tra i
100 versi ai 1000. Diffusione ristretta e esistenza breve.
Il nome con cui il lai oitanico si identifica è quello di Marie de France. In «Marie» dobbiamo leggere l’essenza della femminilità cristiana; mentre in
«de France» possiamo riconoscere un riferimento culturale; la volontà di dare un volto autoctono alla poesia. Il nome vuole situare l’opera
dell’autore, indicare le sue coordinate culturali che sono l’appartenenza all’era cristiana illuminata dalla Rivelazione e la fedeltà alla tradizione
poetica oitanica.
Documento fondamentale per comprendere il significato culturale del lai e dei Lais di Maria in particolare, è il Prologo che l’autrice ha premesso
nella sua raccolta. Inizia con una citazione, con la ripresa della parabola evangelica dei talenti: chi possiede scienza (conoscenza della natura) ed
eloquenza (conoscenza dell’ars rhetorica), ricchezza di contenuti e perfezione di forma, deve metterle a frutto, poiché tali doti si valorizzano soltanto
quando sono attualizzate e recepite da un pubblico (vv. 1-8). Maria afferma, in questi primi versi, la sua volontà di iscriversi al canone degli auctores:
la sua poesia deve diventare fonte di autorità. Ciò è confermato dai versi successivi (9-16), nei quali essa propone come paradigma da imitare quello
degli auctores per eccellenza: i classici. Prisciano, il gramaticus per antonomasia, testimonia come l'oscurità dei libri antichi fosse voluta: nei testi
degli auctores è nascosto un tesoro che i moderni, i posteriores, avrebbero pienamente rivelato con il procedimento allegorico. La glossa avrebbe
scoperto lo spirito (il sensus e la sententia) cristiano latente sotto il livello letterale delle favole antiche. I filosofi, continua Maria (vv. 17-22), sono
garanti della validità di questo procedimento: il tempo aumenta il valore dell'opera, perché col tempo si sviluppa la sottigliezza ( subtilitas)
dell'uomo, e quindi la sua capacità di penetrare il significato del testo; ciò che gli impedisce di morire, anzi gli garantisce fama perenne. Necessità
dunque per l'auctor moderno di intraprendere una «grevose ovre», se egli vuole adeguarsi al paradigma dei classici e far fruttificare il suo talento
letterario (vv. 23-27). A questo punto però Maria si rende conto di trovarsi a un bivio, di dover operare una scelta capitale fra due modelli di
scrittura. Da un lato le è offerta la possibilità comporre una «estoire», di trasporre cioè dal latino alla lingua volgare le opere degli auctores, dotandole
di una glossa capace di evidenziare la veritas cristiana allegoricamente implicata. L'autrice rinuncia però a tale progetto, perché lo ritiene troppo
comune; essa avverte che i romanzi di Eneas, Thèbes, o anche Troie, non rispondono più alle esigenze di un pubblico sempre più desideroso di novità
e di autenticità (vv. 28-32). Dall'altro lato è aperta per lei una via diversa e originale: quella di rimare il contenuto narrativo dei «lais» (vv. 33-42).
Bisogna stare attenti a comprendere i tratti distintivi che marcano l'opposizione estoire/lai. Lai è non-estoire, è fabula, affondando le sue radici nel
mito, basandosi sui ficta. Lai è anche prodotto originario, naturale, e quindi vicinissimo alla fonte stessa dell'ispirazione umana, Dio, da cui gli
proviene l'inesauribile ricchezza e la straordinaria potenzialità semantica; mentre estoire è prodotto riflesso, culturale, tributaria dell'ars (l'uomo è
il suo artefice), caratterizzata dalla perfezione formale e dalla latenza della veritas cristiana dei contenuti. E quindi se l'estoire antica richiede il
complemento moderno della glossa, nel lai la glossa mette in evidenza il senso profondo degli eventi narrati nell'atto stesso di narrare: poiché tale
senso si trova dentro, non fuori, l'evento. L'insistenza con la quale Maria parla della sua mise en écriture di temi che fino ad allora avevano avuto una
circolazione solo orale («rime en ai e fait ditié, /soventes fiez en an veillié!» [li ho rimati e li ho innalzati alla nobiltà della poesia: ciò che mi ha
procurato parecchie notti insonni!]), ci fa capire come una simile padronanza dell'ars rhetorica e delle tecniche interpretative, fosse quello di cui
difettavano i suoi precursori. Il pericolo è che, affidati alla loro responsabilità, tali temi rischierebbero di cadere per sempre nell'oblio (cfr. v. 40).
L'opera di Maria riuscirà invece a rivelare la novità di queste composizioni e a manifestarne la straordinaria bellezza, tanto da renderle degne di
essere presentate a un re. Destinatario privilegiato dei Lais è infatti il «noble reis» (v. 43), identificato storicamente con Enrico II Plantageneto,
che diventa il garante sociale e pubblico dell’auctoritas letteraria di Maria.
