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LINGUA ITALIANA ED EDUCAZIONE LINGUISTICA – Maria G.

LO DUCA
Presentazione
Temi: lo studio della lingua italiana e la riflessione sul suo insegnamento.
L’educazione linguistica si è posta il problema dell’insegnamento della lingua italiana intesa come lingua
materna (obiettivo: insegnare l’italiano ai giovani). Al linguista Tullio De Mauro va riconosciuto il merito di
aver fondato questo indirizzo di studi. Strada facendo, l’educazione linguistica si è incontrata con altre
tradizioni di ricerca: pedagogia, informatica, psicologia dell’apprendimento, etc.
CAPITOLO 1 – NASCITA DI UNA DISCIPLINA
1. Introduzione
“Educazione linguistica”: espressione che ha assunto un significato peculiare a partire dagli anni ’70.
Raffaele Simone, vent’anni dopo, scrisse: «l’inizio dell’educazione linguistica si vede a un’idea di Tullio De
Mauro, i cui segni cominciarono a farsi avvertire verso la fine degli anni ‘60». De Mauro delinea la storia del
movimento di idee che portò nei primi anni ’70 alla nascita di un nuovo modo di intendere la pedagogia
linguistica > si dovrà aspettare i primi anni ’70 per registrare un interesse diffuso per i temi dell’ed.
linguistica. In generale si può dire che quasi tutto l’insegnamento linguistico tradizionale venne messo in
discussione.
2. Inquadramento storico
Per illustrare la situazione linguistica italiana bisogna partire dalla nascita del volgare: le popolazioni della
penisola italica usavano, per le loro necessità comunicative, una pluralità di idiomi (oggi chiamati “dialetti”).
All’inizio le varie parlate locali erano tutte sullo stesso piano (non vi erano quelle più prestigiose), ad
eccezione del dialetto fiorentino del Trecento (che ha avuto una storia diversa). Attenzione: i dialetti non
sono idiomi inferiori rispetto alla lingua nazionale.
A metà 800, fuori dalla Toscana e da Roma, l’italiano era una lingua nota solo a lo 0,8% della popolare >
l’italiano era una lingua straniera in patria. Dopo l’unificazione politica le cose cominciarono a cambiare: si
sentiva il disagio di una pluralità linguistica che non comportava ancora la presenza di una lingua unitaria.
Fattori di unificazione linguistica:
- l’industrializzazione e la mobilità interna;
- l’urbanizzazione e i fenomeni migratori dalle campagne alle città;
- la diffusione dei mezzi di comunicazione di massa (prima la radio e il cinema, poi la televisione).
La scuola ha svolto un ruolo fondamentale nel processo di diffusione di una lingua comune. De Mauro
ricorda come dopo l’Unità si scontrarono due posizioni inconciliabili:
1. I manzoniani volevano condurre, attraverso la scuola, una lotta a sradicare il dialetto per imporre
come tipo linguistico unitario il fiorentino;
2. Alcuni, come De Sanctis, Ascoli e d’Ovidio, erano sfavorevoli a una lotta contro i dialetti, nei quali
scorgevano i depositari di un ethos1 locale.
L’atteggiamento ufficiale delle autorità fu vicino alle posizioni dei manzoniani.
Nonostante gli sforzi per insegnare l’italiano a tutti, i bambini rivelavano gravi carenze linguistiche perché i
maestri in classe usavano il dialetto o «un misto di dialetto e lingue letteraria» (De Mauro), il che è ancor
peggio dell’uso del puro dialetto > fallimento scolastico nella diffusione di una lingua unitaria.
Il processo di unificazione linguistica andò comunque avanti: nelle scuole furono promossi programmi di
espulsione del dialetto (anche se ci si chiede se essi abbiano avuto concreta attuazione).
Nel secondo dopoguerra, il boom economico fu un potente fattore di mobilità interna, quindi:
1. di incontro di lingue e culture diverse
2. parallelamente di ‘crisi’ delle parlate locale (che non garantivano la circolazione di idee tra parlanti
di diverse provenienze regionali).
Aumenta l’incidenza della scuola: i livelli di scolarizzazione aumentano costantemente (meno
analfabetismo). Nel 1962, fu introdotta in Italia la scuola media unica che innalzava l’obbligo scolastico a 14
anni > Nel frattempo la scuola era mutata: i maestri avevano smesso da tempo di parlare in dialetto con gli
allievi, e si era imposto in classe un modello di italiano arcaico > modello definito ‘italiano scolastico’, a
sottolineare l’artificiosità di una varietà di lingua diffusa solo a scuola.

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Ethos: carattere (?)
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Problema linguistico per i bambini dialettofoni: erano costretti dalla scuola a parlare e scrivere in una lingua
‘straniera’ per comunicare complessi contenuti disciplinari > accumulavano insufficiente. Il risultato fu che
molti ragazzi venivano espulsi dalla scuola media dopo 1 o 2 anni di frustanti esperienze > fuga dalla scuola.
3. I maestri
In questa situazione si abbatté nel 1967 la denuncia di un prete ‘scomodo’, don Lorenzo Milani, coautore di
Lettera a una professoressa, nel quale critica le scelte e le modalità dell’insegnamento linguistico in uso
nella nostra scuola. Lettera a una professoressa è un libricino collettivo, scritto dai ragazzi che
frequentavano la scuola di Barbiana, una scuola popolare allestita da don Milani nell’intento di fornire
l’istruzione obbligatoria ai bambini e ai ragazzi di un isolato villaggio di montagna. La Lettera si presenta
come una lunga lettera che un ragazzo (non precisato) di Barbiana scrive ad una innominata professoressa,
simbolo delle arretratezze del sistema scolastico italiano. A lei raccontano:
- le loro difficoltà nel rapportarsi a una istituzione che ignora tutto della loro lingua e cultura;
- di aver capito la centralità dello strumento linguistico nella formazione dell’uomo e del cittadino,
etc.
Dalla lettera traspare anche la convinzione che i ‘poveri’ sono vittime di un deficit linguistico che li priva
della possibilità di partecipare in modo attivo e costruttivo alla vita sociale e politica della società. Dunque,
la responsabilità della scuola è enorme.
Le maggiori accuse che don Milani fa alla scuola italiana dell’epoca:
- La scarsa considerazione per la lingua dei poveri (dialetto) e per la loro cultura che ha come
conseguenza l’emarginazione dei figli dei contadini e degli operai. La soluzione non è però
l’assunzione della lingua dei poveri come strumento di comunicazione scolastica, ma sta «nel ‘dare
la lingua’ ai poveri» > allora il fallimento della scuola è totale: per don Milani le cause sono:
o il modello di lingua proposto dalla scuola è lontano dalle abitudini linguistiche dei poveri,
ed è anacronistico (troppo condizionato da modelli letterari superati);
o la lingua proposta è ipocrita perché incapace di chiamare le cose con il loro nome (gli allievi
di don Milani «chiameranno culo il culo»);
- Si accusa la scuola di non insegnare a scrivere, cosa che non avviene nella scuola di Barbiana in cui
si è messo a punto un metodo modello (il notes personale su cui ognuno scrive ogni idea gli venga
in mente; foglietti che poi verranno messi insieme per creare capitoli, etc.) > quindi, si ha:
o l’idea che prima di scrivere è necessario raccogliere le idee;
o l’idea che la raccolta delle info richiede tempo e non può essere troppo compressa;
o l’idea che, una volta raccolte, le info vanno selezionate;
o l’idea che scrivere comporta una scansione dei contenuti (paragrafi e sottoparagrafi).
La Lettera ebbe un impatto enorme.
4. I linguisti
Nel frattempo, il mondo della linguistica italiana era in fermento. Si era formata una nuova generazione di
studiosi del linguaggio che cominciarono ad osservare le gravi carenze scolastiche in fatto di ed. linguistica.
Uno dei primi atti pubblici di questa nuova linguistica it. fu la costituzione della Società della Linguistica (SLI)
del 1967: dobbiamo a De Mauro un ampio resoconto del clima intellettuale che portò alla nascita della SLI.
Si caratterizza per l’ampiezza degli interessi di socie e soci, costituendo una comunità di studiosi nel cui
ambito trovi pieno riconoscimento e appoggio ogni prospettiva di ricerca linguistica teorica e applicata.
Dalla SLI nasce per filiazione diretta una nuova associazione, il GISCEL (Gruppo di Intervento e Studio nel
Campo dell’Educazione Linguistica), il cui obiettivo sarà il rinnovamento della pedagogia linguistica
tradizionale.
4.1 Storia linguistica dell’Italia Unita di De Mauro (1963, riproposto in versione ampliata nel 1970): libro
importante per la storia della nostra disciplina. Quest’opera traccia il quadro della situazione linguistica
italiana a partire dall’Unità (1861) fino agli anni del secondo dopoguerra.
Nell’Avvertenza De Mauro ricorda come la storia linguistica di un paese sia connessa con le sue vicende
economiche, sociali, politiche e culturali.
Nel libro compaiono tabelle, liste di dati, numeri e percentuali relativi a fenomeni quali:
- l’assetto demografico delle varie aree del paese;
- le migrazioni interne ed esterne;
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- il livello di scolarità;
- il diffondersi dei mezzi di comunicazione di massa, etc.
