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Linguistica generale – secondo semestre

LE LINGUE NEL MONDO

La classificazione delle lingue (slides 19 + capitolo 1)

Al giorno d’oggi non si è ancora sicuri dell’esatto numero di lingue esistenti al mondo, poiché certe
aree sono poco studiate e poiché esistono realtà plurilingui (in cui coesistono una lingua standard e
delle minoranze, come per esempio i dialetti).
Esistono 2 tipi di classificazione di una lingua:
 Classificazione genealogica, ovvero per famiglie (comparazione del lessico fondamentale);
 Classificazione tipologica, a sua volta suddivisa in:
o Classificazione morfologica (somiglianze e differenze nella struttura della parola);
o Classificazione sintattica (in primis sulla base dell’ordine delle parole).

Esistono inoltre diversi livelli e sottolivelli.


 Famiglia: è il più alto livello di parentela ricostruibile (es. famiglia delle lingue indoeuropee).
La linguistica comparativa riconosce oggi un massimo di 18 famiglie linguistiche più alcune
lingue isolate.
 Rami o sottofamiglie: (es. ramo romanzo della famiglia indoeuropea).
 Gruppi: (es. romanzo occidentale, meridionale, orientale).
 Sottogruppi: (es. l’italiano e i suoi dialetti fanno parte del sottogruppo italo-romanzo del gruppo
occidentale).

CLASSIFICAZIONE GENEALOGICA
Un criterio di classificazione delle lingue è il criterio genealogico: significa che due o più lingue
rimandano a un ascendente comune, ovvero una somiglianza formale (significante) e semantica
(significato). Una parentela genealogica è la prossimità semantica e formale; continuazioni (con
cambiamenti) regolari dal latino. Grazie all’ascendente comune si possono poi stabilire le modalità
di trasformazioni tipiche che riguardano le singole parole.

In Europa sono rappresentate due grandi famiglie di lingue: la famiglia indoeuropea e la famiglia
ugro-finnica. In queste due famiglie vi rientrano quasi tutte le lingue che oggi formano lo “spazio
linguistico” europeo.

La somiglianza formale e semantica


delle parole indicate qui a lato porta
all’individuazione delle lingue romanze.

Lingue romanze o neolatine: filiazione


di una lingua più antica attestata (latino
= fase unitaria precedente).

La somiglianza formale e semantica


delle parole indicate porta
all’individuazione delle lingue
germaniche.

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Lingue germaniche: la fase ascendente viene data per presupposta e deve essere ricostruita.

Dal confronto tra il germanico


comune e altre attestazioni di lingue
antiche si può postulare
l’appartenenza di tutte queste lingue a
una fase ancora più antica -> famiglia
delle lingue indoeuropee.
Indizio: corrispondenze fonetiche
regolari (lingue - anche molto diverse
per genealogia - possono infatti
entrare in contatto e assumere alcuni
aspetti simili).

La famiglia indoeuropea

 Lingue romanze
 Lingue baltiche
 Lingue slave
 Lingue germaniche
 Lingue celtiche
 Albanese
 Greco
 Armeno
 Lingue indo-iraniche

Le lingue romanze
Sul territorio della nostra Penisola vi erano anticamente numerose lingue del gruppo italico: tra
queste emerse il latino, la lingua di Roma. Dagli usi del latino nei diversi territori dell’Impero
Romano si è sviluppato il gruppo delle lingue romanze.
Con il termine Románia si intende il vasto territorio linguistico delle parlate romanze. Essa si
distingue in orientale e occidentale: all’area orientale appartiene il romeno (lingua ufficiale della
Romanìa), e una sua varietà, il moldavo (lingua ufficiale della Moldova). Nella Románia
occidentale le lingue più importanti sono il francese, lo spagnolo, l’italiano, il portoghese; vi è poi il
catalano, il sardo e la serie delle lingue reto-romanze.
In Europa il francese è lingua ufficiale, oltre che in Francia, in Vallonia, nella Confederazione dei
Belgi e nella Confederazione Elvetica. Fuori dall’Europa ha invece una posizione di assoluto
prestigio in molti stati africani e nel Québec, provincia canadese.
Il reto-romanzo è l’eredità della latinità alpina. Le varietà occidentali costituiscono il romancio del
Canton Grigioni, in Svizzera; le varietà centrali formano il ladino dolomitico; le varietà orientali
costituiscono lo spazio del friulano.
Lo spagnolo, oltre alla varietà castigliana della Spagna, è distribuito su tutto il continente latino-
americano, con una serie di varietà che si distinguono in parte dallo spagnolo castigliano. In
Catalogna, nelle Baleari e nel territorio di Valencia, il catalano è lingua ufficiale insieme allo
spagnolo castigliano.

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Il portoghese è, insieme allo spagnolo, lingua ufficiale anche del Brasile, ma vi sono anche in
questo caso molte differenze con lo standard ufficiale del Portogallo.

Il gruppo baltico
Questo piccolo gruppo è rappresentato dal lituano e dal lettone, lingue ufficiali dei rispettivi stati.
Fino al XVII secolo, nella Prussia orientale si parlava il prussiano; gradualmente i parlanti del
prussiano abbandonarono la loro lingua in favore del tedesco.

La Slavia linguistica
Le lingue slave sono ripartite in orientali, occidentali e meridionali.
Le lingue della Slavia orientale sono il russo, il bielorusso e l’ucraino. Quelle meridionali sono il
bulgaro, il macedone, lo sloveno e il serbo-croato. Le lingue slave occidentali sono invece il
polacco, il ceco, lo slovacco e il sorabo (o serbo-lusaziano).
I testi slavi di più antica attestazione appartengono alla lingua di cui si servirono Cirillo e Metodio
per tradurre i testi sacri: tale lingua è chiamata slavo ecclesiastico, ed è sviluppata da dialetti
meridionali dell’area bulgara.

Le lingue germaniche
Le lingue germaniche sono suddivise in orientali, occidentali e settentrionali.
Fra le orientali ricordiamo il gotico, che soprattutto con la Bibbia tradotta dal vescovo Ulfila nel IV
secolo, ci offre i testi germanici di più antica attestazione. Le lingue tuttora parlate del sottogruppo
occidentale sono l’inglese, il neerlandese, e il tedesco. Al sottogruppo settentrionale appartengono
invece l’islandese, lo svedese, il danese e il norvegese. Tutt’oggi in Norvegia vi sono due standard,
il bokmål e il nynorsk.
Le parlate tedesche sono tradizionalmente suddivise in alte (con i gruppi alemanni e bavaresi,
collocati nei territori meridionali), medie (con i gruppi franconi, al centro), e basse (a settentrione).

Il gruppo celtico
Delle lingue indoeuropee minori, quelle celtiche sono quelle più minacciate di estinzione.
Il celtico si divideva anticamente in insulare e continentale; quest’ultimo comprendeva lingue
parlate delle Gallie (la Francia e l’Italia nord-occidentale), nella Penisola Iberica, e nell’odierna
Germania: si ritiene che si siano estinte tutte entro il 500 d.C.
A sua volta, il celtico insulare è suddiviso in due tronconi: il gaelico, con l’irlandese e lo scozzese, e
il britannico o brittonico, con il gallese e il bretone. Un’altra lingua brittonica, il cornico, era parlata
in Cornovaglia fino al XVIII secolo. L’idioma gaelico dell’isola di Man, il manx, si è invece estinto
nel nostro secolo.

L’albanese
L’albanese è a sé stante, ed è diviso abitualmente nelle varietà del ghego (al nord dell’Albania) e del
tosco (nell’Albania meridionale). Comunità albanesi si trovano inoltre in Macedonia, in
Montenegro, in Kosovo, in Sicilia e nell’Italia meridionale.

Il greco
Per la storia culturale della Cristianità d’Oriente e d’Occidente sono fondamentali le lingue del
gruppo greco, soprattutto i dialetti ionici e attici. I dialetti attici costituiscono la base della lingua
comune (koiné diálektos), diffusasi nel IV secolo a.C.

L’armeno

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Un gruppo a parte è costituito dall’armeno, che oggi è rappresentato dalla lingua della repubblica
caucasica con capitale Erevan, l’Armenia.
L’armeno è attestato a partire dal V secolo d.C., nell’Anatolia. Fino alla Prima guerra mondiale, la
lingua armena era molto diffusa anche nella Turchia ottomana, ma negli anni fra il 1916 e il 1918
gruppi dell’élite ottomana provocarono lo sterminio di circa un milione e mezzo di armeni. Da
allora gli armeni vivono sparsi in Europa occidentale, in America, e nel Medio Oriente.

Le lingue indo-iraniche
In questo gruppo sono annoverate molte lingue europee dell’India: tra le più rilevanti ci sono
l’hindi, lingua ufficiale, e il bengali; in Pakistan si parla l’urdu, una varietà di hindi.
Vi sono poi le lingue iraniche: fra quelle oggi parlate ci sono il farsi o persiano, lingua ufficiale
dell’Iran, il dari e il pashto, che sono lingue dell’Afghanistan, il curdo, il tagiko (parlato in
Tagikistan), e l’osseto (diffuso nell’Ossezia, una repubblica autonoma della Russia).
Nel gruppo indo-iranico sono incluse anche le diverse parlate romaní (lingue dei Rom), dette anche
parlate zingare.

La famiglia ugro-finnica

Il nome di questa famiglia mette in luce i due gruppi


principali: l’ugro, rappresentato dal magiaro, e il
balto-finnico, di cui fanno parte il finnico e l’estone,
lingue ufficiali dei rispettivi stati. In questa famiglia
vi sono altri gruppi: il saami (chiamato anche
lappone), articolato in varietà parlate da comunità
sparse nei territori subartici della Scandinavia e della
Russia.

Non rientrano nelle due grandi famiglie linguistiche d’Europa il basco, parlato in regioni pirenaiche
degli stati spagnolo e francese, e il maltese, una lingua semitica originaria del Maghreb.

Lingue dell’asia e dell’africa settentrionale


Lingue uraliche
Le lingue ugro-finniche appartengono a una famiglia più ampia, quella uralica, che comprende
anche un altro ramo, chiamato samoiedo, di cui oggi rimangono 5 lingue parlate nella Siberia nord-
occidentale.

Lingue altaiche
Sono articolate nella famiglia mongola (nella Mongolia, in Cina e in Siberia), tungusa (nella Siberia
orientale e nella Manciuria), e turcica. Alla famiglia turcica appartengono il turco, l’azero, l’uzbeko,
il kazako, il kirghiso e il turkmeno: sono le lingue ufficiali di Turchia, Azerbajdzan, Uzbekistan,
Kazachstan, e Kirgizistan.

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Lingue camitiche
Questa famiglia camitica comprende l’egiziano (la lingua delle iscrizioni geroglifiche), e il copto
(estinto nel XII secolo); da esso derivano il berbero e il cuscitico, diffusi in Etiopia e nel Corno
d’Africa.

Le lingue semitiche
Oggi sono rappresentate da un gruppo settentrionale e da uno meridionale.
Il primo comprende l’ebraico antico e l’aramaico. Il secondo si articola a sua volta in due
sottogruppi: le lingue arabe (l’arabo classico ne è il massimo rappresentante) e le lingue etiopiche,
fra le quali vi è l’amarico, lingua ufficiale dell’Etiopia.

Le lingue sino-austriche
La famiglia sino-tai comprende il cinese (con altre lingue della Cina) e il tai (nella Tailandia).
Seguono le lingue tibetane e birmane.
Infine, vi è la famiglia austrica, che annovera le lingue maleo-polinesiane (malgascio in
Madagascar, malese in Malesia, e alcune lingue parlate in Indonesia) e le lingue austro-asiatiche
(vietnamita).
Sono isolate lingue come il giapponese (per il quale si ipotizza anche un legame con le lingue
maleo-polinesiane) e il coreano.

CLASSIFICAZIONE TIPOLOGICA (slides + videolezione 20)


La classificazione tipologica delle lingue raggruppa le lingue a seconda dei tipi linguistici. Si
possono scegliere diversi criteri per vedere cosa c’è di uguale e cosa c’è di diverso:
 Criterio fonologico, ad es. classificare le lingue in base al numero delle vocali;
 Criterio morfologico, ad es. verificare la presenza o l’assenza di flessione nominale;
 Criterio sintattico, ad es. valutare l’ordine delle parole di una lingua e raggrupparle;
 Criterio categoriale, ad es. vedere se le lingue hanno/non hanno una diatesi media, un passivo.
Una caratteristica abbastanza importante nella classificazione delle lingue secondo il criterio
categoriale è vedere se una lingua è ergativa oppure no. Nelle cosiddette lingue ergative non si
distingue tra transitivo e intransitivo, ma tra ergativo e assolutivo. Il soggetto di un verbo transitivo
dotato di complemento oggetto, che abbia quindi il valore semantico di agente, sarà marcato dal
caso ergativo, mentre il paziente o oggetto dell’azione sarà nel caso assolutivo. La caratteristica
delle lingue ergative è tale che i soggetti dei verbi intransitivi , caratterizzati cioè come pazienti,
saranno nel caso assolutivo. L’unica lingua ergativa in Europa è il basco. Es. Marco (ergativo =
agente) mangia una mela. (assolutivo = paziente) / Marco (assolutivo) cade.
La tipologia linguistica è strettamente connessa con lo studio degli universali linguistici, ovvero
proprietà ricorrenti nelle strutture delle diverse lingue (sia sotto forma di invarianti sia sotto forma
di repertorio di possibilità = non tutte le possibilità vengono di fatto attualizzate). Un esempio di
universale linguistico è: tutte le lingue hanno sia consonanti che vocali; l’importante è che non sia
contraddetto dalle caratteristiche di nessuna lingua.
Un tipo linguistico si può definire come un insieme di tratti strutturali correlati gli uni agli altri. Non
si tratta di raggruppamenti assoluti. Solitamente un sistema linguistico realizza fondamentalmente
un certo tipo linguistico, mescolando però a questo anche caratteri di altri tipi linguistici ideali (es.
inglese).

Esistono 3 tipologie di universali.


 Universali assoluti: tutte le lingue presentano uno stesso fenomeno (es. tutte le lingue hanno
vocali e consonanti; tutte le lingue hanno un inventario di vocali costituito almeno da /i/, /a/, /u/;

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tutte le lingue hanno sillabe con struttura CV; tutte le lingue hanno parole, sintassi, frasi; tutte le
lingue hanno una costruzione negativa, ecc).
 Universali implicazionali: se A, allora B (es. se una lingua ha la categoria del genere allora ha
sempre anche la categoria del numero = non ci sono lingue che marcano la categoria del genere
ma non quella del numero; se una lingua ha vocali nasali allora ha sempre le vocali orali, ecc).
 Gerarchie implicazionali: se A, allora B, se B allora = catene di implicazioni (es. gerarchia dei
valori di numero = triale > duale > plurale > singolare -> non esistono lingue che marcano ad es.
il triale ma non il plurale).

CLASSIFICAZIONE MORFOLOGICA (slides + videolezione 21)


Le lingue possono essere classificate sulla base della struttura delle parole. È un metodo che risale
all’800, e sono stati in particolare i fratelli Schlegel in Germania ad avanzare ipotesi sul
raggruppamento delle lingue su base morfologica. La morfologia divide le lingue in isolanti,
agglutinati, flessive e polisintetiche.
Uno degli strumenti utilizzati per la categorizzazione di queste lingue è l’indice di sintesi:
rappresenta il numero di morfemi per parola e si ottiene dividendo, in un dato testo, il numero dei
morfemi per il numero delle parole. Più basso è l’indice (ovvero più il numero dei morfemi tende a
coincidere con il numero delle parole), più la lingua è analitica; più alto è l’indice, più la lingua è
sintetica.

 Lingue isolanti: cinese, tibetano, thailandese, vietnamita, hawaiano, ecc.


Il nome isolante si giustifica col fatto che non solo tali lingue isolano in blocchi unitari inscindibili
le singole parole, ma esprimono spesso anche significati complessi scindendoli, isolandoli in
lessemi semplici giustapposti. Queste lingue sono caratterizzate da parole invariabili (che non sono
declinate né derivate): il rapporto tra morfema e parola è quindi 1:1. Le lingue isolanti
rappresentano le lingue con il massimo di analiticità, e spesso sono caratterizzate da parole
monomorfemiche e monosillabiche. I diversi significati sono affidati, oltre che al lessico, all’ordine
delle parole.
L’inglese presenta alcuni tratti delle lingue isolanti, perché ha una morfologia flessionale molto
ridotta (presenta infatti solo una decina di morfemi flessionali, come il plurale, il comparativo di
maggioranza, terza persona del presente, ecc).

 Lingue agglutinanti: turco, ungherese, finlandese, swahili, basco, ecc.


Si tratta di una lingua in cui le parole hanno una struttura complessa, e sono formate dalla
giustapposizione di più morfemi. Per indicare la funzione, infatti, si aggiungono alla parola dei
morfemi, ciascuno dei quali contiene un’unica informazione: l’indice di sintesi è quindi abbastanza
alto, spesso 3:1 o superiore. Queste lingue tendono a essere molto regolari e ad avere un alto
numero di affissi (morfemi) per parola, così da avere parole piuttosto lunghe; si tratta però di parole
lunghe abbastanza “trasparenti”, perché all’interno della parola i morfemi sono facilmente
individuabili e ben separabili l’uno dall’altro, e poiché sono rari i fenomeni di allomorfia o
omonimia tra di essi. Si tratta perciò di parole a vista complesse, ma molto trasparenti, con un
indice di sintesi tra morfi e significati di 1:1, che fa di esse delle lingue sintetiche.

 Lingue flessive (o fusive): italiano, latino, russo, lingue indoeuropee fase antica e semitiche.
Sono lingue che presentano strutture di parole abbastanza complesse, ma tendenzialmente più
semplici rispetto alle lingue agglutinanti. Presentano una distinzione fra radici/temi e desinenze, ma
la complessità di queste lingue sta nel fatto che ogni morfema può manifestare una pluralità di
funzioni (ogni morfema può quindi essere polivalente): pertanto l’articolazione di queste parole
risulta meno trasparente rispetto a quella delle lingue agglutinanti. Presentano anche un’alta

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allomorfia, diversi casi di cumuli, amalgama morfematici e sincretismo. I confini di parola sono
chiari. L’indice di sintesi è solitamente 2:1 (italiano) o 3:1.
 Sottogruppo (o sottotipo) introflessivo: maltese, ebraico, arabo, ecc.
Presenta fenomeni di flessione all’interno della radice lessicale. L’informazione lessicale è
affidata a combinazioni di consonanti (tipicamente 3 = radice triconsonantica tipica dell’arabo),
e l’informazione grammaticale viene invece veicolata dalle vocali, inserite ‘a pettine’ nelle
radici: in questo caso si parla di transfissi.

 Lingue polisintetiche (o incorporanti): inuit, lingue amerinde.


Sono le lingue che presentano la struttura di parola più complessa, perché una parola può esprimere
concetti o addirittura una frase. In una stessa parola compaiono solitamente due o più radici
lessicali: può comparire un sostantivo, un verbo, un aggettivo, ecc. Come le lingue agglutinanti
hanno le parole formate da più morfemi attaccati insieme, ma a differenza di queste ultime in una
stessa parola compaiono due o più radici lessicali. Hanno un indice di sintesi massimo, di 4:1 o
superiore, perché proprio all’interno della parola viene inserito un numero piuttosto elevato di
morfemi, che corrispondono ad altrettanti significati; si giunge quindi a condensare in una sola
parola informazioni che normalmente richiederebbero la costruzione di un’intera frase. Nelle lingue
polisintetiche c’è una prevalenza di morfemi legati. La frase minima è costituita da un verbo
(complesso), con incorporazione di nomi nel verbo, di aggettivi nel nome, così come di strumenti,
luoghi, etc.

L’indice di fusione indica il numero di morfemi per morfo.

CLASSIFICAZIONE TIPOLOGICO-SINTATTICA (slides + videolezione 22)


Questo tipo di classificazione raggruppa le lingue a seconda delle strutture, in particolare sulla base
dell’ordine dei costituenti principali (soggetto, verbo, oggetto). I tre costituenti principali vengono
visti all’interno di frasi dichiarative canoniche, del tipo “Luigi mangia il gelato”. In base alla
diversa disposizione strutturale di questi tre elementi considerati fondamentali si danno 6 ordini
basici, ovvero delle parole sotto le quali è possibile raggruppare le lingue del mondo.
I tipi logicamente possibili sono: SOV, SVO, VSO, VOS, OVS, OSV; i primi tre ordini sono molto
diffusi. SOV interessa circa il 45% delle lingue (turco, basco, coreano, giapponese), SVO il 42%
(lingue romanze, germaniche, bantu, vietnamita), mentre VSO riguarda circa il 10% (lingue
celtiche, ebraico, aramaico, berbero).
I motivi che giustificano la prevalenza di SOV, SVO e VSO sono diversi:
 Il soggetto spesso coincide con il tema (= ciò di cui si parla) di una frase, che nella successione
naturale del discorso sta in prima posizione (prima ciò di cui si parla, poi ciò che si dice a suo
proposito).
 Principio di precedenza -> il soggetto, data la sua prominenza e priorità logica, deve precedere
l’oggetto. Solitamente il soggetto è esterno al sintagma nominale e si accorda col verbo dal
punto di vista morfologico.
 Principio di adiacenza -> verbo e oggetto devono essere contigui, dato il loro stretto legame
sintattico e semantico, e data la dipendenza diretta dell’oggetto dal verbo.
--> SOV e SVO rispettano tutti e tre i principi; VSO non realizza il principio di adiacenza (ed è
meno diffuso); OSV viola entrambi i principi, e infatti non ne abbiamo attestazioni certe.

Non mancano naturalmente le eccezioni, date dal fatto che l’appartenenza di una lingua a un tipo è
tendenziale e non è mai assoluta: sono quindi possibili degli spostamenti, ci sono strutture
parentetiche (in tedesco e olandese si ha ad esempio la posizione “fissa del verbo”), e possibili

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variabili che permettono ad alcune lingue di avere un ordine di parole “libero” (in latino sono
possibili 3 strutture informative a partire dagli stessi costituenti).

