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CAPITOLO III

LE GRAMMATICHE DELLA LINGUA ITALIANA

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III.1 LE GRAMMATICHE ITALIANE DEL PERIODO UNITARIO
I libri di testo rappresentano da sempre utili strumenti da utiliz-
zare per trarre informazioni sui livelli di cultura e sui modelli di com-
portamento delle società nel corso del tempo, ma soprattutto sulle
condizioni storiche, politiche e sociali che influirono sulla loro com-
pilazione, impostazione e utilizzazione pratica. Essi diventano quindi
“oggetti di ricerca”49 e, specie quelli scolastici, costituiscono modelli
linguistici e strumenti primari per il controllo del sapere di fonda-
mentale importanza per ricostruire i processi di alfabetizzazione e i
diversi sistemi linguistici della comunicazione scritta e orale.
Con la nascita dello Stato unitario la lingua fu considerata valore
nazionale e ai libri di testo, veicoli di norme e di lingua, fu assegnato
un ruolo primario nel processo di unificazione. La questione dei libri
di testo per le scuole fu molto viva fin dai primi anni unitari e assunse
un importante significato sociale e politico. Era ormai chiaro, infatti,
che per raggiungere una solida unificazione linguistica il sistema sco-
lastico del nuovo Stato doveva basarsi sui comuni libri di testo con-
siderati efficaci strumenti formativi. Per rendere davvero omogeneo il
sistema educativo e trasmettere a tutte le province gli stessi principi di
istruzione, i libri dovevano essere istituiti per tutte le scuole d’Italia e
divenire strumenti per tutti i maestri indipendentemente dalla loro
provenienza. Riconosciuta pertanto la funzione primaria di tali stru-
menti didattici, il ministro della Pubblica Istruzione Carlo Matteucci
aveva più volte sottolineato nelle proprie relazioni quali dovessero
essere le caratteristiche comuni a tutti i libri destinati alle scuole: “prez-
zo modicissimo”, “edizione purgatissima”, “unità di spirito, di scopo e
di dottrina” e “armonia” grazie alla quale un testo “serviva di
preparazione all’altro”50.

49I. PORCIANI, Il libro di testo come oggetto di ricerca, in A. Santoni-Rigiu (a cura di),
Storia della scuola e storia d’Italia, Bari, De Donato, 1982, pp. 237-271, a p. 238.
50G. CANESTRI - G. RICUPERATI, La scuola in Italia dalla legge Casati a oggi, Torino,
Loescher, 1976, p. 74.

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Con la creazione dello Stato unitario e il conseguente potenzia-
mento del mercato librario si avvertì un grande sforzo editoriale soprat-
tutto per la pubblicazione delle grammatiche, che “si susseguirono con
grande rapidità e frequenza”51. Circa 700 furono, infatti, quelle pub-
blicate in Italia nel sessantennio che va dal 1860 al 191852. La princi-
pale destinataria della produzione grammaticale dell’Italia unita fu la
scuola che, grazie a un corretto insegnamento, doveva unificare lin-
guisticamente la nazione. Attraverso le grammatiche, i libri di lettura, i
vocabolari, l’insegnamento della lingua italiana assunse un ruolo di fon-
damentale importanza nel lungo processo di alfabetizzazione e italia-
nizzazione che investì il paese. In particolar modo le grammatiche,
intese come strumenti didattici privilegiati per la diffusione della
“buona lingua”, ebbero un ruolo essenziale per la formazione della
coscienza linguistica nazionale. Esse divulgavano regole, metodi e mo-
delli linguistici da imporre ai fanciulli e da fare applicare ai maestri, ed
erano scritte secondo criteri specifici e precise tecniche didattiche.
La principale caratteristica che ogni grammatica doveva avere era
quella della brevità e, infatti, in moltissimi titoli di grammatiche otto-
centesche ricorrono attributi come grammatichetta, grammatichina, breve,
brevissima, o parole come elementi, appunti, nozioni, rudimenti ecc.
La brevità del testo, oltre a rendere l’apprendimento della gram-
matica più accessibile a tutti, senza trasformarla in una materia “tormen-
tatrice”53, rispondeva anche al bisogno di contenere i costi dei volumi e
quindi permetterne l’acquisto anche ai ceti sociali meno abbienti. In alcu-
ni casi, inoltre, il titolo della grammatica era scelto per attirare l’atten-
zione del lettore ed evidenziare lo stile narrativo adoperato, come nella
Grammatica di Giannettino di Collodi e in quella di Felicino del Parri.
51C. TRABALZA, Storia della grammatica italiana, Milano, Hoepli,1963 (ristampa ana-
statica dell’ediz.1908), p.506.
52M. CATRICALÀ, Le grammatiche scolastiche dell’italiano edite dal 1860 al 1918, Firenze,
Accademia della Crusca, 1991, p. 31.
53Termine usato da vari autori dell’epoca per definire l’insegnamento grammaticale tra i
quali Capponi, Lambruschini, Villari e altri, cfr. M. RAICICH, Scuola, cultura e politica da
De Sanctis a Gentile,Pisa, Nistri-Lischi, 1981, pp.121-22.