Si posero all’attenzione dei linguisti temi come l’analfabetismo, il plurilinguismo diffuso nella società
italiana. Fin dalla sua prima comparsa quest’opera incontro l’interesse degli insegnanti, in quanto sono
individuati con lucidità i campi nei quali la scuola avrebbe bisogno di essere informata («è socialmente
grave la mancanza di una descrizione analitica del sistema grammaticale e sintattico italiano […] diverse
norme di utilizzazione della lingua, dal livello colloquiale, famigliare e popolare più informale, ai livelli
formali»).
4.2 Suggestioni esterne: il dibattito sulla deprivazione verbale
La posizione di alcuni linguisti e sociologi dell’ed. di area anglosassone, che influirono sul dibattito interno.
Basil Bernstein: la teoria della “deprivazione verbale”, nota in Italia tra gli anni ’60 e ’70 > secondo questa
teoria, le differenze socioeconomiche influiscono sul linguaggio e, quindi, sul rendimento scolastico.
Attraverso interviste e test, Bernstein trovò che «il successo scolastico dipende in larga misura dalla
capacità verbale, correlata con lo status sociale medio e alto» > la ragione di questa correlazione sta nelle
abitudini linguistiche e sociali delle diverse classi, abitudini che si originano nel momento
dell’apprendimento della lingua da parte del bambino.
- La famiglia di classe media è una famiglia orientata sulla persona, che tende a sviluppare la
personalità di ogni suo membro, e in cui i rapporti interpersonali sono mediati attraverso il
linguaggio > un linguaggio che viene definito da B. ‘linguaggio formale’ poi ‘codice elaborato’, che
garantisce successo nelle scuole.
- La famiglia operaia e contadina è una famiglia orientata sulle ‘parti’, ovvero suoi ruoli ricoperti da
ciascun membro al suo interno: l’individuo non vale per sé stesso, ma come ‘padre’, ‘madre,
‘moglie’, ‘figlio’, etc. > ruolo fisso non suscettibile di modificazioni > fissità che ha riflessi linguistici
importanti: ciascuno finisce per l’interpretare la parte e ha poco da inventare > lingua elementare:
un linguaggio che viene definito da B. ‘linguaggio pubblico’ poi ‘codice ristretto’.
La teoria di B. fu oggetto di critiche severe, critiche che riguardano:
1. la relazione, giudicata troppo semplicistica, tra codice ristretto/elaborato e classe sociale.
2. il ruolo della scuola, che dovrebbe colmare le lacune linguistiche dei ‘deprivati verbali’ favorendo
l’acquisizione di un codice elaborato che favorisca l’interazione verbale a livelli più alti.
William Labov individuò in modo più preciso le differenze tra codice ristretto e codice elaborato. Con una
diversa impostazione della tecnica dell’intervista (intervistatori – neri – facenti parte della stessa comunità
dell’intervistato), mostrò che anche i bambini dei ghetti, superata la diffidenza iniziare, mostravano una
verbalizzazione ricca, con la quale erano perfettamente in grado di esprimere i loro sentimenti e opinioni.
Certo, è giusto che la scuola insegni il codice elaborato perché alcune caratteristiche di tale stile (ricchezza
lessicale, variabilità sintattica, etc.) consente al parlante di esprimere le proprie idee in modo preciso;
tuttavia, non sempre tali caratteristiche portano a un linguaggio chiaro, a volte si traducono in verbosità
(quindi, messaggi apparentemente colti e ricchi, ma in realtà vuoti di contenuti).
L’analisi di Labov si risolve con un richiamo a coloro che si occupano di educazione, affinché vedano nella
lingua dei bambini delle classi inferiori non una ‘lingua deprivata’, ma una lingua diversa rispetto a quella
prevista – e pretesa – dall’istituzione scolastica.
4.3 Il dibattito interno: il GISCEL e le Dieci Tesi per l’educazione linguistica democratica
Nei primi anni ’70 si muoveva anche l’editoria scolastica: cominciò De Mauro con Parlare italiano (1972),
un’antologia per i bienni in cui si presentavano molti testi con lo scopo di documentare la grande varietà di
modo in cui si è parlato e scritto in italiano. L’anno dopo usciva Libro d’italiano di Raffaele Simone.
In questo quadro di fermento si inscrive l’episodio più importante della nuova educazione linguistica: la
nascita del GISCEL. Il GISCEL fu una filiazione diretta della SLI: De Mauro, uno dei promotori, racconta il
primo costituirsi del gruppo (1973), le riunioni nella sede del CIDI 2 cui partecipavano anche i linguisti
Raffaele Simone e Lorenzo Renzi > il GISCEL si contraddistingue per questa sua doppia vocazione: i suoi
adenti sono:
1. da una parte, interessati a seguire l’evoluzione della teoria linguistica dell’italiano;
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CIDI (Centro di Iniziativa Democratica degli Insegnanti) è un’associazione di insegnanti. A differenza del GISCEL, il CIDI
raccoglie insegnanti di tutte le discipline presenti nella scuola.
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2. dall’altra, a mettere in pratica iniziative di ricerca/sperimentazione nel campo dell’ed. linguistica.
Dopo quasi due anni di gestazione e di dibattito interno, il gruppo elaborò un documento (prima versione
redatta da De Mauro) che prese il nome di Dieci Tesi per l’educazione linguistica democratica, pubblicato
per la prima volta nel 1975 e che era destinato a diventare il manifesto del GISCEL e l’atto di nascita di un
nuovo modo di intendere l’insegnamento della lingua madre.
Un documento breve e denso, scandito in 10 punti, redatto in un linguaggio semplice e diretto.
Le prime 4 tesi enunciano dei principi generali ai quali ogni insegnante dovrà ispirare la sua azione
educativa:
1. la prima tesi ricorda “la centralità del linguaggio verbale” nella vita di ogni essere umano perché chi
sia privato di tale padronanza avrà difficoltà a comunicare con gli altri, capare, analizzare, etc.
2. inoltre, si ricorda che il linguaggio verbale sia radicato “nella vita biologica, emozionale,
intellettuale, sociale” di ogni individuo;
3. la terza tesi ricorda come il linguaggio verbale sia fatto di molteplici capacità, alcune più visibili
(produrre parole e frasi, capacità di conversare, interrogare e rispondere), altre meno visibili (dare
un senso alle parole e alle frasi udite o lette, analizzare interiormente in parole le varie situazione);
4. la quarta tesi è forse la più ‘politica’ perché instaura una connessione tra un corretto insegnamento
linguistico e l’attuazione di importanti principi costituzionali: viene citato l’art. 3 Cost. che riconosce
l’uguaglianza di tutti i cittadini «senza distinzioni di lingua» > il traguardo principale è il rispetto e la
tutela di tutte le varietà linguistiche.
Seguono:
- tesi 5-7: dedicate all’analisi critica della pedagogia linguistica tradizionale;
- tesi 8: propone una ‘nuova’ pedagogia linguistica, ritenuta in grado di ovviare ai fallimenti del
passato
- tesi 9: incentrata sulla formazione degli insegnanti;
- tesi 10: incentrata sulle responsabilità della classe politica nel gestire l’opera di rinnovamento della
scuola.
Fine ultimo che le Dieci Tesi indicano agli insegnanti di italiano: l’insegnamento a tutti dell’italiano comune,
perché solo il pieno possesso di una lingua unitaria consentirà a tutti una vita sociale piena. Tale fine va
perseguitato attraverso un percorso nuovo, anche se le Dieci Tesi non dicono concretamente (con quali
modalità e strumenti) è possibile fare ciò.
1.5 Dopo le Dieci Tesi
Dopo la pubblicazione del documento, fiorirono iniziative di aggiornamento ponendo in modo serio la
questione del rinnovamento dell’insegnamento linguistico. Uno degli effetti immediati del documento fu il
diffondersi di un senso di sfiducia nei confronti delle pratiche didattiche tradizionali. Lo Duca non si
sofferma sulla storia del movimento che interessò i grandi centri universitario e le piccole scuole di
campagna, ma vuole ricordare le vicende di una regione che conosce da vicino, il Veneto, dove si costituì
immediatamente un gruppo GISCEL molto attivo e dove furono tenuti centinaia di corsi di aggiornamento
con l’intento di illustrare e spiegare agli insegnanti la filosofia e la pratica delle Dieci Tesi.
• Inoltre, c’è stata una lunga fase in cui molti linguisti si cimentarono nel compito di disegnare dei percorsi
di educazione linguistica rinnovata, compilando libri di testo per i vari ordini di scuole.
CAPITOLO 2 – LA VARIABILITÀ LINGUISTICA
1. La “scoperta” del plurilinguismo
La scoperta plurilinguismo fu uno dei temi ricorrenti della nuova educazione linguistica, tema – tra l’altro –
che De Mauro aveva già introdotto nella Storia e che sviluppò in più interventi, tra cui Il plurilinguismo nella
società e nella scuola italiana, in cui scrive: «con plurilinguismo intendiamo la compresenza sia di linguaggi
di tipo diverso, sia di idiomi diversi, sia di diverse nome di realizzazione d’un medesimo idioma» > quindi:
a) i diversi tipi di linguaggio di cui dispone la specie umana;
b) le diverse lingue di cui può disporre ogni comunità umana;
c) le diverse varietà (o forme di realizzazione) che una lingua può presentare nella medesima
comunità.