Il Prologo richiede un supplemento d'analisi riguardo al problema, di vitale importanza per Maria, di come nasce un lai. Ai vv. 33-38 essa ci dice
che questi lais «k'oiz aveie», che lei aveva ascoltato, i suoi predecessori bretoni, iniziatori e diffusori del genere, li avevano composti («firent») o
raccontati («plusurs en al oi conter») «pur remambrance», per perpetuare il ricordo di «aventures» che essi stessi «oirent», avevano ascoltato.
Troviamo indicate qui tre fasi compositive nel processo formativo del lai:
1) All'origine c'è l'aventure, l'evento straordinario e meraviglioso vissuto da un chevalier, che ne è anche l'unico testimone, essendosi svolto nella
foresta, o comunque in una dimensione spaziale remota e inaccessibile, e in un ambiente sociale sconosciuto. Se il chevalier non «si perde» nella sua
aventure, ritornato alla corte racconta l'evento di cui è stato protagonista. L'auctor è quindi tecnicamente il primo auctor della materia narrativa del
lai;
2) La reazione simpatetica immediata degli ascoltatori alla narrazione del chevalier si traduce nel bisogno di serbarne memoria, di affidarla al
repertorio di fabulatores di professione, menestrelli o giullari. Questa elaborazione giullaresca, Maria non ci dice quale forma assumesse: a volte
parla di esecuzione musicale (melodie cantate con l'arpa o la viola), a volte di esposizione narrativa (in veste poetica, come sembra indicare l'uso
del verbo trover), mentre nella grande maggioranza dei casi ricorre a una formula ambigua che può alludere sia a composizioni musicali o narrative,
sia a una loro combinazione. L'espressione ricorrente è infatti «li Bretun en firent un lai», dove «di Bretun» sarà da interpretare come un termine
che ingloba la totalità della comunicazione letteraria, non solo gli esecutori e gli ascoltatori, ma anche il referente e il codice. Non sappiamo se
questi lais circolassero solo oralmente, come attesta il Prologo, o se si potesse verificare anche una redazione scritta, come è riconosciuto in
Chievrefoil, un lai che l'autrice afferma di aver «trové en escrit» (v. 6), e la cui paternità letteraria risale in definitiva al suo stesso protagonista:
Tristano. E in verità Tristano può essere considerato il prototipo di questa categoria di bardi-cantori; la sun passione per la musica, e per i lais in
particolare, è attestata dalla tradizione romanzesca; nel Tristan di Thomas, ad esempio, troviamo Isotta, allieva prima che amante di Tristano,
mentre sta cantando «un lai pitus d'amut», una tragica storia di amore e morte, la leggenda di Guirun e del cuore mangiato;
3) La reazione artistica mediata e riflessa è quella che noi leggiamo nel «livre» ordinato da Maria. Alla matière e alla littera dei suoi predecessori essa
oppone il marchio definitivo della glossa e dell'arte (uso della tecnica retorica e poetica), il sigillo dell'écriture («et jeo [...] l'ai mis en escrit» [e io
l'ho messo per iscritto], come proclama l'explicit di Milun). Nella versione dell'auctor l'evento meraviglioso accaduto in un passato immemorabile
recupera il suo significato primitivo e la sua bellezza originaria, rivive cioè nella sua intatta realtà. La scrittura ha sos tituito l'avventura. Appare
casuistica la questione se i poemetti di Maria siano veramente da chiamare lais, o non si debbano invece designare come contes (racconti), dato che
lais sono storicamente le composizioni del secondo livello. Nella realtà dei fatti succede il contrario: che i lais di Maria sono gli autentici
rappresentanti del genere, poiché riescono a unire la musicalità della metrica e del ritmo con la verità del commento in un unico processo di
scrittura totale.
Quali sono gli elementi che differenziano il lai dal romanzo cortese e dal fabliau? E che cosa fa dei lais una raccolta organica, piuttosto che una
collezione di testi sparsi legati insieme in un volume?
