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CAPITOLO 1

CHE COS’E’ LA SOCIOLINGUISTICA. AMBITO E NOZIONI PRELIMINARI


1.1 DEFINIZIONE DELLA DISCIPLINA
La SOCIOLINGUISTICA si occupa dei rapporti tra lingua e società e il suo carattere essenziale
sta nel vedere i sistemi linguistici inseriti nella vita della società. Nella sociolinguistica si possono
trovare diversi approcci: una prima distinzione è tra le impostazioni di studio sociolinguistico che
privilegiano la componente sociale, cioè la parte “socio” della sociolinguistica, e tra le impostazioni
che privilegiano la componente linguistica, cioè la parte “linguistica” della sociolinguistica. La
sociolinguistica è un settore della linguistica: è una sottodisciplina delle scienze linguistiche che si
pone il compito di descrivere che cosa succede alle lingue quando le vediamo concretamente calate
nelle comunità sociali che le usano. In altre parole la sociolinguistica non è una sociologia che tiene
conto dei fatti linguistici ma è una linguistica che tiene conto dei fatti sociali. In questo modo c’è
una divisione dei lavori tra linguistica, che studia la lingua come sistema, e la sociolinguistica che
studia la lingua nei suoi usi in una comunità sociale. La sociolinguistica è allora definibile come una
parte delle scienze del linguaggio che analizza e spiega tutti i fatti linguistici che hanno un
significato sociale.
Il termine sociolinguistica venne utilizzato per la prima volta nel 1952 in un articolo di un letterato
e filosofo americano, Curie; in Italia le prime attestazioni di sociolinguistica risalgono al 1968
quando questo termine veniva usato come aggettivo che può avere due significati potendo essere
riferito ai rapporti fra lingua e società oppure alla disciplina che li studia. Inoltre non mancano
tentativi di studiare, con una prospettiva sociolinguistica, le testimonianze del passato. Si è così dato
vita ad una sociolinguistica storica che cerca di ricostruire le condizioni sociolinguistiche di
un’area in un determinato periodo storico e per tale fine vengono utilizzati degli scritti di parlanti
semicolti come biografie e diari.
Nell’ambito delle scienze del linguaggio, la sociolinguistica si caratterizza anche in base
all’esistenza di opposizioni fondamentali:
1) Una prima opposizione è quella tra linguistica interna e linguistica esterna:
- la linguistica interna studia le caratteristiche della lingua, avente cioè come suo oggetto la lingua
intesa come sistema;
- la linguistica esterna studia tutto ciò che è esterno alla struttura di una lingua ma rappresenta il
contesto in cui vive ed è per questo motivo che questo aspetto è molto rilevante nello studio della
sociolinguistica.
2) Una seconda importante opposizione è quella tra orientamento formale (o formalismo) e tra
orientamento funzionale (o funzionalismo):
- il formalismo concepisce la lingua come uno strumento che riflette il pensiero di un parlante e
costituisce un sistema autonomo e distinto da ogni altra capacità cognitiva umana. Inoltre per il
formalismo le forme e le strutture della lingua sono autonome e indipendenti dalla funzione, ad
esempio la grammatica è indipendente dall’uso dei parlanti;
- il funzionalismo concepisce la lingua come uno strumento di comunicazione adattata ai bisogni
degli utenti. Le forme e le strutture della lingua sono determinate dalla funzione e la grammatica è
modificata in base alle esigenze d’uso dei parlanti: per sua natura la sociolinguistica segue le idee
del funzionalismo.
3) Un’altra opposizione è quella tra sociolinguistica in senso stretto e sociologia del linguaggio:
- la sociolinguistica in senso stretto ha come oggetto fatti specifici e produzioni linguistiche come
parole e pronunce;
- la sociologia del linguaggio o sociologia delle lingue tratta gli interi organismi delle lingue e
delle varietà di lingua nella collocazione che hanno nei parlanti.
4) - Microsociolinguistica: lo studio di piccoli gruppi di parlanti o anche singoli individui;
- macrosociolinguistica: lo studio di fenomeni linguistici di ogni livello su numeri di gruppi alti
di parlanti.
5) Altra opposizione molto importante che riguarda il diverso rapporto tra fatti linguistici e fatti
sociali, è quella tra sociolinguistica correlazionale e sociolinguistica interpretativa:
- la sociolinguistica correlazionale o correlativa studia le correlazioni tra lingua e società
assumendo gli aspetti sociali come variabili indipendenti che agiscono sui fatti linguistici e quindi
lo studio va dalla società alla lingua, in quanto si studia come la lingua è influenzata dalla società;
- la sociolinguistica interpretativa pone l’accento sull’interpretazione di quello che fanno i parlanti
e in che modo essi costruiscono i significati internazionali. Secondo questa visione, la lingua crea
essa stessa la società e quindi lo studio va dalla lingua alla società, in quanto si studia come la
lingua influenza e determina la società e i rapporti sociali.
Negli anni più recenti si sono sviluppati studi dei rapporti esistenti tra i fatti linguistici e quelli
sociali, gli studi più rilevanti sono la sociolinguistica percezionale, cognitiva e sociofonetica:
1) La sociolinguistica percezionale ha il suo fondamento nella dialettologia percettiva, che nasce
grazie al lavoro di linguisti olandesi e giapponesi sul riconoscimento dei confini dialettali e sulla
loro realtà soggettiva per i parlanti e si chiama percettiva perché assume come punto di partenza la
percezione che i parlanti hanno dell’ambiente in cui vivono. Essa è una linguistica fatta dai non
linguisti, cioè una “linguistica del parlante” che guarda quindi ai parlanti e non alla lingua come
oggetto specifico di indagine;
2) La sociolinguistica cognitiva affronta i temi e i problemi della variazione sociolinguistica
secondo l’ottica della linguistica cognitiva attraverso un modello mentale della società e dei rapporti
tra gli individui; si indagano le strategie secondo le quali sia il significato sociale dell’attività
linguistica sia il significato con cui le parole vengono usate si trasmettono e si modificano in
relazione con la composizione socio-demografica di una comunità;
3) Anche la sociofonetica approfondisce la funzione comunicativa di diverse pronunce per
esaminare attraverso molti metodi sperimentali come la variazione fonetica sia strutturata nella
rappresentazione degli individui parlanti e a quali categorizzazioni dia luogo.
La sociolinguistica in genere è un’espressione della cultura occidentale e da questo punto di vista si
distingue dalla linguistica antropologica e dall’etnolinguistica che sono invece concentrate sulla
diversità e peculiarità delle culture e delle società. Un orientamento a cavallo fra un approccio
sociolinguistico e uno socioantropologico che è stato prospettato negli ultimi tempi è quello
ecolinguistico che inserisce lo studio dei fatti sociolinguistici nel contesto più ampio dell’ecologia
in relazione all’ambiente sociale, culturale e fisico-biologico in cui le lingue nascono, vivono si
sviluppano e muoiono.
1.2 ALCUNE NOZIONI PRELIMINARI
Quando si opera in sociolinguistica è importante conoscere alcuni concetti basilari che coinvolgono
la lingua e la società. Sul versante propriamente linguistico va chiarita la nozione di LINGUA che
possiede due valori ben distinti:
1) La lingua è un qualunque sistema linguistico esistente o esistito in passato in un certo gruppo di
individui e parlanti come manifestazione della facoltà umana del linguaggio verbale. Ogni idioma
riconoscibile come diverso da altri idiomi costituisce in questo senso una lingua, quindi non solo
l’italiano o il francese, ma anche il piemontese, il ladino sono lingue. Questo valore del termine
lingua è proprio quello della linguistica interna.
2) Da un altro punto di vista, la lingua è un concetto opposto al concetto di dialetto, in quanto la
“lingua” è un sistema linguistico destinato agli usi alti mentre i dialetti sono subordinati ad essa e
sono utilizzati in contesti sociali più bassi.
Dal punto di vista della società, è molto importante il concetto di comunità linguistica (c.l). Essa è
un insieme di parlanti, inteso come comunità sociale, che condividono determinate caratteristiche
linguistiche. Tuttavia esistono diversi modi per definire una comunità linguistica:
- in termini linguistici la c.l è costituita da tutti coloro che hanno in comune e parlano una stessa
lingua materna entro i confini di un paese;
-in termini sociolinguistici una c.l. è costituita da parlanti che condividono degli atteggiamenti
sociali nei confronti di una lingua, ma tale definizione presenta un problema dal punto di vista
operativo essendo molto difficile stabilire una condivisione di atteggiamenti tale da determinare una
vera e propria comunità;
- in termini sociali la c.l è un insieme di individui caratterizzato da interazione regolare e frequente
con differenze significative di uso linguistico rispetto ad altri sistemi.
Ci sono in sostanza due criteri definitori principali: criteri esterni oggettivi (ad esempio la lingua) e
criteri interni soggettivi (ad esempio atteggiamenti e sentimenti di appartenenza e di
autoidentificazione).
L’insieme delle lingue e delle varietà linguistiche all’interno di una comunità parlante costituisce il
repertorio linguistico. Il repertorio, che può essere monolingue, bilingue e multilingue, è l’insieme
delle risorse linguistiche possedute dai membri di una comunità linguistica. Pur essendo in genere
usata in riferimento ad una comunità sociale, la nozione di repertorio può essere impiegata anche in
relazione ad un singolo parlante. Si parla in questo caso di repertorio linguistico individuale ovvero
l’insieme delle varietà a disposizione di un parlante il quale deve essere in grado di usarle. Il
repertorio linguistico italiano è costituito dalle lingue e della varietà linguistiche usate dai cittadini
italiani: l’italiano con le sue varietà, i dialetti italo-romanzi con le loro varietà, le lingue e parlate
minoritarie con le loro varietà.
Molto interessante è la distinzione sociolinguistica tra “alto” e “basso” riferendosi ad una varietà
linguistica: “alto” si usa per qualificare le varianti dotate di prestigio, formali e colte, tipiche di
situazioni socialmente impegnative; per “basso” si intendono le varianti non dotate di prestigio,
tipiche di situazioni non impegnative dal punto di vista sociale.
CAPITOLO 2

LINGUA E SOCIETA’

2.1 LA SOCIETA’ NELLA LINGUA: FATTORI SOCIALI E LINGUA

Essendo il comportamento linguistico un tipo di comportamento sociale, qualsiasi fattore che sia
dotato di rilevanza sociale e qualunque variabile sociale sono suscettibili di avere riflessi sulla
lingua. Tra i tanti fatti relativi all’interazione sociale è necessario isolare quelli più suscettibili che
andando a interagire tra di loro condizionano i comportamenti linguistici. Queste variabili hanno il
nome di variabili sociolinguistiche e le principali sono la stratificazione sociale, il (sesso) genere e
la collocazione spaziale intesa come luogo di abitazione e provenienza.

- La stratificazione sociale è il fattore più importante nelle indagini sociolinguistiche e per


stratificazione sociale si intende la divisione di una società per classi o strati sociali; tra i
tanti criteri utilizzati per definire la posizione dei parlanti nella stratificazione sociale i più
importanti sono 3: (1) criteri economici come reddito, tipo di occupazione e professione; (2)
criteri educativi come la scolarizzazione e i titoli di studio; (3) criteri culturali cioè modelli
di comportamento e stili di vita. Nella ricerca sociolinguistica i criteri più usati sono il grado
di istruzione e poi l’occupazione che si svolge.
- Il gruppo sociale è una nozione meno problematica rispetto a quella di classe sociale, ed è il
riconoscimento di gruppi di individui che non hanno una gerarchia (a differenza della
stratificazione sociale), quindi non hanno livelli all’interno della scala sociale, ma il gruppo
sociale è una separazione o compartimentazione in una società perché una società è
costituita da una somma di gruppi sociali. L’appartenenza ad un gruppo sociale presuppone
un comune stanziamento territoriale, quindi concrete possibilità di interazione tra gli
individui, e implica una condivisione di comportamenti linguistici comuni che garantiscono
l’appartenenza ad un gruppo. Le varietà di lingua che esprimono l’appartenenza ad un
gruppo sono chiamate socioletti. In generale il comportamento linguistico dei parlanti varia
a seconda che ci si rivolga ai membri del proprio gruppo di appartenenza o a persone esterne
al gruppo; questa opposizione ha il nome di “in-group” in cui si parla il “we-code” cioè che
stanno parlando due persone appartenenti allo stesso gruppo, al contrario nell’ “out-group”
si utilizza il “they-code” cioè la lingua degli altri cioè di coloro che non fanno parte del
gruppo.
Nelle società con forte diversità a base etnica, un fattore rilevante di identità di gruppo è costituito
da una comune origine nazionale, culturalmente diversa da quella di altri gruppi della società.
Diventa in questi casi importante come fattore di differenziazione e particolarizzazione linguistica,
la variabile gruppo etnico che può dare luogo a varietà etniche cioè gli etnoletti.

Le varietà di una lingua sviluppate da parlanti non nativi di quella lingua sono definite interlingue
(o xenoletti). Un insieme di interlingue individuali di immigrati di comune origine può essere
ritenuta una varietà etnica quando ha caratteristiche linguistiche particolari che rivelano un legame
con un determinato gruppo che la utilizza regolarmente e vi si riconosce.
E’ molto interessante anche il rapporto tra la lingua e gruppi di individui che condividono il proprio
ambiente di vita, attività ed esperienze; le varietà di lingua connesse ai gruppi sociali sono anche
caratterizzate dal fatto che si manifestano in determinate situazioni comunicative per affrontare
determinati argomenti ed è proprio dagli argomenti che dipende l’utilizzo di unità lessicali
specifiche. Questo carattere è evidente nelle lingue speciali o sottocodici, cioè varietà di lingua
spesso molto tecniche possedute solo da chi fa parte di quel determinato settore (economia, politica,
scienza ecc…). Un caso tipico, e il più marcato, di varietà di gruppo e sottocodice al tempo stesso è
dato dai gerghi: il gergo è un linguaggio fondato su trasformazioni convenzionali delle parole di
una lingua nella quale vengono inseriti nuovi elementi lessicali ed è usato da chi appartiene a
determinati gruppi professionali o sociali (come malviventi, carcerati…) allo scopo di garantire
l’identità di gruppo e di non farsi intendere da coloro che ne sono estranei. E’ caratterizzato da
fenomeni come risemantizzazioni speciali (come per es. rosso/rossetto = moneta d’oro, barbina =
pecora, barbetta = capra) o procedimenti di ristrutturazione della forma della parola, quali
l’inversione sillabica (neca = cane) che è un fenomeno caratteristico del verlan francese che in
Francia è stato ampiamente usato nel linguaggio giovanile.