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La maggior parte delle grammatiche era destinata ai fanciulli
delle scuole elementari che erano senz’altro più numerosi di quelli
delle scuole superiori54. Alcune invece erano scritte appositamente per
le famiglie e in modo particolare per le madri, in accordo con l’idea
divulgata dal francescano di origine svizzera, Grégoire Girard, di dover
delegare a loro il compito di trasmettere ai propri figli la lingua
nazionale in contrapposizione al dialetto55. In Italia però il progetto
girardiano trovò scarsa applicazione, a causa della percentuale ancora
molto alta di madri dialettofone, o soprattutto per il fatto che, come
in altre nazioni, le donne erano rimaste a lungo escluse dall’istruzione.
Nell’ambito della produzione grammaticale postunitaria si fronteggia-
rono diverse posizioni circa i testi da consigliare, accettare o respingere, dai
tradizionalisti ai metodisti, dai pratico-teorici ai puristi e ai manzoniani56.
Nel periodo post-unitario, caratterizzato da grandi trasformazioni
politiche e sociali, si avvertirono segnali di rinnovamento anche nel
campo della grammaticografia: molte grammatiche furono rinnovate
nell’impostazione grafica, altre invece furono corredate da illustrazioni
o redatte in formati tascabili per rispondere ai bisogni di un pubblico
sempre più vasto, anche fuori dell’ambiente scolastico. Le tesi puri-
stiche arretrarono e molti autori dell’epoca assunsero un nuovo
atteggiamento rispetto alla “supernorma di stampo bembesco”57 su cui
si era modellato fino ad allora il sistema della lingua italiana.
54Dai dati dell’ISTAT, Sommario di statistiche storiche italiane 1861-1955, tav. 27-31,
apprendiamo che nel decennio 1861-70 gli iscritti alle scuole elementari erano 1.330.000
contro i 25.000 delle scuole superiori.
55M. RAICICH, Lingua materna o lingua nazionale: un problema dell’insegnamento ele-
mentare dell’italiano nell’Ottocento, in La Crusca nella tradizione letteraria e linguistica ita-
liana. Atti del Congresso internazionale per il IV centenario dell’Accademia della Crusca,
(Firenze, 29 settembre- 2 ottobre 1983), Firenze, Accademia della Crusca, 1985, pp.1-42,
a p.12.
56M. RAICICH, Scuola di cultura e politica, cit., p. 147-148.
57F. SABATINI, L’italiano dell’“uso medio”: una realtà tra le varietà linguistiche italiane, in
Holtus -Radtke, Gesprochenes Italieniscch in Geschichte und Gegenwarl, Tubingen, Narr
Verlag, 1985, pp.154-184, a p.178.