a) L’argomento bretone è il tratto più appariscente al livello di contenuto. Tutte le avventure riferite nei Lais di Maria si svolgono dentro i confini
della Bretagna o in territori limitrofi avvertiti come estensione della geografia bretone. Al centro di questa realtà c'è la corte arturiana che
rappresenta il codice per giudicare, decifrare e descrivere le azioni cavalleresche. Da essa provengono i modelli di comportamento sociale e
spirituale ai quali si ispirano i protagonisti delle storie. L'elemento di distinzione rispetto al romanzo bretone è il fatto che il lai preferisce gli eroi
secondari, i solitari, le dame. Ricostruisce un'immagine completa della realtà cavalleresca, descrive un'altra faccia del mondo cortese, quella più
nascosta e intima;
b) tema fondamentale nei Lais di Maria è l'amore, la forza propulsiva del racconto capace di far iniziare e terminare ogni azione narrativa. La tematica
amorosa è presente nella sua varia fenomenologia. Si è parlato prima del codice cortese a cui i Lais si ispirano; caratteristica di tale codice è quella
di essere dinamico, sempre aperto a inglobare nuove verità estratte dalle avventure. L'eccezionalità dei dodici casi amorosi trattati nei Lais impone
un approfondimento all'ideologia dell'eros cortese, svelando una geografia dell'anima rimasta fino ad allora sconosciuta. Originale è l'analisi
dell'amore femminile, amore che nasce, si sviluppa e trasfigura per iniziativa della donna. Nei Lais non è più soltanto il cavaliere ad aspirare
all'integrazione sociale e spirituale ma è la dama stessa che si rende protagonista di una ricerca esistenziale. La prospettiva femminile dell'amore
completa la descrizione romanzesca di tale sentimento, dandogli nuove tonalità. Il senso della novità della scrittura mariana è questo recupero di
una vasta zona dell'amore naturale;
c) l'amore serve da vettore per l'avventura, consente all'eroe e all'eroina di attraversare lo spazio e di riempire il tempo che li separano dal raggiungere
il loro pieno significato. Differenza rispetto al romanzo è che l'avventura raccontata nel lai non ha carattere cosmico e nessuna implicazione
universale, è limitata e personale, aspira alla soluzione dei piccoli contrasti intimi. Non manovrata dalla Fortuna, ma dal caso e sembra dipendere
da un capriccioso gioco affidato a qualche incantatore. L' exploit guerresco non è più la condizione imprescindibile per entrare a far parte del gruppo
degli eroi; la giustificazione dell'avventura mariana è psicologica: l'eroe deve dimostrarsi distaccato dai valori immanenti e pronto a ricevere quelli
trascendenti, deve sentirsi preparato interiormente a seguire l'oggetto misterioso e a interpretare il segno magico. Il protagonista del lai non deve
superare nessun ostacolo per penetrare nella dimensione delle rivelazioni finali, tale dimensione è accessibile ovunque e in ogni momento, basta la
forte volontà o la pensierosa solitudine. Nel lai, infatti, realtà e magia si sovrappongono. Se il meraviglioso affiora dal quotidiano e se l'eroe più
che agire è agito, ne deriva che la funzione dell'avventura non è più quella di raggiungere l'eterno per perfezionare l'ordine storico, come nel
romanzo, ma quella di vivere la realtà storica come ordine soprannaturale;
d) l'elemento unificatore dei Lais, dal pov formale, è l'applicazione della brevitas. Maria racconta una sola avventura di cui ci vuole offrire il senso
globale, e poiché l'avventura si condensa in un oggetto o segno magico, il racconto può considerarsi chiuso quando tale realtà è stata glossata.
Questo processo di ricostruzione del senso inizia e finisce con l'interpretazione e con l'etimologia del titolo. Il titolo è la parola-nucleo che tiene
racchiusa la verità della narrazione e rappresenta la storia intera riassunta in una parola, la mise en abyme del lai. Scoprire la pertinenza del titolo
significa, per i protagonisti e per i lettori, chiudere il processo di semiosi letteraria; vuol dire riuscire a dominare la narrazione che si dispone
circolarmente attorno al suo centro immobile, alla parola generatrice del movimento narrativo. Il lai di Maria rappresenta la forma originaria del
genere, ma preannuncia anche tendenze che porteranno alla formazione di generi come il fabliau, il dit e più tardi la novella.
Fra i lais che sviluppano la tradizione mariana abbiamo 3 gruppi principali:
- lais che ripropongono la materia di Maria;
- lais realistici e borghesi;
- lais parodici e burleschi.
Quelli del primo tipo seguono una mentalità più evemeristica nei confronti del meraviglioso. La realtà magica non è più quella che dà il senso alla
narrazione, ma è una macchina che consente al racconto di progredire VEDI PAG 43 ESEMPIO.
Il secondo gruppo include quei componimenti che descrivono l'aventure non come esperienza del trascendente, ma del verosimile, e che trattano
l'amore non come entità meravigliosa, ma psicologica VEDI PAG 44
Della corte rimane solo il décor esterno ma non più il valore modulare, i nomina ma non più le res. Esempio di questo gruppo è il Lai de l’Ombre,
del XIII secolo, scritto da Jean Renart.
Nel terzo gruppo facciamo confluire quei lais in cui si verifica un’invasione dello spazio comico, che porterà ad una indistinzione del lai nei confronti
del fabliau, e l’avvento della novella. L’ironia e la parodia sono le principali tecniche letterarie impiegate per questi lais per rinnovare la materia
narrativa. LAI D’IGNAURE, LAI DU TROT, LAI DU LECHEOR, LAI D’ARISTOTE, AUCASSIN ET NICOLETTE, FOLIES TRISTAN,
PIRAMUS ET TISBÉ,NARCISSUS, PHILOMENA, LA CHASTELAINE DE VERGI ??? PAG 44-48.
