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Al giorno d’oggi non si è ancora sicuri dell’esatto numero di lingue esistenti al mondo, poiché certe
aree sono poco studiate e poiché esistono realtà plurilingui (in cui coesistono una lingua standard e
delle minoranze, come per esempio i dialetti).
Esistono 2 tipi di classificazione di una lingua:
Classificazione genealogica, ovvero per famiglie (comparazione del lessico fondamentale);
Classificazione tipologica, a sua volta suddivisa in:
o Classificazione morfologica (somiglianze e differenze nella struttura della parola);
o Classificazione sintattica (in primis sulla base dell’ordine delle parole).
CLASSIFICAZIONE GENEALOGICA
Un criterio di classificazione delle lingue è il criterio genealogico: significa che due o più lingue
rimandano a un ascendente comune, ovvero una somiglianza formale (significante) e semantica
(significato). Una parentela genealogica è la prossimità semantica e formale; continuazioni (con
cambiamenti) regolari dal latino. Grazie all’ascendente comune si possono poi stabilire le modalità
di trasformazioni tipiche che riguardano le singole parole.
In Europa sono rappresentate due grandi famiglie di lingue: la famiglia indoeuropea e la famiglia
ugro-finnica. In queste due famiglie vi rientrano quasi tutte le lingue che oggi formano lo “spazio
linguistico” europeo.
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Linguistica generale – secondo semestre
Lingue germaniche: la fase ascendente viene data per presupposta e deve essere ricostruita.
La famiglia indoeuropea
Lingue romanze
Lingue baltiche
Lingue slave
Lingue germaniche
Lingue celtiche
Albanese
Greco
Armeno
Lingue indo-iraniche
Le lingue romanze
Sul territorio della nostra Penisola vi erano anticamente numerose lingue del gruppo italico: tra
queste emerse il latino, la lingua di Roma. Dagli usi del latino nei diversi territori dell’Impero
Romano si è sviluppato il gruppo delle lingue romanze.
Con il termine Románia si intende il vasto territorio linguistico delle parlate romanze. Essa si
distingue in orientale e occidentale: all’area orientale appartiene il romeno (lingua ufficiale della
Romanìa), e una sua varietà, il moldavo (lingua ufficiale della Moldova). Nella Románia
occidentale le lingue più importanti sono il francese, lo spagnolo, l’italiano, il portoghese; vi è poi il
catalano, il sardo e la serie delle lingue reto-romanze.
In Europa il francese è lingua ufficiale, oltre che in Francia, in Vallonia, nella Confederazione dei
Belgi e nella Confederazione Elvetica. Fuori dall’Europa ha invece una posizione di assoluto
prestigio in molti stati africani e nel Québec, provincia canadese.
Il reto-romanzo è l’eredità della latinità alpina. Le varietà occidentali costituiscono il romancio del
Canton Grigioni, in Svizzera; le varietà centrali formano il ladino dolomitico; le varietà orientali
costituiscono lo spazio del friulano.
Lo spagnolo, oltre alla varietà castigliana della Spagna, è distribuito su tutto il continente latino-
americano, con una serie di varietà che si distinguono in parte dallo spagnolo castigliano. In
Catalogna, nelle Baleari e nel territorio di Valencia, il catalano è lingua ufficiale insieme allo
spagnolo castigliano.
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Linguistica generale – secondo semestre
Il portoghese è, insieme allo spagnolo, lingua ufficiale anche del Brasile, ma vi sono anche in
questo caso molte differenze con lo standard ufficiale del Portogallo.
Il gruppo baltico
Questo piccolo gruppo è rappresentato dal lituano e dal lettone, lingue ufficiali dei rispettivi stati.
Fino al XVII secolo, nella Prussia orientale si parlava il prussiano; gradualmente i parlanti del
prussiano abbandonarono la loro lingua in favore del tedesco.
La Slavia linguistica
Le lingue slave sono ripartite in orientali, occidentali e meridionali.
Le lingue della Slavia orientale sono il russo, il bielorusso e l’ucraino. Quelle meridionali sono il
bulgaro, il macedone, lo sloveno e il serbo-croato. Le lingue slave occidentali sono invece il
polacco, il ceco, lo slovacco e il sorabo (o serbo-lusaziano).
I testi slavi di più antica attestazione appartengono alla lingua di cui si servirono Cirillo e Metodio
per tradurre i testi sacri: tale lingua è chiamata slavo ecclesiastico, ed è sviluppata da dialetti
meridionali dell’area bulgara.
Le lingue germaniche
Le lingue germaniche sono suddivise in orientali, occidentali e settentrionali.
Fra le orientali ricordiamo il gotico, che soprattutto con la Bibbia tradotta dal vescovo Ulfila nel IV
secolo, ci offre i testi germanici di più antica attestazione. Le lingue tuttora parlate del sottogruppo
occidentale sono l’inglese, il neerlandese, e il tedesco. Al sottogruppo settentrionale appartengono
invece l’islandese, lo svedese, il danese e il norvegese. Tutt’oggi in Norvegia vi sono due standard,
il bokmål e il nynorsk.
Le parlate tedesche sono tradizionalmente suddivise in alte (con i gruppi alemanni e bavaresi,
collocati nei territori meridionali), medie (con i gruppi franconi, al centro), e basse (a settentrione).
Il gruppo celtico
Delle lingue indoeuropee minori, quelle celtiche sono quelle più minacciate di estinzione.
Il celtico si divideva anticamente in insulare e continentale; quest’ultimo comprendeva lingue
parlate delle Gallie (la Francia e l’Italia nord-occidentale), nella Penisola Iberica, e nell’odierna
Germania: si ritiene che si siano estinte tutte entro il 500 d.C.
A sua volta, il celtico insulare è suddiviso in due tronconi: il gaelico, con l’irlandese e lo scozzese, e
il britannico o brittonico, con il gallese e il bretone. Un’altra lingua brittonica, il cornico, era parlata
in Cornovaglia fino al XVIII secolo. L’idioma gaelico dell’isola di Man, il manx, si è invece estinto
nel nostro secolo.
L’albanese
L’albanese è a sé stante, ed è diviso abitualmente nelle varietà del ghego (al nord dell’Albania) e del
tosco (nell’Albania meridionale). Comunità albanesi si trovano inoltre in Macedonia, in
Montenegro, in Kosovo, in Sicilia e nell’Italia meridionale.
Il greco
Per la storia culturale della Cristianità d’Oriente e d’Occidente sono fondamentali le lingue del
gruppo greco, soprattutto i dialetti ionici e attici. I dialetti attici costituiscono la base della lingua
comune (koiné diálektos), diffusasi nel IV secolo a.C.
L’armeno
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Linguistica generale – secondo semestre
Un gruppo a parte è costituito dall’armeno, che oggi è rappresentato dalla lingua della repubblica
caucasica con capitale Erevan, l’Armenia.
L’armeno è attestato a partire dal V secolo d.C., nell’Anatolia. Fino alla Prima guerra mondiale, la
lingua armena era molto diffusa anche nella Turchia ottomana, ma negli anni fra il 1916 e il 1918
gruppi dell’élite ottomana provocarono lo sterminio di circa un milione e mezzo di armeni. Da
allora gli armeni vivono sparsi in Europa occidentale, in America, e nel Medio Oriente.
Le lingue indo-iraniche
In questo gruppo sono annoverate molte lingue europee dell’India: tra le più rilevanti ci sono
l’hindi, lingua ufficiale, e il bengali; in Pakistan si parla l’urdu, una varietà di hindi.
Vi sono poi le lingue iraniche: fra quelle oggi parlate ci sono il farsi o persiano, lingua ufficiale
dell’Iran, il dari e il pashto, che sono lingue dell’Afghanistan, il curdo, il tagiko (parlato in
Tagikistan), e l’osseto (diffuso nell’Ossezia, una repubblica autonoma della Russia).
Nel gruppo indo-iranico sono incluse anche le diverse parlate romaní (lingue dei Rom), dette anche
parlate zingare.
La famiglia ugro-finnica
Non rientrano nelle due grandi famiglie linguistiche d’Europa il basco, parlato in regioni pirenaiche
degli stati spagnolo e francese, e il maltese, una lingua semitica originaria del Maghreb.
Lingue altaiche
Sono articolate nella famiglia mongola (nella Mongolia, in Cina e in Siberia), tungusa (nella Siberia
orientale e nella Manciuria), e turcica. Alla famiglia turcica appartengono il turco, l’azero, l’uzbeko,
il kazako, il kirghiso e il turkmeno: sono le lingue ufficiali di Turchia, Azerbajdzan, Uzbekistan,
Kazachstan, e Kirgizistan.
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Linguistica generale – secondo semestre
Lingue camitiche
Questa famiglia camitica comprende l’egiziano (la lingua delle iscrizioni geroglifiche), e il copto
(estinto nel XII secolo); da esso derivano il berbero e il cuscitico, diffusi in Etiopia e nel Corno
d’Africa.
Le lingue semitiche
Oggi sono rappresentate da un gruppo settentrionale e da uno meridionale.
Il primo comprende l’ebraico antico e l’aramaico. Il secondo si articola a sua volta in due
sottogruppi: le lingue arabe (l’arabo classico ne è il massimo rappresentante) e le lingue etiopiche,
fra le quali vi è l’amarico, lingua ufficiale dell’Etiopia.
Le lingue sino-austriche
La famiglia sino-tai comprende il cinese (con altre lingue della Cina) e il tai (nella Tailandia).
Seguono le lingue tibetane e birmane.
Infine, vi è la famiglia austrica, che annovera le lingue maleo-polinesiane (malgascio in
Madagascar, malese in Malesia, e alcune lingue parlate in Indonesia) e le lingue austro-asiatiche
(vietnamita).
Sono isolate lingue come il giapponese (per il quale si ipotizza anche un legame con le lingue
maleo-polinesiane) e il coreano.
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Linguistica generale – secondo semestre
tutte le lingue hanno sillabe con struttura CV; tutte le lingue hanno parole, sintassi, frasi; tutte le
lingue hanno una costruzione negativa, ecc).
Universali implicazionali: se A, allora B (es. se una lingua ha la categoria del genere allora ha
sempre anche la categoria del numero = non ci sono lingue che marcano la categoria del genere
ma non quella del numero; se una lingua ha vocali nasali allora ha sempre le vocali orali, ecc).
Gerarchie implicazionali: se A, allora B, se B allora = catene di implicazioni (es. gerarchia dei
valori di numero = triale > duale > plurale > singolare -> non esistono lingue che marcano ad es.
il triale ma non il plurale).
Lingue flessive (o fusive): italiano, latino, russo, lingue indoeuropee fase antica e semitiche.
Sono lingue che presentano strutture di parole abbastanza complesse, ma tendenzialmente più
semplici rispetto alle lingue agglutinanti. Presentano una distinzione fra radici/temi e desinenze, ma
la complessità di queste lingue sta nel fatto che ogni morfema può manifestare una pluralità di
funzioni (ogni morfema può quindi essere polivalente): pertanto l’articolazione di queste parole
risulta meno trasparente rispetto a quella delle lingue agglutinanti. Presentano anche un’alta
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Linguistica generale – secondo semestre
allomorfia, diversi casi di cumuli, amalgama morfematici e sincretismo. I confini di parola sono
chiari. L’indice di sintesi è solitamente 2:1 (italiano) o 3:1.
Sottogruppo (o sottotipo) introflessivo: maltese, ebraico, arabo, ecc.
Presenta fenomeni di flessione all’interno della radice lessicale. L’informazione lessicale è
affidata a combinazioni di consonanti (tipicamente 3 = radice triconsonantica tipica dell’arabo),
e l’informazione grammaticale viene invece veicolata dalle vocali, inserite ‘a pettine’ nelle
radici: in questo caso si parla di transfissi.
Non mancano naturalmente le eccezioni, date dal fatto che l’appartenenza di una lingua a un tipo è
tendenziale e non è mai assoluta: sono quindi possibili degli spostamenti, ci sono strutture
parentetiche (in tedesco e olandese si ha ad esempio la posizione “fissa del verbo”), e possibili
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Linguistica generale – secondo semestre
variabili che permettono ad alcune lingue di avere un ordine di parole “libero” (in latino sono
possibili 3 strutture informative a partire dagli stessi costituenti).
Secondo Greenberg l’ordine dei tre elementi fondamentali determina anche altri aspetti della
sintassi (preposizioni, posposizioni, posizione dell’aggettivo rispetto al nome); in particolare,
determina l’ordine all’interno dei singoli sintagmi. L’elemento caratteristico del sintagma è la testa,
quindi non possono esistere sintagmi senza una testa. Ci sono lingue che hanno la testa del sintagma
inziale (o a sinistra), e lingue che hanno la testa finale (o a destra).
Prendiamo in considerazione il rapporto che lega il verbo e l’oggetto. Le lingue di tipo VO (con
testa a sinistra o iniziale) vedranno:
un sintagma verbale composto da V + O (es. mangio il gelato);
un sintagma preposizionale composto da Prep + SN (es. con Luigi);
un sintagma nominale composto da N + complementi (es. gelato alla fragola), N + frasi relative
(es. Luca, che è un bravo ragazzo), e N + aggettivi (es. casa rossa).
Le lingue che presentano l’altro tipo, OV (con testa a destra o finale), presenteranno:
un sintagma verbale con ordine O + V;
un sintagma preposizionale con ordine SN + Prep;
un sintagma nominale con ordine complementi, frasi relative e aggettivi + N.