Dunque:
- nessuna comunità linguistica è omogenea;
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- ogni parlante padroneggia più linguaggi, più idiomi, più varietà.
Nella scuola dominava una forte vocazione al monolinguismo > nelle Dieci Tesi si afferma che la pedagogia
linguistica tradizionale trascura la realtà linguistica di partenza degli allievi e afferma, a tal proposito, che
bisogna educare in giovani alla varietà di linguaggio e di lingue, alle varietà di frasi e di vocabolario, alle
varietà di stili e di esecuzioni.
Finalmente gli insegnanti cominciarono a confrontarsi con la tematica della variabilità linguistica.
2. Il “repertorio linguistico degli italiani”: lingua unitaria e dialetto/dialetti
L’espressione “repertorio linguistico degli italiani” designa l’insieme delle varietà di lingua a disposizione
della comunità parlante italofona > tuttavia, data la particolare situazione italiana, non esiste un unico
repertorio linguistico che sia valido per tutti gli italiani (tale repertorio varia da regione a regione). Dunque,
parlando di “repertorio linguistico italiano” ci si riferisce a una sorta di entità ipotetica, un repertorio
‘medio’ costituito da una griglia in cui trovano posto le diverse varietà.
I due sistemi fondamentali del repertorio linguistico italiano sono la lingua nazionale e il dialetto. La
differenza tra lingua e dialetto non ha ragioni linguistiche, ma è una differenza di ordine funzionale e ha
origine nelle vicende storiche di una comunità:
- la lingua possiede una codificazione riconosciuta e accettata all’interno e fuori dello Stato
nazionale, conta su una tradizione letteraria, è adottata come mezzo di comunicazione in ogni
settore di attività;
- ii dialetti sono impiegati in aree geograficamente circoscritte, in ambiti limitati e prevalentemente
nella varietà orale.
La contemporanea presenza della lingua nazionale e dei dialetti prefigura una situazione di diglossia, che
comporta la compresenza di una «varietà linguistica alta (per gli usi scritti e formali), e una varietà
linguistica bassa (per gli usi parlati informali)» (Berruto). Tuttavia, la situazione italiana non rientra in questa
definizione, perché lingua nazionale e dialetto non sono due varietà (una alta e una bassa) di una stessa
lingua. Dovrebbe parlarsi più correttamente di bilinguismo, anche se i due sistemi (italiano e dialetto)
presentano fra loto una distanza strutturale inferiore rispetto ai repertori bilingui classici > per questo
Berruto definisce il ‘repertorio linguistico degli italiani’ come una forma di «bilinguismo a bassa distanza
strutturale», in cui il rapporto tra le due varietà è definito dilalia, che presuppone che entrambe le varietà:
- siano impiegabili nella conversazione quotidiana,
- e aventi uno spazio ampio di sovrapposizione.
Lo Duca presenta una tabella in cui documenta l’aumento, negli anni 1987-2006, dell’uso dell’italiano e il
regresso nell’uso esclusivo del dialetto (anche in ambiti privati e familiari) > quindi, sì abbandono
dell’esclusività del dialetto, ma vi è stato un aumento del bilinguismo, cioè l’alternanza di it. e dialetto.
Secondo Berruto, la tendenza in atto non sembra quella dell’abbandono/morte dei dialetti, ma piuttosto di
un complicato processo di decadenza fatto anche di “risorgenze marginali” > dappertutto si registra una
situazione di pacifica convivenza fra italiano e dialetto, ciascuno ben consolidato nei suoi propri domini.
2.1 Dialetto e scuola
Fin dall’inizio i problemi connessi a questo rapporto interessano i fautori di una ed. linguistica rinnovata.
Berruto scrive che la scuola dovrebbe impegnarsi per assecondare la tendenza a un bilinguismo, quindi una
situazione in cui tutti posseggano in modo accettabile la lingua nazionale e il dialetto locale.
2.3 Le parlate alloglotte
Oltre ai dialetti, sul territorio nazionale sussistono le parlate alloglotte (lingue parlate da piccole
minoranze).
2.4 Le varietà dell’italiano
Ogni lingua conosce al suo interno una serie di diversificazioni, o varietà. L’italiano ha sviluppato una
gamma assai ampia di diversificazione, nella quale si possono riconoscere specifiche varietà di lingua,
determinate dalle fondamentali dimensioni di variazione, vale a dire dai parametri extralinguistici con cui la
variazione interna alla lingua è correlata. Tali parametri identificano 5 diverse dimensioni della variazione:
1. varietà diacronica: una lingua cambia lungo l’asse del tempo;
2. varietà diatopica: una lingua cambia nelle diverse aree geografiche in cui viene usata;
3. varietà diastratica: una lingua cambia a seconda dello strato sociale a cui appartengono i parlanti;
4. varietà diafasica: una lingua cambia a seconda della situazione comunicativa in cui viene usata;
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5. varietà diamesica: una lingua cambia a seconda del mezzo fisico (canale attraverso cui viene usata).
Ciascuna dimensione di variazione va immaginata come una specie di continuum.
Varietà diacronica: ogni lingua viva cambia nel tempo, anche se i mutamenti in genere sono molto lenti
(infatti, i fenomeni diventano visibili solo sul lungo periodo) > ovviamente l’italiano del 300 è diverso da
quello del 700 o del 900. Il processo di mutamento è in generale talmente lento che è persino difficile
accorgersene quando esso rientri in un periodo breve (es.: l’arco della vita umana).
Il cambiamento che si verifica è in genere nel settore più esposto della lingua, ossia il settore del lessico.
Meno evidenti sono i mutamenti a livello fonologico o morfosintattico. Il cambiamento linguistico non
consiste nella sostituzione improvvisa di una forma con un’altra, ma presuppone a lungo un periodo di
convivenza tra una forma consolidata e accettata e una nuova forma che tende a sostituirsi alla prima.
Normalmente accade che la vecchia forma resista nei registri formali (e nello scritto), mentre la nuova
forma si consolidi nei registri meno formali (e nel parlato) > dopo questo periodo di convivenza più o meno
conflittuale, può accadere che la forma più vecchia riesca a vincere il confronto e a espellere la nuova
forma, oppure che venga espulsa essa stessa lasciando il posto alla forma rivale.
Varietà diatopica: Marazzini: «l’italiano non è parlato in modo uniforme nell’intero territorio nazionale». La
variazione diatopica, che dà origine alle varietà regionali dell’italiano, riguarda soprattutto le realizzazioni
orali della lingua, anche se ne possono essere coinvolte forme di scrittura meno impegnative. Ovviamente
con l’aggettivo regionale non ci si riferisce alle regioni amministrative, ma a regioni linguistiche.
De Mauro afferma che le varietà regionali di italiano possono considerarsi come una risultante nata dal
comporsi della tradizione linguistica italiana con le molteplici tradizioni linguistiche dialettali. Lo sviluppo
delle varietà regionali ha favorito una grande mobilità di forme dai dialetti alle varietà locali di italiano: così,
ad esempio, elementi lessicali dialettali si sono italianizzati per essere adottati dall’intera comunità
nazionale. Ogni regione linguistica presenta al suo interno una ricca gamma di variazioni che sfumano
gradualmente l’una nell’altra, in un continuum nel quale giocano un ruolo importante anche fattori come
l’età, la classe sociale e il grado di scolarizzazione.
All’interno di questo continuum si distinguono i due livelli di it. regionale che sono agli estremi della scala:
- una varietà regionale ‘bassa’, più ricca di forme dialettali ma tale da non oltrepassare il confine
della ‘lingua’ per trasformarsi in dialetto;
- una varietà regionale ‘alta’, più vicina all’it. standard, con venature dialettale a livello fonetico.
Infatti, è soprattutto a livello di pronuncia che le diversità regionali si fanno notare: quando si sente parlare
qualcuno in italiano si riesce quasi sempre ad individuarne la zona di provenienza (almeno per grandi aree:
settentrionale, centrale-toscana, centrale-romana, meridionale, siciliana, sarda, etc.).
Tratti fonetici più riconoscibili:
- tratti settentrionali:
o realizzazione sonora della [s] intervocalica [‘ka:za];
o riduzione delle consonanti doppie.
- tratti toscani:
o gorgia, o aspirazione, nella realizzazione delle consonanti occlusiva sorde in posizione
intervocalica [la ‘ha:sa] al posto di [la ‘ka:sa];
o in area toscana e romana: realizzazione, aperta e chiusa, delle vocali intermedie [e], [o]:
[‘pεska] pronuncia aperta per il frutto, [‘peska] pronuncia chiusa per l’attività del pescare >
in altre regioni italiane questa distinzione non è avvertita.
- tratto centro-meridionale:
o realizzazione sorda della [s] intervocalica [‘ka:sa], rafforzamento sintattico della consonante
iniziale di parola [sa ‘ttut:o];
o pronuncia sonora delle occlusive sorde dopo [n] e [m]: [in ‘drenda] al posto di [in ‘trenta].