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Le posizioni innovative promosse dalla riforma linguistica del
Manzoni influenzarono molti di essi, tuttavia, nonostante la benevola
accoglienza di tali posizioni, non fu solo il modello linguistico fiorenti-
no a prevalere nella scuola, “l’adesione alla norma linguistica toscana
non fu per niente totale ed esclusiva”58. La lingua delle grammatiche
si indirizzò verso forme e registri più ampi, che lasciavano spazio
anche a esempi tratti dalla lingua viva e quindi all’espressività della lin-
gua parlata. I grammatici post-unitari, inoltre, manifestarono, rispetto
ai loro predecessori, una più larga attenzione al problema della corret-
ta pronuncia.
Nella scuola dell’Italia unita erano ancora largamente adottate le
grammatiche di Basilio Puoti e di Salvatore Corticelli. Ad esse se ne
affiancarono tantissime altre che proponevano diversi indirizzi norma-
tivi, diversi orientamenti e tendenze linguistiche.
L’esame dei testi adottati nelle scuole e il tipo di lingua in essi
proposto mostrano come alcuni grammatici tentarono di adeguare il
vecchio codice linguistico alle nuove esigenze della comunicazione,
mentre altri manifestarono un irrigidimento e rimasero legati al
tradizionalismo. Spesso accadeva però che “posizioni originariamente
diverse, atteggiamenti puristi, manzonismo, neotoscanismo potevano
arrivare anche a fondersi”59. In linea generale, i testi di grammatica si
presentavano come “meta-testi fatti di regole ed esempi”60. Le regole
in essi contenute erano enunciate con la massima brevità per consen-
tire una rapida memorizzazione e gli esempi utili a spiegarle erano
abbondanti e di facile interpretazione.

58M. CATRICALÀ , Le grammatiche scolastiche, cit.,p.18.


59T .POGGI SALANI, Italiano a Milano a fine Ottocento: da un manualetto delle sorelle
Errera, in Studi di lingua e letteratura lombarda offerti a Maurizio Vitale, Pisa,
Giardini,vol.II, 1983, pp.925-98, a p. 939.
60J. LOTMAN - B. A. USPENSKI, Tipologia della cultura, Milano, Bompiani, 1975, p. 69.

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Nelle grammatiche c’erano anche elenchi e tabelle di voci gram-
maticali, come suffissi, prefissi, complementi, preposizioni ecc. , da
memorizzare, nonché definizioni formali e proposte di esercizi su
modelli dati. Molte, la più nota delle quali resta la Grammatica di
Giannettino di Carlo Collodi, erano redatte in forma di dialogo tra
maestro e scolaro. Il dialogo aveva la funzione di guidare dal noto
all’ignoto, dall’esempio spontaneo alla norma.

III.2 LE GRAMMATICHE ITALIANE DI GIOVANNI SCAVIA


IN USO NELLE SCUOLE DELLA BASILICATA
Dai documenti dell’Archivio di Stato di Potenza (Fondo Prefet.
1860-72, fasc.164) apprendiamo che nelle scuole elementari della
provincia di Basilicata, erano state adottate per l’insegnamento della
lingua italiana, le due grammatiche compilate da Giovanni Scavia, stu-
dioso di origine piemontese, che aveva ricoperto vari incarichi mini-
steriali e che nel 1862 era stato nominato ispettore generale delle
scuole normali, tecniche e magistrali. Tali grammatiche, dal titolo
Prime nozioni di grammatica italiana ad uso delle classi elementari infe-
riori e Nozioni di grammatica italiana ad uso delle classi elementari supe-
riori61(Tavola 10) furono tra le più diffuse nella scuola italiana postu-
nitaria e anche quelle che ebbero in assoluto il maggior numero di
ristampe. Nel censimento delle grammatiche dell’italiano adottate
nella scuola post-unitaria62 non si è riusciti ad accertare la data della
prima edizione né il numero delle copie messe in circolazione; della
seconda ristampa al contrario si sa che risale al 1854 e che fino al 1874
le copie ristampate furono 21463. L’impianto strutturale dei due lavori
è quello delle grammatiche tradizionali, fondato sulle definizioni for-

61Stampate entrambe a Torino presso la Tipografia Scolastica di Sebastiano Franco e Figli,


rispettivamente nel 1863 e 1865.
62I risultati del censimento, completato all’interno di una ricerca dell’Accademia della
Crusca, sono riportati in M. CATRICALÀ, Le grammatiche scolastiche, cit.
63Ibidem, p.44.

