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Lezione 1

Linguistica generale si occuupa del linguaggio umano e di come si realizza nelle lingue (diverse ma con
criteri e organizzazione con unità). Linguistica generaler come scienza che stabilisce le modalità d’anilisi
delle lingue. Linguaggio verbale come principale strumento di comunicazione (in tutte le società della
storia e contemporanee).

Lingue presenti oggi (non è chiaro cosa si intende per lingua, criteri diversi, inglese britanni e americano,
croato e serbo → problemi con diverse idee al riguardo, rispetto a percezione parlanti in un’epoca, oggi
serbi e croati crenodo che sono diverse prima i parlanti consideravao un’unica lingua serbo-croato, con
grafie diverse cirillico e alfabeti latino).

Diverse lignue censite: 6.000 e 7.000 (vd. Slide)

Ethonolgue (lingue e geografia): continente con più lingue Asia (2.300 lingue, 32 %), Africa (2.143), Pacifico
(1.300, circa 800 in Papua Nuova Guinea), America (1,060 lingue amerindiane, escluse lingue coloniali)
Eoropa (288, 4% del numero totale lingue).

Lingue e gegrafia: cartina densità lingue nazioni, più vicino all’equatore più denso; ambiente ecologico più
ricco di diversità animale e vegetale più lingue, correlazione biodiversità e diversità linguistica ipotizzata
(proliferazione di specie animali e vegetali connessa a differenziazione specie umana in gruppi diversi per
ragioni genetiche che parlano lingue diverse). Le lingue umane non sono legate alla genetica, diversità
linguistica è dovuta a fattori interamente culturali.

Perché c’è maggiore diffenziazione linguistica in queste aree: risposta storica, queste aree (con maggiore
biodiversità) hanno dato vita a a organizzazioni della specie umana in piccoli gruppi, che si sono
differenziati linguisticamente, così che gruppi di poche migliala di individii che parlano una diversa lingua
sono autosufficenti in un’area ricca di risorse naturali in cui società di caccciatori e raccoglitori potevano
sostentarsi anche se di numero ristretto. Nelle aree più fredde si è sviluppata l’agricoltura oer sostenere la
specie umane, modalità di vita organizzata in complessi statali e poche lingue su un grande numero di
parlanti.

Diffusione delle lingue per numero di parlanti:

Non solo le lingue nel mondo contemporaneo sono distribuite in maniera diseguale in termini geografici,
ma una norma generale delle risorse semiotiche (comunicative in una comunità) è che si distribuiscono in
manierea diseguale, non sono di tipo egualitario. Lingue che hanno da 100.0000.000 in su (macro lingue): 8,
rappresentano lo 0.1% delle lingue totali, ma hanno 2.700.000.000.000, ciraca il 40% della popolazione
mondiale.

10.000.000 in su 85 lingue, 1,3% delle lingue totali ma hanno 2.700.000.000.000 di parlanti. Più si scende di
dimensione di parlanti fino a lingue tra 1000 e 10.000 paralanti (maggior parte delle lingue) hanno solo
7.500.000 parlanti del totale, 11% della popolazione.
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Disomogenità si riscontra nelle lingue più parlate nel mondo contemporaneo: (dati da Ethnologue), cinese
lingua più diffusa per parlanti (1.300.000.000.000), parlato in 38 paesi (madre patria è la Cina e Taiwan ma
comunità di parlanti cinesi sono diffuse in molte parti del mondo, sorpattutto nell’Asia Orientale e nell’area
del Pacifico, dove ha una presenza molto stratificata). Seconda lingua per numero di parlanti è lo spagno
con 442.000.000.000 parlanti madre lingua. L’inglese è la terza più parlata ma raggiunge la massa di pralnti
del cinese o forse la supera se si considerano i parlanti che hanno l’inglese come seconda lingua (stati dove
l’inglese ha avuto una presenza coloniale importante, dall’africa occidentale, all’india, ad alcune zone
dell’Asia; circa il 12% della popolazione indiana ha una competenza della lingua inglese, ma in quel paese
vivono circa 1.000.000.000 quindi il numero assoluto di parlanti è adddirittura più alto dei parlanti in UK).

Tra le macro lingue si considera anceh l’Arabo: 315.000.000 di parlanti ma di più considerando i parlanti che
lo parlano come seconda lingua. È diffuso in 58 paesi e presente in molti continenti (Africa, Asia, Europa →
maltese è una varietà di arabo, è presente come lingua di immigrazione in Europa e come lingua di cultura
dell’Islam in Indonesia).

Hindi + Urdu + Lanhda: lingue diffuse nell’unione indiana e nel Pakistan, hanno diversi sistemi di scrittura
ma sono intercomprensibili, nel periodo coloniale erano considerate la stessa lingua, solo dopo la divisione
dell’unione indiana e del Pakistan sono classificate come lingue diverse. Diffuse in pochi paesi ma con molti
parlanti.

Bengali o Bengalese: lingua molto diffusa e molto concetrata geograficamente, 243.000.000 di parlanti
divisi tra Bengala orientale (Bangladesh) e lo stato del Bengala occidentale, parte dell’unione indiana.

Portoghese: lingua diffusa in molti paesi (15), con 223.000.000 di parlanti, il gruppo maggiore del quale è
presente in Brasile.

Russo: 154.000.000 di parlanti ma come seconda lingua, lingua culturale è di fatto presente in una
vastissima parte del mondo contemporaneo, tra Europa e Asia, almeno tra 250.000.000 di parlanti

Al di sotto di queste 8 macro lingue si trovano lingue con una maggiore caratterizzazione nazionale:
giapponese, lahnda (Pakistan), indonesiano. Tra queste (21) l’Italiano. Solo il francese (come lingua
coloniale) ha uno statuto di grande diffusione per numero di paesi.

Maggiori famiglie linguistiche nel mondo contemporaneo: afroasiatico (tra cui Arabo) con 366 lingue e
497.000.000, austronesiano (cui appartiene l’indonesiano) con 1.224 lingue e 324.000.000 di parlanti,
indoeropeo (italiano, spagnolo, tedesco, inglese, francese, hindi, urdu) con 3.089.000.000 di parlanti con
444 lingue, Niger-Congo (uno dei macrogruppi di lingue africane) con molte lingue (1.527) ma 511.000.000,
gruppo sino-tibetano con poche lingue (453, la maggiore è il cinese che da sola ha granparte del numero di
parlanti, cinese è un nome collettivo che si riferisce a una varietà di riferimento, la lingua nazionale cinese
comune ma suddiviso in tante lingue locali, ciascuna con diverse centinaia di milioni di parlanti), trans-
Nuova Guinea (uno dei gruppi presenti nell’isola di Papua Nuova Guinea): 479 lingue (6,75 % delle lingue
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totali) ma con 3.000.000 (solo lo 0.055 % della popolazione) → qui troviamo un grande numero di lingue,
ma ciascuna con pochi parlanti, tipiche delle zone equatoriali con grande biodiversità ma piccole società di
cacciatori e raccoglitori.

La complessità del mondo contemporanea dal punto di vista linguistico ha dato lugo oer gran parte della
storia all’impressione che non si potesse fare alcuna genrealizzazione rigurado le lingue se non che ogni
gruppo avesse la propria lingua. Ciò non è vero: c’è un elemento unificante perché tutte queste lingue sono
una realizzazione della capacità comunicativa umana del linguaggio verbale, inoltre tutte le linge hanno
pricipi di orgqanizzazione interna che sono confrontabili e studiabili. L’esame di queste strutture
comparabili è l’oggetto della linguistica generale.

Lezione 2

La lingua e il segno:

Classificazione delle lingue:

Confrontando la parola “piede” in diverse lingue (italiano, francese, spagnolo, portoghese, rumeno) ci
accorgiamo che vengono usate parole molto simili. In latino, lingua antica che era diffusa nelle zone in cui si
parlano queste lingue, si usava “pes” → ci accorgiamo che le parole usate in queste lingue derivano
dall’accusativo singolare della parola latina “pes”, “pedem”.

Il confronto di parole collegate ci permette di dire che queste lingue hanno un’origine comune, che è il
latino: costituiscono una famiglia di lingue che hanno lo stesso progenitore. Questa è una classificazione
genealogica.

La diversità delle lingue va indagata inizando a raggruppare le lingue per diversi criteri (per esempio,
attraverso somiglianze che ci permettono di dire che derivano da un progenitore comune).

Le lingue possono essere classificate in due modi alternativi tra di loro, entrambi utilizzabili e utili a patto
che non si usino gli argomenti di uno su l’altro, sono metodi che procedono per criteri autonomi.

1) Classificazione genealogica → prova dell’origine comune attraverso l’etimologia (attraverso il


confronto tra lessemi)
2) Classificazione tipologica → lingue sono raggruppate per le caratteristiche interne, strutture.
Metodologia basata sul confronto delle strutture interne in base a criteri generali

Entrambi questi metodi si ono definiti tra fine 700’ e inizio 800’. Rivoluzione sperimentale della linguistica in
questo periodo perché vengono raccolti dati provenienti da diverse lingue con metodo, prima era una
ricerca di tipo introspettivo soprattutto di natura filosofica. Intorno alla metà del 700’ la ricerca linguistica
inizia ad essere basata sulla raccolta di dati.
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Due personalità più rappresentative vissute nello stesso periodo e nello stesso ambiente (Berlino tra 700’ e
800’) padri di questi due metodi:

1) Franz Bopp: professore di linguistica comparata dell’università di Berlino, primo esempio di


classificazioen genealogica (Grammatica comparativa, 1833 e altre edizioni successive, e preceduta
da uno studion 1816 sualla coniugaizone verbale)
2) Von Humboldt: classificazione tipologica. Politico e intellettuale del regno di Prussia, dopo il 1820 si
dedica allo studio del linguaggio. Scrisse un’opera sul giavanese (indonesiano), preceduto da
un’introduzione sullo studio delle lingue. Opera poi pubblicata dal fratello nel 1936, l’introduzione è
nota come “la diversità delle lingue”, rappresenta la priam base per la classificazione tipologica
delle lingue.

Classificazione genealogica:

Le lingue neolatine formano una famiglia, ma esse sono parte di una famiglia più grande (scoperta
compiuta da Bopp, che riuscì a dimostrare mediante un metodo l’esistenza di una grande famiglia di lingue
chiamata “indoeuropeo” o “indogermanico”).

Latino, greco, sanscrito, persiano, persiano antico, hindi, bengalese, assamese: il metodo etimologico si può
applicare a queste lingue antiche molto lontane tra loro

Anche l’inglese “foot” è simile alle altre forme (c’è uno spostamento da “p” verso “f” e da “d” verso “t” e
“oo” corrispondono a una pronuncia antica dell’anglosassone diversa, simile a “pod-“ del greco, a sua volta
simile al latino “ped-“, cambiamento in “-a” nelle forme indane), a sua volta simile al tedesco, fino alla
forma del gotico, antica lingua germanica che si è estinta nel medioevo che si parlava nei balcani, lingua dei
visigoti e degli ostrogoti.

Indiano, iranico, greco, latino, germanico → confrontando tra loro le diverse forme di una parola con il
metodo etimologico e poi applicando il metodo a parti consistenti del lessico, si capisce che appartengono
alla stessa fonte: la famiglia indoeuropea.

L’arabo (si parla anche in un’area adiacente all’area persiana – non si tiene in conto il criterio geografico in
questo caso) usa la parola “quadam” per indicare l’estremità dell’arto inferiore, una parola diversa dalle
altre. In turco si usa “ayak”.

Da queste diveristà lessicali si capisce che non sono lingue indoeuropee né parenti tra di loro.

Classificazione tipologica: si confrontano proprietà strutturali delle lingue, caratteristiche della struttura
delle lingue.
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Nella frase si distinguono tre elementi fondamentali: soggetto, oggetto e verbo

1) Italiano → Marco ha una sorella e un fratello (nella tipologia dell’ordine dei costituenti l’italiano è
detto una lingua SVO)
2) Il persiano è una lingua SOV
3) Il turco ha la stessa struttura dei costituenti del persiano (SOV)

Con una descrizione delle proprietà possiamo distiguere per l’ordine dei costituenti la tipologia di
queste tre lingue in due gruppi: quelle che hanno un ordine preferenziale dei ostituenti SVO e quelle
che hanno un ordine preferenziale SOV

Italiano e persiano che sono lingue indoeuropee, che sono affini genealogicamente, sono classificabili
differentemente per proprietà tipologica, il contratio vale per persiano e turco → queste classificazioni
sono indipendenti e danno risultati diversi (anche il giapponese è una lingua SOV anche se molto
lontana da lingue indoeuropee ma anche dal turco)

Definizioni di lingua (definizioni operativa, insieme di proprietà):

ciascuno dei sistemi simbolici, propri della specie umana ma diversi da comunità a comunità e in
qualche misura anche da individuo a individuo, trasmessi per via culturale e non ereditati
biologicamente, basati su simboli vocali o, in casi particolari, su simboli gestuali, attraverso i quali gli
appartenenti alle società umane conoscono la realtà, la categorizzano, sviluppano pensieri articolati,
comunicano le proprie conoscenze e i propri pensieri.

Altre speci comunicano ma solo la specie umana attraverso lingue che sono trasmesse per via culturale,
in genere le altre speci viventi comunicano attraverso codici ereditati biologicamente.

Vasta gamma degli usi possibili della lingua.

Come analizzare internamente la lingua:

Metodo fondamentale di Ferdinand de Saussure (linguista svizzero, ha riflettuto sul problemea delle
carattestiche generali della lingua e quali proprietà la rendono studiabili):

Prima proprietà: la lingua è uno strumento di comunicazione. Essendo uno strumento che può essere
utilizzato per la comunicazione ha una proprietà che le consente di comunicare e sulla base di ciò si può
studiare. È uno degli strumenti di comunicazione umani e animali.

Proietà dei sistemi di comuicazone: segno secondo Saussure.

Cos’è un segno e come si classificano i segni, e caratteristiche del segno linguistico?

Rriflessione svolta nelle lezioni degli ultimi anni della sua vita (nato a Ginevra fu attivo lì negli ultimi
anni, nel 1916 gli allievi publicano le sue lezioni, poi raccolti in un volume che ebbe grandissima e
influenza sulla cultura del primo novecento e ha influito sullo sviluppo della disciplina).

Classificazione dei segni:


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Come si può concettualizzare un segno? Il segno è un legame tra due fatti, uno è l’espressione (quello
che si propone ai sensi) e contenuto (non percepibile ma legato al fatto percepibile)

Es. luce rossa del semaforo → luce rossa (espressione) contenuto bisogna rallentare (contenuto, ciò
che l’interpretante capisce)

Es. nuvole nere nel cielo (espressione, presente) → arriverà un temporale (contenunto, assente)

Es. cifre arabe “7” (espressione) → “sette” (contenuto)

Per la classificaznone dei segni ci possiamo basare su ciò che tra 800’ e 900’ Peirce, fondatore del
pragmatismo che si sooffermò sulla scienza generale dei segni individuò relativamente alla
classficazioen dei segni (due principi): intenzionalità e legame tra espressione e contenuto (necessario o
arbitrario).

Se i segni non sono intenzionali sono detti “indici”, quelli intenzionali possono essere detti “icona”
(legame tra espressione e contenuto necessario) o “simbolo” (legame tra simbolo e contenuto
arbitrario).

Esempi di indici:

Es. Macchia rossa sulla camicia (espressione, la macchia non è stata procurata volontariamente al fine
di segnalare qualcosa ma è stata creata inavvertitamente) → Ho mangiato spaghetti al pomodoro (per
l’interpretante del segno ciò diventa l’espressione di un contenuto)

Temperatura sopra 37° C → Infezione in atto

Orme di zampe infangate sul tappeto → Il gatto è andato in giardino

In tutti questi casi il segno non è realizzato dal sup aautore intenzionalemte (talvolta non si capisce chi
sia la’utore, es. nuvole nere addensate in cielo. Condizini metereologiche generano questa espressione
ma non si realizza intenzionalmente per avvertire di un temporale imminente ma è solamente
l’antefatto causale che un interpretante può leggere come espresisone di un segno).

Segno intenzionale ma non arbitrario:

Tra espressione e contenuto c’è una relazione di tipo analogico (l’espressione mima le caratteristiche
del contenuto):

Un ferro da stiro stilizzato con una croce supra sulla targhetta di un capo d’abbigliamento è
l’espressione di un contenuto “non stirare”:

1) La targhetta è stata messa intenzionalmente per indicare quel contenuto


2) Tra espressione e contenuto c’è un legame, l’espressione suggerisce il contenuto (il contenuto può
facilmente essere interpretato)
3) Una foto di un individuo è il segno di quella persona → immagine con certi colori, le cui
caratteristiche mimano analogicamente il contenuto (non è quella persona ma un’immagine
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(espressione) che veicola un contenuto, la figura di qulacuno (es. il presidente della repubblica).
Esempi di icone sono le carte geografica, ma anche registrazioni della voce (è un’archivizaione
elttronica di un contenuto che è costituito da un discorso che può essere risentito).

Segno intenzionale ma con in cui il legame tra espresisone e contenuto è di tipo arbitrario (non
analogico):

Es. bandiera della Francia: non ci sono elementi che rimandano dall’espressione al contenuto (dal
tricolore blu, bianco e rosso al contenuto “repubblica francese”; sappiamo come storicamente si sia
creato questo legame tra tricolore e la Francia, si tratta di un legame che si è affermato storicamente e
culturalmente tra una certa sequenza di colori come simbolo di un certo contenuto → è necessario
conoscere la storia del rapporto tra certi colori e lo stato francese per stabilire una onccessione tra
espressione e contenuto).

Terzo tipo di segni è definito simbolo → è intenzionale e con un rapporto arbitrario tra espressione e
contenuto.

Lezione 3

Segno linguistico e livelli dell’analisi linguistica

In che modo il segno linguisitco si inserisce nella classificazione generale dei segni

Analisi del segno linguistico (classificazione del segno linguistico e proprietà di esso)

Alcuni segni linguistici sono iconici ma la maggior parte sono non iconici. Tra i segni linguistici alcuni
hanno un rapporto tra contenuto ed espressione di tipo analogico (espressione mima il contentuo).
Rapporto di imitazione più essere sonoro (oltre che visivo) (il segno linguistico è di tipo sonoro e può
mimare nei suoni dell’espressione le caratteristiche del contenuto, i segni che funzionano in questo
modo si chiamano onomatopee).

Esempio di onomatopea: “belato” ha una relazione imitativa tra espressione e contenuto →


l’espressione (il suono “belato”), contiene in sé qualcosa (la prima sillaba) che imita una caratteristica
del contenuto (il verso prodotto dalla pecora).

La parola “bomba” si è generata con un’espressione (il suono) che imita l’esplosione fatta dall’oggetto
indicato dal suo contenuto.

La parola “ticchettio” contiene al suo interno (espressione) alcune caratteristiche del rumore prodotto
dall’orologio.

Ci sono anche altri processi iconici all’interno della lingua:

Es. in Italiano come superlativo dell’aggettivo “grande” possiamo avere il raddoppiamento


dell’aggettivo, se diciamo che qualcosa è “grande grande” diamo all’aggettivo un significato più intenso
che nel suo uso semplice, allo stesso modo possiamo dire “lento lento”. L’intensificazione del valore
dell’aggettiv è ottenuta tramite il raddoppiamento.
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Normalmente però il segno linguistico è di tipo arbitrario, rientra nella categoria dei simboli.

Es. “tavolo”, “fiore”, “mangiare”, “rosso” → Nel rapporto tra espressione e contenuto non c’è
necessità, l’espressione non è motivata sulla base delle caratteristiche del contentuot, il rapporto tra i
due piani del segno è arbitrario.

Come evidenziato da Hjelmslev (linguista Danese attivo nel primo novecento, aggiornando una
distinzione sul tema già avanzata da Saussurre), in realtà l’analisi del segno linguistico si basa su una
doppia distinzione: quella tra il piano dell’espressione e il piano del contenuto e quella tra ma anche tra
la distinzione tra forma e sostanza attive sia nel piano dell’espressione che nel piano del contenuto.

Se applichiamo quest doppia possibilità di analisi tra un’espressione e un contenuto e un contenuto e in


ciascuno di questi piani tra una forma e una sostanza, ottienimao una quadripartizione del segno in cui
ciascuno dei quattro quadranti in cui ciascuno dei quattro quadranti in cui si analizza il sengo è detto
strato.

Il segno linguistico non comporta soltanto due piani, ma anche quattro strati (forma dell’espressione,
sostanza dell’espressione, forma del contenuto, sostanza del contenuto).

Sostanza dell’espressione: suono prodotto, trasmesso e percepito in una determinata circostanza.

Forma dell’espressione: significante

Forma del contenuto: significato

Sostanza del contenuto: senso in un determinato contesto

Comunicazione tra due individui: richiesta cliente a un barista (comunicazione schematizzata in tre
freccie che collegano i quattrostrati del segno):il parlante inizia la comunicazione dalla sostanza
dell’espressione; es. cliente: “un caffè” → suono (fa riferimento a una serie di unità formali della lingua,
cioè il significante, la forma dell’espressione). Attraverso questi elementi viene prodotto un certo
contenuto (significato), questo contenuto, all’interno di una circostanza determinata acquisisce un
determinato senso (la persona attraverso questo sintagma nominale sta chiedendo al barista di
preparargli una tazzina di caffè). Il barista (ricevente) parte dal suono, riconosce nel suono certi
elementi del significnte, li associa con certe unità di contenuto della lingua e lo cala nella situazione
specifica comprendendo che il parlante vuole che gli prepari una tazzina di caffè.

Questo quadrante è percorribile nelle due direzioni: o partendo da un senso specifico, passando per la
forma del contenuto, poi per la forma dell’espressione e quindi alla sostanza dell’espressione, oppure
partendo dalla sostanza dell’espressione, passando per la forma dell’espressione, alla forma del
contenuto e alla sostanza del contenuto.
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Proprio perché il segno linguistico è arbitrario, non ha un rappoorto diretto tra sostanza
dell’espressione e sostanza del contenuto (non c’è un rapporto di similitudine ma si passa attraverso le
forme della lingua che codifica questi rapporti).

Tre tipi di rapporti tra i quattro strati del segno linguistico:

1) Forma dell’espressione (significante) e forma del contenuto (significato)


2) Forma dell’espressione e sostanza dell’espressione
3) Forma del contenuto e sostanza del contenuto

Questi tre rapporti sono tutti caratterizzati dalla proprietà dell’arbitrarietà:

non solo il segno linguistico è arbitrario ma tutti i rapporti tra gli strati del segno linguistico sono arbitrari:
tre tipi di arbitrarietà del segno linguistico.

I tre tipi di arbitrarietà linguistica sono chiamati:

1) Arbitrarietà assoluta: arbitrarietà rapporto tra significante e significato (arbitrarietà tra la forma
dell’espressione e la forma del contenuto)
2) Arbitrarietà formale: arbitrarietà tra la forma e la sostanza dell’espressione (il rapporto tra il
significante e il suono è arbitrario)
3) Arbitrarietà semantica: rapporto arbitrario tra forma e sostanza del contenuto (rapporto tra il
significato e il senso in un contesto è arbitrario)

Arbitrarieà assoluta: per dimistrare questo livello di arbitrarietà possiamo osservare la diversità linguistica.
Dato un certo significato (es. corrispondente alla parola italiana “mela”), possiamo avere nelle diverse
lingue significanti molto diversi (in francese questo significato è espresso attraverso il significante
“pomme”, in tedesco mediante il significante “Apfel”, in russo “jabloko”, in persiano “sib”, in armeno
“xnjor”). Questi significanti non hanno nulla in comune, ogni lingua denomina un contenuto scegliendo i
suoi suoni, non c’è una ragione per cui viene usata quel suono per indicare un certo contenuto (se ci fosse
un rapporto motivato troverremo lo stesso significante in ogni lingua).

Prova contraria: se due o più lingue hanno significanti simili, ciò non vuol dire che ad essi corrispondano
significati simili (es. significanti “bellum” in latino, “bell” in inglese, “bello” italiano, sono significanti simili
ma i significati sono totalmente diversi tra loro e non collegati, “bellum”: “conflitto armato”, “bell” :
“campana”, “bello” : “gradevole”).

Arbitrarietà formale riguarda il piano dell’espressione:

ogni lingua organizza il piano dell’espresisoni secondo proprie categorie.

Es. parole dell’italiano possono avere accetto su una delle ultime tre sillabe, al contrario in fracese una
parola può essere accentata solo sull’ultima sillaba (ha una diversa regola di accentazione).
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Arbitrarietà semantica: piano del contenuto.

Le lingue non sono soltanto arbitrarie nella denominazione che danno a determinati concetti, ma anche
nell’organizzare attraverso i propri significati linguistici i possibili contenuti dlel’esperienza: le lingue sono
anche dei sistemi di organizzazione e di categorizzazione dell’esperienza e della realtà. Molto spesso le
parole della lingua ci sembrano motivate dalla realtà e imposgte dall’organizzazione stessa che la realtà
suggerisce alla nostra percezione ma le cose non sono così an’osservazione più attenta.

L’esame della diversità linguistica dimostra come ogni lingua sia una forma di organizzazione del mondo:

Es. campo dell’artcolazione del corpo in parti: questa suddivisione, apparentemente naturale per come è
codificata nella lingua, è soprattutto un’organizzazione culturale e non il riflesso dell’anatomia funzionale
per come è data naturalmente.

Es. organizzazione dell’arto inferiore → latino classico l’arto inferiore è suddiviso in quattro parti: coxa,
femur, crus, pes. In italiano sorvegliato abbiamo un’articlazione in quattro parti: anca, coscia, gamba, piede.
Ma nell’italiano parlato la suddivisione è in tre parti: anca (o fianco), gamba, piede. In molti dialetti centro-
meridionali il processo di estensione è diverso: sciango, cossa (da latino coxa), pede.

Storia di evoluizione di queste parole: latino coxa, femur, crus, pes; latino volgare (secoli tardi della storia
imperiale) si assume termine dal greco campe (curva, articolazione) entra in latino come prestito il termine
gamba (indicava una parte del corpo del cavallo inizialmente). In altre lingue romanze il termine crux non è
stato più usato, è stato preso un altro termine sempre usato in riferimenti agli animali, perna che ha dato
luogo allo spagno pierna o al portoghese perna. Il termine anca dell’italiano deriva dal germanico hanca,
che si ritrova nel francese, spagno e portoghese.

La quadripartizione non è naturale tanto che si è evoluta in una tripartizione in italiano parlato e nei
dialetti.

Altre lingue distiguono solo due parti: russo nogà idnica tutto l’arto inferiore (italiano sorvegliato coscia,
gamba, piede) → questo termine indicava estremità arto inferiore e nelle lingue slave poi indica tutto
l’arto. Anche in ceco.

In persiano pa indica l’intero arto inferiore.

Il rumeno (lingua neolatina ma in questo caso inflenza dallo slavo) distingue coxa (parte superiore, coscia in
italiano) e picior che indica la parte inferiore (gamba più piede in italiano) → tripartizione diversa
dall’italiano parlato e certro-meridionale.

In russo e persiano si usa solo un termine.

Le denominazioni delle parti del corpo sono culturali non naturali e organizzate in significati linuistici per cui
in ogni lingua il rapporto tra il significato e il senso a cui si applica è arbitrario → il significato è frutto di una
categorizzazione arbitraria della realtà, la lingua ha ritagliato in modo arbitrario in sensi possibili nel piano
del contenuto.
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Segno linguistico:

Il segno linguistico può cosistere in una serie di mono sillabi (“no” e “si”), o una serie di parole. Ci sono
anche comunicazioni verbali che avvengono con frasi o con un insieme articolato e stratificato di frasi (un
discorso, un intero romanzo).

Quando ci riferiamo a segni molto complessi possiamo analizzarli in segni può semplici secondo due
direttrici diverse dette “articolazioni della lingua”.

Una prima analisi si basa sulla distinzione di unitaà che hanno significnayr e e significato (unità biplanari)

Es. “Marco ha un fratello” → quattro parole e ciascuna ha un’espessione e un contenuto, contengono un


segno

L’ultima parola “fratello” può essere divisa in due parti con significante e significato → la “o” indica il
singolare, “i” in “fratelli” indica il plurale.

Questa parola è analizzabile in due parti: “fratell-“ indica figlio dello stesso genitore maschio, “-o” indica il
singolare.

Si può fare una distinzione delle unità del significante.

Es. nella frase “Marco ha un fratello” → ci sono due accenti principali, abbiamo due parti nel singificante di
questo segno. Ciascuna di queste parti è distinguibile in sillabe. In queste sillabe sono distibuibili una serie
di parti; es “m-, -a, -r” → consonante iniziale, centro della sillaba e coda della della sillaba. In questa nalisi
non facciamo appello alpiano del contenuto ma solo relativamente a caratteristichd dell’espresisone.

Nel caso della prima articolazione otteniamo sempre un’unità biplanri (aventi significante e significato), la
seconda articolazione invece riguarda esclusivamente il significante, le sue proprietà e l’analisi si basa
sull’individuazione di elementi sempre più piccoli del singificante.

La prima articolazione si arresta fino a uno stadio in cui ogni ciasun elemento è un’unità minima biplanare,
detta morfema.

La seconda articolazione arriva a una serie di unità minima di solo significante (quella in cui vengono
scomposte le sillabe), detta fonema.

Rapporti tra le unità all’interno della lingua: questi rapporti (già per Saussure ma poi codificati da Louis
Trolle Hjelmslev), segono due assi:

1) Asse dei rapporti sintagmantici: “Marco ha un fratello” → il primo elemento “Marco” è in rapporto
sintagmatico con le altre tre parole della frase. I rapporti sintagmatici sono anche detti rapporti in
presenza, perché le parole si susseguono una dietro l’altra nella frase. Nella parola “fratello”, i due
morfemi “fratell-“ e “-o” si susseguono, sono in rapporto sintagmatico tra loro.
2) Rapporti paradigmantici sono in assenza → nella frase “Marco ha un fratello”, la prima parola
“Marco” non è soltanto in rapporto con le altre tre parole all’interno della frase ma anche in
rapporto con tutte le parole che potrebbo comparire al suo posto all’interno della medesima frase.
Per esempio “Marco” è in rpporto con “Giovanni”, “il cane del vicino”, “il giornalaio”. Queste
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commutazioni possibili non devono dare necessariamente un senso compiuto ma possono anche
essere semplicemente sintatticamenti accettabili (es. “il cane con gli occhiali ha un frattello”).
Questi elementi non compaiono in quel contesto ma sono presenti nel sistema insieme
all’elemento considerato. Quindi un elemento è in rapporto paradigmatico con tutti gli elementi
con cui esso può entrare in commutazione.

Livelli dell’analisi linguistica:


Lingua è un sistema di sitemi, perché il segno è analizzabile in elementi che stabiliscono tra loro
rapporti di natura sintagmatica e paradigmatica e se vogliamo capire in che senso la lingua è fatta
di segni, dobbiamo distinguere sulla della priam e della seconda articolazione dei due strati del
sengo, tra cinque diversi livelli dell’analisi linguistica:

- Fonetica: sostanza dell’espressione


- Fonologia: forma dell’espressione
- Morfologia: livello della prima rticolazione, analisi di unità biplanari. Ha come unità massima la
parola e unità minima il morfema
- Sintassi: riguarda la prima articolazione ma ha come unità minima la parola
- Semantica: livello di analisi che riguarda il piano del contenuto

Ciascuno di questi livelli di analisi può essere indicato secondo due prospettive di analisi, l’intyera
lingua è suscettibile di due procedure analitiche:

Saussure li chiama: diacronia, sincronia.

Diacronia: l’elemento regolare dell’ananlisi (unità dell’analisi) è dato dal mutamento nel tempo
(tuteel ele lingue cambiano nel tempo).

Sincronia: la regolarità è cercata facendo astrazioine dal mutamaento temporale e si ritrova nelle
strutture attive in un momento storico (nei modelli di regolarità interni per i parlanti in un certo
momento).

Lezione 4:

Fonetica

(Manuale capitolo 3 o materiale didattico sulla fonetica su moodle)

Fonetica: livello della sostanza dell’espressione (strato del segno che riguarda i suoni che vengono
concretamente emessi, trasmessi nell’aria e percepiti durante la comunicazione linguistica).

Nella prima edizione del corso di linguistica generale di Saussure è presente uno schema stilizzato
di come avviene la comunicazione tra un parlante A e un parlante B: A parla, i suoni da lui emessi
arrivano all’orcchio di B, vengono compresi nel significato e B pensa a come rispondere, traduce le
sue intezioni in suoni linguistici, trasmessi nell’aria che giungono ad A, che li percepisce con
l’orecchio e li comprende.
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A emette suoni e B ascolta (linea con segmenti fini) → possiamo distinguere tre branchie della
fonetica (disciplina che studia suoni linguistici in quanto vengono emessi, trasmessi e percepiti).

C’è un momento in cui A produce ed emete i suoni, questi si trasmettono sotto forma di onde
sonore, in quanto un suono è un’oscillazione nell’aria che si trasmette attraverso un fluido, e
raggiungono l’orecchio di B e sono percepiti.

Tre momenti fondamentali: produzione dei suoni, trasmissione nell’aria e loro percezione da parte
dell’ascoltatore.

Essi danno origine a tre orientamenti della fonetica: modo con cui i suoni si producono (fonetica
articolatoria, come si trasmettono nell’aria (fonetica acustica), ercezione dei suoni da parte
dell’apparato uditivo dell’ascoltatore (fonetica uditiva).

A finalità didattica ci si concentra solo sulla fonetica articolatoria sebbene una trattazione completa
dovrebbe predere in esame tutti e tre questi livelli (fonetica articolatoria, poi fonetica acustica e
infine fonetica uditiva). La fonetica artcolatoria, essendo ciò su cui si fonda tutta la terminologia
della fonetica (viene praticato dalla linguistica dalla fine del ‘700, gli altri livelli sono più recenti
come interessi scientifici). In generale la fonetica acustica e udiva presuppongono la fonetica
articolatoria e non il contrario.

La fonetica articolatoria si basa sulla teoria articlatoria dlela fonetica. Secondo questo sistema d
calsisfcazoine, entrato in uso in Europa alla fine del ‘700 per effetto della conscenza che nel 700’ si
diffoneden della fonetica indiana, dove questo odo di esaminare i suoni linguitici si era svilupato
nella tradizione grammaticale locale, lo stesso non è vero della tradizione occidentale: malgrado il
pensiero linguistico occidentale si sia sviluppato sia dai tempi della Grecia classica, prima del
contatto con la fonetica indiana non si era messa a punto questa modalità di classificazione dei
suoni.

Un suono linguistico usato nella comunicazione verbale è classificato sulla base degli organi fisici e
dei gesti che servono a produrlo. Per classificare i suoni linguistici bisogna avere una conoscenza del
meccanismo della loro produzione e dell’apparato usato a questo fine (apparato fonatorio),
bisogna disporre di una nomenclatura degli organi coinvoliti i questo meccanismo di porduzione e
una conoscenza della fisiologia (i gesti che vengono compiuti da questi organi). In realtà la fonetica
ha una sua modalità di classificare l’apparato fonatorio, gli organi coivolti e i gesti attivati nella
produzione dei suoni.

C’è un rapporto tra queste nozioni e quelle dell’anatomia e della fisiologia generale ma né
l’anatomia né la fisiologia si occupano di osservare specificamente il meccanismo linguistico. Questi
stessi organi sono esaminati rispetto ad altre funzioni che essi compiono (apparato respiratorio o
apparato digerente). L’apparato fonatorio è estraneo rispetto agli interessi dell’anatomia e della
fisiologia. La fonetica ha un suo corpus di nozioni che non coiuncide esattamente con quello
dell’anatomia e della fisiologia.
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L’apparato fonatoria ha nella parte più interna i polmoni e utilizza secondariamente una serie di
organi che servono o alla respirazione o alla digestione ma sono usati in modalità diverse rispetto a
quelle impiegate per la digestione e alla respirazione.

Organi (nome, funizonamento e coinvolgimento nella produzione dei suoni): polmoni, bronchi,
trachea, laringe, pliche vocali (glottide), faringe, velo palatino, lingua (raadice, dorso, apice), palato
(duro), alveoli dentali, denti, labbra.

Il meccanismo di produzione dei suoni utilizza un meccanismo di scambio con l’aria tra linterno e
l’esterno del corpo che noi usiamo per la respirazione. L’emissione di un suono è la produzione di
una vibrazione o una perturbazione di una colonna d’aria che si genera all’interno del nostro corpo
e viene spinta all’esterno di esso.

Questa colonna d’aria ha origine all’interno dei polmoni (sacche che servono a scambiare aria tra
intenro ed esterno), le sacche polmonari vengono compresse dalla muscolatura addominale ed
intercostale (queste compresisoni avvengono con una serie di impulsi che coincidono grossomodo
con una sillaba). Da qui l’aria è incanalata attraverso i brochi, arriva ai due bronchi principali, si
congiungono nella trachea (canale con un volume interno costante ma flessibile) che congiunge
rete bronchilae con una valvola (laringe) collocata alla sommità della trachea, isola la trachea dal
resto del nostro apparato che è usato anche per ingerire liquidi e solidi (dalla faringe si biforcano
due canali: la trachea in avanti, alla sommità ha una valvola costituita dalla laringe e sulla parte
posteriore l’esofago conduce liquidi e solidi all’interno dell’apparato digerente). La laringe ai liquidi
e ai solidi di entrare all’interno delle sacche polmonari (cosa che provocherebbe il nostro
soffocamento).