Si tratta naturalmente di un’analisi statistica, in quanto stiamo parlando di ordini non marcati. Non è
quindi escluso che le lingue classificate come SOV o SVO possano assumere ordini delle parole
differenti. Bisogna sottolineare che l’appartenenza delle lingue a un tipo specifico non è assoluta,
perchè esistono lingue miste oppure lingue che, sebbene non appartengano a un tipo, ne possano
presentare delle caratteristiche. L’italiano ad esempio non è un tipo SVO puro. È puro quando
consideriamo l’ordine all’interno dei sintagmi preposizionali (costituiti da Prep + N, es. di Pietro);
per il fatto che le relative sono post-nominali (es. l’uomo che ho visto), e i SPrep sono post-
nominali entro il sintagma nominale (es. il libro di Pietro); è puro anche perchè gli aggettivi
seguono spesso (ma non sempre) il nome. Ci sono però delle strutture che non si conformano alle
caratteristiche del tipo SVO, e che fanno quindi dell’italiano un tipo “non puro”: a volte gli
aggettivi precedono il nome (es. enormi difficoltà), come gli avverbi precedono gli aggettivi (es.
abbastanza bene), e gli aggettivi possessivi precedono i nomi (es. i miei libri).
Il giapponese invece è un tipo SOV puro, perché gli aggettivi e le relative precedono il nome da essi
qualificato; i SP all’interno di un SN precedono la testa del SN stesso; sono presenti postposizioni e
non preposizioni (SN + P); le frasi subordinate precedono la frase principale: gli avverbi precedono
i verbi.
CLASSIFICAZIONE SUBJECT-PROMINENT E TOPIC-PROMINENT
Esiste un’altra tipologia di classificazione, sempre sintattica, che divide lingue subject-prominent
(lingue europee occidentali, turco), da lingue topic-prominent (cinese).
Le lingue subject-prominent sono quelle lingue le cui frasi sono costruite secondo lo schema
soggetto-predicato.
Le lingue topic-prominent sono invece quelle lingue le cui frasi sono costruite secondo lo
schema topic-comment (o tema-rema), isolando il tema in prima posizione.
Le lingue miste (come il giapponese) sono miste tra subject-prominent e topic-prominent.
Uno studioso tedesco, Heinz Kloss, distingue due fattori importanti per caratterizzare una lingua: la
distanziazione e l’elaborazione.
La distanziazione riguarda la differenziazione tra le lingue, ovvero una lingua si differenzia
dalle altre per lessico, grammatica e fonologia. La maggiore distanza esiste tra le lingue
nazionali, e la minore distanza tra le lingue locali, come i dialetti parlati in territori più piccoli.
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Linguistica generale – secondo semestre
La distanza strutturale è riconosciuta o riconoscibile, ma non è detto che per questo motivo i
parlanti siano disposti a vedervi una differenza o un confine linguistico; è anche possibile che i
parlanti vedano differenze anche dove non ci sono o dove sono molto sfumate: questo accade
perché i parlanti tendono a far coincidere il confine linguistico con il confine politico. Si usa
quindi la lingua anche per distinguere uno Stato dagli stati vicini.
L’elaborazione è legata all’uso e alla diffusione di una lingua. Tipica lingua per l’elaborazione è
la lingua standard o ‘nazionale’, che è codificata (con grammatiche e vocabolari) e riconosciuta
dalle istituzioni; per queste ragioni ha prestigio sociale. L’appartenenza allo stato-nazione
produce un sentimento di appartenenza a una lingua (detta lingua ‘nazionale’), che influisce sui
dialetti e sulle lingue locali. In Italia c’è l’italiano standard come ci sono lingue locali “storiche”
(veneziano, milanese, genovese, napoletano), lingue locali minori o lingue locali composite, che
derivano da un contatto più recente. A sua volta l’italiano standard domina varietà di altre lingue
romanze (ladino dolomitico, friulano, sardo, francese, franco-provenzale, catalano), varietà di
lingue non romanze diffuse in Italia o zone di confine (tedesco, sloveno, albanese), e il romanì,
ovvero la lingua parlata da rom e zingari. Per tutte queste lingue l’italiano rappresenta la ‘lingua
tetto’, che domina le altre lingue e non è dominata da alcuna di esse.
Una comunità linguistica è l’insieme di tutte le persone che parlano una determinata lingua o varietà
linguistica e ne condividono le norme d’uso. Da un punto di vista sociolinguistico, la comunità
linguistica non è vista come omogenea, ma è considerata ‘stratificata’; una comunità linguistica di
una certa estensione è quindi per definizione qualcosa di “differenziato”.
La competenza comunicativa è la capacità di usare la lingua nei modi che sono appropriati alle varie
situazioni, ma è anche la capacità di usare il codice adattandolo agli aspetti extralinguistici (sociali,
culturali e pragmatici) implicati nello scambio verbale e che formano un tutt’uno con gli altri codici
del comportamento comunicativo (linguaggio gestuale, mimica, aspetti vocali, ecc).
Per evitare il dibattito sulle differenze tra lingua e dialetto è possibile impiegare il termine “varietà”,
che denota uno strumento di comunicazione verbale diffuso all’interno di una comunità. Una
comunità può disporre di più varietà, che possono avere funzioni simili oppure diverse tra di loro.
L’insieme delle varietà forma il repertorio linguistico, inteso come l’insieme delle risorse
linguistiche accessibili a una comunità linguistica o a un parlante. Nel primo caso si parla di
repertorio comunitario, nel secondo caso di repertorio individuale: è l’insieme dei codici e delle
varietà linguistiche che un parlante è in grado di padroneggiare all’interno del repertorio più ampio
della comunità a cui appartiene.
Parliamo tutti “la stessa lingua” (= apparteniamo alla stessa comunità linguistica), ma questa lingua
presenta al suo interno una serie di varietà che non tutti parlano. Una comunità può infatti disporre
di più lingue, che possono essere gestite in modi diversi dagli individui: c’è chi parla più lingue, c’è
chi ne usa una sola ma è in grado di comprenderne altre. In questo senso i parlanti di una comunità
sono essenzialmente plurilingui, con competenze attive (legate alla produzione) e passive (orientate
alla ricezione). La comunità stessa è plurilingue perché non parla una sola varietà, ma parla o è
competente, quantomeno in modo passivo, di più varietà.
La variazione della lingua può essere correlata alla variazione dei fattori della comunicazione
(diacronia, diatopia, diastratia, diafasia, diamesia). Le possibilità di varietà riguardano le variazioni
sull’asse:
diacronico (tempo);
diatopico (luogo);
diastratico (strati, gruppi, reti sociali);
diafasico (situazioni comunicative);
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Linguistica generale – secondo semestre
Una variazione cui si può attribuire un significato sociale è una variabile. Una variabile è l’insieme
dei modi con i quali i parlanti possono realizzare una data unità di un sistema linguistico in funzione
di una data variazione di tipo sociale. Ciascuno di questi modi è detto variante, ed esistono varianti
fonologiche, morfologiche e lessicali. Le realizzazioni di queste possibili variabili sono diverse ma
sono equipollenti, ovvero non toccano il significato di codice, il significato referenziale di una data
struttura a livello di sistema (es. sinonimo papà / babbo = il significato referenziale rimane lo stesso
sia che io usi una varietà locale piuttosto che un’altra).
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Linguistica generale – secondo semestre
Una stessa lingua può avere più varietà standard (es. portoghese di Lisbona vs portoghese di Rio).
Le variazioni sono dovute all’ambiente sociale, per cui le categorie più spesso utilizzate per far
emergere la varietà diastratica sono di due tipi:
riferimento a caratteristiche sociali, come il livello di istruzione, occupazione sociale, modelli
culturali, modelli di comportamento, di riferimento, ecc;
riferimento a dati anagrafici, per esempio l’età (gergo giovanile) e il sesso.
Esistono tre forme di variabilità diastratica o sociale:
Lingue settoriali
Sono linguaggi specialistici che si collocano a cavallo tra diafasia e diastratia; sono lingue
caratterizzate da parole, espressioni e termini tecnici di un ambito specialistico, di settori
dell’attività umana (medicina, musica), di gruppi professionali. I linguaggi settoriali sono
caratterizzati da un’articolazione verticale, che distingue tra livelli alti (= linguaggio settoriale
teorico, usato in connessione con il registro formale, soprattutto in testi scritti come i trattati
specifici) e livelli bassi (= linguaggio settoriale applicativo e pratico, impiegato in testi scritti come
i manuali d’istruzione e in testi orali come la conversazione tecnica in officina o laboratorio).
Socioletto e idioletto
Socioletto: varietà linguistica “regolare” tipica di una classe sociale, di un gruppo etnico-geografico,
o di un gruppo di persone con caratteristiche comuni. Si ha un socioletto quando la scelta di
determinate varietà ricorre con regolarità e non è più lasciata all’iniziativa del parlante.
Idioletto: insieme degli usi linguistici caratteristici e propri di un singolo individuo.
Gerghi
“Gergo” è un termine usato comunemente per definire delle varietà di lingua che vengono utilizzate
da specifici gruppi di persone e che si sono sensibilmente allontanate dalla lingua o dal dialetto
parlato normalmente in zona. Il gergo è una forma di linguaggio utilizzata da certi gruppi sociali per
evitare la comprensione da parte di persone estranee al gruppo. Consiste nella sistematica
sostituzione di numerosi vocaboli della lingua comune con altri vocaboli, o di origine straniera
(anche indigeni), ma con significato mutato (es. furbesco = gergo della malavita; gaì = gergo dei
pastori camuni; il gergo degli studenti -> vado in Montini (aula al 2° piano) ecc).
Intersezioni
È spesso emerso che molte variabili diastraticamente significative sono altrettanto significative ai
fini della variazione diafasica: ad esempio, varianti colte -> massimo di formalità; varianti incolte o
basse -> massimo di informalità.
Generalmente la variazione diafasica è vista come secondaria e derivata, specchio o eco della
variazione sociale, anche se esiste un punto di vista opposto.
La distinzione tra variabilità diastratica e variabilità diatopica non sempre può essere stabilita in
modo netto (soprattutto in una situazione come quella italiana in cui la dialettofonia ha sempre
giocato un ruolo nel repertorio dei parlanti ed è tutt’ora vitale).
Varietà diamesiche
L’asse diamesico è legato alla variazione del mezzo impiegato, che può essere fonico (nel parlato) o
grafico (nello scritto).
Un testo orale ha a disposizione strutture assenti nello scritto: le pause, il ritmo, l’intonazione
trovano scarsa registrazione nella forma grafica. Inoltre, nella comunicazione orale le battute si
avvicendano rapidamente e gli interlocutori hanno poco tempo per costruire il proprio testo.
Nello scritto, invece, è possibile riflettere, rielaborare, correggere. La sintassi dello scritto non si
ritrova nel parlato, le ripetizioni del parlato non sono riprese nella forma scritta, e gli errori tollerati
nella versione orale sono inaccettabili nella pagina scritta.
La diglossia si rileva quando due lingue distanti per struttura si usano in domini distinti (cioè non si
sovrappongono funzionalmente); una tiene i domini alti, l’altra quelli bassi: la lingua alta è di solito
quella nazionale, mentre la lingua bassa è la lingua della conversazione quotidiana. Il caso tipico è
dato dalla diglossia fra il tedesco standard e il dialetto svizzero nei cantoni tedescofoni della
Svizzera.
La dilalia è simile alla diglossia, tuttavia vi è una parziale sovrapposizione funzionale. Per esempio,
vi è dilalia quando l’italiano ha tutti gli ambiti d’uso, potendo essere impiegato sia nei domini alti
sia in quelli bassi, e la lingua locale è solo lingua degli usi bassi. Lingua nazionale e lingua locale
possono dunque sovrapporsi, ed è frequente la commutazione di codice, cioè l’alternanza delle due
lingue nella comunicazione.
La dialettia sociale (o bi-dialettismo o polidialettismo) è simile alla dilalia, ma le due varietà non
hanno distanza strutturale: la lingua bassa non è avvertita come una lingua diversa da quella alta. È
il caso del rapporto fra italiano e varietà locali in Toscana, ma la dialettia sociale caratterizza anche
il rapporto fra l’inglese e le sue varietà, quali l’americano, l’australiano e il britannico.
Pidgin e creoli
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Linguistica generale – secondo semestre
Quando un pidgin espanso si assesta, può aver luogo una fase di ulteriore espansione. Il bagaglio
lessicale aumenta, cresce il numero di funzioni sociali e il pidgin si avvicina allo statuto di una
lingua non standard. A quel punto può avvenire che emerga una generazione che acquisisca tale
idioma come prima lingua. Il pidgin evolve e diventa un creolo. Possiamo dunque considerare il
creolo come un pidgin espanso, che si è evoluto fino a diventare lingua materna. In diverse
comunità linguistiche (in particolare nelle Antille, a Haiti e in Giamaica) una varietà creola è una
lingua bassa, mentre la lingua alta è una lingua come l’inglese o il francese. Per l’influsso del
modello di prestigio, il creolo può iniziare un lento e costante avvicinamento allo standard. Prende
avvio così un processo chiamato decreolizzazione. Partendo dal basiletto (la parlata creola) si sale
verso il mesoletto (una varietà intermedia fra il creolo originario e una varietà non standard della
lingua base), per giungere all’acroletto, ossia alla varietà più elevata nel canale di decreolizzazione.
L’Italia è forse il paese linguisticamente più ricco e complesso di tutta l’Europa, perché vi sono
ospitate comunità di almeno 5 gruppi linguistici diversi della famiglia indoeuropea (romanzo,
germanico, slavo, albanese, greco). Le vicende storiche hanno condotto numerose comunità a
insediarsi in territori d’Italia che sono lontani dalle rispettive terre d’origine (albanesi, catalane,
greche). A volte in proposito si usa il termine ‘isola linguistica’, mentre si parla di ‘penisole
linguistiche’ quando il confine politico interrompe la continuità con il territorio della comunità
linguistica che predomina in uno Stato confinante (il tedesco in Tirolo, lo sloveno a Trieste, il
francese in Valle d’Aosta).
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Linguistica generale – secondo semestre
Varietà grecaniche
Dopo secoli nei quali la grecità era assai diffusa nei territori meridionali d’Italia, continuano a
esistere varietà di greco in Calabria, nella Bovesia e nel Salento.