Altra cosa rispetto ai gerghi sono i linguaggi settoriali, ovvero modi d’uso della lingua ricchi di
una terminologia più o meno specifica e usata in ambienti sociali particolari: i cosiddetti gerghi
della politica, dell’economia, dell’informatica.

2.1.2 FATTORI DEMOGRAFICI

Un altro fattore preso in considerazione nelle indagini sociolinguistiche è l’età dei parlanti che
vengono divisi generalmente in quattro classi di età cioè bambini, giovani, adulti e anziani ma il
problema è stabilire in modo oggettivo quando è che si passa ad esempio dall’essere giovani
all’essere adulti. Dal punto di vista linguistico, si è notato che i giovani sono innovatori e tendono a
cambiare le regole della lingua introducendo nuove forme, mentre gli anziani sono conservatori e
mantengono stabili le regole che fissano una lingua. Altra nozione importante e connessa nel
concetto delle classi di età e i gruppi, è quella di gruppo dei pari, cioè coetanei che condividono
abitudini e atteggiamenti e hanno la stessa posizione in una struttura sociale. In sociolinguistica è
stato dimostrato che nell’apprendimento linguistico è molto rilevante l’influenza dei compagni, la
quale addirittura domina quella dei genitori e degli insegnanti a scuola.

Dagli anni 90 si sono moltiplicati gli studi aventi come oggetto la lingua dei giovani ovvero una
varietà caratterizzata non solo dalla classe di età dei parlanti ma anche dall’appartenenza di questi
ad uno specifico gruppo sociale e dalla situazione comunicativa in cui tipicamente viene impiegata.
La lingua dei giovani, o linguaggio giovanile, ha attirato molto l’attenzione soprattutto per le
evidenti particolarità lessicali che la caratterizzano come fenomeni di riduzione del corpo della
parole (raga, prof), gergalismi (fico = persona attraente, flashato = sconvolto), i quali tuttavia non
fanno parte del patrimonio lessicale di una lingua.

Molto meno interessante è la lingua degli anziani, i quali raggiungono chiaramente risultati
inferiori rispetto a quelli dei giovani in test che riguardano la memoria ma gli anziani hanno un
maggior accesso alle variazioni di registro linguistico perché tale capacità si sviluppa nel corso della
vita.
L’età di apprendimento della lingua è una nozione collegata a quella del parlante nativo, cioè
quella persona che ha imparato una lingua come lingua prima, nella socializzazione primaria, dai
genitori o da persone vicine e la sente e la usa come sua lingua materna; il parlante nativo è ritenuto
inoltre in molte teorie linguistiche il depositario dell’effettiva competenza linguistica. Nella
sociolinguistica anglosassone, la varietà di lingua non standardizzata e spontanea usata dai parlanti
nativi, in particolare nelle intenzioni in-group, è detta vernacular (l’italiano vernacolo ha piuttosto
il senso di dialetto particolarmente marcato proprio di un luogo o una regione).

Ai parlanti nativi di una lingua si contrappongono i parlanti non nativi, i quali hanno appreso la
lingua come lingua seconda, dopo il periodo della socializzazione primaria, e sono in essa
ovviamente meno competenti dei parlanti nativi.

Un altro fattore demografico importante è il sesso (genere) dei parlanti e, anche se non sembra che
esistano differenze, l’uso della lingua nei maschi è diverso in alcuni aspetti da quello del sesso
femminile: le donne fanno uso di forme e varietà di prestigio e utilizzano maggiormente le varianti
alte di una lingua. Le differenze di genere sono più nette per quanto riguarda i presupposti
pragmatici su cui si basano gli stili conversazionali. A livello pragmatico, è stata infatti sottolineata
la tendenza delle donne ad adottare un modello di interazione verbale basato sulla politeness
(cortesia) e sull’espressione delle proprie emozioni e dei sentimenti; al contrario gli uomini
comunicano in modo pratico e diretto e questo causa facilmente delle incomprensioni nella
comunicazione tra uomo e donna, ragion per la quale essi molte volte non si capiscono portando
allo sviluppo di un “paradosso del genere” che consiste nel fatto che le donne mostrano meno
deviazioni dalla norma linguistica quando le deviazioni sono apertamente censurate, mentre deviano
più degli uomini quando le innovazioni non sono censurate.

Il comportamento linguistico dei parlanti, riguardante la sociolinguistica urbana, dipende anche


dal luogo di nascita e luogo di residenza, cioè la collocazione spazio-temporale dei parlanti nel
territorio della propria comunità linguistica e l’ambiente in cui si vive. Non solo la lingua riflette
diverse provenienze regionali ma anche in uno stesso ambito geografico, risiedere in grandi città o
in piccoli centri può influenzare considerevolmente le scelte linguistiche (in Italia, per es., il parlare
la lingua standard o il dialetto); addirittura ci sono differenze linguistiche tra chi abita in quartieri
diversi di una città o chi abita in una frazione di un paese. E’ importante ricordare il concetto di
punto linguistico cioè l’unità minima socio-geograficamente rilevante dal punto di vista della
geografia linguistica e della sociolinguistica.

Da questo si capisce che la mobilità sociale e geografica e i cambiamenti dei luoghi di residenza
hanno conseguenze rilevanti sul comportamento linguistico dei parlanti. Il caso più evidente è
quello della migrazione (emigrazione ed immigrazione) che porta ad un aumento di variazione e di
complessità del repertorio linguistico, in quanto l’ingresso in una nuova comunità sociale comporta
il confronto con un repertorio e consuetudini linguistiche diverse. La lingua materna dei migranti
subisce un’evidente riduzione dei domini d’impiego a causa della presenza della nuova lingua che è
la lingua della comunità ospite. L’uso limitato all’ “in-group” della lingua materna porta a fenomeni
di decadimento della lingua, dapprima sottoforma di language attrition, con una riduzione della
competenza e una semplificazione delle strutture, e poi di vera e propria perdita di lingua. Si
hanno così dei semiparlanti della lingua che la possiedono solo parzialmente e la utilizzano per
frammenti. La compresenza della lingua d’origine e della lingua della comunità ospite porta spesso
a forme di bilinguismo complesso. Può anche manifestarsi un rapporto particolare con la lingua
materna dei genitori, che viene quindi ad assumere un valore fortemente simbolico di heritage
language, lingua ereditaria, posseduta con una competenza ridotta. Con tale termine vengono
tuttavia designate non solo le lingue di origine degli immigrati ma più in generale le lingue parlate
da individui, famiglie o gruppi che siano diverse dalla lingua dominante nel contesto sociale, talché
heritage language diventa sinonimo di lingua minoritaria o lingua immigrata.

Nell’ambito della sociolinguistica dell’immigrazione, il complesso problema dell’identità culturale


ed etnica e della sua realizzazione simbolica nel comportamento linguistico è stato oggetto di molti
studi. Un comportamento molto interessante è rappresentato dal fenomeno del language crossing
(sconfinamento linguistico), cioè l’impiego occasionale da parte di un parlante di un’altra varietà di
lingua che non fa parte del suo repertorio consuetudinario. Parlanti che non fanno parte di un
determinato gruppo adottano in questo caso un modo di esprimersi tipico di quel gruppo a cui essi
non appartengono: questo fenomeno è piuttosto frequente in Italia nel linguaggio giovanile quando
per esempio nella conversazione con il gruppo di pari si imiti in modo scherzoso una pronuncia di
una varietà dialettale o geografica differente dalla propria ( ad esempio un milanese che imita il
modo di parlare dei napoletani).
Un altro concetto che c’è grazie all’esistenza di diversi modi di comportamento e di gestione
dell’identità, è il fenomeno della superdiversità. Con questo termine si intende cogliere
l’ammontare di diversità socioculturali e linguistiche che si ha oggi in molti ambienti urbani e che
dà luogo a pratiche comunicative innovative e alla formazione di nuove varietà continuamente
mutevoli. Per questa ragione la superdiversità non consente una trattazione mediante le nozioni e le
categorie statiche della sociolinguistica tradizionale e richiede quindi un approccio in termini
dinamici basato sulla varietà della lingua e sulla comunità linguistica. In questo contesto è sorto il
termine di polylanguaging (comportamento polilingue) per indicare l’uso nel discorso da parte dei
parlanti di forme provenienti da più lingue diverse anche quando i parlanti non hanno alcuna
conoscenza di queste lingue ma conoscono solo alcune espressioni. In questo senso, il concetto
viene opposto a multilinguismo, che implica la competenza effettiva di più sistemi linguistici.

2.1.3 FATTORI SITUAZIONALI


Un diverso gruppo di fattori suscettibili di correlare con l’uso dei parlanti e il comportamento
linguistico è dato dalla situazione comunicativa, cioè l’intorno contestuale in cui si attua la
comunicazione linguistica. Ogni elemento di una situazione comunicativa influenza l’utilizzo delle
varietà di una lingua e il comportamento linguistico. Riferendoci in parte alla classica lista dei
componenti di un evento linguistico di Hymes, vanno considerati per lo meno elementi come
l’occasione, la scena e l’ambiente, i partecipanti, gli argomenti e gli strumenti di comunicazione.

Gli interlocutori hanno una grande rilevanza e sono la fonte di fenomeni di accomodamento,
continuamente in atto nell’interazione verbale. E’ quel processo mediante il quale i partecipanti a
un’interazione verbale adattano vari aspetti della loro produzione linguistica modificandola sotto
l’influenza del modo di parlare degli interlocutori. Spesso l’accomodamento si manifesta come
convergenza, vale a dire il tentativo di adeguarsi allo stile verbale dell’interlocutore rendendo le
proprie produzioni linguistiche più simili alle sue; a volte però l’accomodamento assume i connotati
di una divergenza quando un parlante per esprimere diversità e lontananza sociale accentui tratti che
differenziano la propria varietà rispetto a quella dell’interlocutore.
I diversi fattori che intervengono nel costituire una situazione comunicativa si possono ricondurre a
tre categorie fondamentali: il campo, il tenore e il modo:

- Il campo è il genere di attività svolta nella situazione e dall’insieme delle esperienze, delle
azioni e degli argomenti in essa compresi;
- Il tenore è costituito dai ruoli sociali e comunicativi reciproci messi in atto dai partecipanti
all’interazione comunicativa e determina il modo in cui gli interlocutori si rivolgono l’uno
all’altro;
- Il modo è dato dal mezzo fisico attraverso cui si svolge la comunicazione in una determinata
situazione e una fondamentale differenza di modo, per quanto riguarda la comunicazione
verbale, è quella fra parlare e scrivere, fra lingua scritta e lingua parlata.
Ogni situazione comunicativa è irripetibile e illimitatamente variabile e per essere messa in
correlazione con altre situazioni comunicative si ricorre al concetto di dominio, cioè un insieme di
situazioni sociali riferite ad una medesima sfera di esperienza e di attività, con la presenza comune
di determinati ruoli, scopi e norme che definiscono un ambito specifico della vita sociale degli
individui; i tipici domini sono la famiglia, la scuola, la religione, il lavoro e il giro di amicizie.

Negli anni più vicini a noi, assume caratteristiche di un dominio a sé la comunicazione on-line, nel
web, via Internet. La diffusone della comunicazione mediata dal computer (CMC) ha portato ad
una serie di usi della lingua che, in particolare quando si attuano nelle modalità di interazione
spontanea, mettono in crisi aspetti della bipartizione tradizione fra lingua scritta e lingua parlata. La
lingua digitata nelle chat, nei blog, nei social network, presenta spesso i caratteri di un parlato non
sorvegliato in forma scritta il che ha anche condotto a postulare l’esistenza di un Netspeak, una
varietà di lingua tipica e propria della comunicazione nel web.

2.2 CONCETTI A MATRICE SOCIALE IMPORTANTI IN SOCIOLINGUISTICA


Il prestigio è una di quelle categorie importanti nelle indagini sociolinguistiche. Per prestigio si
intende la valutazione sociale positiva data ad un fenomeno o fatto sociale; in particolare tale valore
positivo si manifesta nella proprietà di essere un comportamento degno di imitazione. Il prestigio
dipende quindi dalla valutazione di tratti personali o sociali, che i membri di una comunità
ritengono desiderabili in termini di successo, ricchezza, immagine. In un senso più specifico il
prestigio è definito come il valore di una lingua per l’avanzamento sociale, infatti comprende
diversi fattori tra cui gli atteggiamenti linguistici favorevoli dei parlanti, l’essere veicolo di ampia e
apprezzata tradizione letteraria e l’essere parlata dai gruppi sociali dominanti. Tutti questi fattori
messi insieme determinano la scala di prestigio che va dalle varietà alte (grande prestigio) alle
varietà basse (basso prestigio). Il contrario di prestigio è stigma che designa la sanzione sociale
negativa, la non accettazione sociale di un soggetto.

Uno dei fattori che spiega la formazione e il mantenimento del controllo sociale e la diffusione di
modelli di comportamento è la rete sociale. La rete sociale è la rete costituita dai legami che ci sono
tra una persona di riferimento e tutte le persone con cui questa si trova ad avere rapporti frequenti o
occasionali. Le proprietà strutturali importanti di una rete sociale sono la densità e la molteplicità: la
densità è data dalla quantità di legami diretti effettivi in rapporto alla quantità totale di legami diretti
possibili, la molteplicità è data dalla quantità di legami multipli in rapporto alla quantità totale di
legami. Le reti sociali che risultano dense e molteplici (a maglie strette) risultano in genere più
conservative delle norme linguistiche, mentre le reti poco dense e poco molteplici (a maglie larghe)
sono innovative e la somma di numerose reti sociali dà origine alla comunità linguistica.

La nozione di rete sociale è differente da quella di comunità di pratica, con la quale si intende un
gruppo di individui che svolgono insieme una particolare attività con un determinato scopo perché
per esempio condividono un mestiere, una professione o un’occupazione che pretende una
partecipazione comune per poter essere portata a termine. Una classe scolastica, una squadra di
calcio, l’equipaggio di una nave da crociera costituiscono tipici esempi di comunità di pratica.

Un concetto sociale importante in sociolinguistica è quello di identità (sociale), cioè il parlante


attraverso dei comportamenti linguistici si riconosce e si definisce come appartenente ad un
determinato gruppo; ogni individuo crea da solo i modelli del proprio comportamento linguistico in
modo da somigliare ai membri del suo gruppo e in modo da diversificarsi dai membri appartenenti
agli altri gruppi.