Tratti morfosintattici:
- varietà settentrionali:
o uso quasi esclusivo del passato prossimo (rispetto al passato remoto);
o assenza dell’articolo determinativo davanti a pronomi possessivi con nomi di nomi di
parentela (mia mamma, mio papà);
o costrutti verbali particolari (sono dietro a pensarci ‘sto pensando);
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o uso pleonastico dei pronomi e delle particelle pronominali: a me mi piace viaggiare;
o nomi propri di persona preceduti dall’articolo determinativo: la Lucia, il Carlo;
o tr. veneto: rafforzamento di alcune congiunzioni o pronomi tramite che: quando che vai via.
- varietà centrali:
o tratto romano: che enfatico con funzione interrogativa: che vieni stasera?;
o tratto toscano: sistema tripartito dei dimostrativi: questo, codesto, quello;
o tratto toscano: uso della 1° persona pl. in forma impersonale (noi quest’anno si va al mare).
- varietà meridionali:
o uso del passato remoto (rispetto al passato prossimo);
o frequenza dei verbi pronominali intensivi: mi sono mangiata una mela;
o uso dell’accusativo preposizionale > oggetto introdotto da prep. a: hai visto a tuo padre?;
o scambi di modi tra protasi e apodosi nel periodo ipotetico: se direi… farei, se dicessi…
facessi;
o allocuzione inversa: hai mangiato, mamma? (detto dalla madre al figlio);
o sostituzione dell’interrogativo perché con che + verbo + a fare: che ridi a fare?.
Mentre alcuni tratti risultano connotati in senso regionale, per altri tratti è già documentata una larga
diffusione a livello nazionale.
Variazione diastratica: questa variabile, rispetto alle precedenti che sono variabili collettive, riguarda
l’individuo stesso, quindi la collocazione del parlante nella società. Però, non ci interessa la collocazione
socio-economico di quell’individuo (professione, condizione economica, etc.), ma l’ambito socio-culturale >
questo perché, per l’acquisizione di una competenza linguistica matura, non ostacola tanto la collocazione
socio-economico, quanto più i fattori socio-culturali, ovvero che lingua e che cultura si aveva in famiglia e,
soprattutto, che tipo di formazione culturale ha l’individuo > formazione culturale intesa come carriera
scolastica (il tipo di scuola fatta, con quali inseganti e con quali compagni, quale impegno si è messo) >
questo dà la fotografia dell’italiano parlato da un determinato individuo; ovviamente a questo si deve
aggiungere la base ricevuta in famiglia, anche se oggi quel background familiare può essere superato dal
percorso culturale > es.: un individuo, figlio di genitori che non hanno un alto livello culturale e una grande
capacità linguistica-espressiva nello scritto e nel parlato (perché non hanno avuto la possibilità di formarsi
culturalmente), (individuo) che porta a compimento il percorso scolastico con ottimi risultati, avrà un livello
alto alla stregua di un conoscente che abbia avuto un percorso a casa più facilitato perché inserito in un
ambiente in cui si parlava un buon italiano. Al contrario, gente che è nata in un ottimo background familiare
sia a livello linguistico sia a livello economico, se non esposta bene a un percorso culturale compiuto
(magari perché non frequenta la scuola, perché si trasferisce, per mancanza di buoni insegnanti, per
mancanza di impegno), poi parlerà un pessimo italiano (> avrà capacità linguistiche diastraticamente
minori). Quindi, la diastratia non va legata al fattore economico, ma va legata a una connotazione di tipo
sociale e che guardi più verso gli aspetti culturali. Poi, quando una persona diventa adulta e ha lasciato la
scuola, il livello diastratico continua ad incidere perché incide il lavoro, il tipo di amicizie che si hanno, etc.
(se mi circondo di persone che usano sempre gli stessi termini, regredisco linguisticamente; diversamente,
avanzerò se sono stimolato) > è un fattore intra-individuale (dipende dall’individuo, non dalla società) e può
essere sempre in evoluzione positiva o negativa.
Italiano popolare: «insieme si usi molto ricorrenti nel parlare e – a volte – nello scrivere di persone non
istruite e che nel quotidiano usano per lo più il dialetto; usi con numerose devianze rispetto a quanto
previsto dall’it. standard normativo» (Berruto). Si tratta di un italiano “sgangherato” sul piano
dell’ortografia, della punteggiatura (inesistente) e della morfosintassi, che trasferisce nella scrittura modi
tipici del parlato. Notiamo:
- forte frammentazione sintattica con scarsa o nulla presenza di subordinazione;
- uso esclusivo di verbi all’indicativo;
- presenza insistita del che polivalente (usato cioè come congiunzione generica);
- difficoltà di resa del discorso diretto in discorso indiretto;
- forme verbali irregolari (venghino, se stesse zitto);
- rafforzamento dei pronomi attraverso la ridondanza (fargli coraggio a papà);

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- la semplificazione o piuttosto la reinterpretazione di parole difficili (comparativa ‘cooperativa’,
febbrite per ‘flebite);
- l’uso di parole generiche (le carte ‘i documenti’).
L’interesse per l’italiano popolare è, solo in parte, un interesse storico. Nato nei primi decenni del 900 tra le
classi subalterne non raggiunte dalla scuola, l’it. pop. fu il frutto di una situazione storica in cui grandiosi
fenomeni sociali (guerre mondiali, emigrazioni, lotte operaie e contadine) fecero incontrare parlanti aventi
alle spalle dialetti diversi che avevano però bisogno di comunicare tra loto, non avendo però lingua comune
> dunque, l’it. pop. nacque fuori dalla scuola per merito delle classi popolari. Ma nel panorama
contemporaneo, a seguito della scolarizzazione di massa e della diffusione della lingua nazionale, questa
varietà sembrerebbe scomparsa; a meno che non la si voglia vedere come una varietà precorritrice 3
dell’italiano comune di oggi: Laura Vanelli, parlando di it. pop. afferma che lo ritrova nella «lingua
colloquiale d’uso comune opposta alla lingua formale parlata e soprattutto scritta» > tale interpretazione
sembra essere confermata dalla sopravvivenza, nel parlato contemporaneo, di molti tratti tipici dell’it. pop.
(anche se in forme più ‘leggere’, e i tratti meno marcati sono transitati nell’it. neo-quasi-standard) >
insomma, lungi dall’essere morto, l’it. pop. sarebbe ancora vivo e presente nel repertorio come ‘varietà
diastratica bassa’.
Variazione diafasica: questa dimensione di variazione ha a che fare con il mutare delle situazioni
comunicative, le quali sono condizionate da variabili quali:
- le circostanze in cui ha luogo lo scambio;
- il ruolo ricoperto dagli interlocutori;
- gli scopi e l’argomento dell’interazione.
[appunti: la variazione diafasica dipende dal contesto situazionale > questa dimensione è caratterizzata da 3
elementi che, combinati insieme, danno una diversità di registro (più o meno formale):
1. la finalità del discorso (perché parlo o scrivo?),
2. gli utenti/interlocutori (a chi sto parlando/scrivendo?),
3. l’oggetto della discussione (cosa sto dicendo/scrivendo?).]
Rientrano in questa dimensione i ‘registri’ (o ‘stili contenutistici’, o ‘stili’, anche ‘livelli di lingua) e i
‘sottocodici’ (o ‘lingue speciali’, ‘lingue specialistiche’, ‘linguaggi settoriali, ‘macrolingue’). Berruto più di
vent’anni fa avvertiva che i registri fossero la classe di varietà meno studiata per l’italiano, il che rimane
abbastanza vero anche oggi. I fattori determinanti della variazione di registro sono il grado di formalità o
informalità della situazione comunicativa: ai due estremi si pongono da un lato le situazioni molto formali e
dall’altro le situazioni molto informali > fra i due estremi si pone una gamma quasi infinita di situazioni, che
scivolano da un livello di formalità all’altro (le scelte lessicali documentano bene questa gradualità
‘continua’)
Tratti linguistici tipici dei registri alti:
- a livello fonologico: bassa velocità di eloquio e maggiore accuratezza nella pronuncia, il che ha
come conseguenza una attenuazione dei tratti regionali più marcati.
- a livello morfosintattico e testuale: massima esplicitezza verbale e scarso ricorso all’implicito;
pianificazione accurata del testo; uso frequente di connettivi di vario tipo (infatti, quindi, etc.);
sintassi elaborata, con uso frequente della subordinazione esplicita e implicita (gerundi, participi).
- a livello lessicale: variazione spinta e tendenza alla verbosità (ovvero ripetere con altre parole
quanto si è già detto); preferenza per termini specifici o per parole più auliche; uso di parole
complesse, anche con cumulo di morfemi derivativi (nazion-al-izza-zione).
Tratti linguistici tipici dei registri bassi:
- a livello fonologico: alta velocità di eloquio e scarsa accuratezza nella pronuncia; tendenza al
troncamento (far, son), all’aferesi (‘sto ‘questo’), alla semplificazione di nessi ‘difficili’ (proprio);
accentuazione della prosodia e dei tratti paralinguistici (mimica e gestualità particolari).