Negli uomini la laringe è posizionata più in basso rispetto alle donne e ai bambini: la diversa
posizione della laringe all’interno del condotto vocale provoca due diverse qualità della voce. Nella
donna la voce è più acuta. Lo spazio compresotra la laringe e l’esterno costiuisce il segmento
decisivo per la distinzione dei diversi suoni linguisitici → qualsiasi trattazione di classificazione dei
suoni deve prendere in esame in particolare i 16-13cm che vanno tra la laringe e le labbra. La parte
più profonda dell’apparato fonatorio (polmoni, bronchi e trachea) non è in grado di distiguere
diversi suoni linguistici ma costutiusce soltanto la colonna d’aria che viene modulata nel tratto
vocale successivo.

Prima parte del tratto vocale è costituita dalla laringe: cioè che divede la parte interna
dell’apparato fonatorio dal tratto vocale. La laringe è un’insieme, è l’organo più complesso
nell’apparato fonatorio, costituito da ossa e cartilagini, tenuti insieme da fasce muscolari.

Tre grosse cartilagini: cricoide, aritenoide e la tiroide; abbiamo poi l’osso ioide (tiene tutto insieme),
una cartilagine superiore costituita dall’epiglottide (può bloccare completamente l’apertuna della
laringe oppure sollevandosi può consentire il passaggio dell’aria).
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La trachea è sormontata da due estriflessioni, costituite da fasce muscolari, che possono assumere
una posizione che permette di lasciare libero il canale, oppure possono aaccostarsi tra loro e
chiudere il canale. Queste due estroflessioni sono dette pliche vocali o corde vocali, sono situate ai
lati del condotto dell’aria e svolgono una funzione fondamentale nella produzione linguistica.
Quando sono distaccate tra loro l’aria passa senza fare alcun rumore, quando sono accostate
possiamo calibrare la loro tensione muscolare in modo che non stiano ferme ma entrino in
vibrazione tra loro.

Meccanismo di vibrazione della glottide (area compresa tra le due pliche vocali): la glottide può
essere aperta o chiusa. Quando è chiusa può entrare in vibrazione se la tensione muscolare tra le
due pliche vocali lo consente, e la vibrazione della glottide (detta meccanismo laringeo è non è
provocata da un movimento volontario delle due pliche ma dalla spinta della colonna d’aria in
uscita, la quale trova le pliche chiuse in tenisione, esercita una presisone sulle due pliche (pressione
dell’aria provocata dai muscoli intercostali e addominali sulle sacche polmonari), supera la tensione
delle due pliche, apre le due pliche e comincia ad uscire verso l’esterno. A questo punto si crea una
diminuzione della pressione dell’aria, finchè la tenisione delle due pliche non vince la tenisone
dell’aria e si ha una nuova fase di chiusura.

Per regolare la vibrazione della glottide non bisogna agire sui muscoli della glottide ma sui muscoli
dei polmoni e delle fasce addominali: è la tensione con cui vengono compresse le fasce polmonari e
la pressione generale della colonna d’aria a regolare la velocità, l’ampiezza, la potenza di apertura e
chiusura della glottide.

Ciò fa si che noi possiamo modulare la diversa velocità di vibrazione e attraverso questa
modulazione, produrre suoni più o meno acuti: quando comunichiamo il primo gesto linguistico che
compiamo (al di là delle sillabe pronunciate) è l’intonazione (una certa melodia che accompagna la
frase).

La frequenza di vibrazione della glottide è molto alta: comprende alcune decine di aperture e
chiusure ogni secondo (la vibrazione avviene ad una velocità molto maggiore rispetto a quella con
cui una telecamera normale registra le immagini, per cui apparirebbe sempre chiusa).

La laringe con le sue due pliche (la glottide) è un organo molto flessibile: può essere aperta o chiusa
(può emettere la voce), tra queste due condizioni esistono molti stadi intermedi o di particolari usi
della gloffite che sono molto importanti per la comunicazione linguistica, perché attraverso questi
molto spesso in alcune lingue vengono realizzate distinzioni tra diversi suoni linguistici.

Si distingue tra 4 diversi usi della glottide: 1) glottide aperta (consente il passaggio dell’aria, assenza
di meccanismo laringeo, cioè di voce); 2) due pliche accostate interamente, tra loro si crea tensione
muscolare, esse entrano in vibrazione dando luogo al tipo neutro di meccanismo laringeo, quello
usato per parlare normalmente (anche detta voce modale, senza particolari inflessioni, la tensione
delle due pliche si distribuisce uniformamente sull’interna glottide); 3) “voce mormorata” → si usa
per parlare sottovoce: una parte delle pliche della glottide è accostata e in vibrazione ma la parte
terminale, dove ci sono le due pliche cartilaginee delle aritenoidi, è aperta e lascia una piccola
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apertura da cui esce il fiato, la voce mormorata comporta un volume molto minore perché entrano
in vibrazione tra di loro una parte minore delle due pliche, ma ha anche al suo interno una parte di
fiato (dominante nel caso del bisbiglio, che rimanda al n.1, completa aprtura vs. vibrazione della
glottide e apertura di fiato del mormorio); 4) si usa nell’emissione della voce linguistica → “voce
cricchiata”: si ottiene attraverso una fortissima compressione delle pliche, che provoca una loro
vibrazione a ritmo irregolare, abbiamo una compressione ed eccessiva tenisone delle due pliche,
molto più forte di quella che si esercita con la voce mormorata, nella comunicazione in lingua
italiana la voce cricchiata ha soltanto un valore sociolinguistico (in alcune aree di Italia, soprattutto i
maschi di una certa età, per esempio a Torino, tendono ad usare la voce cricchiata).

In alcune lingue la differenza di suoni realizzati con voce creicchiata e voce mormorata può
determinare una differenza tra due diverse vocali o due diverse consonanati.

Parte superiore dell’apparato fonatorio (tratto vocale): segmento dalla laringe fino alle labbra
costituisce il segmento decisivo per la distinzione tra i diversi suoni usati nella comjunicazione
linguistica.

Faringe: si trova subito sopra la laringe. E’ una grande cavità, motlo voluminosa. Il volume interno è
regolato dalla posizione della radice della lingua: se si sposta anteriormante, provova un notevole
aumento del volume della cavità interna della faringe; se si sposta posteriormente, restringe
notevolmente il volume interno della cavità faringale.

Inoltre, attraverso la radice della lingua possono essere prodotti alcuni suoni realizzati all’altezza di
quest’organo (cavità faringale).

La faringe è la cavità più ampia tra quelle del tratto vocale, la differenza di volume può essere
molto forte a seconda della posizione della radice della lingua.

La lingua: ha una funzione primaria nell’apparato digerente, è molto importante per la sua grande
possibilità di movimento, per la distinzione dei suoni linguisitici.

Nella lingua, in fonetica (diversamente dalla fisiologia e l’anatomia): distinguiamo tra una radice
della lingua (la sua parte più interna, quella che costituisce la parete anteriore della cavità
faringale); dorso della lingua (parte centrale); corona della lingua (parte antieriore mobile, non
aderisce alle mucose sottostanti, ha una certa libertà di movimento all’interno della cavità orale).

La cavità che sormonta il dorso della corono della lingua è detta cavità orale.

Nella corona (si chiama perché se osservata allo specchio, intorno al tessuto si possono notare una
serie di fibre con orientamento diverso che costituiscono una specie di bordo esterno della lingua)
si possono distinguere un apice (la parte anteirore della corona) e una lamina (la superficie
superiore anteriore). In alcuni casi si usa anche la superficie inferiore della corona della lingua.

La lingua può essere spostata lungo numerosi assi: asse orizzontale (avanti o dietro, si muove la
radice della lingua), asse verticale (alto o basso, dorso della lingua). La corona della lingua può
muoversi in ogni direzione e assumere diverse conformazioni.

La regolazione del volume interno della cavità orale e della cavità faringale sono dovute alle
posizioni della lingua: la lingua muovendosi determina i volumi relativi delle due cavità che
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caratterizzano il tratto vocale: cavità orale (al di sopra del dorso della lingua) e cavità faringale
(dietro la radice della lingua). Quando la lingua si alza chiude la cavità orale, quando si sposta
indietro chiude la cavità faringale; questi movimenti sono indipendenti.

Un altro importante organo, che si trova di fronte alla lingua, è il velo palatino (o palato molle): ha
una notevole capacità di movimento, può trovarsi in posiizione rilassata ed aprire l’accesso dell’aria
allle cavità nasali oppure entrare in tensione, spingersi indietro e chiudere l’accesso alla cavità
nasale.

Palato duro: sovrasta il dorso della lingua.

Più in avanti rispetto al palato duro, abbiamo gli alveoli dentali e i due denti (per la
comunicaiozione linguistica, vengono usati soltanto gli incisivi).

Labbra: la mantibola è mobile, il labbro inferiore si muove, il labbro superiore ha minori capacità di
movimento. Le labbra hanno un grandissimo impiego all’interno della comunicaizione linguistica
per distinguere tra diversi suoni sia per le vocali che per le consonanti.

Cavità nasali: distinte dal setto nasale, l’aria risuona al loro interno quando il velo palatino è
abbassato e l’aria accede alle cavità nasali.

Lezione 5

Primo grande gruppo di suoni linguisitici: le vocali

Alfabeto fonetico intenazionale (AFI → sigla italiana o IPA, International Phonetic Alphabet → in
inglese): sviluppato tra 800’ e 900’, soprattutto sulle pagine della rivista “Le maitre phonétique” da
Paul Passy (francese, fu a lungo professore di fonetica all’università di Parigi) e Daniel Jones
(inglese, fu allievo di Passy e poi fu professore di fonetica all’università di Londra).

La finalità di creare un alfabeto con cui rendere tutti i suoni delle lingue del mondo aveva in Paul
Passy anche una valenza ideaologica legate al superamento delle particolatà ortografiche tra le
diverse nazioni (era stato un grande internazionalista e credeva nell’insiegnamento delle lingue
come elemento di diffusione della pace).

Con L’IPA è possibile operare una trascrizione fonetica, una rappresentazione scritta (che ha
sempre alla dua base la teoria articolatoria), delle caratteristiche fonetiche di una determinata
espressione linguisitca orale.

Tra gli usi che si possono fare della trascrizione fonetica vi è anche la rappresentazione della
pronuncia di singole parole nei dizionari, trascriozione di parlato in ricerche linguistiche sul terreno,
può essere la basa per la scrittura di varietà che non hanno un uso scritto, coprese varietà
substandard di lingue anche scritte (per esempio se dobbiamo trascrivere un dialetto locale o
l’italiano parlato con particolartà che si distaccano dall’ortografia), nelle ricerche di fonoetica
acustica inserendo valori fonetici in rapporto a diagrammi grafici, nell’indicaiozne di valori fonetici
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in ricerche di fisiologia, potogia del linguaggio, applicazioni della fonetica e altri settiri diveris dalla
linguisitca.

L’Ipa si presenta come una tavola unica (la versione più attuale risale al 2016), è simile a una tavola
periodica degli elementi: abbiamo uan sintesi in un unico prospetto dei diversi valori esprimibili dal
nostro sistema fonatorio.

Quadrante più in alto relativo ai suini consonantici, sulla destra in basso un trapezio con le vocali,
sulla sinistra del trapezio vocalico ci sono alcuni suoni consonantici non compresi nella tabella
superiore, nella tabella che si trova in basso sulla sinistra sono espressi una serie di diacritici che
servono a modificare i segni di basa per dare loro particolari valori, tutto il quadrante destra in
basso è relativo ai toni usati in diverse lingue per distinguere tra parole diverse.

Sopra il quadrante dei toni c’è la rappresentazione delle lunghezze e delle pause.

Traduzione in Italiano della versione del 2005 dell’IPA che si trova nel manuale.

Distinzione tra due operazioni diverse:

Trascrizione: rappresentazione delle caratteristiche fonetiche di un certo evento linguisitico, qui si


rappresenta la sostanza dell’espressione di un evento linguistico, secondo una precisa teoria, la
teoria articolatoria, secondo la quale ognuno dei suoni linguistici è rappresentato sulla base della
modalità necessaria alla sua produzione → schematizzazione del meccanismo di produzione dei
suoni linguistici e attraverso essa, una sua rappresentazione, cioè una sua individuazione mediante
un segno).

Questa operazione è diversa da quella che viene chiamata traslitteraizione.

Traslitterazione: la trasposiozione da un alfabeto a un altro (per noi da un alfabeto qualunque verso


l’alfabeto latino; es. dall’alfabeto greco a quello latino o dal cirillico all’alfabeto latino ecc.)

Con traslitteraiozne intendiamo una trasposizione meccanica, il più possibile automatica e basata
su convenzioni rigide di singoli segni dell’alfabeto di partenza nell’alfabeto di arrivo.

Esempio: nella traslitterazione di una parola dall’alfabeto greco a quello latino, ad ogni elemento
dell’alfabeto greco corrisponde il più possibile un elemento dell’alfabeto latino.

Con trascrizione si intende la rappresentazione dei suoni, la traslitterazione raprresenta i segni


alfabetici utilizzati nell’originale per indicare una determinata parola.

Anche l’IPA in realtà si basa sull’alfabeto latino. Questo punto veniva sottolineato dai suoi autori: la
possibilità di usare l’alfabeto latino non solo come base di una traslitterazione da altre lingue ma
anche come base di una trascrizione fonetica. Mentre però la traslitterazione si basa su una serie di
convenzioni automatiche e meccaniche che stabiliscono i rapporti fra due alfabeti, la trascrizione si
basa su una teoria fonetica che ci consente di rappresentare in valori fonetici dei singoli suoni.
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Trascrizioni fonetica indicate in IPA all’interno di parentesi quadre.

Trapezio vocalico

I suoni vocalici e consonantici sono classificati mediante parametri diversi. Un suono va


innanzitutto attribuito all’uno o all’altro di questi due gruppi fondamentali.

Elemento cruciale che distingue le due classi: diaframma → restringimento o chiusura realizzata da
una superficie che interviene nel tratto vocale interrompendone la continuità attrverso una
completa ostruzione oppure attraverso un suo restringimento in un determinato punto.

Corollario: se una consonante è un suono che ha come elemento cruciale la presenza di un


diaframma, sarà la posizione e la caratteristica del diaframma a consentire la classificazione della
consonante.

I parametri per la classificazione della vocale sono quattro: grado di altezza, grado di anteriorità o
posteriorità, presenza o assenza di arrotondamento e nasalizzazione.

Grado di altezza: corrisponde in prima approssimazione all’altezza del dorso della lingua durante la
produizone della vocale. Nel grado si altezza si distinguono tra quattro grandi valori, che
comportano anche una serie di valori intermedi, detti vocali alte, vocali medio-alte, vocali medio-
basse e vocali bassi.

Grado di anteriorità e posteriorità corrisponde, se indichiamo le vocali mediante un trapezio,


grossomodo alla dimensione orizzontale del trapezio, in cui abbiamo tre direttrici fondamentali. Le
vocali sono distinte in base al grado di anteriorità o posteriorità in: anteriori, centrali o posteriori.

Il fenomeno fisiologico che si accompagna al grado di anteiorrità o posteriorità è dato dall posizione
relativa più o meno in avanti del dorso della lingua: le vocali anteirori presentano un dorso più
spostato verso i denti, mentre nelle posteriori il dorso è spostato verso il velo palatino.

Arrotondamento: parametro binario, è dato dalla presenza o no di una particolare posizione delle
labbra, detta posizione di arrotondamento.

Le vocali possono essere o non arrotondate o arrotondate in base alla posizione delle labbra:
questa posizione è data dalla convergenza degli angoli esterni delle labbra verso il centro della
bocca. Le labbra vengono spinte verso l’esterno e provocano un prolungamento di circa 1,5 cm del
tratto vocale, che modifica il timbro interno del suono che viene prodotto.

Nasalizzazione: durante la realizzazione delle vocali il velo palatino è sempre alzato e la colonna
d’aria fuoriesce interamente dalla cavità orale; se però durante la produizone di una vocale
abbiamo l’abbassamento del velo palatino, l’aria fuoriesce contemporaneamente sia dalla cavità
orale sia dalle cavità nasali → si ha una particolare risonanza della vocale detta nasalizzazione. A
parità di condizioni possimao avere una stessa vocale come nasale o non nasale a seconda
dell’abbassamento o no del velo palatino; questo quarto parametro è assolutamente indipendente
dagli altri tre.

Anche il parametro di arrotondamento è indipendente daglia altri due: una stessa vocale può
essere arrotondata o non arrotondata.
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La combinazione tra i primi tre parametri è espressa dal trapezio vocalico (la presenza o no della
nasalizzazione è data da un diacritico indipendente dalla posizione della vocale espressa su questo
trapezio).

Nel trapeizio sono indicati i due parametri fondamentali: nella dimezione verticale è dato il grado di
altezza, nella dimensione orizzontale è dato il parametro di anteriorità e posteriorità. Il punto di
incontro delle linee è segnalato da un cerchio nero: a sinistra di quel punto è sempre indicata una
vocale non arrotondata, a destra è indicata una vocale arrotondata. Es. nella linea delle posteriori,
tre di queste vocali si trovano indicate a destra del punto, una si trova a sinistra del cerchio.

Da questa caratterizzazione derivano le vocali cardinali con cui si inizia a descrivere il trapezio
vocalico, che costituiscono le vocali che fanno da punto di riferimento dell’intero trapezio.

Nel trapezio vocalico, all’incrocio delle principali linee sono individuabili 8 punti id roientamento
che ne costituiscono i punti cardinali: in quelle posizioni sono situate le vocali che già Daniel Jones
aveva individuato come “vocali carinali” → vocale alta anteriore non arrotondata, vocale medio-
alta anteriore non arrotondata, vocale medio-bassa anteriore non arrotondata, vocale bassa
anteriore non arrotondata; sul lato posteriore abbiamo una vocale bassa posteriore non
arrotondata, vocale meido-bassa posteriore arrotondata, vocale medio-alta posteriore arrotondata,
vocale alta posteriore arrotondata.

Vocali cardinali italiane: da illustrazioni di realizzazioni grafiche effettuate sulla base di radiografie
di un parlante italiano mentre pronuncia le vocali italiane. In esse un arco indica la posizione della
lingua → nelle prime due a sinistra il dorso della lingua è alzato ed è notevolmente più alto
dell’ultima figura sulla destra; inoltre nella prima il dorso della lingua si trova spostato molto più in
avanti verso i denti, nella seconda spostato indietro.

Però, si può capire come il vero parametro cruciale della differenza tra le vocali sia costituito dal
rapporto del volume interno tra la cavità orale (al di sorpa della lingua) e la cavità faringale (dietro
la parete posteriore della lingua). L’elemento caratteristico delle vocali alte è l’ampienzza della
cavità faringale: è molto più grande in [i] e [u] rispetto ad [a], che presenta il massimo
restringimento della cavità faringale e in rapporto a ciò la massima apertura della cavità orale.
L’elemento caratteristico, che differenzia crucialmente le vocali anteriori rispetto a quelle
posteriori, è costituito dall’ampiezza della cavità orale. La cavità orale è aperta al massimo nelle
vocali posteriori [u] ,[o] e [ᴐ] hanno la cavità orale aperta, le vocali anteirori [i], [e] ed [ɛ] hanno la
cavità orale più chiusa rispetto alla figura che si trova alla loro destra, secondo diversi gradi (il grado
di altezza presenta quattro diversi valori (in [i] è più chiusa, in [e] leggermente più aperta, in [ɜ] ha
ancora un volume maggiore, raggiunge il massimo del volume in [a]). Nelle vocali posteriori
abbiamo ulteriormente la cavità orale aperta.

In realtà la metafora linguale dei coefficienti vocali ha una sua base ma non è questa la causa del
diverso timbro delle vocali → è determinato dal rapporto tra le due cavità di risonanza, regolato
della posizione della lingua.

Altre vocali indicate sul trapezio: vocali già esaminate come vocali cardinali ma a cui è invertito il
coefficiente di arrotondamento → sinistra in alto del trapezio: vocale alta anteriore arrotondata [y],
spostando la posizione delle labbra, a parità di posizione della lingua si ottiene il coefficiente di
arrotondamento invertito rispetto rispetto a quello di partenza; più in basso c’è la vocale medio-
alta anteriore arrotondata [ø], più in basso nella terza linea una medio-bassa anteriore arrotondata
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[œ]; sul lato posteriore: vocale bassa posteriore arrotondata [ɒ]; vocale medio-bassa posteriore
non arrotondata [ʌ]; nel quadrante in alto a sinitra troviamo la variante centralizzata della vocale
alta anteriore centralizzata arrotondata [ʏ].

Vocali nasali: da una qualsiasi delle vocali viste fino ad ora si può ottenere il corrispettivo nasale;
dal punto di vista visiologico, a parità di tutti gli altri coefficenti, non bisogna far altro che abbassare
il velo palatino e far risuonare l’aria all’interno delle cavità nasali. In IPA il coefficiente di
nasalizzazione è indicato mediante un tilde (linea ondulata posta al di sopra del segno IPA
corrispettivo della vocale orale corrispondente).

Vocali nasali sono presenti in molte lingue, in portoghese e in francese.

Vocali nasali del francese: vocale medio-bassa anteriore non arrotondata nasalizzata [ɛ̃], vocale
medio-bassa anteriore arrotondata nasalizzata[œ̃ ], vocale posteriore medio-bassa arrotondata
nasalizzata [ᴐ̃], vocale bassa posteriore non arrotondata nasalizzata [ã].

Se si osserva la tabella dei diacritici si può vedere come ci sono anche altri diacritici, che indicano
uno spostamento più avanti o più indetro della vocale, leggermente più alta o leggermente più
bassa rispetto al valore espresso dalla posizione cardinale.

Lezione 6

Consonantismo

Le ostruenti (gruppo più folto delle consonanti): occlusive, fricative, affricate + esercitazione

Classificazione consonanti: tre coefficienti fondamentali → ciauscono ha molti valori per poter
classificare tutte le consonati in diverse lingue del mondo

Modo diaframmatico: distingue le consonanti per il tipo di diaframma che si realizza. Due grandi
classi di consonanti: ostruenti e sonoranti.

Luogo diaframmatico: è indipendente dal primo coefficiente; si basa sulla posizione all’interno del
tratto vocale in cui è realizzato il diaframma. Possiamo avere consonanti bilabiali in cui il diaframma
è realizzata dalle due labbra, labiodentali in cui è realizzato da un labbro inferiore e denti superiori,
dentali, alveolari, retroflesse, postalveolari, palatali, velari, uvulari, faringali, glottidali

Coefficienti laringei: anche questo coefficiente è totalmente indipendente dagli altri due; riguarda il
comportamento della laringe durante la realizzazzione della consonante. La laringe può essere
aperta (consonanti sorde), può essere in vibrazione (consontanti sonore); possiamo anche avere
sorde aspirate, mormorate (sonore apirate), eiettive

Modi diaframmatici

Il diaframma può realizzare due grandi tipi di consonanti a seconda dell’azione che questo esercita
sulla colonna d’aria in uscita → il primo gruppo prende il nome di ostruenti, il secondo di sonoranti

Ostruenti: il diaframma constituisce un’ostacolo all’uscita dell’aria → si inserisce all’interno del


tratto vocale e ostacola l’uscita dell’aria all’esterno. L’ostacolo può essere completo (occlusive; un
sottoinsieme delle occlusive è costituito dalle affricate), ci può essere un’ostacolo che determina un
22

mutamento della pressione che si esercita dalla colonna d’aria ma non un blocco completo, cioè un
ostacolo parziale (si realizzano delle consonanti dette fricative).

Sonoranti: si realizza un diaframma ma esso non ostacole l’uscita dell’aria. Le sonoranti sono divise
in quattro grandi classi costituite dalle nasali, vibranti, laterali, approssimanti.

Luoghi diaframmatici: in tutte le lingue del mondo abbiamo undici valori possibili. Bilabiali,
labiodentali, dentali, alveolari, postalveolari, retroflesse, palatali, velari, uvulari, faringali, glottidali.

Nella figura vediamo che ad ognuno di questi luoghi corrisponde un numero che è situato lungo un
segmento, che congiunge due organi del tratto vocale. Nella realizzazione del diaframma si devono
sempre distinguere due elementi: l’organo mobile (realizza il diaframma) e un bersaglio verso cui
l’organo mobile si muove, andando ad aderire completamente al bersaglio (occlusiva; il diaframma
blocca totalmente il flusso dell’aria) oppure si avvicina fortemente al bersaglio senza aderire
completamente, in modo da realizzare un ostacole che impredisce all’aria di uscire liberamente ma
non la blocca totalmente.

Nelle bilabiali l’organo mobile è costituito dal labbro inferiore, e l’organo bersaglio è costituito dal
labbro superiore. Nelle labiodentali l’organo mobile è costituito dal labbro inferiore, il bersaglio
dagli incisivi superiori. Nelle dentali l’organo mobile è l’apice della lingua, il bersaglio è costituito
dagli incisivi supeiori ed inferiori. Nelle alveolari l’apice della lingua è l’organo mobile, il bersaglio
sono gli alveoli dentali o i soli incisivi superiori (non gli inferiori). Nelle postalveolari l’apice della
lingua si muove nella regione posteiore delgi alveoli. Nelle retroflesse la corona della lingua è
l’organo mobile, il diaframma si realizza con la lamina inferiore della lingua, che colpisce la parte
retrostante degli alveoli (regione post-alveolare).

Nelle palatali l’organo mobile è il dorso della lingua il bersaglio il palato duro. Nelle velari l’organo
mobile è il dorso della lingua, il bersaglio il velo palatino. Nelle uvulari l’organo mobile è il dorso
della lingua, il bersaglio è l’ugola. Nelle faringali l’organo mobile è costituito dalla radice della
lingua, il bersaglio dalla parete retrostante della cavità faringale. Nelle glottidali il diaframma è
realizzato dalle due pliche vocali (l’organo mobile e il bersaglio sono lo stesso).

Questi undici luoghi diaframmatici possono essere ulteriormente classificati in cinque grandi classi,
a seconda di quale sia l’organo mobile che realizza il diaframma: labiali (labiale, labiodentale),
coronale (dentali, alveolari, postalveolari, retroflesse), dorsali (palatali, velari, uvulari), radicali
(faringali) e glottidali (glottidali).

Coefficienti laringei: deriva dalla combinazione di vari fattori → prima grande differenza: alcune
consonati sono realizzate senza la presenza della voce (consonanti sorde) altre con la voce
(consonanti sonore; con voce modale), nel primo caso la glottide si trova in posizione aperta
durante la realizzazione della consonante, nel secondo caso è in vibrazione. La glottide può
presentarsi come particolarmente aperta per un tempo eccessivo, che si protae sulla successiva
vocale, ed avere un’aspirazione (consonati sorde aspirate) o avere diveris tipi di voce (voce modale,
voce mormorate, voce cricchiata) → consonati mormorate (anche dette sonore aspirate) sono
realizzate con voce mormorata, abbiamo sia la vibraizone sia l’apertura della glottide con uscita del
fiato che provoca l’aspiraizone che si sente durante queste consonanti. Le consonanti glotiidalizzate
(anche dette eiettive), sono realizzate con una compressione particolare della glottide.
23

Tutti questi coefficienti sono indipendenti dai luoghi diaframmatici (tranne che per le glottidali,
dove l’undicesimo luogo si può combinare solo con alcuni di questi elementi), e dai modi
diaframamtici (anche se le ostruenti in genere tendono a distinguere più coefficienti laringei delle
sonoranti).

Occlusive: sono uno dei modi diaframmatici, rientrano nella classe delle ostruenti. Il diaframma non
solo ostacola il passaggio dell’aria ma addirittura ne blocca totalmente l’uscita all’esterno La
colonna d’aria viene interrotta dall’occlusiva, la pressione al di sotto del diaframma cresce → nel
momento in cui il diaframma viene rilasciato l’aria fuoiresce con una certa rapidità.

Nell’occlusiva si possono distineguere tre grandi fasi: fase di impostazione dell’occlusiva (in cui
l’organo mobile entra in movimento e arriva fino alla posiizone in cui realizza il diaframma); una
fase di tenuta (in cui l’organo mobile è fermo e blocca completamente l’uscita dell’aria; è una fase
statica); fase di soluzione (l’organo rientra nella posizione iniziale, rimuovendo il diaframma). Nel
caso in cui questa fase avvenga in modo particolarmente rallentato, rientriamo in un altro modo
diaframmatico, quello delle affricate (sottogruppo delle occlusive) e si determina un rumore
particolare, compiuto dall’aria nell’uscire con una forte pressione dopo la fase di tenuta.

Questa distinzione si combina con altre: possiamo avere delle occlusive sonore (in cui abbiamo
vibrazione della glottide durante la loro realizzazione), occlusive mormorate o sonore aspirate (con
voce mormorata), occlusive sorde, occlusive sorde aspirate, occlusive eiettive. Lo stesso vale per le
affricate.

Ogni singola lingua in genere combina diverse serie di occlusive a seconda della combinazione dei
loro coefficienti laringei → molte lingue indoarie (hindi, bengalese) hanno quattro serie di occlusive
divise per coefficienti laringei, similmente armeno, georgiano, amarico, coreano, cinese e italiano
hanno varie serie di occlusive. L’italiano ha due serie ma distingue solo tra sorde e sonore (come
molte lingue europee).

Le lingue del mondo possono combinare i coefficienti laringei in modo molto diverso rispetto alla
modalità per noi più comune per noi europei.

Nella tabella dell’IPA normalmente in ogni casella è indicata, attraverso due simboli primari, la
distinzione tra sorde e sonore → la sorda è situata a sinistra della casella, la sonora è collocata a
destra.

Le occlusive vengono distinte per i diversi luoghi diaframmatici: il primo luogo è quello delle
bilabiali: sorda [p], la sonora [b].

Secondo luogo diaframmatico per le occlusive è dato dalle alveolari: la sorda [t], la sonora [d].

Terzo luogo diaframmatico: retroflesse sorda [ʈ] e sonora [ɖ] (suoni presenti in hindi e in alcuni
dialetti italiani meriodioanali: come calabrese settentrionale o sardo).

Quarto luogo diaframmatico: palatali → sorda [c], sonora [Ɉ]; sono ben distinti dalle velari in ceco e
in ungherese

Quinto luogo diaframmatico: velari → sorda [k] sonora [g]

Sesto luogo diaframmatico: uvulari → sorda [q]


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Settimo luogo diaframmatico: occlusiva glottidale → necessariamente sorda, è realizzata dalle due
pliche vocali [ʔ]; tutte le parole tesce che iniziano per vocale hanno una occlusiva glottidale
all’inizio; nell’arabo è una consonante a tutti gli effetti e si scrive con una lettera che indica una
consonante.

Consonanti fricative: fanno parte dello stesso gruppo delle occlusive (ostruenti) ma si distinguono
da esse. Nelle occlusive il diaframma è completo e blocca totalmente l’uscita dell’aria. Le fricative
sono realizzate da un diaframma che provoca un forte restringimento del tratto vocale, un ostacolo
all’uscita dell’aria che però non viene totalmente impedita dall’uscire ma continua ad uscire
ostacolata e realizza un particolare rumore sulle pareti del diaframma che ne ostacolano l’uscita.

Le pareti del diaframma diventano oggetto di uno sfregamento da parte delle molecole dell’aria,
che urtando con forte pressione sulle pareti del diaframma provocano un’oscillazione irregolare
dell’aria, che è udibile dal nostro apparato come un rumore di frizione.

Luoghi diaframmatici per le fricative (sono il modo diaframmatico che distingue in gran parte delle
lingue tra più luoghi diversi).

Bilabiali: sorda [ɸ] e sonora [β]

Labiodentali: sorda [f], sonora [v]

Dentali: sorda [θ], sonora [ð]

Alveolari: sorda [s], sonora [z]

Postalveolari: l’organo mobile è l’apice della corona della lingua, il bersaglio è costituito dalla
regione retrostante gli alveoli, sorda [ʃ] e sonora [ʒ].

Palatali: sorda [ç]

Velari: sorda [x], sonora [ɣ]

Uvulari: sorda [χ], sonora [ʁ]

Faringali: sorda [ħ], sonora [ʢ]

Glottidali: sorda [h], sonora [ɦ]

Consonanti affricate:

Nelle affricate, nella fase finale, il diaframa, muovendosi lentamente, per un certo tempo resta
aperto, con una piccola possibilità data all’aria di uscire con una compressione molto forte
realizzando un rumore di frizione simile a quello delle fricative. Nell’affricata abbiamo una fase
occlusiva piena, ma nella soluzione della occlusiva si realizza un rumore molto simile a quello di una
fricativa. In IPA l’affricata è indicata mediante due simboli: uno occlusivo, uno fricativo → il fatto
che si tratti di un’unica consonante con due fasi e non di una sequenza di due consonanti diverse è
reso esplicito da un archetto posto al di sopra dei due simboli.
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Nelle affricate distinguiamo quattro diversi luoghi diaframmatici:

Labiodentali: sorda [p͡f] → presente in tedesco

Alveolari: sorda [t͡s], sonora [d͡z] → il primo suono è segnato attraverso la combinazione di
un’occlusiva sorda segueta da una fricativa sorda, il secondo è segnato attraverso la combinazione
di un’occlusiva sonora seguita da una fricativa sonora (in Italiano non è necessario mettere
l’archetto quando trascrivamo foneticamente un’affricata, perché non c’è la possibilità in Italiano di
combinare in altra posizione un suono [t] con un suono [s], necessariamente l’ccostamento di
questi due simboli è indice di un’affricata; inoltre il carattere lungo della consonante affricata viene
espresso attraverso il raddoppio del simbolo dell’occlusiva, non di quello della fricativa .

Retroflesse: sorda [ʈ͡ʂ], sonora [ɖ͡ʐ]


͡ sonora [d͡ʒ] → in ciao [ˈtʃao] la “i” dell’ortografia non ha valore fonetico ma
Postalveolari: sorda [tʃ],
diacritico, se non ci fosse leggeremmo [kao], lo stesso vale per la parola gioco [dʒᴐko].

Lezione 7

Correzione esercizio lezione 6

Trascrizioni fonetiche

1.aghi [aɡi]

2.agio [ad͡ʒo], [adʒo] → in Italiano non abbiamo una possibile sequenza di una consonante [d] e [ʒ],
la combinaizone di questi deu segni è necessariamente usata per una consonante affricata, non è
necessario usare l’archetto per rendere esplicito che quei due segni indicano un’unica consonante;
la “i” non corrisponde a [i], è usata nell’ortografia italiana esclusivamente perché altrimenti
dovremmo leggere [ago]; vocale finale medio-alta o medio-bassa (“o” chiusa o aperta): le vocali
atone finali vengono sempre rese mediante una medio-alta perché in Italino fuori ‘daccento non
può esserci una distinzione tra “o” chiusa ed aperta, questa distinzione è presente solo nella sillaba
tonica, la medio-alta viene usata come vocale media

3.cosa [kɔza] → la vocale “o” è resa come una medio-bassa poiché si tratta di una sillaba tonica (si
può avere una distinzione tra medio-bassa e medio-alta); fricativa alveolare intervocalica → in
Italiano standard questo suono è sonoro (nelle varietà regionali c’è molta variazione, a nord si
tende ad usare la sonora, nel centro-sud si tende ad usare la sorda)

4.dice [dit͡ʃe], [ditʃe] → posizione finale atona, non c’è distinzione, usiamo la medio-alta

5.disgusto [dizɡusto] → due diverse fricative alveolari [z] e [s] nella prima e nella seconda sillaba: la
prima precede una consonante sonora ed è sonora, la seconda è sorda → la fricativa alveolare
quando precede un’altra consonante in italiano assume sempre il coefficiente laringeo della
consonante successiva

6.luce [lut͡ʃe], [lutʃe]

7.pace [pat͡ʃe], [patʃe]

8.sceso [ʃeso] → la seconda fricativa [s] è usata principalemte nella varietà toscana, nel centro-sud
si tende ad usare la sorda [z]
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9.sci [ʃi]
͡
10.scucito [skutʃito], [skutʃito] → a differenza di “sceso”, la fricativa alveolare presente in prima
posizione [s] è sorda perché precede una consonante sorda

11.società [sot͡ʃeta], [sotʃeta] →la “i” espressa graficamente dopo la “c” nell’ortografia italiana non
corrisponde ad alcun suono, l’affricata è seguita direttamente dalla vocale anteiore medio-alta non
arrotondata [e]

12.socio [sɔt͡ʃo], [sɔtʃo] → la fricativa alveolare in prima posizione in italiano può essere solo sorda
davanti a vocale; la “i” ortografica in socio si ritrova anche in “società” perché è un derivato di
“socio”

13.spighe [spiɡe] → consonante iniziale è una fricativa alveolare sorda: è necessariamente sorda
perché precede consonante sorda

14.topo [tɔpo] → la vocale della sillaba tonica è una medio-bassa posteriore arrotondata, in
posizione finale la medio-alta; in prima posizione bisogna indicare il fatto che si tratti di una vocale
meido-bassa perché in posizione tonica distinguiamo tra medio-bassa e medio-alta

15.veste [vɛste] → simile a “topo”

Sonoranti

Le ostruenti presentano sempre un diaframma che determina una differenza di pressione nella
colonna d’aria in usciata: la colonna prima di incontrare il diaframma ha una presisone nettamente
più alta dell’esterno perché il diaframma esercita un ostacola all’uscita dlel’aria che fa salire la
pressione nella regione che precede il diaframma.