2.3 LA LINGUA NELLA SOCIETA’

Nella sociolinguistica recente si ritengono gli usi e i comportamenti linguistici come creatori di
struttura sociale e di rapporti sociali e le lingue con il loro potenziale di variazione sarebbero il
luogo in cui i parlanti agiscono sulla società e costruiscono la propria identità e quella degli
interlocutori. Un atto di identità viene prodotto come espressione di categorie di appartenenza a un
gruppo e si manifesta in termini di scelte di variabili sociolinguistiche che danno luogo a stili sociali
di uso della lingua o “stili verbali”. Il concetto di stile è un insieme di scelte tra le molte risorse
linguistiche a disposizione nello spazio linguistico individuale che ogni singolo parlante attua
nell’uso discorsivo attraverso forme di espressione adatte a quella specifica situazione; con lo stile il
parlante costruisce egli stesso struttura sociale, in quanto lo stile è al tempo stesso affermazione e
costruzione di identità. Quest’impostazione sposta il focus dell’indagine sociolinguistica dalla
comunità e dal gruppo sociale al singolo parlante.

Da un punto di vista teorico per quanto riguarda il concetto di identità sociale si contrappongono in
sociolinguistica due posizioni:

1) Essenzialismo = esiste una struttura sociale che agisce sulla lingua e fornisce l’etichetta
dell’identità. Questa posizione presuppone che le categorie della struttura sociale esistano di per sé
indipendentemente dai parlanti e dal loro lavoro di rappresentazione della loro identità;

2) Costruttivismo sociale = la struttura sociale è creata e mantenuta dalla lingua poiché è il


parlante che con il suo agire linguistico e attraverso il suo stile sociale a fornire le categorie interne
di riferimento. Nella prospettiva essenzialista è la struttura sociale a fornire il significato sociale
delle variabili sociolinguistiche, mentre nella prospettiva costruttivista il significato sociale delle
variabili è attribuito e prodotto dai parlanti stessi riconosciuti come attori della comunicazione. Si
parla infine di decostruzionismo secondo il quale le lingue tradizionalmente riconosciute, come
l’italiano, l’inglese, non sono altro che artefatti socioculturali fortemente condizionati dall’ideologia
di chi li ha prodotti. Il concetto di comunità linguistica sarebbe privo di qualunque realtà oggettiva,
essendo continuamente creato e ricreato dalle scelte del parlante.
Vi sono importanti campi della vita sociale in cui è innegabile la rilevanza della lingua nel dare
forma ad atteggiamenti e comportamenti sociali e nel guidarli. La lingua è per es. uno strumento
essenziale di azione politica; infatti il linguaggio verbale permette la propaganda politica, la
persuasione e l’ottenimento del consenso. Circa il far politica con la lingua, due dimensioni molto
sviluppate in anni relativamente recenti sono la questione del cosiddetto politically correct
(politicamente corretto) e quella della linguistica femmininista. Entrambe le questioni hanno la
consapevolezza che la lingua sia un potente veicolo di svantaggi e discriminazioni sociali che
possono concernere aspetti razziali, etnici, religiosi… Di qui la critica a tutti gli impieghi della
lingua che diano forma a tali discriminazioni (politically correct). La questione ha anche a che fare
con una tematica moto studiata dal punto di vista dell’etnolinguistica, quella del tabu: in ogni
cultura e società esistono argomenti più o meno tabuizzati, vale a dire più o meno soggetti ad una
forma di interdizione o censura che vieta e rende socialmente poco accettato il parlarne in termini
diretti (come il sesso, le funzioni corporee, le malattie, certi tipi di comportamento). La linguistica
femminista si propone di allontanare fenomeni di sessismo o di maschilismo nella lingua, ad
esempio il fatto che si usa il genere grammaticale maschile per designare sia uomini che donne
(“tutti” vale sia per maschi che per femmine) oppure l’uso di appellativi e nomi di professioni al
maschile per rivolgersi anche a donne (sindaco, medico, ministro).

E’ anche con la lingua che vengono gestite tutte le azioni sociali. Esistono le lingue segnate o
lingue dei segni, cioè sistemi di comunicazione dotati di tutte le proprietà strutturali di una lingua
ma avente come canale di trasmissione del significante non il mezzo fonico-acustico bensì il mezzo
spaziale-visivo, adottati dalle persone non udenti. Lingue del genere si sono sviluppate in molti
paesi e tra queste vi è anche la LIS (Lingua italiana dei segni), usata da molti non udenti italiani e
anche da udenti per la comunicazione con non udenti. Una lingua dei segni permette di formulare
messaggi sotto forma di sequenze di segni di natura gestuale, prodotti mediante l’utilizzo della parte
superiore del corpo, delle mani e del viso.

Il ruolo della lingua è centrale nell’educazione. Ci sono due fondamentali forme di relazioni sociali:
codice elaborato e codice ristretto. Il codice elaborato è basato su una collocazione personale
dell’individuo nella società ed è propria del ceto medio mentre il codice ristretto si basa su una
collocazione posizione ed è propria dei ceti bassi. Il codice ristretto condiziona pesantemente il
successo scolastico dei bambini provenienti dai ceti inferiori dato che la scuola privilegia l’impego
del codice elaborato. In Italia, sull’onda di tale dibattito, la sociolinguistica ha introdotto un modello
di educazione linguistica democratica basato sul riconoscimento delle varietà del panorama
linguistico de nostro paese.

La lingua nella società ha anche un valore economico e commerciale. Negli anni 80 per cogliere la
spendibilità socio-economica della lingua era spesso usato il concetto di mercato linguistico. Il
valore dello standard sul mercato linguistico è alto cosicché i parlanti che non padroneggiano bene
lo standard risultano essere svantaggiati e quindi si può dire che il mercato linguistico in questo
senso è un ostacolo alla mobilità sociale. C’è inoltre un valore commerciale delle competenze delle
lingue seconde che si può tradurre a volte in differenze salariali che riguardano i soggetti dotati di
queste competenze: in Svizzera ad ed. non solo il sapere l’inglese ma anche il sapere una delle due
lingue nazionali diversa dalla propria portano ad un tasso di remunerazione più alto sul mercato del
lavoro.
Il discorso sul valore economico delle lingue sottintende l’egemonia mondiale dell’inglese, una
lingua che conta un numero di parlanti non nativi molto più alto di quello dei parlanti nativi.

La questione dei diritti linguistici è diventata oggetto di ampio dibattito: si tratta del diritto dei
singoli individui ad usare la propria lingua materna, anche nel caso in cui si tratti di una lingua
minoritaria, diversa da quella ufficiale o standard. Rientrano in questo discorso i tentativi di
semplificazione del linguaggio burocratico e amministrativo per migliorare l’accessibilità e la
fruibilità dei testi burocratici da parte di tutti i cittadini.
CAPITOLO 3

SOCIOLOGIA DELLE LINGUE

3.1 STATUS E FUNZIONE DI UNA LINGUA

Ci sono due concetti basilari per stabilire la posizione sociale occupata da una lingua: status e
funzione. Lo status è definito dagli usi a cui una lingua può adempiere in una certa comunità; la
funzione invece è definita dagli usi a cui questa effettivamente adempie. In altre parole per status si
intende ciò che si può fare con una lingua in una comunità e per funzione ciò che con la lingua
davvero si può fare su tutti i piani di una comunità. Tuttavia può accadere che la funzione
corrispondente ad un determinato status di una lingua non si realizzi ad esempio il gaelico irlandese,
che è la lingua ufficiale dell’Irlanda insieme all’inglese, ma non viene utilizzata proprio per la
prevalenza dell’inglese, quindi lo status e la funzione di una lingua sono in relazione con il prestigio
di cui gode tale lingua. Per avere un certo status una lingua deve possedere gli attributi necessari
per soddisfare gli usi a cui è destinata e gli attributi necessari per definire lo status di una lingua
sono fattori di carattere geo-politico, socio-demografico e linguistico, tutto in base al tipo
funzionale di lingua, cioè il genere di usi a cui una lingua è destinata.
In base alla diffusione geografica possiamo parlare di lingua pluricentrica, cioè quella lingua che è
lingua nazionale in più paesi e che in questi abbia sviluppato varietà standard in parti diverse le une
dalle altre; un esempio di lingua pluricentrica è il tedesco che è lingua nazionale in Germania,
Austria e Svizzera, ma anche l’inglese il francese e lo spagnolo sono lingue pluricentriche. Il
motivo della formazione delle lingue pluricentriche può essere la colonizzazione o anche
l’immigrazione e la separazione politica.
Altri tipi funzionali di lingua riguardano i sistemi sociali, ad esempio esistono le lingue di lavoro,
cioè quelle lingue usate in ambito ufficiale presso un ente internazionale come l’ONU e l’Unione
Europea. L’ONU ha come lingue di lavoro l’arabo, il cinese, l’inglese, il francese, il russo e lo
spagnolo e l’Unione Europea ha tutte le lingue nazionali ufficiali dei paesi membri che sono 24.
Si definisce invece lingua internazionale una lingua adibita alla comunicazione fra stati o
istituzioni internazionali; la lingua internazionale per eccellenza oggi è l’inglese. Per lingua
nazionale s’intende invece una lingua che sia espressione del senso di appartenenza e di
identificazione nazionale della comunità che la usa. In una nazione in base allo statuto giuridico e
legale di una lingua, si può distinguere tra lingue riconosciute legislativamente e lingue non
riconosciute legislativamente. Fra le lingue riconosciute legislativamente ci sono le lingue ufficiali,
cioè la lingua dell’amministrazione statale ovvero la lingua adibita agli usi governativi e alle
comunicazioni internazionali; una nazione può avere più lingue ufficiali ad esempio la Svizzera che
ne conta 4 (italiano, francese, tedesco e romancio anche se essa è ritenuta lingua semi-ufficiale).
Molte volte accade che anche se in uno stato ci sono più lingue ufficiali, solo una è lingua
nazionale, cioè quella lingua che esprime l’identità nazionale; ad esempio in Lussemburgo le lingue
ufficiali sono il francese, il tedesco e il lussemburghese, ma solo il lussemburghese è lingua
nazionale. Si parla anche di lingue ufficiali regionali cioè quelle lingue che sono ufficiali soltanto
in alcune regioni o in alcuni territori di uno stato; il basco, ad esempio, è lingua ufficiale regionale
in Spagna.
Come già si è detto lo status di una lingua è definito anche da fattori di ordine demografico e sociale
cioè il numero di parlanti e rispetto al numero relativo di parlanti è importante il concetto di lingua
minoritaria, cioè quella lingua usata da una comunità di parlanti che si trovi in una situazione di
minoranza demografica all’interno di uno stato; si possono riconoscere 84 lingue minoritarie in
Europa, tra cui l’arabo in Spagna e l’italiano in Croazia e Slovenia. Riguardo ancora al numero di
parlanti esistono lingue grandi parlate da centinaia di milioni di persone nel mondo (cinese e
inglese), medie parlate da decine di milioni di persone (tedesco italiano e francese), medio-piccole
parlate da pochi milioni di persone (danese e armeno) e piccole parlate da migliaia o centinaia di
persone (romancio). Quanto al tipo di parlanti, si parla di lingua vernacolare, cioè una lingua
parlata in un paese da gruppi di parlanti nativi e di lingua franca cioè una lingua usata per la
comunicazione tra parlanti con lingue materne diverse; tra le principali lingue franche affermatesi
storicamente ci sono quelle del culto religioso come il sanscrito l’arabo e il latino e poi dal
Novecento l’inglese, affermatosi come lingua franca globale.
Infine un ultimo gruppo di attributi linguistici sono: 1)il grado di elaborazione, 2)il grado di
standardizzazione e 3)la vitalità di una lingua:
1) Il grado di elaborazione rimanda al concetto di lingua per elaborazione cioè una lingua dotata di
un sistema di scrittura consolidato e che soddisfi tutte le esigenze di una società legate ad attività
sociali, culturali e scientifiche. Raggiungono il grado massimo di elaborazione le lingue che sono
usate per pubblicare testi a tutti i livelli di sviluppo e su ogni tipo di argomento, compresi quelli di
livello universitario.
2) Il grado di standardizzazione è un parametro determinante per lo status di una lingua ed è inteso
come un processo diviso in 4 fasi: una prima (selezione) in cui si scelgono delle varietà di lingua
alla base dello standard, una seconda (codificazione) in cui si fissa il corpo di regole normative, una
terza (implementazione) che consiste nella diffusione e accettazione della norma in una comunità, e
una quarta (elaborazione) in cui si sviluppano le funzioni e i domini di impiego della nuova norma.
La cosa importante è che il processo di standardizzazione può ridefinire sempre ciò che è standard e
ciò che non è standard.
3) La vitalità di una lingua va intesa in due sensi perché si ha una vitalità esterna e una vitalità
interna:
- la vitalità esterna si fonda sugli usi di una lingua nella società e sulla continuità della sua
trasmissione da una generazione all’altra, ad esempio è vitale una lingua impiegata sia negli usi
parlati e sia negli usi scritti e formali;
- la vitalità interna riguarda il mantenimento delle caratteristiche strutturali e semantiche di una
lingua e la produttività delle sue regole; se una lingua non è vitale allora è minacciata cioè perde
progressivamente i domini di impiego e i parlanti correndo il rischio di estinguersi.
3.2 LINGUA STANDARD, DIALETTO, LINGUA MINORITARIA
Una lingua standard è una lingua che ha una varietà standard, cioè una varietà di lingua che
dispone di una norma codificata e che vale come modello di riferimento riconosciuto per l’uso
corretto della lingua; la varietà standard di una lingua unifica la popolazione che si riconosce
nell’uso di quella lingua anche perché le diverse produzioni linguistiche di parlanti di una stessa
lingua sono in qualche modo neutralizzate. Il concetto di standard può essere assunto in prospettiva
prescrittiva e descrittiva: in prospettiva prescrittiva lo standard è concepito come l’insieme delle
norme di riferimento che regolano l’uso corretto di una lingua; in prospettiva descrittiva lo standard
è inteso come un insieme di tratti linguistici unitari condivisi da un’intera comunità. Alcuni attributi
consentono di definire la nozione di standard e possiamo dire che lo standard è: 1) codificato, è
definito cioè dall’esistenza di regole normative di riferimento e sono fissate nelle grammatiche e nei
dizionari; 2) sovraregionale, le norme che costituiscono lo standard sono unitarie e perciò diffuse in
maniera indifferenziata in tutto il territorio nazionale; 3) elaborato, cioè adatto a tutti gli usi e a tutti
i domini di impiego di una lingua; 4) di prestigio, l’uso della varietà standard è praticato
principalmente dai ceti sociali alti e con un grado elevato di istruzione; 5) invariante, perché lo
standard è uniforme e non conosce variazione interna; 6) stabile e al tempo stesso flessibile, cioè è
fissato su stabilmente in sincronia ma può essere soggetto a cambiamento in diacronia; 7) scritto
poiché lo standard esiste principalmente in forma scritta. Tra tutti questi attributi il più importante è
la codificazione.
La formazione di uno standard è un processo che si caratterizza per l’intervento di 4 forze sociali
attive:
- I parlanti e gli scriventi professionisti (autori classici e contemporanei, ma anche giornalisti,
speaker della televisione e della radio) che forniscono testi modello ossia testi esemplari per
la codificazione;
- I codici linguistici cioè grammatiche e dizionari;
- Le autorità normative, ad es. gli insegnanti, che hanno il compito di correggere gli usi
linguistici devianti;
- Gli esperti di lingua (linguisti) che giudicano dell’appartenenza di tratti linguistici allo
standard.