Secondo Greenberg l’ordine dei tre elementi fondamentali determina anche altri aspetti della
sintassi (preposizioni, posposizioni, posizione dell’aggettivo rispetto al nome); in particolare,
determina l’ordine all’interno dei singoli sintagmi. L’elemento caratteristico del sintagma è la testa,
quindi non possono esistere sintagmi senza una testa. Ci sono lingue che hanno la testa del sintagma
inziale (o a sinistra), e lingue che hanno la testa finale (o a destra).
Prendiamo in considerazione il rapporto che lega il verbo e l’oggetto. Le lingue di tipo VO (con
testa a sinistra o iniziale) vedranno:
 un sintagma verbale composto da V + O (es. mangio il gelato);
 un sintagma preposizionale composto da Prep + SN (es. con Luigi);
 un sintagma nominale composto da N + complementi (es. gelato alla fragola), N + frasi relative
(es. Luca, che è un bravo ragazzo), e N + aggettivi (es. casa rossa).
Le lingue che presentano l’altro tipo, OV (con testa a destra o finale), presenteranno:
 un sintagma verbale con ordine O + V;
 un sintagma preposizionale con ordine SN + Prep;
 un sintagma nominale con ordine complementi, frasi relative e aggettivi + N.
Si tratta naturalmente di un’analisi statistica, in quanto stiamo parlando di ordini non marcati. Non è
quindi escluso che le lingue classificate come SOV o SVO possano assumere ordini delle parole
differenti. Bisogna sottolineare che l’appartenenza delle lingue a un tipo specifico non è assoluta,
perchè esistono lingue miste oppure lingue che, sebbene non appartengano a un tipo, ne possano
presentare delle caratteristiche. L’italiano ad esempio non è un tipo SVO puro. È puro quando
consideriamo l’ordine all’interno dei sintagmi preposizionali (costituiti da Prep + N, es. di Pietro);
per il fatto che le relative sono post-nominali (es. l’uomo che ho visto), e i SPrep sono post-
nominali entro il sintagma nominale (es. il libro di Pietro); è puro anche perchè gli aggettivi
seguono spesso (ma non sempre) il nome. Ci sono però delle strutture che non si conformano alle
caratteristiche del tipo SVO, e che fanno quindi dell’italiano un tipo “non puro”: a volte gli
aggettivi precedono il nome (es. enormi difficoltà), come gli avverbi precedono gli aggettivi (es.
abbastanza bene), e gli aggettivi possessivi precedono i nomi (es. i miei libri).
Il giapponese invece è un tipo SOV puro, perché gli aggettivi e le relative precedono il nome da essi
qualificato; i SP all’interno di un SN precedono la testa del SN stesso; sono presenti postposizioni e
non preposizioni (SN + P); le frasi subordinate precedono la frase principale: gli avverbi precedono
i verbi.
CLASSIFICAZIONE SUBJECT-PROMINENT E TOPIC-PROMINENT
Esiste un’altra tipologia di classificazione, sempre sintattica, che divide lingue subject-prominent
(lingue europee occidentali, turco), da lingue topic-prominent (cinese).
 Le lingue subject-prominent sono quelle lingue le cui frasi sono costruite secondo lo schema
soggetto-predicato.
 Le lingue topic-prominent sono invece quelle lingue le cui frasi sono costruite secondo lo
schema topic-comment (o tema-rema), isolando il tema in prima posizione.
 Le lingue miste (come il giapponese) sono miste tra subject-prominent e topic-prominent.

La variazione linguistica (slides + videolezione 24a)

Uno studioso tedesco, Heinz Kloss, distingue due fattori importanti per caratterizzare una lingua: la
distanziazione e l’elaborazione.
 La distanziazione riguarda la differenziazione tra le lingue, ovvero una lingua si differenzia
dalle altre per lessico, grammatica e fonologia. La maggiore distanza esiste tra le lingue
nazionali, e la minore distanza tra le lingue locali, come i dialetti parlati in territori più piccoli.
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La distanza strutturale è riconosciuta o riconoscibile, ma non è detto che per questo motivo i
parlanti siano disposti a vedervi una differenza o un confine linguistico; è anche possibile che i
parlanti vedano differenze anche dove non ci sono o dove sono molto sfumate: questo accade
perché i parlanti tendono a far coincidere il confine linguistico con il confine politico. Si usa
quindi la lingua anche per distinguere uno Stato dagli stati vicini.
 L’elaborazione è legata all’uso e alla diffusione di una lingua. Tipica lingua per l’elaborazione è
la lingua standard o ‘nazionale’, che è codificata (con grammatiche e vocabolari) e riconosciuta
dalle istituzioni; per queste ragioni ha prestigio sociale. L’appartenenza allo stato-nazione
produce un sentimento di appartenenza a una lingua (detta lingua ‘nazionale’), che influisce sui
dialetti e sulle lingue locali. In Italia c’è l’italiano standard come ci sono lingue locali “storiche”
(veneziano, milanese, genovese, napoletano), lingue locali minori o lingue locali composite, che
derivano da un contatto più recente. A sua volta l’italiano standard domina varietà di altre lingue
romanze (ladino dolomitico, friulano, sardo, francese, franco-provenzale, catalano), varietà di
lingue non romanze diffuse in Italia o zone di confine (tedesco, sloveno, albanese), e il romanì,
ovvero la lingua parlata da rom e zingari. Per tutte queste lingue l’italiano rappresenta la ‘lingua
tetto’, che domina le altre lingue e non è dominata da alcuna di esse.

Una comunità linguistica è l’insieme di tutte le persone che parlano una determinata lingua o varietà
linguistica e ne condividono le norme d’uso. Da un punto di vista sociolinguistico, la comunità
linguistica non è vista come omogenea, ma è considerata ‘stratificata’; una comunità linguistica di
una certa estensione è quindi per definizione qualcosa di “differenziato”.

La competenza comunicativa è la capacità di usare la lingua nei modi che sono appropriati alle varie
situazioni, ma è anche la capacità di usare il codice adattandolo agli aspetti extralinguistici (sociali,
culturali e pragmatici) implicati nello scambio verbale e che formano un tutt’uno con gli altri codici
del comportamento comunicativo (linguaggio gestuale, mimica, aspetti vocali, ecc).

Per evitare il dibattito sulle differenze tra lingua e dialetto è possibile impiegare il termine “varietà”,
che denota uno strumento di comunicazione verbale diffuso all’interno di una comunità. Una
comunità può disporre di più varietà, che possono avere funzioni simili oppure diverse tra di loro.
L’insieme delle varietà forma il repertorio linguistico, inteso come l’insieme delle risorse
linguistiche accessibili a una comunità linguistica o a un parlante. Nel primo caso si parla di
repertorio comunitario, nel secondo caso di repertorio individuale: è l’insieme dei codici e delle
varietà linguistiche che un parlante è in grado di padroneggiare all’interno del repertorio più ampio
della comunità a cui appartiene.
Parliamo tutti “la stessa lingua” (= apparteniamo alla stessa comunità linguistica), ma questa lingua
presenta al suo interno una serie di varietà che non tutti parlano. Una comunità può infatti disporre
di più lingue, che possono essere gestite in modi diversi dagli individui: c’è chi parla più lingue, c’è
chi ne usa una sola ma è in grado di comprenderne altre. In questo senso i parlanti di una comunità
sono essenzialmente plurilingui, con competenze attive (legate alla produzione) e passive (orientate
alla ricezione). La comunità stessa è plurilingue perché non parla una sola varietà, ma parla o è
competente, quantomeno in modo passivo, di più varietà.

La variazione della lingua può essere correlata alla variazione dei fattori della comunicazione
(diacronia, diatopia, diastratia, diafasia, diamesia). Le possibilità di varietà riguardano le variazioni
sull’asse:
 diacronico (tempo);
 diatopico (luogo);
 diastratico (strati, gruppi, reti sociali);
 diafasico (situazioni comunicative);

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 diamesico (mezzo, canale).

Una variazione cui si può attribuire un significato sociale è una variabile. Una variabile è l’insieme
dei modi con i quali i parlanti possono realizzare una data unità di un sistema linguistico in funzione
di una data variazione di tipo sociale. Ciascuno di questi modi è detto variante, ed esistono varianti
fonologiche, morfologiche e lessicali. Le realizzazioni di queste possibili variabili sono diverse ma
sono equipollenti, ovvero non toccano il significato di codice, il significato referenziale di una data
struttura a livello di sistema (es. sinonimo papà / babbo = il significato referenziale rimane lo stesso
sia che io usi una varietà locale piuttosto che un’altra).

Varietà diafasiche (o situazionali)


La variazione diafasica si manifesta attraverso le diverse situazioni comunicative, e consiste nei
differenti modi in cui vengono realizzati i messaggi linguistici in relazione ai caratteri dello
specifico contesto presente nella situazione; viene quindi anche detta variazione situazionale.
I fattori determinanti della varietà diafasica sono:
 il rapporto in cui si pongono i partecipanti all’interazione comunicativa e i ruoli sociali e
comunicativi reciproci che assumono nella situazione = tenore (es. la maniera in cui ci si rivolge
a una persona autorevole con cui non si è in confidenza è ovviamente diversa da quella con cui
ci si rivolge a familiari ed amici);
 la natura dell’attività svolta nella situazione comunicativa e l’insieme delle esperienze, delle
azioni e dei contenuti semantici che questa implica e a cui fa riferimento (es. chiacchierare al
bar, prendere appunti, tenere una lezione, telefonare a un amico sono attività che richiedono
messe in opera differenti delle possibilità offerte dalla lingua);
 il mezzo o canale fisico attraverso cui passa la comunicazione, e il tipo di contatto interazionale
che vi si realizza (es. comunicare per iscritto o comunicare oralmente sono due esplicitazioni
diverse dell’uso della lingua).

La variazione di registro (variazione stilistica) è connessa fondamentalmente con la categoria del


tenore, infatti si basa sul tipo di rapporto tra parlante e interlocutore, ed è anche correlata al grado di
formalità relativo alla situazione comunicativa. Le differenze di registro si distribuiscono lungo tutti
i livelli di analisi della lingua, e riguardano quindi sia la pronuncia che la morfosintassi, il lessico e
l’articolazione testuale e pragmatica. Le variabili sono:
 grado di formalità / informalità della situazione comunicativa -> il grado di formalità di ogni
situazione si situa in un continuum, che va dal massimamente formale al massimamente
informale, e dipende dal modo in cui la situazione classificata è costruita dai partecipanti;
 rapporto tra gli interlocutori;
 grado di controllo esercitato dal parlante.

Varietà diastratiche (o sociali)


Sull’asse diastratico le differenze di espressione sono dovute alla variazione dell’ambiente sociale.
Nelle varietà diastratiche riconosciamo:
 varietà di prestigio e non di prestigio (es. prestigio del fiorentino grazie a Dante -> prestigio
manifesto = standard / prestigio di varietà sub-standard in determinate condizioni -> prestigio
coperto).
 l’italiano standard è una lingua a base sovraregionale = l’italiano usato nelle scuole e in ambito
accademico, politico, culturale.
 l’italiano popolare è la varietà sociale (bassa) per eccellenza dell’italiano = l’insieme di usi
frequentemente ricorrenti nel parlato e nello scritto di persone non istruite che perlopiù nella
vita quotidiana usano il dialetto.

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Linguistica generale – secondo semestre

Una stessa lingua può avere più varietà standard (es. portoghese di Lisbona vs portoghese di Rio).
Le variazioni sono dovute all’ambiente sociale, per cui le categorie più spesso utilizzate per far
emergere la varietà diastratica sono di due tipi:
 riferimento a caratteristiche sociali, come il livello di istruzione, occupazione sociale, modelli
culturali, modelli di comportamento, di riferimento, ecc;
 riferimento a dati anagrafici, per esempio l’età (gergo giovanile) e il sesso.
Esistono tre forme di variabilità diastratica o sociale:
 Lingue settoriali
Sono linguaggi specialistici che si collocano a cavallo tra diafasia e diastratia; sono lingue
caratterizzate da parole, espressioni e termini tecnici di un ambito specialistico, di settori
dell’attività umana (medicina, musica), di gruppi professionali. I linguaggi settoriali sono
caratterizzati da un’articolazione verticale, che distingue tra livelli alti (= linguaggio settoriale
teorico, usato in connessione con il registro formale, soprattutto in testi scritti come i trattati
specifici) e livelli bassi (= linguaggio settoriale applicativo e pratico, impiegato in testi scritti come
i manuali d’istruzione e in testi orali come la conversazione tecnica in officina o laboratorio).
 Socioletto e idioletto
Socioletto: varietà linguistica “regolare” tipica di una classe sociale, di un gruppo etnico-geografico,
o di un gruppo di persone con caratteristiche comuni. Si ha un socioletto quando la scelta di
determinate varietà ricorre con regolarità e non è più lasciata all’iniziativa del parlante.
Idioletto: insieme degli usi linguistici caratteristici e propri di un singolo individuo.
 Gerghi
“Gergo” è un termine usato comunemente per definire delle varietà di lingua che vengono utilizzate
da specifici gruppi di persone e che si sono sensibilmente allontanate dalla lingua o dal dialetto
parlato normalmente in zona. Il gergo è una forma di linguaggio utilizzata da certi gruppi sociali per
evitare la comprensione da parte di persone estranee al gruppo. Consiste nella sistematica
sostituzione di numerosi vocaboli della lingua comune con altri vocaboli, o di origine straniera
(anche indigeni), ma con significato mutato (es. furbesco = gergo della malavita; gaì = gergo dei
pastori camuni; il gergo degli studenti -> vado in Montini (aula al 2° piano) ecc).
Intersezioni
È spesso emerso che molte variabili diastraticamente significative sono altrettanto significative ai
fini della variazione diafasica: ad esempio, varianti colte -> massimo di formalità; varianti incolte o
basse -> massimo di informalità.
Generalmente la variazione diafasica è vista come secondaria e derivata, specchio o eco della
variazione sociale, anche se esiste un punto di vista opposto.
La distinzione tra variabilità diastratica e variabilità diatopica non sempre può essere stabilita in
modo netto (soprattutto in una situazione come quella italiana in cui la dialettofonia ha sempre
giocato un ruolo nel repertorio dei parlanti ed è tutt’ora vitale).

Varietà diamesiche
L’asse diamesico è legato alla variazione del mezzo impiegato, che può essere fonico (nel parlato) o
grafico (nello scritto).
Un testo orale ha a disposizione strutture assenti nello scritto: le pause, il ritmo, l’intonazione
trovano scarsa registrazione nella forma grafica. Inoltre, nella comunicazione orale le battute si
avvicendano rapidamente e gli interlocutori hanno poco tempo per costruire il proprio testo.
Nello scritto, invece, è possibile riflettere, rielaborare, correggere. La sintassi dello scritto non si
ritrova nel parlato, le ripetizioni del parlato non sono riprese nella forma scritta, e gli errori tollerati
nella versione orale sono inaccettabili nella pagina scritta.

Varietà diatopiche (slides + videolezione 24b)


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Linguistica generale – secondo semestre

La varietà diatopica è la dimensione orizzontale delle lingue, in quanto riguarda la localizzazione


geografica dei parlanti e lo spazio comunicativo in cui essi sono collocati. Questa varietà può essere
analizzata da due punti di vista: diacronico e sincronico. L’analisi diacronica studia come si sono
prodotte le differenziazioni dialettali in un dato territorio, mentre il punto di vista sincronico
definisce le varietà regionali, il loro rapporto reciproco, i confini e il prestigio di una lingua.
L’approccio diatopico può riguardare le variazioni della lingua locale (dialetti d’Italia) oppure la
variazione della lingua italiana. La definizione di dialetto non è infatti univoca, e in generale vi si
riconoscono due accezioni:
 Il dialetto viene considerato come un sistema linguistico autonomo rispetto alla lingua
nazionale. È quindi un sistema che ha caratteri strutturali e una storia ben distinti da quelli della
lingua standard. In questo caso il dialetto viene considerato come qualsiasi altra lingua con una
propria caratterizzazione territoriale, anche se privo di rilevanza politica o prestigio letterario.
 Il dialetto è considerato come una varietà sociale (o regionale) di una lingua nazionale, di un
sistema, o di un continuum linguistico geografico (es. inglese americano).

Bilinguismo, diglossia, dilalia, dialettia sociale


Il bilinguismo sociale si ha quando una comunità gestisce due o più lingue, caratterizzate da
elaborazione e distanza strutturale. Il bilinguismo può essere monocomunitario, come in
Lussemburgo con francese, tedesco e lussemburghese, oppure bicomunitario, come in Belgio o in
Sud Tirolo / Alto Adige: qui vi sono due comunità autonome, e all’interno di ciascuna gli individui
usano varietà della lingua primaria. In questo caso i parlanti possono avvalersi di entrambe le lingue
nella stessa enunciazione, alternandole in vario modo. Vi sono poi altri tipi di bilinguismo. In
Québec, ad esempio, c’è una tendenza a corona circolare: la comunità quebecchese si serve di una
varietà di lingua francese, ma usa l’inglese nell’interazione con la realtà anglofona circostante.

La diglossia si rileva quando due lingue distanti per struttura si usano in domini distinti (cioè non si
sovrappongono funzionalmente); una tiene i domini alti, l’altra quelli bassi: la lingua alta è di solito
quella nazionale, mentre la lingua bassa è la lingua della conversazione quotidiana. Il caso tipico è
dato dalla diglossia fra il tedesco standard e il dialetto svizzero nei cantoni tedescofoni della
Svizzera.

La dilalia è simile alla diglossia, tuttavia vi è una parziale sovrapposizione funzionale. Per esempio,
vi è dilalia quando l’italiano ha tutti gli ambiti d’uso, potendo essere impiegato sia nei domini alti
sia in quelli bassi, e la lingua locale è solo lingua degli usi bassi. Lingua nazionale e lingua locale
possono dunque sovrapporsi, ed è frequente la commutazione di codice, cioè l’alternanza delle due
lingue nella comunicazione.

La dialettia sociale (o bi-dialettismo o polidialettismo) è simile alla dilalia, ma le due varietà non
hanno distanza strutturale: la lingua bassa non è avvertita come una lingua diversa da quella alta. È
il caso del rapporto fra italiano e varietà locali in Toscana, ma la dialettia sociale caratterizza anche
il rapporto fra l’inglese e le sue varietà, quali l’americano, l’australiano e il britannico.

In un semplice segmento conversazionale, soprattutto quando è parlato spontaneo, il locutore può


alternare una varietà linguistica all’altra (si parla in tal caso di code switching), come quando una
conversazione avviata in italiano prosegue in dialetto. Il locutore può anche mescolare una varietà
all’altra, e si avrà in questo caso un’enunciazione mistilingue (code-mixing): per esempio, parole
del dialetto si possono inserire in una conversazione svolta in italiano regionale.

Pidgin e creoli

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Linguistica generale – secondo semestre

Il pidgin è un sistema di comunicazione limitato a certe funzioni, sorto in situazioni di contatto


linguistico e usato da persone che non parlano la stessa lingua.
Il processo di formazione di un pidgin ha tre aspetti:
 Riduzione, perché nei pidgin vi sono meno strutture linguistiche che nel sistema di una lingua
storica. Di solito un pidgin si attesta sulle 200 parole, e la grammatica combina le parole
secondo poche regole essenziali.
 Convergenza, perché l’organizzazione fonologica, grammaticale e lessicale di una delle due
lingue che entrano in contatto viene trasferita sull’altra.
 Semplificazione, perché sono tolte le irregolarità.
I pidgin possono essere stabili oppure instabili. Essi inoltre sono ristretti oppure espansi: sono
ristretti se il loro uso non va oltre gli ambiti comunicativi ridotti per i quali sorgono; un pidgin
invece si espande quando diventa di vitale importanza in una data area e viene usato al di là delle
funzioni che lo hanno fatto nascere.
I pidgin hanno tendenzialmente una sola base (la lingua che ha il ruolo fondamentale). Le maggiori
sono l’inglese, il francese, lo spagnolo, il portoghese e l’olandese. In base alle circostanze storico-
geografiche vi sono pidgin ‘marittimi’ e ‘commerciali’; un altro caso è dato dalle cosiddette ‘lingue
interetniche di contatto’, legate per esempio alle cerimonie religiose fra persone di lingue diverse.
Infine, vanno citati i cosiddetti ‘work force pidgins’, che erano usati nella comunicazione fra
l’amministrazione coloniale e la forza lavoro, come gli schiavi deportati dall’Africa verso le
Americhe.

Quando un pidgin espanso si assesta, può aver luogo una fase di ulteriore espansione. Il bagaglio
lessicale aumenta, cresce il numero di funzioni sociali e il pidgin si avvicina allo statuto di una
lingua non standard. A quel punto può avvenire che emerga una generazione che acquisisca tale
idioma come prima lingua. Il pidgin evolve e diventa un creolo. Possiamo dunque considerare il
creolo come un pidgin espanso, che si è evoluto fino a diventare lingua materna. In diverse
comunità linguistiche (in particolare nelle Antille, a Haiti e in Giamaica) una varietà creola è una
lingua bassa, mentre la lingua alta è una lingua come l’inglese o il francese. Per l’influsso del
modello di prestigio, il creolo può iniziare un lento e costante avvicinamento allo standard. Prende
avvio così un processo chiamato decreolizzazione. Partendo dal basiletto (la parlata creola) si sale
verso il mesoletto (una varietà intermedia fra il creolo originario e una varietà non standard della
lingua base), per giungere all’acroletto, ossia alla varietà più elevata nel canale di decreolizzazione.

L’ITALIA DELLE LINGUE

L’Italia è forse il paese linguisticamente più ricco e complesso di tutta l’Europa, perché vi sono
ospitate comunità di almeno 5 gruppi linguistici diversi della famiglia indoeuropea (romanzo,
germanico, slavo, albanese, greco). Le vicende storiche hanno condotto numerose comunità a
insediarsi in territori d’Italia che sono lontani dalle rispettive terre d’origine (albanesi, catalane,
greche). A volte in proposito si usa il termine ‘isola linguistica’, mentre si parla di ‘penisole
linguistiche’ quando il confine politico interrompe la continuità con il territorio della comunità
linguistica che predomina in uno Stato confinante (il tedesco in Tirolo, lo sloveno a Trieste, il
francese in Valle d’Aosta).

La realtà di lingua arbëresh


L’albanese è lingua ufficiale in Albania e in Kosovo, e co-ufficiale in Macedonia e Montenegro. È
presente anche in comunità che vivono da secoli in Italia. Il termine arbëresh indica la realtà
linguistico-culturale albanese nell’Italia del Sud, soprattutto in Calabria e nel Palermitano, come
anche in Puglia, Campania, Abruzzo e Molise. Gli insediamenti risalgono ai secoli XV-XVI.

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Linguistica generale – secondo semestre

Il tedesco e altre varietà germaniche


La componente tedescofona del Tirolo meridionale (Südtirol) si caratterizza come una penisola
linguistica: fa parte dell’area bavarese meridionale, e per lo standard adotta il tedesco orientato alla
varietà austriaca. Il tedesco ha le funzioni sociali di prestigio, mentre il bavarese è privilegiato per la
comunicazione informale e familiare.
Nel gruppo germanico occidentale rientrano altre varietà alto-bavaresi, che sono piuttosto isole
linguistiche: il mocheno e il cimbro.
Vi sono poi varietà di alemanno superiore, dette anche walser (dialetto valligiano), oggi ancora
usate a Gressoney.