Lingua franca
La lingua franca, intesa come lingua che viene utilizzata come strumento di comunicazione
internazionale o comunque tra persone che parlano una lingua differente rispetto alla lingua madre,
è molto diffusa. In epoche passate si usavano il greco antico, il latino, il ligure, un dialetto derivato
dal veneziano e parlato nel medioevo in tutti i porti francesi e del Medioriente.
La lingua franco-mediterranea è un “sabir” che si utilizzava nel bacino del Mediterraneo dalle
crociate fino all’800. Il nome “sabir” è una storpiatura del catalano “saber”. La nozione di lingua
franca deriva invece dall’arabo, e si traduce con ‘lingua europea’. Questa lingua franco-
mediterranea o sabir aveva una base lessicale prevalentemente italiana, costituita soprattutto dal
genovese e dal veneziano, mentre il restante 30% era costituito da altre lingue mediterranee come
arabo, catalano, greco, occitano, siciliano e turco. La morfologia era molto semplice, l’ordine delle
parole libero, e vi era un gran uso di preposizioni per supplire alla mancanza di alcune classi di
parole, poiché si trattava di una lingua semplificata, con un numero limitato di tempi verbali.
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Linguistica generale – secondo semestre
Il primo documento in questa lingua risale al 1296, e si tratta del più antico portolano (libro che
elenca i porti in modo dettagliato) relativo alla totalità del Mediterraneo, “Con passo da navegare”.
Questo ci dice che fino alla fine dell’800 non esisteva una lingua franca mediterranea con base di
lingua italiana (o di lingue italiane).
CONTATTI DI LINGUE
Vittore Pisani osserva che ogni lingua è, ad ogni suo momento, il risultato della convergenza di
elementi giunti da ogni parte agli uomini che la creano. Per “lingua” egli intende ciò che vi è di
comune in un complesso di eventi verbali o semiotici prodotti da un aggregato sociale, come ad
esempio una comunità professionale, storica-territoriale, una società eterogenea, ecc.
Già alla fine dell’800, H. Schuchardt osservava che non esistono lingue che non siano miste.
Secondo lui, le lingue sono sottoposte a processi di arricchimento espressivo incessanti. Ogni lingua
si presenta in ogni momento come un sistema geologico di sedimenti di origine diversa e tratti in
epoca diversa. In italiano, ad esempio, riscontriamo elementi greci, latini, provenzali, arabi, turchi,
spagnoli, tedeschi e inglesi; tutti questi elementi “convivono” nel sapere del parlante. Si ricordano
innumerevoli casi di prestiti, il cui processo di assimilazione è giunto a un punto tale per cui queste
parole non tradiscono più le loro origini straniere: parole come gioia, giardino, formaggio, mangiare
e treno derivano tutte dal francese per esempio.
L’interlinguistica studia la fenomenologia delle relazioni tra le lingue, quindi le condizioni o gli
effetti. Gli effetti sono però ormai talmente interiorizzati che non vengono più percepiti come tali
(ad es. i nomi propri Alessandro e Caterina sono di matrice greca, Anna e Giovanni di origine
ebraica, Alberto e Aldo hanno discendenza germanica, ecc).
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Linguistica generale – secondo semestre
Prestiti
Un prestito è l’imitazione, la replica di un’espressione e di un suo uso. In una lingua, detta “lingua
replica”, viene utilizzato come modello un lessema originario di un’altra lingua, la “lingua
modello”. Non si può semplicemente importare una parola, ma deve essere utilizzato un modello,
perché i prestiti sono sottoposti a vari processi di acclimatamento e integrazione.
Con “prestito” si intende il fatto che un lessema passa nel suo insieme (cioè come unione di
significante e significato) da una lingua a un'altra. Per Fusco (in Che cos’è l’interlinguistica), un
prestito è «l’epilogo di un processo di interferenza tra due lingue, che si traduce nell’acquisizione
per mimesi da parte di una di esse di un tratto linguistico che esisteva prima del contatto in un’altra
lingua». Bisogna però dimostrare e rendere plausibile un rapporto d’imitazione, perché esistono
anche i “falsi prestiti”. Esistono poi i prestiti di necessità (per esempio, quando è nata la comunità
cattolica si sono presi termini dal greco e dal latino), e i prestiti di lusso (ad esempio nell’ambito
culinario, della moda).
L’integrazione è l’influsso esercitato dalla lingua replica nello sforzo di adeguare il termine di
tradizione straniera. Costituisce una fase cruciale nell’acquisizione dei prestiti.
La lingua ricevente può influire sul prestito in vario modo. Fondamentale è l’ambiente e
l’atteggiamento linguistico dei parlanti: gli ambienti colti tendono ad accogliere il prestito con
maggior fedeltà, mentre gli ambienti meno colti tendono ad adattarlo da un punto di vista grafico,
fonologico e grammaticale. Esistono diversi adattamenti dei prestiti.
Adattamenti fonologici e fonetici: tunnel, bus, spray; beige e garage, club -> pronuncia ing. vs
it.
Adattamenti semantici: ingl. Sport deriva dal fr. Desport (corrisponde all’it. diporto).
Adattamenti grammaticali: il relax (it) -> to relax (ing); chattare (it) -> to chat (ing); bluffare (it)
-> to bluff (ing).
Adattamento del genere (grammaticale) e della morfologia: il budget, la holding, la star (ma in
ted. der Stern -> maschile), lo show (ma in ted. die Show).
Adattamenti grafici: gol (dall’ing. goal), ragù (dal fr. ragout), bignè (dal fr. beignet).
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Linguistica generale – secondo semestre
La fortuna di un prestito può essere determinata per la sua affinità strutturale alle parole della lingua
ricevente. Per esempio, il prestito dal germanico ‘guerra’ ha sostituito in quasi tutta l’area romanza
il termine latino ‘bellum’ perché era troppo coincidente col latino ‘bellus’. Il latino ‘bellum’ è però
rimasto come base colta per alcuni derivati, come ‘bellico’ e ‘bellicoso’. Un altro esempio molto
comune è acqua -> idrico.
Un esempio dal latino alle lingue germaniche è il termine latino ‘discus’ (dal greco ‘diskos’), da cui
deriva ‘tisc’ in antico alto tedesco e Tisch nel tedesco odierno, ‘disc’ in antico inglese e oggi ‘dish’.
Alcuni prestiti dall’arabo sono entrati in Italia soprattutto tramite lo spagnolo. Un esempio è ‘zero’,
che deriva da ‘sifr’, che a sua volta deriva dal sanscrito ‘sunya’ = vuoto, deserto, nulla. Da ‘sifr’
deriva anche ‘cifra’, che inizialmente aveva il senso di ‘zero’.
Calchi
I calchi possono essere definiti come la conversione di un archetipo alloglotto mediante materiale
lessicale autoctono. Lo spunto da cui si origina l’interferenza non è tanto il significante, bensì il
significato. I calchi sono quindi frutto di un intervento più creativo e consapevole rispetto ai prestiti.
I calchi sono una ricreazione mimetica della conformazione interna di una parola o di un sintagma
(o frase) per mezzo di elementi propri della lingua replica. Per esempio, anche se un parlante ha
scarsa conoscenza del tedesco, può accogliere e utilizzare prestiti come ‘blitz’, ‘kaputt’, ‘würstel’;
solo un bilinguismo avanzato permette di riconoscere in ‘schiaccianoci’ un calco dal tedesco
‘Nussknacker’. Il calco comporta quindi un intervento più attivo e consapevole del semplice
adattamento di un prestito.
Distinguiamo ora tra calchi strutturali e calchi semantici. La parola o frase straniera:
Viene ‘ricalcata’ strutturalmente attraverso un nuovo elemento che, combinando materiali
indigeni, riproduce la forma (interna) e il significato della parola modello -> calchi strutturali.
Riverbera tratti del suo significato su un termine analogo della lingua replica, rimodellandone la
semantica -> calchi semantici.
Calchi strutturali
La struttura lessicale di una lingua è modello per una nuova parola, che viene costruita con gli
strumenti della lingua di arrivo. Il calco per lo più non è perfetto.
Condizione preliminare ed essenziale affinché un calco possa avere luogo è che il modello (la
parola straniera) sia segmentabile, cioè si possa articolare in costituenti inferiori interpretabili nella
loro funzione e valore. È fondamentale che ad essi corrispondano, nella lingua replica, altrettanti
elementi così da rendere possibile una riproduzione, se non perfetta, almeno approssimativa.
Un caso di riproduzione perfetta è ‘outlaw’ -> fuorilegge. Per lo più però le riproduzioni sono
imperfette, nel senso che il modello viene uniformato alle strutture proprie della lingua replica. Ad
esempio, se l’italiano opera un calco su un composto germanico, l’ordine dei costituenti può
invertirsi: flatfoot -> piedepiatto, social climber -> arrampicatore sociale, basketball ->
pallacanestro, Blitzkrieg -> guerra lampo (in italiano l’ordine è determinato-determinante). Nel
ricalco italiano della parola inglese ‘skyscraper’ -> grattacielo la ricostruzione del modello è invece
rielaborata.
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Linguistica generale – secondo semestre
Calchi fraseologici: prese singolarmente, le parole di queste frasi sono presenti in italiano, ma la
combinazione è del tutto nuova -> (nel lessico borsistico) spingere in territorio positivo < to
push into positive territory, fare buon viso a cattivo gioco < faire bonne mine à mauvais jeu;
Calchi prestiti: quando ci si limita a tradurre solamente un elemento del composto straniero ->
it. gap generazionale < ing. generation gap.
Calchi semantici
Tra i vari tipi di contatto interlinguistico i calchi semantici sono i più mimetizzati. Una parola già
presente nella lingua di arrivo (lingua replica) assume un ulteriore senso per influsso di una lingua
straniera. I diversi sensi che si vengono a creare all’interno di questa parola autoctona per influsso
del calco semantico non sono tra loro estranei: il calco semantico, infatti, non crea una nuova unità,
ma induce una polisemia nell’unità che è già presenta nella lingua replica. Nella lingua replica è
quindi necessario che ci sia un termine preesistente, il cui significato coincide con uno dei tratti
semantici del modello straniero. Esempi di calchi semantici sono: ‘diligenza’ con il significato di
“veicolo” sull’esempio del francese ‘carrosse de diligence’; ‘angolo’ (“calcio d’angolo”) è un
estensione semantica che rispecchia quella dell’inglese ‘corner’; ‘salvare (un file)’ dall’ing. ‘to
save’.
I calchi concettuali rientrano sempre nell’ambito dei calchi semantici. In questo caso però la lingua
replica procede in autonomia rispetto all’archetipo esogeno, mediante una riproduzione che non
abbia con esso una qualche relazione formale. Ad esempio, ‘oleodotto’ dipende da (oil) pipeline su
modello però di acquedotto. Nel contatto interlinguistico si trasmette un’esigenza di designazione,
però per questa designazione ci si ispira a termini già esistenti nella lingua replica. ‘Oleodotto’ di
fatto non è un calco su ‘pipeline’, ma è stato creato per rendere comunque il concetto evocato,
sollecitato dall’esigenza di individuare una replica a un elemento straniero, evitando però una mera
acquisizione del prestito e la sua riproduzione mediante un calco.
Linguaggio Mondo
Espressioni di lingue diverse possono avere un contenuto simile, che però è organizzato variamente.
In italiano, ad esempio, il verbo ‘entrare’ indica un movimento, che è codificato in un verbo
semplice. In inglese, invece, non basta usare il verbo ‘come’, ma bisogna aggiungere anche la
particella ‘in’ -> ‘come in’. In questo caso il verbo semplice viene affiancato da un indicatore, che
indica appunto movimento o ingresso, e si parla di elemento composto.
Vi sono però molti altri aspetti che lasciano intravedere la sensibilità della lingua verso la cultura. È
dunque possibile ritenere che una lingua offra un punto di vista sulla realtà e un’ipotesi
interpretativa sull’esperienza umana. Un esempio è la numerazione decimale tipica dell’italiano
rispetto alla numerazione vigesimale del francese (che si ritrova anche nel gallese e nel georgiano).
Riguardo a questo aspetto ci sono due posizioni.
Relativismo: afferma che la lingua incide anche sul modo di pensare.
Antirelativismo: la lingua non incide sul modo di pensare, ma è costruita così proprio perché
l’uomo legge la realtà in modo diverso a seconda della sua cultura.
La diversità delle lingue a livello lessicale attesta una pluralità di tentativi di cogliere l’esperienza.
Può succedere addirittura che varietà della stessa lingua categorizzino la realtà in modo differente.
La lettura della realtà può contribuire in modo decisivo alla comprensione sia delle particolarità sia
delle condivisioni culturali presenti in diverse strumentazioni espressive.
Motivazione
Molte strutture lessicali complesse (soprattutto le parole composte) sono trasparenti, poiché si
riconoscono le parti costituenti e si comprende il legame tra queste parti. Ad esempio, ‘cacciavite’ è
uno strumento per ‘cacciare’ (ovvero spingere, infilare) una vite; ‘portalettere’ è la persona che
porta le lettere nelle diverse case.
Attraverso le lingue si possono riconoscere motivazioni diverse, che sottendono a espressioni simili
per la denotazione. Questo si può rilevare soprattutto nelle parole di senso concreto, come ad
esempio ‘ferro di cavallo’, che viene tradotto in inglese da ‘horse shoe’ (scarpa per cavalli) e in
tedesco da ‘Hufeisen’ (ferro per lo zoccolo).
È importante però non affidarsi solo all’intuito, perché quella che sembra una motivazione in
sincronia, non lo è per esempio in diacronia, e l’assenza di trasparenza in sincronia non comporta
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Linguistica generale – secondo semestre
Pertinenza semiotica
Per l’organizzazione di qualsiasi sistema, non solo linguistico, sono fondamentali le differenze.
Un elemento può funzionare solo se si caratterizza in qualche modo rispetto ad altri elementi.
Un sistema lingua è formato da tanti segni, ognuno dei quali si differenzia dagli altri. Un segno è
tale perché non è tutti gli altri segni (A è A perché non è B e non è C).