Alla nozione di lingua standard si oppone quella di dialetto, cioè quel sistema linguistico
subordinato ad una lingua standard con la quale è strettamente imparentato e in confronto alla quale
ha una diffusione più limitata ma un dialetto ha una propria storia e una propria struttura diversa
dalla lingua standard, ad esempio i dialetti italiani come il campano o i dialetti italo-romanzi sono
subordinati all’italiano nel senso che il dialetto copre gli usi bassi cioè quelle situazioni sociali non
impegnative, mentre la lingua standard è utilizzata per gli usi alti cioè quelle situazioni sociali più
formali. I dialetti italo-romanzi o dialetti primari hanno una certa distanza strutturale
dall’italiano e una propria storia autonoma e parallela al dialetto che poi è diventato lingua standard.
Ne è esempio il fiorentino, che venne progressivamente ad acquisire prestigio fino ad essere
codificato come italiano standard nel Cinquecento.
A questo proposito è utile introdurre il concetto di lingua per distanziazione, cioè una lingua
riconosciuta come lingua a sé in virtù delle proprie caratteristiche strutturali che la differenziano da
altre lingue. La distanza linguistica è tuttavia difficile da quantificare e per fare una valutazione
attendibile si deve tener conto di criteri sociologici e criteri linguistici; tra i criteri sociologici c’è il
grado di reciproca comprensibilità tra i parlanti di sistemi linguistici diversi, mentre tra i criteri
linguistici si guarda alle differenze tra il lessico fondamentale (ad esempio i termini utilizzati per le
parti del corpo) e tutti gli altri livelli di analisi; ed è proprio questo che rende difficile
l’individuazione della distanza effettiva nella variazione linguistica.
Come ogni lingua, anche un dialetto ha delle variazioni interne, cioè presenta delle forme diverse ed
è quindi articolato al suo interno in diversi modi, per esempio nel dialetto campano che si parla in
ogni comune dell’isola d’Ischia sono presenti tante varietà dialettali (ad Ischia domani  dimàn e a
Forio domani  crej). La variazione interna è molto evidente in un dialetto, considerando che esso
è impiegato quasi unicamente nel parlato che non è esposto all’azione di regole normative
codificate. In linea di principio, infatti, per definizione, un dialetto è poco o per nulla codificato e
quindi non è standardizzato. Può anche accadere che per ragioni culturali e letterarie o anche
politiche, un dialetto acquisisca prestigio guadagnando cioè uno status in modo da poter essere
utilizzato negli usi alti e quindi viene codificato come standard; a questo punto un dialetto diventa
esso stesso una lingua standard. Le differenza tra lingua e dialetto infatti è di natura sociale e
sociolinguistica e non linguistica perché riguardano la posizione sociale occupata da un sistema
linguistico in una comunità e non la struttura di quel sistema linguistico: è il caso del fiorentino.
E’ importante stabilire la differenza tra dialetti primari, secondari o terziari:
- Dialetti primari: sono gli idiomi coevi del dialetto dal quale si è sviluppata la lingua standard
e quindi già esistevano prima della promozione di questo a standard. Esempi di dialetti
primari sono i dialetti italo-romanzi;
- Dialetti secondari o terziari: sono varietà geografiche di una lingua. Più precisamente i
dialetti secondari risultano dalla diffusione di una lingua comune mentre i dialetti terziari
dalla diffusione di una lingua standard infatti i dialetti terziari sono proprio le varietà
regionali di italiano cioè gli italiani regionali.
Comunque secondo il modello di Auer, il dialetto è ogni varietà di lingua di estensione geografica
inferiore allo standard, quindi i tipi di dialetto non hanno naturalmente la stessa estensione
geografica. Auer determina la configurazione propria di molte situazioni sociolinguistiche europee
col termine diaglossia e contraddistingue due tipi di repertorio linguistico: dilalìa e bidialettismo.
Auer rappresenta la diaglossia come un cono al cui vertice troviamo lo standard, che è unitario e
destinato agli usi alti, alla base del cono ci sono i dialetti che sono propri degli usi bassi; alla base
del cono c’è anche una freccia rivolta verso l’alto che illustra il processo di convergenza verticale,
cioè come i dialetti tendano a svilupparsi linguisticamente in direzione della lingua standard
portando così alla riduzione delle differenze strutturali tra due sistemi linguistici di una lingua.
Questo processo forma un continuum di varietà intermedie, i “regioletti” che rappresentano varietà
socio-grafiche della lingua standard e si contraddistinguono per la presenza di tratti linguistici
derivati dai dialetti ma non per questo non possono sviluppare tratti innovativi. Prototipicamente
nella convergenza, l’avvicinamento strutturale è reciproco ma nel modello di Auer non è reciproco
bensì unilaterale cioè dai dialetti verso la lingua standard; in casi come questi in cui uno dei due
sistemi linguistici rappresenta il modello verso il quale l’altro sistema si orienta si parla più
propriamente di advergenza. Lo standard, dal canto suo, come indica la freccia al vertice del cono,
tende progressivamente a guardare verso il basso mostrandosi sempre più ricettivo nei confronti di
tratti linguistici delle diverse varietà regionali. La diaglossia prevede infatti la formazione di
standard regionali: all’interno di una certa area geografica, l’impiego di alcuni tratti regionali tende
cioè a convenzionalizzarsi e ad essere accettato anche negli usi “alti”.
Una lingua minoritaria, detta a volte eteroglossia, è la lingua usata all’interno di uno Stato da parte
di una comunità linguistica in situazione di minoranza demografica ed è generalmente diversa dalla
lingua ufficiale/comune dello Stato in cui è usata. Generalmente una lingua minoritaria ha valore
simbolico di identità etnica o culturale per la comunità che la usa. Alla comunità che parla una
lingua minoritaria ci si riferisce col termine minoranza linguistica. Si distingue inoltre tra le lingue
minoritarie e le lingue di immigrazione poiché le prime sono quelle lingue la cui presenza in un
certo territorio è radicata storicamente e le seconde quelle la cui presenza è dovuta a un apporto
immigratorio recente. In Italia esistono varie lingue minoritarie come il francese in Valle D’Aosta,
il ladino dolomitico e il sardo. Le lingue minoritarie sono particolarmente inclini a diventare lingue
minacciate o lingue in via d’estinzione: si tratta di lingue che perdono progressivamente domini di
impiego e parlanti perché esposte alla presenza di una lingua socialmente e culturalmente
dominante cioè la lingua ufficiale dello Stato.
Inoltre, alcune lingue minoritarie si definiscono in relazione a entità politico-amministrative di altra
natura rispetto a quella di uno Stato. E’ il caso ad esempio delle cosiddette eteroglossie interne in
Italia ovvero quei dialetti italo-romanzi parlati in aree geografiche nelle quali il dialetto di
riferimento parlato nelle aree circostanti è storicamente un altro.
Un aspetto rilevante nei rapporti tra lingue, dialetto e lingua minoritaria, è il concetto di copertura
col quale si intende il fatto che una lingua, nel territorio in cui è parlata, abbia una un’altra lingua
strettamente imparentata con essa in quanto lingua di cultura e modello normativo di riferimento,
cioè una lingua ha “sopra di sé” una lingua ad essa imparentata utilizzata sia nella scuola che
nell’amministrazione statale; questa lingua sovraordinata è chiamata “lingua tetto”, mentre la
lingua subordinata è detta “lingua con tetto” o coperta. Ad esempio i dialetti italo-romanzi sono
parlati in un paese in cui la lingua standard è una lingua dello stesso ramo linguistico, l’italiano, che
è lingua dell’istruzione scolastica e lingua ufficiale: dunque l’italiano è la lingua tetto mentre i
dialetti sono le lingue con tetto.
3.3 REPERTORI LINGUISTICI E PLURILINGUISMO
La lingua standard, il dialetto e la lingua minoritaria sono compresenti all’interno di uno stesso
repertorio linguistico; esso è l’insieme delle lingue e delle loro varietà usate da una certa comunità
linguistica. Si possono avere sia repertori monolingui sia repertori plurilingui e si parla di repertori
bilingui quando le lingue compresenti sono due e di repertori multilingui quando le lingue sono più
di due. Il plurilinguismo è un termine comune per designare sia le situazioni bilingui che quelle
multilingui. Una distinzione preliminare quando si parla di plurilinguismo è quella tra bilinguismo
sociale, prendendo come riferimento una comunità o un gruppo, e tra bilinguismo individuale,
prendendo come riferimento un solo individuo. E’ multilingue il repertorio linguistico della
comunità italiana che è costituito dall’italiano, dai dialetti italo-romanzi e dalle varie lingue
minoritarie.
I repertori plurilingui presentano una certa configurazione di dominanza cioè una situazione che
vede una lingua dominare sull’altra o sulle altre in base a criteri come la frequenza d’uso, le
funzioni a cui è adibita e l’utilità nella comunicazione. Nel repertorio linguistico del nostro paese
c’è una configurazione di dominanza molto netta in cui la lingua di gran lunga dominante è sempre
l’italiano.
Occorre anche distinguere tra repertorio linguistico comunitario dal repertorio linguistico
individuale. Il repertorio linguistico dell’individuo può essere anch’esso monolingue e plurilingue
e si caratterizza per l’esistenza di rapporti gerarchici tra le lingue a disposizione; un parlante non ha
accesso a tutte le lingue del repertorio linguistico della comunità ma condivide con tutti gli altri
membri della comunità le norme di impiego e le informazioni relative allo status di quelle lingue.
Introduciamo ora alcune distinzioni utili a definire tipi diversi di bilinguismo cioè di compresenza
di due o più lingue:
1) - bilinguismo endogeno o endocomunitario = indica la compresenza storicamente radicata di
due o più lingue;
- bilinguismo esogeno o esocomunitaro = indica la compresenza di due o più lingue dovuta da un
apporto esterno immigratorio in età contemporanea. In Italia ad esempio un fenomeno di
bilinguismo endogeno riguarda l’italiano e i dialetti italo-romanzi da sempre presenti in Italia,
mentre è un fenomeno recente la presenza di lingue di immigrazione come il romeno, l’albanese e il
cinese.
2) - bilinguismo monocomunitario = quando in uno stato o in una regione sono parlate due o più
lingue e quasi tutti i parlanti di quella comunità siano bilingui; ad esempio si ha bilinguismo
monocomunitario in Lussemburgo dove c’è il francese, tedesco e lussemburghese, oppure in Valle
d’Aosta.
- bilinguismo bicomunitario = quando in una certa regione esistono due o più sotto-comunità
diverse nelle quali si parlano lingue diverse e gli abitanti non siano bilingui, ad esempio in Cipro c’è
il greco e il turco.
3) - bilinguismo di diritto = la compresenza di due lingue è riconosciuta ufficialmente nella
legislazione e nelle istituzioni;
- bilinguismo di fatto = manca di riconoscimento giuridico. In Grecia ad esempio il bilinguismo
delle comunità di lingua turca, bulgara, albanese e macedone è soltanto di fatto poiché il greco è
l’unica lingua a godere di riconoscimento ufficiale.
In un comunità le lingue occupano quindi posti sociali diversi a seconda dei loro usi; infatti esistono
tipi funzionali di repertorio linguistico e si può distinguere tra:
- Un tipo di repertorio che non prevede una distribuzione funzionale gerarchica delle lingue
ed è chiamato bilinguismo sociale. In altre parole vi è la compresenza di due lingue diverse
sia per distanziazione che per elaborazione e vengono utilizzate senza differenziazione
funzionale tra usi alti e usi bassi nel parlato e nello scritto; un esempio tipico è quello della
Valle d’Aosta dove vi è un bilinguismo sociale italiano/francese anche se l’italiano è molto
più utilizzato del francese;
- Un tipo di repertorio che si basa sulla compresenza di lingue differenziate. SI riconoscono re
tipi diversi di repertori di questo genere: diglossia, dilalia e bidialettismo:
- DIGLOSSIA = un repertorio linguistico in cui ci sono due lingue diverse sul piano
strutturale ma delle quali soltanto una lingua (A) è pienamente elaborata e standardizzata,
gode di una prestigiosa tradizione letteraria, è appresa attraverso la scolarizzazione, dunque
non nella socializzazione primaria, ed è usata nello scritto e nel parlato formale quindi non
nella conversazione ordinaria; l’altra lingua (B) è appresa nella socializzazione primaria ed è
usata dalla comunità solo nel parlato informale e quindi non si va a sovrapporre alla lingua
più “alta”: esempi di diglossia sono italiano (lingua A) e dialetti italo-romanzi (lingua B)
oppure francese (lingua A) e creolo (lingua B) ad Haiti;
- DILALIA = si oppone alla diglossia e si ha quando all’interno di una stessa comunità sono
compresenti due lingue strutturalmente diverse e vi è una chiara distinzione funzionale tra
lingua per gli usi alti e la lingua per gli usi bassi. Diversamente dalla diglossia, la dilalia non
è compartimentata nel modo rigido della diglossia: esistono domini in cui l’uso di una delle
due lingue è esclusivo ma anche domini in cui sono usate e accettate entrambe le lingue; in
particolare sia A che B sono impiegate nella conversazione ordinaria. In Germania c’è il
tedesco (lingua A) e i dialetti (lingua B) ad eccezione delle grandi città che tendono al
monolinguismo;
- BIDIALETTISMO O POLIDIALETTISMO = quando nel repertorio coesistono non due
lingue strutturalmente diverse ma due varietà di una stessa lingua: una varietà standard A e
una o più varietà geografiche e sociali B ed esistono domini in cui sono usate sia A che B
(non si parla mai di bilinguismo in questo caso perché non si tratta di due lingue diverse ma
di due varietà di una stessa lingua). Di solito solo B è impiegata nella comunicazione
ordinaria perché B non è standardizzata, non ha una tradizione di impiego letterario ed è
socialmente marcata. Si ha bidialettismo ad esempio in Inghilterra e nei centri urbani della
Francia.