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mali di ciascuna nozione e corredato da regole ed esempi. Gli esempi
fanno quasi sempre riferimento alla religione o a vicende storiche e
contengono regole morali, come nel caso di “La misericordia di Dio é
infinita” (I.25)64; “Il mondo è opera di Dio” (I.28); “Eliseo cammina-
va lungo le rive del Giordano” (II.74); “Gli Italiani a Legnano com-
batterono con valore” (II.75) e così via.
Dallo spoglio linguistico si ricavano elementi che mostrano
come l’autore usi una lingua tendenzialmente conservativa: sono
molto più numerose, infatti, le forme arcaiche rispetto ai tratti ancora
oscillanti nell’Ottocento o a quelli innovativi. Molto significative
sono, peraltro, le scelte compiute da Scavia a proposito di alcuni
fenomeni linguistici già oscillanti nella prosa letteraria dell’epoca,
come l’alternanza tra il dittongo uo e il monottongo o, la desinenza in
a o in o della prima persona dell’imperfetto indicativo, l’uso dei
pronomi di terza persona lui, lei in funzione di soggetto, le forme con
e protonica alternate a quelle con i, o ancora l’uso delle forme vi ha o
vi hanno per vi è o vi sono, l’alternanza tra deve e dee e così via. La pre-
ferenza o l’incertezza nell’uso di alcune forme al posto di altre è segno
di come l’autore, in conformità con molti suoi contemporanei, da un
lato cerchi di adeguarsi all’uso della lingua viva e alle sue alternanze e
dall’altro rimanga legato alla tradizione, non accogliendo o accoglien-
do solo in parte quei tratti linguistici che erano già entrati nella rifor-
ma linguistica manzoniana e che avrebbero caratterizzato l’evoluzione
dell’italiano65.
Nei paragrafi che seguono ci si limita ad analizzare solo i tratti
che meglio aiuteranno a delineare l’italiano proposto da Scavia nelle
proprie grammatiche.
64Tra parentesi si rinvia con il numero romano alle Prime nozioni di grammatica italiana ad
uso delle classi elementari inferiori (I) o alle Nozioni di grammatica italiana ad uso delle classi
elementari superiori (II), con il numero arabo alle pagine delle edizioni cit. alla nota 61.
65Cfr. a tale riguardo L.SERIANNI, Le varianti fonomorfologiche dei Promessi Sposi 1840
nel quadro dell’italiano ottocentesco in Saggi di storia linguistica italiana, Napoli, Morano,
1989, pp.141-213 e Storia della lingua italiana. Il primo Ottocento, Bologna, Il Mulino,
1989, pp.134-141.

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III.3 L’ITALIANO NELLE GRAMMATICHE DI SCAVIA
III.3.1 Le grafie in ii
Tra i fenomeni grafici troviamo alcuni termini che al plurale pre-
sentano terminazione in ii, che ancora nella grafia dell’epoca era stata
rappresentata anche da j. Nel corso dell’Ottocento, diversi furono i
criteri di applicazione di alcuni particolari segni ortografici tra i quali
ci fu appunto la j. La Crusca l’aveva abolita sia in posizione iniziale sia
all’interno della parola, ma l’aveva adoperata per il plurale dei nomi in
io con accento. Molti studiosi seguirono questo criterio, altri invece si
attennero a criteri diversi66. Nelle grammatiche di Scavia, gli esempi:
Studii (I.5), avverbii (II.19) proprii (II.37), premii (II.38), benefizii
(II.83), participii (II.92), varii (II.100), desiderii (II.100) sono forme
plurali di nomi in io mai accentati.