Un esempio di pertinenza semiotica è dato dal fatto che in inglese ci sono tre termini obbligatori,
time, weather, e tense, che esprimono le differenze. Essi hanno quindi pertinenza semiotica, perché
danno luogo a differenze funzionali nella lingua. In italiano queste aree semantiche non sono
obbligatoriamente distinte, perché esiste soltanto il termine ‘tempo’, che è capace di farsi carico dei
diversi potenziali di significato delle tre unità dell’inglese (tempo cronologico, tempo atmosferico,
tempo verbale). Altri esempi sono liberty e freedom (libertà), security e safety (sicurezza).
La pertinenza semiotica è relativa a una lingua specifica, ed è una differenza semantica
istituzionalizzata, cioè di codice. La pertinenza semiotica funziona anche a livello grammaticale.
Per esempio, la posizione dell’aggettivo attributivo in italiano ha spesso funzioni semantiche
specifiche: un vecchio amico vs. un amico vecchio, i bravi studenti vs. gli studenti bravi (funzione
restrittiva), un pover’uomo vs. un uomo povero. In inglese il nesso sintattico è necessariamente
manifestato dall’anteposizione al nome, quindi per giustapposizione.
Nessun sistema linguistico è identico a un altro. Tra lingue vi è infatti anisomorfismo: ‘assenza di
isomorfismo’, ovvero assenza di ‘identità di forma’.
Oltre alla denotazione si parla anche di connotazione. L’aspetto connotativo di un termine è spesso
un significato ulteriore, che si aggiunge alla componente denotativa, che solitamente dice del
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Linguistica generale – secondo semestre
I nomi propri hanno solo estensione e non intensione. Evocano direttamente uno specifico oggetto o
individuo. La possibilità per un nome proprio di istituire una referenza dipende dalle conoscenze
che si hanno per esperienza diretta.
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Linguistica generale – secondo semestre
Gli indicali sono espressioni deittiche, caratterizzate dal fatto che il riferimento è vincolato alle
coordinate della situazione in cui avviene l’evento comunicativo/semiotico. Ego, hic et nunc: io, qui
ed ora. Le espressioni deittiche sono indicali, il cui significato può essere interpretato in relazione a
un sistema di orientamento, fornito di volta in volta dall’origo (o origine), che può essere personale,
temporale, spaziale, ecc. Gli indicali non denotano il referente a cui rimandano, ma “danno
informazioni su”. Per esempio, “oggi” = nel giorno presente, cioè nella giornata solare a cui
appartiene il momento in cui si parla; “egli” = pronome dimostrativo, usato come pronome
personale maschile di terza persona singolare.
Deissi personale (io, tu, egli, noi, voi, loro): l’origine è il mittente del messaggio;
Deissi spaziale (questo, quello, codesto): l’origine è costituita dalla posizione del parlante nel
momento del proferimento; è un po’ in disuso al giorno d’oggi;
Deissi temporale (ora, ieri, domani) : l’origine è il momento del proferimento;
Deissi testuale (logodeissi): l’origine è il testo stesso -> salto metacomunicativo;
Deissi sociale (dare del lei, del tu): segnala i rapporti sociali tra gli interlocutori;
Deissi fantasmatica: l’origine non è in prasentia, ma è evocata dalla fantasia o dal ricordo.
Traslare i campi indicali aiuta a pensare al concetto di origo.
Lessico
Per lessema si intende una parola dal punto di vista del significato, come forma della citazione.
L’insieme dei lessemi si chiama lessico, ed è uno dei due componenti essenziali di una lingua. È
l’aspetto più esterno di un sistema linguistico, la parte più esposta alle circostanze extralinguistiche,
e la parte aperta e fluttuante del sistema. Nel lessico si fondono il mondo esterno e la lingua.
I dizionari generali di consultazione contengono circa tra i 90.000 e i 130.000 lemmi. Il lessico
passivo di un parlante colto consta di circa 50.000 lemmi, tra cui circa 7.000 unità costituiscono il
nucleo centrale del vocabolario di base. Circa 2.000 di queste unità sono ad altissima frequenza, e
costituiscono il cosiddetto vocabolario fondamentale, condiviso dai parlanti di una comunità.
I lessemi, essendo inseriti in un sistema, instaurano fra loro dei rapporti. I segni sono infatti tali in
quanto sono in interrelazione tra di loro. Questi rapporti possono essere di similarità, opposizione,
omonimia o polisemia.
Le principali relazioni di similarità sono:
Iperonimia e iponimia -> un lessema di significato generico (iperonimo) si collega a lessemi di
significato specifico (iponimi), per esempio ‘fiore’ e ‘rosa’ ‘tulipano’. L’iponimia è una
relazione di inclusione semantica, perché per tutte le rose vale che sono fiori, ma non viceversa.
Meronimia -> rapporto che si ha fra i termini che designano una parte specifica e il tutto, per
esempio ‘pagina’ e ‘libro’, ‘braccia e gambe’ e ‘corpo’.
Sinonimia -> relazione che si instaura tra lessemi diversi con significato simile (somiglianza
parziale di senso), come per esempio ‘ammazzare / uccidere’, ‘iniziare / cominciare’. La
sinonimia si definisce in termini di sostituibilità tra lessemi in certi contesti, come ‘babbo -
papà’, ma è un fenomeno parziale, poiché il suo uso è limitato/influenzato dal contesto (non
esistono due parole con significato esattamente identico).
Solidarietà sintagmatica -> il significato di un lessema risulta predeterminato da un altro, come
per esempio ‘miagolare’ da ‘gatto’, ‘abbaiare’ da ‘cane’.
Collocazioni -> sono co-occorrenze regolari, e riflettono convenzioni dell’uso di una lingua; per
esempio, per ‘dimettersi’ bisogna ‘rassegnare delle dimissioni’, ‘saluti cordiali’.
È possibile mettere ordine nel lessico individuando insiemi e sottoinsiemi lessicali, cioè gruppi di
lessemi che costituiscono complessi organizzati in cui ogni elemento è collegato agli altri da
rapporti di significato.
Il campo semantico (o campo lessicale) è l’insieme dei lessemi che coprono le diverse sezioni di
un determinato spazio semantico; per esempio l’insieme dei (termini dei colori, termini di
parentela).
La sfera semantica è costituita dall’insieme dei lessemi che hanno in comune il riferimento a un
certo ambito semantico, per esempio l’insieme delle parole della moda, della musica, ecc.
La famiglia semantica raggruppa termini che hanno la stessa radice lessicale, come pane,
panettiere, panetteria, panificio.
La gerarchia semantica è un’organizzazione “scalare” dei termini, dove ogni termine è parte del
termine seguente, come in secondo, minuto, ora, giorno, ecc.
I sensi di un lessema possono legarsi tra loro in vario modo. Un lessema può avere un senso
proprio, uno o più sensi figurati, e uno o più sensi estesi.
Senso proprio: è il senso cosiddetto ‘letterale’ o ‘denotativo’; è il senso considerato tipico per un
dato lessema.
Senso figurato: le categorie del senso proprio servono a categorizzare un’altra esperienza (es.
nelle metafore come “la vita è una guerra che si ripete ogni giorno”, “Giovanni è un’aquila).
Senso esteso: non si allontana dal senso proprio, come avviene invece nell’uso figurato, ma
amplia semplicemente l’estensione del termine (es. paesaggio ‘alpino’ per indicare un
‘paesaggio montano’).
Esempio: ‘guerra’ (dal dizionario Devoto-Oli)
o Senso proprio: lotta armata fra stati o coalizioni per la risoluzione di una controversia
internazionale più̀ o meno direttamente motivata da veri o presunti (ma in ogni caso parziali)
conflitti di interessi ideologici ed economici, non ammessa dalla coscienza giuridica moderna.
o Senso esteso: contrasto fra Stati, derivante da conflitti ideologici, politici, economici -> guerra
fredda; guerra doganale.
o Senso figurato: lotta a fondo in nome di un ideale sociale o religioso (guerra alla criminalità̀ );
violento e tumultuante contrasto (la guerra delle passioni).
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Linguistica generale – secondo semestre
Analisi componenziale
Secondo l’analisi componenziale, il significato è un concetto complesso costituito da concetti più
semplici o features (tratti). Essa consiste nello scomporre il significato dei lessemi in unità (tratti) e
comparare gli uni agli altri per cogliere in che cosa differisca il loro rispettivo significato.
Prendiamo per esempio i termini uomo, donna, bambino, bambina: tutti questi termini hanno in
comune il fatto di designare un essere umano (‘essere umano’ può quindi essere considerato
l’iperonimo dei 4 termini). Uomo e donna, invece, sono differenziati tra di loro per il sesso (per il
resto sono uguali), mentre uomo e bambino sono differenziati per età, perché un termine designa un
adulto e l’altro un non adulto. Se ripetiamo per ogni coppia lo stesso ragionamento arriviamo a una
matrice di tratti. Questi tratti, indicati tra parentesi quadre, identificano le proprietà di significato
che sono necessarie e sufficienti per dar conto del significato di ciascuno dei quattro lessemi: si
tratta di proprietà semantiche elementari. Ogni lessema è dunque rappresentabile come un fascio di
componenti semantici realizzati in simultaneità.
[± Umano] [± Adulto] [± Maschio]
Uomo + + +
Donna + + -
Bambino + - +
Bambina + - -
Questi tratti semantici dovrebbero rappresentare in maniera sufficiente tutto ciò che è pertinente in
un sistema linguistico per definire il significato denotativo di un termine (e quindi il significato
letterale), in particolare l’intensione riferita a una certa estensione in un determinato contesto.
Tra i tratti possono sussistere rapporti di implicazione, per esempio [+umano] indica [+animato] che
indica [+concreto] che implica [+numerabile], ecc. Il tratto più generale è ovviamente incluso in
quello più specifico, perciò tutto ciò che è animato è anche concreto, ma non tutto ciò che è
concreto è necessariamente animato.
È un metodo che funziona soddisfacentemente solo su insiemi lessicali delimitati che indicano
cose o azioni concrete. Diventa problematico quando si vogliono analizzare ad esempio i
termini astratti o i verbi.
Può succedere che i tratti diventino tanto numerosi da vanificare l’intento principale del metodo,
che vuole essere quello di descrivere il contenuto semantico di un lessema in modo economico,
esaustivo e scientifico.
Spesso si rischia di non differenziare tra significato lessicale e enciclopedia.
Non c’è accordo tra gli scienziati sull’interpretazione dei primitivi semantici.
Non tutti i tratti sono perfettamente binari, si pensi ad es. al concetto di penetrabilità e ai 3 gradi
negli stati della materia (solido, liquido, gassoso).
Questi tratti sono condizioni necessarie e sufficienti.
o Sufficienti: è sufficiente che un esemplare le soddisfi tutte per far parte della categoria;
significa che non ci sono differenze di grado e che ogni esemplare sarà sempre un buon
esemplare della categoria.
o Necessarie: siccome le condizioni sono necessarie devono esserci sempre tutte.
Questa teoria presuppone che una data categoria (es. sedia) sia da intendersi come un’entità:
definita da proprietà tutte necessarie e sufficienti;
delimitata da confini netti;
costituita da membri tutti egualmente rappresentativi di quella categoria.
Es. Sèdia: (a) che sia un manufatto;
(b) solido;
(c) che abbia un piano su cui sedersi;
(d) che abbia 4 gambe;
(e) che abbia uno schienale;
(f) che sia privo di braccioli;
(g) che sia a un posto.
È piuttosto difficile individuare tutte le proprietà che un oggetto deve possedere per far parte
dell’estensione di un termine comune; è pertanto spesso difficile dire quale sia il senso di quel nome
comune. Questo equivale a dire che è molto difficile individuare qual è l’essenza dell’oggetto, cioè
dire precisamente quali sono quelle proprietà che fanno sì che qualcosa sia il tipo di oggetto che
esso è effettivamente.
Prendiamo l’esempio del pomodoro: quali sono le proprietà che fanno sì che un pomodoro sia un
pomodoro piuttosto che una zucchina o una mela? La grandezza? No, ne esistono di diverse
grandezze. La forma? No, ne esistono di diverse forme. Il colore? No, ne esistono di diversi colori.
Il sapore? No, ne esistono di diversi sapori. La consistenza? No, ne esistono di diverse consistenze.
La costituzione interna? No, diversi pomodori hanno costituzioni interne diverse. A questo punto si
è visto che una semantica componenziale, a tratti, non può spiegare la varietà o l’estensione delle
categorie. Si passa quindi alla teoria dei prototipi.
Analisi prototipica
Secondo Eleanor Rosch ci sono due ipotesi:
I fattori non linguistici hanno un ruolo cruciale nella creazione e nell’organizzazione delle
categorie -> è infatti l’uomo che categorizza la realtà tramite la lingua.
Le categorie sono organizzate intorno ad un centro informativo, un prototipo, ovvero l’esempio
migliore della categoria.
Secondo questo approccio, l’appartenenza di un membro ad una categoria non può essere definita
esclusivamente in maniera binaria ([+] o [-]). Le categorie, infatti, presentano una struttura interna,
con una zona centrale più rappresentativa, che degrada gradualmente verso zone periferiche, in cui
si verifica la sovrapposizione con altre categorie.
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Linguistica generale – secondo semestre
La struttura interna prototipica si basa sulla gradualità (ovvero sulla scalarità: ci sono più o meno
tratti che possono essere presenti) e non sulla categoricità (sì/no).
C’è un grado di esemplarità (o rappresentatività o bontà di appartenenza: ad esempio, la mela è più
prototipica di un oliva nella categoria del ‘frutto’ (es. mela, susina, ananas, fragola, fico, oliva).
I confini delle categorie sono quindi sfumati e in sovrapposizione, poiché l’oliva si colloca a metà
tra la categoria del ‘frutto’ e quella della ‘verdura’.