Un altro importante fenomeno è quello della DIACROLETTIA (diacrolettìa) che è molto simile
alla dilalìa ma nella diacrolettia c’è la compresenza di A e B non nella conversazione ordinaria e
negli usi bassi ma nello scritto e negli usi alti. La diacrolettìa rappresenta in sociolinguistica
un’invasione nei domini alti linguistici della varietà B mentre la dilalìa rappresenta un’invasione di
A nei domini bassi di una varietà.
3.4 CONTATTO LINGUISTICO
La compresenza di due o più lingue nel repertorio linguistico di una comunità o di un individuo e
l’esistenza di rapporti tra comunità o individui di lingue diverse dà luogo a una situazione di
contatto linguistico ed essa può essere considerata dalla prospettiva dai parlanti e dalla prospettiva
dei sistemi linguistici; nella prima prospettiva due lingue sono in contatto quando sono
padroneggiate entrambe in qualche misura da uno o più parlanti; nella seconda prospettiva due
lingue sono in contatto quando le loro strutture sono esposte all’azione dell’una sull’altra, cioè
quando sono soggette al trasferimento dall’una all’altra di elementi linguistici (fonemi, parole e
significati). Due o più lingue possono essere in contatto tra loro anche in assenza di parlanti
bilingui, infatti è sufficiente che sussistano dei rapporti tra comunità o parlanti di lingue diverse tali
per cui una lingua sia rappresentata in qualche ambito di usi presso una comunità di un’altra lingua
affinché si parli di contatto linguistico. Ad esempio si può dire che la gran parte delle lingue del
mondo oggi è a contatto con l’inglese a prescindere dall’esistenza di situazioni individuali di
bilinguismo con l’inglese. Si hanno situazioni di contatto differenti in dipendenza da fattori sociali e
culturali e una distinzione utile può essere quella tra contatto orizzontale e verticale: il contatto
orizzontale è quando le lingue coinvolte sono comparabili sul piano del prestigio e dell’importanza
socioeconomica e culturale; il contatto verticale è quando una delle due lingue ha un prestigio
maggiore ed è socio economicamente e culturalmente dominante rispetto all’altra. Il contatto tra due
lingue poi può anche essere unidirezionale e bidirezionale: nel contatto unidirezionale è una sola
delle due lingue in contatto ad accogliere elementi dall’altra; nel contatto bidirezionale il
trasferimento di elementi è reciproco e nel momento in cui un elemento viene trasferito da una
lingua ad un’altra, la lingua che dà l’elemento è detta lingua fonte, mentre la lingua che riceve è
detta lingua ricevente.
Quando due lingue entrano in contatto possono avvenire fenomeni di prestito e interferenza:
-Prestito = Il caso più tipico di prestito è il trasferimento di elementi lessicali; il prestito di parole è
tipico nel funzionamento di ogni lingua, ad esempio l’italiano ha preso in prestito molti termini
dall’inglese come puzzle, talk show, reality, e-book. Tuttavia i prestiti hanno sempre una fase di
adattamento alle regole della lingua ricevente finendo così per essere integrati nel sistema della
lingua in cui entrano. Dal punto di vista fonetico l’inglese puzzle (pazl) diventa in italiano pazol o
puzle cosi come reality (riality) diventa in italiano reality; l’adattamento può anche avvenire a
livello morfologico per cui si hanno verbi in italiano come linkare o cliccare.
- Interferenza = A livello lessicale si possono avere anche fenomeni di interferenza. Il caso più
tipico è quello del calco. Una distinzione essenziale è quella tra calco strutturale e calco
semantico: nel primo caso cambia la struttura interna della parola (skyscarper diventa grattacielo
come cold war diventa guerra fredda); nel secondo caso cambia il significato della parola (corner
che significa angolo in italiano si usa con il significato di calcio d’angolo).
Le manifestazioni del contatto nel discorso vengono trattate sotto il nome di commutazione di
codice (o code switching) che comprende diversi tipi di fenomeni:
- Alternanza di codice = l’uso di lingue diverse nello stesso discorso con interlocutori diversi,
a ciascuno dei quali ci si rivolge in una lingua;
- Commutazione interfrasale = con uno stesso interlocutore si producono frasi in lingue
diverse e il passaggio da una lingua all’altra avviene al confine di frase;
- Commutazione intrafrasale = con uno stesso interlocutore si usano diverse lingue in una
stessa frase e la commutazione all’interno dei confini di frase;
- Commutazione extrafrasale o tagswitching (espressione che riprende il termine tag nel
senso di “frase fatta”) = quando la commutazione di codice coinvolge elementi non integrati
nella struttura sintattica frasale, come interiezioni e marcatori discorsivi.
Come fenomeni di commutazione di codice vengono spesso trattate anche le manifestazioni del
contatto al di sotto del livello della parola, il cui risultato sono parole costruite con morfemi
provenienti da due lingue diverse; tali parole sono definite anche ibridismi (ad esempio dribblare
che significa effettuare un dribbling).
La nascita di lingue è uno dei possibili esiti del contatto linguistico. Si parla spesso in questi casi di
lingue di contatto cioè lingue nate dal contatto con altre lingue e sono formate da elementi non
riconducibili primariamente ad un’unica lingua. Si distinguono tre tipi di lingue di contatto:
LINGUE MISTE, PIDGIN e CREOLI.
- LINGUA MISTA = Nasce in situazioni di plurilinguismo per ragioni comunicative
differenti e si compone di forme e strutture provenienti da due lingue. In alcuni casi la
grammatica proviene da una lingua e il lessico dall’altra e in altri casi le due lingue di
partenza contribuiscono entrambe sia alla grammatica sia al lessico.
- PIDGIN = Nasce per adempiere alla comunicazione tra gruppi di parlanti con lingue
materne diverse, tipiche di situazioni migratorie o coloniali, e funziona quindi da lingua
franca. Nasce per soddisfare bisogni comunicativi essenziali relativi a rapporti di lavoro o di
commercio oppure dettati da questioni di sopravvivenza. Un pidgin è un sistema linguistico
semplificato che presenta fenomeni di semplificazione che rendono la grammatica autonoma
e ben diversa da quella delle lingue di partenza (questo è il carattere principale che distingue
un pidgin da una lingua mista). Tra i pidgin i più importanti c’è il Tok Pisin (parlato in
Papua Nuova Guinea in cui è lingua ufficiale insieme all’inglese) e ha quindi l’inglese come
lingua lessicalizzatrice. Un pidgin non ha parlanti nativi perché non è di per sé lingua
materna di un gruppo di parlanti. Col tempo però tuttavia il pidgin può essere trasmesso
come lingua materna presso una comunità di parlanti: quando ciò accade, un pidgin si
sviluppa in creolo.
- CREOLO = Come lingua materna, e quindi come strumento di comunicazione principale, di
una comunità, un creolo è quindi utilizzato non solo per i bisogni comunicativi essenziali ma
viene usato in domini di impiego diversificati e sviluppa un lessico e una grammatica più
elaborati di quelli del pidgin da cui ha origine.
L’altro esito estremo del contatto linguistico è la morte di una lingua: una lingua minacciata che
sotto la pressione di una lingua socialmente e culturalmente dominante perde progressivamente
domini sociali di impiego, può finire per non avere più parlanti nativi e quindi estinguersi. Questo è
il processo di regressione o obsolescenza linguistica ed è provocato sostanzialmente dal ridursi
delle motivazioni effettive di impiego di una lingua e quindi dal venir meno della volontà dei
parlanti di trasmettere quella lingua alle generazioni successive. Il termine che denota il realizzarsi
del processo a livello di repertorio linguistico è sostituzione linguistica e tale processo può
interessare sia una o più comunità linguistiche e in Italia molte lingue minoritarie e vari dialetti sono
interessati da processi di obsolescenza.
Il contatto linguistico può anche portare ad altre conseguenze, ad esempio può innescare fenomeni
di convergenza verticale come tra dialetti e lingua standard e di convergenza orizzontale, cioè tra
varietà alla pari. Esempi di fenomeni di convergenza orizzontale sono i processi di koineizzazione:
si tratta di un processo diviso in 2 fasi: la prima fase è caratterizzata dalla mescolanza caotica di
tratti linguistici provenienti da varietà differenti e la seconda fase è una fase di livellamento delle
differenze vernacolari più marcate. Un processo di koineizzazione può anche sfociare
nell’emergenza di una nuova varietà di lingua portando alla formazione di una koinè cioè una
varietà di contatto costituita da tratti linguistici di più varietà. Un esempio di koineizzazione è in
Ticino dove la comunicazione tra parlanti di dialetti ticinesi diversi, in contatto quotidiano ad
esempio per lavoro, si caratterizza per la rinuncia di tratti vernacolari più marcati.
Un altro esito del contatto linguistico è la formazione di interlingue. Ciò avviene tipicamente in
situazioni migratorie in cui la lingua degli apprendenti è la lingua di partenza e la lingua dominante
è la lingua d’arrivo. In queste situazioni, tra la lingua di partenza e la lingua di arrivo si crea un
continuum di interlingue, ciascuna delle quali è regolata da una grammatica in continua evoluzione
che gli apprendenti “costruiscono” in parte in base alle caratteristiche della lingua degli apprendenti
e in parte in base a principi universali.
3.5 PIANIFICAZIONE LINGUISTICA
La posizione sociale di una lingua può essere soggetta ad interventi programmati a modificarla, e
l’insieme di questi provvedimenti linguistici, politici e legislativi per conferire lo status alla lingua e
per migliorare la posizione sociale delle lingue svantaggiate va sotto il nome di pianificazione
linguistica. Occorre distinguere tra pianificazione linguistica e politica linguistica: la politica
linguistica è l’insieme di azioni, specialmente pubbliche e ad opera delle istituzioni, volte a
diffondere determinate concezioni ideologiche dei rapporti tra le lingue e ad orientare i
comportamenti linguistici dei membri una società nei confronti delle lingue del repertorio. Sono
interventi di politica linguistica le prese di posizione istituzionali a difesa dell’uso di determinate
lingue o le sanzioni scolastiche relative all’uso corretto di un lingua.
Oggigiorno in Europa si attua la pianificazione linguistica per tutelare e rivitalizzare le lingue
minoritarie o minacciate a causa della perdita progressiva di domini d’uso e di parlanti. Tutto ciò
viene fatto attraverso l’utilizzo di queste lingue in una serie di funzioni per aumentarne lo status. Le
attività di rivitalizzazione sono il corpus planning e lo status planning: il corpus planning
interviene sulla forma interna e sui tratti linguistici affinché possa adempiere ad una serie di
funzioni individuando le varietà da prendere a riferimento per la costruzione della norma; lo status
planning consiste da un lato nella regolamentazione normativa dei diritti linguistici di una
popolazione, cioè nell’attuazione a livello giuridico e legislativo dei diritti di singoli individui o di
collettività, dall’altro lato consiste nella promozione sociale di quella lingua, per rafforzarne i
domini di impiego e aumentarne il numero di parlanti.
A questo proposito è fondamentale la trasmissione intergenerazionale cioè che la lingua sia
tramandata di generazione in generazione, altrimenti gli interventi di pianificazione possono solo
potenziarne l’uso sociale favorendone gli atteggiamenti positivi, ma non ne incrementeranno l’uso.
Infine, un campo di studio di recente sviluppo è dato dall’analisi del paesaggio linguistico. Con
questo termine, s’intende la presenza visuale delle lingue nella società e nel paesaggio di un dato
territorio in scritte, insegne, nella pubblicità, su monumenti ecc., vale a dire in tutti i segni di
carattere pubblico e commerciale scritti in linguaggio verbale presenti in una determinata area.
CAPITOLO 4

SOCIOLINGUISTICA E VARIAZIONE

4.1 LA VARIAZIONE SOCIOLINGUISTICA

Una lingua di solito permette una certa quantità di realizzazioni diverse delle sue forme e dei suoi
costrutti, ma soprattutto i parlanti di una lingua la usano in maniera diversa a seconda della loro
collocazione sociale, del loro grado di istruzione, degli ambenti e delle situazioni a cui si trovano a
partecipare. L’insieme di queste differenze di utilizzo è definito “variazione”. La variazione è una
proprietà universale del linguaggio umano di assumere forme diverse e di presentarsi sotto
manifestazioni differenti; tutte le lingue storico-naturali conoscono variazione al loro interno.

4.2 VARIABILI SOCIOLINGUISTICHE

Una delle nozioni importanti è quella di variabile sociolinguistica, cioè un insieme di modi diversi
di dire la stessa cosa, ognuno dei quali è correlato a qualche tratto extralinguistico. Ciascuno di
questi modi diversi è una variante. Una delle varianti di una variabile è sempre la variante standard.
Tra i diversi fattori extralinguistici che entrano in correlazione con varianti di variabili ci sono la
provenienza geografica e il livello di istruzione del parlante.