Nelle sonoranti invece abbiamo un diaframma che interviene nel tratto vocale ma che non ostacola
la colonna d’aria (per ogni classe di sonorante il motivo della mancanza di questo ostacolo è
diverso). Per esempio, l’aria può trovare una via d’uscita alternativa rispetto a quella in cui si trova
il diaframma, aggirarlo ecc.

La presisone dell’aria è relativamente omogenea tra la regione che precede il diaframma e quella
che lo segue: si mantiene in un livello simile a quello della pressione esterna.

Questa assenza di una differenza di pressione rende le sonoranti simili alle vocali, per le quali
l’uscita dell’aria non ha un ostacolo. Similmente alle vocali, in gran parte delle lingue non
intervengono coefficienti laringei a distinguere le classi delle sonoranti: queste consonanti sono
quasi sempre sonore, come le vocali, e pronunciate con lo stesso tipo di voce delle vocali (in genre
la voce modale).

Una delle particolarità dellle tabelle che riassumono nell’IPA le sonoranti è che in ognuna delle
caselle della tabella troviamo un solo suono collocato sulla destra, senza il corrispettivo simbolo
collocato a sinistra (è indicato solo il suono della sonora).
27

Quattro diverse classi di sonoranti:

- nasali

- vibranti (monovibranti, polivibranti)

- laterali

- approssiamanti

Nasali → è la serie più ricca di elementi: possimao distinguere almeno sei diversi luoghi
diaframmatici:

Bilabiale [m]

Labiodentale [ɱ]; usata in invece [iɱˈvetʃe] e confetto [koɱˈfɛtto] → in italiano quando una nasale
precede una consonante fricativa labiodentale, anch’essa è realizzata come labiodentale

Alveolare [n]

Retroflessa [ɳ]

Palatale [ɲ]; gnomo [ˈɲᴐmo], legno [ˈleɲɲo]

Velare [ŋ]; usata in italiano in tengo [ˈtɛŋgo], panca [ˈpaŋka] → davante a consonante velare sorda
o sonora in italiano usiamo sempre una nasale velare; questo suono ha una sua autonomia in altre
lingue: in inglese può comparire in posizione finale in hang [hæŋ]

Le nasali assumono sempre come luogo diaframmatico quello della successiva consonante.

Tutti i simboli sono collocati a destra della rispettiva casella, l’IPA non prevede di dare simboli
specifici per nasali sorde: le lingue che distinguono tra nsali sorde e sonore sono pochissime (la
sorda si esprime indicandola con un piccolo cerchietto al di sotto del simbolo IPA, attraverso un
diacritico).

In questa serie il diaframma non ostacola l’uscita dell’aria (il diaframma è corrispondente a quello
delle occlcusive; per esempio in posizione bilabile [m] abbiamo un diaframma che è assolutamente
a quello di [b] o [p]) perché contemporaneamente alla realizzazione del diaframma, tutte le nasali
sono caratterizzate (è l’elemento di articolazione specifico) dall’abbassamento del velo palatino,
che rende possibile all’aria di entrare nelle cavità nasali e di uscire dalla cavità nasale.

Vibranti: si può distinguere ulteriormente tra due classi, monovibranti e polivibranti

Nelle vibranti il diaframma non ostacola l’uscita dell’aria perché si tratta di un diaframma
intermittente che colpisce in modo velocissimo il bersaglio (come nella monovibrante) tanto che
non fa in tempo a creare un ostacolo per la colonna d’aria, oppure questi diaframmi rapidi si
ripetono più volte ma sempre con continui cicli di chiusura e apertura (senza fase di tenuta) che
fanno si che l’aria possa uscire senza una forte variazione di pressione.

Due luoghi diaframmatici delle polivibranti:

Alveolare: polivibrante [r], monovibrante [ɾ] → stesso diaframma ma realizzato una sola volta

Uvulare: polivibrante [ʀ]


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Laterali: il diaframma viene impostato nella zona centrale (sagittale) della cavità orale ai lati del
quale l’aria può passare senza essere ostacolata.

Due luoghi diaframmatici:

Alveolare: [l]

Palatale: [ʎ]

Esiste una variante dell’alveolare, che introduce un’articolazione secondaria (doppio diaframma):
laterale alveolare in cui c’è anche il sollevamento del dorso della lingua e la creazione di un secondo
diaframma sul velo palatino; la seconda articolazione è indicata mediante un tilde che taglia la
consonante e ne indica la velarizzazione [Ɨ]

Approssimanti: consonanti in cui abbiamo una successione molto rapida tra una fase di
impostazione del diaframma, che non giunge a compiersi fino in fondo, immediatamente seguita da
una fase di soluzione del diaframma: questo diaframma può soltanto modificare timbricamente, in
modo simile a una vocale, la colonna d’aria che passa nel tratto vocale: l’aria può uscire senza
essere ostacolata durante la realizzazione di un approssimante.

La differenza critica tra una vocale e una consonante approssimante corrispondente sta nel fatto
che l’approssimante costituisce solo un elemento di un dittongo, deve necessariamente comporre
un dittongo insieme a una vocale, cosa che non vale per le vocali, che possono anche stare da sole
in una sillaba.

Distinguiamo tra tre luoghi diaframmatici:

Labiopalatale: approssimante con due diaframmi, uno realizzato nella regione labiale, l’latro nella
regione palatale; [ɥ]

Labiovelare: [w], chiamata “Waw”, tratto dal nome di una consonante dell’alfabeto ebraico; ha una
duplice articolazione: nella regione dorsale (dorso della lingua verso il velo palatino), l’altra
costituita dalle due labbra che si stringono

Palatale: l’organo mobile, il dorso della lingua, is muove verso il palato, non lo tocca mai e poi
rientra nella posizione che deve prendere per la successiva vocale; [j] → questo suono ha il nome di
una lettera dell’alfabeto ebraico “Yod”, che indica questa consonante in ebraico ed è utilizzato per
indicare questo suono.

Labiopalatale e labiovelare sono articolazioni doppie (prevedono il doppio diaframma), palatale è


costituita da un unico diaframma.

Iato:

In italiano possiamo avere due tipi di sequenze vocaliche: due vocali stabili che si susseguono una
dopo l’altra, chiaramente distinguibili: es. paura [paˈura]

Dittongo:

Una sequenza vocalica che cambia di timbro nel corso dell’articolaizione senza che sia possibile
individuare una fase stabile per uno dei due elementi, è chiamata dittongo: es. fuori [ˈfwɔri], fiori
[ˈfjori], azione [atˈtsjone], tiene [ˈtjɛne], noi [noi ̯], mai [mai ̯]
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Nel dittongo si può sempre distinguere tra un elemento più forte, più centrale, e un elemento più
debole del dittongo: es. in [ˈfwᴐri] il primo elemento è quello debole, il secondo è quello forte (è
più sonoro, ha più volume, dura di più, è stabile → il primo elemento è dinamico, il secondo
stabile); al contrario, in noi [noi] il primo elemento è quello forte, il secondo è quello debole, così
come in mai [mai].

Nelle trascrizioni si nota come quando l’elemento debole è in prima posizione in italiano è reso
mediante un’approssimante; quando è in seconda posizione viene reso mediante una vocale sotto
la quale si mette un archetto, per indicare il fatto che lì no c’è un confine di sillaba (detto archetto
di non sillabicità).

Distinguiamo tra due tipi fondamentali di dittonghi: quelli che hanno prima l’elemento debole e poi
l’elemento forte (detti dittonghi ascendenti): es. fuori [ˈfwᴐri]; il dittongo ascendente è reso in IPA
da una sequenza di un’approssimante più una vocale.

Quelli che hanno un elemento forte seguito da un elemento debole sono detti dittonghi
discendenti; il secondo elemento è detto anche semivocale → si indica mediante un simbolo
vocalico sotto al quale in italiano si mette un archetto, nella trascrizine dell’inglese si trova solo un
segno vocalico senza alcun’altra ulteriore indicazione: es. voi [voi ̯], boy [bᴐɪ].

Trittonghi: sequenze in cui c’è una combinazione di un dittongo ascendente e discendente: es. miei
[mjɛi ̯], tuoi [twᴐi ̯] → abbiamo un’approssimante una vocale e una semivocale.

Oppure ci possono essere due approssimanti a cui segue una vocale: es. quiete [ˈkɥiɛte], seguiamo
[seˈgɥjamo] → in questi casi le due approssimanti che si susseguono devono essere
necessariamente la labiopalatale + la palatale, in italiano.

Lezione 8

Caratterisitche prosodiche: caratterisitche che non sono realtive a un unico suono ma


accompagnano più segmenti nel nastro fonico, si distendono nel tempo.

Lunghezza:

Quando parliamo di durata dei segmenti, dobbiamo considerare il fatto che il nostro apparato
fonatorio è in grado di eseguire dei segmenti di diverse durate. Il primo fattore che influenza la
durata di un segmento è la velocità di eleoquio.

Quando si parla di lunghezza di segmenti non si fa riferimento alla velocità di eloqui ma al fatto che
in molte lingue è possibile, a parità di velocità di eloquio, distinguere tra segmenti più o meno
lunghi.

L’IPA permette di distinguere tra cinque diversi gradi: strabreve, breve, grado medio-lungo, grado
lungo e grado stralungo.

Quando le lingue distinguono tra diversi gradi di lunghezza in realtà distinguono solo tra due diversi
gradi: breve e lungo.

È molto rara un’altra possibilità (per esempio attesta nella lingua europeaa estone) in cui si
distinguono tre gradi di lunghezza detti: breve, lungo e stralungo (solo per le vocali).
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Ci sono diverse convenzioni per indicare le differenze di lunghezza negli studi linguistici:

1) Nell’ambito della filologia classica si distinguono grado breve con un piccolo archetto sopra la
vocale (chiamato breve) oppure indicandola senza mettere alcun segno, la lunga viene indicata
attraverso un segmento continuo (chiamato macron) sopra.
2) Un metodo in uso tra i linguisti nelle trascrizioni fonetiche in cui si raddoppia semplicemente il
simbolo di una vocale o una consonante, per indicarne il grado lungo.
3) Possibilità codificata dall’IPA in cui il grado lungo è indicato mediante i due punti che seguono
un simbolo dell’alfabeto fonetico

In questo modulo indichiamo il grado breve con un semplice simbolo, vocalico o consonanti, il
grado lungo viene indicato che due punti successivi alla vocale per le vocali, per le consonanti
raddoppiamo il simbolo della consonante → questo sistema p quello generalmente usato in sede di
trascrizione fonetica dell’italiano.

Per indicare il grado lungo di un’affricata si raddoppia soltanto il simbolo dell’occlusiva.

Lunghezza segmentale in italiano: la lunghezza segmentale è molto varia, dipende da vari fattori,
ma quello che determina più sistematicamente la differenza tra vocali brevi e voali lunghe è
l’accento. Le vocali toniche sono sistematicamente più lunghe di quelle brevi.

Non si indicano perché questo allungamento è implicito nel fatto che una vocale è accentata, per
cui basta indicare la posizione dell’accento per indicare anche il fatto che quella vocale è più lunga
delle altre della stessa parola.

Noi non abbiamo due parole che possono differire per aver una vocale lunga e l’altra una vocale
breve a parità di tutte le altre condizioni. Il problema si pone invece per le consonanti: per esse
sono possibili in italiano due gradi di lunghezza, breve e lunga, che possono distinguere tra diverse
parole. Questo avviene soltanto per una consonante situata in posizione interna di parola e che sia
preceduta da vocale e che sia seguita o da vocale o da una sonorante (posizione intersonante): può
essere simboleggiata con:

V_ V

Il trattino indica la posizione del segmento che stiamo considerando, la V che precede il trattino
basso indica la vocale che si trova prima del segmento, la parentesi graffa che si trova dopo il
segmento indica un’alternativa tra due possibili elementi indicati uno sotto l’altro: una vocale o una
sonorante (abbreviata con R).

Es. casa [ˈkasa] / cassa [ˈkassa] → due parole diverse, differiscono per la lunghezza consonantica:
nella prima parola abbiamo una fricativa alvolare breve, nella seconda parola abbiamo una fricativa
alveolare lunga; questa consonante si trova sempre tra due vocali.

Es. copia [ˈkopja] / coppia [ˈkoppja] → la consante occlusiva bilabiale sorda si trova tra vocale e
approssimante; l’elemento che si trova dope è una consante sonorante.

La differenza di lunghezza consonantica non può trovarsi in posizione iniziale di parola: non
abbiamo una posizione intersonante.
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Ci sono cinque suoni in italiano i quali quando si trovano in posizione intersonante (quando
potrebbero essere o lunghi o brevi) sono sempre e sistematicamente lunghi:

Fricativa post-alveolare sorda [ʃ]

Affricata alveolare sorda [ts] → sia che si scriva con una “z”, sia che si scriva con de “z” la sua
pronuncia è sempre lunga; es. pazzo [ˈpattso], azione [atˈtsjone]

Affricata alveolare sonora [dz] → si che sia scritta con una o die “z”

Nasale palatale [ɲ]

Laterale palatale [ʎ]

Dal momento che nell’italiano l’unica possibilità nel realizzare e percepire questi suoni è quella che
siano lunghi in posiozione intersonanante, nessuno sente questa differenza. Non esistono parole
che si differenziono perché uno ha un suono lungo e uno breve a parità di condizioni. Questi suoni
vanno memorizzati.

Sillaba: unità fonetica minima, cioè il minimo suono che possiamo produrre con il nostro apparato
fonatorio o percepire con il nostro apparato uditivo. Noi non possiamo produrre un suono che non
sia una sillaba. La sillaba coincide dal punto di vista articolatorio con un movimento di
compresisone delle due sacche polmonari per mezzo dei muscoli intercostali. Si ha una
compressione dei polmoni e un aumento della pressione che coincide al suo picco con la parte
centrale della sillaba.

Questo suono minimo in realtà può essere diviso in parti: nucleo (l’unica parte della sillaba che non
può mai mancare e che ne è la parte più prominente, più sonora, che coincide con l’arrivo dell’onda
di pressione provocata dalla compressione dei muscoli intercostali). Ci sono poi i due margini
eventuali della sillaba che possono precedere o seguire il nucleo: attacco della sillaba (il margine
che precede il nucleo), coda (il margine che eventualmente segue il nucleo).

Es. posto [ˈpᴐs.to] → prima sillaba [ˈpᴐs]

Attacco [p]

Nucleo [ᴐ]

Coda [s]

L’unica differenza tra la sillabificazione fonetica dell’italiano e la divisione in sillabe quando si va a


capo è costituita dalla segmentazione della fricativa che precede un’altra consonate (la “s
complicata”). Questa fricativa dal punto di vista fonetico è coda della sillaba precedente. In posto il
coffine sillabico dal punto di vista fonetico è dopo la fricativa; nella divisione in sillabe per andare a
capo la “s complicata” scende nella riga successiva.

Scala di sonorità: è un’osservazione empirica che riflette la diversa sonorità intrinseca dei segmenti
come questi possono essere disposti lungo una scala che ha a sinistra il bìvalore più basso di
sonorità e a destra il valore più alto. Può essere percordsa nelle due direzioni: se ci muoviamo da
destra verso sinistra il valore della scala scende e vice versa.

Grado meno sonoro è occupato dalle occlusive (punteggio convenizonale più basso:1)
32

Secondo grado è occupato dalle fricative

Terzo grado è costituito dalle sonoranti

Quarto grado è costituito dalle approssimanti

Ultimo grado, più sonoro è costituto dalle vocali

Il nucleo deve essere su un grado più alto della scala rispetto ai due margini.

In italiano il nucleo può essere occupato solo da una vocale e può essere occupato solo da una sola
vocale. In altre lingue sono possibili anche dei nuclei consonantici. Quando questo avviene sono er
lo più rappresentate da sonoranti. In inglese per esempio ci può essere una laterale nel nucleo, coe
in little [‘lɪ.tl ̩] → nella seonda sillaba, abbiamo una sillaba costituita da un’occlusiva alveolare sorda
seguita da una laterale; la laterale occupa il nucleo della sillaba. Questo può essere indicato anche
più esplicitamente mediante un piccolo trattino situato al di sotto del simbolo IPA. , questo indica la
sillabicità di quell’elemento.

Regole generali di sillabificazione: data una certa sequanza di segmenti, come si pone dal punto di
vista fonetico il confine tra due sillabe. Il confine sillabico è indicato in IPA mediante un puntino.

1) Data una sequenza VCV il confine sillabico è situato prima della consonante (fenomeno
chiamato massimizzazione dell’attacco sillabico: una consoannte normalmente non va in cosa
sillabica ma in attacco
2) Data una sequenza VCCV, il nesso consonantico CC appartiene a due sillabe diverse (prima
consonante in coda prima sillaba e seconda consonante nell’attacco della seconda sillaba) solo
se di sonorità decrescente. Es. arco [ˈar.ko] → sonorante (sonorità 3) + occlusiva (sonorità 1):
sonorità decrescente, distiguiamo le due consoanti in due sillabe. Es. posto [ˈpᴐs.to] → fricativa
(sonorità 2) + occlusiva (sonorità 1): sonorità decrescente, distinzione in due sillabe diverse.
3) In una sequenza di VCCV il nesso consonantico CC appartiene tutto all’attacco della medesima
sillaba se è di sonorità crescente: la vocale va da sola nella prima sillaba e tutte e due le
consonanti più la vocale vanno nella seconda sillaba. Es. apro [ˈa.pro] → occlusiva (sonorità 1) +
sonorante (sonorità: 3), tutta la sequenza CC va nell’attacco della seconda sillaba.
4) In una sequanza VC:V la consonante lunga si colloca in due sillabe diverse (detta anche
ambisillabica) nella prima parte costituisce la coda della prima sillaba, nella seconda parte
costituisce l’attacco della seconda sillaba.

In linguistica viene usata una classificazione delle sillabe basata sulla loro struttura interna:
elemento criciale la presenza o no della coda.

Le due classi sono dette sillabe arte e sillabe chiuse.

Sillabe aperte (non hanno la coda, indipendentemente dalla presenza o no dell’attacco):

Es. tavolo [ˈta.vo.lo] → la prima sillaba è aperta anche se ha una consonante in attacco

Es. umano [uˈma.no] → sillaba aperta non ha coda e non ha attacco; dove è indicato l’accento con
l’apice diventa ridonadante indicare con un puntino indicare il confine sillabico: per definizione
l’accento è indicato da un apice che indica la sillaba tonica; già da solo indica il confine sillabico.
33

Es. spero [ˈspɛ.ro] Nell’attacco della prima sillaba è violato sistematicamente il principio
Es. scrive [ˈskri.ve] della sonorità crescente. In [spɛ] e in [skri] c’è una fricativa in prima
posizione che è sempre della successiva occlusiva ma è raggruppata con
l’attacco. Questa possibilità esiste solo ad inizio di parola: in questo caso
la fricativa deve necessariamente raggrupparsi con le consonanti
seguenti per formare un attacco e può violare il principiodi sonorità
crescente dell’attacco che in italiano è solitamente osservato

Sillabe chiuse: sillabe che hanno una coda (può essere costituita da una sola consonante ed
indipendentemente dagli elementi dell’attacco). Es. perdiamo [perˈdja.mo]

Accento: la messa in evidenza di una sillaba mediante alcune caratteristiche fonetiche (una sillaba è
prominente sulle altre all’interno di una parola). Generealmente le caratteristiche fonetiche che
rendono questa prominenza in genere sono una sommatoria di diversi elementi: la sillaba tonica è
normalmente più lunga delle altre, ha un’altezza tonale che si distingue dalle altre, per lo più è più
alta in molte lingue oppure può alternare una posizione più alta o più bassa del tono, può avere un
volume più forte, può avere qualità timbriche diverse dalle sillabe atone (ad esempio in inglese).

In generale il complesso delle sillabe che costituisce una parola viene organizzato dalla sillaba
tonica: la sillaba che ha una prominennza maggiore delle altre costituisce anche il perno attorno a
cui le altre si organizzano.

Ogni lingua ha le sue regole di accento: in francese, in persiano, in turco l’accento cade
sistematicamente sull’ultima sillaba della parola. In cèco o in ungherese l’accento cade
sistematicamente sulla prima sillaba della parola. L’italiano ha una regola di accentazione diversa
ma non completamente arbitraria: l’accento in italiano ha una certa libertà di posizione ma non
assoluta. L’accento cade in una delle tre ultime sillabe della parola e in questa posizione può
distinguere tra parole diverse.

Parola ossitona (o tronca): una parola italiana in cui l’accento cade sull’ultima sillaba; es. città
[ʧɪqˈta]

Parola parossitona (o piana): una parola italiana in cui l’accento cade sulla penultima sillaba; es.
gatto [ˈgatto]

Parola proparossitona (o sdrucciola): una parola in cui l’accento si trova sulla terzultima; es. fegato
[ˈfegato]

L’accento si segna in IPA mediante un apice (ˈ), segnato prima della sillaba tonica.

Cercare la sillaba tonica dalla fine della parola non dall’inizio. Per esempio in elefante [eleˈfante] c’è
un piccolo accento secondario sulla prima sillaba, se si inizia a cercare la sillba tonica a partire dalla
prima sillaba della parola si potrebbe pensare che sia la priam sillaba ad essere tonica.

Per cercare la sillba tonica dobbiamo chiederci:

1) Se l’accento cade sull’ultima sillaba della parola


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2) Se cade sulla penultima sillaba (in questo caso sì)


3) Se l’accento cade sulla terzultima sillaba

Tono: caratteristica prosodica molto importante, attiva soltanto in alcune lingue, costituisce una
disitinzione tipologica molto importante tra diverse lingue (dette lingue tonali).

L’altezza melodica con cui è eseguita una vocale può distinguere diverse parole. La più nota e diffusa delle
lingue che presentano differenze tonali è il cinese comune (putonghua), che distingue tra quattro diversi
toni:

- Tono alto (55 → due livelli massimi)


- Tono ascendente (35 → passaggio da livello più basso a più alto)
- Tono discendente ascendente (214 → combinazione di tre livelli)
- Tono discendente (51)

Quattro parole diverse possono essere distinte per il solo tono pur avendo lo stesso materiale segmentale.

C’è un vecchio modo di indicare i toni per il cinese comune basato sui numeri, ideato da un linguista cinese
attivo negli Stati Uniti: dal momento che si possono distinguere cinque altezze tonali, il tono può essere
visto come la combinaizione di due di questi.

In IPA sono precisti due diversi sistemi (il primo è più usato per la trascrizione di lingue africane, ideano da
africanisti), il secondo è più usato per le lingue dell’Asia orientale (ideato dallo stesso linguista che
introdusse il sistema numerico).

Nel primo sistema il tono acuto è segnato da un doppio accento acuto ( ̋ ), il tono ascendente indicato con
un accento circonflesso rovesciato ( )̆ , il tono discendente-ascendente è segnato attraverso una
combinaizone di un segmento che sale, uno che scende e uno che risale ( ᷉ ), il tono discendente è segnato
attraverso ( )̂ .

Nel secondo sistema è indicato da una stanghetta che segue la vocale con il tono in cui c’è una lineetta
orizzontale che è situata all’apice superiore (˥), il tono ascendente è indicato con una stanghetta preceduta
da un segmento ascendente ( ˦˥ ), il tono discendente-ascendente è segnato attraverso ( ˨˩˦ ), ), il tono
discendente è segnato attraverso ( ˥˩ ).

All’inizio del rigo accanto al carattere cinese si trova espressa la traslitterazione di quel carattere nel pinyin.
Il tono acuto nella traslitterazione si segna con un macron sopra la vocale (mā), il tono ascendente con un
accento acuto (má), il tono discendente ascndente con un accento circonflesso rovesciato (mă), il tono
discendente con un accento grave (mà).

In lingue non tonali (come l’italiano), la differenza di altezza non è isata per distinguere tra parole diverse
ma per distinguere tra frasi diverse.

Es. Lucia esce → dichiarativa La differenza che queste frasi hanno è che sono accompagnate
da una diversa intonazione: una diversa melodia con cui sono
Lucia esce? → interrogativa eseguite. La prima ha un picco ascendente e poi una discesa, la
seconda ha un’andamento ascendente, la terza ha un profilo
Lucia, esci! → imperativa
discendente più netto della prima
35

Differenza tra tono e intonaizone: entrambi i fenomeni sono affidati foneticamente alla differenza di
altezza, ma se questa differenza è utilizzata per il tono nelle lingue tonali, questa differenzia tra parole
diverse. Con intonazione intendiamo la differenza di altezza che distingue tra frasi diverse.

Lezione 9

Fonologia

Analisi fonemica: complesso di procedure di analisi che consentono di individuare gli elementi minimi della
fonologia, che sono i fonemi (unità minima della seconda articolazione, unità minima del significante
linguistico, che costituiscono l’oggetto del primo grande blocco della fonologia, che prende in esame le
proprietà segmentali).

Così come per la fonetica, si possono analizzare le proprietà prosodiche (quelle che si distendono nel
tempo: lunghezza segmentale, la sillaba, il tono, l’intonazione e l’accento) relativamente alla fonologia.

Due principali procedure di analisi che consentono di individuare le unità minime della fonologia: la prova
di commutazione e l’analisi della distribuzione (tre possibilità di distribuzione: distribuizione coincidente,
sovrapposta e complementare)

Esercizio:

Trascrivere in IPA le seguenti parole italiane (indicando la posizione dell’accento e la lunghezza segmentale
delle sole consonanti, non è necessario indicare la lunghezza vocalica):

1.aglio

2.altrettanto

3.angolo

4.anguilla

5.annunciato

6.anziani

7.attrezzare

8.azienda

9.cautela

10.cognome

11.collaborazione

12.confezione

13.differenza

14.diversa

15.divieto

16.evidenza
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17.formazione

18.immaginare

19.opinione

20.patologia

21.piscina

22.progettare

23.proprio

24.pubblici

25.requisito

26.sarà

27.siciliano

28.smettere

29.uscita

30.voce

Fonologia:

Biplanarità del segno linguistico e distinzione tra espresssione e contenuto e forma e sostanza:

divisione in quattro strati del segno → sotanza dell’espressione (suono prodotto, trasmesso nell’aria e
percepito in un determinato contesto → fonetica), forma dell’espressione (significante), forma del
contenuto (significato), sostanza del contenuto (senso che un segno linguistico assume all’interno di un
contesto).

Fonologia definibile come il livello di analisi che è proprio della forma dell’espresisone (significante). Le
unità segmantali dell’espressione prendono nomi diversi:

Sostanza dell’espressione (suono minimo in un contesto, frutto dell’analisi della sillaba, che sarebbe la
sequenza minima che può essere prodotta e percepita): fono [p]

Forma dell’espresisone: fonema /p/ → per indicare i fonemi si usano i medesimi segni che rappresentano i
foni (possiamo usre l’IPA per rappresentare i foni ma con una diversa convenizone di base → l’IPA non è più
legato alla teoria fonetica, che lega ogni segno a una modalità di articolazione, ma i suoi segni sono intesi
come esprimenti un fonema, come indicazione di una unità che viene individuata sulla base di una
procedura di analisi che è completamente indipendente rispetto alla teoria fonetica e che prende come
punto di partenza l’individuazione degli elementi che sono in effettiva opposizione funzionale tra di loro).

Per rednere esplicito il fatto che quando usa in fonologia l’IPA ha un diverso valore perché è legato a una
diversa teoria rispetto a quanto avviene in fonetica le trascrizioni fonologiche sono poste dentro un diverso
sistema di convenzioni: le trascrizioni non sono indicate tra parentesi quadre, come avviene per le
trascrizioni fonetica ma tra barre oblique.
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In generale quando parliamo del piano dell’espresisone possiamo distinguere tra la forma dell’espressione
(anche detta significante o forma fonologica, secondo altre terminologie anche detta forma soggiacente, o
forma lessicale → il modo con cui un singolo lessema viene memorizzato sul piano dell’espressione dalla
nostra memoria) e la sostanza dell’espressione (anche detta realizzazione fonetica, o superficiale o
postlessicale → abbiamo l’espressione linguistica come risulta dalla combinazione dei diversi lessemi in un
enunciato effettivo).

La teoria fonologica prevede che la forma fonologica e la realizzazione fonetica siano tra di loro collegati da
processi, modificazioni che intervengono nel passaggio dall’astrattezza del significante che viene
memorizzato nella nostra memoria alla sua realizzazione una volta che questi singoli lessemi entrano
all’interno degli enunciati). Questi processi sono detti processi fonologici → collegamento tra la forma
fonologica e la realizzazione fonetica.

La fonologia si occupa dell’aspetto formale e non di quello sostanziale: non ci oppupiamo più di come i
suoni vengono prodotti o trasmessi nell’aria o come vengono percepiti ma ci occupiamo della loro
posizione formale all’interno di una lingua. Il secondo elemento fondamentale è che se la fonetica ha una
prospettiva universale, cioè studia il modo con cui i suoni vengono prodotti in tutte le lingue del mondo e
quindi si colloca sul piano del linguaggio come capacità generale della specie umana di comunicare, la
fonologia invece assume come punto di vista la lingua, il sistema. Quindi si occupa delle caratterisitche che
sono proprie di una lingua, che dipendono da essa e che possono presentarsi in modo diverso in un’altra
lingua. Il problema qui non è il modo in cui un suono viene realizzato ma il modo con cui quel suono è
inserito all’interno del sistema:

(Una persona ha un senso che vuole comunicare, cioè avere un caffè pronto, che codifica in una serie di
significati linguistici scambia questi significati lessicali con i significanti corrispondenti e quindi enuncia una
certa sequenza e dall’altra parte il barista che percepisce i suoni li decodifica in senso inverso: sente dei
suoni, riconosce dentro questi suoni un certo significante, poi scambia il significante con il significato
corrispondente e percepisce dal significato formale il senso specifico che il parlante ha voluto comunicare)

Es. una persona entra in un bar e dice: un caffè [uŋ kaf’fɛ], un cornetto [uŋ kor’netto], un tè [un ‘te], un
biscotto [um bis’kᴐtto], un ventaglio [uɱ ven’taʎʎo] → la consonante finale dell’articolo si presenta come
nasale velare davanti a velare, come nasale alveolare davanti ad alveolare, come nasale bilabiale davanti a
bilabiale e come nasale labiodentale davanti a labiodentale: in italiano vi è una regola generale per cui una
nasale, qualsiasi sia la sua posizione si assimila alla consonante seguente nel luogo diaframmatico. Siccome
nel lessico ereditario la nasale può comparire solo come nasale alveolare in fine di parola (in parole come
con, un, in) si assimila alla parola seguente.

Potrebbe sembrare una regola universale per cui in qualsiasi lingua una nasale in posiizone finale si assimila
nel luogo diaframmatico alla seguente consonante, ma non è così per esempio in inglese. Se questa nasale
in inglese è presente in una parola che anche isolatamente ha una nasale alveolare (come ten [ten]) allora
c’è l’assimilazione come in italiano (come in ten pens [tem ‘penz]). Ma se la parola isolatamente presenta
una nasale bilabiale o velare allora la nasale non si assimila (some tables [səm ‘teiblz], some cups
[səm’kʌps] → la nasale resta bilabiale anche di fronte a un’alveolare).

La regola di assimilazione del luogo diaframmatico della nasale è diversa in italiano e in inglese: in inglese
l’assimilazione avviene solo quando la nasale nella rappresentazione lessicale isolata è alveolare. Quando
quella è bilabiale o velare isolatamente non si assimila alla consonante seguente.
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La fonologia si occupa di quei fenomeni che dipendono dal sistema di una singola lingua e non sono
semplicemente universali: come il fatto che una fricativa alveolare si produce mediante un diaframma
collocato sugli alveoli dentali e realizzato dall’apice della lingua, ma esamina la posizione nel sistema che
eventualmente questa fricativa alveolare possiede e le regole a cui essa deve sottostare in una determinata
lingua e tutto l’altro insieme di relazioni che essa stabilisce con gli altri elementi del sistema.

Prova di commutazione: primo meccanismo formale di analisi, la cui portata si distende al di là della sola
fonologia. La prova di commutazione costituisce la prova più importante anche nei livelli della morfologia,
della sintassi e in gran parte del lessico per individuare i rapporti tra le unità linguistiche e le unità
linguistiche, in quanto esse si definiscono solo all’interno dei rapporti in cui si trovano con le altre unità.

Il punto fondamentale è che il funzionamento della prova di commutazione non è altro che un corollario
del fatto che le unità linguistiche stabiliscono tra loro due tipi di rapporti, cioè i rapporti tra le unità
linguistiche si collocano tra due diversi assi: l’asse sintagmatico e l’asse paradigmatico.

La commutazione non è altro che un modo di rendere espliciti i rapporti sintagmatici e paradigmatici in cui
si trova un elemento e definisce un elemento sulla base del fatto che esso stabilisce certi rapporti
sintagmatici e paradigmatici.

La prova di commutazione si basa sulla distinzione tra tre grandi fatti:

Prendiamo un evento linguistico, per esempio una sequenza del significante (ad esempio la parola tetto
[‘tetto]). Individuiamo un certo elemento minimo, come la consonante situata in prima posizione e
cerchiamo di stabilire quale sia l’unità minima del significante collocata in quella posizione, cioè come
prima consonante della parola: estrapoliamo da tutto il resto del singificante (definito contesto) quindi
l’elemento che vogliamo sottoporre ad analisi (definito elemento da commutare). Dobbiamo capire se
quell’elemento da commutare sia effettivamente commutabile: cioè se può essere sostituito da un altro
elemento linguistico (fonetico) producendo un diverso significante: la commutazione provoca un
cambiamento del significante (poiché in uqesto caso stiamo considerando come significante una parola, la
commutazione deve darci un’altra parola):

1) [‘tetto]
2) [t] → elemento da commutare [‘_etto] → contesto
3) [‘tetto] ∼ [‘detto] → Coppia minima o unidivergente

Questo è verificato per il segmento che stiamo considerando è verificato perché possiamo sostituire
l’occlusiva alveolare sorda in prima posizione di [‘tetto] con una occlusiva alveolare sonora, avendo una
sequenza [‘detto], che è una parola diversa.

Quando otteniamo due parole che si trovano in questa relazione (a parità di condioni divergono per uno e
un solo elemento posto in commutazione, in questo caso un’occlusiva alveolare sorda contro un’occlusiva
alveolare sonora), otteniamo una coppia di parole detta coppia minima o coppia unidivergente (che
differeisce per un numero minimo di proprietà).

Quando otteniamo una coppia minima o unidivergente sappiamo che quella proprità che distingue le due
parole della coppia è costituita da un’unità fonologica minima. Possiamo cioè definire attraverso l’esistenza
39

in italiano delle parole tetto e detto della coppia, l’esistenza di due fonemi (due unità minime) che
costituiscono due segmenti minimi della lingua, perché sono in grado di distinguere tra due diverse parole.

Il segno “∼” che si trova tra le due parentesi quadre indica l’opposizione funzionale: le due forme sono due
significati diversi che si oppongono tra di loro, non due modi per realizzare la stessa parola, ma sono due
parole distinte.

L’elemento da commutare in [‘tetto] ∼ [‘detto] stabilisce un rapporto sintagmatico con il resto del
contesto: le due unità in 2), cioè l’elemento da commutare e il contesto, sono tra di loro in rapporto
sintagmatico, cioè si trovano nella stessa sequenza nell’esempio in 1). In 3) la consonante iniziale si trova in
rapporto paradigmatico con la rispettiva occlusiva sonora nella coppia perché l’elemento che può
intervenire al posto di un certo elemento all’interno dello stesso contesto. Le due occlusive alveolari sorda
e sonora sono tra di loro in rapporto paradigmatico perché dove usiamo l’una potenzialmente si può usare
anche l’altra: le due stabiliscono sempre un rapporto di negazione perché la presenza dell’una nega la
presenza dell’altra.

Di conseguenza, se definiamo elementi linguistici quelle unità che stabiliscono rapporti sintagmatici e
paradigmatici, il fatto che la consonante iniziale della parola che stiamo considerando sia in rapporto
paradigmatico con la corrispettiva sonora, ci garantisce che questi due elementi sono delle unità
linguistiche perché le unità linguistiche stabiliscono tra di loro rapporti paradigmatici e sintagmantici e sono
definite sulla base di questi rapporti. La prova di commutazione rende esplicito il carattere di unità
linguistica dell’elemento in commutazione.

Applicando la prova di commutazione possiamo arrivare a trovare altre coppie minime:

Es. pasto [‘pasto] ∼ tasto [‘tasto] ∼ casto [‘kasto]

/p/ ∼ /t/ ∼ /k/ → le occlusive sorde in italiano sono tre dal punto di vista funzionale: la bilabiale si oppone
all’alveolare, la velare si oppone all’alveolare e alla bilabiale.

Es. bare [‘bare] ∼ dare [‘dare] ∼ gare [‘gare]

/b/ ∼ /d/ ∼ /g/ → prima consonante di queste parole è commutabile con una di luogo diverso, producendo
sempre nuove parole dell’italiano.