Le siepi semantiche sono quegli elementi che mitigano un espressione. Se un bambino dovesse
chiederci cos’è un pipistrello, gli si potrebbe rispondere dicendo che è praticamente un uccello che
vola solo di sera: nonostante il pipistrello sia [-uccello] e [+mammifero], può essere considerato dai
parlanti come membro marginale della categoria degli uccelli perché [+alato], [+di piccole
dimensioni], [+che vola].
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Linguistica generale – secondo semestre
Il confine tra le categorie varia in modo graduale: il prototipo rappresenta il punto focale di una
categoria, mentre gli altri membri della categoria (per es. ‘struzzo’ ‘pinguino’ o ‘oliva’)
rappresentano la periferia.
Naturalmente ci sono anche in questo caso delle difficoltà, perché è sempre difficile rendere il
significato di termini astratti, valutazioni o processi psicologici. L’analisi prototipica, in cui c’è un
nucleo di tratti necessari e un nucleo di tratti graduali e opzionali, è utile per definire i termini
metalinguistici (es. cos’è un nome, un verbo, una parola, ecc). Non si tratta di categorie nette, ma di
categorie che spesso contengono elementi molto eterogenei, perché ciascun elemento può avere più
funzioni.
Il significato letterale o composizionale è dato dalla corretta combinazione delle parti che
costituiscono l’enunciato. Il risultato dell’intero è funzione del significato delle parti che lo
compongono.
In linguistica si parla di frase o enunciato. La frase è un’unità di sistema data dalla combinazione tra
le regole sintattiche, mentre l’enunciato è un’unità comunicativa vera e propria, è l’enunciazione,
l’evento semiotico.
In filosofia del linguaggio si parla invece di altri due termini: enunciato e proposizione. In questo
caso, l’enunciato è l’unità sintattica composta secondo precise regole di formazione, mentre la
proposizione è il contenuto di significato che tale unità sintattica esprime o designa.
Gli enunciati servono per esprimere preposizioni, le quali descrivono una situazione nella realtà. Le
preposizioni possono essere comuni a differenti enunciati, anche in lingue diverse: per esempio, la
stessa situazione è descritta in italiano con la frase ‘la neve è bianca’ e in inglese ‘the snow is
white’. Se la situazione è un fatto, cioè se è realizzata, allora la proposizione è vera. Se la neve è
bianca, allora questa proposizione è vera. Da questo punto di vista, il significato si dà solo nelle
preposizioni, le quali devono/possono soltanto corrispondere a fatti della realtà, ovvero alla verità. Il
significato degli enunciati, detto in altri termini, è connesso con quello di verità degli enunciati
stessi. C’è la convinzione che conoscere il significato di un enunciato significhi conoscere le
condizioni che rendono vero l’enunciato. Ad esempio, se un amico ci dice ‘piove’, noi
comprendiamo il significato di questo enunciato perché sappiamo riconoscere a quali condizioni e
in quali situazioni l’enunciato risulta essere vero o falso: conosciamo quindi le condizioni di verità.
Sarà vero se effettivamente piove, se non piove è falso.
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Linguistica generale – secondo semestre
Identificare il significato di un enunciato come vero o falso in base alle condizioni di verità ha sia
dei vantaggi che degli svantaggi per la teoria linguistica.
Pro: permette di definire con un certo rigore che cosa significa che due enunciati sono sinonimi,
che due enunciati sono contraddittori, che un enunciato ne implica un altro (o, specularmente,
che un enunciato è una conseguenza dell’altro).
o Due enunciati sono sinonimi quando hanno le stesse condizioni di verità, cioè quando non
può esistere un fatto del mondo che renda vero il primo e falso il secondo, o viceversa. Ciò
significa che due enunciati sono sinonimi quando sono veri o falsi nelle stesse circostanze.
Per esempio, se in una data circostanza è vero che Paolo è fratello di Anna, allora è vero
anche che Anna è sorella di Paolo.
o Due enunciati sono contraddittori quando non possono essere entrambi veri nelle stesse
circostanze e non posso entrambi falsi nelle stesse circostanze. Se un fatto del mondo rende
vero il primo enunciato, allora rende falso il secondo e viceversa. Per esempio, se in una data
circostanza è vero che Paolo è fratello di Anna, è contraddittorio dire che Paolo non è fratello
di Anna: non può darsi una situazione che li renda veri o falsi entrambi.
Contro:
o Non tutti i nostri enunciati sono asserzioni, ovvero descrivono stati di cose o eventi (es.
piove, Anna è sorella di Paolo), poiché esistono ad esempio anche frasi interrogative e
imperative, quali ‘vieni?’ o ‘vieni!’. Una domanda o un ordine non sono né veri né falsi,
perché il loro compito non è quello di descrivere le cose come stanno. Tuttavia, anche gli
ordini e le domande hanno una qualche relazione con la verità e il mondo: una domanda
come ‘vieni?’, ad esempio, chiede se si danno certe circostanze che rendono vero l’enunciato
affermativo ‘vieni’. Un ordine, invece, esprime un desiderio del parlante circa il mondo, il
quale desidera che nel mondo si verifichino le stesse circostanze che rendono vero
l’enunciato affermativo ‘vieni’. Il parlante desidera infatti che il destinatario si adoperi
affinché queste circostanze siano poste in atto.
o Spesso il significato di un testo è qualcosa di più della somma del significato delle sue parti.
Capita per esempio nel caso di usi metaforici delle parole, come in ‘le lezioni di linguistica
sono un pugno allo stomaco’: questa frase veicola l’idea di qualcosa di difficile o noioso, ma
riusciamo a comprendere questo significato veicolato solo grazie ai significati intriseci e
condivisi conferiti a questo specifico modo di dire. La somma dei significati delle singole
parole non è quindi sufficiente.
La pragmatica si occupa dell’uso della lingua come azione reale e concreta, ovvero come e per quali
scopi la lingua viene utilizzata e in che misura soddisfa esigenze e scopi comunicativi. Si occupa di
come il contesto (o situazione) influisca sull’interpretazione dei significati, quindi delle relazioni tra
lingua (segni) e contesto d’uso, e della lingua in prospettiva funzionale: analizza gli eventi semiotici
o gli enunciati dal punto di vista dell’intenzione comunicativa del soggetto parlante. Un’analisi
pragmatica è quindi basata su una concezione interazionale della comunicazione, per cui questa è
resa possibile dall’agire interconnesso dei soggetti partecipanti.
Tra gli ambiti di analisi della pragmatica c’è l’analisi della conversazione, la teoria degli atti
linguistici, che ci dice che “ogni nostro dire è un fare” (con l’uso della lingua noi compiamo delle
azioni); si occupa poi della presupposizione, dell’implicito, ovvero ciò che non è detto, del
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Linguistica generale – secondo semestre
Il focus completivo è il focus di una frase in cui si parte da un topic e si arriva a un focus.
Si parla di focus contrastivo (o di contrasto) quando tramite l’intonazione o la struttura si pone
in rilievo un elemento contrapponendolo a un altro.
L’antitopic ha la funzione di attualizzare o riattualizzare un topic che il parlante ritiene non
essere attivo per l’ascoltatore in un preciso momento di discorso.
Ogni lingua ha dei mezzi specifici per segnalare la struttura informativa dell’enunciato. Sulla base
delle due funzioni di topic e focus si possono individuare strutture informative fondamentali,
tendenzialmente ricorrenti in lingue diverse.
Gli enunciati presentativi sono quelli introdotti da “c’è, ci sono”. Servono ad inserire nel
discorso un nuovo referente che potrà assumere in seguito la funzione di topic (es. c’è un topo in
cantina);
Gli enunciati predicativi servono a dare informazioni a proposito di un referente identificabile,
che viene posto come focus (es. il topo sta mangiando il formaggio);
Gli enunciati eventivi informano sull’accadere di un evento, e introducono un fatto come nuovo
nella sua interezza. Rispondono alla domanda “cos’è successo?”;
Gli enunciati identificativi servono a identificare il referente appropriato in una relazione
predicativa. Solitamente rispondono a domande introdotte da “chi?”.
ciò attraverso cui viene compiuta un azione che incide sul mondo: con l’enunciato ‘Vi dichiaro
marito e moglie’ il sacerdote non descrive un matrimonio, ma lo sancisce, e da quel momento in poi
nel mondo si è verificato un cambiamento.
Austin dice che esistono due criteri per distinguere le due classi di enunciati, constativi e
performativi.
Criterio grammaticale
Negli enunciati performativi compaiono verbi “particolari”, ovvero verbi che possono essere
elencati (scusarsi, scommettere, ordinare, promettere, complimentarsi, battezzare, ecc.), e tali
verbi compaiono alla prima persona dell’indicativo presente. La prima persona singolare risulta
quindi simmetrica rispetto alle altre persone e gli altri tempi del modo indicativo dello stesso
verbo. L’uso degli altri modi e persone costituirebbero semplici descrizioni o resoconti, mentre i
verbi usati alla prima persona dell’indicativo presente formano enunciati performativi diversi
dagli enunciati constativi. Sono enunciati performativi frasi come ‘Mi scuso’, ‘Prometto che
metterò in ordine la mia stanza’, ‘Scommetto 50€ sul numero 20’, ‘Battezzo questo bambino
Piero’, ecc. Non sono invece enunciati performativi, bensì constativi, frasi come ‘Mi sono
scusato con lui’, ‘Ho promesso alla mamma che metterò in ordine’, ‘Ieri ho scommesso 50€ sul
numero 20’, ‘Don Luigi battezzerà il mio bambino Piero’, perché utilizzo il verbo in un altro
tempo e in un'altra persona. Il criterio grammaticale, come rileva lo stesso Austin, è
fallimentare: ci sono infatti alcuni enunciati che non rispettano il criterio grammaticale ma sono
comunque performativi. Per esempio, l’enunciato ‘Verrò alla tua festa’ equivale a ‘Prometto di
venire alla tua festa’, ‘Vorrei un toast e un’acqua’ equivale a ‘Voglio un toast e un’acqua’.
Condizioni di felicità o infelicità
Gli enunciati performativi hanno condizioni di felicità o infelicità, ovvero possono andare a
buon fine o fallire, come tutte le azioni della nostra vita. Se io dico ‘Mi scuso’ non posso
rispondere dicendo ‘No, non è vero’, ma devo dire ‘Non mi sembri sincero’: l’enunciato ‘Mi
scuso’ diventa quindi infelice. Secondo Austin, sono felici quegli enunciati che si trovano in
condizioni di appropriatezza, cioè in circostanze opportune, in un contesto adatto, secondo una
procedura convenzionale, eseguita completamente e correttamente da tutti i partecipanti; sono
quegli enunciati compiuti da partecipanti accompagnati da pensieri, sentimenti o intenzioni
appropriate, e il parlante si impegna a comportarsi in conformità all’atto linguistico eseguito.
Le condizioni di felicità sono divise in tre gruppi (A, B, Ɣ):
o A1) Deve esistere una procedura convenzionale adottata, avente un certo effetto convenzionale;
A2) La procedura deve essere usata in circostanze appropriate.
o B1) La procedura deve essere eseguita da tutti i partecipanti correttamente;
B2) La procedura deve essere eseguita da tutti i partecipanti completamente.
o Ɣ1) La procedura deve essere compiuta avendo i pensieri, i sentimenti e le intenzioni
appropriate;
Ɣ2) I partecipanti si devono in seguito comportare in conformità all’atto linguistico eseguito.
La non osservanza delle regole A e B origina degli ‘atti nulli’ nel caso della non osservanza
delle regole A, e degli ‘atti lacunosi’ nel caso della non osservanza delle regole B. Con la non
osservanza delle regole Ɣ (se non si hanno i pensieri, i sentimenti o le intenzioni appropriate, e
se non ci si comporta in seguito conformemente all’atto linguistico eseguito) siamo in presenza
di un ‘abuso’. Ad esempio, violo la regola Ɣ 1 se dico ‘Mi congratulo con te’ ma in realtà sono
invidioso di quella persona; violo la regola Ɣ2 e commetto un abuso se ‘Prometto di venire
domani’ ma poi non vado.
Nemmeno le condizioni di felicità o infelicità sono sufficienti, secondo Austin, per distinguere
gli atti constativi dagli atti performativi. La distinzione stessa tra enunciati constativi (essere
veri o falsi) e enunciati performativi (essere felici o infelici) è infatti illusoria. Questo criterio
fallisce:
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Linguistica generale – secondo semestre
Perché anche i cosiddetti constativi hanno condizioni di felicità o infelicità. Infatti, anche le
asserzioni sono atti linguistici che richiedono circostanze appropriate, e possono essere atti nulli
quando manca la presupposizione di esistenza. Per esempio, ‘il gatto è sul tappeto’ (ma non c’è
alcun gatto) è sia un enunciato falso che un atto nullo, perché appunto manca la presupposizione
di esistenza.
Inoltre, anche i cosiddetti constativi possono essere non corretti (B 1) o lacunosi (B2): un
esempio è il lapsus linguistico, quando anziché ‘gatto’ dico ‘il ratto è sul tappeto’.
Infine, i constativi possono essere abusi o atti vuoti quando non ci sono le credenze
appropriate e ciononostante lo affermo. Ad esempio, se uno studente mi dice che ‘la
linguistica è interessante’ ma io non ci credo, compio un atto vuoto e infelice.
Austin dice che “le asserzioni non sono semplicemente vere o false, ma più o meno
obbiettive, adeguate, esagerate, approssimate”.
Perché anche i cosiddetti performativi (o atti non assertivi) hanno vere e proprie condizioni di
verità, e possono essere più o meno adeguati ai fatti. Per esempio, un consiglio può essere
buono o cattivo, una stima corretta o scorretta, una sentenza giusta o ingiusta.