La Slavia meridionale in Italia


Sul territorio italiano il gruppo slavo meridionale ha tre presenze: lo sloveno standard, con le sue
varietà, nei territori delle province di Gorizia e Trieste; le varietà slavo-friulane, nelle valli della
provincia di Udine; lo slavo molisano.

Varietà grecaniche
Dopo secoli nei quali la grecità era assai diffusa nei territori meridionali d’Italia, continuano a
esistere varietà di greco in Calabria, nella Bovesia e nel Salento.

Il complesso delle lingue romanze


La Valle d’Aosta è area caratterizzata da un plurilinguismo, che si manifesta nella scelta di
impiegare sia l’italiano sia il francese negli usi scritti pubblici.
Nell’area franco-provenzale rientrano anche le valli alpine del Torinese settentrionale. Invece, a
partire dall’alta Val di Susa e procedendo verso sud, vi sono parlate provenzali alpine.
Due isole linguistiche franco-provenzali sono poi attestate nell’Italia meridionale, più precisamente
in Calabria e in Puglia, e sono risalenti a insediamenti valdesi nel Trecento.
In Sardegna si parla prevalentemente il sardo, che però rimane una minoranza linguistica dominata
dall’italiano come ‘lingua-tetto’. Nel comune di Alghero è praticata una varietà di catalano che
risale al Trecento e testimonia il passato dominio degli Aragonesi. Nell’isola di San Pietro e in
quella di Sant’Antioco, in Sardegna, viene usato il tabarchino, una varietà ligure antica. Inoltre,
verso la fine del medioevo nel settentrione della Sardegna affluirono comunità di corsi, le cui
parlate si sono sviluppate nelle varietà sardo-corse del Gallurese e del Sassarese. La Sardegna è
dunque un’isola di prevalenza sarda, con una forte presenza al nord del sardo-corso e con due
importanti minoranze linguistiche, quella catalana e quella tabarchina.

Lingua franca
La lingua franca, intesa come lingua che viene utilizzata come strumento di comunicazione
internazionale o comunque tra persone che parlano una lingua differente rispetto alla lingua madre,
è molto diffusa. In epoche passate si usavano il greco antico, il latino, il ligure, un dialetto derivato
dal veneziano e parlato nel medioevo in tutti i porti francesi e del Medioriente.

La lingua franco-mediterranea è un “sabir” che si utilizzava nel bacino del Mediterraneo dalle
crociate fino all’800. Il nome “sabir” è una storpiatura del catalano “saber”. La nozione di lingua
franca deriva invece dall’arabo, e si traduce con ‘lingua europea’. Questa lingua franco-
mediterranea o sabir aveva una base lessicale prevalentemente italiana, costituita soprattutto dal
genovese e dal veneziano, mentre il restante 30% era costituito da altre lingue mediterranee come
arabo, catalano, greco, occitano, siciliano e turco. La morfologia era molto semplice, l’ordine delle
parole libero, e vi era un gran uso di preposizioni per supplire alla mancanza di alcune classi di
parole, poiché si trattava di una lingua semplificata, con un numero limitato di tempi verbali.

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Linguistica generale – secondo semestre

Il primo documento in questa lingua risale al 1296, e si tratta del più antico portolano (libro che
elenca i porti in modo dettagliato) relativo alla totalità del Mediterraneo, “Con passo da navegare”.
Questo ci dice che fino alla fine dell’800 non esisteva una lingua franca mediterranea con base di
lingua italiana (o di lingue italiane).

CONTATTI DI LINGUE

IL CONTATTO LINGUISTICO E L’INTERFERENZA

Vittore Pisani osserva che ogni lingua è, ad ogni suo momento, il risultato della convergenza di
elementi giunti da ogni parte agli uomini che la creano. Per “lingua” egli intende ciò che vi è di
comune in un complesso di eventi verbali o semiotici prodotti da un aggregato sociale, come ad
esempio una comunità professionale, storica-territoriale, una società eterogenea, ecc.
Già alla fine dell’800, H. Schuchardt osservava che non esistono lingue che non siano miste.
Secondo lui, le lingue sono sottoposte a processi di arricchimento espressivo incessanti. Ogni lingua
si presenta in ogni momento come un sistema geologico di sedimenti di origine diversa e tratti in
epoca diversa. In italiano, ad esempio, riscontriamo elementi greci, latini, provenzali, arabi, turchi,
spagnoli, tedeschi e inglesi; tutti questi elementi “convivono” nel sapere del parlante. Si ricordano
innumerevoli casi di prestiti, il cui processo di assimilazione è giunto a un punto tale per cui queste
parole non tradiscono più le loro origini straniere: parole come gioia, giardino, formaggio, mangiare
e treno derivano tutte dal francese per esempio.

L’interlinguistica studia la fenomenologia delle relazioni tra le lingue, quindi le condizioni o gli
effetti. Gli effetti sono però ormai talmente interiorizzati che non vengono più percepiti come tali
(ad es. i nomi propri Alessandro e Caterina sono di matrice greca, Anna e Giovanni di origine
ebraica, Alberto e Aldo hanno discendenza germanica, ecc).

 Contatto: è la sovrapposizione e la combinazione di codici.


 Interferenza: è la manifestazione del contatto tra le due lingue, una lingua modello e una lingua
replica.
Il luogo del contatto e dell’interferenza è in primis quello dell’individuo bilingue, perché il contatto
si concretizza inizialmente come innovazione nell’uso del singolo parlante; solo l’interferenza è poi
la manifestazione del contatto tra due lingue.
Contatto e interferenza avvengono dapprima nel singolo parlante, poi tale fenomeno può essere
ripetuto e condiviso da un numero più o meno esteso di parlanti. Quando si verifica quindi il
contatto tra due lingue, una dà il modello e l’altra lo replica in vario modo, costituendo forme nuove
o assegnando nuove funzioni a forme già esistenti.
Weinreich dice che due o più lingue si diranno in contatto se sono usate alternativamente dalle
stesse persone. Il luogo del contatto è perciò costituito dagli individui che usano le lingue. C’è
quindi questa dimensione sociale del contatto: ci sono fattori socio-culturali e fattori psicologici.

I contatti linguistici si dividono in due:


 I processi (che avvengono a livello di parole) sono il contatto e l’interferenza.
 I prodotti (a livello di langue) di questi processi sono di due tipi: prestiti e calchi.
In inglese “processi” viene tradotto con ‘borrowing’ e “prodotti” con ‘loanword’ -> loan translation.
In tedesco “processi” viene tradotto con ‘Entlehnung’ e “prodotti” con ‘Fremdwort’ ->
Lehnprägung.
Naturalmente, per passare dai processi ai prodotti bisogna escludere forme occasionali, come
possono essere l’alternanza di codice, l’enunciazione mistilingue (il code-mixing), il code-
switiching, e gli occasionalismi.

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Linguistica generale – secondo semestre

Prestiti
Un prestito è l’imitazione, la replica di un’espressione e di un suo uso. In una lingua, detta “lingua
replica”, viene utilizzato come modello un lessema originario di un’altra lingua, la “lingua
modello”. Non si può semplicemente importare una parola, ma deve essere utilizzato un modello,
perché i prestiti sono sottoposti a vari processi di acclimatamento e integrazione.
Con “prestito” si intende il fatto che un lessema passa nel suo insieme (cioè come unione di
significante e significato) da una lingua a un'altra. Per Fusco (in Che cos’è l’interlinguistica), un
prestito è «l’epilogo di un processo di interferenza tra due lingue, che si traduce nell’acquisizione
per mimesi da parte di una di esse di un tratto linguistico che esisteva prima del contatto in un’altra
lingua». Bisogna però dimostrare e rendere plausibile un rapporto d’imitazione, perché esistono
anche i “falsi prestiti”. Esistono poi i prestiti di necessità (per esempio, quando è nata la comunità
cattolica si sono presi termini dal greco e dal latino), e i prestiti di lusso (ad esempio nell’ambito
culinario, della moda).

L’acclimatamento è la diffusione e la fortuna di una nuova parola nella società.

L’integrazione è l’influsso esercitato dalla lingua replica nello sforzo di adeguare il termine di
tradizione straniera. Costituisce una fase cruciale nell’acquisizione dei prestiti.

La lingua ricevente può influire sul prestito in vario modo. Fondamentale è l’ambiente e
l’atteggiamento linguistico dei parlanti: gli ambienti colti tendono ad accogliere il prestito con
maggior fedeltà, mentre gli ambienti meno colti tendono ad adattarlo da un punto di vista grafico,
fonologico e grammaticale. Esistono diversi adattamenti dei prestiti.
 Adattamenti fonologici e fonetici: tunnel, bus, spray; beige e garage, club -> pronuncia ing. vs
it.
 Adattamenti semantici: ingl. Sport deriva dal fr. Desport (corrisponde all’it. diporto).
 Adattamenti grammaticali: il relax (it) -> to relax (ing); chattare (it) -> to chat (ing); bluffare (it)
-> to bluff (ing).
 Adattamento del genere (grammaticale) e della morfologia: il budget, la holding, la star (ma in
ted. der Stern -> maschile), lo show (ma in ted. die Show).
 Adattamenti grafici: gol (dall’ing. goal), ragù (dal fr. ragout), bignè (dal fr. beignet).

Alcuni tipi di prestito sono:


 Prestiti apparenti
o Prestiti decurtati -> basket per basketball, scout per boyscout;
o Appellativi da nomi propri -> biro deriva da Birò, ungherese che le creò;
o Toponimi divenuti appellativi -> damasco, la stoffa, indica la stoffa di damasco;
o Falsi prestiti -> beauty farm, prémaman, ecc. non esistono nella lingua originale.
 Prestiti di ritorno o “camuffati”: sono fenomeni di imitazione di archetipi stranieri
o It. disegno > ingl. design > it. design (come disegno tecnico);
o Lat. media > ingl. media > it. media (come social media).
 Prestiti interni: anche dialettismi o regionalismi
o Es. ‘incucio’ dal napoletano (accordo sottobanco) è usato tutt’ora in italiano.
 Prestiti dotti o “cultismi o latinismi”: riconducibili a strati più antichi di lingua
o Es. guerra -> bellico, bellicoso;
o Curriculum, alibi, egregio, molesto, ecc.

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Linguistica generale – secondo semestre

La fortuna di un prestito può essere determinata per la sua affinità strutturale alle parole della lingua
ricevente. Per esempio, il prestito dal germanico ‘guerra’ ha sostituito in quasi tutta l’area romanza
il termine latino ‘bellum’ perché era troppo coincidente col latino ‘bellus’. Il latino ‘bellum’ è però
rimasto come base colta per alcuni derivati, come ‘bellico’ e ‘bellicoso’. Un altro esempio molto
comune è acqua -> idrico.
Un esempio dal latino alle lingue germaniche è il termine latino ‘discus’ (dal greco ‘diskos’), da cui
deriva ‘tisc’ in antico alto tedesco e Tisch nel tedesco odierno, ‘disc’ in antico inglese e oggi ‘dish’.
Alcuni prestiti dall’arabo sono entrati in Italia soprattutto tramite lo spagnolo. Un esempio è ‘zero’,
che deriva da ‘sifr’, che a sua volta deriva dal sanscrito ‘sunya’ = vuoto, deserto, nulla. Da ‘sifr’
deriva anche ‘cifra’, che inizialmente aveva il senso di ‘zero’.

Calchi
I calchi possono essere definiti come la conversione di un archetipo alloglotto mediante materiale
lessicale autoctono. Lo spunto da cui si origina l’interferenza non è tanto il significante, bensì il
significato. I calchi sono quindi frutto di un intervento più creativo e consapevole rispetto ai prestiti.

I calchi sono una ricreazione mimetica della conformazione interna di una parola o di un sintagma
(o frase) per mezzo di elementi propri della lingua replica. Per esempio, anche se un parlante ha
scarsa conoscenza del tedesco, può accogliere e utilizzare prestiti come ‘blitz’, ‘kaputt’, ‘würstel’;
solo un bilinguismo avanzato permette di riconoscere in ‘schiaccianoci’ un calco dal tedesco
‘Nussknacker’. Il calco comporta quindi un intervento più attivo e consapevole del semplice
adattamento di un prestito.
Distinguiamo ora tra calchi strutturali e calchi semantici. La parola o frase straniera:
 Viene ‘ricalcata’ strutturalmente attraverso un nuovo elemento che, combinando materiali
indigeni, riproduce la forma (interna) e il significato della parola modello -> calchi strutturali.
 Riverbera tratti del suo significato su un termine analogo della lingua replica, rimodellandone la
semantica -> calchi semantici.

Calchi strutturali
La struttura lessicale di una lingua è modello per una nuova parola, che viene costruita con gli
strumenti della lingua di arrivo. Il calco per lo più non è perfetto.
Condizione preliminare ed essenziale affinché un calco possa avere luogo è che il modello (la
parola straniera) sia segmentabile, cioè si possa articolare in costituenti inferiori interpretabili nella
loro funzione e valore. È fondamentale che ad essi corrispondano, nella lingua replica, altrettanti
elementi così da rendere possibile una riproduzione, se non perfetta, almeno approssimativa.
Un caso di riproduzione perfetta è ‘outlaw’ -> fuorilegge. Per lo più però le riproduzioni sono
imperfette, nel senso che il modello viene uniformato alle strutture proprie della lingua replica. Ad
esempio, se l’italiano opera un calco su un composto germanico, l’ordine dei costituenti può
invertirsi: flatfoot -> piedepiatto, social climber -> arrampicatore sociale, basketball ->
pallacanestro, Blitzkrieg -> guerra lampo (in italiano l’ordine è determinato-determinante). Nel
ricalco italiano della parola inglese ‘skyscraper’ -> grattacielo la ricostruzione del modello è invece
rielaborata.

Gli studiosi distinguono diversi tipi di calco strutturale.


 Ripresa della forma interna di parole composte: ‘altoparlante’ da ‘loudspeaker’;
 Calchi di derivazione: comportamentismo < behaviorism, Mitleid < pietà;
 Calchi sintagmatici: riprendono una costruzione di più parole -> fuoco amico < friendly fire,
tavola rotonda < round table, conferenza stampa < press conference, emergenza rifiuti, salario
minimo, zero calorie;

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Linguistica generale – secondo semestre

 Calchi fraseologici: prese singolarmente, le parole di queste frasi sono presenti in italiano, ma la
combinazione è del tutto nuova -> (nel lessico borsistico) spingere in territorio positivo < to
push into positive territory, fare buon viso a cattivo gioco < faire bonne mine à mauvais jeu;
 Calchi prestiti: quando ci si limita a tradurre solamente un elemento del composto straniero ->
it. gap generazionale < ing. generation gap.

Calchi semantici
Tra i vari tipi di contatto interlinguistico i calchi semantici sono i più mimetizzati. Una parola già
presente nella lingua di arrivo (lingua replica) assume un ulteriore senso per influsso di una lingua
straniera. I diversi sensi che si vengono a creare all’interno di questa parola autoctona per influsso
del calco semantico non sono tra loro estranei: il calco semantico, infatti, non crea una nuova unità,
ma induce una polisemia nell’unità che è già presenta nella lingua replica. Nella lingua replica è
quindi necessario che ci sia un termine preesistente, il cui significato coincide con uno dei tratti
semantici del modello straniero. Esempi di calchi semantici sono: ‘diligenza’ con il significato di
“veicolo” sull’esempio del francese ‘carrosse de diligence’; ‘angolo’ (“calcio d’angolo”) è un
estensione semantica che rispecchia quella dell’inglese ‘corner’; ‘salvare (un file)’ dall’ing. ‘to
save’.

I calchi concettuali rientrano sempre nell’ambito dei calchi semantici. In questo caso però la lingua
replica procede in autonomia rispetto all’archetipo esogeno, mediante una riproduzione che non
abbia con esso una qualche relazione formale. Ad esempio, ‘oleodotto’ dipende da (oil) pipeline su
modello però di acquedotto. Nel contatto interlinguistico si trasmette un’esigenza di designazione,
però per questa designazione ci si ispira a termini già esistenti nella lingua replica. ‘Oleodotto’ di
fatto non è un calco su ‘pipeline’, ma è stato creato per rendere comunque il concetto evocato,
sollecitato dall’esigenza di individuare una replica a un elemento straniero, evitando però una mera
acquisizione del prestito e la sua riproduzione mediante un calco.

CENNI DI SEMANTICA LESSICALE (slides + videolezione 26a)

Lingue e letture dell’esperienza


La semantica è lo studio del significato delle parole, della combinazione di parole, delle singole
frasi e degli enunciati di una lingua.

Una definizione generalissima di significato è l’informazione veicolata da una struttura linguistica.


Abbiamo un significato di codice in potenza, e un significato contestuale o testuale, cioè la specifica
attualizzazione e concretizzazione che il contenuto di un termine assume ogni volta che viene usato
in una produzione linguistica specifica o in un preciso evento semiotico. Il significato di un lessema
si manifesta quindi propriamente solo nella dimensione testuale (-> senso). Tuttavia, ogni lessema
ha un semantismo potenziale (che precede la sua realizzazione) che in qualche modo orienta il suo
possibile utilizzo.

Il significato linguistico ha due poli:


 Concettuale -> concetto, intensione, idea, immagine mentale;
 Referenziale -> mondo, denotazione, estensione.
Seguendo Morris, la semantica può essere definita come lo studio delle relazioni tra i segni e gli
elementi della realtà a cui essi rimandano (concetto chiarito dal triangolo semantico).

Concetto Nel triangolo semantico il linguaggio rimanda


ai concetti. I concetti rimandano a cose che
stanno nel mondo. Quindi, per il tramite dei
18 concetti, il linguaggio rimanda indirettamente
(linea tratteggiata) anche alle cose del mondo.
Linguistica generale – secondo semestre

Linguaggio Mondo

Espressioni di lingue diverse possono avere un contenuto simile, che però è organizzato variamente.
In italiano, ad esempio, il verbo ‘entrare’ indica un movimento, che è codificato in un verbo
semplice. In inglese, invece, non basta usare il verbo ‘come’, ma bisogna aggiungere anche la
particella ‘in’ -> ‘come in’. In questo caso il verbo semplice viene affiancato da un indicatore, che
indica appunto movimento o ingresso, e si parla di elemento composto.

Vi sono però molti altri aspetti che lasciano intravedere la sensibilità della lingua verso la cultura. È
dunque possibile ritenere che una lingua offra un punto di vista sulla realtà e un’ipotesi
interpretativa sull’esperienza umana. Un esempio è la numerazione decimale tipica dell’italiano
rispetto alla numerazione vigesimale del francese (che si ritrova anche nel gallese e nel georgiano).
Riguardo a questo aspetto ci sono due posizioni.
 Relativismo: afferma che la lingua incide anche sul modo di pensare.
 Antirelativismo: la lingua non incide sul modo di pensare, ma è costruita così proprio perché
l’uomo legge la realtà in modo diverso a seconda della sua cultura.

Questa capacità della lingua di leggere l’esperienza è chiamata “categorizzazione”. Categorizzare


significa classificare la realtà secondo categorie. La categoria denota un modo di essere, una qualità
di un oggetto o di un individuo.
Secondo Gobber, una parola non soltanto denota, ma è essa stessa strumento di conoscenza del
mondo, perché la categorialità di cui è intrisa fornisce una proposta organizzativa della realtà. Per
esempio, un oggetto è riconosciuto e delimitato come entità solo quando viene nominato.

La diversità delle lingue a livello lessicale attesta una pluralità di tentativi di cogliere l’esperienza.
Può succedere addirittura che varietà della stessa lingua categorizzino la realtà in modo differente.
La lettura della realtà può contribuire in modo decisivo alla comprensione sia delle particolarità sia
delle condivisioni culturali presenti in diverse strumentazioni espressive.

La categorizzazione si attua in vari modi. Fondamentali sono due:


 Motivazione: dà luogo a espressioni dalla struttura trasparente, ossia motivate da un aspetto
della realtà;
 Pertinenza semiotica: istituisce delle differenze obbligatorie.
Riconoscere questi due tipi fondamentali di categorizzazione può aiutare a comprendere sia le
strutture linguistiche sia gli aspetti culturali che si manifestano nella formazione del lessico.

Motivazione
Molte strutture lessicali complesse (soprattutto le parole composte) sono trasparenti, poiché si
riconoscono le parti costituenti e si comprende il legame tra queste parti. Ad esempio, ‘cacciavite’ è
uno strumento per ‘cacciare’ (ovvero spingere, infilare) una vite; ‘portalettere’ è la persona che
porta le lettere nelle diverse case.
Attraverso le lingue si possono riconoscere motivazioni diverse, che sottendono a espressioni simili
per la denotazione. Questo si può rilevare soprattutto nelle parole di senso concreto, come ad
esempio ‘ferro di cavallo’, che viene tradotto in inglese da ‘horse shoe’ (scarpa per cavalli) e in
tedesco da ‘Hufeisen’ (ferro per lo zoccolo).
È importante però non affidarsi solo all’intuito, perché quella che sembra una motivazione in
sincronia, non lo è per esempio in diacronia, e l’assenza di trasparenza in sincronia non comporta

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necessariamente la totale arbitrarietà in diacronia. Si confrontino ad esempio le diverse


denominazioni di ‘patata’ in base a diverse letture dell’esperienza:
 Ted. Kartoffel da tartuffel, in it. tartufolo (piccolo tartufo);
 Fr. pomme de terre > calco nel ted.merid. Erdapfel (da Erde ‘terra’ e Apfel ‘mela’) e da qui nel
polacco ziemniak (da ziemia ‘terra’);
 Rus. Kartofel’ (nome collettivo) -> è una chiara ripresa del modello tedesco;
 Ingl. potato < sp. patata, a sua volta dalla lingua caraibica di Haiti batata (‘patata dolce’);
 Una forma dialettale svedese per patata è jorpäron (‘pera di terra’).