III.3.2 Conservazione dei dittonghi uo e ie


Il quadro offerto dallo spoglio linguistico mostra che sul terreno
tanto dibattuto, nel corso dell’Ottocento, dell’alternanza tra monot-
tongo o e dittongo uo, l’autore si orienta verso la conservazione di
quest’ultimo. Non troviamo, infatti, forme monottongate del tipo
novo, bono, omo, movere ecc. Importante è la conservazione del ditton-
go uo anche dopo palatale, come risulta dai seguenti esempi: usignuo-
lo (I.29), figliuoli (I.33), giuoco (I.35).
Nonostante l’adozione convinta del fiorentino dell’uso vivo, l’al-
ternanza tra uo e o era stata per il Manzoni motivo di incertezze e
ripensamenti ancora durante la stampa della quarantana dei Promessi
Sposi. Infatti, in un biglietto al figlio Pietro, scritto qualche tempo
prima dell’edizione definitiva del romanzo, egli scriveva ai tipografi di
non far caso alle cancellature della u in termini come nuovo, figliuolo e
simili ma di conservarli come nella prima redazione67.

66B. MIGLIORINI, Storia della lingua italiana, Firenze, Sansoni, 1961, p. 655.
67A. MANZONI, Lettere, a cura di C. ARIETI, Milano, Mondadori, 1970, vol. III, p. 148.

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Nonostante ciò, in molte pagine delle opere successive gli stessi
esempi presenteranno il monottongo. Anche in Manzoni tuttavia non ci
fu mai una generalizzazione, quanto piuttosto “un certo margine di
alternanza”68 frutto del suo desiderio di adeguarsi all’uso vivo della lin-
gua. Nell’italiano moderno, com’è noto, l’antico dittongo si è conserva-
to nella gran parte dei casi, ma è scomparso dopo la palatale: Scavia lo
conserva anche in questa posizione e, per quanto riguarda ie, mantiene
il dittongo anche in forme come intiero/a (II.18,89,102,107,108).

III.3.3 Uso di e/i protoniche


La riforma manzoniana aveva suggerito l’adozione di alcune
forme con e protonica che sarebbero in seguito divenute stabili nella
lingua comune. Scavia rimane ancora una volta legato alle forme della
tradizione più antica. Troviamo, infatti, esempi come: ambidue
(II.11.15.24.29) che nella prosa ottocentesca si alternava con ambedue
ma che in Scavia è nettamente prevalente. Nissuno invece era usato
spesso come variante di niuno ed era ancora largamente presente nella
lingua scritta ottocentesca ma non lo era in quella manzoniana, dove
si ha solo un esempio di niuno nell’edizione del 1827 e nessun esem-
pio in quella del 1840. Nelle grammatiche di Scavia nissuno (II.30)
appare maggioritario rispetto a niuno.
Altro esempio è gittarono (II.96,99) che era prevalente nella prosa
ottocentesca rispetto alle forme in e analogiche sulle voci rizotoniche.

III.3.4 Oscillazioni libere


Per quanto riguarda le oscillazioni libere, per il tipo
beneficio/benefizio erano preferite le forme con affricata dentale del
tipo benefizio, artifizio, malefizio, sacrifizio ecc. Anche in Manzoni si
nota una “generale preferenza per gli allotropi con affricata dentale”69.

68L. SERIANNI, Le varianti fonomorfologiche, cit., p. 146.


69L. SERIANNI, ibidem, cit., p. 186.

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Se ne trova conferma anche in Scavia dove leggiamo benefizio
(II.36) e il suo corrispettivo plurale benefizii (II.83).
L’oscillazione del tipo segreto/secreto era ancora forte nella prosa
ottocentesca; Manzoni optò per la variante con la sonora, affermatasi
in seguito nell’uso vivo, mentre Scavia sceglie la forma più conser-
vativa secreto (II.32). Per il tipo lacrima/lagrima l’allotropia persiste
ancora oggi nella lingua scritta italiana. Nell’Ottocento le due varianti
erano abbastanza diffuse, secondo Serianni lacrima era più usato tra i
toscani mentre lagrima lo era tra i settentrionali70. Nell’edizione del
1840 dei Promessi Sposi Manzoni scelse la forma con consonante sorda,
al contrario Scavia si dimostra, come nell’esempio precedente, più
legato alla tradizione e, infatti, sceglie la forma lagrimasse (II.97).
Per il verbo cambiare, invece, la forma cangiando (II.12.22) usata
da Scavia mostra la preferenza per la variante derivata da cangiare, va-
riante che è tutt’oggi attestata nella nostra lingua.