II. Il «fabliau»: in alcuni lais la tematica amorosa e l’avventura cavalleresca vengono trattate parodicamente. A questi lais burleschi si è attribuito il
ruolo di iniziatori del nuovo genere letterario di ispirazione comica, il fabliau. È importante la definizione dei fabliaux rispetto ai generi vicini, in
particolare il lai. L’analisi di un componimento come Des trois Chevaliers et di chainse, privo di indicazioni sulla sua appartenenza a un genere
preciso, e definito da alcuni lai e da altri fabliau, ci aiuta a inserire in una prospettiva storicamente più motivata la dicotomia lai/fabliau. TRAMA??
PAG 49.
Il fabliau si afferma nella sua alterità programmatica rispetto al lai. Se il lai si presenta come lo specchio idealizzante della società cortese, il fabliau
da un lato vuole proporci l’immagine deformata del mondo della cortesia, dall’altro si impegna a completare la descrizione della realtà storica del
tempo, rappresentando quelle classi sociali fino ad allora mai rappresentate. Il lai si pone a modello del fabliau. Ai nuovi auctores è affidato il
compito di riscrivere nello stile comico questa vasta materia, di proiettarla sullo sfondo di esperienze umane inedite, tentando di descrivere gli
strati sociali più bassi. Il primo tipo di riscrittura parodica del lai si verifica quando ad un personaggio nobile vengono attribuite azioni e qualità che
non si convengono al suo stato. Appartiene a questa tipologia Le Chevalier qui forse les cons parler. Un caso inverso di parodia del lai si verifica
quando un personaggio di una classe sociale umile pretende con le parole di farsi passare per nobile; finge di possedere qualità e si vanta di compiere
quelle azioni tipiche del mondo della cavalleria. Esempio è il fabliau di Bérengier au lonc cul.
Altro genere che fornisce un modello è il roman, che può essere usufruito in due modi: o riducendo la sua trama complessa a poche situazioni
semplici, oppure segmentandolo in nuclei narrativi indipendenti, procedendo cioè a una lettura episodica del testo. A esemplificare il primo
procedimento scegliamo quella che è considerata la struttura portante della narrativa romanzesca: il triangolo erotico. Il fabliau presenta lo stesso
triangolo erotico e la stessa tipologia di rapporti del roman, ma in modo deformato e in una prospettiva comica. Il villano e il borghese prendono
di solito il posto del re: sono i detentori di un potere solo economico e di un bene che è solo materiale ( la moglie, o meglio il suo con, poiché su
questo oggetto metonimico del desiderio si accentra l’attenzione del racconto). La donna è il serbatoio di tutti i vizi e la metafora della totale
disponibilità sessuale. Il terzo elemento del triangolo, quello che sostituisce il cavaliere, è il prete (che ha valenza negativa) o il clericus, lo studente
universitario (visto in modo simpatetico): la loro queste è unicamente sessuale.
Il secondo procedimento PAG 51
Passando dal romanzo al fabliau, il racconto si riduce alla sua pura dimensione letterale, al gioco pirotecnico della trama, all’intreccio degli eventi;
così come l’alto significato della salvezza storica e spirituale del testo di partenza cede il posto al suo rovesciamento iro nico, rappresentato dalla
furbizia femminile.
Abbiamo inoltre riprese della produzione agiografica ed esemplaristica. Es: Dit du Con.
La critica ha insistito, nel suo studio della formazione del fabliau, sulla presenza di una filigrana classica e latino-medievale: quella che dalla fabula
milesiaca arriva alla «commedia elegiaca» fiorita in Francia nel XII secolo. Ad esempio, dal motivo della Matrona di Efeso è cavato l'argomento di
un fabliau intitolato Celle qui se fist foutre sur la fosse de son mari.
FABLIAU DELL'ENFANT QUI FU REMIS AU SOLEIL ??PAG 53
Il fabliau appare strettamente legato alla fabula esopica. Nykrog ha stabilito una diretta filiazione del fabliau dai continuatori oitamici della fabula
classica, in particolare dalle Fables di Maria di Francia. Egli include sei Fables di Maria di Francia nella sua lista dei fabliaux: quelle che hanno come
protagonisti degli esseri umani e non degli animali. Contro una simile estensione del canone fabliolistico giocano due fattori: l'appartenenza di
questi racconti a una raccolta organica e la loro eccessiva brevità. Bisogna tenere conto della polisemia della parola; il termine fabliau è da collegare,
più che con la fabula come genere storico, con la fabula come tipo astratto di narrazione (distinta da historia e argumentum). É probabile che
contatti fra i due generi si siano potuti verificare, soprattutto nella fase iniziale di affermazione del fabliau. Con Maria di Francia infatti la fabula
esopica si libera del suo doppio retaggio di apologo impiegato per l'insegnamento dei rudimenti grammaticali della lingua latina, e strumentalizzato
per l'indottrinamento morale dei fedeli, riuscendo a diventare un racconto piacevole e divertente. La prossimità della fable di Maria al fabliau è
palesata sia dal fatto che esistono tematiche in comune fra i due generi (come quella del marito tradito e accontentato per mezzo di incantesimi),
sia dalla considerazione che ci sono fabliaux riconosciuti come tali che appartengono al patrimonio favolistico. Caso tipico quello di Dou lou et de
l'oue che Jean Bodel elenca, nel Prologo dei Deux chevals, fra i suoi fabliaux.
