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PICCOLA BIBLIOTECA DELLE ARTI


100 monologhi ben pronunciati
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PICCOLA BIBLIOTECA DELLE ARTI


Collana di testi e strumenti per la scuola e l’università

Sezione Teatro
diretta da Giuseppe Manfridi
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Corrado Veneziano

100 MONOLOGHI
BEN PRONUNCIATI
Estratti di
teatro, poesia, letteratura e cinema italiani
per la dizione e la recitazione
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L’Autore ringrazia la collega Maria Luisa Bigai


e l’amica Rossana Gatteschi per le stimolanti indicazioni fornitegli.

Foto di copertina: Valentina Valente

Fotocomposizione: Adel Grafica s.r.l. – Roma

Stampa: La Moderna – Roma

Copyright GREMESE
2008 © E.G.E. s.r.l. – Roma
www.gremese.com

Tutti i diritti riservati. Nessuna parte di questo volume può essere


riprodotta, registrata o trasmessa, in qualsiasi modo e con qualsiasi
messo, senza il preventivo consenso formale dell’Editore.

ISBN 978-88-8440-513-5
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A Paola, Francesca, Mara,


per infinite parole da pensare e pronunciare.
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INDICE

INTRODUZIONE Pag. 13

PRIMA PARTE

1. PREMESSE STORICHE E CULTURALI » 18

1.1 La recitazione tra libertà e insegnamento » 18


1.2 Il perché di “un” modello » 19
1.3 Il rapporto dialetto-lingua nazionale » 21
1.4 La mediazione fiorentina » 22
1.5 L’adeguamento delle altre regioni » 24
1.6 L’asse fonetico Roma-Milano » 25
1.7 Le minoranze linguistiche in Italia » 27

2. LA PRONUNCIA » 29

2.1 Le vocali » 29
2.2 Le semivocali e le semiconsonanti » 34
2.3 Le consonanti » 37
2.4 I digrammi infedeli » 41
2.5 Suoni dolci e suoni aspri » 43
2.6 Il fonosimbolismo » 47
2.7 I raddoppiamenti fonosintattici » 52
2.8 La trasmissione delle parole dotte » 56

3. L’INTONAZIONE » 60

3.1 La prosodia » 60
3.2 Gli andamenti intonativi » 61
3.3 Prosodia e sintassi » 64
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8 100 monologhi ben pronunciati

3.4 Proposizioni principali e incidentali Pag. 68


3.5 Cadenze e cantilene » 71

4. I DIFETTI DI PRONUNCIA » 75

4.1 Le motivazioni » 75
4.2 Gli errori “regionali” » 78
4.3 Gli errori regionali nel Nord Italia » 78
4.4 Gli errori regionali nel Centro Italia » 82
4.5 Gli errori regionali nel Centro-Sud Italia » 87
4.6 La macchina fonatoria » 92

SECONDA PARTE

Avvertenza » 98

L’ordine dei testi rispetta cronologicamente l’anno di pubbli-


cazione o – in assenza di questa – di messa in scena dello
spettacolo da cui il monologo è tratto.