Pertinenza semiotica
Per l’organizzazione di qualsiasi sistema, non solo linguistico, sono fondamentali le differenze.
Un elemento può funzionare solo se si caratterizza in qualche modo rispetto ad altri elementi.
Un sistema lingua è formato da tanti segni, ognuno dei quali si differenzia dagli altri. Un segno è
tale perché non è tutti gli altri segni (A è A perché non è B e non è C).
Un esempio di pertinenza semiotica è dato dal fatto che in inglese ci sono tre termini obbligatori,
time, weather, e tense, che esprimono le differenze. Essi hanno quindi pertinenza semiotica, perché
danno luogo a differenze funzionali nella lingua. In italiano queste aree semantiche non sono
obbligatoriamente distinte, perché esiste soltanto il termine ‘tempo’, che è capace di farsi carico dei
diversi potenziali di significato delle tre unità dell’inglese (tempo cronologico, tempo atmosferico,
tempo verbale). Altri esempi sono liberty e freedom (libertà), security e safety (sicurezza).
La pertinenza semiotica è relativa a una lingua specifica, ed è una differenza semantica
istituzionalizzata, cioè di codice. La pertinenza semiotica funziona anche a livello grammaticale.
Per esempio, la posizione dell’aggettivo attributivo in italiano ha spesso funzioni semantiche
specifiche: un vecchio amico vs. un amico vecchio, i bravi studenti vs. gli studenti bravi (funzione
restrittiva), un pover’uomo vs. un uomo povero. In inglese il nesso sintattico è necessariamente
manifestato dall’anteposizione al nome, quindi per giustapposizione.
Nessun sistema linguistico è identico a un altro. Tra lingue vi è infatti anisomorfismo: ‘assenza di
isomorfismo’, ovvero assenza di ‘identità di forma’.

Espressioni linguistiche, realtà e modelli di discorso: il riferimento (slides + videolezione 26b)


 Intensione: è l’insieme delle proprietà che costituiscono il concetto espresso da un nome. Sono
quelle proprietà che servono per instaurare il riferimento a un’entità del mondo reale e/o
testuale. Per esempio, ‘gatto’ è un animale, felino, a 4 zampe, di piccola dimensione, ecc: tutte
queste proprietà messe insieme costituiscono il concetto di ‘gatto’.
 Estensione: è l’insieme degli individui a cui un termine si può applicare, cioè l’insieme degli
individui a cui si può applicare l’intensione: è formato dagli individui a cui si può applicare, ad
esempio, il fatto che sono animali, felini, di piccola dimensione, ecc.

Intensione ed estensione insieme sono la componente denotativa del significato. La denotazione è la


capacità di riferirsi a classi di entità/individui nel mondo.
Denotare e riferirsi sono però due cose diverse: la denotazione è potenziale, mentre il riferimento è
attivato dai parlanti che si servono di determinate espressioni (in questo caso SN o nomi comuni)
per riferirsi a entità mondane.
Certi elementi hanno una stessa estensione ma una diversa intensione, cioè per riferirsi alle stesse
entità mondane/oggetti si possono usare espressioni diverse. Ad esempio, ci si può riferire a Sergio
Mattarella (attuale presidente della Repubblica italiana) usando più espressioni diverse: presidente
della Repubblica, presidente del CSM (Consiglio Superiore della Magistratura), inquilino del Colle.

Oltre alla denotazione si parla anche di connotazione. L’aspetto connotativo di un termine è spesso
un significato ulteriore, che si aggiunge alla componente denotativa, che solitamente dice del
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Linguistica generale – secondo semestre

rapporto/atteggiamento del parlante nei confronti del referente. Ad esempio, ‘macchina’ e


‘macinino’ si riferiscono alla stessa entità (vettura, a 4 ruote, con una carrozzeria, un cambio, ecc).
‘Macchina’ è un termine neutro, e i termini neutri hanno perlopiù solo l’aspetto denotativo.
‘Macinino’ invece è un termine connotato, perché una persona che usa ‘macinino’ per dire
‘macchina’ lo usa in senso ironico, affettuoso; oltre alla denotazione (formata da intensione ed
estensione) c’è questo surplus di senso che è dato dalla manifestazione di un certo atteggiamento
nei confronti del referente. Un esempio sono gli slurs inglesi, come ‘nigger’: è un termine
connotato, denigratorio, usato in modo offensivo per riferirsi a una persona di colore e descrivere il
dispregio per la classe nera. Il termine neutro è ‘afroamerican’.

La competenza lessicale di un parlante consiste nel conoscere il significato intensionale e il


significato estensionale, ma è necessario conoscere anche la connotazione di un termine, se per
esempio ci si vuole esprimere in modo ‘politically correct’. La competenza lessicale deriva quindi,
in un certo senso, dall’esperienza diretta o indiretta del legame esistente tra referente e nome.
Ovviamente parlanti diversi possono avere competenze diverse.

Dare un nome alle cose come atto di riferimento


Il riferimento dei nomi è attivato dai parlanti, che si servono dei SN e dei nomi dentro un testo.
L’atto di riferimento è inteso come l’uso di un’espressione linguistica che richiama nel discorso un
elemento della realtà. Le espressioni linguistiche preposte a questo scopo si chiamano ‘espressioni
referenziali’, e il referente mondano evocato diventa il referente testuale nel modello di discorso.

 Allocuzione: la funzione allocutiva è l’uso di un espressione per richiamare l’attenzione


dell’interlocutore (es. il vocativo latino, iniziare le mail con ‘Gentili studenti’, ecc).
 Riferimento: la funzione referenziale serve al parlante per evocare nel modello di discorso
elementi della realtà.

Le espressioni referenziali si dividono in espressioni simboliche (“descrittori” e nomi propri) e


espressioni indicali (deittici). Questa terminologia fa riferimento a Karl Bühler, che nel 1932 aveva
scritto “La teoria del linguaggio”, in cui aveva distinto il campo simbolico da quello indicale. Il
campo simbolico è quello delle espressioni simboliche o categoriali; il campo indicale è quello delle
espressioni indicali o i deittici.

Il termine “descrittore” fa riferimento a Cric, il quale parlava piuttosto di descrizioni definite.


Queste descrizioni definite sono espressioni, quindi nomi o SN con un articolo definito, che vanno a
riferirsi a una singola entità o a più entità, tramite le proprietà che tali entità possiedono. I descrittori
sono quindi nomi comuni e sintagmi nominali (es. partita di andata, vincitore del Nobel per la
letteratura nel 1970, presidente della Repubblica). Queste descrizioni definite, però, devono
contenere dei determinanti (articoli, quantificatori, numerali) per diventare referenziali. L’articolo
determinativo può avere diverse funzioni. Ne “il presidente della Repubblica è Mattarella” ha
funzione individuante; se dico “il presidente della Repubblica viene eletto ogni 7 anni” non è
referenziale perché l’articolo determinativo non è individuante. Nella frase “il fortunato vincitore è
atteso alla cassa” l’articolo ha un uso attributivo, poiché non ci si riferisce a un entità già
individuata.

I nomi propri hanno solo estensione e non intensione. Evocano direttamente uno specifico oggetto o
individuo. La possibilità per un nome proprio di istituire una referenza dipende dalle conoscenze
che si hanno per esperienza diretta.

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Linguistica generale – secondo semestre

Gli indicali sono espressioni deittiche, caratterizzate dal fatto che il riferimento è vincolato alle
coordinate della situazione in cui avviene l’evento comunicativo/semiotico. Ego, hic et nunc: io, qui
ed ora. Le espressioni deittiche sono indicali, il cui significato può essere interpretato in relazione a
un sistema di orientamento, fornito di volta in volta dall’origo (o origine), che può essere personale,
temporale, spaziale, ecc. Gli indicali non denotano il referente a cui rimandano, ma “danno
informazioni su”. Per esempio, “oggi” = nel giorno presente, cioè nella giornata solare a cui
appartiene il momento in cui si parla; “egli” = pronome dimostrativo, usato come pronome
personale maschile di terza persona singolare.

 Deissi personale (io, tu, egli, noi, voi, loro): l’origine è il mittente del messaggio;
 Deissi spaziale (questo, quello, codesto): l’origine è costituita dalla posizione del parlante nel
momento del proferimento; è un po’ in disuso al giorno d’oggi;
 Deissi temporale (ora, ieri, domani) : l’origine è il momento del proferimento;
 Deissi testuale (logodeissi): l’origine è il testo stesso -> salto metacomunicativo;
 Deissi sociale (dare del lei, del tu): segnala i rapporti sociali tra gli interlocutori;
 Deissi fantasmatica: l’origine non è in prasentia, ma è evocata dalla fantasia o dal ricordo.
Traslare i campi indicali aiuta a pensare al concetto di origo.

Sistema di orientamento anaforico


L’anafora è un fenomeno per cui il riferimento di un’espressione è vincolato al riferimento di
un’altra espressione del discorso (se è anafora antecedente, se è catafora conseguente). Le relazioni
tra antecedente e anafora sono di vario tipo. Queste relazioni si basano su:
 Identità di referente -> si parla di anafora coreferente;
 Identità intensionale ma non estensionale -> caso di anafora cosignificante;
 Anafora con salto di suppositio -> chiamata anafora associativa, semantica o referenza
implicita;
 Anafora che manifesta l’atteggiamento emotivo del parlante -> cosiddetta anafora empatica.

Rapporti di senso (slides + videolezione 26c)


La semantica è lo studio del significato delle parole, della combinazione di parole e delle singole
frasi e degli enunciati di una lingua. Per quanto riguarda la semantica lessicale, ci sono due
discipline affini:
 Lessicologia: studio scientifico del lessico, della sua organizzazione e del suo cambiamento nel
tempo.
 Lessicografia: studio ed elaborazione di tecniche per raccogliere, organizzare e descrivere il
lessico di una lingua. Tipico prodotto della lessicografia sono i dizionari.
In lessicologia e lessicografia si usa di solito più il termine ‘senso’ invece di ‘significato’. I sensi di
un lessema sono generalizzazioni di usi concreti. Il significato di codice è sempre un significato in
potenza, che si attiva e diventa tale soltanto in un testo.

Il significato può essere:


 Denotativo (o letterale), costituito da intensione ed estensione;
 Connotativo;
 Linguistico vs sociale -> il primo è il significato di un termine in quanto elemento di un sistema
linguistico, mentre il secondo è il significato che un termine può avere in relazione al rapporto
tra i parlanti (es. Buongiorno = 1) saluto o augurio che si usa al mattino; 2) riconosco persone e
instauro un’atmosfera comunicativa);
 Lessicale vs grammaticale -> il primo è il significato tipico delle parole piene, il secondo è
quello tipico dei termini che instaurano relazioni tra i termini che rimandano alla realtà;
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Linguistica generale – secondo semestre

 Linguistico vs enciclopedico -> il primo è il significato denotativo, proprio di un lessema,


mentre il secondo sono quelle attribuzioni che dipendono dalla nostra esperienza e conoscenza.

Lessico
Per lessema si intende una parola dal punto di vista del significato, come forma della citazione.
L’insieme dei lessemi si chiama lessico, ed è uno dei due componenti essenziali di una lingua. È
l’aspetto più esterno di un sistema linguistico, la parte più esposta alle circostanze extralinguistiche,
e la parte aperta e fluttuante del sistema. Nel lessico si fondono il mondo esterno e la lingua.
I dizionari generali di consultazione contengono circa tra i 90.000 e i 130.000 lemmi. Il lessico
passivo di un parlante colto consta di circa 50.000 lemmi, tra cui circa 7.000 unità costituiscono il
nucleo centrale del vocabolario di base. Circa 2.000 di queste unità sono ad altissima frequenza, e
costituiscono il cosiddetto vocabolario fondamentale, condiviso dai parlanti di una comunità.
I lessemi, essendo inseriti in un sistema, instaurano fra loro dei rapporti. I segni sono infatti tali in
quanto sono in interrelazione tra di loro. Questi rapporti possono essere di similarità, opposizione,
omonimia o polisemia.
Le principali relazioni di similarità sono:
 Iperonimia e iponimia -> un lessema di significato generico (iperonimo) si collega a lessemi di
significato specifico (iponimi), per esempio ‘fiore’ e ‘rosa’ ‘tulipano’. L’iponimia è una
relazione di inclusione semantica, perché per tutte le rose vale che sono fiori, ma non viceversa.
 Meronimia -> rapporto che si ha fra i termini che designano una parte specifica e il tutto, per
esempio ‘pagina’ e ‘libro’, ‘braccia e gambe’ e ‘corpo’.
 Sinonimia -> relazione che si instaura tra lessemi diversi con significato simile (somiglianza
parziale di senso), come per esempio ‘ammazzare / uccidere’, ‘iniziare / cominciare’. La
sinonimia si definisce in termini di sostituibilità tra lessemi in certi contesti, come ‘babbo -
papà’, ma è un fenomeno parziale, poiché il suo uso è limitato/influenzato dal contesto (non
esistono due parole con significato esattamente identico).
 Solidarietà sintagmatica -> il significato di un lessema risulta predeterminato da un altro, come
per esempio ‘miagolare’ da ‘gatto’, ‘abbaiare’ da ‘cane’.
 Collocazioni -> sono co-occorrenze regolari, e riflettono convenzioni dell’uso di una lingua; per
esempio, per ‘dimettersi’ bisogna ‘rassegnare delle dimissioni’, ‘saluti cordiali’.

Le relazioni di opposizione consistono in:


 Antonimia -> riguarda due termini di significato opposto che si pongono agli estremi di una
scala che contempla gradi intermedi, come ad esempio ‘alto / basso’. Gli antonimi sono
graduali, perché si può dire ‘più alto / più basso’, ‘meno alto / meno basso’.
 Complementarietà -> un lessema è la negazione dell’altro, per esempio ‘vivo’ o ‘morto’,
‘spento’ o ‘accesso’; in questo caso non esiste gradualità.
 Inversione -> la stessa relazione semantica viene vista da due direzioni opposte, per esempio
‘moglie / marito’, ‘genitori / figli’, ‘dottore / paziente’.
 Omonimia -> si ha quando due parole hanno lo stesso significante ma diverso significato. Gli
omonimi sono registrati come lemmi diversi nei dizionari, come ad esempio ‘boa’ può
significare sia 1) serpente (dal latino) che 2) galleggiante (dal genovese/longobardo); ‘pesca’ 1)
frutto 2) azione del pescare. Si considerano come lemmi diversi sia perché possono provenire da
due radici differenti (es. ‘miglio’ 1) da ‘milium’ semino per uccelli 2) da ‘milia patum’ distanza
spaziale), sia perché da un unico senso originario possono essere derivati due sensi diversi, e il
lemma si è poi scisso in due (es. ‘bolla’ inteso come 1) rigonfiamento o 2) documento con
sigillo, hanno la stessa origine in ‘bulla’).
 Polisemia -> si ha quando un unico lessema ha più significati. I sensi di un lessema sono
imparentati tra loro e derivati (o derivabili). Ad esempio, ‘corno’ è 1) la protuberanza del capo
di molti animali, 2) lo strumento musicale a fiato, 3) la cima aguzza di una montagna;
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Linguistica generale – secondo semestre

‘esecuzione’ significa 1) realizzazione di una determinata opera, 2) messa in atto di una


determinata pena. I termini polisemici hanno una certa parentela di significato.
o Un caso particolare di polisemia è l’enantiosemia -> si ha quando due significati diversi di
uno stesso termine sono tra loro in opposizione, per esempio ‘tirare’ significa sia ‘lanciare’
che ‘trarre a sé’; ‘ospite’ in italiano è tanto ‘colui che viene ospitato’ quanto ‘colui che
ospita’.

È possibile mettere ordine nel lessico individuando insiemi e sottoinsiemi lessicali, cioè gruppi di
lessemi che costituiscono complessi organizzati in cui ogni elemento è collegato agli altri da
rapporti di significato.
 Il campo semantico (o campo lessicale) è l’insieme dei lessemi che coprono le diverse sezioni di
un determinato spazio semantico; per esempio l’insieme dei (termini dei colori, termini di
parentela).
 La sfera semantica è costituita dall’insieme dei lessemi che hanno in comune il riferimento a un
certo ambito semantico, per esempio l’insieme delle parole della moda, della musica, ecc.
 La famiglia semantica raggruppa termini che hanno la stessa radice lessicale, come pane,
panettiere, panetteria, panificio.
 La gerarchia semantica è un’organizzazione “scalare” dei termini, dove ogni termine è parte del
termine seguente, come in secondo, minuto, ora, giorno, ecc.

I sensi di un lessema possono legarsi tra loro in vario modo. Un lessema può avere un senso
proprio, uno o più sensi figurati, e uno o più sensi estesi.
 Senso proprio: è il senso cosiddetto ‘letterale’ o ‘denotativo’; è il senso considerato tipico per un
dato lessema.
 Senso figurato: le categorie del senso proprio servono a categorizzare un’altra esperienza (es.
nelle metafore come “la vita è una guerra che si ripete ogni giorno”, “Giovanni è un’aquila).
 Senso esteso: non si allontana dal senso proprio, come avviene invece nell’uso figurato, ma
amplia semplicemente l’estensione del termine (es. paesaggio ‘alpino’ per indicare un
‘paesaggio montano’).
Esempio: ‘guerra’ (dal dizionario Devoto-Oli)
o Senso proprio: lotta armata fra stati o coalizioni per la risoluzione di una controversia
internazionale più̀ o meno direttamente motivata da veri o presunti (ma in ogni caso parziali)
conflitti di interessi ideologici ed economici, non ammessa dalla coscienza giuridica moderna.
o Senso esteso: contrasto fra Stati, derivante da conflitti ideologici, politici, economici -> guerra
fredda; guerra doganale.
o Senso figurato: lotta a fondo in nome di un ideale sociale o religioso (guerra alla criminalità̀ );
violento e tumultuante contrasto (la guerra delle passioni).

La microstruttura dei lemmi nei dizionari monolingue


I dizionari registrano i lessemi e formativi lessicali di una lingua e formano ipotesi sulla struttura
del lessico di una lingua. La macrostruttura è il lemmario, la raccolta di voci in generale, mentre la
microstruttura è il modo in cui i dizionari organizzano le singole voci.
 L’area dell’entrata lessicale è la presentazione del lemma nella sua forma di base (o forma della
citazione). Può essere seguita dalla sillabazione e/o dalla pronuncia.
 Segue poi l’area dell’informazione grammaticale, che dice qual è la classe grammaticale di
appartenenza del lemma (nome, verbo, aggettivo). Sulla base della morfologia del nome si può
mettere ad esempio un suffisso plurale, le desinenze o le irregolarità.
 L’area dell’informazione semantica contiene le definizioni, corredate solitamente da esempi, usi
tipici/fraseologici ed eventuali alterati.

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Linguistica generale – secondo semestre

 Infine, c’è l’area delle informazioni complementari, come il riferimento all’etimologia, le


marche d’uso, i sinonimi e i contrari.
Le definizioni all’interno dei dizionari possono essere di vario tipo. I principali sono:
 “Per genus proximum et differentiam specificam” (definizione aristotelica), che pone prima il
termine generico (paronimo) e poi il termine specifico, che esprime la peculiarità di questo.
 Per sinonimi -> es. abbuffarsi = mangiare in abbondanza.
 Per negazione di antonimi -> es. morire = cessare di vivere, morto = non vivo.

Cenni di analisi componenziale e prototipica (slides + videolezione 26d)


L’analisi del significato può avvenire in due modi: attraverso l’analisi componenziale (o semantica
componenziale) o l’analisi prototipica (o semantica prototipica). Questi tipi di analisi si concentrano
sulla componente intensionale del significato, cioè su quell’insieme di proprietà che costituiscono il
concetto espresso dal nome.

Analisi componenziale
Secondo l’analisi componenziale, il significato è un concetto complesso costituito da concetti più
semplici o features (tratti). Essa consiste nello scomporre il significato dei lessemi in unità (tratti) e
comparare gli uni agli altri per cogliere in che cosa differisca il loro rispettivo significato.
Prendiamo per esempio i termini uomo, donna, bambino, bambina: tutti questi termini hanno in
comune il fatto di designare un essere umano (‘essere umano’ può quindi essere considerato
l’iperonimo dei 4 termini). Uomo e donna, invece, sono differenziati tra di loro per il sesso (per il
resto sono uguali), mentre uomo e bambino sono differenziati per età, perché un termine designa un
adulto e l’altro un non adulto. Se ripetiamo per ogni coppia lo stesso ragionamento arriviamo a una
matrice di tratti. Questi tratti, indicati tra parentesi quadre, identificano le proprietà di significato
che sono necessarie e sufficienti per dar conto del significato di ciascuno dei quattro lessemi: si
tratta di proprietà semantiche elementari. Ogni lessema è dunque rappresentabile come un fascio di
componenti semantici realizzati in simultaneità.
[± Umano] [± Adulto] [± Maschio]
Uomo + + +
Donna + + -
Bambino + - +
Bambina + - -
Questi tratti semantici dovrebbero rappresentare in maniera sufficiente tutto ciò che è pertinente in
un sistema linguistico per definire il significato denotativo di un termine (e quindi il significato
letterale), in particolare l’intensione riferita a una certa estensione in un determinato contesto.
Tra i tratti possono sussistere rapporti di implicazione, per esempio [+umano] indica [+animato] che
indica [+concreto] che implica [+numerabile], ecc. Il tratto più generale è ovviamente incluso in
quello più specifico, perciò tutto ciò che è animato è anche concreto, ma non tutto ciò che è
concreto è necessariamente animato.

I tratti si dividono in:


 Costanti -> descrivono il significato denotativo di un lessema; si distinguono in generici
(esprimono il significato generale di un lessema, comune ad altri lessemi appartenenti a vari
campi lessicali, come ad es. [+animato]) e specifici (esprimono il significato specifico del
lessema, come ad esempio [+umano] [+maschio]).
 Contestuali -> descrivono il significato connotativo/associativo di un termine e sono considerati
varianti contestuali ricavabili dall’analisi dei testi (ad es. [aulico] [ironico] [affettuoso]).

Ci sono ovviamente dei problemi per un’analisi di questo tipo.


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Linguistica generale – secondo semestre

 È un metodo che funziona soddisfacentemente solo su insiemi lessicali delimitati che indicano
cose o azioni concrete. Diventa problematico quando si vogliono analizzare ad esempio i
termini astratti o i verbi.
 Può succedere che i tratti diventino tanto numerosi da vanificare l’intento principale del metodo,
che vuole essere quello di descrivere il contenuto semantico di un lessema in modo economico,
esaustivo e scientifico.
 Spesso si rischia di non differenziare tra significato lessicale e enciclopedia.
 Non c’è accordo tra gli scienziati sull’interpretazione dei primitivi semantici.
 Non tutti i tratti sono perfettamente binari, si pensi ad es. al concetto di penetrabilità e ai 3 gradi
negli stati della materia (solido, liquido, gassoso).
 Questi tratti sono condizioni necessarie e sufficienti.
o Sufficienti: è sufficiente che un esemplare le soddisfi tutte per far parte della categoria;
significa che non ci sono differenze di grado e che ogni esemplare sarà sempre un buon
esemplare della categoria.
o Necessarie: siccome le condizioni sono necessarie devono esserci sempre tutte.
Questa teoria presuppone che una data categoria (es. sedia) sia da intendersi come un’entità:
 definita da proprietà tutte necessarie e sufficienti;
 delimitata da confini netti;
 costituita da membri tutti egualmente rappresentativi di quella categoria.
Es. Sèdia: (a) che sia un manufatto;
(b) solido;
(c) che abbia un piano su cui sedersi;
(d) che abbia 4 gambe;
(e) che abbia uno schienale;
(f) che sia privo di braccioli;
(g) che sia a un posto.