Possiamo pertanto arrivare ad individuare un sistema formale di occlusive formato da sei elementi (sei
fonemi), definiti in rapporto agli altri:

/p/ /t/ /k/

/b/ /d/ /g/

Il primo fonema sulla sinistra in alto dello schema (la bilabiale sorda) è il suono che può commutare con
un’alveolare sorda e con una velare sorda, ma anche con una bilabiale sonora. Ognuna di queste
consonanti si trova al nodo di una rete di relazioni con le altre.

Tutto il sistema consonantico italiano si può definire allo stesso modo: possiamo applicare lo stesso sistema
alle fricative, poi alle affricate, fino ad individuare l’intero inventario delle consonanti dei fonemi
dell’italiano.
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Lo stesso sistema vale anche per le vocali: possiamo applicare la prova di commutazione al sistema vocalico
e osservare che in italiano ad esempio la vocale tonica di vinti [‘vinti] (vocale alta anteriore non
arrotondata) può essere commutata con una vocale anteriore meido-alta non arrotondata (venti [‘venti]:
20) → le due parole rappresentano una coppia minima, altre commutazioni sono ancora possibili:

- Vinti [‘vinti] ∼ venti [‘venti] ‘20’ ∼ vènti [‘vɛnti] ‘movimenti di masse d’aria’ ∼ vanti [‘vanti]
- Butti [‘butti] ∼ botti [‘botti] ‘recipienti per il vino’ ∼ botti [‘bᴐtti] ‘rumori molto forti’ ∼ batti
[‘batti]

/i/ /u/

/ɛ/ /o/

/ɛ/ /ᴐ/

/a/

Sulla base di queste coppie minime possiamo individuare un sistema di vocali toniche dell’italiano di sette
fonemi, posti su quattro diversi gradi di altezza (alte, medio-alte, medio-basse e basse) e su due lati, che
formano il cosidetto triangolo vocalico dell’italiano, in cui tutte le vocali anteriori sono non arrotondate,
compresa la vocale bassa centrale, mentre tutte le posteriori sono arrotondate, e in cui ogni elemento è
definibile per i rapporti che esso stabilisce con gli altri elementi all’interno del lessico.

Ciò che la proprietà commutativa rende esplicito si può rendere manifesto anche dal punto di vista della
procedura attraverso un’altra via, non completamente indipendente rispetto alla proprietà commutativa,
ma è semplicemente un modo diverso per rendere esplicite le stesse proprietà: chiamata analisi della
distribuzione.

Parte considerando due elementi linguistici A, B e considera il fatto che i due elementi possono
potenzialmente trovarsi in due diversi rapporti di distribuzione. Il primo è detto distribuzione
complementare: dove compare A non può mai comparire B, e dove compare B non può mai comparire A.

La seconda possibilità logica è che i due insiemi siano parzialmente intersecati e che quindi si abbia quella
che viene definita come una distribuzione sovrapposta: dati due elementi A e B abbiamo certo numero di
contesti in cui può comparire solo uno o solo l’altro ma c’è un numero di contesti in cui può comparire sia A
sia B.

La terza possibilità è quella in cui si abbia la completa coincidenza dei contesti in cui può comparire A e di
quelli in cui può comparire B: dove compare A può comparire sempre anche B e viceversa, viene chiamata
distribuzione coincidente.

Due elementi linguistici costituiscono due unità diverse (due fonemi diversi) quando ci sia almeno quache
contesto in cui possono essere sovrapposti, cioè nel caso di una distribuzione sovrapposta. Solo questo
caso è quello che garantisce l’applicazione della prova di commutazione. Solo in questi contesti sovrapposti
possiamo avere dei casi in cui può comparire sia A sia B, cioè i due elementi che stiamo considerando come
in commutazione tra loro e che stiamo sottoponendo alla prova della distribuzione.

Nel caso di distribuzione complementare i due elementi coinvolti costituiscono due varianti della stessa
unità. Il caso di distribuzione coincidente è ambiguo: gli elementi che sono in questo rapporto possono
essere sia varianti della stessa unità o essere considerati come due unità indipendenti: diventa cruciale
l’applicazione della prova delle coppie minime: solo la prova di commutazione che in questo caso risulta
cruciale nel differenziare le due possibilità.
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Distribuzione complementare: tutte le coppie minime esaminate fino ad ora rispondono a questa
possibilità.

Per esempio se consideriamo le due consonanti laterali dell’inglese, cioè la laterale alveolare (suono di leg
[lɛg]) e la laterale alveolare velarizzata, cioè quella che ha l’articolazione doppia con sollevazione del dorso
della lingua verso il velo palatino (il suono di health [hɛɫθ]).

Se osserviamo tutti gli esempi di parole in cui queste consonanti sono usate, ci possiamo accorgere che
questi rispondono sempre alla stessa logica: la laterale alveolare si trova sempre in attacco sillabico, la
laterale alveolare velarizzata si trova sempre in coda sillabica. Qui abbiamo una perfetta distribuzione
complementare, perché i due elementi in inglese vanno considerati come due varianti dello stesso fonema -
→ dove compare uno in attacco sillabico non può mai comparire l’altro e viceversa. Sulla base di questa
distinzione si dice che in inglese c’è un unico fonema costituito da un’unica laterale per la quale si prende
come rappresentante la variante più usata, cioè quella che si trova in attacco sillabico per cui il fonema è
indicato mediante il suono della sua variante più generalizzata, e si dice che questo fonema possiede in
inglese due varianti, anche dette allofoni (realizzazioni dell’unica unità formale): una laterale alveolare e
una laterale alveolare velarizzata. Il fonema è indicato mediante due sbarrette oblique (è l’unità formale
che si trova nella rappresentazione fonologica), gli allofoni si trovano su un altro strato del segno (la
sostanza dell’espressione e rappresentano le trascrizioni delle sostanze fonetiche, cioè dei precisi
coefficenti fonetici).

Altro esempio di distribuzione complementare dall’inglese dalle occlusive sorde: le occlusive sorde
dell’inglese hanno tre varianti → possono essere o aspirate o glottidalizzate o essere né aspirate né
glottidalizzate. Le occlusive sorde dell’inglese sono sistematicamente aspirate quando si trovano in attacco
della sillaba (es. pie [pʰaɪ]). L’aspirazione non si verifica se l’occlusiva in attacco sillabico è preceduta da una
fricativa sorda (es. spy [spaɪ]). Se l’occlusiva si trova in coda sillabica alla fine della sillaba è glottidalizzata
(es. lip [lɪʔp]). Abbiamo quindi tre varianti A, B, C che sono in perfetta distribuzione complementare: dove
compare A, non compare B e non compare nemmeno C e viceversa. In inglese le tre varianti aspirata, non
aspirata e glottidalizzata, sono altrettanti allofoni dell’unico fonema (in questo caso indicato attraverso la
non aspirata) che ha tre possibilità di realizzazione che dipendono dal contesto in cui si trovi ogni volta
questa unità.

Un’altra possibilità di distribuzione complementare è costituita dalle nasali in posizione pre-consonantica:


in italiano ci sono cinque diverse nasali → la bilabiale, la labiodentale, l’alveolare, la palatale e la velare.

Contesti in cui ciascuna di esse può comparire: la bilabiale compare in posizione iniziale di parola davanti a
vocale (es. mare [‘mare]), in posizione interna di parola, cioè in posizione intervocalica (es. ramo [‘ramo]),
in posizione preconsonantica ma solo davanti a consonante bilabiale (es. campo [‘kampo]).

La labiodentale compare soltanto in posizione preconsonatica, interna di parola, e solo davanti a


consonante labiodentale (es. confetto [koɱ’fɛtto]).

L’alveolare è quella con più contesti: compare in posizione iniziale di parola davanti a vocale (es. nero
[‘nero]), può comparire in posizione interna di parola intervocalica (es. pena [‘pena]), compare in posizione
preconsonantica davanti solo davanti ad alveolare (es. fondo [‘fondo]), può comparire in posizione finale di
parola, anche se in pochissime forme (es. con [kon], in [in], non [non]).

La palatale può comparire in inizio di parola (es. gnomo [‘ɲᴐmo]), o in posizione interna, dove compare
solo in posizione intervocalica e può essere solo lunga (es. ragno).

La nasale velare può comparire soltanto in posizione interna solo davanti a consonate velare (es. angolo
[‘aŋgolo]).
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Tra questi diversi luoghi diaframmatici solo tre sono in opposizione tra di loro: la bilabiale, l’alveolare e la
palatale (solo queste hanno una parziale sovrapposizione dei loro contesti: possono comparie tutte in
posizione iniziale di parola e tutte in posizione interna come lunghe) e danno luogo in questa loro
distribuzione sovrapposta a delle coppie minime: es. sommo [‘sommo] ∼ sonno [‘sonno] ∼ sogno [‘soɲŋo].

Davanti a consonante la labiodenatale, la bilabiale e la alveolare e la velare sono tra di loro in distribuzione
complementare perché dipendono sempre dalla consonate seguente. La bilabiale va fuori dal gruppo
perché potendo comparire anche in posizione iniziale e intervocalica si può già dimostrare la sua
autonomia. Le altre vengono raggruppate come allofoni dell’alveolare perché labiodentale, alveolare e
velare possono essere condiderate come varianti di realizzazione in posizione preconsonantica dell’unico
fonema.

Consideriamo dal punto di vista funzionale la labiodentale e la velare come allofoni della’alveolare insieme
all’alveolare stessa.

Qui possiamo notare una grande differenza tra le trasrizioni fonetiche e quelle fonologiche: nella
trascrizione fonemica (che indica la sequenza dei fonemi) non dobbiamo indicare la nasale labiodentale e
velare, perché queste rappresentano delle varianti fonetiche ma non hanno autonomia fonologica. La
trascrizione che rende le sole unità fonologiche non deve specificare queste proprietà ma individuare
nasale, labiodentale, velare e alveolare con un unico segno, con il quale scegliamo l’allofono più diffuso:

/n/

[ɱ] [n] [ŋ]

Trascrizioni fonemiche: /invetʃe/, /konf’ɛtto/, /’lungo/, /’panka/

Distribuzione coincidente: è il caso in cui dati due elementi di cui vogliamo provare l’indipendenza o no
all’interno del sistema e il loro essere due unità linguistiche distinte o due varianti della medesima unità,
tutti i contesti in cui può apparire A sono anche contesti in cui può apparire B e viceversa. Questo caso è
ambiguo rispetto alla prova di commutazione: la prova di commutazione può essere applicata ma la
distribuzione coincidente fa eccezione alla regola generale della prova di commutazione perché in questo
caso possiamo avere la possibilità in cui gli elementi che si possono commutare tra di loro non diano mai
luogo a diverse parole. Quando si ha distribuzione coincidente il caso più comune è che ci troviamo di
fronte a varianti di un medesimo fonema.

Questo è per esempio il caso delle vibranti dell’italiano: l’italiano possiede almeno tre diverse vibranti che
dal punto di vista strettamente fonetico sono profondamente diverse tra di loro → la vibrante polivibrante
alveolare [r], la fricaticativa uvulare sonora [ʁ], l’approssimante labiodentale [ʋ] (il labbro inferiore si
avvicina agli incisivi senza toccarli e poi torna alla posizione di partenza). Questi tre suoni possono
comparire in tutti i contesti reciproci: i contesti di A, B, C sono totalmente sovrapposti (es. in rana, sera,
carro, prato, scarpa, per).

Fonema: /r/

Allofoni: [r] [] [ʋ]


43

Non c’è nessun caso in italiano in cui la prova di commutazione è verificata: date le due espressioni (ad
esempio [ˈʁana] e [ʋana], queste sono sempre espressioni della stessa parola).

Dal momento che non è possibile nemmeno una coppia minima fondata sulla distinzione tra polivibrante
alveolare e fricativa ugulare sonoro oppure tra questa e l’approssimante labiodentale o tra la polivibrante
alveolare e l’approssimante labiodentale, questi tre suoni vanno considerati come tre varianti dello stesso
fonema, che sono tra di loro in distribuzione coincidente. Per rappresentare questo fonema in italiano si
scegllie la variente individualmente più diffusa, la polivibrante alveolare, intesa come una classe astratta
che può essere eseguita individualmente in modi molto diversi.

Abbiamo due diversi tipi di allofoni: quelli che si trovano tra loro in distribuzione complementare e quelli
che si trovano fra loro in distribuzione coincidente. Due elementi che tra loro non stabiliscono
un’opposizione distintiva ma sono riconosciuti come manifestazioni della medesima unità come
realizzazioni dello stesso fonema sono detti varianti o allofoni (quando due foni sono riconosciuti come
varianti dello stesso fonema prendono il nome di allofoni). Nella prassi quando due elementi sono in
distribuzione complementare sono detti anche allofoni condizionati → sono condizionati dal contesto
linguistico: dal momento che dove compare A non può mai comparire B e viceversa il contesto di A
condiziona la presenza di quella variante (ad esempio nel caso dell’l chiara e dell’l scura inglese la posizione
della sillaba determina la scelta della variante: l’allofono è condizionato dalla posizione in cui si trova nella
sillaba → in attacco sillabico è sempre l chiara in coda sillabica è sempre l scura).

Il fenomeno in generale è detto allofonia condizionata: quando abbiamo due varianti determinate dal
diverso contesto chiamiamo questo fenomeno allofonia condizionata.

Se invece due elementi, che sono due varianti dello stesso fonema, si trovano in distribuzione coincidente
(come nel caso delle realizzazioni della vibrante dell’italiano), questi sono detti varianti libere (meno
comunemente allofoni liberi). Il fenomeno è detto variazione libera: possiamo avere uno o l’altro a seconda
del contesto senza che sia il contesto a decidere dell’una o dell’altra variante.

La socioliguistica ha mostrato che la variazione libera dipende da fattori extra-linguistico: nel caso delle
vibranti sono delle varianti in uso individualmente → alcuni parlanti tendono a realizzare sempre la
vibrante alveolare, altri tendono a realizzare quella ugulare. Inoltre queste varianti ugulari della vibrante
sono particolarmente frequenti nelle città che hanno più avuto a che fare storicamente con la Francia: a
Torino per esempio e in tutto il Piemonte, essendo una zona geograficamente contigua alla Francia, queste
pronunce posteriori della vibrante sono state assimilate. Un fenomeno simile avviene nella parte emiliana
del Po' perché lì erano presenti delle cittadine che avevano un rapporto molto forte con la Francia o anche
nella città di Napoli dove la r ugualre è molto diffusa proprio per il rapporto che legava questa città a Parigi.
La variazione libera può essere legata a fattori extra-linguistici ma dal punto di vista del contesto linguistico
si presenta come non condizionata e questo è il fenomeno che dà la distribuzione coincidente.

Lezione 10

Tratti distintivi o fonologici

Correzione esercizio trascrizione:

1. aglio [ˈaʎʎo] → laterale palatale è uno dei cinque suoni sempre lunghi in posizione intersonante in
italiano
44

2. altrettanto [altretˈtanto] → accento si indica prima della sillaba tonica, la consonante occlusiva alveolare
sorda lunga è sia in coda della prima sillaba sia in attacco della successiva, pertanto l’apice divide le due
parti della consonante

3. angolo [ˈaŋɡolo]

4. anguilla [aŋˈɡwilla] → sillaba tonico è la penultima, dove c’è un dittongo, l’apice è collocato prima della
sillaba tonica

5. annunciato [annunˈtʃato]

6. anziani [anˈtsjani] → accento sulla penultima sillaba che contiene al suo interno un dittongo

7. attrezzare [attretˈtsare] → l’affricata alveolare sorda è uno dei cinque suoni sempre lunghi in posizione
intersonante

8. azienda [adˈdzjɛnda] → l’affricata alveolare sonora è uno dei cinque suoni sempre lunghi in posizione
intersonante, il dittongo in italiano standard presenta sempre una vocale medio-bassa (nell’italiano
regionale centro-meridionale è il contrario)

9. cautela [kau̯ ˈtɛla] → accento sulla penultima sillaba, la prima sillaba della parola contiene un dittongo
discendente che viene indicato con un archetto che indica la semivocale nei dittonghi discendenti (nelle
trascrizioni dei dizionari questo archetto di solito non è indicato)

10. cognome [koɲˈɲome] → la nasale palatale è uno dei cinque suoni insieme alle due affricate alveolari,
alla laterale palatale e alla fricativa postalveolare sorda, sempre lunghi in posizione intersonante

11. collaborazione [kollaboratˈtsjone] → affricata alveolare è uno dei cinque suoni lunghi

12. confezione [coɱfetˈtsjone] → affricata lunga, la prima sillaba presenta una nasale labiodentale

13. differenza [diffeˈrɛntsa]

14. diversa [diˈvɛrsa]

15. divieto [diˈvjɛto] → stesso ragionamento di azienda: accento sulla penultima sillaba, il dittongo nella
penultima sillaba ha una vocale medio-bassa

16. evidenza [eviˈdɛntsa]

17. formazione [formatˈtsjone] → affricata alveolare sorda lunga

18. immaginare [immadʒiˈnare] → affricata postalveolare sonora, accento sulla penultima sillaba

19. opinione [opiˈnjone] → accento sulla penultima sillaba, abbiamo un dittongo

20. patologia [patoloˈdʒia] → accento sulla penultima sillaba, questa sillaba è seguita dal confine sillabico
perché c’è poi lo iato con a successiva che costituisce una sillaba che non ha né attacco né coda ma il solo
nucleo

21. piscina [piʃˈʃina] → accento sulla penultima sillaba, la fricativa postalveolare sorda è lunga essendo uno
dei cinque suoni sempre lunghi in posizione intersonante

22. progettare [prodʒetˈtare]

23. proprio [ˈprɔprjo] → accento sulla penultima dove c’è una o medio-bassa, nella sillaba finale c’è un
dittongo
45

24. pubblici [ˈpubblitʃi] → affricata postalveolare sorda, non è tra le consonati che neutralizzano la
lunghezza consonantica per cui è breve

25. requisito [rekwiˈzito] → in italiano standard abbiamo una fricativa alveolare sonora, accento sulla
penultima, nella terzultima sillaba c’è un dittongo

26. sarà [saˈra] → ossitono: presenta l’accento sull’ultima sillaba

27. siciliano [sitʃiˈljano] → ha l’accento sulla penultima, dove c’è un dittongo

28. smettere [ˈzmettere] → accento sulla terzultima, la consonante iniziale non solo è sonora ma può
essere solo sonora perché è seguita da altra consonante (la sonorante) per cui la fricativa assume il tratto
laringeo della successiva consonante (in inglese davanti una sonorante possiamo avere una fricativa sorda,
in italiano questa possibilità non c’è)

29. uscita [uʃˈʃita] → fricativa postalveolare sorda è lunga, posta in posizione intersonate

30. voce [ˈvotʃe] → accento sulla penultima sillaba

Tratti fonologici:

I fonemi sono stati considerati come unità non ulteriormente divisibili (come degli atomi), che si
oppongono l’una all’altra. L’unica differenza tra queste unità è tra il gruppo delle consonati e delle vocali.

Possiamo chiederci se i fonemi in realtà presentino tra loro delle somiglianze e delle differenze più o meno
marcate a seconda delle coppie di fonemi che si sceglie di confrontare. Una volta che abbiamo compiuto
l’analisi fonemica di una lingua possiamo cercare di osservare se dati due fonemi questi non siano più simili
o più diversi tra di loro di quanto non sia un’altra coppia di fonemi.

Questo problema fu posto già dal linguista che più aveva sviluppato già negli anni 20’ e 30’ l’analisi
fonemica degli inventari fonologici segmentali, Nikolaj Trubeckoj. Egli fu attivo dopo la rivoluzione russa
soprattutto all’università di Vienna, dove fu acculto e partecipando poi con grande attivismo al circolo
linguistico di Praga, che allora si trovava in una forte connessione con la città di Vienna sul piano scientifico
e accademico. Trubeckoj partecipò alle riunioni del circolo linguistico che si era nel frattempo formato
all’interno della maggiore università della città di Praga, dove convergeva anche Roman Jakobson, che
viveva a Praga e insegnava nell’università della città di Brno.

Trubeckoj fece alcune osservazioni su un fenomeno da lui chiamato neutralizzazione: aveva osservato come
data un’opposizione tra due fonemi, questa opposizione può essere neutralizzata in alcuni contesti. Es. in
itaiano è presente un’opposizione tra due fricative alveolari sorda e sonora → in realtà in italiano questa
opposizione è attiva solo in posiozione intervocalica e non è possibile in altra posizione, ed in posizione
intervocalica l’opposizione è attiva solo nella varietà toscana di italiano, altrove si neutralizza:

Es. /ˈkjɛse/ part. pass. di chiedere ∼ /ˈkjɛze/ plur. di chiesa → due forme che si distinguono perché una ha
una fricativa alveolare sorda e l’altra ha una fricativa alveolare sonora

Es. /ˈfuso/ ‘strumento per la filatura’ ∼ /ˈfuzo/ part. pass. di fondere

L’opposizione tra queste due consonanti non può verificarsi di fronte ad altra consonante, dove il grado di
sonorità della fricativa alveolare è lo stesso della consonate seguente:
46

Es. /ˈaSta/ ∼ /ˈaZma/ → nella prima parola abbiamo una sorda perché qui la fricativa segue un’altra sorda,
nella seconda abbiamo una sonora perché dopo c’è una sonorante che è intrinsecamente sonore e
conferisce la sua caratteristica alla precedente consonante.

Potremmo dire che le due fricative alveolari e sonora sono due fonemi diversi ma in questa loro diversità
c’è anche qualche somiglianza, cioè una serie di caratteristiche comuni ai due fonemi e alcune
caratteristiche che divergono tra i due → queste ultime sono quelle che vengono neutralizzate nella
posizione di neutralizzazione. Possiamo dire che in asta e asma nel nesso consonantico c’è una consonante
neutralizzata, che prende il nome di arcifonema (una forma comune tra due fonemi che si sono
neutralizzati), che ha una serie di caratteristiche che permangono in sede di neutralizzazione, mentre ciò
che fa differire le due consonanti, in questo caso il grado di sonorità, viene neutralizzato in questa
posizione.

Così iniziamo a non vedere più le coppie oppositive di fonemi come tutte sullo stesso piano ma possiamo
cominciare a porre il problema del fatto che in una neutralizzazione ci sono alcune caratteristiche che
permangono in una coppia di fonemi e altre che invece vengono neutralizzate.

Quindi cominciamo ad analizzare un fonema al suo interno in diverse caratteristiche: alcune che
permangono in neutralizzazione ed altre che invece vengono neutralizzate.

L’arcifonema si segna in genere con una maiuscola.

E’ stato soprattutto Roman Jakobson (molto più giovane di Trubeckoj, con il quale collaborò già negli anni
russi ma che poi divenne piuttosto stabile nel periodo in cui entrambi gravitano intorno alla città di Praga)
che sviluppò la fonologia in una direzione originale come ricerca sugli elementi ultimi dell’analisi linguistica.

Egli assume che il fonema sia l’unità ultima del significante, cioè un’unità non ulteriormente scomponibile
in altre unità, ma che sia analizzabile in elementi che non intervengono successivamente tra di loro ma
simultaneamente (non rappresentano ulteriori unità ma semplicemente esito di analisi che simultanamente
compongono poi il fonema).

Questi esiti di analisi sono stati chiamati da Jakobson tratti distintivi o fonologici. Ad esempio in due fonemi
che si neutralizzano ci sono due proprietà comuni, quelle che caratterizzano l’arcifonema, ma una sola
proprietà che differenzia i due fonemi, ad esempio il coefficiente laringeo di sonorità. Questa unica
proprietà può essere indicata mediante il tratto fonologico. In questo modo abbiamo già iniziato a
scomporre i fonemi in ulteriori elementi di analisi che non sono unità ma solo elementi che agiscono
simultaneamente tra di loro.

Il fonema quindi è visto da Jackobson come un fascio di tratti distintivi simultanei.

Una prima applicazione dei tratti distintivi si può fare con profitto sul turco, che ha come vantaggio il fatto
di presentare nelle sue caratteristiche interne numerose prove sulla possibilità di scomporre gli elementi
vocalici in tratti distintivi e quindi di offrire una analisi dell’inventario segmentale fonemico in tratti che
deriva direttamente dalle proprietà che la lingua espone attraverso le sue regole interne.

Il turco è la lingua nazionale della repubblica di Turchia, situata nell’Anatolia, tra Mediterraneo e Mar Nero
e in una parte dell’Europa situata al di là del Bosforo nel lembo orientale del continente europeo. Non in
tutta la Turchia si parla in prevalenza Turco: ci sono anche altre lingue come il curdo, il zazà, arabo ecc.

Il turco a sua volta è parte di una grande famiglia linguistica, quella delle lingue turche o anche gruppo delle
lingue turciche, è una famiglia incredibilmente coesa e si divide in quattri grandi sottofamiglie:

- Gruppo bolgar: ciuvascio (si parla nella pianura del Volga)


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- Gruppo orientale: uiguro e uzbeco


- Gruppo settentrionale: altai, tuva e lo yakuto
- Gruppo meridionale: tataro di Crimea, azeri, turco
- Gruppo occidentale: kazako, kirghizo, tataro

Il turco si presta molto bene ad un’analisi del suo inventario vocalico in tratti.

L’inventario dei fonemi del turco comprende otto diverse unità: ciascuna di queste può comparire in sillaba
tonica. Il turco ha una legge fissa di collocazione dell’accento → le parole hanno sempre l’accento
sull’ultima sillaba e la sillaba e la sillaba tonica è sempre l’ultima della parola.

Ci sono otto possibili fonemi che possono comparire nell’ultima sillaba della parola, cioè la tonica, o
nell’unica in caso di monosillabi e che danno luogo a coppie minime: vocale anteriore non arrotondata /i/, il
corrispettivo arrotondato /y/, una vocale media anteriore non arrotondata /e/, il corrispettivo arrotondato
/ø/, vocale bassa posteriore non arrotondata /a/, una vocale media posteriore arrotondata /o/, una vocale
alta centrale non arrotondata /ɨ/ (nell’ortografia del turco si segna con una i senza il puntino), una vocale
posteriore alta arrotondata /u/.

In turco è molto bene attestato un fenomeno chiamato armonia vocalica per cui le vocali di una parola
possono appartenere solo a uno dei due gruppi fondamentali con cui si divede l’inventario degli otto
fonemi vocalici: gli otto fonemi danno luogo a due gruppi uno di vocali anteriori, uno delle corrispettive
posteriori. Perciò le vocali di una parola possono appartenere o tutte al primo gruppo o tutte al sendo
gruppo:

Es. toprak /topˈrak/

C’è un primo grande tratto che differenzia il vocalismo del turco che possiamo chiamare arretrato, che
presenta valore positivo, che indica le quattro vocali posteriore, ha valore meno nelle altre quattro.

Una seconda manifestazione dell’armonia vocalica si trova in alcuni suffissi come quello del plurale che ha
due forme: /lar/ e /ler/: quando a un nome si aggiunge il suffisso del plurale, nel caso in cui le vocali del
nome appartengano al primo gruppo [- arretrato] la forma del plurale è ler, quindi il plurale prende
anch’esso una vocale non arretrata (es. diș /diʃ/‘dente’, dișler /diʃˈler/ ‘denti’). Se la vocale ultima della
parola appartiene al gruppo più arretrato il suffisso è lar (es. kız /kɨz/ ‘figlio’, kızlar /kɨzˈlɑr/).

Abbiamo anche una forma di armonia che invece distingue tra quattro diverse vocali a seconda che la
vocale ultima della parola, a cui si aggiunge il suffisso sia non solo più o meno arretrata ma anche più o
meno arrotondata, come nel caso del suffisso -li (suffisso derivativo che consente di formare un aggettivo
da un nome preesistente).

Questo suffisso in realtà ha quattro diverse forme: /li/ (anteiore non arrotondata, /lɨ/ (posteriore non
arrotondata), /ly/ (anteriore arrotondata) e /lu/ (posteriore arrotondata). Queste quattro forme del suffisso
si selezionano attraverso l’appartenenza dell’ultima vocale del nome al gruppo delle più o meno arretrate e
più o meno arrotondate:

[-arretrato], [-arrotondato] (voc. /i)

• verim /veˈrim/ ‘rendimento’, verimli /veriˈmli/ ‘produttivo’ → ha come finale un’occlusiva anteriore non
arrotondata, pertanto l’aggettivo derivato da questo nome ha ancora un’anteriore non arrotondata

(b) [+arretrato], [-arrotondato] (voc. /ɨ/)


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• yıldız /jɨldɨz/ ‘stella’, yıldızlı /jɨldɨzlɨ/ ‘stellato’ → vocale finale è posteriore non arrotondata per cui
abbiamo la variante posteriore non arrotondata del suffisso

(c) [-arretrato], [+arrotondato] (voc. /y/)

• tüy /tyj/ ‘pelo’, tüylü /tyjˈly/ ‘villoso’ → vocale ultima della parola è anteriore arrotondata la vocale finale
del suffisso è anteriore arrotondata

(d) [+arretrato], [+arrotondato] (voc. /u/)

• tuz /tuz/ ‘sale’, tuzlu /tuzˈlu/ ‘salato’ → parola che ha nella sillaba tonica una vocale posteriore
arrotondata, il suffisso prende la vocale u finale

Possiamo schematizzare le otto vocali del turco attraverso sole tre caratteristiche (tratti fonologici): il tratto
arretrato che distingue tra i due gruppi dell’armonia interna alla parola e i due suffissi del tipo -ler, -lar, il
tratto arrotondato, che divide le quattro forme diverse dell’armonia del suffisso -li, potremmo individuare
un terzo tratto che distringue le vocali che possono comparire all’interno del suffisso -li e quelle che non
possono comparire all’interno dello stesso suffisso (chimiamo le ultime più basso e le altre meno basso).

Quindi noi possiamo dare ad ognuno degli otto fonemi uno specifico valore per ognuno dei tratti:

/i/ /y/ /e/ /ø/ /ɑ/ /o/ /i/ /u/


[arretrato] - - - - + + + +
[basso] - - + + + + - -
[arrotondato] - + - + - + - +

Ogni elemento di questa tabella presenta una successione propria di segni meno e più. Può essere letta sia
orizzontalmente che verticalmente: in verticale vediamo per esempio che il suono /i/ è definibile come
meno arretrata, meno basso, meno arrotondato. Questasuccesione non ritorna acoomagnando nessun
altro fonema, potremmo dire che i è meno, meno, meno, che y è meno, meno, più ecc.

Qui abbiamo un perfetto uso dei tratti: l’inventario di otto elementi si lascia perfettamente analizzare
attravero tre soli tratti ciascuno avente due valori etutte le possibilità logiche di combinazione di questi
segni sono utilizzati (abbiamo due valori possibili e tre tratti: le possibilità logiche sono 23 = 8, le 8
possibilità logiche sono tutte quante attestate negli otto fonemi del sistema).
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L’italiano presenta una situazione un po' meno evidetente: per l’italiano dobbiamointrodurre un quarto
tratto. Non possiamo analizzare i sette elementi dell’italiano mediante i tre tratti del turco. Ci sono delle
differenze notevoli: in italiano non usiamo il tratto arrotondato. Tutte le vocali arrotondate sono anche
arretrate quindi è sufficiente introdurre il tratto arretrato (dove questo ha valore di più come elemento
secondario sappiamo che queste vocali sono tutte anche arrotondate), l’arrotondamento non distingue tra
diverse vocali.

Abbiamo anche bisogno di un tratto che distingua tra la e chiusa e la e aperta e la o chiusa e la o aperta. Dal
momento che l’opposizione si verifica solo in posizione tonica e viene neutralizzata in posizione atona, noi
abbiamo bisogno di un unico tratto che indichi la proprietà che viene neutralizzata: viene chiamato teso. La
e ed o aperta sono meno teso. Infine aabbiamo il tratto alto che distingue i, u da e o. Qui dobbiamo
utilizzare un tratto più o meno alto sia il tratto più o meno basso perché il suono a è più basso. Ne esce
fuori la specificazione di tutte le caratteristiche, con ogni suono indicato nella tabella da una successione di
meno e più: la i può essere indicata come più alto, meno basso, più teso, meno arretrato; la e chiusa può
essere indicata come meno alto, meno basso, più teso, meno arretrato ecc. Nella a lasciamo vuota la
casella teso immaginando che questo tratto non sia attivo per questo ofnema ma solo per gli altri.
Applicando all’italiano un sistema di analisi che in atre lingue si offre in modo più geometricamente
applicabile ed anzi esce fuori dall’analisi dei processi di queste lingue (come nel caso del turco), anche il
vocalismo dell’italiano risulta essere scomponibile in un numero di tratti inferiore al numero dei fonemi. I
fonemi vocalici dell’italiano sono sette ma questi sette fonemi risultano analizzabili in quattro tratti,
ciascuno avente due valori possibili (meno e più):

/i/ /e/ /ɛ/ /a/ /ᴐ/ /o/ /u/


[alto] + - - + - - +
[basso] - - - + - - -
[teso] + + - - + +
[arretrato] - - - - + + +
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Lezione 11

Tratti fonologici: consonantismo

Esercizio di trasccrizione fonologica:

Fornire una rappresentazione fonemica delle seguenti parole italiane (es. tengo /ˈtɛnɡo/ → gli elementi
fondamentali sono la nasale che è foneticamente velare ma è un allofono della nasale alveorare pertanto
l’lemento che entra all’interno della rappresentazione fonologica è l’alveolare e non le sue varientà né
velare né labiodentale):

1. ancóra

2. àncora

3. asciugato

4. cliente

5. cruciale

6. disperazione

7. fisiologici

8. formaggio

9. generosità

10. giocatore

11. giornalismo

12. gonfiato

13. governo

14. guarisce

15. incentivo

16. Italia

17. limitazione

18. mancamento

19. minacciato

20. negozi

21. ogni

22. osservatorio

23. parziale

24. pazienza

25. petrolio

26. prosciutto
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27. ritagliare

28. sappiamo

29. senza

30. storici

Luogo diaframmatici del consonantismo: dal punot di vista della teoria articolatoria abbiamo già detto che
dal momento che una consonate si distingue da una vocale per la presenza di un diaframma consonantico
che manca invece nella vocale, l’elemento cruciale per la descrizione e la classificazione di una consonate è
costituito dal diaframma che viene esaminato e classificato sulla base di due dimensioni: il luogo del
diaframma e il modo del diaframma (ci sono poi i coefficenti laringei che sono largamente indipendenti
dall’articolazione del diaframma).

Anche dal punto di vista fonologico vale lo stesso principio: se la distinizone cruciaiale tra vocali e
consonanti è rappresentata dalla presenza di un diaframma,anche dal punto di vista fonologico noi
partiamo dalla classficazione del diaframma, che può essere sulla base di dimensioni che sono parzialmente
indioendenti da quelle della fonetica e che presento un margine di arbitrarietà molto più ampio e le
modalità con cui si verificanoin fonologia sono sempre relative a una singola lingua, non al linguaggio in
generale.

Si parte comunque dagli undici luoghi diaframmatici: bilabiale, labiodentale, dentale, alveolare,
postalveolare, retroflesso, palatale, velare, uvulare, faringale, glottidale.

In fonetica inoltre i luoghi diaframmatici sono già stati distinti in cinque grandi gruppi a seconda di quale sia
l’organo articolatore: classe labiale, coronale, dorsale, radicale, glottidale.

La prima grande distinzione da fare quando parliamo di tratti di luogo diaframmatico è l’introduzione di due
tratti che prendono il nome di avanzato o anteriore e coronale.

Applicati all’italiano, definiamo un fonema come più avanzato se questo viene realizzato dalla cresta degli
alveoli dentali in avanti: sono tutte le bilabiali, labiodentali, alveolari, postalveolari.

Le consonanti che hanno una speficicazione negativa per il tratto avanzato sono quelle di luogo
postalveolare, palatale e velare.

L’altro tratto che distingue le consonanti è il tratto coronale: ha valore positivo solo per le consonanti che
fanno parte della classe coronale. I due tratti si intersecano perché mentre il tratto avanzato comprende tra
questi le dentali e le alveolari, invece le postalveolari e retroflesse vanno nelle meno avanzate. La
combinazione dei valori più e meno per il tratto avanzato e per il tratto coronale ci distingue tra quattro
grandi gruppi di consonanti. Se guardiamo le caselle della prima tabella e quelle della prima riga della
seconda tabella noteremo che in ognuna di queste le distinzioni tra le consonanti che sono comprese lì
dentro riguardano altre dimensioni, per esempio il fatto che una consonante è sorda o sonora, che è
occlusiva o fricativa, ostruente o sonorante, o nasale o laterale, ma non c’è mai una distinzione affidata al
solo luogo consonatico. Per esempio nella prima casella a sinistra abbiamo le due occlusive bilabili sorda e
sonora, le due fricative labiodentali e la nasale bilabiale. Qui troviamo i fonemi consontantici con
l’eccezione di tre che non sono in questa tabella (la vibrante e le due approssimanti). La distinzione tra /p/ e
/b/ è affidata al tratto di sonorità, quella tra /p/ e /f/ è affidata al modo (una è occlusiva, l’altra è fricativa),
la distinzione tra /p/ e /m/ è anch’essa affidata al modo (una è ostruente, l’altra è una sonorante). Nella
seconda casella della tabella troviamo due occlusive alveolari, due affricate alveolari, due fricative, una
nasale e una laterale: anche qui l’elemento che crucialmente distingue queste consonanti è costituito dal
52

modo (le prime due sono occlusive, le seconde sono affricate, le terze sono fricative, poi abbiamo una
nasale e una laterale) oppure l’ooposizione tra sorda e sonora.