- a livello morfosintattico e testuale: scarsa pianificazione del testo e frequenti cambiamenti di
progettazione; scarso uso di connettivi e sintassi spezzettata, con frasi brevi.

3
precorritrice: precursore.
8
- a livello lessicale: scarsa variazione lessicale, con alto tasso di ripetizioni e di nomi generali ( cosa,
tizio); uso di parole abbreviate (bici ‘bicicletta’); uso di lessico connotato in senso colloquiale
(prendersela per ‘offendersi’, sfottere per ‘deridere’).
Variazione diamesica: Lo Duca considera tale variazione la più importante > riguarda il mezzo/canale di
trasmissione del messaggio: orale o scritto (ovviamente nelle culture a matrice anche scritta perché ci sono
ancora culture a matrice solo orale). La differenza tra orale e scritto è da riportare nelle scelte che il canale
(orale o scritto) impone:
- la possibilità di pianificare il discorso è massima nello scritto, minima nel parlato > il testo scritto
può essere ritoccato, corretto; il parlato è ricco di autocorrezioni, esitazioni, interruzioni,
cambiamenti di prospettiva > ne consegue che il parlato sarà più irregolare dello scritto.
- inoltre, è impossibile trasferire nello scritto certe caratteristiche del parlato (intonazione, velocità,
esitazioni, enfasi, silenzi), come è impossibile trasferire nel parlato tutti i fatti grafici e di
organizzazione del testo che sono propri della scrittura.
Anche questa variazione presenta al suo interno una ricca gamma di varietà, e anche in questo caso
dobbiamo pensare al parlato e allo scritto come ai due estremi di una ipotetica scala, in cui è rappresentata
una vasta gamma di varietà intermedie, ciascuna attraversata da altri fattori di variazione (classe sociale e
livello di istruzione del parlante, la sua origine regionale, la sua età), variabili che condizionano in ogni
momento le scelte linguistiche del parlante/scrivente.
Da parlato-parlato si passa allo scritto attraverso una serie di gradini intermedi occupati da varie forme del
parlato: parlato sorvegliato (e monologico) di una lezione, di un comizio, di una predica; a varie forme di
‘parlato-scritto’; al ‘parlato-recitato’ (tipico delle rappresentazioni teatrali e dei notiziari radio-televisivi).
La descrizione dello scritto coincide del tutto con la descrizione della grammatica dell’italiano > infatti, le
descrizioni grammaticali di una lingua sono state basate interamente sulla lingua scritta (per lo più formale)
> la situazione però è radicalmente mutata negli ultimi decenni, in quanto sono state prodotte numerose
descrizioni dell’it. pop. e ci si è accorti che il parlato possiede una sua organizzazione interna paragonabile a
quella della lingua scritta (solo che è un’organizzazione diversa, che si manifesta in forme diverse). Nelle sue
realizzazioni parlate, una lingua è meno controllata e controllabile
[appunti: il canale orale è quello prioritario perché, dal punto di vista cognitivo e comunicativo, è il canale
principe; poi, c’è subito quello scritto (nella nostra cultura, i due canali si trovano quasi a coincidere, in
quanto si attivano in un bambino a 2/3 anni di distanza perché, già nella scuola d’infanzia, si inia a
disegnare simboli e a imparare delle lettere). A questi mezzi si sono aggiunti, con l’era moderna, altri mezzi:
radio, televisioni, cinema che suppongono un parlato non-parlato, un parlato ibrido; in particolare, per la tv
Francesco Sabatini ha coniato il termine di “italiano trasmesso”, non era né scritto né parlato: il parlato
televisivo sembra parlato ma non è parlato, e ha anche tratti dello scritto.]
Tratti del parlato:
- testualità: la conseguenza più vistosa della scarsa pianificazione del testo parlato è la
frammentarietà sintattica > enunciati brevi accostati l’uno all’altro senza essere fusi in periodi
organizzati.
- sintassi: la paratassi (coordinazione) è preferita rispetto all’ipotassi (subordinazione); la
subordinazione esplicita è preferita alla subordinazione implicita.
Sia nella subordinazione sia nella coordinazione si usa una gamma ristretta di forme (coord: e, ma,
poi – subord: se, perché, quando); per le subordinate implicite: di, a, per + infinito.
Il che viene usato come connettivo generico (che polivalente).
Il così è usato spesso come introduttore di frase (lascia aperta la porta, così la vedono).
Frequente l’uso di frasi segmentate di vario tipo: dislocazione a sinistra e a destra; frasi con tema
libero o con tema sospeso, anacoluti; frasi scisse; c’è presentativo seguito da un che pseudorelativo
(c’è un signore che vuole parlare con te).
- morfologia: il sistema verbale si presenta semplificato e ridotto rispetto allo scritto > nel parlato
troviamo la sottoutilizzazione di alcuni tempi (passato remoto, trapassato remoto) e modi
(congiuntivo, condizionale del periodo ipotetico); anche la diatesi passiva è poco utilizzata.
- lessico: la mancanza di pianificazione e la velocità di eloquio portano a una minore diversificazione
nella scelta delle parole, cui si accompagna:
9
o da una parte la frequente ripetizione della stessa unità lessicale,
o dall’altra il fenomeno della superutilizzazione di parole dal sig.to generico (cosa, roba).
Frequenti l’uso di diminutivi in -ino (un attimino, un pensierino ‘regalo’) e formule varie di
attenuazione (è un po’ matta).
CAPITOLO 3 – MODELLO (O MODELLI?) DI LINGUA E NORMA
1. L’italiano standard e neo-standard
Una lingua assume la posizione di standard perché è dotata di caratteristiche che le altre forme di lingua
non hanno > una di queste caratteristiche è la ‘centralità’ o ‘neutralità’ rispetto ad altre varietà.
Le ragioni per cui una lingua è standard non sono legate alla sua superiorità; sono piuttosto ragioni storiche
> ciò non toglie che gli venga attribuita dal parlante la caratteristica di “modello di riferimento”.
La storia dell’italiano: il toscano del 300 delle classi colte è diventano lingua nazionale per adesione
volontaria da parte delle élite intellettuali di tutta la penisola. Ciò è avvenuto perché il toscano è stato
apprezzato e ammirato come lingua della Commedia di Dante, del Decameron di Boccaccio e del
Canzoniere di Petrarca, e dunque è stato preso a modello dalle classi colte delle altre regioni italiani che,
abbandonando via via il latino come lingua scritta, si avvicinavano al volgare (il toscano appunto). Da qui
nasce l’idea che il ‘vero italiano’ (ovvero l’italiano standard) risieda ancora oggi a Firenze, o in Toscana. In
realtà, siamo autorizzati a dire che l’italiano standard sia il frutto di un’opera di ‘contaminazione’ del
toscano.
Berruto specifica che l’it. standard letterario non vuol dire ‘lingua delle opere letterarie’, ma piuttosto
‘lingua di livello letterario’ appoggiata alla tradizione letteraria. È dunque la lingua – generalmente scritta –
usata dagli studiosi, dai legislatori, dai buoni giornalisti e da qualche romanziere; lingua la cui descrizione si
trova nelle grammatiche normative, che la additano come modello di riferimento cui attenersi.
Al di sotto di questa varietà ‘alta’, si pone una varietà ‘bassa’ che chiamiamo neo-standard, definito da
Francesco Sabatini come “l’italiano dell’uso medio”. Il neo-standard non va inteso come una varietà che si
oppone allo standard, è piuttosto il frutto di una ristrutturazione dello standard.
Sabatini elenca 14 tratti che sono i più problematici per un insegnante, quelli su cui più spesso ci si chiede
se sia opportuno correggere o reprimere:
1. Lui, lei, loro in posizione di soggetto;
2. Uso della forma dativale gli al posto di le (a lei) e loro (a loro);
3. Partitivo preceduto da preposizione: con degli amici;
4. Le dislocazioni a sx, a dx e il tipo sintattico a me mi con uso pleonastico della particella
pronominale;
5. Che polivalente, soprattutto con valore temporale: dal giorno che ti ho visto…;
6. Per cui con valore di connettivo frasale: pioveva, per cui sono rimasta a casa;
7. Cosa? al posto di che cosa?;
8. E, ma, o, allora, comunque in posizione iniziale di frase;
9. L’indicativo al posto del congiuntivo in alcune subordinate (credo che hai torto) e nelle ipotetiche;
10. La concordanza ad sensum: sono venuti a trovarmi una decina di amici;
11. Il soggetto post-verbale: non ci sono soldi;
12. Verbi in forma pronominale, per indicare partecipazione affettiva: mi sono bevuto un bel caffè;
13. La frase scissa: è lui che mi ha fatto cadere;
14. Il ci attualizzante: non c(i) ho tempo; non ci capisco niente.
Questi tratti prefigurano una varietà panitaliana, ovvero una varietà di italiano che non appartiene a una
determinata regione, ma che viene usata da parlanti di ogni età, di ogni ceto e livello di istruzione. Questo
‘italiano dell’uso medio’ è quello che più si avvicina a una lingua comune a tutti gli italiani (parlata e scritta).