È piuttosto difficile individuare tutte le proprietà che un oggetto deve possedere per far parte
dell’estensione di un termine comune; è pertanto spesso difficile dire quale sia il senso di quel nome
comune. Questo equivale a dire che è molto difficile individuare qual è l’essenza dell’oggetto, cioè
dire precisamente quali sono quelle proprietà che fanno sì che qualcosa sia il tipo di oggetto che
esso è effettivamente.
Prendiamo l’esempio del pomodoro: quali sono le proprietà che fanno sì che un pomodoro sia un
pomodoro piuttosto che una zucchina o una mela? La grandezza? No, ne esistono di diverse
grandezze. La forma? No, ne esistono di diverse forme. Il colore? No, ne esistono di diversi colori.
Il sapore? No, ne esistono di diversi sapori. La consistenza? No, ne esistono di diverse consistenze.
La costituzione interna? No, diversi pomodori hanno costituzioni interne diverse. A questo punto si
è visto che una semantica componenziale, a tratti, non può spiegare la varietà o l’estensione delle
categorie. Si passa quindi alla teoria dei prototipi.

Analisi prototipica
Secondo Eleanor Rosch ci sono due ipotesi:
 I fattori non linguistici hanno un ruolo cruciale nella creazione e nell’organizzazione delle
categorie -> è infatti l’uomo che categorizza la realtà tramite la lingua.
 Le categorie sono organizzate intorno ad un centro informativo, un prototipo, ovvero l’esempio
migliore della categoria.
Secondo questo approccio, l’appartenenza di un membro ad una categoria non può essere definita
esclusivamente in maniera binaria ([+] o [-]). Le categorie, infatti, presentano una struttura interna,
con una zona centrale più rappresentativa, che degrada gradualmente verso zone periferiche, in cui
si verifica la sovrapposizione con altre categorie.
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Linguistica generale – secondo semestre

Le categorie andrebbero dunque definite come un’entità che è:


 Caratterizzata sia da un nucleo di proprietà di carattere categorico (necessarie e sufficienti), sia
da proprietà di carattere graduale;
 Delimitata da confini sfumati (in sovrapposizione con quelli di altre categorie);
 Costituita da membri più tipici e altri meno rappresentativi.

Il significato di un lessema è concepito come prototipo. Il prototipo rappresenta l’immagine mentale


immediata che per i parlanti di una certa cultura corrisponde più tipicamente a un dato concetto. Se
ad esempio pensiamo a un frutto ci verrà probabilmente in mente una mela; il prototipo di uccello
per noi italiani sarà il passero, mentre per gli indiani d’America saranno il condor o l’aquila.
La categorizzazione, dunque, avviene attraverso il confronto di ogni possibile membro di una
categoria con il prototipo.
Se si vuole individuare un qualsiasi elemento della categoria ‘uccello’ bisogna considerare dei tratti
necessari e sufficienti, quali [+animale], [-mammifero], [+alato], [+con piume], ecc. In questo caso
però sia ‘passero’ che ‘pollo’ o ‘struzzo’ sono posti sullo stesso livello. Se si aggiungono altri tratti,
come [+volatile], [+cinguettante] e [+piccolo], questi tratti non si possono dire appartenenti a tutti
gli animali che definiamo uccelli. Non diremo quindi che il lessema ‘uccello’ ha un significato
costituito dalla somma di tutti questi tratti, ma useremo come esempio il ‘passero’ che li possiede
tutti; il ‘passero’ può quindi essere considerato nella nostra cultura l’uccello più prototipico, mentre
il ‘pinguino’ è ai margini della categoria.
L’analisi prototipica ci dice che il significato prototipico di uccello è dato dal concetto di volatile,
che per un certo ambiente e per una certa cultura è il più tipico (es. passero vs aquila).

La struttura interna prototipica si basa sulla gradualità (ovvero sulla scalarità: ci sono più o meno
tratti che possono essere presenti) e non sulla categoricità (sì/no).
C’è un grado di esemplarità (o rappresentatività o bontà di appartenenza: ad esempio, la mela è più
prototipica di un oliva nella categoria del ‘frutto’ (es. mela, susina, ananas, fragola, fico, oliva).
I confini delle categorie sono quindi sfumati e in sovrapposizione, poiché l’oliva si colloca a metà
tra la categoria del ‘frutto’ e quella della ‘verdura’.
Le siepi semantiche sono quegli elementi che mitigano un espressione. Se un bambino dovesse
chiederci cos’è un pipistrello, gli si potrebbe rispondere dicendo che è praticamente un uccello che
vola solo di sera: nonostante il pipistrello sia [-uccello] e [+mammifero], può essere considerato dai
parlanti come membro marginale della categoria degli uccelli perché [+alato], [+di piccole
dimensioni], [+che vola].

Quali sono le conseguenze di questo approccio prototipico?


 Gli attributi non sono binari come nell’approccio classico.
 Nel categorizzare un’entità, il problema non consiste nell’accertare se essa possiede o meno un
attributo o tutti gli attributi, ma quanto vicini gli attributi dell’entità siano agli attributi ideali.
 Gli attributi sono proprietà delle entità mondane.
 Gli attributi possono essere funzionali (cioè riguardano l’uso a cui un oggetto è preposto) o
interazionali (riguardano il modo in cui le persone usano l’oggetto). Gli attributi, quindi, non
sono entità primitive, ma sono culturalmente elaborati.
 Nessun singolo attributo è sufficiente per distinguere una categoria dall’altra.
 Ci sono, naturalmente, alcuni attributi che sono condivisi da tutti gli individui della categoria,
che verranno considerati come individui prototipici della categoria.
 L’importanza del contesto e della funzione culturale sono fondamentali: ciò che può essere il
prototipo di una categoria può esserlo in una cultura e non in un’altra.

27
Linguistica generale – secondo semestre

 Il confine tra le categorie varia in modo graduale: il prototipo rappresenta il punto focale di una
categoria, mentre gli altri membri della categoria (per es. ‘struzzo’ ‘pinguino’ o ‘oliva’)
rappresentano la periferia.

In altre parole, la categorizzazione di un’entità dipende da quanto l’oggetto si avvicina a un valore


ottimale che fa da punto di riferimento per la categoria.
I tratti semantici in gioco non vengono visti come tutti necessari e sufficienti e di uguale importanza
per definire il significato di un lessema, bensì come dotati di diverso potere identificativo e disposti
in ordine gerarchico di importanza. Alcuni tratti rappresentano criteri essenziali (e perciò devono
essere condivisi da tutti i membri di una categoria); altri invece, non essenziali per decretare
l’appartenenza a una categoria di un individuo, sono posseduti in numero diverso dai vari membri.

Naturalmente ci sono anche in questo caso delle difficoltà, perché è sempre difficile rendere il
significato di termini astratti, valutazioni o processi psicologici. L’analisi prototipica, in cui c’è un
nucleo di tratti necessari e un nucleo di tratti graduali e opzionali, è utile per definire i termini
metalinguistici (es. cos’è un nome, un verbo, una parola, ecc). Non si tratta di categorie nette, ma di
categorie che spesso contengono elementi molto eterogenei, perché ciascun elemento può avere più
funzioni.

Elementi di semantica frasale e pragmatica (slides + video 27a)


 La semantica frasale si occupa del significato letterale delle frasi, ovvero il significato dato dalle
singole parole che compongono una frase e dalla combinazione di parole: si parla infatti di
composizionalità o corretta combinazione.
 La pragmatica invece si concentra sul significato contestuale: prende in esame tutte le
componenti che non rientrano nel significato letterale, come quelle derivanti dalla compresenza
del contesto nell’uso della lingua e dall’interazione tra due interlocutori calati in una situazione
contingente.

Il significato letterale o composizionale è dato dalla corretta combinazione delle parti che
costituiscono l’enunciato. Il risultato dell’intero è funzione del significato delle parti che lo
compongono.

In linguistica si parla di frase o enunciato. La frase è un’unità di sistema data dalla combinazione tra
le regole sintattiche, mentre l’enunciato è un’unità comunicativa vera e propria, è l’enunciazione,
l’evento semiotico.
In filosofia del linguaggio si parla invece di altri due termini: enunciato e proposizione. In questo
caso, l’enunciato è l’unità sintattica composta secondo precise regole di formazione, mentre la
proposizione è il contenuto di significato che tale unità sintattica esprime o designa.
Gli enunciati servono per esprimere preposizioni, le quali descrivono una situazione nella realtà. Le
preposizioni possono essere comuni a differenti enunciati, anche in lingue diverse: per esempio, la
stessa situazione è descritta in italiano con la frase ‘la neve è bianca’ e in inglese ‘the snow is
white’. Se la situazione è un fatto, cioè se è realizzata, allora la proposizione è vera. Se la neve è
bianca, allora questa proposizione è vera. Da questo punto di vista, il significato si dà solo nelle
preposizioni, le quali devono/possono soltanto corrispondere a fatti della realtà, ovvero alla verità. Il
significato degli enunciati, detto in altri termini, è connesso con quello di verità degli enunciati
stessi. C’è la convinzione che conoscere il significato di un enunciato significhi conoscere le
condizioni che rendono vero l’enunciato. Ad esempio, se un amico ci dice ‘piove’, noi
comprendiamo il significato di questo enunciato perché sappiamo riconoscere a quali condizioni e
in quali situazioni l’enunciato risulta essere vero o falso: conosciamo quindi le condizioni di verità.
Sarà vero se effettivamente piove, se non piove è falso.
28
Linguistica generale – secondo semestre

L’idea è che il significato di un enunciato è conoscibile ed è conosciuto nel momento in cui si


conoscono le circostanze in cui l’enunciato è vero. In altri termini, il significato è dato dalle
condizioni di verità dell’enunciato stesso. Lo stato di cose descritto da una proposizione è il suo
senso oggettivo, è il suo contenuto preposizionale. Il contenuto preposizionale è la porzione di
senso che serve per descrivere le situazioni.

Identificare il significato di un enunciato come vero o falso in base alle condizioni di verità ha sia
dei vantaggi che degli svantaggi per la teoria linguistica.
 Pro: permette di definire con un certo rigore che cosa significa che due enunciati sono sinonimi,
che due enunciati sono contraddittori, che un enunciato ne implica un altro (o, specularmente,
che un enunciato è una conseguenza dell’altro).
o Due enunciati sono sinonimi quando hanno le stesse condizioni di verità, cioè quando non
può esistere un fatto del mondo che renda vero il primo e falso il secondo, o viceversa. Ciò
significa che due enunciati sono sinonimi quando sono veri o falsi nelle stesse circostanze.
Per esempio, se in una data circostanza è vero che Paolo è fratello di Anna, allora è vero
anche che Anna è sorella di Paolo.
o Due enunciati sono contraddittori quando non possono essere entrambi veri nelle stesse
circostanze e non posso entrambi falsi nelle stesse circostanze. Se un fatto del mondo rende
vero il primo enunciato, allora rende falso il secondo e viceversa. Per esempio, se in una data
circostanza è vero che Paolo è fratello di Anna, è contraddittorio dire che Paolo non è fratello
di Anna: non può darsi una situazione che li renda veri o falsi entrambi.
 Contro:
o Non tutti i nostri enunciati sono asserzioni, ovvero descrivono stati di cose o eventi (es.
piove, Anna è sorella di Paolo), poiché esistono ad esempio anche frasi interrogative e
imperative, quali ‘vieni?’ o ‘vieni!’. Una domanda o un ordine non sono né veri né falsi,
perché il loro compito non è quello di descrivere le cose come stanno. Tuttavia, anche gli
ordini e le domande hanno una qualche relazione con la verità e il mondo: una domanda
come ‘vieni?’, ad esempio, chiede se si danno certe circostanze che rendono vero l’enunciato
affermativo ‘vieni’. Un ordine, invece, esprime un desiderio del parlante circa il mondo, il
quale desidera che nel mondo si verifichino le stesse circostanze che rendono vero
l’enunciato affermativo ‘vieni’. Il parlante desidera infatti che il destinatario si adoperi
affinché queste circostanze siano poste in atto.
o Spesso il significato di un testo è qualcosa di più della somma del significato delle sue parti.
Capita per esempio nel caso di usi metaforici delle parole, come in ‘le lezioni di linguistica
sono un pugno allo stomaco’: questa frase veicola l’idea di qualcosa di difficile o noioso, ma
riusciamo a comprendere questo significato veicolato solo grazie ai significati intriseci e
condivisi conferiti a questo specifico modo di dire. La somma dei significati delle singole
parole non è quindi sufficiente.

La pragmatica si occupa dell’uso della lingua come azione reale e concreta, ovvero come e per quali
scopi la lingua viene utilizzata e in che misura soddisfa esigenze e scopi comunicativi. Si occupa di
come il contesto (o situazione) influisca sull’interpretazione dei significati, quindi delle relazioni tra
lingua (segni) e contesto d’uso, e della lingua in prospettiva funzionale: analizza gli eventi semiotici
o gli enunciati dal punto di vista dell’intenzione comunicativa del soggetto parlante. Un’analisi
pragmatica è quindi basata su una concezione interazionale della comunicazione, per cui questa è
resa possibile dall’agire interconnesso dei soggetti partecipanti.
Tra gli ambiti di analisi della pragmatica c’è l’analisi della conversazione, la teoria degli atti
linguistici, che ci dice che “ogni nostro dire è un fare” (con l’uso della lingua noi compiamo delle
azioni); si occupa poi della presupposizione, dell’implicito, ovvero ciò che non è detto, del

29
Linguistica generale – secondo semestre

significato inteso rispetto al significato manifesto, di deissi, e del principio di cooperazione e di


implicatura.

La struttura informativa dell’enunciato è la forma che l’enunciato assume in un discorso. È evidente


che un parlante può distribuire nei suoi enunciati la stessa informazione in modi diversi: sfruttando
l’ordine diverso delle parole, la prosodia, o alcune strutture sintattiche particolari (es. frasi scisse).
Solitamente, l’organizzazione dell’informazione persegue due scopi: la trasmissione dell’intenzione
da parte del parlante per il raggiungimento dello scopo, e la facilitazione dell’interpretazione da
parte dell’ascoltatore.
Si parla quindi di dinamismo comunicativo: esso riguarda il grado di forza comunicativa posseduto
dai costituenti dell’enunciato. Il minimo grado di dinamismo comunicativo è dato dagli elementi
noti condivisi nell’universo di discorso in atto, quindi riguarda quegli elementi che costituiscono il
‘tema’ di una frase. Il massimo grado di dinamismo comunicativo è invece portato dagli elementi
nuovi o non condivisi nell’universo del discorso in atto, che costituiscono l’apice informativo.
La tendenza del dinamismo comunicativo è comune a tutte le lingue, e sembra essere una tendenza
interlinguistica anche il fatto che gli enunciati vengono costruiti secondo un crescendo di
dinamismo comunicativo: per esempio, la frase principale e i costituenti argomentali tendono a
esprimere i gradi maggiori di dinamismo comunicativo, mentre le frasi secondarie e i costituenti
non-argomentali tendono a esprimere il minimo grado di dinamismo comunicativo.
Weil sostiene che esiste un ordine delle idee che è diverso dall’ordine sintattico. Soprattutto in
latino, l’ordine delle parole è fondamentale: ‘Romulus Romam condidit’ significa che Romolo ha
fondato Roma; ‘Condidit Romam Romulus’ parla della fondazione di Roma da parte di Romolo;
‘Romam condidit Romulus’ significa che Roma è stata fondata da Romolo.

 Il focus completivo è il focus di una frase in cui si parte da un topic e si arriva a un focus.
 Si parla di focus contrastivo (o di contrasto) quando tramite l’intonazione o la struttura si pone
in rilievo un elemento contrapponendolo a un altro.
 L’antitopic ha la funzione di attualizzare o riattualizzare un topic che il parlante ritiene non
essere attivo per l’ascoltatore in un preciso momento di discorso.

Ogni lingua ha dei mezzi specifici per segnalare la struttura informativa dell’enunciato. Sulla base
delle due funzioni di topic e focus si possono individuare strutture informative fondamentali,
tendenzialmente ricorrenti in lingue diverse.
 Gli enunciati presentativi sono quelli introdotti da “c’è, ci sono”. Servono ad inserire nel
discorso un nuovo referente che potrà assumere in seguito la funzione di topic (es. c’è un topo in
cantina);
 Gli enunciati predicativi servono a dare informazioni a proposito di un referente identificabile,
che viene posto come focus (es. il topo sta mangiando il formaggio);
 Gli enunciati eventivi informano sull’accadere di un evento, e introducono un fatto come nuovo
nella sua interezza. Rispondono alla domanda “cos’è successo?”;
 Gli enunciati identificativi servono a identificare il referente appropriato in una relazione
predicativa. Solitamente rispondono a domande introdotte da “chi?”.

Enunciato come azione (slides + videolezione 27b)


John Austin parte dalla considerazione che due enunciati, come ‘Maria ama Carlo’ e ‘Vi dichiaro
marito e moglie’, presentano una differenza sostanziale: del primo si può dire che è vero o falso
sulla base delle condizioni di verità, ma del secondo non si possono dire le stesse cose.
Austin chiama gli enunciati del tipo ‘Maria ama Carlo’ enunciati constativi: veri o falsi. Gli
enunciati del tipo ‘Vi dichiaro marito e moglie’ sono invece considerati enunciati performativi:
felici o infelici. Gli enunciati performativi non sono veri o falsi, non descrivono il mondo, ma sono
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Linguistica generale – secondo semestre

ciò attraverso cui viene compiuta un azione che incide sul mondo: con l’enunciato ‘Vi dichiaro
marito e moglie’ il sacerdote non descrive un matrimonio, ma lo sancisce, e da quel momento in poi
nel mondo si è verificato un cambiamento.

Austin dice che esistono due criteri per distinguere le due classi di enunciati, constativi e
performativi.
 Criterio grammaticale
Negli enunciati performativi compaiono verbi “particolari”, ovvero verbi che possono essere
elencati (scusarsi, scommettere, ordinare, promettere, complimentarsi, battezzare, ecc.), e tali
verbi compaiono alla prima persona dell’indicativo presente. La prima persona singolare risulta
quindi simmetrica rispetto alle altre persone e gli altri tempi del modo indicativo dello stesso
verbo. L’uso degli altri modi e persone costituirebbero semplici descrizioni o resoconti, mentre i
verbi usati alla prima persona dell’indicativo presente formano enunciati performativi diversi
dagli enunciati constativi. Sono enunciati performativi frasi come ‘Mi scuso’, ‘Prometto che
metterò in ordine la mia stanza’, ‘Scommetto 50€ sul numero 20’, ‘Battezzo questo bambino
Piero’, ecc. Non sono invece enunciati performativi, bensì constativi, frasi come ‘Mi sono
scusato con lui’, ‘Ho promesso alla mamma che metterò in ordine’, ‘Ieri ho scommesso 50€ sul
numero 20’, ‘Don Luigi battezzerà il mio bambino Piero’, perché utilizzo il verbo in un altro
tempo e in un'altra persona. Il criterio grammaticale, come rileva lo stesso Austin, è
fallimentare: ci sono infatti alcuni enunciati che non rispettano il criterio grammaticale ma sono
comunque performativi. Per esempio, l’enunciato ‘Verrò alla tua festa’ equivale a ‘Prometto di
venire alla tua festa’, ‘Vorrei un toast e un’acqua’ equivale a ‘Voglio un toast e un’acqua’.
 Condizioni di felicità o infelicità
Gli enunciati performativi hanno condizioni di felicità o infelicità, ovvero possono andare a
buon fine o fallire, come tutte le azioni della nostra vita. Se io dico ‘Mi scuso’ non posso
rispondere dicendo ‘No, non è vero’, ma devo dire ‘Non mi sembri sincero’: l’enunciato ‘Mi
scuso’ diventa quindi infelice. Secondo Austin, sono felici quegli enunciati che si trovano in
condizioni di appropriatezza, cioè in circostanze opportune, in un contesto adatto, secondo una
procedura convenzionale, eseguita completamente e correttamente da tutti i partecipanti; sono
quegli enunciati compiuti da partecipanti accompagnati da pensieri, sentimenti o intenzioni
appropriate, e il parlante si impegna a comportarsi in conformità all’atto linguistico eseguito.
Le condizioni di felicità sono divise in tre gruppi (A, B, Ɣ):
o A1) Deve esistere una procedura convenzionale adottata, avente un certo effetto convenzionale;
A2) La procedura deve essere usata in circostanze appropriate.
o B1) La procedura deve essere eseguita da tutti i partecipanti correttamente;
B2) La procedura deve essere eseguita da tutti i partecipanti completamente.
o Ɣ1) La procedura deve essere compiuta avendo i pensieri, i sentimenti e le intenzioni
appropriate;
Ɣ2) I partecipanti si devono in seguito comportare in conformità all’atto linguistico eseguito.
La non osservanza delle regole A e B origina degli ‘atti nulli’ nel caso della non osservanza
delle regole A, e degli ‘atti lacunosi’ nel caso della non osservanza delle regole B. Con la non
osservanza delle regole Ɣ (se non si hanno i pensieri, i sentimenti o le intenzioni appropriate, e
se non ci si comporta in seguito conformemente all’atto linguistico eseguito) siamo in presenza
di un ‘abuso’. Ad esempio, violo la regola Ɣ 1 se dico ‘Mi congratulo con te’ ma in realtà sono
invidioso di quella persona; violo la regola Ɣ2 e commetto un abuso se ‘Prometto di venire
domani’ ma poi non vado.
Nemmeno le condizioni di felicità o infelicità sono sufficienti, secondo Austin, per distinguere
gli atti constativi dagli atti performativi. La distinzione stessa tra enunciati constativi (essere
veri o falsi) e enunciati performativi (essere felici o infelici) è infatti illusoria. Questo criterio
fallisce:

31
Linguistica generale – secondo semestre

 Perché anche i cosiddetti constativi hanno condizioni di felicità o infelicità. Infatti, anche le
asserzioni sono atti linguistici che richiedono circostanze appropriate, e possono essere atti nulli
quando manca la presupposizione di esistenza. Per esempio, ‘il gatto è sul tappeto’ (ma non c’è
alcun gatto) è sia un enunciato falso che un atto nullo, perché appunto manca la presupposizione
di esistenza.
Inoltre, anche i cosiddetti constativi possono essere non corretti (B 1) o lacunosi (B2): un
esempio è il lapsus linguistico, quando anziché ‘gatto’ dico ‘il ratto è sul tappeto’.
Infine, i constativi possono essere abusi o atti vuoti quando non ci sono le credenze
appropriate e ciononostante lo affermo. Ad esempio, se uno studente mi dice che ‘la
linguistica è interessante’ ma io non ci credo, compio un atto vuoto e infelice.
Austin dice che “le asserzioni non sono semplicemente vere o false, ma più o meno
obbiettive, adeguate, esagerate, approssimate”.
 Perché anche i cosiddetti performativi (o atti non assertivi) hanno vere e proprie condizioni di
verità, e possono essere più o meno adeguati ai fatti. Per esempio, un consiglio può essere
buono o cattivo, una stima corretta o scorretta, una sentenza giusta o ingiusta.