Questo fa sì che noi possiamo avere, per esempio all’interno delle coronali, il tratto avanzato che già
distingue tra due classi diverse: quelle più avanzate (alveolari che si oppongono a postalveolari
corrispondenti) → nelle consonati /z/ e /c/ (come nella coppia minima cozza /ˈkᴐttsa/ ~ coccia /ˈkᴐttʃa/) la
distinzione è affidata a un solo tratto: entrambe le consonanti sono coronali ma la prima ha la
specificazione più per il tratto avanzatoe l’altra ha la specificazione meno. Lo stesso avviene per la
corrispettiva sonora e per la distinzione tra fricativa alveolare sorda e fricativa postalveolare sorda:

Non tutte le lingue consentono di distinguere tra tutti i luoghi diaframmatici esclusivamente con i due tratti
avanzato e coronale: in molte lingue è sufficiente inserire un terzo tratto di luogo, che prende il nome in
teoria linguistica di distribuito (e in lingue come l’arabo che presenta anche le faringali e le glottidali una
serie di altre specificazioni ulteriori). Questo in generale, con la specificazione positiva indica il fatto che ci
troviamo di fronte a un diaframma più esteso di quanto non avviene con la specificazione negativa. Per
esempio se consideriamo le fricative dell’inglese (che ha otto fonemi per le fricative: due labiodentali /f/
/v/, due dentali /θ/ /ð/,due alveolari /s/ /z/, due postalveolari /ʃ/ /ʒ/), possiamo notare che distinguiamo le
fricative dentali dalle alveolari (che sono entrambe più coronale e più avanzato) per avere l’una un
diaframma specificato come più distribuito e l’altra essere specificata con l’indicaizone meno distribuito. Le
postalveolari sono distinte perché sono più coronale e meno avanzato ma sono anche più distirbuito:
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Un altro caso in cui può essere utile il ricorso a questo tratto è quello di lingue che presentano una
distinzione tra alveolari e retroflesse o tra alveolari, retroflesse e postalveolari, come avviene in molte
lingue dell’India. Nelle lingue indoarie (gruppo indoeuropeo parlate in India), come urdu, hindi, bengalese,
abbiamo una distinzione tra cinque diverse classi di luoghi diaframmatici.

In hindi per esempio abbiamo quattro diverse bilabiali, quattro alveolari, quattro retroflesse, quattro
postalveolari, e quattro velari. Non basta distinguere tra più o meono coronali e più o meno avanzate
perché questa sola distinzione metterebbe insieme tutta la classe delle alveolari con quella delle
retroflesse. Qui interviene il tratto distribuito che specifica con segno positivo le retroflesse, che hanno un
diaframma molto più ristretto, dalle postalveolari che sono meno distribuite:
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Tratti larinegei e di modo diaframmatico:

Secondo la teoria dei tratti di Jakobson ognuna di queste proprietà espresse formalmente in tratti presenta
due valori possibili (più o meno). Vi è poi la teoria dei tratti di Morris Halle presentata nel 1968 in un libro
da lui scritto insieme a Noam Chomsky, fondatore della grammatica generativa, che si intitola “The Sound
Pattern of English”, che ha costituito un manuale di riferimento a cui la teoria moderna si rifà più
estesamente rispetto alla matrice dei tratti di Jakobson. I tratti qui esposti relativamente ai tratti laringei
furono introdotti negli Stati Uniti negli anni 70’. Da una matrice generale di cinque tratti che in genere viene
proposta ne possiamo considerare tre: tratto sonoro (che distingue le sorde, con valore meno, dalle sonore,
con valore più), glottide allargata (tratto che con valore più indinca le aspirate), glottide constretta (è il
tratto che indica le glottidalizzate, per esempio le eiettive).

Se prendiamo in considerazione la hindi, questa presenta per ogni classe delle occlusive quattro fonemi
distinti, ciascuno con il suo segno grafico, che si distinguono per essere il primo una sorda, il secondo una
sorda aspirata, il terzo una sonora, il quarto una mormorata (che viene realizzato con apertura a metà della
glottide che fa uscire il fiato durante l’emissione della consonante). Dal punto di vista fonologico possiamo
considerare queste mormorate come condividenti il tratto più sonoro e tratto più glottide allargata: sono
due i tratti laringei che ci servono per discriminare all’interno dell’inventario fonologico della hindi:

Se prendiamo in considerazione un sistema ternario, per esempio quello del georgiano, dell’armeno o
l’inventario delle occlusive dell’amarico (che si presente meglio ai nostri occhi; si tratta di una lingua
semitica presente nel corno d’Africa, attuale lingua nazionale della republica di Etiopia) vediamo che
l’amarico presenta un tre serie di consonanti occlusive: la eiettiva o glottidalizzata /tʼ/, la sorda /t/ e la
sonora /d/. Consideriamo la prima come meno sonoro più glottide costretta, la sorda meno sonoro meno
glottide costretta e la sonora più sonoro meno glottide costretta:

I cinque grandi modi diaframmatici (occlusive affricate, fricative, nasali, laterali e vibranti) sono distinguibili
con cinque tratti (sonorante, continuo, soluzione ritardata, nasale e laterale). Per esempio il primo
(sonorante) distingue tra ostruenti e sonoranti (più sonoranti sono le vibranti laterali e nasali, le meno
sonoranti sono le occlusive, le fricative, le affricate). A loro volta nel meno sonorante interviene un
ulteriore tratto di modo che è definito continuo, che indica quelle consonanti che hanno una fase di tenuta
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(con valore meno) da quelle che invece presentano una continuità di esecuzione con il valore più continuo
è rappresentato dalle fricative. Quelle meno continuo sono ulteirormente distinte in italiano, introduciamo
un altro tratto che riguarda la parte finale della sononte (il tratto chiamato soluzione ritardata) che ha
valore più per le affrcate e valore meno per le occlusive. Nelle più sonoranti interviene un tratto nasale che
ha valore più per le nasali, le laterali e le vibranti sono distinte dal tratto laterale, che ha valore positivo per
le laterali e valore negativo per la vibrante. Proprio la casella delle vibranti è l’unica che è occupata in
italiano da un unico suono (l’unica vibrante dell’italiano). Non è un caso che questo possa avvenire perché
la vibrante è l’unica consonante a non possedere un luogo diaframmatico perché è sufficiente l’insieme di
specificazioni del modo a individuare questa consonante, che non si oppone con una vibrante che ha un
diverso luogo. In un certo senso possimao dire che sebbene la vibrante italiana abbia un allofono che ha un
suo luogo diaframmatico (luogo alveolare) questa non è una specificazione necessaria nel sistema, tanto è
vero che il sistema ammetre realizzazioni non canoniche anche in altri luoghi diaframmatici:

Le occlusive sono caratterizzate dalla matrice di tratti meno sonorante, meno continuo, meno soluzione
ritardata. Le afrricate sono meno sonorante, meno continuo, più soluzione ritardata. Per questi due gruppi
non interviene il tratto laterale che interviene solo in quei fonemi che sono specificati come più sonoranti,
cioè le ultime tre colonne della tabella. Nella terza colonna le fricative sono meno sonorante, più continuo
→ non interviene nemmeno il tratto di soluzione ritardata, che distingue solo affricate da occlusive (c’è una
sootspecificazione di questo gruppo per un certo tratto che qui non interviene). Un ragionamento simile si
può fare per tutte le sonoranti (molti tratti non intervengono): le nasali sono più nasale, il tratto laterale
distingue con valore positivo le laterali e con valore negativo la vibrante, la vibrante ha due specificazioni
(più sonorante, meno laterale; non ha tratti di luogo).

Il gruppo di consonanti non marcato, che ha il maggiore numero di valori meno, è quello delle occlusive: se
una lingua presenta un numero molto ridotto di consonanti, normalmente queste sono delle occlusive (le
occlusive sono le consonati prototipoche, di default):
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Modo con cui si integrano fra loro nell’analisi tre grandi gruppi di segmenti (le vocali, le approssimanti e
tutto il resto delle consonanti, cioè le ostruenti, le nasali, le laterali e la vibrante). Nell’analisi corresnte
sono considerati come tre gruppi a cui è data una relativa autonomia.

A questo punto possiamo definire una matrice di tratti generale che consente di analizzare tutti i fonemi
dell’italiano, cioè quello che viene definito l’inventario segmentale o fonemico (sole caratteristiche
segmentali).

A questa parte della fonologia fa seguito un’altra parte che riguarga le caratteristiche prosodiche.

Le tre maggiori dei segmenti sono classificabili e analizzabili nei loro rapporti rispettivi attraverso due tratti
(sono gli unici due che per la teoria corrente sono necessari nella specificazione per ogni segmento: non ci
può essere un segmento che non sia specificato per uno di questi due tratti).

Il primo tratto è detto sillabico e indica elementi che possono trovarsi nel nucleo (in italiano sono le vocali).

Tratto consonantico: meno consonantico insieme a meno sillabico è quella delle approssimanti →
elemento cruciale per definizione non è la presenza del diaframma ma che non possono trovarsi nel nucleo,
entrano sempre in un dittongo, le approssimanti sono definibili in termini prosodici più che segmentali;
valore positivo al tratto consonantico si intende presenza di diaframma (non si verifica in vocali e non è
stabile in approsimanti ma è presente nelle aptre sonoranti e nelle ostruenti). Tutti i segmenti hanno
vaolore per tratto sillabico e consonatico (tatti maggiori o di sorgente).
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Matrice di tratti in cui per ognuno dei fonemi dell’italiano (solo ostruenti nella schermata) si vede sequenza
di valori meno e più accompagnati a certi tratti, in alcune celle non c’è nulla perché il tratto non è
specificato per quel segmento. Possiamo definire l’occlusiva bilabiale sorda come meno sillabico, più
consonantico, meno sonorante, meno continuo, meno soluzione ritardata, più avanzato, meno coronale,
meno sonoro → soluzione di valori meno e più non ritorna con quest’ordine in nessuna altra riga che
rappresenta il fonema (può essere rappresentato come una certa successione di valori meno e più nella
matrice dei tratti). Bisogna imparare come si specificano tutti i singoli elementi.

Nel caso delle sonoranti cambiano i tratti non specificati (quando tratto sonorante assume valore positivo
per tutti i suoni i successivi tratti continuo e soluzione ritardata non sono specificati), il tratto sonoro è
vuoto (assumiamo che tutte le sonoranti siano sonore). Tra le approssimanti /j/ è meno sillabico, meno
consonantico, più sonorante, meno nasale, meno laterale, più avanzato, meno coronale e differisce dalla
corrispettiva labiovelare /w/ solo nel tratto avanzato (tratto di luogo) che è meno per /w/.

Vocali: parte superiore della tabella (tratti sillabico e consonantico) è in comune alle altre tabelle: sillabico
assume sempre valore più, consonantico sempre valore meno. Tutti gli altri tratti qui non sono attivi (sono
tutti sottospecificati) e intervengono una serie di tratti (basso, alto, teso, arretrato) tipici delle vocali, non
presenti all’interno delle consonanti → sono specificati per le vocali e sottospecificati nelle consonanti.

Lezione 12

CORREZIONE ESERCIZIO DI TRASCRIZIONE FONEMICA (lez. 9):

1) ancóra /anˈkora/ → la nasale pur essendo fonoeticamente una nasale velare, è rappresentata come
alveolare perché la nasale velare è un allofono dell’alveolare, quindi va indicato il singolo fonema
indipendentemente dai suoi allofonoi posizionali; da notare l’accento che svolge una funzione distintiva →
in italinoa abbiamo la possibilità di coppie minime in cui le due diverse parole sono distinte soltanto dalla
posizione dell’accento. Pertanto in una rappresentazione fonologica noi dobbiamo indicare l’accento
(caratterisitca prosodica non segmentale)

2) àncora /ˈankora/ → vedi ancóra

3) asciugato /aʃʃuˈɡato/ → la fricativa postalveolare sorda in seconda posiizone è lunga, è una dei cinque
suoni sempre lunghi in posizione intersonante
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4) cliente /kliˈɛnte/ → la parola è un trisillabo (non abbiamo un dittongo nella prima sillabe)

5) cruciale /kruˈtʃale/ → la i che vediamo nella rappresentazione ortografica è un diacritico, non è presente
nella rappresentazione fonologica

6) disperazione /disperatˈtsjone/ → in posione tonica c’è un dittongo; l’affricata postalveolare sorda è


lunga perché si trova in posizione intersonante (tra vocale e approssimante) ed è uno dei cinque suoni
sempre lungo in questa posizione

7) fisiologici /fizjoˈlɔdʒitʃi/ → nella seconda c’è un dittongo

8) formaggio /forˈmaddʒo/

9) generosità /dʒenerosiˈta/ → la fricativa in toscano è sorda ma può essere segnata come sonora

10) giocatore /dʒokaˈtore/ → la prima sillaba presenta semplicimente un’affricata postalveolare sonora
seguita da una vocale medio-alta successiva (non c’è la i che vediamo nell’ortografica, ha solo il valore di
indicarci il carattere affricato della precedente consonante; dopo una consonante postalveolare o nasale
non ci può essere /j/ in italiano quindi non può esserci un dittongo)

11) giornalismo /dʒornaˈlizmo/ → /izmo/ ha fricativa alveolare sonora perché si trova di foronte a
consonante sonorante

12) gonfiato /ɡonˈfjato/ → la nasale è foneticamente una labiodentale (di fronte a labiodentale) ma dal
punto di vista fonemico questa labiodentale è un allofono dell’alveolare, indichiamo il rappresentante del
fononema e non i suoi allofoni

13) governo /ɡoˈvɛrno/

14) guarisce /ɡwaˈriʃʃe/ → nella prima sillaba c’è un dittongo e la fricatvia postalveolare sorda ʃ è lunga
essendo uno dei cinque suoni sempre lunghi in posizione intersonante

15) incentivo /intʃenˈtivo/

16) Italia /iˈtalja/ → in ultima sillaba c’è un dittongo ascendente

17) limitazione /limitatˈtsjone/ → resa dell’affricata alveolare sorda è lunga perché si trova tra vocale e
approssimante (posizione intersonante), uno dei cinque suoni sempre lungo in questa posizione

18)mancamento /mankaˈmento/ → la prima sillaba termina con una nasale foneticamente velare ma
fonologicamente la velare è un allofono

19)minacciato /minatˈtʃato/ → sillaba tonica c’è la i grafica dell’ortografia a cui non corrisponde sostanza
fonica

20) negozi /neˈɡɔttsi/ → o tonica è medio-bassa ed è seguita da un’affricata alveolare lunga che malgrado
si scriva con una breve nell’ortografia è foneticamente lunga perché questa consonante neutralizza il tratto
di lunghezza ed è una delle cinque che si allunga sistematicamente in posizione intersonante

21) ogni /ˈoɲɲi/ → nasale palatale è sempre lunga in posiizone intersonante

22) osservatorio /osservaˈtɔrjo/ → dittongo ascendete in ultima sillaba

23) parziale /parˈtsjale/ → dittongo in sillaba tonica

24) pazienza /patˈtsjɛntsa/ → ha un dittongo in sillaba tonica, qui /j/ non può essere assorbito dalla
consonante precedente perché questa è un’alveolare, non una postalveolare, come in /c/ e /g/; la prima
delle due affricate è lunga perché in posizione intersonante, la seconda è breve
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25) petrolio /peˈtrɔljo/ → in ultima sillaba c’è un dittongo, in sillaba tonica una vocale medio-bassa

26) prosciutto /proʃˈʃutto/ → anche la fricativa postalveolare sorda è sempre lunga in posizione
intersonante

27) ritagliare /ritaʎˈʎare/ → la laterale palatale sempre lunga in posizione intersonante; dopo la laterale
palatale c’è direttamente la vocale centrale /a/, la i ortografica ha un mero valore diacritico

28) sappiamo /sapˈpjamo/ →dittongo ascendente in posizione tonica

29) senza /ˈsɛntsa/ → vocale tonica e medio-bassa

30) storici /ˈstɔritʃi/ → vocale tonica medio-bassa

Matrici di tratti che indicano le approssimanti: approssimanti sono caratterizzate da combinazione meno
sillabico, meno consonnatico, che identifica univocamente le approssimanti.

Problema di come distingue re tra /j/ e /w/: sono distinte per luogo diaframmatico. Ci sono tre possibilità:
nelle prime due si può fare appello a un tratto di luogo consonantico (ad esempio il tratto avanzato,
immaginado che /j/ sia più avanzato di /w/ che è meno avanzato) oppure fare intervenire il tratto coronale
specificando /j/ come più coronale e /w/ come meno coronale. Così non diamo un’interpretazione
strettamente fonetica ai tratti, le palatali non sono né avanzate né coronali (/j/ è solo in rapporto a /w/
considerata con una di queste due specificazioni).

Soluzione che viene offerta nel manuale (a pag. 129) in cui si fa ricorso a una tabella in cui le due
approssimanti sono specificate mediante i tratti vocalici. Le due approssimanti sono indicate mediante i
tratti basso, alto, teso, arretrato → sono tutte e due meno basso, più alto, più teso ma /j/ è meno arretrato
mentre /w/ è più arretrato. La differenza specifica che distingue quesste due approssimanti da /i/ e /u/ che
hanno la stessa sequenza di /j/ e /w/ è il tratto sillabico (mentre /j/ e /w/ sono specificate come meno
sillabico, /i/ e /u/ sono specificate come più sillabico):

Rappresentazione autosegmentale e autosegmentalità:

Problema che riguarda la rappresentazione fonologica dei tratti. Si può immaginare in una
rappresentazione fonemica come quella della parola posta /ˈpᴐsta/ ogni fonema che si sussegue come
analizzabile in tratti distintivi:
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Possiamo leggere la tabella da destra verso sinistra le caselle dall’alto verso il basso. Possiamo anche
leggerla in orizzontale, riga per riga: nella sequenza sintagmatica posta il tratto sillabico ha una sequenza
meno, più, meno, meno, più ecc.

Questa possibilità ci consente di vedere nella sequanza sintagmantica di fonemi l’azione di componenti
simultanei che agiscono combinandosi tra di loro nella resa delle singole unità. La tabella a può essere vista
come uno spartito di un’orchestra in cui a igni riga corrisponde una parte per i diversi strumenti con i valori
che questi devono suonare. Se facciamo così e arriviamo a una rappresentaizone multilineare del singolo
fonema (come fascio di proprietà simultanee che si esprimono e che possono cambiare o rimanere fermi
nel passaggio da un fonema ad un altro) possiamo passare dalla tabella a) alla tabella b) in cui adottiamo la
convenzione che se abbiamo una successione in orizzontale per uno stesso tratto dello stesso valore in due
caselle successive, unifichiamo le due caselle e diamo ad entrambe lo stesso valore: nel caso del primo
tratto abbiamo meno, più, un meno che si estende per due colonne e poi un più finale → principio di
contrasto obbligatorio (non si ripete una specificazione uguale ma si indica una nuova specificazione solo se
questa si basa su un contrasto con la precedente). Pertanto ogni parte di strumento invece di strivere più
volte una nota che si ripete uguale indica una nota lugna e che si estende su più misure.

Questa è la base su cui alla fine delgi anni 70’ si cominciò a diffondere la rappresentazione autosegmentle
in fonologia, base sulla nozione di autosegmento.

Lo stesso Goldsmith nel coniare il termine di autosegmento e autosegmentalità fa una serie di riferimenti
non troppo impliciti all’opera di un fonologo inglese e delle sua scuola, attivi tra gli anni 30’ e gli anni 70’ in
Gran Bretagna: la scuola di Londra della fonologia che ha tra i suoi fondatori John Firth, il quale nel saggio
del 48’ ‘Sound and Prosodies’ aveva introdotto questa distinzione tra suoni e prosodie, vedendo come le
stesse proprietà segmentali possano essere considerate in realtà come estese nel tempo come le proprietà
prosodiche con cui stabiliscono rapporti.

Questo saggio ha costituitio un punto di riferimento della sua scuola, che ha lungamente indagato il
rapporto tra prosodia e segmenti, che è il tema che è stato poi al centro dell’autosegmentalità succesiva di
Goldsmith.

Idea per cui un fonema di per sé è distinguibile su due piani: da un lato (il livello scheletrico) abbiamo una
serie di posizioni nell’ordine sintagmatico indicate con una marca convenzionale (ad esempio una x) che
indicano le posizioni una dietro l’latra dei fonemi (ordine sintagmatico). Poi abbiamo un livello successivo
distinto e parzialmente autonomo detto livello timbrico (anche detto livello melodico). Il livello timbrico ha
61

al suo interno i tratti distintivi con le loro specificazioni. I due livelli sono poi collegati da convenzioni di
associazione realizzate mediante delle linee per le quali possiamo avere che un elemento del livello
timbrico si collega a un elemento del livello scheletrico (a una certa x) oppure un elemento del livello
timbrico si associa a più elementi del livello scheletrico contemporaneamente. Ciascuno dei due livelli
presenta delle unità dette autosegmenti (parzialmente autonome). Per esempio, cancellandosi un
elemento del livello timbrico (una matrice di tratti) l’elemento del livello scheletrico resta presente e
abbimao nuove associazioni di tratti o vicerversa.

Questa rappresentazione si cominciò a diffondere in fonologia alla fine degli anni 70’ per mezzo del lavoro
del lavoro di un fonologo americano chiamoto John Goldsmith che ha compiuto una sintesi del suo
pensiero e delle convezioni per esprimerlo in un libro del 1990, intitolato ‘Autosegmental and Metrical
Phonology’:

A sinistra abbiamo rappresentato il nesso consonantico /st/ a destra abbiamo una fricativa alveolare sorda
lunga /ss/. In entrambi i casi abbiamo due posizioni segmentali (livello scheletrico: x x), ma nel primo c’è
una matrice di tratti (che sono le specificazioni più consonantico, meno sonorante, meno sonoro, più
coronale, più avanzato) che si associano contemporaneamente contemporaneamente ad entrambe le x
della posizione segmentale (perché queste condividono queste specificazioni, come si vede nella tabella
che descrive la parola posta, in cui solo il tratto continuo distingue tra le due consonanti → qui sono solo le
specificazioni più continuo e meno continuo che si distinguono nell’associarsi con le due posizioni
segmentali). Al contrario, se sopprimiamo questa differenza, otteniamo la rapprsentazione di una
consonante lunga. Pertanto la prima grande innovazione introdotta dalla fonologia autosegmentale è il
fatto che una lunga non è rappresentata come due fonemi successivi, ma come due posizioni segmentali a
cui si associano contemporanemente (perché autonome e quindi in grado di associarsi con uno o più
elementi del livello scheletrico) una medisima matrice di tratti che si generalizza in entrambe le posizioni.

Prosodia: andare oltre le singole proproprietà segmentali e vedere come la fonologia sia fatta anche di
proprietà prosodiche che superano i meri rapporti paradigmatici che distinguono tra loro i fonemi e
prendono in esame i rapporti sintagmatici (si estendono nel tempo).

Tra le proprietà prosodiche abbiamo sillaba, accento, tono e intonazione. In questa lezione ci fermiamo alla
sillaba (la fonologia attuale associa ad ognuna delle proprietà prosodiche fonetiche costituenti fonologici
che operano all’interno della struttura prosodica di una lingua).
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Per quanto riguarda la differenza di lunghezza consonantica fonologica, la rappresentazione


autosegmentale incorpora la possibilità di indicare consonantie vocali brevi e lunghe e stralunghe
associando una medesima matrice di tratti a più posizioni segmentali (due nel caso della stralunga).

Per quanto riguarda la sillaba, il costituente prosodico alla base della gerarchia, abbiamo detto che la sillaba
è distinguibile in tre grandi parti: nucleo (parte più sonora, occuoa aoice di sonorità nella scala di sonorità
delle consonanti), attacco (precede nucleo), coda (segue nucleo); attacco + coda → margini della sillaba.
Possiamo fare una geralizzazione dal punot di vista fonologico che si è basata in origine sulla tradizione
grammaticale cinese, sulla distinzione tra gli iniziali e i finali di sillaba che c’è nello studio del monosillabo
cinese, che John Firth aveva reso oggetto di osservazioni nei suoi primi anni di lavoro. La grammatica cinese
suggerisce per ciò che riguarda la struttura del cinese attacco, nucleo e coda non siano tutti sullo stesso
piano (diagramma ad albero: in alto con il segno sigma del greco viene indicata nella fonologia
contemporanea la sillaba, att. indica l’attacco, nu indica il nucleo, co indica la coda): nucleo e coda non
sono strutturalmente collegati al costituente della sillaba allo stesso modo dell’attacco perché
presuppongono un costituente intermedio che viene chiamata rima della sillaba (indicata con ri) in cui si
uniscono tra di loro. È poi la rima ad entrare nel costituente maggiore. È possibile un’anlisi della sillaba in
prima battuta in due costituenti (attacco e rima) e a sua volata la rima è distinguibile in un nucleo e una
coda. L’introduzione di questo costituente risale alla fine degli anni 70’ ed è merito di una studiosa di
grammatica cinese Elisabeth O. Selkirk, che poi produsse sul tema un libro. Abbiamo quindi una gerarchia di
costituenti:

Da quando è stata proposta l’introdizione di questo costituente le prove sull’operatività di questa struttura
sono state molto forti. Noi potremmo dimostrare che la coda sillabica interagisce con il nucleo in modo
molto più stretto di quanto non avvenga all’attacco sillabico. Per esempio possiamo mostrare come esista
un porcesso (chiamato allungamento di compenso), per il quale se cade una consonante situata in coda, il
nucleo della sillaba precedente si allunga e quindi i tratti associati con il nucleo vanno ad occupare anche la
successiva coda della sillaba. Se invece cade una consonante situata nell’attacco non avviene questo
allungamento. Possiamo dedurre da questo che l’allungamento di compenso ha la finalità di mantenere
rigida la lunghezza della rima ma non quella della sillaba in generale.

Con il termine rima in fonologia si intende un fenomeno diversissimo dalla rima poetica (identità di due
parole dalla vocale tonica fino alla fine), invece la rima fonologica è l’insieme di nucleo e coda.

Allungamento di compenso si è verificato nel passaggio dal latino arcaico al latino classico, in cui sono
cadute alcune consonanti: fricativa alveolare di fronte a consonante sonora. Quando questo è avvenuto,
trovandosi la fricativa in coda di sillaba si è avuto sistematicamente l’allungamento della precedente
vocale:
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Es. osmen /ˈos.men/ > ōmen /ˈoː.men/ ‘presagio’ → la fricativa davanti a sonora è caduta, allungamento
della o, da breve nella forma arcaica a lunga: cade fricativa e il nucleo si allunga

• cosmis /ˈkos.mis/ > cōmis /ˈkoː.mis/ ‘benevolente’ →la fricativa davanti a nasale ma nella forma del latino
classico la vocale è lunga

• *nisdus */ˈnis.dus/ > nīdus /ˈniː.dus/ ‘nido’ → la fricativa è stata ricostruita in modo comparativo
osservando altre parole del lessico latino (la parola per nido doveva essere in arcaico nisdus perché deriva
dalla base sed, sedis); cade la fricativa di fronte a sonora a cui segue l’allingamento della precedente vocale
che è lunga in latino

• *casnus */ˈkas.nus/ > cānus /ˈkaː.nus/ ‘bianco’

C’è anche la caduata sitematica della fricativa glottidale sorda in questo passaggio. Questa viene indicata
nel latino arcaico mediante una h, che rimane nell’ortografia del latino classico ma non viene più
pronunciata. La fricativa glittidale in latino arcaico è sempre in attacco sillabico mai nella coda. Poiché la
fricativa era sempre in attacco sillabico, la sua caduta non ha mai provocato l’allungamento del successivo
nucleo:

• homō /ˈho.moː/ > /ˈo.moː/ ‘uomo’

• hortus /ˈhor.tus/ > /ˈor.tus/ ‘prorpietà recintata’, ‘giardino’

• uehis /ˈwe.his/ > /ˈwe.is/ ‘tu trasporti’

• trahit /ˈtra.hit/ > /ˈtra.it/ ‘lui tira’

Il latino ha due proprietà importanti (1. distingue tra vocali brevi e lunghe e 2. è sensibile a quello che
chiamiamo peso sillabico e alla distinzione tra sillaba leggera e sillaba pesante → in latino la sillaba è
leggera quando nella sua rima c’è un solo segmento, cioè una vocale breve; è pesante quando nella rima
c’è nucleo lungo, cioè una vocale lunga, o coda, cioè consonante, o combinazione dei due). Tutto ciò può
essere abbreviato dicendo che una sillaba è leggera se nella rima c’è un solo segmento ed è pesante se ci
sono almeno due posizioni segmentali (una vocale lungaua vocale e consonante, vocale lunga più
consonante).

Accento: regola della penultima che prevede la collocazione rigida dell’accento in base alle sillabe di una
parola (regola di posizine automatica dell’accento simile a quella del francese ma più complicata): non va
mai nell’ultima sillaba, ma in parole con tre o più sillabe accento va solo su penultima o terzutima sillaba.
Va sulla penultima se pesanete, se è leggera va sulla terzultima indpendentemente dalla pesantezza della
terzultima. È cruciale il peso sillabico della penultima sillaba.

Es:
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Penultima sillaba /ki/ è composta di una sola consonante in attacco e una sola vocale nel nucleo, non c’è
coda sillabica → ha una sola posizione segmentale (sotto nu c’è una sola x che si collega con i), quindi la
sillaba è leggera e l’accento va sulla terzultima sillaba.

La penultima sillaba può essere pesante perché ha una vocale lunga (due posizioni segmentali nella rima,
entrambe nel nucleo) come in a) → c’è una rappresentazione di questa sillaba (nel nucleo ci sono due x
perché ci sono due posizione segmentali entramebe associate all’unica matrice di tratti, la vocale i, ch eè
una vocale lunga); in b) perché c’è una coda di sillaba → la rima ha un nucleo e una coda (una posizione nel
nucleo e una nella coda, quindi due x nella rima e pertanto la sillaba è pesante e l’accento va sulla
penultima).

Ulteriori esempi:

In a) penultima pesante perché c’è rima con nucleo e coda, non c’è attacco la cui presenza è dinifferente
per il peso sillabico (essendo fuori dalla rima) → accento sulla penultima. In b) la rima è occupata da tre
posizioni segmentali (massimo consentito in latino): una vocale lunga e una consonante in coda → in latino
abbiamo una distinzione bianarie tra sillabe leggere e pesanti (non esiste una sillaba più pesante della
pesante) quindi abbiamo lo stesso effetto e la penultima è tonica.
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Le lingue differiscono tra di loro anche per la composiozione dei singoli costituenti della sillaba, la loro
presenza e i segmenti che possono esserci nei costituenti.

Universale linguistico: tutte le lingue devono avere un nucleo. Ci sono però lingue che non ammettono
sillabe senza l’attacco oppure slingue con sillabe senza attacco. Lingue che non accetano la possibilità della
coda o può esserci → condizioni diverse per coda e attacco.

Cambiano anche per numero di elementi nei costituenti → per esempio se facciamo un’analisi contrastiva
nella struttura sillabica di italiano e inglese abbiamo diverse sillabe massime (cioè sillabe che hanno il
massimo degli elementi consentiti dalla struttura delle rispettive lingue). Nella sillaba italiana al massimo
possiamo avere quattro segmenti (due in attacco, una vocale nel nucleo e una consonante nella coda). In
inglese arriviamo ad avere sette segmenti possibili all’interno di una sillaba: l’attacco può contenere fino a
tre consonanti, il nucleo può contenere due vocali o un dittongo, la coda può avere fino a due consonanti):

Altra differenza: in italinao nel nucleo solo una vocale in inglese può anche esserci una consonante
(sonorante).

Questo introduce al modo con cui la struttura prosodica interagisce con quella segmentale: le x che sono
usate per indicare il punot terminale dell’analisi ad albero della sillaba sono state usate nella descrizione
sull’autosegmentalità, come elemento superiore a cui si associano le matrici terminali dei tratti →
nell’analisi ad albero delle sillabe le x sono il livello scheletrico (cioè il punto di incontro tra la struttura
prosodica e i tratti disitnitivi). Quindi possiamo considerre il fonema come il punto in cui si intersecano le
posizioni segmentali legittimate dalla struttura prosodica (in questo caso dalla sillaba) che si associano a
certe matrici di tratti presenti sul livello timbrico.

Qui abbiamo dunque dei diagrammi ad albero che esprimono la struttura sillabica, che hanno come nodi
terminali dell’albero una serie di marche (espresse con delle x successive) definite come livello scheletrico
della rappresentazione, che sono poi associate ciascuna con un fonema. Possiamo però combinare quella
rappresentazione con la rappresentazione in cui abbiamo in alto il modo con cui le marche che esprimono
le posizioni segmentali del livello scheletrico (espresse mediante x) si associano a matrici di tratti fonologici
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che esprimono il trimbro del singolo segmento inserito all’interno della rappresentazione. Per esempio,
possiamo considerare la rappresentazione della parola italiana festa in cui sulla prima riga in alto possiamo
vedere due sigma, che indicano le due sillabe di cui si compone questa parola (primo livello dell’analisi, lato
della prosodia). La prima delle due ha la marca dell’accento perché tonica. È espressa la struttura sillabica di
entrambe le sillabe (la prima ha un attacco e nella rima un nucleo e una coda con un segmento in ognuno
dei tre costituenti; la seconda ha solo due segmenti: un attacco e un nucleo). I cinque segmenti del livello
scheletrico (punto di contatto dei diversi piani) al piano timbrico in cui sono collocate le matrici dei tratti
distintivi (alla prima x si associa la combinazione di tratti più consonantico, meno sonorante, meno sonoro,
più continuo ecc.). A questo punto non è necessario esprimere nelle matrici dei tratti la specificazione del
tratto di sillabicità perché solo i segmenti che si associano al nucleono sono più sillabici quelli che non si
associano sono meno sillabico in automatico. Pertanto le restrizioni al contenuto segmentale nei costituenti
sillabici (es. in italiano nucleo della sillaba solo vocali, quindi attiva tratti vocalici ecc.) discendono da
restrizioni applicabili a combinazioni posssibili tra i singoli costituenti sillabici e le matrici di tratti disitntivi
che si trovano sul livello timbrico. Possiamo osservare che la coda della prima sillaba /s/ e l’attacco della
seconda sillaba /t/ condividono molto i dei loro tratti (nesso /st/ può essere rappresentato da molti tratti
comuni) e solo il tratto continuo ha specificazione positiva nella coda e negativa nell’attacco:

Idea per cui la coda della sillaba in italiano riceve un numero inferiore di specificazione di tratti perché molti
li assume dall’attacco successivo riguarda soprattutto i tratti di luogo diaframamtico.

Nella parola italiana fante /ˈfante/ la nasale in coda sillabica prende il luogo diaframmatico dalla successiva
consonante (perché ha una regola di assimilazione automatica alla successiva consonante). Questo si può
rendere esplicito dicendo che le specificazioni di più coronale e più avanzato che sono condivise sia dalla
nasale che dalla successiva occlusiva sono un autosegmento che si distribuisce su entrambe le posizioni
segmentali (la coda e l’attacco della successiva sillaba: la coda italiana non è in grado di legittimare i tratti di
luogo ma li assume dal successivo tratto sillabico):
67

Il massimo di condivisione che possiamo avere è quello in cui ci sia una consonante lunga che non è altro
che la generalizzazione dei tratti di un attacco sillabico sulla coda precedente, come in fatte /ˈfatte/ in cui
due posizioni segmentali (cioè la coda della prima sillaba e l’attacco della successiva condividono
interamente i tratti distintivi, che sono più consonantico, meno sonorante, meno sonoro, meno continuo,
meno soluzione ritardata, più coronale, più avanzato). Non è indicata la specificazione meno sillabica
perché questa è autometicamente attribuita dal fatto che le due posizioni segmetali in questione, cioè le
due x del livello scheletrico di cui stiamo parlando sono associate con margini sillabici: coda da un lato e
attacco dall’altro e quindi ricevono automaticamente da questi le specificazaioni meno sillabico; è soltanto
il nucleo a fornire quella più sillabico.

Lezione 13

Esercizio:

Fornire una trascrizione fonetica delle seguenti parole italiane (es. tengo [ˈtɛŋɡo]):

1. democrazia

2. chiarisce

3. cinque

4. conoscere

5. nazionalista

6. pasticcione

7. regno

8. riuscire

9. togliamo

10. votazione
68

Seconda parte dell’esercizio:

Analizzare in tratti distintivi i seguenti fonemi italiani:

1. /t/

2. /dʒ/

3. /ɛ/

4. /z/

5. /r/

Quali tratti hanno in comune i seguenti gruppi di fonemi italiani? (prescindere da quelli che all’interno di
ogni gruppo differenziano un fonema da un altro ma indicare quelli che accomunano un certo gruppo):

1. /s, t, tʃ/

2. /u, o/

3. /j, w/

4. /ɲ, ʎ/

Parola fonologica:

All’interno dei costituenti prosodici della fonologia abbiamao una gerarchia di costituenti ampia, che è
ritetuta come attiva in molte lingue (ritenuta quasi come universale), tra esse abbiamo la sillaba, la parola
fonologica e il sintagma intonativo.