L’italiano è stata una lingua quasi solo scritta per molti secoli (la parte orale era affidata al dialetto) >
quando si è imposta l’esigenza di una lingua unitaria nazionale anche orale, nessuna pronuncia è riuscita a
diventare effettivo modello nazionale. Parallelamente alla diminuzione dell’uso dei dialetti, si assiste ad un
movimento lento ma costante verso la standardizzazione, con la spontanea sottoutilizzazione dei tratti più
locali.
1.1 Quale italiano nelle grammatiche italiane?
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Le ‘grammatiche di riferimento’ dell’italiano descrivono la lingua italiana in tutte le sue forme e strutture. Si
tratta di grammatiche descrittive, non normative: l’intento non è quello di prescrivere “la buona lingua”,
individuando una lista di regole cui chiunque dovrebbe attenersi nello scritto e nel parlato), ma è quello di
descrivere l’italiano così come effettivamente viene usato dalla comunità.
Luca Serianni, nella sua grammatica, scrive: «il modello d’italiano che è alla base della nostra trattazione è
l’italiano comune: quello che non è solo scritto ma anche parlato dalle persone colte in circostanze non
troppo informali».
Un’altra grammatica di riferimento dell’italiano, curata da Lorenzo Renzi, Gianpaolo Salvi e Anna
Cardinaletti > la lingua qui descritta è l’italiano che il parlante nativo naturalmente conosce e usa nella
molteplicità delle situazioni > la conseguenza è l’attenzione per una grande massa di dati dell’italiano,
ovvero per tutti i fenomeni (centrali e periferici) che fanno parte della competenza linguistica del parlante
nativo. Nella Presentazione Renzi afferma: «questa Grammatica accoglie la pluralità interna dei molti
italiani».
Comunque, le grandi grammatiche di riferimento dell’italiano degli ultimi 2 o 3 decenni descrivono l’italiano
l’italiano che si parla e si scrive oggi in Italia > nessuna grammatica esclude i fenomeni dell’it. neo-standard,
perché questi tratti sono da tutti considerati parte della lingua di cui si fornisce la descrizione.
2. Norma tradizionale e “italiano scolastico”
Quello della definizione di standard o norma è per l’insegnante un punto cruciale, perché si tratta di
decidere il modello di lingua che è giusto prendere come riferimento. Partiamo dal volume di Monica
Berretta (1977), in cui si afferma che «il ‘buon’ italiano è la lingua della letteratura, dei ‘buoni autori’:
un’etichetta sotto cui vanno inclusi i grandi, partendo da Dante per arrivare al culmine con Manzoni» >
quindi, il modello di lingua proposto agli allievi era anacronistico (di epoche passate) e inadeguato per le
reali situazioni comunicative.
Nel 16° sec. si stabilì, grazie a P. Bembo, la norma dell’it., che si modellò sull’esempio dei grandi trecentisti
toscani; e, fino al 19° secolo, il dibattito sulla norma dell’italiano ha ruotato attorno a modelli letterati.
Quindi: poiché in Italia non esisteva una norma di fatto, l’operazione fu quella di scegliere una forma e
imporla.
De Mauro identifica “l’antiparlato”, modello tipicamente scolastico affermatosi nella scuola italiana fin dai
primi anni dell’Unità > questa norma scolastica fu rifiutata nettamente dai linguistici.
3. Norme linguistiche ed uso
Problema: la definizione della norma/modello di riferimento da adottare in classe. Sul tema interviene
Serianni, che sostiene che è difficile parlare di norma in termini astratti, prescindendo dalla reazione
linguistica che mostra una certa comunità > quindi, la norma coincide con «l’uso statisticamente
prevalente» (Berretta), quell’uso che si adegua al «comune sentimento della lingua» dei parlanti (Serianni).
Dunque, l’autorità indiscussa è la ‘massa parlante’.
Il grammatico dovrà descrivere la norma, ben sapendo che essa coincide con l’uso (norma=uso); dovrà poi
distinguere tra processi presumibilmente duraturi e mode passeggere.
Serianni, argomentando sulla norma dell’it. contemporaneo, segnala agli insegnanti di it. due poli estremi:
1. il primo di «massima stabilità», rappresentato dall’ortografia > Serianni ricorda come la norma
dell’ortografia italiana si sia stabilizzata di recente, e che solo un secolo fa c’erano ancora molti
dubbi e grandi instabilità in fatto di accenti, apostrofi, doppie. La ‘chiarezza legislativa’
dell’ortografia spiega l’atteggiamento degli insegnati sempre pronti a intervenire su questo aspetto
delle produzioni linguistiche dei loro allievi.
2. il secondo di «massima oscillazione», rappresentato dalla pronuncia > il settore relativo alla
pronuncia è meno normalizzato, in quanto più ‘interessato’ a una forte differenziazione di tipo
regionale (è il settore in cui gli interventi correttivi sono meno sicuro e meno frequenti).
Tra i due poli, di massima (ortografia) e minima (pronuncia) normalizzazione, si situano gli altri livelli della
lingua: morfologia, sintassi e lessico > sono i settori più problematici per un insegnante, perché in essi
possono presentarsi diversi gradi di ‘sicurezza normativa’. Serianni presenta dei criteri di giudizio.
4. Criteri normativi
1. Primo criterio di giudizio è quello «razionalistico-logicizzante» per cui:
- la forma suicidarsi è illogica perché contenente un doppio riflessivo (sui- e -si);
11
- è scorretta la doppia negazione (io non vedo niente varrebbe ‘io vedo qualcosa).
Ma, riconosce Serianni, le preoccupazioni logicizzanti risultano diffuse tra i parlanti e tra gli insegnanti.
2. Il criterio etimologico: le preoccupazioni etimologiche, secondo Nencioni, ridurrebbero alla paralisi
espressiva e comunicativa.
Dunque, nessuno dei due criteri è da considerarsi attendibile nella definizione della norma linguistica.
3. Rimane da considerare il criterio letterario, che ha goduto nei secoli di un’adesione incondizionata.
Infatti, per Castellani il modello di lingua cui attenersi è di tipo letterario.
4. Accanto a quest’ultimo criterio, viene aggiunto un criterio dell’uso, valido tuttavia solo in riferimento alla
varietà toscana di italiano e che, quindi, non riguarda l’uso nazionale di televisione e giornali.
Quindi, per concludere, se per l’ortografia si può dire che la norma è (quasi) sempre una e certa, per la
morfosintassi e il lessico al «si dice o non si dice?» si deve spesso rispondere «si dice in più modi, ma in
situazioni diverse e con intenzioni espressive diverse».
Serianni pensa che la scuola, pur senza bandire nessuna norma, non debba dedicare energie a insegnare ai
ragazzi un it. coll. che già sono in grado di usare; afferma che «la scuola deve educare il ragazzo a
un’importante varietà d’taliano che non gli è familiare e che non è solo l’it. letterario del passato: ma è la
lingua in cui è scritto l’articolo di un giornale, il testo di una legge, una circolare per i dipendenti delle
poste».
Quindi: la scuola dovrà educare all’uso di tutte le varietà in rapporto alle diverse situazioni comunicative,
ma con un’insistenza maggiore sulle varietà più formali (perché non praticate dai giovani fuori la scuola),
non evidenziandole come varietà superiori, ma lavorando sulle forme richieste dalle situazioni più formali.
5. Norma e grammatiche scolastiche
La norma adottata dalle grammatiche è una norma ‘acronica’ > Serianni evidenzia il difetto «quando la
lingua varia a seconda delle coordinate spaziali, temporali o di registro, il libro di grammatica dovrebbe
diventare una bussola utile a mettersi nella giusta rotta», ma così non è > e il ragazzo avverte che non è la
sua lingua, ma che è comunque costretto a studiarla.
CAPITOLO 4 – LA GRAMMATICA NELL’EDUCAZIONE LINGUISTICA
1. La grammatica sotto accusa
Raffaele Simone e Giorgio Cardona scrivono un saggio (1971) come critica severa alle grammatiche
scolastiche, in cui passano in rassegna i diversi livelli dell’analisi linguistica (fonologia, morfologia, sintassi,
lessico) così come venivano trattati dalle grammatiche prese in esame, e per ognuno sono elencate le
inadeguatezze, le semplificazioni e le sciocchezze.
Furono soprattutto due le accuse mosse al modo in cui si era soliti ‘fare grammatica’ in classe:
1. l’inaffidabilità scientifica dei contenuti proposti;
2. l’inefficacia rispetto agli obiettivi che si credeva si poter raggiungere.
Il tutto è riconducibile a convinzioni teoriche radicate negli insegnanti e negli autori delle grammatiche,
convinzioni che vengono elencate da Monica Berretta:
- l’italiano è un sistema unitario, con un lessico, una morfologia, una sintassi, una fonologica stabiliti
per tutte le circostanze;
- tale sistema è basato sul fiorentino colto;
- i dialetti italiani sono rozze degenerazioni della lingua italiana, e vanno banditi dall’uso scolastico;
- tutte le deviazioni dal canone prestabilito (neologismi, grammatica semplificata, pronunce
regionali) sono degli abusi che vanno estirpati.