Un altro elemento ci consente di avvicinare la favola animalesca al fabliau: è l'uso della parola non perco noscere la realtà ma per manipolarla, non
per trovare la verità delle cose ma per mistificarla; con una differenza: mentre nella fable viene stigmatizzata la sopraffazione che dicta operano sui
facta, nel fabliau viene celebrata la capacità che i dicta hanno di creare una realtà autre, più vera di quella storica.
La grande epopea con personaggi animaleschi, importante per la formazione del fabliau: il Roman de Renart. Quest'opera, presenta molti punti di
contatto con il fabliau. Già la felice formula bédieriana contrastava i borghesi Renart e fabliaux con i cavallereschi romanzi della Tavola Rotonda.
Anche dal punto di vista tecnico-retorico appare chiaro come le branches primitive del Roman de Renart condividano lo stesso progetto di
riscrittura parodica delle forme narrative alte caratteristico del fabliau. Il Roman de Renart, da un lato manifesta la sua somiglianza contenutistica
con le fables esopiche, dall'altro evidenzia la sua affinità formale con i fabliaux. ?? pag 54 Le branches che compongono l'intricato albero narrativo
del Renart sono costituite da 26 racconti di varia estensione e di diversa ispirazione, composti fra il 1175 e il 1250 da una ventina di autori, e
variamente organizzati all'interno di tre differenti famiglie. Alle branches originali sono da aggiungere le diramazioni tardive, a carattere satirico,
allegorico ed enciclopedico, che testimoniano dell'enorme fortuna arrisa al romanzo fino al XIV secolo. È nei racconti più antichi di questo vasto
ciclo narrativo che cogliamo meglio le corrispondenze tonali col fabliau. L'abilità infatti che qui dimostra il protagonistaq, il «goupil» (antico nome
oitanico di volpe) chiamato «Renart, di saper uscire da tutte le situazioni, anche le più difficili, e di poter vincere tutti i nemici, anche quelli più
terribili, si fonda sulla sua astuzia, cioè sulla manipolazione della realtà attraverso il mezzo linguistico. Ma è proprio questa esaltazione del potere
della parola che, se da una parte allontana il Roman de Renart dalla fable esopica, dall'altra lo rende il parente più prossimo del fabliau. È più utile
a questo punto fare un bilancio dei tratti più marcati del genere; cominciando da quelli afferenti alla struttura esterna.
Per una definizione preliminare del genere è importante rifarsi alla pratica degli autori medievali per delimitare il campo semantico del termine
fabliau. Dunque, accanto a fabliau (variante Piccarda di fableau) e a fablel (variante flessionale) compaiono, i seguenti termini: 1) Conte e aventure:
essi indicano la materia narrativa; cioè l'avventura è la base del racconto che il giullare riscrive secondo una nuova prospettiva retorica. Conte e
fabliau coincidono quando il giullare racconta un'avventura vissuta di persona. L'impiego di questa terminologia suggerisce che il bisogno di
raccontare è fondamentale nel progetto fabliolistico: rarissimi sono i fabliaux non narrativi. 2) Fable allude alla stessa matrice culturale da cui
discende il fablel (la cui etimologia è da ricollegare col diminutivo di fabula): decisivo questo riferimento all'etimo, poiché fabula si oppone sia a
historia (che è vera) sia ad argumentum (che è verosimile) per il fatto di non essere né vera né verosimile. Il fabliau, quindi, programmaticamente
rifiuta ogni ricerca della verità storica ed esistenziale, presentandosi invece come pura fictio narrativa che trova nel racconto stesso la sua unica
motivazione. L'opposizione fable/fabliau è basata sul tratto binario che qualifica i rispettivi protagonisti: personaggio. animale/personaggio umano.