Per Austin la questione non sta soltanto nel distinguere due tipi di enunciati, ma anche nel
riconoscere in ogni enunciato una forma di azione. Ogni proferimento linguistico ha una
dimensione di adeguatezza alla realtà o alle circostanze, e quindi è di per sé un atto che deve
rispettare le regole di correttezza e adeguatezza dell’atto stesso. L’azione dei constativi consiste
nell’affermare come stanno le cose, e l’azione degli imperativi o direttivi fa sì che nel mondo
queste si verifichino, o che l’ascoltatore si comporti in modo tale da fare nel mondo qualcosa che
io gli chiedo di fare. Il dire qualcosa è sempre un fare qualcosa: di conseguenza, ogni enunciato è
un atto linguistico.
Atto linguistico
L’atto locutorio (o locutivo) è l’atto di dire qualcosa (act of saying something). È
contemporaneamente un atto fonetico (introdurre una sequenza di suoni), un atto fatico
(utilizzare una grammatica e un lessico propri di una lingua) e un atto retico (istituire una
referenza). Compiendo l’atto locutorio il parlante realizza spontaneamente un’azione di un altro
tipo, come ad esempio ‘chiede’, ‘risponde’, ‘illustra’, ‘sollecita’, ‘minaccia’, ‘promette’, ecc.
L’atto illocutorio (o illocutivo) è l’atto che compio nel dire qualcosa (in saying something).
Ogni atto locutorio ha una particolare forza illocutoria che corrisponde a uno dei modi in cui si
può usare il linguaggio. Per esempio, l’enunciato ‘È tardi’ è una locuzione (atto locutorio) a cui
possono corrispondere più illocuzioni (atti illocutori): dicendo ‘è tardi’ posso avere l’intenzione
di constatare qualcosa a titolo informativo, posso avere l’intenzione di invitare qualcuno a
sbrigarsi, posso invitare qualcuno a smettere di lavorare, oppure posso comunicare che è
arrivata l’ora di congedarsi se la frase viene detta ad una festa. Si può quindi dire che
l’illocuzione è una funzione pragmatico-comunicativa pertinente per una data sequenza
individuale. Con atto illocutorio Austin intende gli aspetti convenzionali di un atto linguistico, e
per ciascun atto linguistico esiste una convenzione che fa sì che l’atto possa essere compiuto a
certe condizioni.
L’esecuzione di un atto locutorio o illocutorio produce spesso degli effetti partecipanti allo
scambio comunicativo.
L’atto perlocutorio (o perlocutivo) è l’atto che si compie mediante il dire qualcosa (by saying
something). L’atto illocutorio produce spesso degli effetti (intenzionali o involontari), detti
effetti perlocutori. Posso ad esempio stupire, offendere, spaventare, divertire, allarmare, ecc. Le
reazioni, o gli atti perlocutori, o gli effetti prodotti, non sono convenzionali: non è detto che
dicendo ‘è tardi’, intendendo ‘è ora di congedarsi’, io ottenga tale effetto perlocutorio.
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Linguistica generale – secondo semestre
Atto locutorio, atto illocutorio e atto perlocutorio sono atti che avvengono contemporaneamente,
non ne esiste uno senza gli altri. Ogni atto linguistico consta quindi, contemporaneamente, di questi
tre atti. Per esempio, atto locutorio: [A disse a B] “baciami!”; atto illocutorio: A ordinò a B di
baciarla; atto perlocutorio: A persuase B a baciarla.
Esistono diverse tassonomie degli atti linguistici. Una delle tassonomie più usate è quella di Searle
(“La tassonomia fondamentale degli atti illocutori” 1975), che riconosce 5 tipi di atti.
Atti assertivi (o rappresentativi): sono gli enunciati che in un modo o nell’altro vogliono
descrivere come sono le cose nel mondo o come sono andate. Sono gli unici di cui si può dire
che sono veri o falsi. Ci sono verbi performativi corrispondenti: racconto, informo, asserisco,
concludo, deduco, affermo, nego, ecc. Con un atto assertivo il parlante si impegna sulla verità di
uno strato di cose: la condizione di sincerità del parlante e quella di plausibilità della verità sono
condizioni di felicità di un atto assertivo.
Atti direttivi: consistono in richieste e domande. Il loro scopo illocutorio consiste nel fatto che
essi costituiscono dei tentativi (di grado diverso) da parte del parlante di indurre l’ascoltatore a
fare qualcosa (anche a rispondere). I verbi che denotano gli atti direttivi sono: ordino, comando,
richiedo, imploro, invito, ecc. Nelle richieste il parlante chiama in causa l’interlocutore perché si
impegni su uno stato di cose, mentre nelle domande interroga l’interlocutore sulla verità di uno
stato di cose.
o Condizioni di felicità: 1) l’enunciato, l’atto o la proposizione (p) deve fare riferimento a un
evento futuro. 2) L’interlocutore deve essere in grado di fare quanto richiesto nella
proposizione. 3) Il parlante vuole che l’interlocutore faccia ciò che gli chiede.
Atti commissivi: sono quegli atti illocutori il cui scopo è impegnare il parlante ad assumere una
certa condotta futura. L’importante è l’intenzione che va mantenuta. Il verbo commissivo per
eccellenza è ‘prometto’, ma anche ‘stipulo’, ecc.
o Condizioni di felicità: 1) la proposizione fa riferimento a un evento futuro che ha come
agente il mittente (non si può promettere sul passato o che qualcun altro faccia qualcosa). 2)
Non è già ovvio che il mittente farà ciò che gli si chiede in p nel normale corso degli eventi,
altrimenti il commissivo è vacuo. 3) Il mittente deve avere l’intenzione di fare p
(condizione di sincerità).
Atti espressivi: esprimono un sentimento di qualsiasi tipo (grazie, auguri, condoglianze, scusa,
complimenti, ecc).
o Le condizioni di felicità dipendono dal tipo di enunciato. Ad esempio, lo scusarsi che p
pone la condizione che p faccia riferimento a un evento passato che ha come agente il
mittente. La condizione di sincerità dello scusarsi è che il mittente sia pentito di avere fatto
p.
Atti dichiarativi: sono quegli atti che modificano lo status del mondo o dell’oggetto per il solo
fatto di essere pronunciati all’interno di istituzioni sociali; quindi, nel momento stesso in cui
vengono pronunciati, cambiano il mondo. L’istituzione sociale stessa prevede che l’atto abbia
effetto solo in determinate circostanze e solo se vengono rispettate completamente e
rigorosamente le procedure previste convenzionalmente dall’atto (battezzo, condanno, assolvo).
o Le condizioni di felicità dipendono dal tipo di enunciato. Per esempio, per una sentenza di
condanna il contesto deve essere idoneo all’emissione dell’enunciato (tribunale e giudice), e
il giudice deve credere l’imputato colpevole (condizione di sincerità).
Questi 5 tipi di atti sono quelli considerati fondamentali, ma la tassonomia potrebbe/dovrebbe
essere ulteriormente specificata. Si potrebbero aggiungere per esempio gli atti fatici: hanno lo scopo
di istituire, mantenere e chiudere il contatto (pronto?, già già, sai che ti dico?, eccoci qua, ecc).
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Linguistica generale – secondo semestre
Nelle diverse lingue, le frasi sono predisposte a funzionare con una certa illocuzione (detta anche
funzione pragmatica). A seconda del tipo di frase vi è un potenziale illocutorio, con una o più
valenze tipiche e altre di uso meno frequente e meno caratteristico. Per esempio, un atto assertivo è
tipicamente compiuto con una frase dichiarativa (‘Il sole è la stella più vicina alla terra’ = è
un’asserzione, può essere definita vera o falsa, è compiuta con una frase dichiarativa). Un atto
direttivo è invece compiuto solitamente con una frase imperativa o iussiva (‘Apri la finestra’),
mentre un atto espressivo esprimente auspicio o desiderio si può manifestare con una frase ottativa
(‘Se uscisse finalmente il sole’). Le frasi o le modalità frasali sono quindi in un certo senso
predisposte a manifestare determinate funzioni pragmatiche, e questo vale con gli atti linguistici
diretti.
Una frase dichiarativa può però servire per diverse altre funzioni pragmatiche, non solo per
manifestare atti espressivi. La frase ‘Ci rivedremo’ può essere sì un atto assertivo, ma può anche
essere una promessa o una minaccia (si parla in tali casi di atto commissivo). La frase dichiarativa
può anche avere funzione performativa (mettere in atto uno stato di cose), come nel caso della frase
‘Lei è licenziato’: questa frase dichiarativa non riferisce una situazione, bensì compie, pone in
essere una situazione, e quindi manifesta un atto dichiarativo.
La relazione tra tipi di frase e funzione pragmatica è una relazione di tipicità o preferenzialità, ma
potenzialmente qualsiasi frase può servire per qualsiasi funzione. Ci sono atti linguistici diretti e atti
linguistici indiretti.
Negli atti linguistici indiretti l’illocuzione non è quella suggerita dalla struttura linguistica, ma dalle
circostanze. Esistono diversi gradi di indirettezza:
Atto indiretto convenzionale (per es. uso delle formule linguistiche di cortesia, come ‘Potresti…
[fare qualcosa]?, ‘Le dispiacerebbe…?’, ‘Per favore, …?’ per chiedere qualcosa);
Atto indiretto non convenzionale (per es. ‘La finestra è aperta’: si usa una frase dichiarativa non
tanto per descrivere uno stato di cose, ma per indurre l’interlocutore a chiuderla).
Un implicito è quella parte di ciò che non viene detto esplicitamente, la quale può essere ricostruita
dal destinatario grazie a vari tipi di indicatori presenti nel testo e grazie a strategie di inferenza.
L’implicito dunque non equivale a ciò che non viene detto, ma fa parte del senso di un testo
(diversamente dal non detto).
Le inferenze sono le informazioni ricavabili dall’evento semiotico nella sua totalità. È tutto ciò che
non viene detto, ma che è ricavabile sulla base di ciò che viene detto. Le inferenze possono nascere
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Linguistica generale – secondo semestre
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Linguistica generale – secondo semestre
stesso della parola: non posso certo dire ‘purtroppo è lunedì, che bello’, perché non avrebbe alcun
senso.
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Linguistica generale – secondo semestre
la comunicazione vada a buon fine, bisogna postulare dei processi inferenziali che permettono di
cogliere il significato intriso al di là del significato espresso.
Grice ritiene che un parlante, quando dice qualcosa dotato di senso, intende produrre un effetto, una
credenza in chi lo ascolta, e intende far sì che chi lo ascolta riconosca che il parlante intende
produrre proprio tale effetto. In base alla sua idea di comunicazione, Grice distingue due aspetti del
significato:
Significato semantico, ovvero il significato standard, convenzionale, è quello riconosciuto in
una comunità linguistica, è il significato veicolato dalle strutture e dall’unità del codice;
Significato occasionale, ovvero il significato del parlante che è legato ai suoi processi mentali, e
che viene espresso nell’intenzionalità.
Ovviamente, per manifestare l’intenzione il parlante può servirsi, oltre che della lingua verbale,
anche di altri indici, come il linguaggio non verbale o la gestualità. Secondo Grice, dunque, la
comunicazione è un atto di cooperazione, alla base della quale c’è sempre il seguente principio: “il
tuo contributo alla conversazione sia tale quale è richiesto, allo stadio in cui avviene, dallo scopo o
orientamento accettato dallo scambio linguistico in cui sei impegnato”. Per Grice questo non è un
principio etico o normativo, ma è un principio costitutivo. La conversazione, dice lui, non è
possibile senza il rispetto almeno parziale di questo principio di cooperazione. Con questo principio
si assume che gli scambi linguistici siano lavori in collaborazione, e che ciascun partecipante vi
riconosca uno scopo: tale scopo può essere fissato fin dall’inizio e restare costante per tutto lo
scambio, oppure può evolversi ed essere ‘rinegoziato’, lasciando al partecipante la notevole libertà
di movimento. L’importante è che lo scopo o gli scopi vengano riconosciuti. Cooperare significa
quindi costruire un modello di discorso condiviso.
L’ipotesi di Grice è stata anche messa in discussione, in quanto non sempre l’intenzione del parlante
è quella di far comprendere all’ascoltatore il tentativo di indurre un comportamento a una credenza.
A volte capita che il parlante non desideri affatto far conoscere le proprie reali intenzioni, anche se
resta fuori di dubbio che l’intenzione di produrre un effetto in chi ascolta è una costante della
conversazione. È quindi in dubbio il fatto che comunicare implichi l’intenzione di produrre un
effetto e, affinché la comunicazione vada a buon fine, questa intenzione è necessario che venga
riconosciuta.
In base a questa regola tacita, i partecipanti si sentono ‘obbligati’ a dare un contributo adeguato
affinché la comunicazione in cui sono immersi funzioni bene.
Il principio di cooperazione può essere declinato in massime più specifiche, le cosiddette ‘massime
conversazionali’. Non si tratta di massive prescrittive, bensì di massime operative, ovvero di
assunzioni e aspettative sul comportamento verbale degli altri. Le massime sono state suddivise da
Grice in 4 categorie: quantità, qualità, relazione, modo.
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Linguistica generale – secondo semestre
Massima di qualità: rispecchia l’aspettativa che il nostro interlocutore sia sincero e giustificato
nelle proprie affermazioni, quindi sii sincero e fornisci un’informazione veritiera secondo
quanto sai. Questa massima comprende una supermassima:
o Cerca di dare un contributo che sia vero.
… che a sua volta consta di due sottomassime:
o Non dire ciò che credi essere falso;
o Non dire ciò per cui non hai prove adeguate.
Questa massima di qualità richiama da vicino l’idea delle condizioni di felicità, in particolare
l’impegno alla verità, che è una delle condizioni di felicità degli atti assertivi: un’asserzione è
eseguita felicemente se l’ascoltatore ritiene che il parlante sia in grado di impegnarsi alla/sulla
verità quanto dice e intenda farlo realmente. Questo ha come conseguenza che anche il
successo di un comportamento fraudolento è garantito dall’esistenza di questa massima. Se ci
pensiamo bene, la menzogna non avrebbe successo se il parlante non pensasse che
l’interlocutore la prenda per vera. Per Grice e molti altri studiosi è la massima più importante.