2. Le risposte: dal rifiuto della grammatica alla ricerca di “altre” grammatiche
La reazione a questa pioggia di critiche che si abbattevano sull’insegnamento gramm. tradizionale fu che
molti insegnanti, disorientati e impreparati a sostituire lo strumentario grammaticale tradizionale con
modelli più aggiornati, preferirono rinunciare («parziale messa in soffitta della grammatica», Renzi).
Monica Berretta, invece, non ebbe mai dubbi sulla necessità di ‘fare grammatica’: la studiosa pose la
propria attenzione nel cercare un’alternativa plausibile al modello tradizionale, e ne mette a confronto più
di uno. Berretta studia di ogni modello le possibili applicazioni in sede didattica > ne esce un quadro
problematico, che richiama gli insegnanti al dovere di ‘fare attenzione’ perché ogni modello presenta pregi
e difetti. Questa convinzione la porta, ad esempio, a rifiutare la proposta di Domenico Parisi, la quale si
distingue per il suo carattere organico > si tratta di un modello teorico che aspirava a sostituire il modello
12
tradizionale: secondo Parisi, il ricorso ad altri modelli porterà a un rinnovato programma di educazione
linguistica.
La proposta di Renzi («grammatica ragionevole per l’insegnamento») si muove su altre posizioni >
innanzitutto, è stata una delle proposte vincenti grazie alla forte dose di realismo che la ispirava. Per Renzi,
la miglior base di un insegnamento grammaticale è ancora la grammatica tradizionale, ma liberata dalle
contraddizioni e dalle incrostazioni pedantesche, nonché aperta al lavoro linguistico più recente. Dunque,
Renzi, mantiene l’impalcatura tradizionale senza distruggerla: assume il modello tradizionale come base,
ma non disdegna l’integrazione con altri modelli > impostazione che troverà molte condivisioni.
La proposta di Raffaele Simone: il linguista adottò la grammatica nozionale, dando rilievo al significato più
che ai meccanismi formali che lo rappresentano linguisticamente. Le grammatiche nozionali compiono un
percorso rispetto a quello compiuto dalle grammatiche formali:
Grammatica formale Grammatica nozionale
Parte Dalla superficie della lingua, da ciò che si Dall’identificazione di alcuni significati/nozioni
vede o si sente ineludibili/inevitabili nella comunicazione
umana (tempo, spazio, quantità)
Poi Arriva alle funzioni che le categorie Identificano le funzioni sintattiche che le
assolvono realizzano
Infine (NO) Descrivono le forme superficiali che tali
categorie assumono.
Modello valenziale: più di tutti possiede le caratteristiche di semplicità e di potenza descrittiva. Il primo ad
adottarlo nella prima edizione della sua grammatica per le scuole fu Francesco Sabatini. Tale modello ha il
suo punto di forza nella definizione della struttura della frase semplice, vista non come unione sogg-verbo,
ma come la proiezione linguistica di un predicato-verbo. Ogni verbo possiede delle ‘valenze’ (o argomenti)
che devono essere ‘saturate ‘nelle frasi attraverso degli elementi obbligatori, necessari affinché l’evento
evocato dal verbo abbia una corretta rappresentazione linguistica. Es.: i verbi nascere, morire richiedono un
soggetto solo; ma ci sono alcuni verbi che richiedono più elementi obbligatori (2 elementi obbligatori:
baciare; 3 elementi obbligatori: consegnare). Ci sono verbi che non richiedono elementi (es.: piovere).
3. Le nuove frontiere della grammatica nell’insegnamento
Quindi, è la confusione a dominare il campo. De Mauro sottolinea che spesso questi sforzi di rinnovamento
di arrestano a metà > gli autori delle ‘nuove’ grammatiche, timorosi delle reazioni di un corpo insegnante
ancora impreparato alle novità grammaticali, spesso adottavano un approccio misto.
Da questa iniziale confusione sono emerse le idee vincenti da cui è stato possibile ripartire.
3.1 Grammatica tradizionale e altre grammatiche
Monica Berretta suggerisce di non limitarsi, nella scuola di base, ai livelli tradizioni (fonol, morfol, sintassi),
ma di aggiungere altri settori dell’analisi linguistica, per sviluppare una serie di sottocompetenze tra cui:
- la competenza lessicale (lo studio dei significati, i rapporti di significato tra parole);
- la competenza semantica frasale (capire le espressioni figurate e gli atti linguistici indiretti);
- la competenza semantica testuale (capire e produrre testi coerenti, pianificati, etc.);
- la competenza sintattica superiore (per la sintassi del testo: uso consapevole di anafore,
connettivi..);
- la competenza nelle varietà della lingua (capire e produrre diverse varietà per argomento,
situazione, grado di formalità).
Il titolo del saggio di Berretta è La competenza metalinguistica nella scuola di base > vogliamo porre
l’attenzione su «competenza metalinguistica» con riferimento ai fenomeni relativi al linguaggio umano. Ciò
che Monica chiama «competenza metalinguistica» altri chiamano ‘riflessione sulla lingua’.
Mutata la ‘riflessione grammaticale’ in ‘riflessione sulla lingua’, mutano anche le risposte all’antico quesito.
Ad esempio, Francesco Sabatini individua tre ordini di obiettivi:
1. lo sviluppo delle capacità linguistiche;
2. il potenziamento della formazione culturale: aiutare i giovani a ‘leggere’ il loro presente e passato
attraverso la lingua significa aiutarli a diventare membri pensanti della comunità, capaci di
confrontarsi nel modo più informato e consapevole;

13
3. lo sviluppo cognitivo: la riflessione sulla lingua può svolgere un ruolo importante nel migliorare le
abilità cognitive di base, attivando alcune capacità mentali (osservazione, riconoscimento di
analogie e differenze, classificazione in categorie e sottocategorie, etc.) che sono alla base dei
processi di pensiero più maturi. Raffaele Simone condivide questa impostazione: insiste sulla
necessità di aiutare i ragazzi a ‘pensare’ puntando in primis sui meccanismi cognitivi. Il fine da
perseguire è quello di educare i ragazzi non ad usare meglio la lingua, ma ad usare meglio la testa.
3.2 Il dibattito attuale: punti fermi e nodi irrisolti
Riguardo al dibattito sull’ed. linguistica, si osserva che:
- l’ambito della riflessione sugli aspetti testuali e comunicativi è l’unico ad aver avuto innovazione;
- l’ambito della morfosintassi e del lessico resta ancorato alla ripetizione di vecchi stereotipi.
Un programma di insegnamento per avere successo deve essere fondato su 2 operazioni imprescindibili:
1. la scelta dei contenuti (‘scelta’ perché non si può insegnare tutta la grammatica);
2. la loro progressione nel corso del tempo (per ordinare le difficoltà dei contenuti).
Un’altra questione riguarda il ‘quando’ iniziare e il ‘quando’ finire un programma di riflessione sulla lingua >
Francesco Sabatini ritiene che il programma di riflessione sulla lingua debba coinvolgere in modo stabile
tutte le fasce scolari (anche il triennio delle superiori, che nella comune prassi ne è esonerato) > le ragioni
sono 2:
1. perché alcuni fenomeni linguistici non sono disponibili alla comprensione degli allievi se non a livelli
molto avanzati di scolarità;
2. perché la fascia scolare del triennio delle superiori costituisce il momento ideale per procedere ad
un’attenta revisione di tutto il sapere grammaticale accumulato dagli allievi nel corso del tempo.
CAPITOLO 5 – LA DIMENSIONE TESTUALE
1. Introduzione
Uno dei campi di studio preferiti dalla linguistica del testo è stato la classificazione dei diversi generi
testuali. La linguistica testuale parte dall’assunto che sia il ‘testo’ a costituire il dominio della grammatica
(no la frase).
2. Coesione e grammatica
‘Coesione’: l’insieme dei meccanismi grammaticali dei quali ci serviamo per collegare assieme le varie parti
di cui un testo si compone. Ci occupiamo solo di alcuni aspetti della coesione testuale.
- Anafora: è uno dei principali mezzi che le lingue hanno a disposizione per ‘legare’ assieme porzioni di
testo > si tratta di elementi che, pur appartenendo a categorie grammaticali diverse (sintagmi nominali e
pronomi), si riferiscono alla stessa entità (è una specie di ripetizione).
La prima menzione dell’elemento nel testo è detta ‘antecedente’; la seconda menzione è ‘ripresa
anaforica’; se gli elementi di richiamo sono più di uno, si può parlare di ‘catena anaforica’.
Tra antecedente e ripresa anaforica si instaura un rapporto di ‘coreferenza’.
La linguistica del testo ha studiato e descritto i vari tipi di ripresa anaforica possibili in un parlante:
- sintagma nominale espresso dalla semplice ripetizione dell’antecedente: un gatto grigio… il gatto;
- sintagma nominale espresso da:
o un sinonimo (il professor Rossi… il docente);
o un sovraordinato (un gatto grigio… la bestiola);
o un nome generale (un operario… l’uomo);
o una perifrasi (il papa… il vescovo di Roma);
o un sinonimo testuale (una giovane donna è stata investita mentre… la poveretta).