3) Proverbe ed exemple tirano in ballo la questione della moralisatio, del significato didascalico o morale che si può estrarre dal racconto: significato
che può essere ricondotto a un proverbio. Il fabliau coinvolge una verità comune e immanente, al limite della banalità e dell'ovvietà. 4) Dit presenta
un caso inverso, in quanto questo termine sembra entrare in opposizione con fabliau per la pretesa veridicità del suo contenuto narrativo. Si veda
l'incipit del Dit des perdriz PAG 56 in cui il giullare, abituato a recitare fabliaux, proclama che questa volta reciterà, al posto di una fable,
un'avventura vera; problematico è comunque l'accertamento di quale sia la verità ricercata.
Riusciamo a far rientrare nel repertorio del fabliau medievale all'incirca 130 esemplari.
L'elemento che indica l'appartenenza del fabliau all'area del racconto è la brevitas. Tutti i fabliaux hanno un'estensione inferiore ai 1.200 versi: una
eccezione per eccesso: Trubert di Douin de Lavesne. PAG 57 VEDI?
Legata alla brevitas è la ricerca della condensazione narrativa: il fabliau elabora un solo nucleo diegetico, una sola avventura. Non rimane nulla di
inspiegato, o di non svolto, prima e dopo il racconto. Il senso della narrazione coincide con l'intreccio, col piacere di raccontare col gusto della
parola goduta nella manifestazione fonica; e tanto meglio se si tratta di una parola inusitata, equivoca o oscena.
A parte alcune piccole collezioni d'autore, abitualmente il fabliau si presenta, nei manoscritti antologici del XIII e XIV secolo, mescolato senza
alcun ordine evidente ad altri poemetti dello stesso genere, ma anche a lais. Non c'è stata per il fabliau una personalità dello stesso livello di Maria
di Francia per il lai: capace cioè di dare unità alla varietà, di creare un liber che raccogliesse gli esemplari più rappresentativi del genere.
Tutti i fabliaux tramandatici sono composti in distici di octosyllabes a rima baciata: due sole le eccezioni in questo caso. Il fabliau si serve quindi
dello stesso metro impiegato da tutta la grande produzione narrativa oitanica. La scelta della forma metrica presenta una duplicità di obiettivi e di
intenzioni: da una parte rivela la necessità del travaglio artistico, la volontà della mise en cruore della materia; dall'altra ha la funzione di delimitare
l'arco delle possibilità del contenuto, di creare cioè nell'ascoltatore/lettore una certa aspettativa, di suggerire un certo modello letterario che il
discorso del fableor si incaricherà di dissacrare e ironizzare.
Queste osservazioni sulla struttura esterna del fabliau ci hanno fornito elementi per individuare il valore storico e l'autentico significato del genere.
Valore e significato che vanno riportati a un'assenza: al fatto che il fabliau si distingue dalla letteratura cortese (roman e lai) e da quella didattico-
religiosa (legenda ed exemplum) per l'assoluta mancanza nel suo discorso di una finalità allegorica o di una significazione simbolica. Alla verità
profonda del significato ricercata dal lai, il fabliau contrappone la verità superficiale e divertente; alla conjointure del romanzo, alla labirintica
ricerca del senso romanzesco, il fabliau preferisce il movimentato intrecciarsi della trama; all'insegnamento morale della legenda, e al carattere
universale dell'exemplum, il fabliau sostituisce il consiglio spicciolo improntato a una saggezza pratica e consumistica. La novità proclamata dal
fabloier: la sua scrittura è nuova perché la sua materia narrativa, afferente al quotidiano, non è mai stata trattata prima d'allora. Il fabliau finisce
per diventare l'equivalente delle moderne <<nouvelles>> o <<news», un fatto che si propone per la prima volta all'attenzione per la sua realtà
accidentale, non ufficiale.
DA DIRE????La scelta della dimensione temporale del presente o del passato prossimo, la preferenza accordata all'aneddoto e al fait divers, la
predilezione per la realtà apocrifa; così come la ricerca di uno spazio preciso e vicino, la ricostruzione di una geografia e di una topografia nettamente
delimitate e chiaramente indicate, l'ambientazione piccarda e borghese.

Anche nella penisola iberica si verifica la dislocazione temporale delle forme della narrativa breve. Inoltre, il racconto ispanico si mostra tributario
dei modi e delle tecniche già affermati nei contesti culturali, occitanico a soprattutto oitanico. La Castiglia e l’Aragona rimangono delle province
occitaniche fino alla metà del XIII secolo, come dimostrano le scuole dei trovatori quivi sorte. Questa apertura all’influsso delle altre letterature
romanze è controbilanciata dall’inserimento dei materiali narrativi provenienti dall’Oriente. È questa mescolanza la responsabile del fatto che il
racconto ispanico ha acquistato ben presto una grande maturità. La prima affermazione della narratio brevis in Spagna risale al terzo o quarto decennio
del Duecento ed è di ispirazione agiografica.