Massima di relazione: consta di un’unica massima che rispecchia l’aspettativa che il contributo
comunicativo sia pertinente alla fase dell’interazione; rispetta quindi l’aspettativa che il nostro
interlocutore sia pertinente. La caratteristica della pertinenza è decisamente rilevante al fine del
discorso, infatti è proprio la ricerca della pertinenza che guida l’interpretazione della vaghezza
dell’espressione linguistica. La massima della relazione riguarda inoltre i legami interni al
testo. Quando leggiamo un testo si creano aspettative di esistenza di relazioni all’interno del
discorso, che appartengono alla massima di pertinenza.
Massima di modo: rispecchia l’aspettativa che il nostro interlocutore sia chiaro, perspicuo;
“esprimiti in modo da facilitare la risposta appropriata”. Ha quattro sottomassime:
o Evita l’oscurità di espressione;
o Evita l’ambiguità;
o Sii breve;
o Sii ordinato nell’esposizione.
Non tutte le massime sono sullo stesso piano. Grice e altri studiosi privilegiano la massima della
qualità, in particolare la prima (“non dire ciò che credi essere falso”). Essendo questa massima
centrale, succede che per rispettarla il parlante potrebbe non rispettare altre massime, come per
esempio la massima della quantità (“dà un contributo tanto informativo quanto richiesto”).
Per Grice, l’osservanza del principio di cooperazione e delle massime è “razionale”: sono mezzi che
è razionale utilizzare per svolgere attività di cooperazione; è una necessità costitutiva delle
conversazioni stesse. Le massime, quindi, non essendo né descrittive o prescrittive, sono operative:
si tratta di assunzioni e aspettative sul comportamento verbale degli altri, che possono essere violate
e hanno la caratteristica di funzionare altrettanto bene sia quando sono osservate sia quando sono
violate.
Il rispetto delle massime comporta che la comunicazione di un contenuto avvenga nel modo più
efficiente possibile; tuttavia, molto spesso le conversazioni hanno fini diversi rispetto alla
comunicazione di contenuti, e il parlante interloquisce per esempio per frasi apprezzare, per
affascinare, per divertire, suscitare commozione, per stabilire rapporti sociali, ecc. Se altri fini si
sostituiscono o si sovrappongono a quelli comunicativi, allora le massime possono essere violate
perché le priorità cambiano. La violazione delle massime non è necessariamente un errore di
qualche tipo, e non significa che il parlante stia rifiutando automaticamente la cooperazione.
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Linguistica generale – secondo semestre
Le violazioni possono essere dovute a varie ragioni. Se uno viola una massima, può o non essere
cooperativo o essere cooperativo. Nel secondo caso, il principio di cooperazione viene recuperato (e
continua a valere) a livello di significato inteso. Si viola ostentatamente una massima per
comunicare un implicito. Le massime infatti, non essendo restrittive bensì operative e pragmatiche,
possono essere sfruttate: possono essere violate con intento cooperativo.
Grice chiama ‘implicature conversazionali’ gli impliciti comunicativi calcolati sulla base dello
sfruttamento delle massime. Egli parla di implicature (e non semplicemente di inferenze) perché nel
calcolo degli impliciti si parte dal messaggio esplicito, e contemporaneamente vengono utilizzate
tutte le informazioni che riguardano il contesto, gli interlocutori, le informazioni enciclopediche, le
informazioni condivise, ecc. Vengono inoltre utilizzati alcuni principi generali che riguardano la
comunicazione, quali le massime conversazionali.
Per la buona riuscita della comunicazione, gli impliciti devono essere inferiti, cioè devono essere
calcolati (e non semplicemente intuiti): devono quindi essere ricostruiti e ricostruibili in base a un
ragionamento. Per far intendere al proprio interlocutore un implicito comunicativo è necessario:
Che sia presupposto il rispetto delle massime;
Che una massima sia manifestamente violata;
Che il contesto suggerisca un contenuto comunicativo che rispetti la massima che è stata violata
e che il parlante potrebbe voler intendere.
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Linguistica generale – secondo semestre
Il turno conversazionale è l’unità di analisi della conversazione. Il turno è una sequenza di parole
prodotte da un parlante fra il momento in cui questi inizia a parlare e il momento in cui lo fa un
nuovo interlocutore. L’alternanza non è sempre regolata: molto spesso, quando si parla in due o più
contemporaneamente, si verificano fenomeni di sovrapposizione. Fenomeni di sovrapposizione
possono avere funzioni comunicative diverse, ma anche diverse motivazioni e origini. Ad esempio,
a inizio turno possono verificarsi partenze simultanee, quando dopo un momento di silenzio
iniziano a parlare due persone contemporaneamente: si tratta in questo caso di più parlanti che
selezionano insieme lo stesso turno, creando un conflitto nell’assegnazione del turno. Le
conseguenze possono essere un aumento del volume della voce o un rallentamento nel ritmo di
parola, e questo ritmo va avanti fino a quando una persona cede il turno all’altra. Ci possono essere
anche delle interruzioni, che avvengono quando un partecipante alla conversazione inizia a parlare
durante il turno di un altro. Alcune forme di sovrapposizione, per esempio, hanno la funzione di
segnalare un feedback, ovvero far capire al parlante che lo stiamo ascoltando e stiamo seguendo
quello che dice, o di dare un input utile alla comunicazione in corso.
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Linguistica generale – secondo semestre
Le mosse comunicative sono l’azione comunicativa in sé. Si tratta di procedimenti empirici che
vengono raccolti come dati empirici. Gli atti linguistici di Austin e le massime della conversazione
di Greis permettono di operare le inferenze, le quali ci permettono di comprendere ciò che il
parlante voleva comunicare. Le mosse comunicative, invece, non sono necessariamente sempre
calcolabili. Le mosse a disposizione degli interlocutori, in un dato momento della conversazione,
non sono illimitate, ma possono essere in un certo senso ‘predisposte’ e ‘previste’: un esempio è
quello delle sequenze complementari (saluto-saluto, domanda-risposta). Una mossa comunicativa,
inoltre, non coincide necessariamente con un turno di parola, né un turno di parola coincide con una
mossa comunicativa: infatti, in uno stesso turno possono collocarsi più mosse comunicative, e una
mossa comunicativa può articolarsi in più turni. Inoltre, ci possono essere anche dei salti, perché ad
esempio le sequenze complementari non sono necessariamente conseguenti l’una all’altra (es. ‘Dici
che piove?’ ‘Perché?’ ‘Volevo uscire in bici’ ‘Ma no, secondo me tiene’ = la risposta alla prima
domanda non viene data subito, ma dopo che il secondo interlocutore ha aperto una nuova sequenza
rispondendo alla domanda; solo una volta risposta questa domanda risponderà al quesito iniziale).
Le conversazioni non sono sempre simmetriche (ovvero conversazioni tra pari = tra amici o
familiari), ma esistono anche conversazioni asimmetriche: si tratta delle conversazioni in cui un
interlocutore domina sull’altro (rapporto tra professore e studente, medico e paziente). Questo ha a
che fare con la selezione e gestione dei turni, perché per selezionare un turno esistono tre strategie o
regole.
Colui che sta parlando seleziona il parlante successivo con una serie di segni, ad esempio
invitandolo direttamente a parlare (‘Maria rispondi’), o rivolgendosi a qualcuno in particolare
(‘Sto parlando proprio con te’): in questo caso il parlante ha la funzione di regista.
Nel caso in cui il parlante rinunci al ruolo di regista e non selezioni nessuno, avviene
l’autoselezione da parte dell’interlocutore: quando il parlante smette di parlare, qualsiasi
partecipante può autoselezionarsi e prendere la parola.
Quando il regista non seleziona nessuno, termina di parlare, e dopo la pausa nessuno si
autoseleziona, allora il regista prende di nuovo la parola.
Nelle conversazioni asimmetriche il ruolo del regista è dominante, e la gestione dei turni è
solitamente affidata a una figura di regista che esegue mosse comunicative forti. In questo tipo di
conversazioni, inoltre, i ruoli non sono equivalenti o interscambiabili. Si tratta di interazioni
istituzionali, codificate nel repertorio culturale secondo specifici parametri.
La cortesia
Nella conversazione sono fondamentali le strategie di cortesia. Alla base della distinzione tra mosse
comunicative preferenziali e non preferenziali (per es. invito > accettazione vs rifiuto), ci sono
spesso strategie di cortesia o mitigazione: la scelta di un atto linguistico indiretto piuttosto che
diretto per formulare un ordine è una strategia che si basa su motivazioni di cortesia; quando
qualcuno formula un invito ci si aspetta che l’interlocutore accetti piuttosto che rifiuti. Il ricorso a
figure di attivazione (come eufemismi, litoti: il professore dice allo studente ‘Non è andata proprio
benissimo la prova’) e le esitazioni, sono altre manifestazioni di strategie di mitigazione che si
rifanno ai principi della cortesia. Per valutare la cortesia o scortesia di un enunciato vanno presi in
considerazione:
L’atto in questione;
Le norme di una determinata cultura o società.
Non si tratta di regole puramente linguistiche, ma di regole pragmatiche applicabili a tutte le
transazioni cooperative umane.
Alla logica della conversazione così com’era stata delineata da Greis, che si preoccupava del
successo della comunicazione dal punto di vista della trasmissione del messaggio, si affianca adesso
41
Linguistica generale – secondo semestre
la nozione di successo di un’azione come successo di un’interazione sociale, e quindi l’uso del
linguaggio funzionale al successo dell’interazione sociale.
Il concetto di cortesia è strettamente legato alla nozione di “faccia”. La cortesia va intesa come un
incessante lavoro di tutela della faccia, propria e altrui, da parte di tutti i membri di una comunità.
L’idea di base è che tutti (parlanti, interlocutori, componenti di una società) cerchiamo di mantenere
e migliorare la nostra “faccia”. Concretamente, la faccia è una nozione costituita da due aspetti, che
corrispondono a due bisogni sociali fondamentali, a loro volta divisi in due grandi categorie.
Faccia negativa (bisogni negativi): costituita da bisogni legati allo spazio personale, alla libertà
di azione, di decisione, all’autonomia, ecc.
Faccia positiva (bisogni positivi): costituita da bisogni positivi, quali l’accettazione da parte
degli altri componenti del gruppo sociale, la valorizzazione e approvazione di sé da parte degli
altri componenti, la buona immagine di sé, ecc.
Ci sono ovviamente delle differenze culturali: lo spazio privato ha infatti misure differenti nelle
varie culture. Per esempio, il sud Italia ha una cultura più fisica, con abbracci, baci, mano sulla
spalla, e quindi uno spazio privato ridotto; al contrario, la cultura del nord Italia è caratterizzata da
una maggior freddezza nei rapporti interpersonali. Anche ciò che è considerato un valore, e quindi
quello che può dare una buona immagine di sé, varia da cultura a cultura. Tuttavia, in tutte le
culture esiste il concetto di “faccia”: si ritiene quindi che in tutte le culture sia costituito da un
aspetto negativo (faccia negativa) e un aspetto positivo (faccia positiva).
Certi atti che una persona compie possono mettere a rischio la faccia dell’altro. In particolare, (ad
esempio dando un ordine) essi possono limitare la libertà dell’altro, invadere la sua privacy, il suo
spazio personale, limitare la sua autonomia, e farlo sentire non desiderabile, non approvato, non
riconosciuto, non valorizzato. Levinson e Brown, nel loro libro pubblicato nel 1987, chiamano
questi atti FTA (Face-threatening acts), letteralmente “atti che minacciano e mettono a rischio la
faccia”. Quello di preservare la faccia dell’altro è un obbiettivo che è spesso condiviso, ma ha un
secondo fine. Io so che l’altro vuole preservare la sua faccia, ma so anche che l’altro sa che io so
che vuole preservarla. Allo stesso tempo, però, voglio anch’io preservare la mia faccia e so che
l’altro sa che io voglio preservarla. Preservare la propria faccia è quindi qualcosa di condiviso, ed è
condivisa la consapevolezza che sia condiviso. È quindi facile che le persone pervengano a una
sorta di scambio: io preservo la tua faccia pensando che così facendo tu preserverai la mia.
Generalmente la cortesia, soprattutto quando usa giri di parole o altri strumenti, è una deviazione
delle massime di Grice (quantità, qualità, modo, relazione). Queste massime ci indicano come un
messaggio deve o può essere fatto comprendere con la maggiore efficienza possibile: se si è chiari,
brevi, se non si danno né troppe né troppo poche informazioni, se non si divaga, ecc. si è molto
efficienti nella comunicazione. La cortesia, però, ci impone a volte di non esserlo: in certe
circostanze ci impone di non dire la verità (quando il dirla vorrebbe dire fare un FTA alla faccia
positiva dell’altro), di non essere brevi (quando si usano strategie riparatorie), di non essere chiari
(quando si è indiretti).
Quando si fa un FTA, si può decidere di riparare a quello che si sta facendo sottolineando che,
nonostante il FTA, il destinatario è approvato e valorizzato dal mittente: si parla in questi casi di
cortesia positiva. In generale, queste strategie riparatorie di cortesia positiva mirano ad esprimere
approvazione per la personalità e le qualità dell’altro, a indicare che gli interlocutori hanno interessi
e conoscenze comuni, ad indicare che hanno obblighi reciproci, obbiettivi condivisi, ossia un
terreno comune a cui entrambi appartengono. La cortesia positiva non è necessariamente utilizzata
come strategia riparatoria, ma può essere utilizzata anche come strategia generale per rinforzare i
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Linguistica generale – secondo semestre
legami sociali e l’amicizia fra le persone. In generale, se si tiene a un legame è necessario coltivarlo
con la cortesia positiva. Si possono classificare queste strategie positive in tre grandi classi:
Sottolineare che c’è un terreno comune;
Far comprendere che mittente e destinatario cooperano;
Andare incontro ai desideri del destinatario.