4.2.1 VARIABILI E LIVELLI DI ANALISI


Una variabile sociolinguistica può anche essere definita come un punto del sistema linguistico che
ammette realizzazioni diverse equivalenti, ciascuna delle quali in co-variazione con tratti
extralinguistici. Questa definizione consente di discutere i due principi definitori della nozione di
variabile sociolinguistica: il principio dell’equivalenza semantica e il principio dell’identità di
struttura. I due principi esprimono le caratteristiche che devono possedere le varianti di una stessa
variabile per poter effettivamente parlare di variabile sociolinguistica. Il principio dell’equivalenza
semantica afferma che l’uso alternativo delle varianti di una variabile non deve causare
cambiamenti di significato; il principio dell’identità di struttura afferma che l’uso alternativo delle
varianti non deve comportare cambiamenti di struttura linguistica. Il concetto stesso di variabile
sociolinguistica poggia quindi su una concezione della variazione come proprietà di un punto del
sistema, cioè di un’unità della lingua di assumere forme diverse e manifestazioni concrete,
rimanendo però la stessa unità nel suo valore.
La nozione di variabile sociolinguistica è stata concepita inizialmente per dare conto di fenomeni di
variazione a livello fonologico, in cui allofoni di uno stesso fonema vengono pronunciati in modo
diverso ma rispettano fedelmente il principio dell’equivalenza semantica e quindi la differenza di
pronuncia non comporta cambiamenti né nella struttura della parola né nella struttura della frase,
rispettando così il principio dell’identità di scrittura. A questo punto la nozione di variabile si può
estendere ad altri livelli; questo però comporta problemi quando la variazione riguarda elementi che
portano significato autonomo ed è importante definire bene cosa sia l’equivalenza semantica.
Mentre per il livello fonetico/fonologico è sufficiente considerare il significato denotativo, a livelli
superiori di analisi si deve prendere in conto anche il significato pragmatico e contestuale. A livello
sintattico, i costrutti diversi possono essere considerati varianti di una variabile nei contesti in cui
tali costruzioni siano equivalenti sul piano del significato contestuale e pragmatico, e anche se non
sono identiche sul piano strutturale, svolgano la stessa funzione grammaticale. Secondo Lavandera,
ad esempio, una costruzione passiva e una costruzione apparentemente attiva possono essere
considerate varianti di una stessa variabile.
La nozione di variabile sociolinguistica è anche estendibile al lessico e più precisamente alla
variazione onomasiologica, riguardante cioè i diversi nomi che può assumere una stessa cosa:
l’uso di parole diverse per designare uno stesso significato può comunque rappresentare una
variabile sociolinguistica. Ne è esempio una serie di geosinonimi italiani come figliolo, guaglione,
caruso e picciotto, che sono varianti della variabile ragazzo, ciascuna delle quali in relazione alla
provenienza regionale dei parlanti. In molte lingue sono tante le variazioni lessicali sensibili
all’opposizione tra formalità ed informalità: ad esempio in italiano “coraggio” e fegato” possono
essere considerate varianti di una stessa variabile, ordinate dalla più alla meno formale. Si è notato
che a tutti i livelli di analisi, per il concetto di variabile sociolinguistica è centrale il fatto che
l’elemento invariabile è il significato, mentre l’elemento che varia è il significante. In linea di
principio quindi non è possibile trovare nella variabile sociolinguistica una qualche variazione
semantica, in quanto essa presenta una natura diversa dalle altre variazioni.

4.3 REGOLE VARIABILI

Il comportamento di una variabile è espresso mediante la formazione di una regola variabile. La


regola variabile è una regola realizzata variabilmente, cioè non in modo categorico e obbligatorio,
ma con elementi diversi che dipendono da fattori contestuali, linguistici ed extralinguistici. La
regola quindi descrive un certo pattern di variazione, che è dato dai fattori linguistici ed
extralinguistici, che influiscono sulla realizzazione delle varianti di una variabile, e dai rapporti
gerarchici esistenti tra questi fattori. A ciascun fattore linguistico la regola assegna un indice di
probabilità di influenzare la realizzazione della regola ed è calcolata a partire da dati empirici
relativi alla frequenza con cui il fenomeno in questione si verifica in un certo corpus, rispetto a
ciascuno di quei fattori. Le regole variabili presentano dei problemi in quanto nella loro concezione
primaria sono intese come un’estensione del modello generativista della competenza di un parlante
nativo; inoltre la variabilità di una regola viene incorporata nella competenza grammaticale del
parlante nativo.

4.5 MODELLI DI VARIAZIONE


Il concetto di variabile sociolinguistica poggia su una concezione di variazione come proprietà di
punti del sistema linguistico di essere realizzati con forme superficiali differenti e correlati a
significati sociali diversi. Nel modello laboviano di variazione: a) la variazione occupa una
posizione interna al sistema linguistico; b) la variazione opera in superficie, cioè preserva
l’invariabilità delle strutture interne; c) l’individuo nativo di una lingua ha competenza di una sola
grammatica, che quindi contiene al suo interno la variabilità; d) la grammatica dell’individuo
corrisponde alla grammatica di una comunità linguistica; e) i membri di una stessa comunità
linguistica condividono uno stesso insieme di regole; f) le regole sono realizzate variabilmente; g) i
giudizi di grammaticalità dei parlanti non riflettono differenze strutturali.
Secondo l’approccio generativista tradizionale, la variazione è data dalla scelta tra regole diverse,
ciascuna delle quali realizzata categoricamente laddove la scelta tra regole diverse corrisponde alla
scelta tra grammatiche diverse. Questi modelli collocano la variazione in una posizione esterna al
sistema linguistico, in quanto la variazione è data dalla scelta di un sistema linguistico differente.
Da più di 50 anni si parla di programma minimalista: esso tende a ridurre l’apparato teorico per
spiegare le frasi al minimo indispensabile, in cui rimangono una serie ridotta di principi e parametri
che operano sulla grammatica universale.
4.6 MUTAMENTO E VARIAZIONE
La variazione non è un sinonimo di mutamento, in quanto con variazione si intende la proprietà
delle lingue di presentarsi in forme diverse nei comportamenti dei parlanti ed essa è un fatto
tipicamente sincronico; con mutamento si intende il carattere delle lingue di subire cambiamenti col
passare del tempo ed è quindi un fatto diacronico. Nonostante ciò, la variazione e il mutamento
sono in stretto rapporto tra di loro e i fenomeni di mutamento linguistico sono generalmente
alimentati da fenomeni di variazione linguistica. Le lingue sono sempre in costante movimento e
affinché si abbia un completo mutamento linguistico, occorre che una nuova forma o struttura si
diffonda e sia accettata da una comunità parlante attraverso un itinerario: nella prima fase avviene
l’introduzione di una forma nuova nella produzione linguistica di un parlante, nella seconda fase
avviene la diffusione di questa forma nel comportamento linguistico del parlante, nella terza fase
c’è la diffusione di questa forma nel comportamento linguistico di altri parlanti e nella quarta fase
avviene l’adozione generalizzata di questa forma che sancisce il mutamento. Quindi il fenomeno del
mutamento consiste nella sostituzione di una variante con un’altra variante, ad esempio nelle forme
del passato e del participio passato di verbi forti dell’inglese come per “to know” le varianti
standard “I knew” e “I have known” con varianti sub-standard “I knowed” e “I have knowed”;
questo appare come uno sviluppo futuro del paradigma del verbo “to know”.
Nell’impostazione di Labov, c’è chiara la distinzione tra mutamenti linguistici dal basso e
mutamenti linguistici dall’alto: i mutamenti dal basso hanno origine nei gradini più bassi della
scala sociale e nel parlato spontaneo; i mutamenti dall’alto sono introdotti nelle classi sociali
dominanti e interessano fenomeni di variazione nel sociale in quanto toccano tratti linguistici che
godono di un certo prestigio in una comunità. Un esempio di variazione dal basso è di sicuro la
sostituzione di una variante che risulta difficile con una variante sub-standard più comprensibile e
più naturale; un esempio di variazione dall’alto è la diffusione della variante di prestigio della
variabile (r) nell’inglese di New York.

4.7 DIMENSIONI DI VARIAZIONE


Nella sociolinguistica europea, si fa corrispondere allo spazio geografico, le classi sociali e le
situazioni comunicative una dimensione della variazione sincronica della lingua, cioè un particolare
modo di manifestazione della lingua, per come essa si presenta in un certo momento temporale e
calata nei suoi usi sociali. In ogni lingua ci sono quindi diverse dimensioni di variazione sincronica:
1) Diatopia: la lingua varia attraverso lo spazio geografico e questo genera la variazione diatopica
che è quindi connessa alla provenienza e la distribuzione geografica dei parlanti;
2) Diastratia: la lingua varia attraverso la stratificazione sociale e questo genera la variazione
diastratica che comprende fenomeni linguistici collegati all’identità sociale dei parlanti ma anche al
gruppo sociale di appartenenza, il sesso e l’età dei parlanti;
3) Diafasia: la lingua varia attraverso le situazioni comunicative e genera la variazione diafasica di
cui si riconoscono due sottodimensioni: variazione di sottocodice e variazione di registro;
4) Diamesia: la variazione diamesica dà conto del fatto che una lingua varia a seconda del canale
fisico di comunicazione (fonico o grafico) dando luogo all’opposizione tra scritto e parlato;
5) Diacronia: la lingua varia naturalmente nel corso del tempo e conosce quindi dei mutamenti nel
corso della propria evoluzione storica.
Le dimensioni di variazione sono in rapporto tra di loro e ci sono due piani diversi di rapporti fra
dimensioni di variazione: su un primo piano c’è la variazione primaria, la diatopia, che caratterizza
per prima qualsiasi messaggio linguistico collocandolo immediatamente nei termini della
provenienza geografica di un certo parlante; su un secondo piano c’è la diastratia in cui si riconosce
un insieme di tratti linguistici marcati in diatopia e alcuni di questi sono propri di parlanti con
collocazione sociale alta e altri di parlanti di collocazione sociale bassa; infine su un terzo piano c’è
la variazione diafasica che avviene all’interno delle altre due.

4.7.1 DIAFASIA E DIAMESIA

La variazione diafasica presenta due sottodimensioni: la variazione di sottocodice e la variazione di


registro. La variazione di sottocodice è il variare della lingua in dipendenza dalla natura
dell’attività svolta nella situazione e dall’argomento di riferimento del discorso; i sottocodici, detti
anche linguaggi settoriali o microlingue, sono caratterizzati da un lessico speciale connesso a
particolari settori di attività (come la medicina, l’informatica e l’economia); la variazione di
registro è determinata dai ruoli sociali e comunicativi dei partecipanti ad un’interazione verbale e si
manifesta nel grado di distanza sociale e comunicativa tra questi. I registri si collocano su una scala
che va dal massimamente formale al massimamente informale e mentre i sottocodici sono
caratterizzati sul piano del lessico.

La variazione diamesica può essere considerata un’ulteriore sottodimensione della variazione


diafasica essendo il canale di comunicazione fondamentalmente un carattere di situazione
comunicativa. Lo scritto tende di solito a condividere le caratteristiche tipiche dei registri molto
formali mentre il parlato, per via della sua natura più spontanea, tende a condividere i tratti tipici dei
registri molto informali. Per quanto riguarda la dicotomia fra scritto e parlato, occorre introdurre
una quadipartizione:

- Parlato grafico = la trascrizione dei testi orali;


- Scritto grafico = la comunicazione scritta tradizionale;
- Parlato fonico = il parlato conversazionale spontaneo;
- Scritto fonico = la lettura di testi scritti o la recitazione.

Se lo scritto è la lingua della distanza comunicativa, il parlato è la lingua della vicinanza, o


immediatezza, comunicativa. In questa prospettiva, scritto e parlato si oppongono fra di loro sulla
base di parametri come:

- Pubblicità: alta nello scritto e bassa nel parlato;


- Confidenza o familiarità fra i partecipanti all’interazione: bassa nello scritto e alta nel
parlato;
- Partecipazione emotiva: nulla nello scritto e forte nel parlato;
- Prossimità fisica tra i partecipanti: nulla nello scritto e alta nel parlato;
- Spontaneità della comunicazione: minima nello scritto e massima nel parlato;
- Fissazione degli argomenti: alta nello scritto e nulla nel parlato.

Una categoria che è stata introdotta nella zona intermedia fra parlato tipico e scritto tipico, è il
parlato trasmesso. Si tratta della lingua quotidianamente rappresentata nella televisione e nella
radio, le cui caratteristiche sono assimilabili da un lato al parlato fonico (come l’italiano colloquiale
della conversazione), ma dall’altro resistono ovviamente alla peculiarità del mezzo (con presenza
per es. di testi scritti per essere letti) e della molteplicità dei canali comunicativi (audiovisivi) che
esso sfrutta.
4.8 VARIETA’ DI LINGUA

Le dimensioni di variazione sono i punti di riferimento per l’individuazione e la classificazione


delle varietà di lingua. Il concetto di varietà di lingua è inteso in due sensi diversi: da un lato c’è una
varietà di lingua larga perché si guarda al repertorio linguistico di una comunità e in questo senso
sono varietà di lingua sia la varietà alta e la varietà bassa del repertorio; da un altro lato c’è una
varietà di lingua stretta che va a identificare solo le entità riconoscibili entro i confini di un unico
sistema linguistico in cui avvengono fenomeni di co-occorrenza di tratti linguistici.
Da un punto di vista sociolinguistico, una lingua è costituita da una somma di varietà ed è data dalla
somma di tratti linguistici comuni a tutte le sue varietà più i tratti linguistici specifici di singole
varietà. A questo proposito si parla di diasistema intendendo una lingua come un sistema costituito
da un sistema comune e da sottosistemi parziali di singole varietà. Come le varianti di una variabile,
così le varietà di lingua si collocano su una o più dimensioni di variazione e si possono classificare
in base alla dimensione fondamentale di variazione sulla quale si pongono. Si riconoscono 4
fondamentali classi di varietà:
1) varietà diacroniche, distinte in base alla loro collocazione nel tempo (ad esempio l’italiano delle
origini, l’italiano secentesco e l’italiano contemporaneo);
2) varietà diatopiche, distinte in base ai luoghi o alle aree geografiche in cui sono; in Italia, dove la
differenziazione diatopica, anche in ragione della tarda unificazione politica e linguistica del paese,
è particolarmente evidente. Sono tipiche varietà diatopiche i cosiddetti italiani regionali;
3) varietà diastratiche o sociali, distinte in base alla collocazione e all’identità sociale dei parlanti
(ad esempio la varietà dei parlanti colti e la varietà dei parlanti non istruiti). In Italia è stata molto
studiata la varietà diastratica tipica dei ceti sociali poco istruiti e ancora prevalentemente
dialettofoni, detta italiano popolare;
4) varietà diafasiche, distinte in base alle situazioni comunicative in cui è usata la lingua e sono
suddivisibili, come abbiamo detto, in due sottoclassi cioè registri (formale, medio e informale) e
sottocodici (ad esempio la lingua della medicina o dell’informatica o dell’astronomia).

Si possono avere anche varietà marcate contemporaneamente su più dimensione di variazione. Un


esempio è dato dai gerghi: varietà di lingua al tempo stesso diafasiche, perché legate ad attività e
ambiti di vita particolari, e diastratiche, perché riconosciute e usate esclusivamente da certi gruppi o
categorie di parlanti. Analogo è il caso di varietà paragergali, come quelle giovanili: diastratiche e
diafasiche allo stesso tempo poiché simultaneamente connesse ad una determinata classe
generazionale e a situazioni comunicative specifiche.