Si tratta di una produzione posta sotto l’influenza della cultura oitanica: come sta a dimostrare, la Vida de Santa Maria Egipciaca. Il poemetto,
composto in distici di enneasillabi, a rima baciata, costituisce un adattamento della versione antico-francese della leggenda; quella nella quale Maria
è ormai diventata da prostituta a santa, figura centrale della narrazione. La tradizione agiografica castigliana scopre subito la figura di un autentico
poeta: Gonzalo de Berceo. Le sue composizioni rivelano una cura artistica e una volontà di mise en oeuvre di tradizioni narrative fino ad allora affidate
alla juglaria. Di lui ci rimangono quattro poemetti agiografici, soprattutto la Vida de Santo Domingo de Silos, che racconta le avventure di un santo
vicinissimo nel tempo e nello spazio all’autore. Queste vite sono segnate dall’ironia che sposta l’attenzione del lettore dal contenuto verso la forma.
In Berceo la discontinuità fra programmazione celeste e accadimenti umani si articola in modo più polarizzato: la venerazione del peccatore per la
Vergine è irrilevante; il protagonista non invoca l’aiuto della Vergine poiché questo gli viene concesso gratuitamente. L’autore gioca con gli schemi
narrativi del genere: egli focalizza la sua attenzione altrove, a quello che sta nel mezzo, e soprattutto al punto in cui divino e umano si incontrano.

La Spagna costituisce il tramite della trasmigrazione europea dei racconti orientali organizzati in cornice. La prima opera di questo tipo è la Disciplina
clericalis.. Anche il Calila e Dimna viene tradotto dall’arabo nell’ambiente della corte di Alfonso X e si tratta dell’opera più complessa del gruppo,
sia per struttura generale sia per l’agencement, dei racconti. Alla corte del successore di Alfonso X, viene introdotta un’altra collezione di racconti:
è il Libro de la vida de Barlaan y del rey Josaphat, di cui esistono redazioni anche oitaniche e occitaniche.
Due elementi caratterizzano questa produzione: il primo è l’uso della prosa, il secondo è il ricorso alla cornice. Il bisogno di organizzare le storie
all’interno di una cornice, di strutturare il materiale narrativo secondo delle modalità che influenzeranno l’evoluzione della narratio brevis:
La cornice rende esplicito il problema di letterarizzazione al quale l’autore sottopone il patrimonio narrativo ereditato dal passato.
La cornice è un racconto: si tratta della storia portante sulla quale si innestano altre storie aventi la funzione sia di provare l’assunto principale di
questa, sia di risolvere le varie tematiche a essa allacciate. I racconti sono subordinati alla cornice, vengono scelti in funzione di essa.
L’interpretazione dei racconti è condizionata dalle particolari esigenze dei personaggi della cornice. Comincia il processo di problematizzazione
del racconto, complesso e poliedrico nella sua produzione e ricezione.
Il tempo della storia principale, il thema, si oppone al tempo delle storie secondarie, cioè dalle digressiones, il tempo del thema è infatti presente, un
tempo commentativo, mentre il tempo delle digressiones è il passato, tempo narrativo pronto a essere interpretato e proiettato come modello per
la cornice. Il tempo dello sfondo agisce prima in una funzione dell’azione che si svolge sulla scena, ciò che comporta una sua presentificazione.

Un nipote di Alfonso X, Juan Manuel, ha ereditato questa tradizione narrativa, rinnovandola nella lettera e nello spirito con il suo Conde Lucanor.
Si tratta di 51 enxiemplos in prosa, organizzate in una cornice. Un maestro, chiamato Patronio, elargisce il suo insegnamento su varie problematiche
umane, tutte presentategli da un suo discepolo desideroso di acquistare la sapentia posseduta dall’interlocutore. L’ammaestramento viene trasmesso
per mezzo di storie esemplari: la parola che indica la veritas degli aspetti e del reale studiti è il racconto. Alla fine del ciclo di domande e risposte,
il discepolo può ridurre i risultati delle sue conversazioni nel libro che abbiamo davanti. Da scriptor egli è diventato auctor.
Come campione del modus narrandi di Juan Manuel è l’enxiemplo XI che tratta il tema della riconoscenza: la fonte è un exemplum del
Promptuarium exemplorum in cui un negromante fa diventare un suo discepolo imperatore di Costantinopoli; però gli si presenta dinanzi per
riceverne la dovuta ricompensa, ciò provoca lo scioglimento dell’’incantesimo. Nel racconto di Petronio la problematica morale dell’exemplum
si complica per l’imposizione di una nuova prospettiva. In esso due dimensioni si sovrappongono. La prima comprende il piano dell’azione che si
svolge nella casa del negromante. La seconda invece ha carattere magico: essa comprende il piano dell’illusione che si dispiega in un luogo
sotterraneo della città. Fra le due dimensioni esistono contatti stretti: il mondo magico è la concretizzazione degli ambiziosi progetti del decano
ma è anche il banco di prova che manifesta la vera natura del beneficiato.