III.3.5 Forme dell’imperfetto indicativo


Nella prosa ottocentesca le forme della prima persona dell’im-
perfetto indicativo oscillavano tra quelle con desinenza in -a del tipo
io aveva e quelle in -o. Le forme con desinenza in -a, benché in regres-
so, godevano ancora di una certa diffusione. L’innovazione della
desinenza in -o consolidata dalla riforma manzoniana portò ad un pro-
gressivo declino del tipo in -a. Tuttavia, l’analisi linguistica delle gram-
matiche scritte da Scavia mostra che l’autore usa esclusivamente la
forma più tradizionale in -a, come documentano i seguenti esempi: io
aveva (I.17), io era, io guardava, io temeva, io sentiva (I.21,22 e
II.42,43), io conduceva (II.56) ecc.
Sempre per quanto riguarda l’imperfetto indicativo convivevano le
uscite della terza persona in -eva e in -ea. Nelle grammatiche di Scavia
prevalgono quelle con labiodentale considerate di uso più comune. Ci
sono però anche due esempi di parea (II.26) e sedea (II.99).

70L. SERIANNI, Le varianti fonomorfologiche, cit., p. 185.

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III.3.6 Sintagmi vi ha e vi hanno per vi è e vi sono
Nel corso dell’Ottocento era molto diffuso l’uso di avere al posto
di essere nei sintagmi vi ha, vi hanno per vi è, vi sono. Scavia si mantiene
prevalentemente fedele a quest’uso, anche se non mancano esempi
contrari come si può vedere dai casi qui elencati:
“Vi hanno più nomi di diverso genere”(II.20); “Vi hanno due nomi od
aggettivi” (II.20); “Vi hanno due sorte di verbi” (II.49); “In ogni pe-
riodo vi ha una proposizione principale” (II.90); “[...]quando non vi
ha concordanza o connessione fra le varie parti del discorso” (II.94);
“Vi ha ellissi dell’articolo” (II.96);
Minore la frequenza dei casi con essere:
“[...] quando ve ne sono due uguali” (II.108); “[...] quando vi sono due
consonanti” (II.108).

III.3.7 Forme dei verbi dovere e vedere


Nell’italiano scritto ottocentesco rimaneva interscambiabilità tra
le forme devo, debbo, deggio della prima persona e le forme deve, dee,
debbe della terza persona del verbo dovere. In questi casi di allotropia
verbale Manzoni aveva preferito le forme radicali devo e deve. Scavia
invece usa più frequentemente le forma dee rispetto a deve che appare
decisamente minoritaria come mostrano i seguenti esempi:
“L’onesto dee preferirsi all’utile” (II.19); “L’uomo si dee giudicare non
già da quanto giova” (II.84); “L’uomo dee volere virtù con povertà”
(II.85); “[...] ciascuno dee esserne buon guardiano” (II.87). “La faccia
del donatore deve essere simigliante” [...] (II.85). “Per fare l’analisi lo-
gica di un periodo si deve [...]” (II.92).
Lo stesso accadeva per le forme vedo, veggo, veggio del verbo
vedere. L’esempio veggiamo (II.101) rivela ancora una volta la scelta da
parte di Scavia per l’allotropo più conservativo.