1. Francesco d’Assisi, Cantico di Frate Sole » 100


2. Lotario Diacono, La vanità dei beni terreni » 102
3. Dante Alighieri, La Vita Nuova » 104
4. Immanuel Romano, La frottola di “Bisbidis” » 106
5. Francesco Petrarca, Voi ch’ascoltate in rime sparse
il suono » 108
6. Giovanni Boccaccio, Guiscardo e Ghismunda » 110
7. Luigi Pulci, Il Morgante » 112
8. Lorenzo de’ Medici, Canzona a Bacco » 114
9. Angelo Ambrogini detto Il Poliziano, Canzoni
a ballo » 116
10. Iacopo Sannazaro, L’Arcadia » 118
11. Niccolò Machiavelli, La Mandragola » 120
12. Pietro Bembo, Prose della volgar lingua » 122
13. Ludovico Ariosto, Il Negromante » 124
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Indice 9
14. Pietro Aretino, Dialogo della Nanna e della
Pippa Pag. 126
15. Accademici Intronati di Siena, Gli ingannati » 128
16. Annibal Caro, Gli straccioni » 130
17. Giovan Maria Cecchi, L’assiuolo » 132
18. Anton Francesco Grazzini detto Il Lasca,
La gelosia » 134
19. Torquato Tasso, Aminta » 136
20. Giordano Bruno, Il candelaio » 138
21. Battista Guarini, Il pastor fido » 140
22. Giambattista Della Porta, La fantesca » 142
23. Antonio Ongaro, Alceo » 144
24. Federico Della Valle, Judit » 146
25. Michelangelo Buonarroti il giovane, La Tancia » 148
26. Metastasio, Attilio Regolo » 150
27. Carlo Goldoni, Il teatro comico » 152
28. Pietro Chiari, Il filosofo viniziano » 154
29. Carlo Gozzi, L’amore delle tre melarance » 156
30. Vittorio Alfieri, Mirra » 158
31. Ugo Foscolo, Tieste » 160
32. Vincenzo Monti, Caio Gracco » 162
33. Silvio Pellico, Francesca da Rimini » 164
34. Alessandro Manzoni, Il conte di Carmagnola » 166
35. Giacomo Leopardi, Lettera al padre » 168
36. Paolo Ferrari, Goldoni e le sue sedici commedie
nuove » 170
37. Paolo Giacometti, La morte civile » 172
38. Giovanni Verga, Cavalleria rusticana » 174
39. Marco Praga, La moglie ideale » 176
40. Gabriele D’Annunzio, La città morta » 178
41. Carlo Bertolazzi, Il matrimonio della Lena » 180
42. Giuseppe Giacosa, Come le foglie » 182
43. Roberto Bracco, Il piccolo santo » 184
44. Sem Benelli, La cena delle beffe » 186
45. Filippo Tommaso Marinetti, Il re Baldoria » 188
46. Luigi Chiarelli, La maschera e il volto » 190
47. Ettore Petrolini, Nerone » 192
48. Pier Maria Rosso di San Secondo, Marionette,
che passione! » 194
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10 100 monologhi ben pronunciati

49. Luigi Antonelli, L’uomo che incontrò se stesso Pag. 196


50. Enrico Cavacchioli, L’uccello del paradiso » 198
51. Luigi Pirandello, La vita che ti diedi » 200
52. Achille Campanile, L’inventore del cavallo » 202
53. Massimo Bontempelli, Minnie la candida » 204
54. Sergio Tofano, Qui comincia la sventura
del signor Bonaventura » 206
55. Italo Svevo, La rigenerazione » 208
56. Cesare Zavattini, Totò il buono » 210
57. Ugo Betti, Corruzione al Palazzo di Giustizia » 212
58. Primo Levi, Se questo è un uomo » 214
59. Alberto Savinio, Alcesti di Samuele » 216
60. Corrado Alvaro, La lunga notte di Medea » 218
61. Vitaliano Brancati, La governante » 220
62. Luigi Squarzina, Tre quarti di luna » 222
63. Dino Buzzati, Un caso clinico » 224
64. Alberto Moravia, Beatrice Cenci » 226
65. Peppino De Filippo, Metamorfosi di un
suonatore ambulante » 228
66. Giuseppe Patroni Griffi, D’amore si muore » 230
67. Tommaso Landolfi, Landolfo VI di Benevento » 232
68. Eduardo De Filippo, Il sindaco del rione Sanità » 234
69. Giovanni Testori, L’Arialda » 236
70. Ennio Flaiano, Un marziano a Roma » 238
71. Carmelo Bene, Pinocchio » 240
72. Franco Brusati, La fastidiosa » 242
73. Edoardo Sanguineti, K » 244
74. Natalìa Ginzburg, Ti ho sposato per allegria » 246
75. Pier Paolo Pasolini, Affabulazione » 248
76. Amelia Rosselli, Diario ottuso » 250
77. Dacia Maraini, Ricatto a teatro » 252
78. Maurizio Costanzo, Un amore impossibile » 254
79. Bernardo Bertolucci (e Franco Arcalli), Ultimo
tango a Parigi » 256
80. Umberto Eco, Stelle e stellette » 258
81. Dario Fo, Franca Rame, Io, Ulrike Meinhof,
grido… » 260
82. Luigi Lunari, Il senatore Fox » 262
83. Diego Fabbri, Al Dio ignoto » 264
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Indice 11
84. Giuseppe Manfridi, Ti amo, Maria! » 266
85. Vittorio Franceschi, Scacco pazzo Pag. 268
86. Patrizia Valduga, Donna di dolori » 270
87. Lella Costa, Magoni (e forse miracoli) » 272
88. Alda Merini, Delirio amoroso » 274
89. Biancamaria Frabotta, Il mulo sardo lo inganni
una volta sola » 276
90. Emilio Tadini, La deposizione » 278
91. Gregorio Scalise, Boite à conduire » 280
92. Elio Testoni, È mai possibile? » 282
93. Giovanni Raboni, Rappresentazione della croce » 284
94. Alessandro D’Alatri, Anna Pavignano, Casomai » 286
95. Ferzan Ozpetek, Gianni Romoli, La finestra di
fronte » 288
96. Maria Luisa Spaziani, La vedova Goldoni » 290
97. Roberto Faenza, Alla luce del sole » 292
98. Marco Bellocchio, Il regista di matrimoni » 294
99. Giulia Gatti, A passo di danza » 296
100. Anonimo, L’amore oltre l’amore » 298