Il Libro del buen amor porta a compimento i tentativi nello stesso campo condotti nell’ambito del mester de clerecia. Quest’opera rappresenta la
summa delle tematiche narrative romanze. Anche la coerenza interna dell’opera è data dalla convergenza dei temi verso l’obiettivo unico
dell’auctor. Il nome dell’autore Juan Ruiz e il titolo del libro si trovano incastonati all’interno dell’opera per dare rilievo all’esigenza della mise en
oeuvre letteraria.
La composizione dell’opera è irregolare: si tratta di 1.728 strofe in cuaderna via, precedute da un prologo in prosa. Quest’alternanza di registri
risponde alle regole del gioco letterario che l’arciprete vuole presentare al suo lettore. Nella fattispecie, è chiaro che la straordinaria conoscenza
del codice narrativo è orientata verso il conseguimento di un effetto particolare: Juan Ruiz svolge il suo discorso narrativo articolando sopra un
altro discorso precedente di cui stravolge il significato per sortirne un risultato che conduce al piacere artistico.
Il filo dell’autobiografia è quello che riesce a tenere insieme dal punto di vista strutturale varie narrazioni. Le singole storie vengono raccontate in
quanto caratterizzano un segmento dell’iter esistenziale dell’io-personaggio; esse vengono interpretate dall’auctor che ne evidenzia il significato.

Alfonso X è un cultore di poesia. La sua raccolta di Cantigas de Santa Maria costituisce uno dei capolavori della letteratura portoghese medievale.
Si tratta di 427 composizioni provviste di ritornelli e di musica. Un gran numero di esse racconta dei miracoli, e rientra quindi nel genere
agiografico. Ultima in ordine di tempo, questa vasta raccolta del meraviglioso mariano si è potuto avvalere sia delle fonti mediolatine sia dei recenti
adattamenti romanzi. Le Cantigas si mostrano più rispettose dei modelli latini; questo è dovuto a considerazioni di carattere più tecnico-letterario.
Esse rivelano un travaglio artistico avanzato e una ricerca stilistica molto cosciente: Alfonso presegue l’unità globale, di tono e di struttura, delle
sue narrazioni.
Il racconto in lingua catalana si afferma tardi rispetto alle altre aree romanze per le ragioni che abbiamo già indicato. Il fondatore della narrativa
breve catalana è Ramon Llull: a lui si deve il tentativo di rinnovare il genere miracolo nel suo Llibre de l’Ave Maria. Egli vuole restituire al miracolo
la sua significazione originaria, cioè la sua funzione edificante e il suo valore autentico di manifestazione del divino nelle cose umane. Nel Blanquerna
compaiono racconti che traducono tematiche romanzesche o fabliolistiche, con lo scopo espresso di riconquistare alla verità cristiana quell’udienza.
Nel libre de les besties invece Llull riprende la tematica della favola invertendone la struttura: qui sono gli animali che estraggono esempi di condotta
morale dall’osservazione della vita degli uomini.

Potremmo definire la novella come genere letterario facente parte dell’universo semiotico della narratio brevis medievale. Se prendiamo ad esempio
il Decameron di Boccaccio quest’opera cerchi di riscrittura moderna di un intero patrimonio narrativo. Nella novella boccacciana il testo narrativo
viene fissato nella sua forma definitiva. Nel Decameron l’oralità dei narratores è tradotta in scrittura unica ed irripetibile dell’auctor Boccaccio.
Dopo l’opera boccacciana. La narratio brevis, ha raggiunto la fissazione sccritta e la sua misura classica.
La brevitas appare codificata nel Decameron. È la cornice a fissare i limiti del racconto, a indicare il tempo e lo spazio de ntro i quali le novelle
vanno raccontate.
La linearità del racconto trova il suo sbocco nella circolarità dell’opera, nella ricreazione dell’universo narrativo in dieci giornate; le novelle sono
il discorso che ogni volta si esaurisce nella rigida costruzione di principio, mezzo e fine. Il principio della novella ha un passato e la fine ha un
futuro: i personaggi e la storia assumono uno spessore, storico e psicologico che li provvede di un “al di là” rispetto al fatto narrato.
Boccaccio codifica anche il principio della delectatio: il Decameron è scritto “ per passamento della noia”, e le novelle vengono raccontate per
l’intrattenimento della brigata. Non a caso la brigata è qualificata come “lieta”.
La veritas ricercata dal Decameron è artistica: l’inventio si risolve nell’elocutio, il recit si esaurisce nel discours. Non c’è nessun altro senso imposto alla
narrazione a propri dall’autore o a posteriori dai lettori. Questo spiega la presenza di un altro aggettivo costantemente applicato alla brigata: quello
di “onestà”
Il Decameron vuole essere una luminosa finestra aperta sull’universo della narrazione.

Testi.

Potrebbero piacerti anche