61
III.3.8 Sincope vocalica del verbo andare
In riferimento al futuro del verbo andare, il termine anderò
(II.35) usato da Scavia mostra la preferenza per la forma piena.
L’opposizione anderò/anderei, andrò/andrei era molto frequente nella
prosa ottocentesca. In Manzoni, al contrario, il tratto era ancora oscil-
lante a secondo degli usi e del linguaggio dei personaggi. A tale
proposito, infatti, Policarpo Petrocchi nel suo commento ai Promessi
Sposi giudica la forma anderebbe, pronunciata da Don Abbondio
preferibile a andrebbe poichè il primo termine si adattava meglio alla
voce “strascicata” del curato.

III.3.9 Uso dei pronomi lui, lei in funzione soggetto


Il problema dell’uso dei pronomi di terza persona è stato a lungo
discusso nella grammaticografia italiana fin dal Cinquecento. Nel
corso dei secoli si registrano diversi atteggiamenti in riferimento a tale
fenomeno. Rohlfs scrive che la forma tonica lui si trova relativamente
presto in luogo di egli, si divulga nel Quattrocento con Pulci e
Poliziano, viene respinta dai grammatici del XVI secolo, ma nel XIX
secolo ottiene una “vittoria definitiva”71. A partire dal Cinquecento e,
per oltre tre secoli, la maggior parte dei grammatici mostrò un rifiuto
dell’uso dei pronomi di terza persona lui, lei e loro in funzione
di soggetto. Il primo a legittimare l’uso dei pronomi lui, lei in funzione
di soggetto fu ancora una volta il Manzoni nell’edizione definitiva del
suo romanzo, dilatandone “la sfera d’uso fino a trasformarli da varianti
marcate a varianti neutre”72. L’esempio del Manzoni fu decisivo e
anticipò gli sviluppi dell’italiano odierno. Sotto l’impulso della rifor-
ma manzoniana molti grammatici offrirono nuove possibilità di uti-
lizzazione dei pronomi di terza persona, accogliendoli a volte come
forme preferite, specie in particolari posizioni sintattiche.
71G. ROHLFS, Grammatica storica della lingua italiana e dei suoi dialetti, vol.II:
Morfologia, §§ 436-437,Torino, Einaudi, 1968; T. D’ACHILLE, Sintassi del parlato e tra-
dizione scritta della lingua italiana, Roma, Bonacci, 1990.
72L. SERIANNI, Le varianti fonomorfologiche, cit., p.192.

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A proposito dell’uso dei pronomi di terza persona, Scavia assume
un atteggiamento di “censura passiva”73; scrive, infatti: “I pronomi
egli, ella, eglino ed elleno non si usano se non come soggetto della
proposizione: lui, lei, loro, il, lo, la, li, gli, le, si adoperano solo come
complemento. Nel discorso famigliare si usano anche lui, lei, la e le
come soggetto della proposizione. È tuttavia bene astenersi negli scrit-
ti da siffatte maniere”(II.31,32).

III.3.10 Enclisi pronominale


Molto frequente nelle grammatiche esaminate è la cosiddetta
enclisi pronominale libera, ancora ben attestata nella prosa ottocen-
tesca, nonostante la tendenza contraria del Manzoni. Gli esempi rile-
vati in Scavia confermano l’intenzione dell’autore di offrire un model-
lo di lingua alta e letteraria:
“Diconsi complementi quelle parole che [...]” (II.9); “Il plurale dei
nomi formasi [...]” (II.12); “La finale dei nomi femminili cangiasi [...]”
(II.12); “Dovrebbesi dire [...]” (II.20); “[...] di cui siasi già parlato”
(II.29); “Quando parlasi a taluno in terza persona [...]” (II.32); “[...]
si usano per lo più allora che trattasi di persona” (II.34); “Il verbo dice-
si di prima persona [...]” (II.40); “Tutti gli altri [...] diconsi verbi
attributivi” (II.49); “Non trovasi vero diletto [...] che nella buona
coscienza” (II.85).

73M. CATRICALÀ, L’italiano tra grammaticalità e testualizzazione. Il dibattito linguistico-


pedagogico del primo sessantennio postunitario, Firenze, Accademia della Crusca, 1995, p. 101.

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