Per Austin la questione non sta soltanto nel distinguere due tipi di enunciati, ma anche nel
riconoscere in ogni enunciato una forma di azione. Ogni proferimento linguistico ha una
dimensione di adeguatezza alla realtà o alle circostanze, e quindi è di per sé un atto che deve
rispettare le regole di correttezza e adeguatezza dell’atto stesso. L’azione dei constativi consiste
nell’affermare come stanno le cose, e l’azione degli imperativi o direttivi fa sì che nel mondo
queste si verifichino, o che l’ascoltatore si comporti in modo tale da fare nel mondo qualcosa che
io gli chiedo di fare. Il dire qualcosa è sempre un fare qualcosa: di conseguenza, ogni enunciato è
un atto linguistico.

Atto linguistico
 L’atto locutorio (o locutivo) è l’atto di dire qualcosa (act of saying something). È
contemporaneamente un atto fonetico (introdurre una sequenza di suoni), un atto fatico
(utilizzare una grammatica e un lessico propri di una lingua) e un atto retico (istituire una
referenza). Compiendo l’atto locutorio il parlante realizza spontaneamente un’azione di un altro
tipo, come ad esempio ‘chiede’, ‘risponde’, ‘illustra’, ‘sollecita’, ‘minaccia’, ‘promette’, ecc.
 L’atto illocutorio (o illocutivo) è l’atto che compio nel dire qualcosa (in saying something).
Ogni atto locutorio ha una particolare forza illocutoria che corrisponde a uno dei modi in cui si
può usare il linguaggio. Per esempio, l’enunciato ‘È tardi’ è una locuzione (atto locutorio) a cui
possono corrispondere più illocuzioni (atti illocutori): dicendo ‘è tardi’ posso avere l’intenzione
di constatare qualcosa a titolo informativo, posso avere l’intenzione di invitare qualcuno a
sbrigarsi, posso invitare qualcuno a smettere di lavorare, oppure posso comunicare che è
arrivata l’ora di congedarsi se la frase viene detta ad una festa. Si può quindi dire che
l’illocuzione è una funzione pragmatico-comunicativa pertinente per una data sequenza
individuale. Con atto illocutorio Austin intende gli aspetti convenzionali di un atto linguistico, e
per ciascun atto linguistico esiste una convenzione che fa sì che l’atto possa essere compiuto a
certe condizioni.
 L’esecuzione di un atto locutorio o illocutorio produce spesso degli effetti partecipanti allo
scambio comunicativo.
 L’atto perlocutorio (o perlocutivo) è l’atto che si compie mediante il dire qualcosa (by saying
something). L’atto illocutorio produce spesso degli effetti (intenzionali o involontari), detti
effetti perlocutori. Posso ad esempio stupire, offendere, spaventare, divertire, allarmare, ecc. Le
reazioni, o gli atti perlocutori, o gli effetti prodotti, non sono convenzionali: non è detto che
dicendo ‘è tardi’, intendendo ‘è ora di congedarsi’, io ottenga tale effetto perlocutorio.

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Linguistica generale – secondo semestre

Atto locutorio, atto illocutorio e atto perlocutorio sono atti che avvengono contemporaneamente,
non ne esiste uno senza gli altri. Ogni atto linguistico consta quindi, contemporaneamente, di questi
tre atti. Per esempio, atto locutorio: [A disse a B] “baciami!”; atto illocutorio: A ordinò a B di
baciarla; atto perlocutorio: A persuase B a baciarla.

Esistono diverse tassonomie degli atti linguistici. Una delle tassonomie più usate è quella di Searle
(“La tassonomia fondamentale degli atti illocutori” 1975), che riconosce 5 tipi di atti.
 Atti assertivi (o rappresentativi): sono gli enunciati che in un modo o nell’altro vogliono
descrivere come sono le cose nel mondo o come sono andate. Sono gli unici di cui si può dire
che sono veri o falsi. Ci sono verbi performativi corrispondenti: racconto, informo, asserisco,
concludo, deduco, affermo, nego, ecc. Con un atto assertivo il parlante si impegna sulla verità di
uno strato di cose: la condizione di sincerità del parlante e quella di plausibilità della verità sono
condizioni di felicità di un atto assertivo.
 Atti direttivi: consistono in richieste e domande. Il loro scopo illocutorio consiste nel fatto che
essi costituiscono dei tentativi (di grado diverso) da parte del parlante di indurre l’ascoltatore a
fare qualcosa (anche a rispondere). I verbi che denotano gli atti direttivi sono: ordino, comando,
richiedo, imploro, invito, ecc. Nelle richieste il parlante chiama in causa l’interlocutore perché si
impegni su uno stato di cose, mentre nelle domande interroga l’interlocutore sulla verità di uno
stato di cose.
o Condizioni di felicità: 1) l’enunciato, l’atto o la proposizione (p) deve fare riferimento a un
evento futuro. 2) L’interlocutore deve essere in grado di fare quanto richiesto nella
proposizione. 3) Il parlante vuole che l’interlocutore faccia ciò che gli chiede.
 Atti commissivi: sono quegli atti illocutori il cui scopo è impegnare il parlante ad assumere una
certa condotta futura. L’importante è l’intenzione che va mantenuta. Il verbo commissivo per
eccellenza è ‘prometto’, ma anche ‘stipulo’, ecc.
o Condizioni di felicità: 1) la proposizione fa riferimento a un evento futuro che ha come
agente il mittente (non si può promettere sul passato o che qualcun altro faccia qualcosa). 2)
Non è già ovvio che il mittente farà ciò che gli si chiede in p nel normale corso degli eventi,
altrimenti il commissivo è vacuo. 3) Il mittente deve avere l’intenzione di fare p
(condizione di sincerità).
 Atti espressivi: esprimono un sentimento di qualsiasi tipo (grazie, auguri, condoglianze, scusa,
complimenti, ecc).
o Le condizioni di felicità dipendono dal tipo di enunciato. Ad esempio, lo scusarsi che p
pone la condizione che p faccia riferimento a un evento passato che ha come agente il
mittente. La condizione di sincerità dello scusarsi è che il mittente sia pentito di avere fatto
p.
 Atti dichiarativi: sono quegli atti che modificano lo status del mondo o dell’oggetto per il solo
fatto di essere pronunciati all’interno di istituzioni sociali; quindi, nel momento stesso in cui
vengono pronunciati, cambiano il mondo. L’istituzione sociale stessa prevede che l’atto abbia
effetto solo in determinate circostanze e solo se vengono rispettate completamente e
rigorosamente le procedure previste convenzionalmente dall’atto (battezzo, condanno, assolvo).
o Le condizioni di felicità dipendono dal tipo di enunciato. Per esempio, per una sentenza di
condanna il contesto deve essere idoneo all’emissione dell’enunciato (tribunale e giudice), e
il giudice deve credere l’imputato colpevole (condizione di sincerità).
Questi 5 tipi di atti sono quelli considerati fondamentali, ma la tassonomia potrebbe/dovrebbe
essere ulteriormente specificata. Si potrebbero aggiungere per esempio gli atti fatici: hanno lo scopo
di istituire, mantenere e chiudere il contatto (pronto?, già già, sai che ti dico?, eccoci qua, ecc).

Tipi di frase e funzioni pragmatiche

33
Linguistica generale – secondo semestre

Nelle diverse lingue, le frasi sono predisposte a funzionare con una certa illocuzione (detta anche
funzione pragmatica). A seconda del tipo di frase vi è un potenziale illocutorio, con una o più
valenze tipiche e altre di uso meno frequente e meno caratteristico. Per esempio, un atto assertivo è
tipicamente compiuto con una frase dichiarativa (‘Il sole è la stella più vicina alla terra’ = è
un’asserzione, può essere definita vera o falsa, è compiuta con una frase dichiarativa). Un atto
direttivo è invece compiuto solitamente con una frase imperativa o iussiva (‘Apri la finestra’),
mentre un atto espressivo esprimente auspicio o desiderio si può manifestare con una frase ottativa
(‘Se uscisse finalmente il sole’). Le frasi o le modalità frasali sono quindi in un certo senso
predisposte a manifestare determinate funzioni pragmatiche, e questo vale con gli atti linguistici
diretti.
Una frase dichiarativa può però servire per diverse altre funzioni pragmatiche, non solo per
manifestare atti espressivi. La frase ‘Ci rivedremo’ può essere sì un atto assertivo, ma può anche
essere una promessa o una minaccia (si parla in tali casi di atto commissivo). La frase dichiarativa
può anche avere funzione performativa (mettere in atto uno stato di cose), come nel caso della frase
‘Lei è licenziato’: questa frase dichiarativa non riferisce una situazione, bensì compie, pone in
essere una situazione, e quindi manifesta un atto dichiarativo.

La relazione tra tipi di frase e funzione pragmatica è una relazione di tipicità o preferenzialità, ma
potenzialmente qualsiasi frase può servire per qualsiasi funzione. Ci sono atti linguistici diretti e atti
linguistici indiretti.
Negli atti linguistici indiretti l’illocuzione non è quella suggerita dalla struttura linguistica, ma dalle
circostanze. Esistono diversi gradi di indirettezza:
 Atto indiretto convenzionale (per es. uso delle formule linguistiche di cortesia, come ‘Potresti…
[fare qualcosa]?, ‘Le dispiacerebbe…?’, ‘Per favore, …?’ per chiedere qualcosa);
 Atto indiretto non convenzionale (per es. ‘La finestra è aperta’: si usa una frase dichiarativa non
tanto per descrivere uno stato di cose, ma per indurre l’interlocutore a chiuderla).

Impliciti comunicativi e cooperazione (slides + videolezione 28a)


Solo una parte di ciò che vogliamo comunicare è codificabile. L’altra parte è consistente, implicita,
e dev’essere inferita. In molti casi, quindi, il destinatario non può limitarsi alla sola decodifica della
parte verbale dell’enunciato; egli deve mettere in atto anche delle strategie inferenziali che operano
sulla base degli impulsi o degli indizi ricevuti. Secondo le posizioni più radicali del contenuto
contestualistico, infatti, il mittente comunica tramite indizi e il messaggio esplicito è solo uno di tali
indizi. Tuttavia, il mittente organizza l’evento comunicativo in modo cooperativo, rendendo
accessibile al destinatario intenzioni e significati impliciti. Gli impliciti ovviamente suscitano più di
una domanda teorica: come riesce il destinatario a comprendere qualcosa che il mittente non dice
esplicitamente? Come può il mittente essere ragionevolmente confidente che il destinatario
comprenderà qualcosa che non dice? Se qualcosa non viene né detto né codificato dai segni, com’è
possibile capirlo? Partendo da questo discorso, bisogna distinguere tra:
 Ciò che le parole significano e ciò che un parlante vuole dire usando quelle parole;
 Ciò che il parlante dice usando quelle parole e ciò che lascia intendere, o suggerisce, o
comunica implicitamente.

Un implicito è quella parte di ciò che non viene detto esplicitamente, la quale può essere ricostruita
dal destinatario grazie a vari tipi di indicatori presenti nel testo e grazie a strategie di inferenza.
L’implicito dunque non equivale a ciò che non viene detto, ma fa parte del senso di un testo
(diversamente dal non detto).

Le inferenze sono le informazioni ricavabili dall’evento semiotico nella sua totalità. È tutto ciò che
non viene detto, ma che è ricavabile sulla base di ciò che viene detto. Le inferenze possono nascere
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Linguistica generale – secondo semestre

dall’interpretazione della situazione, da conoscenze pregresse, dal modello di discorso in atto, e da


tutto ciò che correda il contenuto semantico vero e proprio. Letteralmente, inferire è “trarre una
conclusione”, e quindi l’inferenza è la conclusione tratta da un insieme di fatti o circostanze.

Che cosa significa comprendere?


La comprensione di un enunciato avviene solo quando questo viene inserito nel modello di discorso
e reso compatibile con le informazioni già possedute. Comprendere non significa quindi costruire
nella mente una rappresentazione, ma piuttosto saper parafrasare e formulare il testo in altre parole,
rendendo esplicito ciò che è implicito. La comprensione è lo stato in cui si trova il destinatario
quando è in grado di rispondere al testo in modo appropriato. Per far ciò, l’ascoltatore può essere
portato ad assumere come valide delle informazioni ‘supplementari’, non esplicitamente asserite dal
parlante, ma la cui verità viene suggerita insieme alle informazioni trasmesse e presenti nel modello
di discorso. Le informazioni supplementari vengono quindi inferite dall’ascoltatore. Il risultato
dell’attività di comprensione e interpretazione degli indizi è la produzione di inferenze.

Le inferenze possono essere generate da diverse fonti:


 Linguaggio
Esempio: ‘il negozio era chiuso’ vs ‘il negozio era già chiuso’. L’espressione ‘era chiuso’ è
abbastanza vaga e può generare diverse inferenze: il parlante potrebbe essere arrivato oltre
all’orario di apertura, il negozio potrebbe essere fallito, potrebbe essere stato il suo giorno di
chiusura, ecc. Se però dico ‘il negozio era già chiuso’ escludo alcune inferenze (il negozio
potrebbe essere fallito, potrebbe essere stato il suo giorno di chiusura), e attivo soltanto
l’inferenza ‘il parlante è arrivato oltre l’orario di chiusura’: la parola ‘già’ produce quindi
l’inferenza ‘oltre l’orario di chiusura’, che ci permette di interpretare l’implicito nella maniera
corretta.
 Situazione (contingente o condivisa fra parlante e ascoltatore)
Esempio: qualcuno mi chiede ‘come sta Alberto?’ (che è mio fratello) e io rispondo ‘ha smesso
di fumare’. A seconda del rapporto di mio fratello Alberto con il fumo, questa risposta può
inferire tanto ‘sta bene’ quanto ‘sta male’. Se fumava volentieri e non riuscivo a farlo smettere,
probabilmente inferisco che sta male; se invece la decisione di fumare è stata presa da lui, posso
comunicare implicitamente che sta bene.
 Conoscenze e cultura
Esempio: se qualcuno dice ‘te la consiglio: in due mesi ho perso 4 chili’ si può inferire che si sta
parlando di dieta, anche se non viene nominata. L’informazione inferita in questo caso è
generata dalla propria conoscenza personale del mondo. Questo vale anche con i fenomeni
linguistici: vediamo la congiunzione ‘o’, che ha valore disgiuntivo tra due frasi. Dicendo ‘il
menù turistico comprende primo, secondo, frutta o dolce’ si inferisce che posso rifiutare
entrambi, posso prendere uno dei due, ma non posso prendere sia frutta che dolce. Nella frase ‘il
minore può espatriare accompagnato dal padre o dalla madre’, in base alle regole sull’espatrio e
alla mia conoscenza di esse, si inferisce che dev’essere presente almeno uno dei due genitori,
ma possono essere presenti anche entrambi contemporaneamente.

Le inferenze di tipo deduttivo (o ‘conseguenze’) scaturiscono necessariamente da un enunciato e


non sono cancellabili. Ad esempio, se alla domanda ‘sei andato a fare l’esame?’ qualcuno risponde
che ‘il capotreno aveva fischiato’, significa che le porte del treno erano chiuse e questo qualcuno
che doveva partire per andare a fare l’esame non è potuto salire sul treno.
Se una singola parola produce un’inferenza non cancellabile, allora quell’inferenza è parte del
significato di una parola. Nella frase ‘purtroppo è lunedì’, ‘purtroppo’ è un avverbio che viene usato
per esprimere il punto di vista del parlante, nel senso ‘è una sfortuna/un peccato che oggi sia
lunedì’. Questo fatto non è cancellabile, e l’inferenza che viene generata fa parte del significato

35
Linguistica generale – secondo semestre

stesso della parola: non posso certo dire ‘purtroppo è lunedì, che bello’, perché non avrebbe alcun
senso.

Mentre le inferenze stanno “a valle” dell’enunciato, le presupposizioni stanno “a monte”.


Nella linguistica pragmatica, il termine presupposizione indica un’informazione implicita alla base
di un enunciato, data per scontata dai partecipanti. Questa informazione è condivisa, ma sta a
monte: ovvero, se la presupposizione è falsa, l’enunciato diventa invalutabile. È un sapere implicito,
la cui validità è condizione per la realizzazione del testo: in altre parole, si tratta di un significato
implicito, non detto, ma che viene fatto assumere da quanto detto; è ciò che deve essere vero perché
l’enunciato sia vero o falso. La presupposizione resta anche se l’enunciato viene negato. Per
esempio, se io dico ‘Paolo è tornato da Roma’ do per presupposto che Paolo fosse a Roma; la stessa
presupposizione vale anche se io dicessi ‘Paolo non è tornato da Roma’. La presupposizione non è
quindi qualcosa a cui si risale per conoscenze del mondo esterno, ma soltanto a livello di lingua.
In certi casi o contesti di discorso, la presupposizione può essere sospesa o cancellata: ‘Giorgio non
ha smesso di fumare, non ha proprio mai fumato!’.
Queste presupposizioni sono in stretta correlazione tanto con la struttura informativa quanto con le
condizioni di felicità di un enunciato. In generale, le informazioni di background costituiscono delle
presupposizioni, mentre il contenuto informativo (l’informazione asserita), il focus, non le
costituiscono. Infatti, il tema o topic può essere taciuto, mentre il rema o focus no. Nelle
interrogative totali il parlante non attiva alcuna presupposizione relativa alla presupposizione, alla
validità dell’evento, ma lo mette completamente in discussione (‘qualcuno ha pagato il caffè?’).
Nelle interrogative parziali, invece, si attivano presupposizioni di validità della parte non in focus
(nella domanda ‘chi ha pagato il caffè?’ attivo la presupposizione ‘qualcuno ha pagato il caffè?’).

Le condizioni di felicità degli atti linguistici sono/generano presupposizioni. Ad esempio, io non


posso dire ‘l’attuale re di Francia non è calvo’ perché la presupposizione attivata, ovvero che in
Francia attualmente c’è un re, non è vera. La non validità di una presupposizione rende quindi l’atto
assertivo ‘infelice’. Un esempio con un atto direttivo è A) ‘prestami il cellulare’ B) ‘non l’ho con
me’: prestare presuppone avere, ma B non ha il cellulare. L’invalidità di tale presupposizione rende
l’atto infelice.

Esistono diversi tipi di presupposizioni.


 Presupposizioni esistenziali: riguardano l’esistenza di un individuo nella realtà del testo (per es.
sintagmi nominali definiti, ‘chi ha pagato il caffè?’);
 Presupposizioni fattuali: il testo introduce il riferimento a una situazione che viene data per
scontata (per es. ‘dopo la caduta del muro di Berlino…’);
 Lessemi che attivano presupposizioni, come per es. sapere (‘so che Luigi fuma’), smettere,
cominciare, di nuovo, ecc;
 Presupposizioni pragmatiche o contestuali: riguardano conoscenze relative al mondo e sono
attivate a ridosso della componente verbale (per es. ‘apro la finestra, l’arrosto è bruciato’). In
molti casi la connessione tra le conoscenze contestuali e gli elementi testuali può essere
rappresentata ricorrendo a frames (relativi a uno scenario, per es. scuola, ospedale, municipio) o
scripts (relativi a una procedura, per es. al bar, ristorante) condivisi da una comunità.

Comunicazione come cooperazione (slides + videolezione 28b)


Comunicare vuol dire produrre intenzionalmente certi effetti (credenze e azioni) su qualche altro
essere umano. Perché la comunicazione vada a buon fine, è necessario ed essenziale che il
destinatario riconosca le intenzioni comunicative del mittente o parlante: raggiungere lo stato di
conoscenza reciproca di un’intenzione comunicativa è essere riusciti a comunicare. Quindi, perché

36
Linguistica generale – secondo semestre

la comunicazione vada a buon fine, bisogna postulare dei processi inferenziali che permettono di
cogliere il significato intriso al di là del significato espresso.

Grice ritiene che un parlante, quando dice qualcosa dotato di senso, intende produrre un effetto, una
credenza in chi lo ascolta, e intende far sì che chi lo ascolta riconosca che il parlante intende
produrre proprio tale effetto. In base alla sua idea di comunicazione, Grice distingue due aspetti del
significato:
 Significato semantico, ovvero il significato standard, convenzionale, è quello riconosciuto in
una comunità linguistica, è il significato veicolato dalle strutture e dall’unità del codice;
 Significato occasionale, ovvero il significato del parlante che è legato ai suoi processi mentali, e
che viene espresso nell’intenzionalità.
Ovviamente, per manifestare l’intenzione il parlante può servirsi, oltre che della lingua verbale,
anche di altri indici, come il linguaggio non verbale o la gestualità. Secondo Grice, dunque, la
comunicazione è un atto di cooperazione, alla base della quale c’è sempre il seguente principio: “il
tuo contributo alla conversazione sia tale quale è richiesto, allo stadio in cui avviene, dallo scopo o
orientamento accettato dallo scambio linguistico in cui sei impegnato”. Per Grice questo non è un
principio etico o normativo, ma è un principio costitutivo. La conversazione, dice lui, non è
possibile senza il rispetto almeno parziale di questo principio di cooperazione. Con questo principio
si assume che gli scambi linguistici siano lavori in collaborazione, e che ciascun partecipante vi
riconosca uno scopo: tale scopo può essere fissato fin dall’inizio e restare costante per tutto lo
scambio, oppure può evolversi ed essere ‘rinegoziato’, lasciando al partecipante la notevole libertà
di movimento. L’importante è che lo scopo o gli scopi vengano riconosciuti. Cooperare significa
quindi costruire un modello di discorso condiviso.
L’ipotesi di Grice è stata anche messa in discussione, in quanto non sempre l’intenzione del parlante
è quella di far comprendere all’ascoltatore il tentativo di indurre un comportamento a una credenza.
A volte capita che il parlante non desideri affatto far conoscere le proprie reali intenzioni, anche se
resta fuori di dubbio che l’intenzione di produrre un effetto in chi ascolta è una costante della
conversazione. È quindi in dubbio il fatto che comunicare implichi l’intenzione di produrre un
effetto e, affinché la comunicazione vada a buon fine, questa intenzione è necessario che venga
riconosciuta.
In base a questa regola tacita, i partecipanti si sentono ‘obbligati’ a dare un contributo adeguato
affinché la comunicazione in cui sono immersi funzioni bene.