La parola fonologica è molto importante ed evidente in italiano, si intednde un gruppodi sillabe organizzato
attorno a una stessa sillaba tonica, che costituisce il centro attorno a cui grafitano le altre sillabe. In ogni
lingua esiste questa unità (chiamata diversamente in diverse lingue) e corrisponde alla necessità che le
sillabe che si raggruppano abbiano sempre una sillaba principale (quella accentata) che fa da perno. In
italiano quasi ogni parola della lingua sono parole fonologiche. Ci sono però alcune differenze tra la nozione
di parola morfosintattica e quella di parola fonologica per cui noi a volte abbiamo più parole dal punot di
vista morfologico e sintattico che si raggruppano in una sola parola fonologica: questo avviene quando
abbiamo delle particelle dette enclitiche o proclitiche che si raggruppano con una parola principale. Sono
chiamate particelle perché sono parole che non hanno un significato pieno. Con particella proclitica si
intende una particella che gravita sull’accento della parola successiva, non ha accento e indipendenza
fonologica. Sono per esempio gli articole, le preposizioni, alcune congiunzioni o i pronomi atoni quando
precedono un verbo (in a.). Le particelle enclitiche gravitano sull’accento della parola precedente. È molto
comune in italiano con pronomi atoni che seguono un verbo all’infinito o all’imperativo (in b.):
69

Nei diagrammi che rappresentano la gerarchia prosodica (in a. una proclitica; in b. un’enclitica) vediamo
che in alto hanno non solo le sillabe con i loro costituenti ma al di sopra di esse troviamo un segno indicato
con la lettera greca omega che indica la parola fonologica. Da esso discendono tre linee, ciascuna delle
quali va dall’alto verso il basso e a ciascuna di queste sono collegati dei sigma, che indicano le sillabe (solo
quella la centro è preceduta dall’apice dell’accento). In ognuna di queste parole fonologiche abbiamo tre
sillabe organizzate intorno alla una sola tonica (quella centrale).

Le tre sillabe hanno ciascuna una propria struttura, specificata nelle sue posizioni segmentali dalle x del
livello scheletrico: a loro volta le x si associano sul piano timbrico a delle matrici di tratti (qui abbreviate con
i segni dell’IPA). Con il cancelletto indicato nelle trascrizioni si indica il confine morfosintattico (in gli parlo
abbiamo un pronome e un verbo e lo stesso vale per b.) La posizione proclitica o inclitica del pronome
dipende dalla forma verbale usata (con tutte le forme è proclitica, con imperativo e infinto abbiamo
enclitica). Quello chhe conta qui non è la grafia ma il fatto che sia nel primo che nel secondo caso abbiamo
una sola unità:

Quando ci sono particelle enclitiche o proclitiche c’è un mancato allineamento tra parola morfosintattica e
parola morfosintattica perché abbiamo deu parole morfosintattiche e una sola parola fonologica. Il caso
inverso è dato dai composti dell’italiano: quando c’è un composto (es. portacenere ecc.) abbiamo un’unica
parola morfosintattica ma dal punto di vista fonologico abbiamo due parole (due accenti):
70

Sappiamo che ci sono due accenti perché ad esempio nella prima delle due parole ci può essere una vocale
medio-bassa (prova che c’è un accento principale nella prima sillaba della parola → distinzione tra o chiuse
e o aperte solo in sillaba tonica). Abbiamo due accenti principali (il secondo tende a prevalere sul primo, il
secondo accento dà più rilievo alla seconda parola): siccome una parola fonologica è definita da un soolo
accento, se ne abbiamo due abbiamo due parole. Lo stesso vale per altre parole.

I processi fonologici:

Distinzione tra forma fonologica (forma soggiacente, o lessicale: forma fonemica) → forma dell’espressione
e realizzazione fonetica (o superficiale, o postlessicale) → sostanza dell’espressione. Queste sonolegate dai
processi fonologici o postlessicali. Perché la forma fonologgica si realizzi nella realizzazione fonetica passa
attraverso na serie di processi che intervengono sulla sua forma fonologica e la adattano (per esempio al
contesto delle altre parole quando entra in una sequenza effettiva) per dare la realizzazione fonetica
suoerficiale. Qui intervengno le regole di variazione contestuale (allofonia contestuale) e altre differenza
che separano la forma forma fonologica dalla realizzazione fonetica atteaverso processsi.

Il processo fa passare la sequaenza astraaa di unità fonologica nella mente alla sequenza di suoni prodotta
in un contesto. Processo fonologico si può reppresentare come una serie di tratti che si associano o
dissociano dalle posizioni segmentali. Il primo gruppo è detto di assimilazione o dissimilazione e reguarga il
fatto che nel passaggio due suoni che si trovano più o meno vicini possono condividere alcuni tratti oppure
differenzarsi. Nel orimo cao si parla di assimilazione, nel secondo acaso parliamo di dissimilazione.

Esempio di processo di dissimilazione: nesso /st/ in molte varietà dell’italiano può assimilarsi in una
fricativa lunga (per esempio invece dire questo [ˈkwesto] potremmo dire [ˈkwesso]). Il parlante ha nella
mente la rappresentazione dell parlo contenenti un nesso di consoanti ma nell’esecuzione avviene un
processo di assimilazione, per cui quando ci sono in italiano due consontanti una di seguito all’altra
(rappresetate da due C → x del livello scheletrico ma non in posizione sillabica e pertanto abbreviate conla
lettera C) avviene tale prcesso. Queste condividono molti tratti, c’è un processo indicato dalle doppie
lineette che provoca una dissociazione del tratto meno continuo dalla seconda consonate a cui fa seguito
una nuova associazione (espressa con linea tratteggiata) del tratto più continuo sulla seconda consonante:
71

Il contrario è un tratto che era originariamente associato a due posizioni segmentali, che si dissocia da una
delle due. I due segmenti che erano simili per tutti o alcuni tratti diventano più differenziati. Ad esempio, in
toscano sono piuttosto diffuse forme come [reˈtondo] invece di rotondo /roˈtondo/ → una sequenza di due
vocali o (medio-alte posteriori) che si dissimilano e la prima diventa una e. Qui analizziamo solo i due nuclei
delle prime due sillabe della parola fonologica → ci interessano i due nuclei sillabici dal momento che al
contrario del caso precedente il processo non avvie tra due lementi a contatto ma tra elementi a distanza e
tra due vocali. Sono a distanza dal punto di vista dell’ordine segmentale, ma se prendiamo il livello del
nucleo sillabico le posizioni segmentali diventano adaicenti. La specificazione di tratto più arretrato che era
in precedenza assaciata con entrambi i nuclei sillabici, che si dissocia dal primo e il primo nucleo viene
riassociato secondariamente a una specificazione meno arretrato. Se l’assimilazione è un tratto che si
diffonde da un segmento a un segmento vicino, con dissimilazione intendiamo un tratto diffuso su due
segmenti che si dissocia da uno o più di questi:
72

Processi di lenizione e fortizione o rafforzamento:

Questo gruppo di processi va considerato indipendente dal precedetne (anche se a volta si manifesta come
un processo assimilitavo o dissimilativo ma non dipende dall’influenza di un suono vicino che fa sì che il
suono cambi dall’una all’altra rappresentazione così che diventi più simile ad esso o più dissimile ad esso).
Esso dipende da una tendenza generale in particolare delle consonanti (in minima parte applicabile a
vocali) a salire o scendere una scala (universale) di forza consonantica:

Nel passaggio da sinistra verso destra e dall’alto verso il basso abbiamo una diminuzione di forza
consonanti, da destra verso sinistra o da basso a alto aumento di froza. Per esempio un’occlusiva sorda
indebolendosi può diventare una fricativa sorda (passa dalla prima casella in alto a sinistra alla seconda),
poi può diventare ua fricativa glottidale ecc. Il massimo dell’indebolimento è la caduta della consonante.
Un’occlusiva sorda può diventare un’occlusiva sonora, poi una fricativa sonora e poi in fine può cadere. Al
contrario, una fricativa sonora può diventare un’occlusiva sonora (si sposta a sinistra) rafforzandosi. Il
rafforzamento può avvenire anche quando la fricativa sonora diventa una fricativa sorda ecc.

Questi processi generali di indebolimento e di rafforzamento (prendono il nome di lenizione e fortiizone)


sono determinati dalla posizione della consonante all’interno della sequenza sintagmantica. In generale
(fenomeno universa ma con conformazioni specifiche in diverse lingue) abbiamo posizioni forti e deboli. In
generale una consonante in qualsiasi lingua tende a subire processi di lenizione in posizione debole e a
subire processi di fortizione in posizione forte. Ciò che cambia da una lingua a un'altra è non solo la
propensione di questa lingua ad avere precessi di lenizione o fortizione (lingue romanze sono molto
lenitive, lingue germaniche hanno processi di fortizione; lingue che non hanno né uno né l’altro o
entrambi), ma si differenzioano anche per definizione di posizione forte e debole al loro interno. Regole
generali: attacco posizione forte, coda posizione debole; iniziale di parola forte, fine debole; consonate in
posizione intersonante è tendenzialmente in posizione debole, una consonate adiacente a consonante è
più forte. Nelle lingue romanze posione postvocalica è debole (particolarmente evidente tra due vocali o
vocale e sonorante o tra vocale e consonate continua).

L’iniziale di parola nelle lingue romanze è una posizione molto forte, per cui in posizione iniziale di parola
abbiamo stabilità di una consonate, mentre all’interno di parola, in particolare tra due vocali, dopo vocali o
in posiozione intersonante abbiamo una posizione debole e quindi la consonate va incontro a
indebolimenti. Ancora, una sillaba tonica è semore una posizione più forte di una sillaba atona che invece
ha una posizione debole.

Fenomeni di fortizione e lenizione:


73

Il primo è un processo nello spagnolo in cui le tre occlusive sonore (bilabialie, alveolare, velare) vanno
incontro a un processo sistematico di lenizione quando si trovano in certe condizioni all’interno di parole,
mentre ad inizio di parola e dopo consonante (in genere dopo nasale ma /d/ anche dopo laterale) queste si
presentano come salde. Abbiamo un’occlusiva in posizione forte e una fricativa sonora in posione debole.

Es. bilabiale nella colonna a (si può scrivere sia con b che con v → indicano lo stesso fonema; in posizione
iniziale sempre un’occlusiva bilabilale sonora, così come dopo consonante nasale).

Quando l’occlusiva segue una vocale (come nella colonna b), troviamo sempre una fricatica bilabiale (c’è
una lenizione). Lo stesso avviene per l’alveolare: in posizione iniziale di parola la d è pronunciata come
un’occlusiva (in a.), così come dopo nasale, o anche dopo la laterale. Troviamo la fricativa in posizione
interna di parola dopo vocale, dopo vibrante, dopo fricativa, dopo vocale e davanti a laterale.

Lo stesso fenomeno avviene con la velare: in posizione iniziale è occlusiva (in a.), o dopo nasale; all’interno
di parola dopo vocale è una fricativa (in b.), così come dopo fricativa.

È un caso di allofonia posizionale, c’è distribuzione complementare nei due allofoni; dal’ punto di vista
fonemico è un’unica unità che rappresentiamo come una occlcusiva → nella colonna a. questa occlusiva si
realizza sempre con l’allofono occusivo sonoro, in posizione debole (nella colonna b.) troviamo sempre
l’allofono fricativo, cioè quello più debole.

Dalla rappresentazione fonemica interviene un processo di lenizione che colpisce le consonanti in


questione in posizione debole e le rende fricative nell’esecuzione fonetica.

Il caso opposto è quello della fortizione: questo riguarda per esempio le consonati dell’inglese, perché in
attacco sillabico diventano aspirate, che rappresentano delle varianti più forti rispetto alle glottidalizzate
che troviamo invece in coda di sillaba (vedi slide sulla distribuzione complementare delle diverse varianti
glottidalizzate e aspirate dell’inglese).

Anche in italiano c’è un fenomeno evidente di fortizione: una fricativa alveolare sorda dell’italiano quando
segua un’altra consonante posizione forte, va incontro a un processo di fortizione e diventa da fricativa
un’affricata alveolare sorda:
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Nella gerarchia della scala di forza consonantatica pasisiamo dallo stadio di una fricativa sorda e si risale
verso sinistra a un’occlusiva sorda (affricate sono un sottogruppo delle occlusive) e quindi abbiamo un
aumento di froza.

La scala di forza consonantica ha una certa affinitò con la scala di sonorità → si tratta dello stesso tipo di
fenomeno reso qui in modo diverso: la sonorità di un elemento è inversa alla sua forza (l’elemento più
sonoro rappresenta la caduta della forza consonantica). I due fenomi sono quinid in rapporto tra di loro.

Processi fonologici di inserimento, cancellazione e mutamento d’ordine:

Caso in cui nel passaggio dalla rappresentazione fonologica alla rappresentazione fonetica intervenga un
mutamento nel numero dei segmenti: può intervenire un segmento aggiuntivo, ci può essere la sottrazione
di un elemento o una mutazione nell’ordine degli elementi. Quanto alle cause che riguardano questo
gruppo di processi sono legate o alla struttura sillabica (che in questo passaggio riceve dei mutamenti in
modo da diventare più efficiente e alcuni segmenti legati a costituenti sillabici hanno dei mutamenti)
oppure dovuti a incompatibilità nella realizzazione di certi segmenti uno dopo l’altro, che quindi possono
essere separati o uno cade perché incompatibili tra di loro in una certa lingua (c’è una restrizione detta
fonotattica). Esito di processi di diverso tipo: la caduta può essere l’estremo di un processo lenitivo (una
consonante dopo essersi indebolita può infine cadere). Imparare la terminologia, che è molto usata nella
descrizione linguistica -> ha un valore descrittivo: indica solo quello che avviene senza indicare le cause.

I fenomeni di cancellazione e inserimento vengono classificati attraverso un metodo. Si disitngue tra


l’inserimento di un elemento all’inizio della parola, l’inserimento di un nuovo elemento all’interno della
parola o alla fine della parola.

Inserimento di un elemento in posizione iniziale è detto prostesi.

Inserimento di un elemento all’interno di paroal è detto epentesi.

Inserimento di un elemento alla fine di parola è detto epitesi.


75

1) In italiano (molto sorvegliato) quando una parola iniza con s seguita da un’altra consonate, nel caso
in cui sia oreceduta nella realizzazione da una consonate interviene una vocale a ridistribuire i
confini sillabici.
2) Inserimento in varietà di parlato popolare italiano che separino nessi che sono mal tollerati dalle
varietà di italiano regionale (soprattuto nei dialetti centro-meridionali i nessi consonantici sono
poco tollerati, soprattutto tra certe consonanti, ad esempio una fricativa e una occlusiva o una
occlusiva con una sonorante). I parlanti quando questi elementi sono presenti nell’italiano
inseriscono una vocale per separare i nessi consonatici non tollerati
3) Aggiunta di materiale fonetico (una sola vocale, una sola consonante o anche una’intera sillaba alla
fine di parola). Ad esempio, nella varietà più conservativa del sardo (detto sardo logudorese), c’è un
fenomeno per cui una parola in fine di frase non può terminare con consonante. Se una parola
terminante con consonante si trova alla fine della frase, viene aggiunta una vocale che ripete quella
della sillaba che precede quella finale. Per esempio, se l’ordine in a. viene invertito (come in b.) non
c’è più bisogno di questa epitesi e che pertanto non fa parte della rappresentazione lessicale (è
un’aggiunta che interviene solo in sede di realizzazione fonetica).

Si possono avere inserimenti di vocali ma anche di consonanti o anche di un’intera sillaba che può
intervenire in tutti i punti visiti.

Il fenomeno contrario è la cancellazione, che viene classificata con gli stessi criteri:

Si chiama aferesi la caduta della prima parte della parola (può essere più o meno ampia). Per esempio, nelle
forme brevi della copula abbiamo la rappresentazione fonologiaca completa della coniugazione del verbo
essere ma nella realizzazione si può avere la caduta della prima parte della forma verbale. Per esempio
come avviene in 1).

Con sincope si indente la cadutra all’interno di una parola. Per esempio, in francese una vocale atona (in
genere realizzta come shawa, in particolare quando le due consonanti che sono prima e dopo la vocale
sono combinabili dal punto di vista fonotattico del francese). Questa vocale atona, sempre diversa
76

dall’ultima perché l’accento cade sull’ultima sillaba, può cadere nel passaggio dalla rappresentazione
fonologica alla realizzazione fonetica (soprattutto in uno stile di parlato rapido). Come avviene in 2).

Viene detta apocope la caduta della parte finale della parola. In italiano un nome (o un termine con cui si
chiama una persona) può perdere materiale dopo tonica quando lo usiamo in funzione appellativa. Questo
processo prende origine dal vocaticvo (in funzione appellativa) ma poi si estende nell’uso: il nome tende ad
essere usato nella forma apocopata anche in altri contesti (diffuso nel centro-sud).

Mutamento d’ordine tra i segmenti: abbiamo nella forma fonologica un certo ordine di elementi, ch eperò
può cambiare nell’esecuzione per diverse ragioni. Un fenomeno comune è che viene resa più complessa la
sillaba tonica di una parola. In fabbro /’fabbro/ (ha una sillaba tonica /fab/ e un attacco complesso /bro/), il
massimo di complessità viene attribuito alla sillaba tonica spostando la vibrante. Fenomeno molto comune
e dipende dal fatto che in italiano la sillaba accentata tende ad essere più complessa, più lunga e più
prominente e queste metatesi che possono essere episodiche aumentano la messa in rilievo della sillaba
tonica. Negli esempi abbiamo sempre vibranti che si trovano in seconda posizione nell’attacco di sillaba e
che si spostano dalla sillaba atona alla sillaba tonica sempre in seconda posizione dell’attacco:

I fenomeni di mutamento d’ordine di qualsiasi tipo, sono detti metatesi.


77

Lezione 14:

La fonologia degli italiani regionali: legato al tema dell’ultimo capitolo del libro sulla sociolinguistica e alla
dialettologia (problema esemplificativo della variazione geografica diatopica). Problema esemplificativo
della variazione geografica diatopica delle lingue.

Correzione dell’esercizio:

Trascrivere foneticamente le seguenti parole italiane:

1. democrazia [demokratˈtsia]

2. chiarisce [kjaˈriʃʃe]

3. cinque [ˈtʃiŋkwe] → velare + approssimante labiovealre con dittongo in sillaba finale

4. conoscere [koˈnoʃʃere] → fricativa postalveolare lunga in posizione interne

5. nazionalista [nattsjonaˈlista] → affricata laveolare sorda sempre lunga in posizione intersonatne

6. paura [paˈura]

7. regno [ˈreɲŋo]→ nasale palatale sempre lungua in poszione intersonante

8. riuscire [riuʃˈʃire]

9. togliamo [toʎˈʎamo] → laterale palatale sempre lunga in posizione intersonante

10. votazione [votatˈtsjone]

Esercizio 2:

Analizzare in tratti distintivi i seguenti fonemi italiani:

1. /t/ [-sillabico, +consonantico, -sonorante, -continuo, - soluzione

ritardata, +coronale, +avanzato, -sonoro]

2. /dʒ/ [-sillabico, +consonantico, -sonorante, -continuo, +soluzione

ritardata, +coronale, -avanzato, +sonoro]

3. /ɛ/ [+sillabico, -consonantico, -alto, -teso, -basso, -arretrato]

4. /z/ [-sillabico, +consonantico, -sonorante, +continuo, +coronale,

+avanzato, +sonoro]

5. /r/ [-sillabico, +consonantico, +sonorante, -nasale, -laterale] → qui non c’è bisogno di specificare un
luogo diaframmatico perché già i tratti di modo ci danno info necessarie per identificarla
78

Esercizio 3:

Quali tratti hanno in comune i seguenti gruppi di fonemi italiani?

1. /s, t, tʃ/ [-sillabico, +consonantico, -sonorante, +coronale,

-sonoro]

2. /u, o/ [+sillabico, -consonantico, +alto, +teso, -basso, +arretrato]

3. /j, w/ [-sillabico, -consonantico] → anche + alto, + teso, - basso rappresentano tratti comuni ai due
fonemi: entrambe le risposte sono corrette → la prima identifica i due tratti di classe maggiore, indica il
numero di tratti sufficenti a identificare le due approssimanti nell’ambito dell’inventario dei fonemi italiani,
la seconda risposta che enuclea anche i tratti vocalici dice quali sono tutti i tratti comuni al gruppo dei
fonemi (non solo li identifica ma entra nello specifico di tutti i tratti comuni)

4. /ɲ, ʎ/ [-sillabico, +consonantico, +sonorante, -coronale, -avanzato]

Processi rappresentati attraverso delle regole basate sulle associazioni e dissocizioni dei tratti dalle
posizioni segmentali, chiamamte regole autosegmentali. Un’altra modalità di rappresentazione che può
rendere conto degli stessi fenomeni ma li illustra da una prospettiva diverse: sono dette regole di riscrittura
→ diversa notazione fromale dei processi.

Una regola di riscrittura è immaginata con la forma A → B (A si riscrive come B). A è inteso come un
elemenot della forma fonologica (forma dell’espressione nello strato del segno), B è la realizzazione
fonetica. Questa regola dice semplicemente che un certo elemento della rappresentazione fonoogica viene
riscritto con un altro elemento della realizzazione fonetica. Ad esempio una regola che si applica con questa
forma semplice riguarda la vibrante dell’italiano che ammette diverse realizzazioni di titpo individuale che
sono varianti tra loro in distirbuzione coincidente (un parlante può avere la realizzazione più diffusa, cioè la
vibrante alveolare, ma un altro può avere una labiodentale approssimante o una fricativa uvulare). Qui
vediamo il fatto che la caratterizzazione formale della vibrante come non avente un luogo diaframmatico,
consente di immaginare luoghi diversi (come quello labiale o quello nella regione uvualare). Negli esempi
vediamo che sistematicamente abbiamo a sinistra una forma fonologica che viene poi realizzata con una
sostitutizione sistematica di un elemento della forma fonologica (la vibrante) con un altro elemento nella
realizzazione fonetica, cioè la fricativa ulvulare sonora. Dal punto di vista è un suono molto diverso:
dovrebbero essere due fonemi indipendenti. Non abbiamo alcuna restrizione: ovunque compaiai il suono
/r/ nella rappresentaiozne fonologica è sostituito dalla sua variante individuale in distribuzione coincidente:
79

La regola può avere anche una forma più complicata come nel caso di una regola di riscrittura condizionata:

A sinistra abbiamo “A è scritto come B”, poi abbiamo una grossa barra che indica un contesto: A è descritto
come B se si strov nel contesto che è espresso da tutto ciò che si trova a destra della barra. Il trattino basso
indica la posizione del segmento sottoposto alla regola, con X si intende la parte del contesto che si trova
prima del segmento interessato, Y la parte del constesto che si trova dopo il segmento interessato; Z
rappresenta qulle proprietà che restano associate al segmento prima e dopo l’applicazione della regola. La
regola si legge “A è rsicritto come B se si trova tra X e Y ed è associato con i tratti Z”.

Ad esempio, in italinao (e in gran parte delle lingue note) quando una vocale è adiacente a una consonante
nasale (sai priam che dopo) la vocale diventa una vocale nasale. In alcune lingue come il francese e il
portoghese, le vocali nasali ahnno un’indipendenza fonologica, cioè sono fonemi separati dalle vocali orali
corrispondenti, in italiano non è così ma questo non vuol dire che l’italiano non ha le vocali nasali am che
ha delle regole di allofonia per cui tutte le vocali che sono adiacenti a una consonate nasale si nasalizzano
(non è possibile nella realizzazione una vocale non nasalizzata adiacente a una nasale):

Questo fenomeno si può rendere con quesa regola. Qui V è più sillabico, che viene riscritto come un
elemento più sillabico, associato al tratto più nasale quando si trovi nel contesto (indicato dalla barra
obliqua) più nasale seguita dal segmento interessato dal mutamento (indicato dal trattino basso della riga
in alto dalla parentesi graffa) oppure quando abbiamo il nostro segmento seguito da una consonate nasale
(qui la parentesi graffa indica delle alternative).

Regola di allofonia condizionata perché una vocale acquisisce i tratti vocali solo se adiacente a una
consonante nasale, cioè se si trova o prima o dopola consonante.
80

Iqueste regole possono essere applicate quando si tratta dell’itainao reigonale.

Italiano regionale: nel repertorio linguistico dei parlanti italiani i parlanti normalemente hanno a
disposizione un dialetto locale, la lingua nazionale, poi hanno a disposizione una varietà di italiano che è
connotata regionalmente. La formazione dell’italiano regionale dipende in gran parte dal rapporto tra la
varietà di italiano (in origine la varietà toscana e in particolare di Firenze che poi si è estesa dal
Rinascinamento) che è entrato in contatto con dialetti locali e ha acquisito delle caratteristiche dei dialetiti
locali. Inoltre, sull’italiano regionale parlato in un piccolo paese locale (es. nelle Romagne) influerà molto
anche la varità di italinao regionale che si trova nella città principale che si trova nella zona (per esempio a
Bologna o a Rimini). È possibile indicare cinque grandi varità di italiano regionale:

1) Italiano settentrionale, diffuso in tutta la regione a nord dell’Appennino tosco-emiliano, la


cosiddetta linea Spezia-Rimini, che si estende sul versante Adriatico fino alla città di Ancona.
2) Italinao toscano, che comprende italiano parlato in Toscana e Umbria occcidenatale (sulla riva
destra del corso del Tevere in Umbria).
3) Italiano centro-meriodionale, che comprende le Marche meridionali, l’Umbria (da Ancona fino alla
fine della reigione: Fermo, Macerata, Ascoli Piceno ecc.), l’Umbria orientale (a sinistra del corso del
Tevere), il Lazio, l’Abruzzo, il Molise, la Basilicata, la Puglia e la Calabria settentrionale). Area
centro-meridionale può esssere divisa in un’area più centrale detta mediana, che comprende le
Marche meridionali, l’Umbria orientale, il Lazio fino a Gaeta e un’area più alto-meridionale, che
comprende la parte meridionale del Lazio, l’Abbruzzo, il Molise, la Campania, la Basilicata e gran
parte della Puglia e della Calabria.
4) Italiano meriodionale estremo (Sicilia, Calabria meidionale e nel Salento).
5) Italiano Sardo (parlato in tutta l’isola della Sardegna indipendentemente dai dialetti che sono
parlati nell’isola).

Come si può vedere dalla carta dei dialetti italiani, la classificazione dei dialetti corrisponde grossomodo a
quella degli italiani regionali, dovuti all’influenza del dialetto locale.

L’italiano standard (varietà più alta) in realtà a livello fonologico è molto poco diffuso dal punto di vista
popolare. Parlato per lo più in Toscana (solo da coloro che hanno una pronuncia più sorvegliata e non è
usato in tutti i contesti). Lo standard dal punto di vista fonetico è appreso profesisonalmentoe solo dagli
attori, che apprendono questa varietà nelle scuole di dizione, per il resto è facile capire la porvenienza di
uno sconosciuto dalla cosiddetta “pronuncia”.

La fonologia è uno dei livelli dell’italiano regionale, più sensibili alla differenziazione regionale dell’italliano.

L’italiano standard ha un sistema di sette vocali toniche. Se pasaimoa agli italianoi regionali in mote varietà
ci sono delle differenze. Differenza tra italiano regionale di Firenze e di Roma: la fonologia fiorentina regola
la norma italiana, ma anche la varietà romana è molto diffusa (in un dizionario possiamo trovare in
subordine la trascrizione del vocalismo romano).

La distribuizione all’intenro dei singloi lessemi della e aperta e della e chiusa non coincide per tutte le
parole a Roma e a Firenze:
81

In entrambe queste varietà è distintiva l’opposizione tra medio-alta e medio-bassa in posizione tonica ma
per alcuni lessemi la distribuzione della e chiusa e aperta e della o chiusa e aperta non è coincidente.

Nell’italiano settentrionale, i suoni e aperta e chiusa e o aperta e chiusa sono coppie di allofoni. La loro
distribuizone è regolata dalla sillaba: in sillaba chiusa la vocale è sempre medio-bassa, in sillaba aperta c’è la
vocale medio-alta:

In italiano settentrionale abbiamo una regola di allofonia: il sistema è a cinque vocali (due alte, due medie,
una bassa e le due medie hanno due allofoni posiizonali perfettamente prevedibili a seconda della struttura
della sillaba). Possiamo espreire con delle regole i due allofoni posizionali:
82

Regola numero uno esprime il fatto che quando abbiamo una vocale caratterizzata da meno alto, meno
basso (media) nella realizzazione fonetica acquisisce la specificazione più teso se è associata ai tratti meno
consonantico, più sillabico, più accento. A destra del tratto basso c’è un segno di una s tagliata che indica
convenizonalmente il confine sillabico (quindi se la vocale è l’ultimo elemenot della sillaba, se non ha la
coda, cioè se è aperta) → se c’è la sillaba aperta tonica una vocale media diventa più teso (meido-alta).
Regola 2: la vocale media diventa meno teso se (sotto trattino basso abbiamo meno consonantico, più
sillabico, più accento) ma dopo c’è una C (deve avere una consonate o un’approssimante in posizione non
sillabica) e il confine di sillaba (la sillaba è chiusa dalla consonante, c’è una coda), che rende la vocale meno
teso.

Diverso è il caso dell’italiano meridionale estremo, dove c’è un sistema a cinque vocali che però realizza le
medie come delle vocali medio-basse e non ha mai meido-alte. Tutte le medie toniche sono basse
nell’italiano parlato in Sicilia, indipendentemente dalla struttura sillabica:
83

Diverso ancora èil caso dll’italiano parlato in Sardegna. Nell’italiano sardo il punto di partenza è analogo a
quello dell’italiano siciliano e e meriodionale estremo ma c’è una regola ulteriore, chiamata metafonia: se
le vocali sono seguite nella sillaba successiva da una vocale [i] o [j], la vocale medio-bassa tonica si
chiudono e diventano medio-alte:

Possiamo esprimere questo fenomeno con le regole:

Una vocale indicata come meno alto e meno basso (media) è realizzata come più teso se (sotto il tratto
basso abbiamo più sillabico, meno consonantico, più accento) poi abbiamo materiale successivo e in
posizione finale una viocale che sia più sillabico meno consonantico ma più alto e poi c’è il confine di
parola.

In tutti gli altri casi invece si realizza la vocale come meno teso seè tonica. Con il cancelletto si indica la fine
di parola, con i tre puntini indichiamo la presenza di un numero di segmenti variabile da 0 a n, che può
stare in mezzo alle due vocali.
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Consonantismo dell’italiano regionale: cinque suoni dell’itlainao standard sono sempre lunghi in posiozione
interosonante (l’affricata alveolare sorda e sonora, la fricativa postalveolare sorda, la laterale palatale e la
nasale palatale). Questo avviene nell’italiano standard e in tutte le varietà centro-meriodionali.

Però almeno tre di questi (la fricativa postalveolare sorda, la laterale palatale e la nasale palatale) sono
sistematicamente brevi in posizione intersonante nell’italiano settentrionale:

In gran parte dell’italiano centro-meridionale, i cinque suoni dell’italiano standard sempre lunghi in
posizione intersonante sono aumentati di due e diventano sette. Comprendonoa anche l’occlusiva bilabiale
sonora e l’affricata postalveolare sonora:

Nell’italiano centro-meridionale e in quello toscano, l’affricata postalveolare sorda in posizione


intervocalica viene realizzata con una fricativa postalveolare sorda scempia:
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Un altro fenomeno molto diffuso nell’area centro-meriodionale è la realizzazione come affricata di una
fricativa alveolare sorda:

Un altro fenomeno che comprende tutto l’italiano centro-meridionale è la lenizione delle occlusive alveolari
sorde scempie in posizione intervocalica. C’è una leggera sonorizzazione. La lenita viene rappresentata con
una sonora ocn un piccolo cerchietto sotto che in IPA indica la desonorizzazione (una sonora non
completamente sonora):
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Nelle stesse forme per le stesse consonanti (occlusive sorde scempie intervocaliche) nell’italiano toscano
(questo fenomeno è molto controllato dai parlanti toscano, che possono accentuarlo moltissimo in
condizioni di parlato informale oppure in condizioni più formali controllarlo fino ad eleiminarlo totalmente),
sono realizzate come fricative sorde (popolarmente questo fenomeno è detto la gorgia toscana):

In Toscana e nell’Umbria occidentale all’affricata postalveolare sonora in posizione intervocalica


corrisponde una fricativa postalveolare sonora:
87

Più nel dettaglio possiamo esaminare le sotto varietà dell’italiano regionale:

Sottoarea dell’italiano dell’Emilia-Romagna. Le due affricate /tʃ/ e /dʒ/ tendono a diventare quasi [ts] e
[dz]: si perde la distinzione tra l’affricata alveolare e quella postalveolare:

Es. cena [ˈtsena], giallo[ˈdzallo]

A loro volta le affricate alveolari /ts/ e /dz/ si realizzano come fricative alveolari sorda e sonora:

Es. piazza [ˈpjassa], zero [ˈzero]

Le due affricate alveolari sorda e sonora diventano retroflesse (la cosiddetta “s” salata):

Es. sospetto [ʂoʂˈpɛtto], sbaglio [ˈʐbaʎo]

Nell’area meridionale (in particolare centro-meridionale) si ha la sonorizzazione di un’occlusiva sorda dopo


nasale:

Es. Conto [ˈkondo]

Es. Concetto [konˈdʒɛtto]

Es. Compiere [ˈkombjere]

Es. Incontrare [iŋɡonˈdrare]

Es. Insetto [inˈdzɛtto]

Un tratto molto forte nell’area meridionale è il fatto che una fricativa alveolare davanti a un'altra
consonante diventa una postalveolare. La distribuzione di questo fenomeno non è stabile. A Napoli questo
avviene davanti a una bilabiale o a una velare ma non di fronte a un’alveolare:

Es. spero [ˈʃpɛro]

Es. scopa [ˈʃkopa]


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Es. stomaco [ˈstomako] [ˈstommako]

In altre aree si può avere la diffusione su tutte e tre le consonanti come in Abruzzo:

Es. spero [ˈʃpɛro]

Es. scopa [ˈʃkopa]

Es. stomaco [ˈʃtomako]

In singole sottoaree ci può essere il contratrio.

In Sicilia ci sono una serie di particolarità dovute realizzazione della vibrante. In posizione iniziale diventa
lunga e retroflessa:

Es. rosa [ˈɽɽɔsa], ricco [ˈɽɽikko]

Quando la vibrante è lunga in posizione interna si ha una realizzazione retroflessa di questa vibrante

Es. terra [ˈtɛɽɽa]

I nessi tr, dr, str sono realizzati con un’affricata retroflessa:

Es. treno [ˈʈʂɛno]

Es. dritto [ɖʐitto]

Es. strano [ˈsʈʂano]

Raddoppiamento fonosintattico: dal momento che questo fenomeno non ha nessuna rappresentazione
grafica nell’ortografia, la sua applicazione rappresenta uno dei maggiori elementi differenziazione degli
italiani regionali dal punto di vista fonologico: si capixce subito dai raddoppiamenti che una persona compie
qual è la sua provenienza macroregionale (non intendiamo le regioni amministrative). Allo stesso modo
nessuno degli altri fenomeni è espresso graficamente dall’ortografia: proprio per questo motivo ad
esempio l’italiano regionale settentrionale ha sviluppato un vocalismo diverso da quello toscano per le
vocali medie (dato che l’ortografia non distingue tra o aperta e o chiusa). Le varietà fonologiche dell’italiano
regionale si sono per lo più sviluppate laddove l’ortografia poteva celare pronuncie diverse.

Questo è il caso tipico del raddoppiamento fonosintattico: nell’italiano centro-meridionale e toscano


(quindi anche nello standard) in alcune condizioni una parola che inizia per consonante presenta il
raddoppiamento della consonante iniziale. Dipende dalla parola che precee quella che ha il
raddoppiamento:

1) Si ha raddoppiamento dopo una parola ossitona (accenot sull’ultima sillaba):

Es. città nnuova,

Es. caffè nnero,

Es. andò vvia,


89

Es. arriverò ddomani

2) Se si ha prima della parola che comincia per consonante una particolare parola detta parola
raddoppiante. Si tratta di un fenomeno codificato nel lessico: tutti i parlanti dell’italiano toscano e
delle varietà in cui è presente il raddoppiamento sintattico apprendono nel lessico la regola che
dopo certe parole si ha un raddopiamento:
- Dopo tutti i monosillabi che sono scritti con l’accento grafico: è, già, dà, mè, può ecc.
- Dopo altri monosillabi: a, che, chi, da, do, e, fa, fra, fu, gru, ha, ho, ma, me, no, o, qua, qui, re,
sa, se (congiunzione), so, sta, sto, su, te, tra, tre, va, vo, più tutte le note musicali (do, re, mi,
ecc.)
- Dopo i seguenti monosillabi: come, dove, qualche, sopra (come e dove sono raddoppianti in
toscana ma non in italiano romano; lo stesso avviene per la preposizione da → qui lo standard
varia).

Es. Firenze Roma


come vva? come va?
dove vvai? dove vai?
da ccasa da casa
un po’ di sale un po’ ddi sale

La prima grande differenza è che nell’italiano settentrionale il raddoppiamento fonosintattico in genere


non viene realizzato:

Es. città nuova ecc.

In altre aree dell’Italia meridionale si ha solo il secondo tipo di raddoppiamento.