APPENDICE

Regole generali di dizione » 301

Riferimenti bibliografici » 321


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INTRODUZIONE

100 monologhi ben pronunciati è un libro di dizione e reci-


tazione ma, anche, un breve percorso sulle pagine più inte-
ressanti del teatro (talora della poesia, della letteratura e del
cinema) italiano.
Selezionando autori recentissimi o antichi (a partire da
Francesco d’Assisi e dal suo intenso Cantico), le pagine al-
ternano sentimenti, contraddizioni, speranze del panorama
storico-culturale nazionale; e, allo stesso tempo, fanno
emergere le trasformazioni e le leggi fonetiche più rilevanti
della dizione italiana. Ogni monologo, infatti, accanto a una
sintetica indicazione bibliografica (sull’autore, la sua prove-
nienza geografica, il contenuto generale da cui è tratto il
pezzo prescelto), segnala i passaggi di pronuncia più deli-
cati, evidenziando aperture e chiusure delle vocali, addolci-
menti o inasprimenti di talune consonanti, presenza di pas-
saggi sillabici insidiosi da un punto di vista fonoarticolato-
rio. Tutte le parole dei monologhi, infine, sono corretta-
mente accentate: sì da renderne più semplice lo studio e la
memorizzazione e farne altresì gustare, nel modo più perti-
nente, l’esecuzione e la produzione.
Gli autori, come chiarisce il sottotitolo, sono tutti italiani
(o di lingua italiana). Si è preferito fare a meno di autori
stranieri, sia per accantonare ogni problema di traduzione o
adattamento (che avrebbe necessariamente comportato ar-
bitrarietà e discrezionalità) sia, soprattutto, per concentrare
l’attenzione sulla sola fonetica della lingua italiana: nella
sua totale coerenza tra invenzione e scrittura, nel suo rap-
porto diretto tra autore e attore.
La scelta dei cento monologhi è in parte “convenziona-
le” (nel senso che include quelli più noti e rappresentati)
ma, anche, originale: sia nel tentativo di allargare il campo
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14 100 monologhi ben pronunciati