4.9 GRAMMATICA DI VARIETA’


Negli anni 70 è stato proposto in Germania un modello di descrizione grammaticale delle varietà di
una lingua chiamato grammatica di varietà. Secondo questo modello una varietà di lingua viene
descritta attraverso una serie di blocchi di regole e ogni blocco è costituito da un certo numero di
regole di riscrittura che hanno la medesima entrata e diverse uscite; ciascuna di queste regole ha in
quelle varietà una data probabilità di realizzazione. Questi blocchi di regole valgono per un certo
insieme di varietà di una lingua, cioè per un certo spazio di varietà.
4.10 ARCHITETTURA DELLA LINGUA
La combinazione delle tre principali dimensioni di variazione sincronica (diatopia, diastratia e
diafasia) e la conseguente collocazione reciproca delle tre fondamentali classi di varietà di una
lingua riconoscibili in sincronia, costituiscono l’ architettura della lingua. Essa è una sintesi dei
rapporti che ci sono tra le dimensioni di variazione e della gamma di varietà di lingua a cui questi
danno origine. Ogni dimensione di variazione è concepita come un continuum di varietà di lingua,
cioè come uno spazio di variazione che non presenta interruzioni di continuità al suo interno, dove
ci sono le varietà di lingua. Il concetto di continuum nasce in dialettologia e un continuum
dialettale indica un insieme di dialetti geograficamente contigui. L’architettura di una lingua si può
rappresentare come un continuum tridimensionale in cui ciascuna delle tre dimensioni di variazione
è identificata da un continuum con addensamenti. Ogni dimensione di variazione è un asse (grafico
di Berruto): l’asse della diatopia (orizzontale), della diastratia (verticale) e della diafasia (obliqua).
Le dimensioni sono separate l’una dall’altra e ciascuna corrisponde a una specifica classe di fattori
extralinguistici e dà conto di un particolare modo di manifestazione della variazione
sociolinguistica. Allo stesso tempo esse si intersecano, in quanto tutte sono in rapporto tra di loro ed
è frequente il caso di variabili sociolinguistiche che operano su più dimensioni: più denso sarà lo
spazio più ci sarà variazione di lingua. L’asse diastratico e l’asse diafasico sono orientati, cioè
vanno dal polo di usi alti che hanno una valutazione positiva da parte della comunità, al polo di usi
bassi che hanno una valutazione negativa da parte della comunità: al polo alto ci sono le varietà
colte e formali sia orali che scritte, mentre al polo basso ci sono le varietà incolte e le varietà parlate
informali. L’asse diatopico invece non è orientato perché non c’è una scala valutativa rispetto alla
quale si distribuiscano le diverse varietà geografiche di una lingua.
CAPITOLO 5

SOCIOLINGUISTICA DELL’INTERAZIONE VERBALE

Il luogo in cui quotidianamente si manifesta l’uso della lingua è l’interazione verbale.


L’interazione verbale è un qualunque tipo di contatto comunicativo attraverso il linguaggio verbale
umano tra due interlocutori. L’interazione verbale mette in campo fatti linguistici, sociali, semiotici
e psicologici, e implica la presenza di partecipanti ad una situazione nella quale devono esporre le
loro competenze linguistiche in relazione alle situazioni che accadono e agli altri partecipanti. Essa
è quindi il luogo in cui avviene la scelta concreta tra le diverse possibilità a disposizione dei
parlanti, i quali selezionano nel repertorio linguistico le forme adatta ad una situazione, adottando
un determinato stile verbale. Le diverse scelte sono rese possibili dall’azione combinata della
competenza linguistica cioè la conoscenza che ciascuno di noi ha della lingua o delle lingue che
parla e della competenza comunicativa cioè la capacità di utilizzare la competenza linguistica
nelle maniere richieste da una specifica situazione. In altre parole la competenza comunicativa è la
capacità di mettere in pratica lo strumento linguistico sapendo quando e come usare la lingua; è
chiaro che tutti i membri di una comunità hanno in misura più o meno ampia questa competenza
che viene acquisita attraverso le esperienze della socializzazione cioè con la partecipazione continua
e diretta alla vita sociale di una comunità. La forma tipica dell’interazione verbale è la
conversazione nella quale i parlanti mettono in opera la loro competenza comunicativa e la
conversazione si definisce come l’attività ordinaria di adoperare i mezzi linguistici dei parlanti nella
varie circostanze della vita quotidiana in cui ci si trova ad interagire con altre persone. Un sinonimo
di conversazione è il dialogo, con il quale però viene messo più in evidenza il carattere di scambio
comunicativo tra due o più persone incentrato sulla concatenazione alterna di battute, domande e
risposte, quindi spiccatamente contrassegnato dall’interattività.

L’analisi strutturale delle conversazioni e dei dialoghi si è sviluppata negli anni 70 grazie a ricerche
nella prospettiva dell’etnometodologia. Essa studiava i metodi con i quali i parlanti di una
comunità sociale cercano di dare ordine, comprensibilità e normalità al mondo in cui vivono. Più
nello specifico nell’ambito dell’attività linguistica, si vanno ad individuare i meccanismi e le
strategie che i parlanti, in quanto partecipanti di un’interazione verbale, mettono in opera nel
classificare e regolare le loro azioni verbali reciproche. In questa prospettiva la conversazione
risulta un’attività socialmente organizzata che mostra innanzitutto una struttura sequenziale,
costituita da segmenti che si susseguono secondo certe regole di concatenazione. I segmenti di
riferimento base coincidono con i contributi al discorso via via forniti dai singoli parlanti e sono
detti turni o mosse o battute. Con mosse s’intende, più precisamente, ogni unità di azione o singolo
atto linguistico compiuto dal parlante; in un unico turno posso essere eseguite più mosse.

Un primo meccanismo fondamentale della conversazione sta nell’allocazione dei turni, cioè il
modo in cui avviene l’alternanza dei turni (turn-taking, presa del turno). A organizzare i diversi
interventi dei parlanti nella conversazione (chi prende la parola e quando) è una regola generale di
base che prevede che parli almeno un partecipante e non più di uno alla volta, perché il sovrapporsi
l’uno all’altro o il completo silenzio sono situazioni non piacevoli in una comunicazione. Il
partecipante che sta parlando può scegliere il partecipante che interverrà scegliendo eventualmente
anche il tipo di intervento che questi dovrà fare: in questo caso produrrà il primo membro di una
coppia adiacente, termine con il quale gli etnometodologi designano due turni strettamente
interconnessi fra loro, del tipo domanda/risposta, saluto/saluto, in cui il secondo è richiesto
obbligatoriamente dall’esecuzione del primo.

Dal canto suo il partecipante, che interviene successivamente, capisce quando è il momento di
intervenire sulla base di un punto di possibile completamento: il nuovo parlante può prendere la
parola ogni volta che l’altro parlante termina un enunciato o sta in pausa. Ogni punto di transazione
di turno teoricamente possibile è reso effettivo tramite segnali di terminazione prosodici e
paralinguistici, come ad esempio un’intonazione conclusiva finale. Il parlante che prende la parola
segnala a sua volta l’avvio del suo intervento tramite comportamenti della stessa natura: inizio di
gesticolazione, attacco intonativo, forme linguistiche stereotipate (marcatori discorsivi, o segnali
discorsivi); tipici segnali di apertura sono allora, dunque, ecco, bene. Il silenzio alla fine di un turno
ha anch’esso valore comunicativo, non significa assenza di interazione venendo in genere
interpretato come momento costitutivo di un intervento ed è quindi attribuito come inizio
dell’intervento del parlate successivo o come pausa fra continuazioni dello stesso parlante. Per
quanto riguarda l’argomento, vige la regola generale che sia conveniente non dire agli altri ciò che
si sa o si suppone sappiano già. Le conversazioni ordinarie della vita quotidiana hanno una grande
libertà di argomenti e nel coso del medesimo evento di conversazione i temi dell’attività linguistica
possono variare anche continuamente e di molto. Blocchi compatti e omogenei di argomenti
rappresentano quelle che vengono chiamate storie; una storia comporta una sospensione del
normale meccanismo di allocazione dei turni e garantisce al partecipante che inizia un pezzo anche
lungo di discorso ininterrotto.

Un altro fenomeno importante nella conversazione è la riparazione. I meccanismi di riparazione si


hanno ogni volta che avvengono disturbi e problemi che turbano il flusso dell’interazione e possono
essere dovuti a differenze nella competenza linguistica, a difficoltà ambientali del luogo in cui
avviene la comunicazione, oppure a difficoltà etniche e culturali tra i parlanti. La tecnica preferita
per attuare l’aggiustamento della conversazione è che il partecipante all’interazione, che è la
sorgente del disturbo, attui lui stesso procedure di auto-riparazione. I casi più frequenti in cui si
necessita di riparazione sono i fraintendimenti, dovuti a incomprensione semantica e
interculturale.

Per i parlanti che interagiscono è di fondamentale importanza anche il contesto di riferimento: si


può dire infatti che due fraintendimenti che si succedono sono innescati dalla mancata condivisione
del contesto di riferimento. La nozione di contesto ha un ruolo contrale dell’analisi dell’interazione
verbale. Anzitutto occorre distinguere fra un contesto generale, che concerne l’intorno sociale e
culturale in cui si inserisce la data interazione, il dominio in cui avviene, gli status e i ruoli dei
partecipanti nella società, e un contesto locale, corrispondente alla cornice definita da ogni singolo
evento comunicativo che all’interno di un contesto generale ritaglia e crea un contesto particolare di
quell’occasione.

La negoziazione è un concetto molto importante ed è l’attività che coinvolge due o più parlanti che
comunicano interattivamente allo scopo di raggiungere un accordo in merito a qualcosa che non si
può dare come scontato, o che si rivela come fonte di problemi. Essa consiste quindi in trattative e
tentativi di trovare una posizione condivisa dai partecipanti.
Un ruolo importante nelle negoziazioni è svolto dalla metacomunicazione che è la comunicazione
che ha per oggetto la comunicazione stessa cioè le indicazioni che i parlanti danno sullo
svolgimento e l’interpretazione dell’interazione comunicativa. La metacomunicazione è attuata per
esempio attraverso le cosiddette pratiche di glossa, che sono delle formulazioni (glosse) dei
parlanti relative a determinati aspetti della relazione comunicativa tra i partecipanti o
all’articolazione della conversazione in parti costitutive.

I meccanismi di riparazione hanno a che fare con il lavoro di faccia cioè l’immagine pubblica che
un partecipante presenta di sé nell’interazione. Nella conversazione i partecipanti agiscono in
maniera tale da costruire e mantenere integra una certa faccia assunta come propria identità nei
confronti degli interlocutori attraverso strategie comunicative adatte. Qui entrano in gioco i
complessi aspetti della cortesia linguistica. La conversazione è il luogo tipico dove si realizzano i
fenomeni di cortesia, cioè tutte quelle strategie e forme linguistiche che vengono impiegate per
rispettare la faccia dei parlanti e per evitare conflitti interazionali. Nelle lingue occidentali, la
cortesia è rappresentata attraverso distinzioni di allocutivi o forme di saluto, mentre nelle lingue
orientali come il giapponese, la cortesia è una vera categoria grammaticale attraverso serie
pronominali. Anche laddove la cortesia non sia codificata lessicalmente, esistono molte modalità
per manifestarla verbalmente; ad esempio in italiano per esprimere cortesia si utilizzano dei
pronomi allocutivi “tu”, “Lei” “Loro”, oppure si utilizza il verbo al condizionale o espressioni
convenzionali come i saluti, formule di presentazione e varie forme per chiedere scusa. Un insieme
importante di forme di cortesia va sotto la categoria di mitigazione. La mitigazione è usata in
pragmatica ed è l’azione del parlante volta a minimizzare i rischi che possono derivare alla “faccia”,
propria o altrui, dalle mosse conversazionali condotte nell’interazione, allontanando quindi la
possibilità di conseguenze sgradite o di reazioni negative da parte dell’interlocutore.

Per trattare i fenomeni della cortesia verbale, sono state tratti diversi principi tra cui quello della
logica della conversazione, elaborato dal filosofo del linguaggio Grice per spiegare le azioni
svolte, inconsapevolmente, nell’interazione verbale. Grice faceva derivare da un principio di
cooperazione 4 tipi di massime:
1) quantità, che afferma che chi parla deve dare un contributo tanto informativo quanto è richiesto;

2) qualità, che afferma che chi parla deve cercare di dare un contributo vero, nel senso che non
deve dire falsità o cose di cui non ha prove;

3) relazione, che afferma che chi parla deve farlo in modo pertinente all’argomento della
conversazione;

4) modo, che afferma che chi parla deve essere ordinato nell’esposizione, evitando l’ambiguità o la
prolissità.

Il fatto che spesso queste massime non vengano rispettate non significa che non siano valide, anzi
ne conferma l’esistenza: le massime vengono violate allo scopo di provocare negli interlocutori
determinate inferenze attraverso quelle che Grice chiama implicature conversazionali. Si tratta di
un meccanismo per trasmettere informazione senza “dirla esplicitamente”, attraverso inferenze
occasionate dal contesto specifico della conversazione.
A questa logica della conversazione, Lakoff ha associato una logica della cortesia: la logica della
cortesia è costituita da regole di competenza pragmatica che intervengono negli scambi
comunicativi e che obbediscono a criteri di convenienza sociale, a norme di conduzione senza
conflitti della comunicazione e a ragioni di carattere estetico o etico. Il principio di cooperazione
viene riformulato come “sii chiaro” per quanto riguarda l’esposizione, e con “sii cortese” nel
principio della cortesia. Successivamente i principi di Grice e Lakoff sono stati sviluppati in vario
modo: ad esempio Brown/Levinson nel 1987 hanno sviluppato una teoria della cortesia e delle
strategie con le quali questa viene realizzata attorno alla distinzione basilare tra cortesia positiva e
cortesia negativa. I parlanti si attribuiscono reciprocamente la volontà di non voler essere ostacolati
nelle loro azioni (cortesia negativa) e quella di voler essere approvati (cortesia positiva): i
complimenti sono un tipico caso di cortesia positiva, in cui un parlante intende manifestare in
modo esplicito una valutazione positiva e un apprezzamento per un comportamento o un’azione
eseguita.