Ci possono essere delle differenze sui monosillabi che raddoppiano e quelli che non raddoppiano: in
un’area che comprende le Marche meridionali e l’Abbruzzo, non si ha il raddoppiamento dopo le forme del
verbo avere:

Es. Ho fatto, ha fatto

Lezione 15

Morfologia:

Nozione della parola è piuttosto ambigua se applicata allo studio della morfologia (noi con parola
intendiamo due cose distinte, che possiamo chiamare con due nomi diversi):

a) Possiamo dire che ci sono 7 parole: esci, restiamo, restare, se, uscire, vogliamo, vuoi
b) Possiamo osservare che uscire e esci sono due voci dello stesso verbo, così come vuoi e vogliamo
sono due forme dello stesso verbo e così come restare e restiamo, se si ripete → quindi in realtà ci
sono 4 parole, che però sono presenti con varie voci).
c) Possiamo dare una terza risposta e dire checi sono 8 elementi: se contiamo anche se che si ripete
otteniamo 8 unità
90

Denominazione dirvese alle diverse unità conteggiate diversamente: nella risposta a. quelle elencate
possono essere chiamate forme o forme flesse → sono diverse tra di loro anche se molte di queste forme
flesse sono ricomponibili dentro gli stessi lessemi

Nella risposta b) quando intendiamo l’unità astratta, compresa in un dizionario chiamiamo questa lessema

Nella risposta c) chiamiamo queste unità repliche

Differenza cruciale tra frome flesse e lessemi (non usiamo il termine parola, che è ambiguo).

Dal punto di vista della notazione individuiamo un’unità astratta, che comprenderemmo all’interno di un
dizionario:

1) Alto → unità astratta, è un insieme di quattro forme possibili (l’aggettivo può manifestarsi in
quattro forme diverse nella lingua italiana: alto, alta, alti, alte → il lessema comprende 4 forme
flesse)
2) La flessione è espressa meidante una matrice, in cui ognuna delle dimensioni comprende più valori.
Il numero è espresso in alto, che comprende due valori e lungo l’asse verticale abbiamo il gnere che
comprende due valori:

Abbiamo una convenzione grammaticale in italiano per cui rappresentiamo il lessema mediante una sola
delle forme, in italiano scegliamo per gli aggettivi il maschile singolare. Così come per i nomi scegliamo il
songolare (i nomi hanno una flesisone con due elemnti); per un verbo il lessame è normalemente
rappresentato dall’infinito.

La forma che per convenzione in una tradizione grammaticale serve a rappresentare l’intero lessame è
detta forma di citazione. Nella sequenza “alto” questa può indicare il lessema in senso astratto, il maschile
singolare del lessema, o la forma flessa intesa come forma di citazione dell’intero lessema.

La forma di citazione dipende dioende da una tradizione grammaticale: in italinao verbo espresso con
l’infinito, in latino e greco antico il verbo è espresso con la prima persona singolare dell’indicativo, in
inglese abbiamo una forma astratta perché p la forma maggiormente ricorrente al presente di un verbo (es.
go → non è l’infinito che sarebbe to go, perché intendiamo qui come forma di citaizone una forma che
ricorre ampiamente in varie celle del paradigma). In arabo la forma di citaizone è una sequanza di tre
consonati che non ricorrono in nessuna forma flessa ma è solo un’astrazione. In sascrito la terza persona
del singolare dell’indicativo presente. Ogni tradizione grammatica ha il suo modo id estrapolare lasua forma
di citazione.
91

Categorie grammaticali:

Molti lessemi all’interno di una lingua presentano una flessione (si hanno diverse forme, ciascuna associata
ai valori di diverse categorie grammaticali).

Quindi chiamiamo categoria grammaticale (o tratto morfosintattico) un’espressione linguistica codificata


dall grammatica (che deve essere obbligatoriamente espressa dalla grammatica di una lingua), di certe
dimensioni cognitive fondamentali (alcune grandi dimensioni con cui la nostra percezoine e la nostra mente
ordinano la realtà circostante: tempo è una dimensione congnitva, la numerosità ecc.). tutte queste
dimensioni entrano all’intenro ellla lingua attraverso la mediazione di un sistema grammaticale
caratterizzato da forti margini di arbitrarietà. Qui non ci interssa la nostra percezione astratta del tempo ma
il modo in cui le lingue codificano la dimensione del tempo, che varia da lingua. Per esempio, malgradola
rappresentazione del tempo può essere una linea continua che va da passato, presente e futuro, all’interno
di una lingua (per esempio nella flessione verbale possiamo avere molte diverse forme flesse per il passato,
con diversi tipi di passato e pochissimi tipi di presente e pochissimi tipi di futuro malgrado la nostra
rappresentaizione del passato non è diversa da quella del futuro).

In ognuna di queste categorie (che codificano arbitrariamente quelle dimensioni) si distinguiono più valori:
per il genere in italiano abbiamo due valori (valori della categoria o valori del tratto morfosintattico). Il
tratto morfosintattico del numero in italiano ha due valori (singolare e plurale). Con flessione di un lessema
intendimao il fatto che quel lessema assume necessariamente all’interno di un sistema grammaticale
diverse forme, ciascuna associata con diversi valori delle categorie grammaticali (una forma per l’aggettivo
alto associata con il valore maschile del genere, e con il valore singolare del numero; una forma alta
associata al valore femminile del genere e al valore singolare del numero ecc.).

Una delle particolarità della flessione è che è obbligatoria nelle sue espresioni: un sistema grammaticale
distingue tutti i lessemi di una lingua tra quelli che si flettono e quelli che non si flettono (se per esempio
non si flette, è detto invariabile; volere, uscire, restare sono delle forme variabili che hanno una flessione.
Distingue anche tra le parole che hanno una flessione il tipo di flesisone che queste hanno (questo tipo di
flesisone dipende da un altro tipo di categoria: la categoria lessicale → i verbi rappresentano una categoria
lessicale, l’aggettvo rappresenta un’altra categoria lessicale perché si flettono in un altro modo, i nomi si
flettono in un altro modo ancora).

Le categorie grammaticali, anche dette tratti morfosintattici, costituiscono un insieme potenzialmente


aperto: malgrado abbiamo a disposizione un elenco di categorie che sono presenti nelle diverse lingue e
che possono essere paragonati all’insieme dei tratti fonologici, non è detto che siano attvate tutte in tutte
le lingue. L’esperienza che noi abbiamo è che ogni lingua normalmente attiva solo un sottogruppo delle
categorie note. Ad esempio, sono categorie il genere, il numero, il caso (categoria gramamticale per cui si
flettono i nominali, cioè nomi e pronomi, e che indica la funizone sintattica di un nominale rispetto al
predicato → il soggetto è codificato in un certo modo, l’oggetto è codificato con un altro caso, l’oggetto
indiretto con un caso diverso ecc.). Normalmenti queste in molte lingue sono categorie nominali: i nominali
presentano distinzione di categoria di genere, di numero e di caso (in italiano un sottogruppo dei lessemi
italiani, i pronomi personali, distinguono in modo residuale tra forme diverse di caso; es. nel pronome di
prima persona singolare c’è la disitnzione tra io, che può essere solo soggetto e me che copre tutte le altre
funzioni: non possiamo dire in italiano esci con io oppure me vado a casa → lo stesso pronome ha due
forme diverse a seconda della funzione sintattica che ricopre: ha due valori nella categoria del caso. Nei
proonomi di terza persona abbiamo additrittura un sistema più complesso tra elgi, lui e gli usato soltanto
come forma atona). Altre categorie sono persona, modo, tempo, aspetto (categorie che troviamo ben
attestate nel verbo); per esempio abbiamo: aspetto perfettivo o imperfettivo che in italiano è una categoria
non codificata gramamticalmente ma in inglese è una categoria fondamentale nella distinizone del verbo o
anche in russo ecc.).
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Le singole lingue si distinguono per le categorie che attivano nel loro sistema gramamticale: alcune lingue
attivano certe categorie, altre ne attivano altre che possono essere in parte coincidenti, ma possono avere
anche delle differenze, prendendo queste categorie da un insieme più ampio che supponiamo come
relativamente universale anceh se nessuna lingua presenta insieme tutti i tratti morfosintattici possibili.

Ogni lingua si differenzia anche per i valori ccon cui si articoalano le diverse categorie e per i criteri di
assegnazione delle forme nei singoli valori.

Es. la categoria del genere per l’italliano è una categoria centrale all’intenro della grammatica per cui tutti i
nomi italiani hanno un genere, che disitngue solo tra due valori che chiamiamo convenzionalemente
maschile e femminile (anche erchè quando c’è un genere attribuito a individui umani o animali che sono
sessuati che si differenziano per il genere gramamticale normalmente c’è un genere che è dato a tutti gli
individui di sesso maschile e uno a tutti gli individui di sesso femminile, come per esempio marito è
maschile e moglie è femminile ecc.). Questi non sono dei fenomeni universali: malgrado in tutta la sfera
animale esiste la differenza sessuale per cui dovrebbe essere resa da tutti i sistemi gramamtaticali, ma non
è così: ci sono lingue che non hanno la categoria del genere come attiva. Per esempio in armeno, in
persiano o in turco tutti i nomi appartengo allo stesso gruppo, non si disitngue tra classificazioni di genere
dei nomi. Oppure anche là dove questa sia presente può avere dei valori molto diversi rispetto a quelli
dell’itliano. Ad esempio, le lingue del gruppoalgonchino (uno dei più ampi gruppi delle lingue amerindiane
del nord America, diffuse nella regione dei laghi sia sul versante statunitense che su quello canadese e poi
presenti in parte anche nell’est degli Stati Uniti), c’è la categoria del genere e disitngue tra due valori, ma
questi sono animato e inanimato: quando hanno una base semantica c’è un genere che indica gli uomini e
gli animali e uno che indica tutto il resto. Oppure in molte lingue, come latino, greco e sanscrito, o tra le
lingue moderne il tedesco o anche il russo, si disitnguono tre valori del genere: maschile, femminile e
neutro. Ancora: il numero in italiano ha due valori (singolare eplurale). In altre lingue può avere un numeor
maggiori di valori: in sanscrtio o in lituano ha tre valoriingolare, duale, usato solo con riferimento a due
individui (occhi, mani, piedi, o una coppia di persone) e il plurale (più di ue individui).

Flessione:

Distiguiamo tra due tipi di lesione. I lessemi di una lingua che hanno la flessione (i lessemi variabili) si
fletttono a seconda della loro categoria lessicale (verbi, nomi, aggettivi, pronomi, aggettivi ecc.) secondo
certe categorie che hanno un determinato numero di valori all’interno di una lingua. Il lessema è obligato
ad assumere un valore di categoria, non può rimanere non flesso all’interno di una lingua. Il problema
riguarda i margini di libertà nello scegliere uno o l’altro valore di categoria. Da questo punto di vista si
distingue tra flessione inerente e flesisone contesutale.

Flesisone inerente: alcuni lessemi hanno un valore di categoria proprio inerentemente. Ad esempio, un
nome dell’italinao ha necessariamente un certo valore nella categoria del genere (è assegnato o alla classe
dei maschili o alla classe dei femminili nel tratto morfosintattico del genere). Innanzitutto non può essere
promiscuo tra i due perché è o l’uno o l’altro e inoltre è o l’uno o l’altro.

Per altri valori di categoria è il parlante che ha libertà di scelta all’interno di una frase se inserire un certo
valore o un altro valore. Questo dipende da ciò cheelgi vuole dire: se il soggetto di una frase al numero
singolare o plurale dipende da una scelta del parlante e da ciò che egli vuole esprimere. Possiamo dire ad
esempio, il cane abbaia o i cani abbaiano a seconda di ciò che vogliamo esprimere.

In altri casi i valori di categoria sono assunti da un lessema non autonomamente ma dipendono da altri
fenomeni, questi sono detti flessione contestuale: ciò che determina la flessione è la dipendenza del
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lessema da altri fenomeni (accordo e reggenza). Un certo elemento può assumer un valore di cateogoria
non per una scelta del parlante o inerentemente perché ha quel valore di categoria in quanto lessema ma
perché la scelata è determinata dalla dipendenza da altro.

Es. Il cane abbaia vs I cani abbaiano → La forma verbale varia per il numero, nel primo caso la terza persona
singolare, nel secondo caso una terza persona plurale dell’indicativo presente. Però nella prima frase viene
scelto il singolare non dal parlante ma è obbligatorio perché il soggetto è al singolare: il predicato assume il
valore di categoria del soggetto, così come avviene nella seconda frase. Quindi nelle due frasi il soggetto ha
una flessione inerente, il predicato ha una flessione contestuale (in particolare flesisone di accordo: è il
valore del numero del soggetto che viene replicato dal predicato). Il valore del numero non è espresso un
po' dal soggetto e un po' dal predicato: qui è il nome che ha per flesisone contestuale il numero, mentre sia
l’articolo che il predicato prendono il valore di predicato per accordo in modo contestuale.

Se parliamo dell’accordo dobbiamo distinguere tra alcune nozioni con cui concettualizzare questo
fenomeno: in una coppia di parole diciamo che il controllore dell’accordo è l’elemento che attribuisce i suoi
valori al bersaglio dell’accordo, detto anche target dell’accordo:

Qui il controllore è il nome e il bersaglio è l’aggettivo che assume i valori di cateria del controllore per
accordo. Quindi è il controllore che ha la flesisone inerente e il bersaglio che ha flessione contestuale.
Defianiamo domini l’insieme di parole sottoposto al fenomeno (sintagma nominale; un altro tipo potrebbe
essere il dominio dell’accordo soggetto predicato). Abbiamo poi categorie coinvolte dall’accordo (genere e
numero) e i singoli valori di categoria sottoposti all’accordo (femminile nel genere e singolare nel numero).

Il fenomeno saliente nell’individuare l’accordo e distinguerlo dalla reggenza è che il controllore dell’accordo
manifesta gli stessi valori di categoria che noi vediamo nel target dell’accordo. Gli stesis valori sono replicati
dal controllore al bersaglio. Questo non avviene nella reggenza: la reggenza è un tipo di flessione
contestuale in cui l’elemento reggente, che attribuisce certi valori di categoria all’elelemento retto, non li
condivide (non li manifesta esso stesso). Ad esempio, in tedesco il pronome si flette nella categoria del
caso. In alcune sequenze sintattiche la scelta tra il caso dativo o accusativo dipende dalla preposizione che
precede il nominale in un sintagma preposizionale: per esempio, se il pronome segue la preposizione mit
(che vuol dire con), deve per forza andare al dativo, perché la preposizione selezione il caso dativo.

Nella categoria morfosintattica del caso, il valore di dativo per la forma mir o di accusativo per la forma
mich non sono condivisi dalla preposizione che non è flessa nel caso dativo o nel caso accusativo, perché la
preposizione in italiano non si flette. In questo caso il valore che determina un valore di categoria non
condivide a sua volta questo stesso valore:
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In questo sintagma preposizionale del latino abbiamo una preposizione (cum), un nome (fratre che è
inerentemente maschile ed è flesso al valore singolare nel numero e al valore ablativo nel caso) e un
possessivo (meo, prima persona flesso al maschile nella categoria del genere, singolare nella categoria del
numero e ablativo nella categoria del caso). Se osserviamo le due forme flesse (fratre e meo) in fratre
possiamo distinguere tra flessione inerente, flessione contestuale dovuta a reggenza e flessione
contestuale dovuta all’accordo → il valore maschile è un valore inerente di categoria del nome, il valore
singolare nella categoria del numero è dovuto a flessione inerente, mentre il caso abblativo è dovuto a
flessione contestuale e in particolare alla reggenza esercitata dalla preposiizone cum).

In meo abbiamo che la prima persona è dovuta a flessione inerente perché il parlante poteva anche dire
cum fratre suo ecc., il valore singolare è dovuto all’accordo con fratre (controllore dell’accordo di numero),
il valore maschile all’accordo con il maschile del nome (controllore dell’accordo di genere), il valore ablativo
del caso ancora dovuto all’accordo con il valore di ablativo che troviamo nel nome. Quindi nel possessivo
abbiamo un elemento di flessione (la prima persona) che è dovuta a flesisone inerente mentre tutti gli altri
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tre sono dovuti a flesisone contestuale in quanto questo aggettivo possessivo è un terget dell’accordo per
le categorie del genere, del numero e del caso, controllato dal nome alla sinistra dell’aggettivo.

Più schematicamente la flessione è definibile come una matrice con diverse dimensioni, che rappresenta
ognuna una categoria grammaticale o tratto morfosinatattico. In ognuna di queste dimensioni ci sarà un
numero di celle pari ai valori di quella categoria:

Nome italiano è una matrice a una sola dimensione (il nome si flette solo per la categoria di numero).
Anche in una parola come città malgrado le due forme flesse siano identiche se accordiamo il nome a un
aggettivo esso manifesterà mediante l’accordo la diversità del numero. Aggettivo italiano si flette su due
categorie con du valori. Il verbo italinao oltre a flettersi per modo e per tempo, si flette per persona e
numero: abbiamo tre valori nella categoria della persona e due valori nella categoria del numero. Per
ognuno degli incroci tra tempo e modo abbiamo sei celle dovute a queste categorie.

Un elemento molto importante per distinguere tra due categorie tipologiche fondamentali, quella delle
lingue flessive e quella delle lingue agglutinanti è il fatto che le lingue oltre ad avere una flesisone hanno
anche delle classi di flessione:
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La tabella esprime alcune forme rappresentative con tre delle numerose classi di flessione dell’antico
inglese o anglossassone (dalla sua prima attestazione scritta fino alla conquista normanna dell’Inghilterra).
Nella tabella troviamo diversi valori nella categoria del numero e del caso. I valori del caso sono quattro,
per ciuascuno abbiamo due valori del numero. La parola god ha quattro forme diverse nelle quattro celle
del caso singolare. Altre parole hanno un diverso schema di flessione. La parola faeder ha uno schema di
flessione molto simile a quello di god. Un nome dell’anglosassone antico ha certe forme diverse per ogni
caso a seconda della classe di flesisone a cui appartiene e quindi un certo lessema non solo è non solo
apportatore dll’informazione sulle categorie per cui si flette, i valori della categoria e per il genere e il
valore inerente del genere, ma appartiene anche lessicalmente a una certa classe di flesisone (ha un certo
schema di flessione che ha un margine di arbitrarietà passando da una classe a un’altra).

Nel caso del turco, ci troviamo di fronte a una situaizone molto diversa (i nomi si flettono per numero e per
caso ma ha un numero di valori molto più alto dell’anglosassone → nominativo/accusativo, accusativo
definito se il complemento oggetto è già noto, un valore di genitivo di dativo, di locativo, e di ablativo):

C’è una flesisone che ha diverse forme ma queste diverse forme sono duvute tutte all’armonia vocalica (ev
→ e è una vocale anteriore non arrotondata che richiede il suffisso i; dost ha una vocale posteriore
arrotondata che richiede un suffisso posteriore arrotondato che è u). Le variazioni dei suffissi sono dovute
esclusivamente a ragioni fonologiche e non morfologiche, come nel caso dell’anglosassone in cui la
variazione si ha perché l’appartenanza a una classe di flessione o a un’altra determina la manifestazione di
una certa terminazione della parola e non di un un’altra in una cella del paradigma. In turco abbiamo lo
stesso suffisso ma la variazione dipende solo da ragioni fonologiche sia per il singolare che per il plurale.

Possiamo rappresentare armonia vocalica del turco mediante regole autosegmentali dicendeo che nel
primo caso l’armonia del sufficsso del plurale dipende dal fatto che la vocale terminale dell’ultima sillaba
della parola dà il suo valore del tratto arretrato (espresso con alfa: abbreviazione che sta per più o meno
constante → se la prima vocale è più arretrato assocerà questa specificazione anceh sulla seconda vocale e
lo stesso vale se è meno arretrato). Dopo una vocale arretrata si ha -lar, dopo una vocale non arretrata si ha
-ler. Il suffisso di caso accusativo definito, oppure anche del caso genitivo che presenta la variazione tra
quattro diverse vocali, dipende dall’associazione dei valori più o meno del tratto arretrato e più o meno del
tratto arrotonadato dalla vocale dell’ultima sillaba della parola a quella del suffisso. Con la crocetta si indica
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il confine di morfema: la prima parola finisce dopo la sillaba contenente questa vocale e subito dopo c’è un
altro elemento morfologico che chiamiamo suffisso che viene dopo la base:

Le lingue definite tipologicamente come flessive hanno le classi di flessione, le lingue che definiamo come
agglutinanti (tipicamente il turco) non hanno le classi di flessione o comunque speigano le loro esponenze
in gran parte per applicazione di regole fonologiche e non per regole di natura morfologica.

Lezione 16

Esercizio da risolvere:

Analizzare in tratti fonologici i seguenti fonemi italiani:

• /ɲ/

• /a/

• /p/

• /ts/

• /ʃ/

Quali tratti hanno in comune i seguenti gruppi di fonemi?

• /i, u/

• /p, f/

• /l, ʎ/

• /ɡ, b/

• /dz, dʒ/
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Il morfema è stato definito come l’unità minima di prima articolazione, cioè l’unità minima biplanare avente
un significante e un significato. In realtà la parola morfosintattica, che è diversa dalla parola fonologica, e
dal lessema, confrontando le su diverse forme di flessione è scomponibile in alcune parti interne:

Possiamo individuare due parti della parola (più formalmente distinguibii con una crocetta che indica il
confine di morfema) e chiamiamo morfi quelle parti della parola morfosintattica individuabile sulla base del
confronto tra le sue forme flesse.

Possiamo inoltre osservare che entrambe le unità che indivduiamo sono biplanari: a differenza delle altre
unità che abbiamo visto hanno sia un significante ma anche un significato (abbiamo un’entità sul paino
dell’espressione e un’entità sul piano del contenuto che sono correlate tra di loro). I morfi hanno un
contenuto sono delle unità biplanari e dunque dei morfemi. Un morfema è un segno.

Contenuto: nel confronto tra le due forme flesse in cui possiamo distinguere una parte costante del
morfema e una che varia, possiamo dire che la parte costante esprime il contenuto lessicale della parola e
la parte che varia (definitia suffisso) indicherà un valore nella categoria del numero (-e indica l’esponenza
del valore singolare nel tratto morfosintattico del numero, -i è l’esponenza del valore plurale nel tratto
morfosintattico del numero).

Ritroviamo il morfo can- anche nella parola canile che ha un contenuto analogo a quello presente nel
lessema cane. Sappiamo anche che questo non è lo stesso presente in canto o in tucano (parole che non
contengono il medesimo lessema). Una volta che abbiamo distinto un morfema che è portatore del
significato lessicale, cioè del contenuto generale del lessema e un morfema che è portatore di un valore di
categoria grammaticale, possiamo giungere a una classificazione più ampia:

I morfemi in generale si distinguono in due grandi classi: morfemi lessicali (quello a sinistra) e morfemi
grammaticali (il secondo), che si distinguono a loro volta in due grandi gruppi diversi detti morfemi
grammaticali derivativi e morfemi grammaticali flessivi. In particolare, il morfema grammaticale flessivo è
quello di cane/cani (come sufisso), mentre la parola canile contiene all’inizio un morfema lessicale. Vi è poi
un morfema grammaticale derivativo (quello che collega la parola cane con canile e lo differenzia da cane).
Infine in canile c’è un morfema grammaticale flessivo che è in commutazione con canili al plurale.

Un’altra possibile classificazione di morfemi è quella che disitngue tra morfemi liberi e morfemi legati:
99

Qui possiamo classificare i due morfemi che emergono da questa scomposizione sulla base di un altro
criterio: uno dei due può stare da solo (dog) mentre -s che marca il plurale non èuò stare da solo ma deve
necessariamente collegarsi con un altro morfema all’interno di una parola. Chiamiamo il primo morfema
libero, il secondo morfema legato. Qui abbiamo una differenza tipologica importante rispetto all’italiano: se
confrontiamo la flessione del sostantivo inglese dog con quella dell’italiano cane vediamo che in italiano i
morfi che noi possiamo scomporre sulla base della commutazione confrontantdo le diverse forme flessive
sono tutti morfemi legati (anche il morfema lessicale dell’italiano can- è legato perché non può costituire
una parola autonomamente). La flesisone dell’inglese normalmente prevede che il morfema lessicale sia un
morfema libero mentre i morfemi grammaticali siano morfemi legati mentre una lingua come l’italiano
tipologicamente prevede che o si abbia una parola non analizzabile come mentre o dietro (l’unico morfema
è un morfema libero), nelle parole flesse i morfi che sono disitnguibili sono esponenze di altrettanti
morfemi smepre legati.

Sulla base della loro posizione i morfi grammaticali sono a loro volta distinguibili come prefissi se si trovano
prima della base, cioè del morfema lessicale, infissi se sono invece inseriti all’interno della base e suffisis se
si trovano dopo la base.

Allomorfia: è un fenomeno per cui un certo morfema (lessicale o grammaticale) si manifesta con alcune
varianti nel suo significante. Questo è un fenomeno caratteristico della morfologia (anche se i termini usati
per nomunare le unità e i fenomeni nel livello fonologico e in quello morfologico sono simili, ci sono delle
differenze importanti tra le varie nozioni).

Differenza tra la noizone di allofono e allomorfo: l’allofono è una variante solo sul piano della realizzazione
fonetica, che rimanda a una medesima unità fonologica. Gli allomorfi si differenziano per avere diverse
sequenze fonologiche (sul piano fonemico: sono composti di fonemi diversi). Mentre il fonema non ha un
contenuto, l’allomorfo ha un contenuto, che per tutti gli allomorfi del medesimo morfema resta stabile.
Questosignificaato per un morfema lessicale è un contenuto lessicale, per un morfema grammaticale
100

flessivo è un ceerto valore di categoria, cioè un certo valore in un tratto morfosintattico (per esempio
singolare o purale). Esempio di caso di allomorfia di un morfema grammaticale flessivo che ha come
contenuto un valore di categoria: il valore plurale nella categoria del numero in inglese. Questo allomorfo è
relativo alle diverse modalità con cui si realizza il morfo che esprime il plurale in inglese:

Dal punto di vista fonologico questo suffisso ha tre allomorfi: uno costituito da una fricativa alveolare
sonora /z/, uno da una vocale alta centralizzata anteriore e la fricativa alveolare sonora /ɪz/, uno costituito
da una fricativa alveolare sorda /s/. Il modo con cui si selezionano i tre allomorfi dipende da una serie di
regole descritte mediante tre diverse regole fonologiche. Queste regole collegano il livello morfologico con
quello fonologico (intervengono nel processo di formazione interna della paroala e ahnno come risultato
una certa sequenza fonemica).

La prima regola è che dopo un sostantivo che termina con una delle due fricative alveolari sorda e sonora,
oppure una delle due fricative postalveolari sorda e sonora o con le due affricate postalveolari sorda e
sonora, si ha successivamente l’allofono /ɪz/. Possia schematizzare questo fenomeno prendendo come
allomorfo di base quello che ha la diffusione maggiore /z/, con la fricativa sonora e dire che questo
allomorfo si realizza come /ɪz/ se si trova dopo una consonante che sia coronale, e poi o una consonante
più continua e a sua volta più avanzata e più diffusa, oppure meno avanzata, oppure una consonante che
sia specificata come più soluzione ritardata (come un’affricata). In tutti questi casi se c’è una consonate di
questo tipo seguita da un confine di morfema interno (segnato con una crocetta), seguito dal trattino basso
che indica la posizione della sequenza sottoposta a mutamento e poi un confine di parola, si ha questo
passaggio.

La seconda regola invece prevede che si possa avere una volta escluse tutte le forme già viste, l’allofono
sordo /s/ dopo una consonante che sia specificaa come meno sonoro (quindi dopo un’ostruente, l’unica
che può essere più sordo o sonoro).

In tutti gli altri casi invece si ha la semplice fricativa alveoare sonora: parole che finiscono per vocale, che
finiscono con un dittongo discendente, che terminanano con una sonorante, oppure quando si ha
un’ostruente sonora (come leg che ha come plurale legs).

È importante notare come queste tre regole costituiscano un ciclo ordinato, cioè per ottenere risultati
corretti si deve applicare prima la prima regola, poi la seconda e quindi la terza. E quando si ha questa
101

successione di regole ordinate, tipica delle regole di allomorfia, queste sono dette ciclo di processi. Se per
esempio applichiamo prima la seconda regola dopo una fricativa alveolare sorda dovremmo avere la
fricativa sorda nel suffisso. Questo non è possibile perché prima dobbiamo escludere tutte le forme che
finiscono con consonante sorda e sonora che rientrano nella priam regola per poter applicare la seconda.
Un’allomorfia che si comporti in questo modo è detta allomorfia fonologicamente condizionata: qui tutte le
informazioni che servono a descrivere il processo e che sono incorporate in questa regola sono
informazioni di tipo fonologico, non ci sono informazioni morfologiche (non si fa appello a nozioni come i
valori di categoria grammaticale o la classe di flessione, che sono tipiche della morfologia). I tre processi
1,2,3 costituiscono il ciclo di regole che si applica per avere l’allomorfia fonologicamente condiizonata:

Ci sono dei tipi di allomortfia che si basano su un altro pricipio. Sono delle allomorfia morfologicamente
condizionate. Es. flessione dell’aggettivo italiano amico:
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Qui l’allomorfia è nel lessema lessicale, si può vedere che il lessema lessicale ha due diverse forme (in
amico con la velare e quella in amici con la postalveolare affricata). Si potrebbe pensare che la variazione
dipenda dalla vocale successiva e che sia bbia fenomeno al qulleo del verbo (es. in dico, dici, dice) in cui
davanti a vocale anteriore (e o i) abbiamo la palatalizzazione della velare terminale del morfema lessicale.
Questo fenomeno si ripete in tutti i verbi che terminano con una vocale (es. leggo, finisco ecc.).

Qui però non è questa la situazione perché al plurale abbiamo amici e amiche e se l’aggettivo si
comportasse seguendo la regola che troviamo anche nel verbo dovremmo aver amici, amice. Regola che
determina questa allomorfia può essere scritta dicendo che la consonante di un morfema lessicale italiano
da meno coronoale diventa più conornale nel caso in cui abbiamo nel segmento in questione associato a un
segmento meno avanzato (velare) il quale è seguito dal confine di morfema e vocale meno arretrato, meno
basso (anteriore) ma che sia maschile (M che precede il tratto → indica un valore all’interno di un tratto
morfosintattico). Un’allomorfia di questo tipo è detta morfologicamente condizionata. Abbiamo due tipi di
allomorfie: condizionate fonologicamente oppure condizionate morfologicamente.

Morfi problematici e processi morfologici:

Casi in cui no sia ha una corrispondenza biunivoca nei singoli morfi in cui possiamo analizzare una parola
distinguendo tra le parti varianti dal punto di vista della commutaizone, tra significante e singinficato:

Esponenza comulativa: abbiamo dei morfi comulativi che esprimono più valori dal punto di vista del
contenuto. Es. nella flessione di chiaro noi abbiamo per ognuna delle desinenze (un suffisso ceh sia un
morfema grammaticale flessivo)espressa dai vari suffissi abbiamo cumulativamente espressi due valori di
categoria (o indica il maschile nella categoria del genere, e il singolare nella categoria del numero). Non
abbiamo un morfo che esprime la categoria del genere e uno che esprime quello del numero. Per esempio
nella flessione del turco in una forma un morfo esprime il valore plurale del numero e un altro esprime il
valore del caso).

Un caso più forte di disallineamento si ha nel fenomeno dell’amalgama in cui non solo abbiamo espressi
morfi cumulativi ma non possiamo nemmeno distinguere tra morfema lessicale e forfema grammaticale:
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Il caso il/lo e i/fli può essere risolto sul piano dell’allomorfia dicendo che è una variazione condizionata tra
due forme diverse che dipende dal suono iniziale della parola successiva. Se una parola comincia con una
vocale o con un nesso di consonanti o con una consonante affricata alveolare in italiano si ha la variante lo
(eventualmente con la vocale che si elide), se comincia con una consonate semplice si usa il, lo stesso vale
per il plurale: nelle condiizoni in cui si ha lo si ha gli per il plurale, mentre in quelle in cui si ha il abbiamo i
per il plurale; per il femmnile non si ha variazione. Se non avessimo la variante il e i potremmo dire che
nella forma di questo articolo si disitngue un morfema lessicale l- che poi si combiana con un morfema
lessciale che è -o al mascile singolare, -a al femminle singolare, -i al maschile plurale, -e al femminile plurael
e nella forma al maschile plurale li divanta gli con la palatalizzazione (che avviene in amici in cui abbimo gli
stessi suffissi cumulativi). Però nella variante del maschile plurale i no distinguamo più la parte del morfema
lessicale da quella del morfema grammaticale. C’è un’amalgama per cui sono inananlizzabili i morfi che
compongono una parola.

Lo stesso fenomeno avviene nella flesisone verbale dell’italiano (es. verbo avere → ho, hai, ha, abbiamo,
avete, hanno): terza persona singolare c’è un unico fonema inanalizzabile. Fenomeno simile in francese
dove nelle preposizioni articolate ci sono non solo morfemi grammaticali e lessicali amalgamati insieme ma
addirittura parole diverse (es. aux comprende la preposizione articolata à e l’articolo determinativo plurale
maschile les si pronuncia con un solo fonema in cui non è distinguibile né la preposizione, né l’articolo, né il
morfema lessicale, né quello grammaticale).

Processi morfologici: un primo tipo di processo morfologico attraverso cui si realizza la flessione viene
chiamato affissazione ed è costituito dall’aggiunta di materiale. Tuttti gli esempi di flessione sono di questo
tipo. Questi affissi prendon il nome di suffissi quando sono posti alla fine della parola, prefisssi all’inizio di
parola, infissi all’interno.

Fenomeno opposto (raro): flessione si manifesta attraverso la sotteazione di materiale:


104

Flessione dell’aggetivo francese → il femminile sembrerebbe formato dal maschile + un suffisso, che però è
assolutamente imprevedibile. Il parlante in realtà memorizza la forma del femminile e deriva il maschile da
quella cancellando l’ultima consonante. In un certo numero di aggetivi del francese la forma di base è
quella del femminile singolare e il maschile singolare si deriva sottraendo all’aggetivo l’ultima consonante.

Processo di sostituzione:

Caso molto evidente è quello della metafonia → storiacamente i casi di metafonia si sono originati
per influsso della vocale finale sulla vocale tonica. Le vocali finali si sono poi opacizzate (cadute o sono
diventate uguale) e sono rimaste le differenze della vocale tonica. Il caso noto è quello dei plurali
irregolari dell’inglese:
105

In 1) ci troviamo di fronte a una serie elementi che hanno una flesisone caratteristica dal punto di vista
lessicale: sono pochi sostantivi che i parlanti devono memorizzare come aventi una flessione particolare e
che sono sottratti dalle regole generali di allomorfia del plurale. L’elemnto saliente nella distinzione tra
singolare e plurale non è la presenza o l’assenza di un suffisso, ma è costituito dalla variaizione interna la
morfema lessicale. C’è la sostituizione di un elemento e non l’aggiunta di un suffisso o un prefisso.

In 2) vediamo come questo processo sia molto produttivo in tutti i dialetti centromeridionali come in
napoletano: la vocale radicale interna al forfema lessicale (la tonica) passa da medio-alta ad alta.

Lezione 17

La formazione dei lessemi: argomento trattato nel manule nel capitolo sul lessico (capito 5; entriamo
all’interno di un nuovo tema, che ha forte attinenza con argomenti morfologici).

Correzione dell’esercizio:
Analizzare in tratti fonologici i seguenti fonemi italiani (queste classificazioni hanno senso solo all’interno di
un sistema fonologico perché i tratti assumono distintività a seconda di quali sono gli altri elementi con cui
ua certa unità si oppone; per tutti questi fonemi parliamo del loro rapporto con tutti il resto dei fonemi
dell’inventario fonologico italiano):

1. /ɲ/ [-sillabico, +consonantico, +sonorante, +nasale, -coronale,

-avanzato]

2. /a/ [+sillabico, -consonantico, -alto, +basso, -arretrato] → tratto teso è sottospecificato

3. /p/ [-sillabico, +consonantico, -sonorante, -continuo, -sol. rit., -coronale, +avanzato, -sonoro]

4. /ts/ [-sillabico, +consonantico, -sonorante, -continuo, +sol. rit., +coronale, +avanzato, -sonoro]

5. /ʃ/ [-sillabico, +consonantico, -sonorante, +continuo, +coronale, -avanzato, -sonoro]

Esercizio 2:

Quali tratti hanno in comune i seguenti gruppi di fonemi?

1. /i, u/ [+sillabico, -consonantico, +alto, +teso] → potremmo aggiungere -basso ma non è necessario

2. /p, f/ [-sillabico, +consonantico, -sonorante, -coronale, +avanzato, -sonoro]

3. /l, ʎ/ [-sillabico, +consonantico, +sonorante, -nasale, +laterale]

4. /ɡ, b/ [-sillabico, +consonantico, -sonorante, -continuo, -sol. rit., -coronale, +sonoro]

5. /dz, dʒ/ [-sillabico, +consonantico, -sonorante, -continuo, +sol. rit., +coronale, +sonoro]
106

Formazione lessemi: è classifcabile in 2 grandi settori → derivazione (mette in rapporto un lessema


primitvo come cane, non ulteriormente analizzabile se non per elementi flessivi, messo in relazione con
lessemi come canile, canino in cui processo di commutazione fa vedere come il lessema primitivo è la base
di elemeti derivati, perché riconosciamo in essi la presenza dello stesso morfema lessicale che troviamo in
cane). Con composto intendiamo parola come pescecane in cui troviamo dei lessemi semplici (non derivati,
come pesce e cane); nel composto abbiamo numerosi morfemi lessicali uniti tra loro.