Alcuni esempi: a) Ti sei tagliata i capelli! Stai bene… Ti volevo chiedere se mi prestassi un po’ di
farina. -> l’atto direttivo/la richiesta viene anticipata da un complimento; b) Devi essere affamato, è
passato parecchio da colazione. Che ne dici se andiamo a pranzo? -> c’è un coinvolgimento, una
manifestazione di un intento comunicativo; c) Abbiamo mangiato troppo oggi vero? -> parlare al
plurale per creare condivisione; d) Fra, raga, amore, mammina -> usare nomignoli con
un’espressione più o meno esplicita o connotata, ecc.
La cortesia negativa è solitamente sempre riparatoria, volta a minimizzare il danno rivolto alla
faccia negativa del nostro interlocutore. Di solito vengono identificate 4 strategie possibili di
riparazione:
Fare assunzioni minime sui desideri e i bisogni del destinatario;
Non far apparire il FTA come una coercizione e lasciare libertà di scelta;
Fare come se non volessi infliggere il FTA al destinatario;
Soddisfare altri bisogni della faccia negativa del destinatario.
Alcuni esempi: fare assunzioni minime -> forse ti piacerebbe venire a cena con me, mi chiedevo se
ti piacerebbe venire a cena con me, potrebbe essere che tu abbia voglia di venire a cena con me?;
minimizzare le coercizioni -> volevo solo chiederti se tu potessi prestarmelo, posso avere un
assaggio di torta?, me ne daresti un goccio?, te la prendo in prestito solo per un minuto, parliamo
un po’?; abbassamento di sé stessi -> (offrendo un regalo) è una cosa da niente, (offrendo
ringraziamenti) si figuri, (invitando qualcuno) casa mia non è un granché, (offrendo un pranzo) non
sono proprio una brava cuoca, mi sento stupida ma non riesco a capire questa mappa, ecc.
Scusandosi si manifesta che si è riluttanti a infliggere il FTA al destinatario, per esempio
manifestando esitazione, dando spiegazioni come ragioni di forza maggiore, chiedendo perdono ->
normalmente non te lo chiederei, ma…, so che ti scoccio, ma…, spero mi perdonerai se…, sono
spiacente di informarti che…, ecc.
Cultura e linguaggio
La quantità di informazioni ritenuta appropriata in uno scambio comunicativo specifico può variare
da cultura a cultura e a seconda del tipo di scambio: ovvero, rendi il tuo contributo tanto
informativo quanto richiesto secondo i parametri discorsivi della cultura in questione. Gli atti e le
norme che possono quindi variare interculturalmente sono:
Le regole per la presa del turno e durata delle pause (ci sono per es. culture in cui è necessario
fare una pausa di una certa durata prima di rispondere, perché hanno una tolleranza del silenzio
maggiore: ciò che per noi viene considerato un segnale di esitazione o ignoranza, in altre culture
noi veniamo giudicati come dei prevaricatori o degli invadenti);
Le strategie di accettazione e rifiuto (solitamente si fa un’offerta che ci si aspetta venga
accettata, ma per es. alcune culture tendono a rispondere sistematicamente prima con un rifiuto,
per poi avere nuovamente la richiesta e accettarla in una seconda battuta);
La valutazione della felicità di un atto: la massima della qualità può essere subordinata a
massime della cortesia (per es. quando non si dice la verità per non offendere), ma anche la
massima della quantità;
Le norme che regolano il comportamento sociale nella sua interezza, per es. il riconoscimento
della posizione sociale o discernment (alcune culture orientali nel momento dell’interazione
osservano degli atteggiamenti nei confronti dell’interlocutore che non sono presenti nelle nostre
culture).
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Linguistica generale – secondo semestre
Gli studi linguistici in senso stretto, pragmatici e/o antropologicamente orientati, tendono a studiare
gli eventi linguistici calati nella cultura. Le prospettive che vengono quindi adottate da
un’osservanza stretta sono antiuniversalistiche, relativistiche, e mirano a leggere e interpretare
differenze tra le culture che non corrispondono alle differenze tra le lingue. Si tratta di studi in cui si
riflette il relativismo culturale che caratterizza l’antropologia moderna. Si parla in questo caso di
competenza comunicativa, secondo la quale un evento linguistico è un’attività direttamente
governata da regole o norme per l’uso del parlato. Lo studio della competenza comunicativa non si
basa soltanto sull’enunciato o atto linguistico, ma sull’evento linguistico in generale. Il parlare
viene quindi studiato come elemento costitutivo dell’agire umano, come particolare attività tra altre
attività.
Nel 1972 Dell’Hymes aveva definito dei parametri descrittivi dell’evento linguistico che valessero
un po’ per tutti gli eventi linguistici, e tenessero conto anche dell’aspetto culturale. Li ha riassunti
nell’acronimo “speaking”:
S ituazione, intesa come spazio e tempo concreto in cui avviene l’evento comunicativo;
P artecipanti all’evento;
E nds = scopi;
A tti di linguaggio o atti linguistici;
K ey = chiave;
I nstruments = mezzi, canali e codici;
N orme;
G enere o tipologia di discorso.
Alcune componenti di questo modello sono state ampiamente studiate sotto diverse prospettive
pragmatiche e di linguistica testuale, mentre altre le ha spiegate esaustivamente Dell’Hymes.
Quando si parla di lingue europee, Benjamin Lee Whorf aveva stabilito lo “Standard Average
European” con maggior concentrazione nella zona dell’ “Area di Carlo Magno” (formata da
Francia, Germania, Gran Bretagna). Il SAE è quindi un tipo areale: significa che presenta un
insieme di caratteristiche largamente interrelate, che co-occorrono nelle lingue di una determinata
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Linguistica generale – secondo semestre
area, spiegabili in larga parte in termini di contatto. Francese, tedesco e neerlandese sono perciò
lingue “pienamente europee”, mentre il turco o il basco sono lingue ai “margini”, poiché presentano
caratteristiche diverse rispetto a quelle considerate più europee.
Bisogna capire quindi qual è il punto di riferimento per definire il concetto di lingua esotica:
vengono ripresi alcuni esempi, quali:
• L’uso di un verbo transitivo (come il verbo “avere”) per indicare il possesso —> possessore
soggetto e posseduto oggetto diretto; per esempio in russo questa relazione non vale, perché usa
una costruzione analoga del giapponese.
• L’uso dell’articolo.
Capitolo 2
Fa capire la varietà nell’ambito della categorizzazione di persone, cose ed elementi. Tocca 4 aree:
• Distinzione di parti del discorso e classi lessicali (nomi, verbi e aggettivi);
• Categoria del genere;
• Classificatori;
• Categoria del numero.
3. Classificatori
Un altro fattore che caratterizza la diversità nelle lingue è il ruolo dei determinanti nominali
(articoli, dimostrativi, quantificatori numerali, ecc.) che servono a quantificare gli elementi.
Ci sono lingue nelle quali non esistono questi determinanti in forma di articolo o di dimostrativo, e
che quindi ricorrono all’uso del classificatore. Per esempio, italiano e inglese prevedono il contrasto
tra determinativo e indeterminativo e ammettono il determinante zero. Invece cinese, giapponese e
coreano non prevedono la segnalazione obbligatoria del numero: i sostantivi con determinante zero
rappresentano la norma, e sintatticamente c’è la tendenza a trattare tutti i nomi come nomi di massa.
Qualunque sia il nome quantificato, è comunque richiesto un elemento in grado di “atomizzarlo” in
unità computabili (numerizzabili), come accade in italiano per i nomi di massa (“un po’”).
4. Numero
Anche in questo caso c’è una forte variazione tra le lingue. È una categoria caratterizzata da
arbitrarietà e convenzionalità
• Singolare vs. plurale, duale e plurale (greco) vs. Singolare, duale, plurale, e triale.
• In alcune lingue oltre al triale è previsto addirittura il quadrale, intesi rispettivamente come
“paucale” e “paucale maggiore”, che corrispondono a “plurale” e “plurale maggiore” di altre
lingue.
• In alcune lingue è possibile nominare un’entità numerabile senza specificare il numero.
• In alcune lingue molto povere il numero non viene espresso del tutto.
• In molte lingue del Nord America, dell’Africa e del Caucaso il numero non interessa solo le
entità, ma anche gli eventi.
IL SOGGETTO E L’OGGETTO
( S = Soggetto verbi intransitivi / A = Soggetto verbi transitivi / P = Oggetto verbi transitivi )
In italiano il soggetto è quel sintagma che si accorda con il verbo; se coreferente può essere omesso.
• In presenza di un verbo intransitivo, di solito, il soggetto ha il ruolo semantico di agente, e
l’oggetto diretto ha il ruolo semantico di paziente.
• I soggetti dei verbi transitivi (A) e intransitivi (S) di solito presentano le stesse caratteristiche
morfosintattiche, e hanno quindi la stessa marcatura. Si può verificare in base ai pronomi -> “Io
cado” vs “Io mangio”.
Si parla quindi di lingue nominativo-accusative, perché ciò che cambia è la marcatura dell’oggetto.
Altre lingue trattano allo stesso modo ( = danno la stessa marca) ai soggetti dei verbi intransitivi (S)
e agli oggetti dei verbi transitivi (P), mentre ai soggetti dei verbi transitivi (A) riservano specifiche
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Linguistica generale – secondo semestre
proprietà morfosintattiche (danno una marca ergativa). Si comportano così le lingue ergativo-
assolutive (come il basco). Esempio di lingua ergativa: “Il cane è sporco”, “Il cane sta sotterrando la
carne”. Il cane è soggetto in entrambe le frasi, e sono marcati allo stesso modo in italiano. In queste
lingue, invece, “il cane” è marcato in maniera diversa nelle due frasi: nel primo caso è il soggetto di
un verbo intransitivo, e nel secondo caso di un verbo transitivo. (Frase 1, il cane = nguda; Frase 2, il
cane = nguda-nggu)
Ci sono lingue ergative assolutive fisse, dove il sistema si osserva solo con determinate classi
nominali o con determinati tempi verbali.
Ci sono le lingue neutrali, nelle quali non esistono differenze tra S, A e P.
Esistono sistemi tripartiti: esistono tre marche distinte per le tre funzioni strutturali
Esistono lingue attive / inattive, nelle quali i soggetti dei verbi intransitivi (S) si comportano a volte
come soggetti dei verbi transitivi attivi, a volte come pazienti dei verbi intransitivi inattivi.
PASSIVO E ANTIPASSIVO
Questa è la seconda area in cui viene valutata la variazione. Usare l’attivo e il passivo sono strategie
per l’organizzazione dell’informazione (scelte del parlante).
Il passivo è una strategia che cambia la valenza dei verbi (è una diatesi recessiva), nel senso che
riduce la valenza dei verbi. Se si pensa alle frasi passive, la valenza obbligatoria è quella che ha la
funzione sintattica di soggetto, ma il ruolo semantico di paziente; invece il complemento oggetto o
quello di causa efficiente possono essere taciuti. Quando si usa il passivo si passa da due valenze a
una valenza obbligatoria.
Il passivo nelle lingue del mondo può essere espresso in modo diverso:
Ci sono strutture perifrastiche, come in italiano, in cui si può usare il verbo essere oppure una
struttura morfologica specifica (come nel turco);
Esiste anche l’antipassivo, limitato però alle lingue ergativo-assolutive. In questo caso l’agente
resta soggetto, però non ha più una marca ergativa, che è tipico dell’agente del verbo transitivo
bivalente, ma prende invece la marca dell’assolutivo, cioè del verbo intransitivo che è
monovalente. Il paziente può essere omesso o ricevere marche di casi indiretti. Il verbo diventa
quindi intransitivo.
SUBSTANDARD O ESOTICO?
Questo ultimo argomento parte dalla considerazione di una struttura che è substandard in italiano.
Nei verbi transitivi l’oggetto diretto non vuole preposizioni (“Mario chiama Lucia”), mentre nella
varietà substandard si ammette (“Mario chiama a Lucia”).
Ci sono casi in cui è necessario preporre la preposizione all’oggetto diretto: “A me non convince
quest’argomentazione” -> topicalizzando il “mi” dobbiamo aggiungere la “A” di “A me”. Perché si
possa mettere un oggetto diretto preceduto da preposizione, in italiano devono essere rispettati
alcuni criteri:
Animatezza del referente;
Definitezza del referente;
Specificità del referente;
Topicalità del referente (è strutturale). Questo criterio viene manifestato con la dislocazione a
sinistra (che è una topicalizzazione); è anche l’unico caso in italiano in cui la “marcatezza” è
grammaticalizzata.
In altre lingue la marcatezza di questo tipo è ammessa anche con oggetti diretti inanimati e
indefiniti, quindi quello che in italiano è considerato “substandard” in altre lingue è considerato
grammaticale e obbligatorio.
Si cercano gli strumenti che servono a manifestare la connessione degli eventi nella narrazione.
Questa connessione mette in evidenza il punto di vista del parlante (causa, effetto, conseguenza,
…).
Ci sono lingue più o meno ricche di connettivi:
Le lingue che hanno una lunga tradizione scritta hanno sistemi di connettivi piuttosto complessi.
Le lingue a tradizione orale (o a semplici tradizione scritte) utilizzano spesso la giustapposizione
o connettivi molto poveri.
Per spiegare questo fenomeno, l’Arcodia-Mauri riprende le tre congiunzioni base: and / but / or
(coordinante, avversativa, disgiuntiva). Sottolinea poi che questo sistema è molto meno frequente di
quanto si pensi: costituisce infatti l’aspetto esotico delle lingue.
Per quanto riguarda la congiunzione “e”: alcune lingue non la possiedono, oppure dispongono di
connettivi più specifici di “e” (connettivi per la congiunzione sequenziale vs. Non sequenziale degli
eventi).
Per quanto riguarda la congiunzione disgiuntiva: alcune lingue sono sprovviste di tale congiunzione
e si servono della semplice giustapposizione; altre dispongono di due connettivi che esprimono o
“alternativa semplice” o “alternativa finalizzata alla scelta”.
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