5.2 TIPI D INTERAZIONE VERBALE


I tipi di interazione verbale sono innumerevoli ed eterogenei e uno dei caratteri decisivi per la
natura delle interazioni è la simmetria dei ruoli dei partecipanti; quindi una delle distinzioni
essenziali è quella tra interazioni simmetriche e asimmetriche. Un’ interazione simmetrica è la
normale conversazione a cui i partecipanti contribuiscono con lo stesso ruolo e sullo stesso piano;
da un altro lato c’è una parte consistente delle interazioni verbali che è costituita dalle interazioni
asimmetriche. Esse presentano la proprietà dei partecipanti di avere un potere sociale e
internazionale diseguale, in quanto uno dei partecipanti ha il comando delle operazioni
conversazionali controllando l’andamento dello scambio comunicativo, gestendo anche i turni in cui
si può parlare e lo sviluppo degli argomenti (tipico caso del dialogo medico-paziente oppure
insegnante-alunno). Questa asimmetria è anche detta dominanza conversazionale, che può essere
dominanza quantitativa in termini della quantità di spazio a disposizione, dominanza interazionale
in termini del controllo sull’organizzazione delle sequenze, dominanza semantica, in termini del
controllo sugli argomenti e della capacità di imporre il proprio punto di vista, e dominanza
strategica in termini della realizzazione delle mosse più importanti in relazione ai risultati a cui
deve portare l’interazione.
E’ molto importante per la natura della comunicazione che i parlanti possano ascoltarsi, toccarsi e
avere una reazione immediata al loro comportamento; la conversazione più comune fino ad oggi è
l’interazione verbale faccia a faccia anche se stanno diventando sempre più comuni le interazioni
non faccia a faccia a causa dell’interazione con i cellulari che presentano tratti peculiari. Ad
esempio la conversazione telefonica prevede una gestione particolare nella fase di apertura in cui
avviene il riconoscimento reciproco degli interlocutori. Le conversazioni telematiche hanno una
struttura molto simile alle interazioni faccia a faccia, con la differenza che c’è un canale telematico
tra i due interlocutori: si tratta infatti di interazioni che hanno molte caratteristiche degli scambi
orali ma che vengono condotte nel codice grafico dando luogo ad una forma particolare di rapporto
tra scritto e parlato, in quanto si mima una comunicazione parlata attraverso i mezzi scritti arrivando
a definirlo “discorso elettronico” o “parlato digitato”.

5.3 INTERAZIONI MULTILINGUI


In sociolinguistica hanno un interesse particolare quelle interazioni verbali in cui i parlanti usino più
lingue, che riguarda fenomeni di plurilinguismo. Lo studio del comportamento bilingue che si
manifesta nell’alternanza di codice e nelle varie forme di code-switching è un ambito complicato.
La bipartizione fondamentale nello studio del comportamento bilingue è quella tra una prospettiva
grammaticale che analizza i principi e le proprietà linguistiche che guidano l’uso alternato delle
lingue, e una prospettiva socio-funzionale che analizza i significati sociali del passaggio da una
lingua all’altra e le intenzioni che hanno i parlanti quando attuano questo passaggio.

La teoria della marcatezza sociale considera che gli usi linguistici in una comunità sono
caratterizzati da un insieme di diritti e obblighi che fanno parte della competenza sociale dei
parlanti: la scelta del codice linguistico nelle comunità plurilingue ha il valore di indice del
particolare insieme di diritti e obblighi che i partecipanti all’interazione riconoscono a sé e agli altri,
e veicola pertanto un significato sociale che rappresenta la scelta preferenziale e quindi non
marcata, in tutte le situazioni in cui occorra esibire un’identità connessa all’insieme di diritti e
obblighi rilevante in quelle situazioni, che viene attivato dall’uso dell’uno o dell’altra lingua, o
anche dall’uso frammisto di entrambe le lingue. A questa teoria della marcatezza sociale è stato
obiettato di rappresentare una visione statica delle cose, basata su identità predefinite esternamente
ed è stato anche contrapposto di essere una prospettiva basata più sulle microdimensioni del
contesto sociale, che non sulle macrodimensioni del contesto globale relativo alla società nel suo
insieme. In questa direzione, Auer ha distinto tra commutazione di codice connessa al discorso e
quella connessa ai partecipanti: la commutazione di codice connessa al discorso è in concomitanza
con un cambiamento nell’argomento o nella gestione sequenziale del flusso conversazionale dei
partecipanti; la commutazione di codice connessa ai partecipanti è in concomitanza con la
negoziazione della lingua in cui condurre l’interazione. La commutazione avviene per molti motivi:
a volte il passaggio da una lingua all’altra può dipendere da differenza di competenza e di fluenza
dei parlanti nelle due lingue, o dalla necessità di colmare lacune lessicali in una delle due lingue. La
commutazione di codice può anche essere usata come strategia per costruire contesto ed è stata
trattata da Gumperz tra le strategie di contestualizzazione, vale a dire i segnali sia non verbali che
verbali attraverso cui i partecipanti inducono processi inferenziali necessari allo svolgimento
efficiente e cooperativo dell’interazione.
CAPITOLO 6

METODI DI RACCOLTA E ANALISI DEI DATI

6.1 I DATI IN SOCIOLINGUISTICA

La linguistica è un ambito delle scienze umane di carattere fondamentalmente empirico: non lavora
sull’elaborazione di idee ma sull’analisi, l’interpretazione e la spiegazione di dati. Un dato è un
qualunque fatto che abbia caratteri che lo rendono pertinente per una carta teoria e una certa analisi.
Si nota che in questo capitolo quando di parlerà di parlante non intendiamo meramente chi parla o
chi si esprime a livello orale in una certa lingua ma ogni essere umano in quanto produttore di
messaggi linguistici, indipendentemente dal mezzo in cui questi vengono prodotti. In questo senso,
quindi, anche gli scriventi sono parlanti. I parlanti che forniscono dati empirici possono essere sia il
linguista stesso sia ogni parlate in una qualche comunità linguistica.

La sociolinguistica tende a lavorare sui dati linguistici concreti e il più possibile autentici, vale a
dire ricavati in una situazione effettiva di realizzazione del sistema linguistico da parte dei parlanti.
Quindi si tratta di dati ricavati dall’osservazione del comportamento naturale, in situazioni reali.
Inoltre la sociolinguistica ha bisogno non soltanto del mero dato linguistico (per es. un enunciato
prodotto in una certa situazione) ma anche del più possibile di informazioni sul contesto sociale e
situazionale in cui il dato viene prodotto (caratteristiche della situazione comunicativa e del
contesto sociale, collocazione sociale del parlante, localizzazione geografica, ecc).

Si pone quindi come centrale per il lavoro in sociolinguistica il problema della raccolta dei dati.
Tale insieme di dati su cui si svolge l’analisi costituisce il corpus di riferimento dell’indagine.
Questo corpus di dati, che costituisce l’oggetto empirico di studio, dovrà essere analizzato in base a
due diverse prospettive fondamentali: quella qualitativa fondata su intuizioni, induzioni e deduzioni
(quindi una componente soggettiva insita del ricercatore stesso) ricavate da quanto si sa
preliminarmente della situazione, e quella quantitativa fondata su numeri, su entità misurabili
oggettivamente, specie coi metodi della statistica. Metodi qualitativi e metodi quantitativi si
integrano e completano reciprocamente. Tuttavia, un approccio qualitativo è preliminare cioè viene
prima rispetto all’approccio quantitativo poiché l’approccio qualitativo consiste di individuare i
tratti salienti del fenomeno e le domande fondamentali da porre ai materiali, in una parola che cosa
cercare, per poter poi applicare un metodo quantitativo. D'altra parte, l’analisi quantitativa di
corpora di dati è la sola che potrà confermare che i risultati a cui si sia approdati per via qualitativa
rappresentino un’interpretazione esatta della situazione e corrispondono alla realtà dei fatti.
I dati che costituiscono il corpus di riferimento possono essere dati linguistici (come le ricerche sui
fenomeni di variazione interlinguistica o del contatto fra sistemi) o dati extralinguistici (sociali,
antropologici, comportamentali, ecc.). I dati linguistici a loro volta possono essere dati
naturalistici, osservati nel comportamento spontaneo dei parlanti; dati elicitati, ricavati da
interviste, e dati sperimentali, ottenuti in una situazione i cui parametri sono tenuti sotto controllo
ed eventualmente con l’impiego di una strumentazione apposita.

6.2 LA RACCOLTA DEI DATI

Un momento centrale della raccolta dei dati è l’osservazione del comportamento, che può avvenire
mediante diverse procedure. Il rapporto fra dato e osservazione è stato oggetto di numerose
discussioni a partire dal principio generale secondo cui ogni osservazione influisce sul dato
mutandone in qualche misura le caratteristiche. Non è infatti scientificamente corretto raccogliere
dati mediante osservazione ma se i dati si possono raccogliere solo attraverso l’osservazione allora
non esisterebbero dati. Tale principio è detto paradosso dell’osservatore, secondo il quale il
compito della sociolinguistica è di studiare come la gente parla spontaneamente quando non è
sottoposta ad osservazione; ma solo mediante l’osservazione sistematica possiamo constatare come
la gente parla. Quindi o non possiamo studiare come la gente parla o rinunciamo alla ricerca, visto
che non possiamo ottenere dati se non tramite l’osservazione. Esiste inoltre una terza via, rispetto al
dilemma posto dal paradosso: valorizzare i dati con la consapevolezza che li abbiamo raccolti in un
certo modo.

L’osservazione diretta del comportamento linguistico da parte del ricercatore è una delle forme
tipiche di ricerca cosiddetta sul campo, o sul terreno, che può essere condotta secondo diverse
tecniche. Va in ogni caso tenuto conto che l’osservazione deve naturalmente essere accompagnata
da qualche forma di registrazione e conservazione dei dati che ne permetta il successivo trattamento
e analisi. Una prima tecnica di osservazione consiste nell’ osservazione occulta, con registrazione a
“microfono nascosto” evitando quindi che i parlanti sappiano che il loro comportamento viene
osservato e registrato da qualcuno. La raccolta dei dati effettuata in tale maniera, per molti aspetti
quella preferibile per il sociolinguista empirico quanto ad attendibilità oggettiva dei dati, va tuttavia
incontro a numerosi problemi sia di natura metodologica (frammentarietà dei materiali,
impossibilità di controllo sull’andamento della raccolta dei dati, possibile cattiva qualità della
registrazione, ecc.) sia soprattutto di natura etnica e deontologica (in quanto può risultare illegittima
dal punto di vista giuridico, non rispettosa della tutela i dati sensibili, o comunque lesiva della
cosiddetta privacy, delle persone).
L’attenzione agli aspetti etici della ricerca è stata importata nella sociolinguistica dalle scienze
sociali e vi ha fatto via via strada. Occorre che il ricercatore dedichi sempre la dovuta attenzione a
questioni basilari come la garanzia dell’anonimità dei dati raccolti e la protezione dell’acceso ai
dati stessi, che devono essere utilizzati solo dal ricercatore ed esclusivamente ai fini della ricerca.

Una forma più strutturata di osservazione è l’osservazione partecipante nella quale il ricercatore
partecipa per un certo lasso di tempo in maniera diretta alla vita quotidiana della comunità indagata,
immergendosi nel contesto da descrivere immedesimandosi con le loro consuetudini, in un certo
senso diventandone membro egli stesso.

Una modalità di raccolta dei dati molto praticata in sociolinguistica è l’intervista, in particolare
l’intervista faccia a faccia, in cui il ricercatore interagendo con soggetti prescelti a formare un
campione (che vengono detti informatori) pone domande relative ai fenomeni sotto indagine. A
seconda del grado di preparazione in anticipo, della rigidità della strutturazione, della presenza o
meno di una lista prestabilita di domande da porre, si distinguono interviste non strutturate che non
avendo un catalogo prefissato di questioni da porre assomiglia molto ad una normale conversazione
su determinati temi e interviste strutturate condotte sulla base di un questionario prefissato da
domande a cui ogni informatore deve rispondere.

I rilevamenti con questionari, che sono per lo più basati sulle autodichiarazioni dei parlanti,
pongono alcuni problemi per la corretta interpretazione dei dati. L’autovalutazione del
comportamento espressa dalle risposte ai questionari infatti non sempre corrisponde al
comportamento effettivo.

I materiali possono anche essere raccolti attraverso l’effettuazione di test sperimentali (riguardanti
soprattutto gli aspetti fonetici), per es. facendo pronunciare con opportuni accorgimenti e in
ambienti attrezzati parole e frasi, da analizzare in seguito con apparecchiature e strumenti appositi.

Abbiamo visto che la prima e più importante fonte di dati per la sociolinguistica sono i parlanti.
Molti dati per la ricerca su lingua e società posso provenire dalla consultazione di materiali scritti.
Una fonte di dati è data dalle biografie e autobiografie linguistiche che rappresentano un modo
autentico di accesso al repertorio linguistico del singolo parlante. Più in generale sono anche
proficuamente utilizzabili in sociologia delle lingue i cosiddetti ETNOTESTI, vale a dire testi orali
prodotti da parlanti membri di una certa comunità linguistica che danno espressione a contenuti
culturali rilevanti per la comunità: memorie autobiografiche, storie di vita, leggende popolari,
proverbi e indovinelli.
Tutte le volte che i dati empirici rilevati sono orali, la raccolta deve renderli a disposizione per
l’analisi e si pone dunque la necessità della loro registrazione. Per ricerche sugli aspetti pragmatici
e internazionali dell’uso della lingua, nelle quali può diventare molto rilevane la multimodalità della
comunicazione (linguaggio verbale, paralinguistica, gesti, posture e movimenti del corpo), è utile se
non indispensabile la videoregistrazione.

Un passo successivo alla registrazione necessario per dare al materiale una fissazione stabile su un
supporto visivo è dato alla trascrizione. Una trascrizione può limitare o rendere in maniera
semplificata la catena fonica dell’enunciato dando una forma grafica consuetudinaria a un testo
orale. Se è necessario che la trascrizione riporti l’autenticità sonora del parlato da indagare, occorre
allora ricorrere ad un sistema di trascrizione fonetica. Oggi si usa il sistema IPA o API (Alfabeto
Fonetico Internazionale).

Quando invece diventano rilevanti i fenomeni pragmatici, paralinguistici, interazionali,


comunicativi in senso ampio, è opportuno fare ricorso ad una trascrizione non fonetica ma
conversazionale che indichi con appositi segni speciali e simboli (utilizzando di solito caratteri già
disponibili sulle normali tastiere di computer e assegnando loro un valore convenzionale) i vari fatti
utili all’analisi del materiale e alla comprensione scientifica dei fatti.

Sono disponibili sistemi informatici, scaricabili on-line per l’archiviazione, il trattamento e


l’elaborazione di corpora raccolti mediante registrazione. Il più noto di questi è il progetto
CHILDES (child language data exchange system) sviluppato per lo studio dell’acquisizione
infantile del linguaggio poi esteso all’acquisizione in generale di lingue diverse.

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