Per quanto riguarda la formazione di lessemi (sia la derivazione sia la composizione), interagiscono con
categorie lessicali (nome,verbo, aggettivo, determinante, preposizione, avverbio ecc.) → ogni lessema è
assegnato a categorie grammaticali (no lessemi inclassificati in grammatica).

Principali categorie lessicali sono quattro (c’è poi un’ampia espansione in sintassi): nome (quello che in
grammatica tradizionale è detto sostantivo ma anche nome comune e nome proprio), verbo aggettivo e
preposizione.

Da ciò che abbiamo esaminato sappiamo che ciascuna di queste categorie possiede in italiano un suo
schema di flessione in cui la categoria interagisce con categoria grammaticale (tratti morfosintattici). Ad
esempio, il nome con il genere (categoria inerente), il numero ed eventualmente il caso. Il verbo con la
persona, il numero, il modo, il tempo ecc.; l’aggettivo con il genere, il numero, il caso ecc.; la preposizione
non ha flessione.

Ci sono poi categorie che in sintassi sono dette categorie funzionali (determinante, pronome, avverbio,
complementatore ecc. Esse hanno uno statuto diverso in grammmatica e interagiscono meno con le
categorie nel processo di formaziozione di lessemi anche se la categoria degli avverbi è coinvoilta nella
formazione dei lessemi.

Ad esempio, cane è un nome, canile è nome ma canino è un aggettivo → nel rapporto tra lessema di base
e derivato possono esserci cambiamenti di categoria lessicale.

Formazione dei lessemi:

Nella derivazione i processi di derivazione interagiscono con categorie lessicali

Modalità di notazione e interazione tra categorie lessicali e processi formazione dei lessemi:
107

Nella prima riga abbiamo pescecane (composto): lessema di base indicato in maiuscoletto seguito dalla
parentesi quadra con N maiscoletta in pedice della parentesi (abbrevizione che indica il nome, come V.
indica il verbo, A. l’aggettivo, P. indica la preposizione ecc.). Qui abbiamo il primo lessema (pesce) con la
sua categoria N, dopodichè con la crocetta è indicato il confine di morfema interno del composto, poi
abbiamo un altro lessema (cane; anch’esso un nome) chiuso in parentesi quadra, che indica il composto
( anch’esso etichettato come un nome; si mantiene la stessa categoria dei suoi elementi).

In canile abbiamo il lessema di base (cane) seguito dalla crocetta che indica il confine di morfema, poi il
suffisso -ile (è scritto in minuscolo perché non è un lessema ma è un elemento grammaticale). Il risultato è
posto tra parentesi quadre (nome). Il secondo elemento non è posto tra parentesi quadre perché non ha
una categoria propria (assegna la categoria all’ insieme).

In indecoroso abbiamo un prefisso (in) + complesso (decorso), in cui è distguibile decoro (lessema
auntomo, scritto in maiuscoletto, posto tra parentesi quadre, nome), poi abbiamo una crocetta che indica
confine morfologico, seguito dal morfema -oso (suffisso, fa passare il derivato alla categoria di aggettivo).
A sua volta poi l’aggettivo viene unito a un prefisso e si forma un nuovo aggettivo.

In corteggiamento (derivato) abbiamo il lessema di base corte (nome) seguito da una crocetta che indica il
confine di morfema, quindi il suffisso -eggiare con cui si forma un verbo (fa passare il derivato dalla
categoria di nome a quella di verbo, indicata dopo la parentesi quadra con una V in pedice). Dal verbo si
forma un nome (corteggiamento), assegnato mediante nuovo suffisso alla categoria lessicale di nome.

Derivati:

In italiano si possono formare derivati mediate dei suffissi:

Es. fioraio (da fiore), autista (da auto), postino (da posta), libreria (da libro), bestiame (da bestia), stupidità
(da stupido), bellezza (da bello) sentimento (dal verbo sentire), organizzazione (dal verbo organizzare,
questo a sua volta deriva da un nome dal organo), lavatrice (dal verbo lavare), venditore (dal verbo
vendere), nazione (dal nome nazione).

Possiamo inoltre dire che fioraio è un denominale (parte da un nome e arriva a nome), autista è un
denominale, postino è un denominale ma orgnzzazione è un deverbale da verbo a nome.

I derivati si possono anche formare atteraverso un prefisso come in autogestione (da gestione), copilota (da
pilota), maxischermo, miniabito, supereroe, amorale, disonesto, inutile, antisismico, extraparlamentare,
internazione (da nazionale), multietnico, plurisecolare, transalpino, destabilizzare (da stabilizzare),
prefabbricare (da fabbricare), rifare (da fare), scucire (da cucire), sottopagare (da pagare), sovrapporrre (da
porre).

Qui la dervazione si ottiene per affissazione: se l’affisso si trova dopo la base del derivato (il lessema
primitivo) e un suffisso o se si trova prima della base interviene come prefisso.

È importante esaminare i derivati descrivendo con esattattezza il ciclo di derivazione:


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Es. giornalista : il lessema giornalista è in rapporto paradigmatico con il lessema giornale e in rapporto con il
lessema giorno (nella nostra sistemazione del lessico abbiamo nella memoria un rapporto paradigmatico
tra questi lessemi; questo agisce sincronicamente → si parte da un lessema che stabilisce rapporti
pardadigmatici). Essi sono in rapporto paradigmatico perchè in commutazione hanno il lessema giorn- sia in
giorno (unito a un lessema flessivo), sia in giornale (unito a un suffisso derivativo e a un suffisso flessivo), sia
in giornalista (abbiamo due sufissi derivativi e un suffisso flessivo). Quindi, per analizzare la forma
giornalista, dobbiamo stabilire un rapporto tra giorno, giornale e giornalista. Se dobbiamo fare l’analisi della
forma gionarnalista, dobbiamo partire indicando i tre lessemi in rapporto tra loro con delle frecce:

Quinidi: giorno → giornale (si forma da giorno) → giornalista (si forma da giornale).

Questa riga è importante perché nella scomposizione del lessema giornalista abbiamo un morferma
lessacale grammaticale derivativo per ogni passaggio del ciclo → qui abbiamo tre passaggi: in giornalista
abbiamo tre morfemi fondamentali. Giornalista è quindi formato da un morfema lessicale (con la categoria
del nome: gionro), da un morfema grammaticale derivativo (con la categoria del nome: giornale) e da un
morfema grammaticale derivativo che ci dà la forma finale.

Se vogliamo riclassficare i morfermi possiamo indicarli come blocchi che si susseguono, indcando con una
crocetta il confine di morfema: poniamo tutti i morfemi tra parentesi graffe (scritti con forma ortografica o
come una trascrizione fonologica) e aggiungiamo che giornalista è un nome e ha la flessione nel tratto
morfosintattico del numero e un ultimo morfema flessivo che indica il tratto singolare.

Nel lessema giornalista abbiamo un morfema lessicale un morfema grammaticale derivativo e un morfema
grammaticale flessivo (dobbiamo rifarci alla classificazione dei morfemi trattata all’inizio in cui abbiamo
disitnto morfemi lessicali, morfemi grammaticali derivativi e morfemi grammaticali flessivi).

La scomposizione si può fare mediante una serie di parentesi etichettate (come in giornalista): questa
equivale a una scomposizione con diagramma ad albero:

Il lessema di base giorno (è un nome), è a sua volta compreso in un lessema più ampio (appartiene ancora
alla categoria del nome), questo è a sua volta compreso in un lessemapiù alto (appartiene ancora alla
109

categoria del nome); oppure possiamo partire dal complesso giornalista (nome, inidcato con N; rappresenta
la gerarchia più alta), che si scompone in un suffisso e un nome (giornale che a sua volta si scompone in un
nome più il suffisso -ale).

Classificare morfemi: abbiamo un morfema lessicale più un morfema grammaticale derivativo più un
morfema grammaticale flessivo (quello che marca la flessione finale: è una desinenza (cioè un suffisso
grammaticale flessivo) commutabile con la desinenza -i ottenendo giornalisti (forma plurale del nome
giornalista):

Nozione di testa del derivato: la testa di un lessema è un morfema che fornisca la categoria lessicale
all’intero lessema.

Es. anormale (complesso; categoria dell’aggettivo) → Il primo passaggio è indicare il ciclo di formazione del
lessema: partiamo da norma (nome), passiamo all’aggettivo normale, da qui passiamo all’aggettvo
anormale (con l’aggiunta del prefisso):

La categoria finale del derivato interviene nel secondo passaggio del ciclo, non nel terzo perchè nel
passaggio da norma a normale abbiamo la formazione di un aggettivo; anormale non cambia la categoria
lessicale (l’aggettvo resta un aggettivo).

Una particolarità dell’italiano è che il suffisso di un derivato interviene sempre sulla categoria lessicale; al
contrario, il prefisso non interviene mai sulla categoria lessicale.
110

Ad esempio, stupidità è un nome derivato da un aggettivo (ciclo di formazione del lessema: dall’aggettivo
stupido si passa al nome stupidità); bellezza (dall’aggettivo bello si passa la nome bellezza); in sentimento
abbiamo il verbo sentire da cui si dervia il nome sentimento, lo stesso avviene in organizzazione (dal verbo
organizzare base del verbo organizzazione ma a sua volta deriva dal nome organo a cui si aggiunge un
suffisso); lavatrice (nome) deriva dal verbo lavare; venditore (nome) deriva dal verbo; in nazionale
(aggettivo) partiamo dal nome nazione per derivare un aggettivo.

Se proviamo a derivare usando dei prefissi, la categoria lessicale rimane sempre stabile: il prefisso non
interviene mai sulla categoria. Per esempio, autogestione è un nome derivato da un altro nome (gestione);
ecopilota (nome derivato da pilota); maxischermo (nome derivato da schermo); amorale è un aggettivo
derivato da morale (anch’esso un aggettivo); disonesto è un aggettivo derivato dall’aggettivo onesto; inutile
deriva dall’aggettivo utile; prefabbricare è un verbo e deriva dal verbo fabbricare (non cambia la categoria
lessicale; scucire è un verbo e deriva dal verbo cucire.

Il prefisso non interviene sulla categoria del derivato → i prefissi non possono essere mai testa del derivato.
Quindi, la testa del derivato è sempre costituita dall’ultimo morfema lessicale o grammaticale derivativo
che precede un morfema grammaticale flessivo.

In anormale la testa del derivato è rappresentata dal morfema -ale (suffisso grammaticale derivativo che
precede il flessivo -e).

Composti: sono parole come capostazione, pescecane, carro armato, capuffcio, asciugamano, agro-dolce.

In italiano i composti si presentano con diviverse sololuzioni grafiche dal punto di vista ortografico: carro
armato (si scrive come 2 parole staccate), capufficio è univerbato, ascigamano è anch’esso univerbato,
agro-dolce i due elementi del composto sono separati da untrattino. Il modo con cui si scrive un composto
non ci permette di riconoscerlo come tale (abbiamo diverse soluzioni grafiche). Non è un criterio di
riconoscimento nemmeno il fatto che può avere una flessione sul primo elemento, sul secondo o su
nessuno. Per esempio, il plurale di carro armato è carri armati, il plurare di capufficio è capiuffici (il flessivo
è marcato sul primo dei due membri del composto), il plurale di ascigamano è ascugamani (è marcato il
secondo dei due membri del composto); ma in italiano ci sono casi in cui sono ammesse anche diverse
norme: il plurale di pomodoro è pomodori ma secondo un italiano più sorvegliato e arcaizzante può essere
anche pomidoro.

Un altro punto fonadamentale realtivo ai composti è che il significato del composto non è ottenibile
totalmente attraverso la composizione del significato dei lessemi che formano il composto: ad esmpio, un
carro armato non è un carro con armi sopra ma è un’arma movente, corazzata ecc.; una cassaforte non è
una cassa più forte delle altre ma un deposito che ha certe caratterisitche di sicurezza ecc.

I composti hanno inoltre delle particolari porprietà semantiche.

Ci sono inoltre alcune proprietà morfosintattiche che possiamo osservare nei composti:

1) un elemento non è inseribile all’interno di un composto:

Ad esempio, in agro-dolce (un aggettivo) non possiamo inserire all’interno dei membri (entrambi due
aggettivi) un avverbio: non possiamo dire agro molto dolce ma solo molto agro-dolce o poco agro-dolce ma
non agro poco doce: l’avverbio può solo modifica tutto il composto. Allo stesso modo, carro armato non è
inseribile: mentre la sequenza nome e aggettivo, come lessemi, liberi è inseribile. Ad esempio, possiamo
dire carro nuovo ( qui abbiamo 2 parole morfosintattiche), oppure possiamo avere la sequenza carro molto
nuovo o carro proprio nuovo, non possiamo dire carro molto armato o carro poco armato: l’aggettivo si
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rapporta all’intero composto: possiamo dire carro armato nuovo, carro armato verde o carro armato
pesante.

La seconda proprietà fondamentale è che il composto non è interrompibile: mentre un’unione di due
parole morfosintattiche si può fermare al primo lessema (ad esempio, in carro lungo possiamo dire un carro
lungo o un carro), in un composto non possiamo omettere uno dei due elementi (nel caso di asciugamano
non possiamo dire un asciuga): dobbiamo usare tutto il composto, non uno solo degli elementi.

Un’altra proprietà dei composti è che l’ordine degli elementi del composto (quando si è formato) è rigido e
non può essere invertito: in italiano possiamo dirre macchina nuova o nuova macchina ma solo il carro
armato (non possiamo dire l’armato carro); allo stesso modo, possiamo dire capufficio ma non ufficio capo
(non sarebbe equivalente a capufficio).

Queste sono le tre proprietà morfosintattiche che insieme alla proprietà semantica di avere un unico
significiato sono salienti per indicare un composto.

Osservazioni riguardo la testa di un composto: I composti possono essere classificati in due gruppi →
composti endocentrici (un centro all’interno in cui uno dei membri del composto è la testa). La testa del
composto è un lessema o un morfema lessicale del composto che dà la categoria lessicale all’intero
composto dà le sue proprietò semantiche fondamentali alle proprietà semantiche del composto

In italiano i composti sono formati per lo più da due elementi (diversamente dal tedesco, dove ci sono
anche composti con molti elementi, ad esempio tre, quattro o addirittura cinque).

I composti endocentrici sono a loro volta distinguibili in due tipologie: composti endocentrici con testa a
sinistra e composti endocentrici con testa a destra. Esempi di composti endocentrici con testa a sinistra
sono: pescene, capostazione, carroarmato. In carro armato, ad esempio, la categoria del composto è quella
del nome (possono essere accompagnati dall’articolo) ma solo uno dei due lessemi che formano il
composto è un nome (carro è un nome; armato è un aggettivo): la testa è l’elemento a sinistra. Inoltre
carro armato è un tipo di carro; carro dà le sue proprietà sematiche fondamentali al composto. Lo stesso
principio vale anche per gli altri composti: i lessemi che formano il composto pescecane (nome) sono
entrambi dei nomi (pesce e cane), quindi non possiamo individuare la testa sulla base della categoria.
Tuttavia, pescecane è un tipo di pesce non un tipo di cane. Quinid il lessema che dà la propria categoria
semantica è quello a sinista non quello a destra. Allo stesso modo capostazione (formato da due nomi) è un
tipo di capo, non un tipo di stazione (non è la stazione principale), diverso da capufficio, caposquadra ecc.

Un esempio di composto endocentrico con testa a destra è il composto gentiluomo → qui abbiamo un
comosto formato da due lessemi in cui la testa è data dall’elemento a destra: un gentiluomo è un tipo di
uomo; inoltre il primo lessema è un aggettivo mentre il secondo è un nome: il composto è un nome.

Un composto può essere anche esocentrico se non ha la testa: il tipo più diffuso è rappresentato dai
composti formati da un verbo più un nome (es. asciugamano, posacenere, tagliaforbice, taglialegna,
tagliacarta, scendiletto, guardaroba). Per esempio, nel caso di aciugamano abbiamo un nome ma
asciugamano non è un tipo di mano; il composto può essere inteso come abbreviazione di un sintagma (in
questo caso, qualcosa che asciuga la mano, in cui mano fa da oggetto non da soggetto). Allo stesso modo
un posacenere è qualcosa su cui si posa la cenere; ascigacapelli è qualcosa che asciuga i capelli, non un tipo
di capelli che asciugano. Similmente, pellerossa indica qualcuno che ha la pellerossa (è un’abbreviato nel
composto), non indica un tipo di pelle.
112

Lezione 18

Sintassi, parola e frase: ulteriore livello di analisi della grammatica. Due unità principali a cui fa rifemento
questo livello di analisi: parola e frase.

Esercizio:

Indicate, mediante un diagramma ad albero o parentesi etichettate, la scomposizione morfologica delle


seguenti parole italiane.

Esempio: rinascimento [[ri + [NASC]V]V + imento]N

1. deumidificatore

2. lavatrice

3. contapassi

4. procreazione

5. stabilizzavano

6. procedimento

7. regionalizzazione

8. rifornimento

9. procreazione

10. scorrimento

Unità fondamentali del livello della sintassi:

Livello analisi sintassi: si tratta di un livello composto da unità biplanari (unità di espressione e contenuto,
con un significato e un significante). È un livello di prima articolazione che si differenzia dalla morfologia
perchè ha come unità minima la parola morfosintattica (che è l’unità massima della morfologia) e come
unità massima la frase nella sua colmplessità. Tra queste deu unità vi sono anche delle unità intermedie
( dette costituenti sintattici).

L’analisi della sintassi comincia dalla parola morfosintattica. Tuttavia il metodo con cui la parola è analizzata
dalla sintassi che analizza la frase per giungere alla parola è diverso da quello usato dalla morfologia.

Bisogna anzitutto definire queste unità: ci sono due proprietà fondamentali che definiscono la parola
morfosintattica. Queste rimandano a due fenomeni: stabiltà interna degli elementi della parola
morfosintattica e la non interrompibilità della parola morfosintattica.

Dobbiamo iniziare decidendo se una sequenza consiste in un insieme di parole diverse o in un’unica parola
analizzabile in morfemi.

Una prima grande propietà della parola è che è stabile internamente:


113

Se distinguiamo unità più piccole all’interno della parola (per esempio dei morfemi, indicati attraverso delle
parentesi graffe, separati da una creocetta che indica il confine di morfema) e osserviamo il lessema
gamba, notiamo che abbiamo un morfema lessicale (che costituisce il morfema lessicale della flessione; il
contenuto è arto inferiore umano), abbiamo poi un morfema grammaticale flessivo il cui contenuto è
singolare. Sulla base della commutazione fra gamba e gambe posssiamo distinguere i due morfemi e una
volta distinti non possiamo mutarne l’ordine: abbiamo necessariamente gamb + a ( questa sequenza non è
in alcun modo equivalente alla sequenza agamb).

Un altro esempio è costituito dal composto temperamatite (costitutito da due lessemi: tempera e matite)
caratterizzato da sabilità interna: non possiamo usare il matite tempera come un elemento equivalente al
composto (i due elementi in cui è scomposta la parola devo essere in un unico ordine). Invece, se abbiamo
una sequenza come bicicletta rossa o bicicletta nuova, abbiamo 2 ordini possibili: bicicletta nuova e nuova
bicicletta, oppure bicicletta rossa e rossa bicicletta.

Negli esempi l’asterisco (*) indica una sequenza non grammaticale in italiano (l’asterisco è usato in
linguistica generale o nella prospettiva sincronica dell’indagine linguistica per indicare una sequenza che è
impossibile per i parlanti di una lingua, cioè una sequenza che tutti i parlanti non riconoscono come
possibile e grammaticale).

La seconda grande proprietà è la non interrompibilità: dato un confine interno, se il confine è costituito da
un confine interno di parola (cioè due da due morfemi) non è possibile terminare una frase in quel punto
(per esempio, perché il parlante non sa comentinuare o per indecisione). Ad esempio, nella frase “mi fa
male una gamba”, se il parlante è indeciso dirà “mi fa male una” o “mi fa male una gamba” ma non può
bloccarsi dopo il primo morfema dell’ultima parola, omettendo l’ultimo morfema (ad esempio dicendo “mi
fa male una gam”). Al conctrario, se abbiamo un confine esterno di parola possiamo avere pausa in quel
punto: possiamo decidere di non enunciare l’intera frase per indecisione, per un ripensamento ecc. Per
esempio se consideriamo la frase “ecco la mia nuova bicicletta”, possiamo anche dire
“ecco la mia nuova” (qui c’è un confine esterno di parola).

Inoltre, possiamo interrompere una sequenza mettendo una parola nel confine esterno di parola tra deu
parole morfosintattiche autonome, mentre questo inserimento non può ami avvenire nel confine interno di
una parola. Ad esempio, in temperamatite abbiamo due morfemi lesscaali che formano un composto (che
è un’unica parola morfosintattica). In questo caso, possiamo dire il mio temperamatite (possiamo
interrompere la sequenza tra l’articolo e il nome, dove abbiamo uno spezio bianco che indica il confine di
parola morfosintattica anche dal punto di vista ortografico) ma non possiamo averre il tempera mie matite.
Invece, in un sequenza come la nonna (in cui abbiamo due parole morfosintattiche disitnte, ma una sola
parola fonologica perché l’articolo è una particella proclitica), la sequenza è interrompibile: possiamo per
esempio inserire un aggettivo possessivo e dire “la mia nonna” o “la cara nonna” o “la vecch nonna”; ciò
non è pssibile quando abbiamo un confine interno di parola.

Anche in una sequenza come dirlo (composta da un verbo + clitico), guardarlo, portarlo, in cui abbiamo
soltanto una parola grafica e una sola parola fonologica ma ci sono due parole morfosintattiche perché il
pronome enclitico constituisce una parola morfosintattica indipendente: dirglielo, porglielo ecc. sono
114

interrompibili: possiamo inserire un altro pronome tra il verbo e il pronome enclitico iniziale (ad esempio,
in suequenze come dirglielo, portarglielo ecc.).

L’altra unità fondamentale della sintassi è la frase: in maniera approssimativa possiamo definire la frase
(anche detta proposizione) come un insieme di certo un numero di elementi nominali (cioè un gruppo che
equivale a nomi singoli) organizzati attorno a un operatore unico, detto predicato (fa da perno e struttura
tutto l’insieme).

L’elemento proprio della frase è costituito da un numero di elementi nominali (variabile ma con regole
fondamentali nel suo comporsi) organizzati da un predicato. Questi nominali possono essere costituiti da
un gruppo di nomi e pronomi, il predicato può essere costituito da diverse cose.

Se ad esempio consideriao la frase “il gatto attraversa la strada” notiamo che ci sono due nominali (gatto e
strada) organizzati attorno al predicato (il verbo attraversa). Questa frase è equivalente alla frase “il gatto
del vicino del piano di sotto attraversa la strada principale della città” (qui abbiamo due nominali
organizzati attorno a un predicato, il verbo attraversa). Qui ciascun nominale è più complesso: il primo
nominale è rappresentato da “il gatto del vicino del piano di sotto”, il secondo è raprresentato “la strada
principale della città”. Equivalente a queste dal punto di vista delle strutture fondamentali (non dal punto di
vista semantico) è anche frase “il gatto l’attraversa”. Qui abbiamo due nominali (il gatto e il pronome atono
la come secondo nominale): la attraversa è equivante alle frasi precedenti dal punto di vista sintattico
perchè abbiamo un soggetto (un elemento alla terza persona non specificato; potrebbe essere stato
specificato in una frase precedente, come “Giovanna si trova davanti alla strada. La attraversa” → il
soggetto è lo stesso della frase precedente, viene ripreso anaforicamente). Il soggetto in italiano non deve
essere necessariamente espresso (a differenza di quanto avviene in inglese e in francese). Il soggetto è un
pronome che qui non viene espresso (il secondo nominale è costitutito dal pronome atono la) mentre il
predicato è lo stesso delle frasi precedenti.

Ma anche una frase come “Giovanni attraversa Napoli” ha una struttura equivalente a quella delle frasi
precedenti. Qui tuttavia i due nominali sono espressi da due nomi propri: uno è un nome proprio di
persona (un antroponimo) e un altro è un nome proprio di luogo (un toponimo) che sono in relazione a un
predicato (stabile).

Quindi a livello sintattico queste frasi sono equivalenti anche se hanno significati diversi: dal punto di vista
semantico non sono equivalenti (“il gatto attraversa la strada” ha un significato diverso da “Giovanni
attrvaversa Napoli”) ma la semantica o la differenza di significato non è in relzione con il fatto che dal punto
di vista sintattico queste frasi hanno delle affinità (le loro strutture sono simili).

Possiamo individuare un livello della grammatica responsabile delle strutture fondamentali delle frasi e del
modo con cui le diverse parole morfosintattiche entrano i rapporto tra loro constituendo delle frasi oppure
del modo con cui le diverse frasi sono scomponibili in parole morfosintattiche che è largamente autonomo
da quello del significato. Il livello del significato (il livello semantico) osserva alcune proprietà (indica il
contenuto che esse esprimono) mentre invece la sintassi guarda esclusivamente alla loro struttura, cioè alla
modalità con cui i diversi nominali si combinano attorno a un predicato o operatore unico.

Pertanto le parole di una lingua non si combinano tra di loro in modo che dipende esclusivamente dalle
scelte del parlante: un parlante può comporre parole della sua lingua in una frase compiuta in base a regole
contenute nel livello sintattico della lingua. Pertanto presupponiamo l’esistenza di un livello a cui diamo il
nome di sintasis in cui si trovano le regole di combinazione delle parole in frasi o di analisi delle frasi in
parole.
115

Tre proprietà fondamentali della frase: gerarchia, predicazione (e il tipo di predicazione) e la sua polarità.

L’esperienza inoltre suggerisce che i parlanti di una lingua possono produrre un numero di frasi
potenzialmente infinito: i modi in cui le diverse frasi si pongono all’esperienza sono diversi e vari.

Di fronte a questa infinita varietà è possibile ridurre l’insieme delle frasi possibili a un numero limitato di
strutture fondamentali. Questo perchè le diversità di queste frasi non si trovano sullo stesso piano per cui
ogni frase non possiede una sua unicità e i parlanti non hanno a disposizione un’infinità di strutture
possibili. Possiamo cioè distinguere tra diversità che riguardano gli aspetti marginali e diversità che
riguardano gli aspetti fondamentali. Ad esempio, una frase come “la strada è attraversata dal gatto” è
simile alle precedenti ma diversa nel modo di porsi. Se confrontiamo questa frase a alla frase “il gatto dà la
caccia al topo” notiamo che è diversa dalla precedente.

Una modalità con cui possiamo ridurre le molte frasi possibili ad una serie di strutture fondamentali è
attraverso l’osservazione delle proprietà generali con cui possiamo far variare le frasi e trovare all’interno di
ciascuna di queste proprietà una tipologia di frase che si presenta come più semplice delle altre in relazione
a quella proprietà, che possiamo definire come il tipo non marcato (cioè quella che presenta la maggiore
semplicità). Gli altri introducono degli elementi di complessità maggiore che possono essere indicati come
elementi di marcatezza (cioè delle differenze rispetto al tipo più semplice). Le propretà in questione sono
cinque.

Possiamo quindi definire un tipo di frase che si presenta come non marcata per ciascuna delle proprietà
fondamentali: si tratta di quella più facile da analizzare perchè partendo dal tipo più semplice per ognuna
delle proprietà possiamo sempre risalire ai tipi più complessi per ogni proprietà introducendo via via gli
elementi di marcatezza.Quindi possiamo avere delle parti della grammatica che trasformano una frase dalla
tipologia più semplice a quella più complessa.

Il primo problema fondamentale è quello di individuare un modo per analizzare la tipologia più semplice di
frase possibile e capire quali sono le sue relazioni sintattiche interne che poi possiamo vivavia rendere più
complesse lungo le cinque dimensioni accennate.

La prima di queste proprietà è la gerarchia della frase (raprresenta una serie di parametri che ci consentono
di classificare la frase). In base al primo parametro relativo alla prima proprietà ogni frase può essere
definita mediante un parametro gerarchico: nella grammatica tradizionale disitnguiamo una frase primitiva,
una frase dipendente e una frase coordinata.

Esempi:

1) Mara esce con Giovanna → frase principale


2) È strano che Giovanni non sia ancora arrivato → frase analizzabile in due frasi: “è strano” è la frase
principale; “ che Giovanni non sia ancora arrivato” è detta frase dipendente soggettiva
3) Mara dice che Giovanni non è ancora arrivato → “Mara dice” è la frase principale; “che Giovanni
non è ancora arrivato” è detta frase dipendente oggettiva
4) Mara dubita che Giovanni non sia ancora arrivato → “Mara dubita” è la frase principale; “che
Giovanni non sia ancora arrivato” è una frase dipendente completiva o oggettiva o interrogativa
indiretta
5) Mara vede Giovanni che arriva → Due frasi: “Mara vede Giovanni” è la frase principale; “che arriva”
è una frase dipendente relativa
6) Mara vede Giovanni ringiovanito → può essere considerata come un’uninica frase ma ringiovanito
può essere considerato come un predicato sintetizzato dal participio passato (la frase è equivalente
alla frase “Mara vede Giovanni che è ringiovanito” → la frase è molto simile a una relativa; in
sintassi è detta frase con all’interno una frase ridotta)
116

7) Mara esce di casa e Giovanni la va a prendere → qui abbiamo una frase principale (“Mara esce di
casa”) e una frase coordinata (“e Giovanni la va a predere”)

Possiamo immaginare una serie di regole in sintassi che consentono di passare dalla struttura in cui c’è
un’unica frase principale (struttura dell’tipo 1) a strutture diverse (strutture del tipo 2, 3, 4, 5, 6, 7):
possiamo sempre derivare tutti gli esempi che vediamo dalla frase numero uno (che rappresenta la
struttura fondamentale, quella che contiene soltanto una frase principale). La frase numero due per
esempio è formata da due frasi, la prima ha una struttura simile alla numero una, mentre la seconda ha una
struttura simile ma deve avere una congiunzione all’inizio (detta complementatore) e il verbo in un certo
modo (non all’indicativo ma al congiuntivo).

Ci concentreremo solo sulla frase principale, tenendo conto del fatto che poi è possibile esaminare i tipi più
complessi di frase aventi all’interno subordinate e coordinate partendo da quella che ha soltanto una
principale.

La seconda proprietà è la predicazione. Ci sono due tipi fondamentali di frasi in rapporto alla proprietà
predicativa: frase verbale e frase nominale. Nella frase verbale il predicato (l’operatore fondamentale nella
frase che organizza i nominali) è costituito da una forma verbale, nella seconda tipologia l’operatore è esso
stesso un nominale. La frase nominale prevede la presenza di due o più nominali: uno di questi costituisce
un prededicato (non abbiamo alcuna forma verbale all’interno). Ci sono alcune lingue che hanno
un’abbondanza di frasi nominali e lingue dove questa struttura è meno attestata. Per esempio, il russo fa
un largo uso della frase nominale: la frase “io sono uno studente” si dice in russo suando soltanto due
nominali (usando cioè un pronome e un altro sostantivo). In italinao la stessa frase richiede una forma del
verbo essere per collegare i due nomi.

Anche in italiano tuttavia abbiamo un’attestazione di frasi nominali molto più ampia di quello che si è
portati a credere.

Possiamo per esempio cosiderare alcune frasi tratte da giornali (solitamente nello stile giornalistico le frasi
nominali sono largamente usate). Esempi:

1) Solo mare all’orizzonte → non c’è alcun verbo all’interno della frase; c’è solo un elemento nominale
(solo mare) seguito da un altro elemento nominale (all’orizzonte; fa da predicato).
2) Stop alle ricerche per salvare l’equipaggio del sottomarino scomparso → non c’è nessuna forma
verbale, è una frase nominale.
3) Una Angela Merkel abbassata di statuta politica in queste ore nutre speranze per come si sta
sviluppando la crisi tedesca. Speranze con ogni probabilità condivise Da Emmanuel Macron → La
prima frase è una frase verbale, che è però seguita da una frase nominale (non c’è nessun verbo).
4) La priorità portare al termine l’arresto → non c’è nessun verbo.
5) Attimi di apprensione nel pomeriggio di giovedì all’ospedale Fatebenefratelli sull’Isola Tibertina a
causa di un incendio divampato in un bagno, forse provocato da un mozzicone di sigaretta in un
cestino → da un’analis attenta della frase risulta che essa manca dl predicato verbale: il predicato
non è espresso da un verbo, quindi si tratta di una frase nominale (il predicato è espresso da un
nome) pur essendo una frase ampia e articolata all’interno.

Dal momento che le frasi nominali possono essere sempre riportate a frasi verbali la sintassi che
prevediamo prende in esame la frase verbale e ha al suo interno delle regole per trasformare una frase
verbale in una frase nominale. Preventivamente si concentra sulla frase verbale come tipp non marcato
di frase per la caratteristica della predicazione e tratterà la frase nominale come una possibilità
ulteriore derivabile da quella verbale.
117

La terza proprietà è quella della polarità. Essa ha a che fare con il fatto che ci sono due strutture della frase
fondamentali: la frase affermativa e la frase negativa.

Possiamo considerare per esempio una coppia di frasi:

Es. a. Giovanni ha visto serpente

Es. b. Giovanni non ha visto un serpente

Da questi esempi capiamo come in italiano la possibilità di passare da una frase affermativa a una frase
negativa è affidata a regola molto semplice: basta cioè inserire un avverbio negativo (non) prima del
prededicato (ha visto), mentre il resto della frase resta invariato.

In altre lingue il sistema delle regole per trasformare una frase affermativa in una frase negativa è più
complesso.

In francese per esempio dobbiamo inserire due elementi negativi: il primo precede l’ausiliare mentre il
secondo si pone tra ausiliare e participio:

Es. a. Jean a vu un serpent.

Jean ha visto un serpente

Es. b. Jean n’ a pas vu un serpent.

Jean NEG1 ha NEG2 visto un serpente

Questa è una regola più complicata ma descrivibile in modo esaustivo: date queste regole tutte le frasi
possono essere trasformate

In inglese la complessità di queste regole aumenta ulteriormente. Se consideriamo la coppia di frasi:

Es. a. John saw a snake

John vedere:PASS un serpente

Es. b. John did not see a snake

John AUS.PRET NEG vedere un serprente

Notiamo che per trasformare una frase affermativa in una frase negativa dobbiamo inserire il verbo
ausiliare, trasformare il verbo principale dal passato all’infinito presente (quindi l’ausiliare esprime il tempo
passato e la persona), far seguire l’ausiliare dal negativo. Possiamo comunque individuare delle regole
regole che ci consentono di trasformare una frase positiva in una frase negativa.

Dunque anche se la sintassi di una lingua si concentra sul descrivere le frasi positve può avere un
sottogruppo di regole che trasformano la frase positiva in quella negativa corrispondente.

Proprietà della modalità: con essa si intende la differenza con cui noi rapportiamo una frase alla realtà. Ci
sono tre modalità fondamentali: frase dichiarativa, frase interrogativa e frase imperativa
118

La frase dichiarativa descrive uno stato di cose (vere o false), la frase interrogativa non intende descrivere
uno stato di cose ma intende porre una domanda su uno stato di cose, la frase imperativa non intende
descrivere uno stato di cose ma intende dare un’istruzione attraverso cui determinare uno stato di cose.
Indica una realtà possibile su cui regolarsi per dare un’istruzione o un comportamento:

Es. a. Parli francese (dichiarativa)

Es. b Parli francese (interrogativa)

Es. c. Parla francese! (imperativa)

Queste tre frasi sono simili in italiano, ma la prima frase è una discorsiva (descrive una situazione). La
seconda frase è un’interrogativa (è una domanda e presuppone una risposta sì o no). La terza frase è
un’istruzione che può essere soddisfatta se l’interlocutore assume un certo comportamento (cioè se inizia a
parlare francese).

Da questi esempi si capisce che in italiano la differenza tra le modalità della frase affermativa, interrogativa
e dichiarativa è affidata prevalentemente all‘intonazione (in fonologiaa esiste la proprietà prosidica della
fonologia per cui l’intonazione ha la capacità di distinguere tra frasi di modalità diversa).

In inglese la differenza di modalità è ottenuta grazie a mezzi sintattici più complessi: le tre modalità della
frase hanno tre sintassi diverse:

Es. a. You speak French

Es. b. Do you speak French?

Es. c. Speak French!

Nella dichiarativa è obbl espr sogg crt ordin prl nell0in è obbl ott inv tra verb e sogg sogg nn più in 1’ pos ma
pss 2’ attr intro aux d u spe frch ind da int p ess solo int se avvs ord inv sign altro nell’imo abb strs sint obb
non pss esp sogg spek french no sogg espr verb 2’ pers in qst posi

Ind da mzz sint o fonolgic c ling espr md frase poss prev un serie rgl c trs un fra dich in int o imp

Es ita tutt aff a fon int in frnch e inlg mexzz sint + cmp ch efnn pass da dich a int che pss n es descri e se ci
conc su anali si dell dich attrv regfole ilt pss ott ?

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