Il principio di cooperazione può essere declinato in massime più specifiche, le cosiddette ‘massime
conversazionali’. Non si tratta di massive prescrittive, bensì di massime operative, ovvero di
assunzioni e aspettative sul comportamento verbale degli altri. Le massime sono state suddivise da
Grice in 4 categorie: quantità, qualità, relazione, modo.

 Massima di quantità: rispecchia l’aspettativa che il nostro interlocutore sia ragionevolmente


informativo. In altre parole, ci si aspetta un contributo all’interazione commisurato alla
richiesta; non si deve dire né di più né di meno, non si deve essere né reticenti né ridondanti. La
massima di quantità si declina in due sottomassime:
o Dà un contributo tanto informativo quanto richiesto;
o Non dà un contributo più informativo di quanto richiesto. A questa sottomassima Grice
muove un’obiezione: essere iperinformativi non rappresenterebbe una violazione del
principio di cooperazione, ma semplicemente una perdita di tempo. Egli risponde a questa
critica immaginaria sostenendo che l’iperinformatività può essere fonte di confusione, in
quanto può sollevare problemi collaterali ed essere forviante per l’ascoltatore.

37
Linguistica generale – secondo semestre

 Massima di qualità: rispecchia l’aspettativa che il nostro interlocutore sia sincero e giustificato
nelle proprie affermazioni, quindi sii sincero e fornisci un’informazione veritiera secondo
quanto sai. Questa massima comprende una supermassima:
o Cerca di dare un contributo che sia vero.
… che a sua volta consta di due sottomassime:
o Non dire ciò che credi essere falso;
o Non dire ciò per cui non hai prove adeguate.
Questa massima di qualità richiama da vicino l’idea delle condizioni di felicità, in particolare
l’impegno alla verità, che è una delle condizioni di felicità degli atti assertivi: un’asserzione è
eseguita felicemente se l’ascoltatore ritiene che il parlante sia in grado di impegnarsi alla/sulla
verità quanto dice e intenda farlo realmente. Questo ha come conseguenza che anche il
successo di un comportamento fraudolento è garantito dall’esistenza di questa massima. Se ci
pensiamo bene, la menzogna non avrebbe successo se il parlante non pensasse che
l’interlocutore la prenda per vera. Per Grice e molti altri studiosi è la massima più importante.
 Massima di relazione: consta di un’unica massima che rispecchia l’aspettativa che il contributo
comunicativo sia pertinente alla fase dell’interazione; rispetta quindi l’aspettativa che il nostro
interlocutore sia pertinente. La caratteristica della pertinenza è decisamente rilevante al fine del
discorso, infatti è proprio la ricerca della pertinenza che guida l’interpretazione della vaghezza
dell’espressione linguistica. La massima della relazione riguarda inoltre i legami interni al
testo. Quando leggiamo un testo si creano aspettative di esistenza di relazioni all’interno del
discorso, che appartengono alla massima di pertinenza.
 Massima di modo: rispecchia l’aspettativa che il nostro interlocutore sia chiaro, perspicuo;
“esprimiti in modo da facilitare la risposta appropriata”. Ha quattro sottomassime:
o Evita l’oscurità di espressione;
o Evita l’ambiguità;
o Sii breve;
o Sii ordinato nell’esposizione.

Non tutte le massime sono sullo stesso piano. Grice e altri studiosi privilegiano la massima della
qualità, in particolare la prima (“non dire ciò che credi essere falso”). Essendo questa massima
centrale, succede che per rispettarla il parlante potrebbe non rispettare altre massime, come per
esempio la massima della quantità (“dà un contributo tanto informativo quanto richiesto”).

Per Grice, l’osservanza del principio di cooperazione e delle massime è “razionale”: sono mezzi che
è razionale utilizzare per svolgere attività di cooperazione; è una necessità costitutiva delle
conversazioni stesse. Le massime, quindi, non essendo né descrittive o prescrittive, sono operative:
si tratta di assunzioni e aspettative sul comportamento verbale degli altri, che possono essere violate
e hanno la caratteristica di funzionare altrettanto bene sia quando sono osservate sia quando sono
violate.
Il rispetto delle massime comporta che la comunicazione di un contenuto avvenga nel modo più
efficiente possibile; tuttavia, molto spesso le conversazioni hanno fini diversi rispetto alla
comunicazione di contenuti, e il parlante interloquisce per esempio per frasi apprezzare, per
affascinare, per divertire, suscitare commozione, per stabilire rapporti sociali, ecc. Se altri fini si
sostituiscono o si sovrappongono a quelli comunicativi, allora le massime possono essere violate
perché le priorità cambiano. La violazione delle massime non è necessariamente un errore di
qualche tipo, e non significa che il parlante stia rifiutando automaticamente la cooperazione.

Implicature conversazionali (slides + videolezione 28c)

38
Linguistica generale – secondo semestre

Le violazioni possono essere dovute a varie ragioni. Se uno viola una massima, può o non essere
cooperativo o essere cooperativo. Nel secondo caso, il principio di cooperazione viene recuperato (e
continua a valere) a livello di significato inteso. Si viola ostentatamente una massima per
comunicare un implicito. Le massime infatti, non essendo restrittive bensì operative e pragmatiche,
possono essere sfruttate: possono essere violate con intento cooperativo.

Grice chiama ‘implicature conversazionali’ gli impliciti comunicativi calcolati sulla base dello
sfruttamento delle massime. Egli parla di implicature (e non semplicemente di inferenze) perché nel
calcolo degli impliciti si parte dal messaggio esplicito, e contemporaneamente vengono utilizzate
tutte le informazioni che riguardano il contesto, gli interlocutori, le informazioni enciclopediche, le
informazioni condivise, ecc. Vengono inoltre utilizzati alcuni principi generali che riguardano la
comunicazione, quali le massime conversazionali.
Per la buona riuscita della comunicazione, gli impliciti devono essere inferiti, cioè devono essere
calcolati (e non semplicemente intuiti): devono quindi essere ricostruiti e ricostruibili in base a un
ragionamento. Per far intendere al proprio interlocutore un implicito comunicativo è necessario:
 Che sia presupposto il rispetto delle massime;
 Che una massima sia manifestamente violata;
 Che il contesto suggerisca un contenuto comunicativo che rispetti la massima che è stata violata
e che il parlante potrebbe voler intendere.

Grice distingue due tipi di implicatura:


 Quella convenzionale, che rivela qualcosa che non viene detto ma fatto intendere utilizzando
convenzioni linguistiche (per es. già, purtroppo, finalmente, smettere e l’uso del connettivo
‘ma’): se io dico ‘Luigi era ricco ma onesto’ dico qualcosa che dal punto di vista
vero/convenzionale corrisponde a ‘Luigi era ricco e onesto’, ma usando il ‘ma’ do ad intendere
che c’è un contrasto tra l’essere ricco e l’essere onesto, e che da quelli che sono ricchi ci si può
in genere aspettare che non siano onesti;
 Quella conversazionale, che non scaturisce dal significato codificato convenzionalmente dalle
strutture linguistiche, ma fa intendere qualcosa utilizzando il contesto e il comportamento
comunicativo (che è connessa con alcune caratteristiche generali del discorso, tra cui le
massime). Queste implicature possono essere generalizzate o non standard.
o Generalizzate: scaturiscono automaticamente dall’uso di un’espressione; dipendono solo
dal fatto che il parlante ha detto una certa cosa e dagli assunti riguardanti la cooperatività
conversazionale. Si presentano regolarmente, e per questo vengono dette ‘generalizzate’. È
il caso dei quantificatori esistenziali e le implicature scalari: per es. qualche/alcuni = non
tutti. (a) ‘Alcuni studenti hanno passato l’esame’ sembra equivalere a (b) ‘Non tutti gli
studenti hanno passato l’esame’ -> le inferenze di entrambi gli enunciati sembrano essere
‘qualcuno ha passato l’esame’ e ‘qualcuno non ha passato l’esame’. In caso di smentita
(‘Non è affatto vero!) questi due enunciati non si comportano allo stesso modo: (a) la
smentita lascia inferire che nessuno ha passato l’esame; (b) la smentita lascia inferire che
l’hanno passato tutti. Questo significa che i due enunciati non hanno lo stesso significato
convenzionale, e quindi l’inferenza supplementare ‘qualcuno non ha passato l’esame’
scaturisce come implicatura conversazionale generalizzata, perché in certe circostanze può
essere cancellata.
o Non standard: violazione palese di almeno una massima, ma in modo tale che sia evidente
anche all’interlocutore, che mantiene l’aspettativa che il parlante sia cooperativo. Per
esempio, le implicature connesse alla massima della quantità si trovano nelle tautologie: la
guerra è la guerra, le donne sono donne. Sembrano enunciati che non dicono nulla, ma il
calcolo degli impliciti ci comunica che la guerra è qualcosa di negativo, e che le donne
hanno alcune caratteristiche stereotipiche attribuite a loro; è il contesto che aiuta a

39
Linguistica generale – secondo semestre

pertinentizzare un significato rispetto ad altri possibili. Il fatto che l’ascoltatore identifichi il


contenuto informativo realmente inteso dipende dalla sua capacità di spiegare perché il
parlante abbia selezionato una tautologia. Casi di calcolo che invece riguardano la massima
della qualità si trovano nell’interpretazione di enunciati che contengono un linguaggio
figurato, che possono essere rilette in termini di implicatura rispetto alla prima
sottomassima della qualità (ovvero “non dire il falso”): ‘Mario è un’aquila’ o ‘Sei proprio
un genio’. Questi enunciati sono letteralmente falsi, quindi implicitano un significato
diverso da quello che si afferma letteralmente, che chiaramente deve essere vero. Molto
frequenti sono i casi di calcolo degli impliciti relativi alla massima della relazione, cioè
quando sembra che la risposta non sia pertinente: a) Dov’è Alberto? b) C’è una Opel bianca
in giardino = A deve implicitare che Alberto ha una Opel bianca, e se la sua macchina è in
giardino lui è probabilmente a casa; a) Mi ami? b) Hai un vestito nuovo? = la
mancanza di una risposta diretta porta con sé una serie di significati impliciti (non voglio
dirti che ti amo); a) ‘È in casa?’ b) C’è la luce accesa.
 La sospensione esplicita si serve spesso di formule, espressioni, per segnalare che il parlante
non è pienamente collaborativo e potrebbe violare qualche massima: a) Quanti anni hai? b) Non
sono domande da fare a una signora; a) Bella serata, no? b) No comment. Per esempio, se violo
la massima della qualità posso premettere ‘per quel che ne so…’; se violo quella della quantità,
per evitare la ridondanza, posso anticipare ‘come ho già detto…’. La massima della relazione
viene violata esplicitamente quando si dice ‘a proposito…’, ‘cambiando argomento…’, e la
massima di modo può servirsi dell’espressione ‘non so se sono chiaro, ma…’, ecc.

La conversazione come agire sociale; la cortesia; cultura e linguaggio (slides + videolezione


29a/b)
La conversazione come agire sociale
L’analisi della conversazione (AC) completa l’analisi della comunicazione come mezzo per
compiere azioni del tipo degli atti linguistici, e l’analisi delle regole (o massime) di cooperazione.
L’analisi della conversazione riguarda gli scopi e le regole nella gestione degli scambi: si occupa
quindi di descrivere come funziona una comunicazione, quali sono le mosse comunicative, e cosa si
fa per ‘salvaguardare’ le relazioni tra i partecipanti. A differenza delle regole di Austin e Greis, che
erano di natura logico-filosofico-linguistica, le regole che gestiscono la conversazione o gli eventi
comunicativi sono in parte universali e in parte determinate culturalmente.

Il turno conversazionale è l’unità di analisi della conversazione. Il turno è una sequenza di parole
prodotte da un parlante fra il momento in cui questi inizia a parlare e il momento in cui lo fa un
nuovo interlocutore. L’alternanza non è sempre regolata: molto spesso, quando si parla in due o più
contemporaneamente, si verificano fenomeni di sovrapposizione. Fenomeni di sovrapposizione
possono avere funzioni comunicative diverse, ma anche diverse motivazioni e origini. Ad esempio,
a inizio turno possono verificarsi partenze simultanee, quando dopo un momento di silenzio
iniziano a parlare due persone contemporaneamente: si tratta in questo caso di più parlanti che
selezionano insieme lo stesso turno, creando un conflitto nell’assegnazione del turno. Le
conseguenze possono essere un aumento del volume della voce o un rallentamento nel ritmo di
parola, e questo ritmo va avanti fino a quando una persona cede il turno all’altra. Ci possono essere
anche delle interruzioni, che avvengono quando un partecipante alla conversazione inizia a parlare
durante il turno di un altro. Alcune forme di sovrapposizione, per esempio, hanno la funzione di
segnalare un feedback, ovvero far capire al parlante che lo stiamo ascoltando e stiamo seguendo
quello che dice, o di dare un input utile alla comunicazione in corso.

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Linguistica generale – secondo semestre

Le mosse comunicative sono l’azione comunicativa in sé. Si tratta di procedimenti empirici che
vengono raccolti come dati empirici. Gli atti linguistici di Austin e le massime della conversazione
di Greis permettono di operare le inferenze, le quali ci permettono di comprendere ciò che il
parlante voleva comunicare. Le mosse comunicative, invece, non sono necessariamente sempre
calcolabili. Le mosse a disposizione degli interlocutori, in un dato momento della conversazione,
non sono illimitate, ma possono essere in un certo senso ‘predisposte’ e ‘previste’: un esempio è
quello delle sequenze complementari (saluto-saluto, domanda-risposta). Una mossa comunicativa,
inoltre, non coincide necessariamente con un turno di parola, né un turno di parola coincide con una
mossa comunicativa: infatti, in uno stesso turno possono collocarsi più mosse comunicative, e una
mossa comunicativa può articolarsi in più turni. Inoltre, ci possono essere anche dei salti, perché ad
esempio le sequenze complementari non sono necessariamente conseguenti l’una all’altra (es. ‘Dici
che piove?’ ‘Perché?’ ‘Volevo uscire in bici’ ‘Ma no, secondo me tiene’ = la risposta alla prima
domanda non viene data subito, ma dopo che il secondo interlocutore ha aperto una nuova sequenza
rispondendo alla domanda; solo una volta risposta questa domanda risponderà al quesito iniziale).

Le conversazioni non sono sempre simmetriche (ovvero conversazioni tra pari = tra amici o
familiari), ma esistono anche conversazioni asimmetriche: si tratta delle conversazioni in cui un
interlocutore domina sull’altro (rapporto tra professore e studente, medico e paziente). Questo ha a
che fare con la selezione e gestione dei turni, perché per selezionare un turno esistono tre strategie o
regole.
 Colui che sta parlando seleziona il parlante successivo con una serie di segni, ad esempio
invitandolo direttamente a parlare (‘Maria rispondi’), o rivolgendosi a qualcuno in particolare
(‘Sto parlando proprio con te’): in questo caso il parlante ha la funzione di regista.
 Nel caso in cui il parlante rinunci al ruolo di regista e non selezioni nessuno, avviene
l’autoselezione da parte dell’interlocutore: quando il parlante smette di parlare, qualsiasi
partecipante può autoselezionarsi e prendere la parola.
 Quando il regista non seleziona nessuno, termina di parlare, e dopo la pausa nessuno si
autoseleziona, allora il regista prende di nuovo la parola.
Nelle conversazioni asimmetriche il ruolo del regista è dominante, e la gestione dei turni è
solitamente affidata a una figura di regista che esegue mosse comunicative forti. In questo tipo di
conversazioni, inoltre, i ruoli non sono equivalenti o interscambiabili. Si tratta di interazioni
istituzionali, codificate nel repertorio culturale secondo specifici parametri.

La cortesia
Nella conversazione sono fondamentali le strategie di cortesia. Alla base della distinzione tra mosse
comunicative preferenziali e non preferenziali (per es. invito > accettazione vs rifiuto), ci sono
spesso strategie di cortesia o mitigazione: la scelta di un atto linguistico indiretto piuttosto che
diretto per formulare un ordine è una strategia che si basa su motivazioni di cortesia; quando
qualcuno formula un invito ci si aspetta che l’interlocutore accetti piuttosto che rifiuti. Il ricorso a
figure di attivazione (come eufemismi, litoti: il professore dice allo studente ‘Non è andata proprio
benissimo la prova’) e le esitazioni, sono altre manifestazioni di strategie di mitigazione che si
rifanno ai principi della cortesia. Per valutare la cortesia o scortesia di un enunciato vanno presi in
considerazione:
 L’atto in questione;
 Le norme di una determinata cultura o società.
Non si tratta di regole puramente linguistiche, ma di regole pragmatiche applicabili a tutte le
transazioni cooperative umane.

Alla logica della conversazione così com’era stata delineata da Greis, che si preoccupava del
successo della comunicazione dal punto di vista della trasmissione del messaggio, si affianca adesso

41
Linguistica generale – secondo semestre

la nozione di successo di un’azione come successo di un’interazione sociale, e quindi l’uso del
linguaggio funzionale al successo dell’interazione sociale.

Il concetto di cortesia è strettamente legato alla nozione di “faccia”. La cortesia va intesa come un
incessante lavoro di tutela della faccia, propria e altrui, da parte di tutti i membri di una comunità.
L’idea di base è che tutti (parlanti, interlocutori, componenti di una società) cerchiamo di mantenere
e migliorare la nostra “faccia”. Concretamente, la faccia è una nozione costituita da due aspetti, che
corrispondono a due bisogni sociali fondamentali, a loro volta divisi in due grandi categorie.
 Faccia negativa (bisogni negativi): costituita da bisogni legati allo spazio personale, alla libertà
di azione, di decisione, all’autonomia, ecc.
 Faccia positiva (bisogni positivi): costituita da bisogni positivi, quali l’accettazione da parte
degli altri componenti del gruppo sociale, la valorizzazione e approvazione di sé da parte degli
altri componenti, la buona immagine di sé, ecc.
Ci sono ovviamente delle differenze culturali: lo spazio privato ha infatti misure differenti nelle
varie culture. Per esempio, il sud Italia ha una cultura più fisica, con abbracci, baci, mano sulla
spalla, e quindi uno spazio privato ridotto; al contrario, la cultura del nord Italia è caratterizzata da
una maggior freddezza nei rapporti interpersonali. Anche ciò che è considerato un valore, e quindi
quello che può dare una buona immagine di sé, varia da cultura a cultura. Tuttavia, in tutte le
culture esiste il concetto di “faccia”: si ritiene quindi che in tutte le culture sia costituito da un
aspetto negativo (faccia negativa) e un aspetto positivo (faccia positiva).

Certi atti che una persona compie possono mettere a rischio la faccia dell’altro. In particolare, (ad
esempio dando un ordine) essi possono limitare la libertà dell’altro, invadere la sua privacy, il suo
spazio personale, limitare la sua autonomia, e farlo sentire non desiderabile, non approvato, non
riconosciuto, non valorizzato. Levinson e Brown, nel loro libro pubblicato nel 1987, chiamano
questi atti FTA (Face-threatening acts), letteralmente “atti che minacciano e mettono a rischio la
faccia”. Quello di preservare la faccia dell’altro è un obbiettivo che è spesso condiviso, ma ha un
secondo fine. Io so che l’altro vuole preservare la sua faccia, ma so anche che l’altro sa che io so
che vuole preservarla. Allo stesso tempo, però, voglio anch’io preservare la mia faccia e so che
l’altro sa che io voglio preservarla. Preservare la propria faccia è quindi qualcosa di condiviso, ed è
condivisa la consapevolezza che sia condiviso. È quindi facile che le persone pervengano a una
sorta di scambio: io preservo la tua faccia pensando che così facendo tu preserverai la mia.

Generalmente la cortesia, soprattutto quando usa giri di parole o altri strumenti, è una deviazione
delle massime di Grice (quantità, qualità, modo, relazione). Queste massime ci indicano come un
messaggio deve o può essere fatto comprendere con la maggiore efficienza possibile: se si è chiari,
brevi, se non si danno né troppe né troppo poche informazioni, se non si divaga, ecc. si è molto
efficienti nella comunicazione. La cortesia, però, ci impone a volte di non esserlo: in certe
circostanze ci impone di non dire la verità (quando il dirla vorrebbe dire fare un FTA alla faccia
positiva dell’altro), di non essere brevi (quando si usano strategie riparatorie), di non essere chiari
(quando si è indiretti).

Quando si fa un FTA, si può decidere di riparare a quello che si sta facendo sottolineando che,
nonostante il FTA, il destinatario è approvato e valorizzato dal mittente: si parla in questi casi di
cortesia positiva. In generale, queste strategie riparatorie di cortesia positiva mirano ad esprimere
approvazione per la personalità e le qualità dell’altro, a indicare che gli interlocutori hanno interessi
e conoscenze comuni, ad indicare che hanno obblighi reciproci, obbiettivi condivisi, ossia un
terreno comune a cui entrambi appartengono. La cortesia positiva non è necessariamente utilizzata
come strategia riparatoria, ma può essere utilizzata anche come strategia generale per rinforzare i

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Linguistica generale – secondo semestre

legami sociali e l’amicizia fra le persone. In generale, se si tiene a un legame è necessario coltivarlo
con la cortesia positiva. Si possono classificare queste strategie positive in tre grandi classi:
 Sottolineare che c’è un terreno comune;
 Far comprendere che mittente e destinatario cooperano;
 Andare incontro ai desideri del destinatario.
Alcuni esempi: a) Ti sei tagliata i capelli! Stai bene… Ti volevo chiedere se mi prestassi un po’ di
farina. -> l’atto direttivo/la richiesta viene anticipata da un complimento; b) Devi essere affamato, è
passato parecchio da colazione. Che ne dici se andiamo a pranzo? -> c’è un coinvolgimento, una
manifestazione di un intento comunicativo; c) Abbiamo mangiato troppo oggi vero? -> parlare al
plurale per creare condivisione; d) Fra, raga, amore, mammina -> usare nomignoli con
un’espressione più o meno esplicita o connotata, ecc.