ad altri immaginari, poetiche e sperimentazioni, sia metten-


do in luce autori talora sottovalutati o sconosciuti al largo
pubblico. Il tutto a partire, ovviamente, dalla loro forte per-
sonalità e dallo specifico interesse fonetico riscontrato nelle
pagine prodotte.
È in quest’ottica che il volume include alcune pagine di
letteratura ricchissime dal punto di vista dell’esecuzione
orale (si pensi alla “cantabilità” delle strofe di Poliziano,
Tasso, Ariosto), testi carichi di emozione e suggestione po-
litica e intellettuale (Verga, Primo Levi, Pasolini) ma – anche
– monologhi tratti da film di particolare valenza artistica e
spessore linguistico. (E infatti non si capisce il rifiuto che
molte antologie di letteratura italiana oppongono verso i
film, le sceneggiature e le parti di scrittura di cui sono com-
posti.)
Il libro è corredato da un’appendice (che contiene le
regole di dizione più ricorrenti in lingua italiana) ed è pre-
ceduto da un articolato capitolo introduttivo. E questo, nel
modo più semplice e chiaro, cerca di delucidare questioni
fonetiche ricche di implicazioni nell’intonazione e nel-
l’espressività delle parole. Infatti, essere padroni del corret-
to significato di semivocale, sdrucciolo, suono aspro o dolce,
apocope, troncamento e molto altro, oltre che rappresenta-
re un arricchimento per qualsiasi attore, permette di vivere
con maggiore serenità e pienezza la propria interpretazione
e il proprio ruolo. Problemi come (ad esempio) monotonia,
cantilena, mangiamenti di sillabe e lettere sono difatti chia-
ramente connessi a ignoranza o superficialità d’approccio
verso le forme costitutive e regolamentari della fonetica.
È per tali ragioni che il testo elenca “geograficamente”
gli errori di pronuncia più temibili e le deviazioni più gros-
solane. E lo fa ricostruendo il veloce, traumatico adegua-
mento che – a partire dalla seconda metà del Novecento –
si è dovuto operare nell’uso della pronuncia nazionale: che
ha portato, purtroppo, a disimparare il nostro particolare
dialetto (che va invece considerato nella sua piena dignità
di “lingua”) senza aver appreso la complessa orchestrazione
che sostiene la lingua italiana ufficiale, sancita nei nostri
manuali e dizionari.
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Introduzione 15
E il libro, che ribadisce le ragioni del dialetto e mette in
guardia da forme “bastarde” e “omologanti” di lingua italia-
na, descrive ed elenca (per ogni area geografica) i difetti e
le incongruenze più marcate e fastidiose.
Parlare (comunicare, recitare) è un’operazione antichis-
sima e allo stesso tempo attuale. È collettiva e personale. È
“naturale” ed è “appresa”. E il presente volume si impegna
a offrire strumenti utili per relazionarsi in modo produttivo
con questa competenza-condizione dell’essere umano: con-
sapevole che ognuno, sùbito dopo, facendo uso della pro-
pria (personalissima e irripetibile) sensibilità, offrirà inter-
pretazioni inedite e originalissime di ogni monologo e di
ogni sua parola.
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PRIMA PARTE
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18 100 monologhi ben pronunciati

1. PREMESSE STORICHE E CULTURALI

1.1 La recitazione tra libertà e insegnamento

Ogni insegnamento legato alla recitazione e alla parola con-


tiene una contraddizione: da un lato educa al rispetto di un
canone e di un modello, dall’altro spinge all’invenzione e
alla creatività. Per alcuni versi, l’atto recitativo viene indicato
come dimensione meditata, consolidata, rigidamente defini-
ta; ma, per versi differenti, è valorizzato nel suo vivere in
funzione dell’ascolto e della percezione dell’altro: di un udi-
torio che, con la sua attenzione o la sua presenza, ne altere-
rà la produzione. E infine: è un tipo di insegnamento che
discende da precise indicazioni testuali, modelli registici,
tradizioni interpretative; ma è altresì teso a promuovere una
radicale libertà, spontaneità e originalità nell’allievo-attore.
Sto recitando. Vedo il pubblico di fronte a me seguirmi
per intero, letteralmente impegnato a non perdere nessuna
delle mie battute, e capisco che posso rallentare e accentua-
re ogni mia sillaba riempiendo le parole con la loro più au-
tentica sonorità. Oppure: scorgo nei miei ascoltatori vistosi
segni di impazienza o insofferenza, e allora sono costretto a
cambiare volume, tentare nuovi ritmi, accelerare o decelera-
re la mia produzione vocale. Ogni momento della recitazio-
ne è imprevedibile, immediato, diretto; eppure ogni mo-
mento è sottoposto a un particolare autocontrollo e a un’at-
tenzione che ne determinerà cambiamenti e trasformazioni.
La convivenza di questa duplicità è in realtà presente in
ogni atto di comunicazione, e nella voce in particolare.
Mentre parliamo, spesso sappiamo bene ciò che dobbiamo
dire; e tuttavia le parole nascono quasi all’improvviso, vaga-
mente imprevedibili nella loro specifica organizzazione. Il
pensiero orienta il linguaggio, ma il linguaggio determina
forme e modi di apparire del pensiero, in una reciprocità
fatta di contrasti, convergenze, accomodamenti. Non esiste,
insomma, un pensiero arbitro e un linguaggio esecutore:
giacché entrambi, paritariamente, partecipano dell’affasci-
nante gioco della comunicazione orale.
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Premesse storiche e culturali 19