- pronomi tonici (un ragazzo… egli/lui) e atoni (un gatto grigio… l’ho preso);4
- ellissi, in cui fa da segnalatore anaforico la marca di accordo sul verbo (un gatto… Ø prima ke
andasse)
- anafora zero, in cui manca la marca di accordo sul verbo (temevo che il gatto andasse Ø a finire…).
L’articolo indeterminativo è un segnalatore di presunta novità.

4
La grammatica del testo ci dice che appaiono in forte regresso le riprese costituite dai pronomi personali tonici (egli,
esso, ella, essa, essi, esse), che vengono sostituiti nel parlato dalle forme lui, lei, loro anche in posizione di soggetto.
14
Altre forme di anafora, in cui tra antecedente e ripresa anaforica non si instaura un rapporto di
coreferenza:
- ”incapsulatore” anaforico, in cui la ripresa è una specie di ‘capsula’, un nome astratto che riassume
una porzione di testo precedente (due anziani hanno cercato di togliersi la vita… All’origine del
gesto)
- l’anafora associativa: le riprese anaforiche non rimandano allo stesso referente dell’antecedente
(film), ma introducono nel testo nuovi referenti, suggeriti dallo scenario evocato dall’antecedente
(ieri ho visto un bel film: gli attori erano bravissimi e la scenografia era superba. Il regista è …).
Simile all’anafora è la catafora: quel meccanismo relazionale che richiama, anticipandolo, quanto verrà
introdotto più avanti nel testo (cata dal greco ‘verso il basso, giù) > se lo vedi, invita anche Gianni alla festa
> lo anticipa e annuncia l’elemento lessicale pieno (Gianni), ovvero l’individuo del quale si sta parlando.
Connettivi: sono elementi di connessione, ossia «collegano fra loro parti di testo (frasi, periodi, etc.)
esplicitando il legame semantico o discorsivo che esiste fra le parti collegate» > distinzione tra:
- connettivi semantici: istituiscono relazioni tra i ‘fatti’ di cui si parla > es: connettivi temporali:
o segnalano gli snodi temporali nei testi narrativi: all’improvviso, ad un tratto, una volta, etc.;
o segnalano la posteriorità di un evento rispetto ad un altro: dopo, l’indomani, dopo due anni;
o segnalano la contemporaneità di due eventi: contemporaneamente, nel frattempo, etc.;
o segnalano l’anteriorità: precedentemente, il giorno prima, l’anno prima, etc.
- connettivi testuali: che collegano – no ‘fatti’ –, ma parti di testo in quanto unità di discorso > tra cui:
o gli elementi che scandiscono il testo in parti, esplicitando la pianificazione interna del testo
(anzitutto, innanzitutto; in primo luogo… in secondo luogo… infine; etc.);
o gli elementi che segnalano gli snodi importanti del testo (apertura o chiusura del testo) o
che introducono anticipazioni e/o richiami: vorrei iniziare con, come abbiamo appena visto,
vedremo più avanti che, analizzeremo adesso 3 possibilità, concludendo, da ultimo, infine…
Anche se ci sono dei connettivi difficili da ascrivere al primo o secondo gruppo: e, ma, poi, invece…
Principali funzioni svolte dai connettivi nel testo:
- funzione additiva (aggiunta di informazioni): anche, inoltre, in più, oltre a ciò, etc.;
- funzione avversativa (segnalano una contrapposizione): al contrario, anzi, ciononostante, ma, però;
- funzione esplicativa, esemplificativa, riassuntiva: ad esempio, cioè, in effetti, in altre parole, infatti…
- funzione consecutiva (segnal. la conseguenza che deriva da una premessa): allora, dunque,
insomma
- funzione pragmatica: segnalano l’inizio o la fine di uno scambio (allora, bene, ok, pronto); servono a
richiamare l’attenzione (dai, guarda, sai); esprimono un sentimento del parlante (capirai, magari);
servono a ‘prendere tempo’/riempitivi (cioè, ecco, davvero, insomma) > conn. prag. sono
polivalenti.

3. Coerenza e significato
Maria Elisabeth Conte ha notato che un testo, per funzionare, oltre che coeso deve essere coerente > la
coerenza può essere spiegata come:
- proprietà intrinseca del testo;
- il frutto della cooperazione dell’interprete (perché collabori nell’interpretazione del testo).
La coerenza del testo è data dalla combinazione di 3 proprietà semantiche, che sono le fondamenta del
testo:
1. l’unitarietà: si ha unitarietà se il contenuto del testo è riconducibile, attraverso operazioni di
cancellazione, a nuclei semantici generali di cui il testo è l’espansione;
2. la continuità: si ha continuità se ogni enunciato ripropone una componente semantica già presente
nel co-testo [contesto linguistico] (?);
3. la progressione: si ha progressione se ogni enunciato contribuisce a modificare o accrescere l’info.
Sono, però, delle proprietà che non funzionerebbero senza la cooperazione del destinatario. Al di là di ciò
che dice il testo, il destinatario è chiamato a trarre delle inferenze/deduzioni ( elaborazione cognitiva
dell’interprete) > si tratta di casi in cui l’informazione rimane implicita, perché le parole bastano: es. l’anno
prossimo voglio tornare/andare di nuovo in Australia implica che il parlante sia già stato in Australia.
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In altri casi il processo inferenziale è attivato dalle conoscenze che il parlante assume condivise dal
ricevente: in questo caso si parla di ‘conoscenza precedente’ o di ‘enciclopedia’ (quest’ultimo è preferito
dai linguisti), proprio per designare questa sorta di ‘deposito delle conoscenze’. Quando si produce un
testo/si parla e si ha idea dell’enciclopedia del ricevente, si è consapevoli delle informazioni che si possono
lasciare implicite, e quali invece vadano rese esplicite.
4. Tipologie testuali
La tipologia testuale è un ramo della linguistica del testo che tenta di individuare una
tassonomia/classificazione dei diversi tipi di testo che possono essere prodotti dai parlanti nelle diverse
situazioni comunicative. In questo ambito è diventato centrale il concetto di ‘competenza comunicativa’,
ovvero la capacità del parlante di impiegare adeguatamente il linguaggio nelle diverse situazioni.
A seconda del criterio (o criteri) adottato per la classificazione dei testi, sono state proposte più
tassonomie:
- se si privilegia il canale di trasmissione, i testi si classificheranno in parlati e scritti;
o i testi scritti sono stati suddivisi in monologici e dialogici sulla base del criterio della
monodirezionalità o bidirezionalità;
- se i criteri sono i destinatari e il contesto, si parlerà di testi personali, pubblici o istituzionali.
Cristina Lavinio inquadra la tipologia basica dei testi in descrittivi, narrativi e argomentativi, e li analizza:
- Il testo descrittivo è la realizzazione del descrivere ed è consentito dalla capacità cognitiva di
percepire fenomeni, oggetti, situazioni visti nel contesto spaziale;
- il testo narrativo è il risultato del narrare ed è consentito dalla capacità cognitiva di percepire eventi
e azioni situati in un contesto temporale;
- il testo argomentativo è correlato all’argomentare per dimostrare la validità di una tesi; è
consentito dalla capacità cognitiva di giudicare i concetti/argomenti più pertinenti rispetto allo
scopo.
Però, la tipologia dei generi può cambiare (e di fatto è cambiata e continua a cambiare) > es.: il tipo
narrativo si realizza in una molteplicità di generi: articolo di cronaca, barzelletta, biografia, favola, notiziario,
romanzo…
Il tipo narrativo: si è scelto questo tipo perché è il più studiato sia in chiave descrittiva sia in chiave
didattica. Infatti, la centralità del ‘narrare’ merita una sempre attenta considerazione da parte del mondo
della scuola. Garavelli parla del testo narrativo con un testo dinamico, avente il suo fulcro nella successione
del tempo (al contrario del testo descrittivo, testo statico per eccellenza).
Rappresenteremo – seguendo la grafica di Bertinetto – il tempo come una retta orizzontale che va da sx a
dx: su tale retta segnaleremo i punti/momenti per localizzare un evento. Assumeremo che dietro ogni testo
narrativo ci sia un narratore N, dalle cui scelte dipendono decisioni che condizionano la struttura del testo.
L’essa del tempo è una linea infinita in cui evidenziamo il momento dell’enunciazione ME (ovvero, il
momento in cui N produce il testo) e il momento dell’avvenimento MA (che può essere passato, e quindi
collocarsi prima di ME o presente, quindi collocarsi dopo ME; anche contemporaneo e collocarsi insieme e
ME).
Nei testi in cui MA si pone prima di ME, notiamo spesso l’alternanza di due tempi: imperfetto e pass.
remoto:
- impf è di tipo descrittivo e serve a rappresentare gli eventi di sfondo, si danno le caratteristiche dei
personaggi e degli ambienti, creando la condizione/scena’ in cui ha luogo l’azione vera e propria;
- pass. remoto fa avanzare la storia (in questo caso serve a MA) rappresentando gli eventi cruciali.
Se volessimo definirlo, diremo che il tempo linguistico è l’insieme delle relazioni temporali presenti in un
testo > relazioni che dipendono dalle scelte di N. Il tempo linguistico non esiste in sé (come il tempo fisico).
Tipologie testuali e abilità:
5. Dimensione testuale e grammatica

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