La cortesia negativa è solitamente sempre riparatoria, volta a minimizzare il danno rivolto alla
faccia negativa del nostro interlocutore. Di solito vengono identificate 4 strategie possibili di
riparazione:
 Fare assunzioni minime sui desideri e i bisogni del destinatario;
 Non far apparire il FTA come una coercizione e lasciare libertà di scelta;
 Fare come se non volessi infliggere il FTA al destinatario;
 Soddisfare altri bisogni della faccia negativa del destinatario.
Alcuni esempi: fare assunzioni minime -> forse ti piacerebbe venire a cena con me, mi chiedevo se
ti piacerebbe venire a cena con me, potrebbe essere che tu abbia voglia di venire a cena con me?;
minimizzare le coercizioni -> volevo solo chiederti se tu potessi prestarmelo, posso avere un
assaggio di torta?, me ne daresti un goccio?, te la prendo in prestito solo per un minuto, parliamo
un po’?; abbassamento di sé stessi -> (offrendo un regalo) è una cosa da niente, (offrendo
ringraziamenti) si figuri, (invitando qualcuno) casa mia non è un granché, (offrendo un pranzo) non
sono proprio una brava cuoca, mi sento stupida ma non riesco a capire questa mappa, ecc.
Scusandosi si manifesta che si è riluttanti a infliggere il FTA al destinatario, per esempio
manifestando esitazione, dando spiegazioni come ragioni di forza maggiore, chiedendo perdono ->
normalmente non te lo chiederei, ma…, so che ti scoccio, ma…, spero mi perdonerai se…, sono
spiacente di informarti che…, ecc.

Cultura e linguaggio
La quantità di informazioni ritenuta appropriata in uno scambio comunicativo specifico può variare
da cultura a cultura e a seconda del tipo di scambio: ovvero, rendi il tuo contributo tanto
informativo quanto richiesto secondo i parametri discorsivi della cultura in questione. Gli atti e le
norme che possono quindi variare interculturalmente sono:
 Le regole per la presa del turno e durata delle pause (ci sono per es. culture in cui è necessario
fare una pausa di una certa durata prima di rispondere, perché hanno una tolleranza del silenzio
maggiore: ciò che per noi viene considerato un segnale di esitazione o ignoranza, in altre culture
noi veniamo giudicati come dei prevaricatori o degli invadenti);
 Le strategie di accettazione e rifiuto (solitamente si fa un’offerta che ci si aspetta venga
accettata, ma per es. alcune culture tendono a rispondere sistematicamente prima con un rifiuto,
per poi avere nuovamente la richiesta e accettarla in una seconda battuta);
 La valutazione della felicità di un atto: la massima della qualità può essere subordinata a
massime della cortesia (per es. quando non si dice la verità per non offendere), ma anche la
massima della quantità;
 Le norme che regolano il comportamento sociale nella sua interezza, per es. il riconoscimento
della posizione sociale o discernment (alcune culture orientali nel momento dell’interazione
osservano degli atteggiamenti nei confronti dell’interlocutore che non sono presenti nelle nostre
culture).
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Linguistica generale – secondo semestre

Gli studi linguistici in senso stretto, pragmatici e/o antropologicamente orientati, tendono a studiare
gli eventi linguistici calati nella cultura. Le prospettive che vengono quindi adottate da
un’osservanza stretta sono antiuniversalistiche, relativistiche, e mirano a leggere e interpretare
differenze tra le culture che non corrispondono alle differenze tra le lingue. Si tratta di studi in cui si
riflette il relativismo culturale che caratterizza l’antropologia moderna. Si parla in questo caso di
competenza comunicativa, secondo la quale un evento linguistico è un’attività direttamente
governata da regole o norme per l’uso del parlato. Lo studio della competenza comunicativa non si
basa soltanto sull’enunciato o atto linguistico, ma sull’evento linguistico in generale. Il parlare
viene quindi studiato come elemento costitutivo dell’agire umano, come particolare attività tra altre
attività.

Nel 1972 Dell’Hymes aveva definito dei parametri descrittivi dell’evento linguistico che valessero
un po’ per tutti gli eventi linguistici, e tenessero conto anche dell’aspetto culturale. Li ha riassunti
nell’acronimo “speaking”:
 S ituazione, intesa come spazio e tempo concreto in cui avviene l’evento comunicativo;
 P artecipanti all’evento;
 E nds = scopi;
 A tti di linguaggio o atti linguistici;
 K ey = chiave;
 I nstruments = mezzi, canali e codici;
 N orme;
 G enere o tipologia di discorso.
Alcune componenti di questo modello sono state ampiamente studiate sotto diverse prospettive
pragmatiche e di linguistica testuale, mentre altre le ha spiegate esaustivamente Dell’Hymes.

Arcodia-Mauri (slides + videolezione 30a/b/c)


Il libro è suddiviso in capitoli tematici, e per ognuno bisogna cogliere quali sono i campi di
variazione delle strutture linguistiche. Invece che cercare cosa accumuna le lingue (come abbiamo
fatto in questo corso), l’Arcodia-Mauri cerca di individuare ciò che differenzia le lingue e quindi le
eventuali difficoltà che si potrebbero riscontrare.

Capitolo 1: La diversità linguistica nel mondo contemporaneo


Il primo capitolo è molto utile per la classificazione delle lingue (prima e seconda lezione del
secondo semestre). Le riflessioni partono dall’analisi della distribuzione per area di origine e
numero di parlanti. La tabella 2 a pagina 16 fa vedere come, delle circa 7mila lingue che sono state
censite, il 62% è parlato in Asia, in Africa con una percentuale molto bassa (13%), mentre in
Europa il numero delle lingue è relativamente basso (186, 4%), ma con un numero di parlanti
elevato.
Perché è importante questa distinzione? Possiamo considerare la nozione (relativa —> altro da sè)
di lingua esotica. Esiste una doppia prospettiva di “lingua esotica”:
 Se ci consideriamo come occidentali europei, allora sono esotiche tutte le lingue estranee alla
nostra;
 Se consideriamo come “esotiche” quelle lingue strane, meno comuni, allora in prospettiva
mondiale sono proprio le nostre lingue europee quelle esotiche.

Quando si parla di lingue europee, Benjamin Lee Whorf aveva stabilito lo “Standard Average
European” con maggior concentrazione nella zona dell’ “Area di Carlo Magno” (formata da
Francia, Germania, Gran Bretagna). Il SAE è quindi un tipo areale: significa che presenta un
insieme di caratteristiche largamente interrelate, che co-occorrono nelle lingue di una determinata

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Linguistica generale – secondo semestre

area, spiegabili in larga parte in termini di contatto. Francese, tedesco e neerlandese sono perciò
lingue “pienamente europee”, mentre il turco o il basco sono lingue ai “margini”, poiché presentano
caratteristiche diverse rispetto a quelle considerate più europee.
Bisogna capire quindi qual è il punto di riferimento per definire il concetto di lingua esotica:
vengono ripresi alcuni esempi, quali:
• L’uso di un verbo transitivo (come il verbo “avere”) per indicare il possesso —> possessore
soggetto e posseduto oggetto diretto; per esempio in russo questa relazione non vale, perché usa
una costruzione analoga del giapponese.
• L’uso dell’articolo.

Limiti della diversità linguistica


• Ricorsività: capacità delle lingue di creare strutture sempre più ampie in successione. Questo
fenomeno è presente in tutte le lingue, quindi è un limite della diversità.
• Esistono poi degli universali linguistici: stabilire quelle regolarità che permettono di raggruppare
le lingue, non dal punto di vista della parentela genealogica, ma da un punto di vista ad esempio
strutturale, morfologico, sintattico, a seconda dell’ordine dei costituenti maggiori (come ad
esempio la dominanza dell’ordine SO). Un principio viene classificato come universale anche in
presenza di controesempi se il loro numero non è particolarmente significativo.

Capitolo 2
Fa capire la varietà nell’ambito della categorizzazione di persone, cose ed elementi. Tocca 4 aree:
• Distinzione di parti del discorso e classi lessicali (nomi, verbi e aggettivi);
• Categoria del genere;
• Classificatori;
• Categoria del numero.

1. Distinzione di parti del discorso


Definire cos’è una parola è difficile. Una delle categorie lessicali più problematiche è l’aggettivo:
• Definire l’aggettivo in base alle categorie morfologiche è possibile sono nelle lingue che
distinguono la categoria del genere, poichè l’aggettivo è l’elemento che non ha il morfo intrinseco
come nel caso dei verbi (ross-o / -a);
• In alcune lingue gli aggettivi marcano il tempo;
• In altre lingue è ancora più difficile, perché queste non usano la copula.
In sintesi, possiamo dire che nomi, verbi e aggettivi sono “universali”, ma i criteri per la loro
identificazione variano da lingua a lingua. Dobbiamo quindi tenere presente che non possiamo
definire un aggettivo, come lo definiamo in italiano, per tutte le altre lingue

2. Categoria del genere


L’assegnazione del genere non è arbitraria, e molto spesso si caratterizza in base al genere naturale
(mamma, papà, fratello, sorella...). Una base di questo tipo esiste in tutte le lingue, ma questa da
sola non è sufficiente, poiché esistono anche gli esseri non sensienti. Per esempio, in una lingua
della Papua Nuova Guinea gli essere umani e animali superiori di sesso maschile, oggetti lunghi e
sottili sono di genere maschile, mentre esseri umani o animali superiori di sesso femminile e oggetti
corti e tondi sono di sesso femminile.
Esistono diversi sistemi di genere:
 Sistemi di genere a base semantica (maschile, femminile, animale, neutro);
 Sistemi a base semantica e morfologica: non si basano quindi solo sul genere naturale, ma anche
alla classe di declinazione.
 Sistemi di genere su base formale fonologica: per esempio, se la vocale finale è accentata i nomi
sono femminili, gli altri maschili (in caso di conflitto prevalgono i criteri semantici).
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Linguistica generale – secondo semestre

3. Classificatori
Un altro fattore che caratterizza la diversità nelle lingue è il ruolo dei determinanti nominali
(articoli, dimostrativi, quantificatori numerali, ecc.) che servono a quantificare gli elementi.
Ci sono lingue nelle quali non esistono questi determinanti in forma di articolo o di dimostrativo, e
che quindi ricorrono all’uso del classificatore. Per esempio, italiano e inglese prevedono il contrasto
tra determinativo e indeterminativo e ammettono il determinante zero. Invece cinese, giapponese e
coreano non prevedono la segnalazione obbligatoria del numero: i sostantivi con determinante zero
rappresentano la norma, e sintatticamente c’è la tendenza a trattare tutti i nomi come nomi di massa.
Qualunque sia il nome quantificato, è comunque richiesto un elemento in grado di “atomizzarlo” in
unità computabili (numerizzabili), come accade in italiano per i nomi di massa (“un po’”).

4. Numero
Anche in questo caso c’è una forte variazione tra le lingue. È una categoria caratterizzata da
arbitrarietà e convenzionalità
• Singolare vs. plurale, duale e plurale (greco) vs. Singolare, duale, plurale, e triale.
• In alcune lingue oltre al triale è previsto addirittura il quadrale, intesi rispettivamente come
“paucale” e “paucale maggiore”, che corrispondono a “plurale” e “plurale maggiore” di altre
lingue.
• In alcune lingue è possibile nominare un’entità numerabile senza specificare il numero.
• In alcune lingue molto povere il numero non viene espresso del tutto.
• In molte lingue del Nord America, dell’Africa e del Caucaso il numero non interessa solo le
entità, ma anche gli eventi.

Capitolo 3: Ruoli semantici e funzioni sintattiche


I ruoli semantici sono anche detti ruoli argomentativi o tematici, e descrivono la relazione che un
argomento intrattiene con il verbo cui fa riferimento.
Le funzioni sintattiche riguardano invece il ruolo sintattico che i sintagmi svolgono nella struttura
della frase: soggetto, oggetto (diretto o indiretto) e i vari complementi.
Le funzioni pragmatiche riguardano i ruoli di tema e rema.
I rapporti tra ruoli semantici, funzioni sintattiche e funzioni pragmatiche si convenzionalizzano in
maniera diversa da lingua a lingua. Ci sono ovviamente delle costanti, però le relazioni tra gli
elementi strutturali e le nozioni funzionali si delineano in modo diverso nelle diverse lingue. Questa
variazione viene analizzata in tre ambiti:
 Contrapponendo le lingue nominativo-accusativo alle lingue ergative o ergativo assolutive;
 Diatesi (attivo, passivo e antipassivo);
 Marcatura dei ruoli (topicalizzazione).

IL SOGGETTO E L’OGGETTO
( S = Soggetto verbi intransitivi / A = Soggetto verbi transitivi / P = Oggetto verbi transitivi )
In italiano il soggetto è quel sintagma che si accorda con il verbo; se coreferente può essere omesso.
• In presenza di un verbo intransitivo, di solito, il soggetto ha il ruolo semantico di agente, e
l’oggetto diretto ha il ruolo semantico di paziente.
• I soggetti dei verbi transitivi (A) e intransitivi (S) di solito presentano le stesse caratteristiche
morfosintattiche, e hanno quindi la stessa marcatura. Si può verificare in base ai pronomi -> “Io
cado” vs “Io mangio”.
Si parla quindi di lingue nominativo-accusative, perché ciò che cambia è la marcatura dell’oggetto.

Altre lingue trattano allo stesso modo ( = danno la stessa marca) ai soggetti dei verbi intransitivi (S)
e agli oggetti dei verbi transitivi (P), mentre ai soggetti dei verbi transitivi (A) riservano specifiche
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Linguistica generale – secondo semestre

proprietà morfosintattiche (danno una marca ergativa). Si comportano così le lingue ergativo-
assolutive (come il basco). Esempio di lingua ergativa: “Il cane è sporco”, “Il cane sta sotterrando la
carne”. Il cane è soggetto in entrambe le frasi, e sono marcati allo stesso modo in italiano. In queste
lingue, invece, “il cane” è marcato in maniera diversa nelle due frasi: nel primo caso è il soggetto di
un verbo intransitivo, e nel secondo caso di un verbo transitivo. (Frase 1, il cane = nguda; Frase 2, il
cane = nguda-nggu)

Ci sono lingue ergative assolutive fisse, dove il sistema si osserva solo con determinate classi
nominali o con determinati tempi verbali.
Ci sono le lingue neutrali, nelle quali non esistono differenze tra S, A e P.
Esistono sistemi tripartiti: esistono tre marche distinte per le tre funzioni strutturali
Esistono lingue attive / inattive, nelle quali i soggetti dei verbi intransitivi (S) si comportano a volte
come soggetti dei verbi transitivi attivi, a volte come pazienti dei verbi intransitivi inattivi.

PASSIVO E ANTIPASSIVO
Questa è la seconda area in cui viene valutata la variazione. Usare l’attivo e il passivo sono strategie
per l’organizzazione dell’informazione (scelte del parlante).
Il passivo è una strategia che cambia la valenza dei verbi (è una diatesi recessiva), nel senso che
riduce la valenza dei verbi. Se si pensa alle frasi passive, la valenza obbligatoria è quella che ha la
funzione sintattica di soggetto, ma il ruolo semantico di paziente; invece il complemento oggetto o
quello di causa efficiente possono essere taciuti. Quando si usa il passivo si passa da due valenze a
una valenza obbligatoria.
Il passivo nelle lingue del mondo può essere espresso in modo diverso:
 Ci sono strutture perifrastiche, come in italiano, in cui si può usare il verbo essere oppure una
struttura morfologica specifica (come nel turco);
 Esiste anche l’antipassivo, limitato però alle lingue ergativo-assolutive. In questo caso l’agente
resta soggetto, però non ha più una marca ergativa, che è tipico dell’agente del verbo transitivo
bivalente, ma prende invece la marca dell’assolutivo, cioè del verbo intransitivo che è
monovalente. Il paziente può essere omesso o ricevere marche di casi indiretti. Il verbo diventa
quindi intransitivo.

SUBSTANDARD O ESOTICO?
Questo ultimo argomento parte dalla considerazione di una struttura che è substandard in italiano.
Nei verbi transitivi l’oggetto diretto non vuole preposizioni (“Mario chiama Lucia”), mentre nella
varietà substandard si ammette (“Mario chiama a Lucia”).
Ci sono casi in cui è necessario preporre la preposizione all’oggetto diretto: “A me non convince
quest’argomentazione” -> topicalizzando il “mi” dobbiamo aggiungere la “A” di “A me”. Perché si
possa mettere un oggetto diretto preceduto da preposizione, in italiano devono essere rispettati
alcuni criteri:
 Animatezza del referente;
 Definitezza del referente;
 Specificità del referente;
 Topicalità del referente (è strutturale). Questo criterio viene manifestato con la dislocazione a
sinistra (che è una topicalizzazione); è anche l’unico caso in italiano in cui la “marcatezza” è
grammaticalizzata.
In altre lingue la marcatezza di questo tipo è ammessa anche con oggetti diretti inanimati e
indefiniti, quindi quello che in italiano è considerato “substandard” in altre lingue è considerato
grammaticale e obbligatorio.

Capitolo 4: La connessione tra eventi nella narrazione


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Linguistica generale – secondo semestre

Si cercano gli strumenti che servono a manifestare la connessione degli eventi nella narrazione.
Questa connessione mette in evidenza il punto di vista del parlante (causa, effetto, conseguenza,
…).
Ci sono lingue più o meno ricche di connettivi:
 Le lingue che hanno una lunga tradizione scritta hanno sistemi di connettivi piuttosto complessi.
 Le lingue a tradizione orale (o a semplici tradizione scritte) utilizzano spesso la giustapposizione
o connettivi molto poveri.

Per spiegare questo fenomeno, l’Arcodia-Mauri riprende le tre congiunzioni base: and / but / or
(coordinante, avversativa, disgiuntiva). Sottolinea poi che questo sistema è molto meno frequente di
quanto si pensi: costituisce infatti l’aspetto esotico delle lingue.
Per quanto riguarda la congiunzione “e”: alcune lingue non la possiedono, oppure dispongono di
connettivi più specifici di “e” (connettivi per la congiunzione sequenziale vs. Non sequenziale degli
eventi).
Per quanto riguarda la congiunzione disgiuntiva: alcune lingue sono sprovviste di tale congiunzione
e si servono della semplice giustapposizione; altre dispongono di due connettivi che esprimono o
“alternativa semplice” o “alternativa finalizzata alla scelta”.

Connettere senza connettivi? È possibile?


 Si, con i “converbi”, forme verbali non finite (come i nostri gerundi o i participi).
 Si, con alcune strategie di concatenazione è manifestata dalla flessione verbale che codifica la
presenza e il tipo di relazione tra gli eventi: ci si trova di fronte a lunghe catene di frasi con verbi
non finiti, tutti dipendenti dal verbo della frase finale. Questi verbi non finiti hanno comunque un
morfema di switch reference che indica la presenza di connessione interfrasale e l’identità o
diversità del soggetto della frase successiva.

Capitolo 5: La categorizzazione del tempo e della realtà / irrealtà


L’espressione della temporalità e dell’irrealtà sono molto diversificate, specialmente tra lingue che
appartengono a famiglie diverse, sia sul piano strutturale che su quello funzionale.
L’Arcodia-Mauri prende in considerazione tre aspetti:
 Tenselessness (assenza di marche temporali nel verbo);
 Marche della realtà / irrealtà;
 Marche di tempo e realtà su SN.

LINGUE SENZA MARCHE DI TEMPO


Sono attestate in famiglie diverse e distanti tra loro. Per esempio, nel cinese i verbi non ricevono
affissi flessivi che codificano il tempo verbale (non ha morfemi di genere e numero, tempo e aspetto
e modo verbale). Ci sono quindi altre strategie per codificare il tempo. In altre lingue, se una frase
avente un verbo con marca dell’imperfettivo (mi vesto, correvo) viene estrapolata dal contesto,
potrebbe avere diverse interpretazioni temporali.
Quali strategie alternative esistono ai morfemi temporali? Informazioni contestuali, proprietà
aspettuali del verbo (cercare è imperfettivo, trovare è perfettivo), marche aspettuali esplicite (per
esempio alcuni verbi si riferiscono ad azioni già sperimentate almeno una volta, altre marche invece
sono progressive, quindi conducono a un’interpretazione presente), marche modali e elementi
lessicali come avverbi o particelle temporali.

STRATEGIE PER PARLARE DI IRREALTÀ


Da un punto di vista funzionale, un evento reale è un evento che si è realizzato o si sta realizzando,
mentre un evento irreale non si è (ancora) realizzato (per diversi motivi: desiderio, ipotesi,
possibilità ...) o eventi esplicitamente negati.
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Linguistica generale – secondo semestre

Se pensiamo all’italiano, abbiamo diverse possibilità (morfemi che indicano il futuro, i


condizionali, i congiuntivi ect, avverbi modali), ma esistono anche lingue che hanno sistemi binari
(rigidamente dicotonici) o ternari per codificare direttamente un evento come reale o irreale. Alcune
marche o morfemi che indicano realtà o irrealtà codificano anche altre categorie grammaticali,
come la persona, una relazione interfrasale come l’identità o meno del soggetto. Alcune lingue
presentano un’alternanza della radice verbale.

MARCHE NOMINALI (TAM)


Anche i nomi (SN) possono veicolare tempo, aspetto e modo in alcune lingue. Anche noi abbiamo
delle forme che indicano la temporalità nominale (futuro). Sono però piuttosto limitati e non si
possono utilizzare per tutti gli elementi nominali.
In alcune lingue invece queste marche sono molto utilizzate per indicare tempo, aspetto e modo e
queste distinzioni TAM devono essere:
 Produttive per indicare un intera classe di parole;
 Non sono limitate ai nomi che fungono da predicati nominale, valgono invece per tutti gli
argomenti del verbo;
 Si attaccano fonologicamente al sintagma nominale (quindi sono morfemi lessicali a tutti gli
effetti).
Queste marche nominali TAM possono esprimere temporalità o fattualità del referente nominale
(TAM nominale indipendente), oppure riferirsi all’intera proposizione, codificandone così le
categorie di tempo, modo e aspetto (si parla di TAM nominale proposizionale).
Questi fenomeni vengono studiati principalmente in sincronia, ma in realtà questi usi sono risultati
di percorsi diacronici particolari locali che non sono ancora stati indagati a fondo.

Capitolo 6: I suoni delle lingue


I suoni delle lingue sono la prima cosa che percepiamo quando ci accostiamo ad un idioma
straniero.
Questo capitolo è diviso in 5 macroaree.
 Nella parte introduttiva ci sono delle curiosità relative all’inventario dei fonemi che varia in modo
marcato nella consistenza: per esempio, ci sono lingue con 11 fonemi mentre altre lingue hanno
117 consonanti di una lingua.
 Analisi dell’articolazione delle vocali —> non solo quelle realizzate all’interno del nostro
trapezio vocalico, ma anche faringalizzate, stridenti, mormorate, tese, rilassate, etc.
 Analisi dell’articolazione delle consonanti (pneumoniche —> aria che fuoriesce dai polmoni vs.
non pneumoniche —> eiettive, iniettive).
 Particolarità fonotattiche: come viene costituita la sillaba (in italiano e nelle lingue romanze il
nucleo di sillaba solitamente è una vocale).
 Lingue tonali.

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