E a ciò va aggiunto un ultimo aspetto: che qualsiasi pa-
rola io dica, quando la ripeterò, non sarà più la stessa. Non
esistono due voci identiche (ogni essere umano ne possiede
una, inconfondibile), ma non esistono neanche due suoni,
parole o frasi tra loro perfettamente sovrapponibili e inter-
cambiabili. La produzione orale, così, nasce e muore duran-
te la sua emissione, in un ciclo straordinario che dà, a ogni
sua parte, la qualifica della unicità ed eccezionalità.
In questo universo di parole così complesso e inafferra-
bile, è comunque importante segnare alcuni punti fermi, da
cui partire nel cercare di accrescere la nostra competenza
comunicativa. Noi dobbiamo, se interpretiamo un brano, lan-
ciarci nella più serena e convinta partecipazione emotiva –
nulla è più importante della sincerità nell’atto della relazione
–, eppure, accanto a questa tensione dobbiamo assimilarne
un’altra, legata allo studio del brano: delle sue motivazioni
storiche e contenutistiche e, soprattutto (per ciò che concer-
ne il nostro àmbito), della comprensione delle particolari pa-
role scelte dall’autore, e che quel brano compongono.
Ogni parola è casuale, ma ogni parola risponde anche a
precise (poetiche, metriche, simboliche, narrative, evocative,
allusive) tensioni; ogni parola possiede variazioni o sinonimi
ma ogni parola, allo stesso tempo, messa lì, nel contesto di
quella precisa frase, è insostituibile, ineliminabile, unica, de-
cisiva. Ogni parola è portatrice di questa unicità e, con essa,
assume il carico della sua ideale, regolamentata pronuncia.

1.2 Il perché di “un” modello

Le parole non sono innocenti. Possiedono una propria sto-


ria e una propria identità, e non rispettarne le caratteristiche
distintive può farci correre il rischio di disperderle, banaliz-
zarle, svuotarle. Ogni parola ha la sua storia. E, quindi, le
sue parti costitutive – le singole vocali e consonanti: i suoi
“suoni” – abbisognano di un equivalente rispetto. Le sue
particolarità fonetiche – se una parola è sdrucciola anziché
piana, se ha la “z” aspra in luogo di quella dolce, se preve-
de la “e” o la “o” aperta invece che chiusa – diventano la
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20 100 monologhi ben pronunciati

sua storia, il suo presente, il suo valore distintivo.


Le accentazioni e la pronuncia delle parole sono il frutto
di precisi esiti storici, e un autore e un traduttore, nell’atto
del loro utilizzo in un testo drammaturgico, ne sono consa-
pevoli. I dizionari si sono assunti la responsabilità di tra-
mandarci i mille accorgimenti che linguisti, scrittori, poeti
hanno riservato a ogni singolo vocabolo: un equilibrio seco-
lare che ha tenuto conto di problemi respiratori (la facilità
nel pronunciare alcuni gruppi di suoni, e non altri), di que-
stioni etimologiche (mostrare, attraverso quella precisa pro-
nuncia, la filiazione di una parola da un’altra), di dimensioni
fonosimboliche: affinché quei termini, nella loro dizione,
evidenziassero la propria ricercatezza, o la propria volgarità,
o quotidianità.
Se prendo, per esempio, le parole “viso” e “faccia” – tra
loro apparentemente equivalenti – mi rendo conto che la
prima suona più gentile della seconda. La percezione è an-
cora più netta se – così come prescritto dai nostri linguisti e
riportato dai nostri dizionari – addolcisco la “s” del primo
termine: un “bel viso” suona differentemente e significa an-
che una cosa diversa da una “bella faccia”: “viso di corno” è
un’espressione ben più strana di “faccia di corno”, o altro.
Le due locuzioni, lo sappiamo bene, non sono equiva-
lenti. Il suono “cci” si è infatti attestato nel corso dei secoli
con una valenza sempre più materiale, fisica, a volte addirit-
tura negativa (e difatti il suffisso “accio” ha nella nostra lin-
gua una chiara funzione spregiativa), mentre il suono “s”
dolce ha conquistato nel tempo un suo intrinseco valore di
eleganza e raffinatezza.
Gli esempi e le opposizioni si potrebbero moltiplicare
(in séguito vedremo molti casi concreti), ma va sottolineato
come, anche inconsapevolmente, alcune consonanti e vocali
siano percepite da tutti noi come gradevoli ed eleganti,
mentre altre, al contrario, suonano volgari e fastidiose.
Questa sapiente, affascinante orchestrazione di suoni che ha
composto la nostra lingua si è affinata nel corso di molti secoli. Essa
ha avuto un preciso modello di riferimento – la lingua fiorentina – e
si è realizzata in sette, forse ottocento anni di lenta revisione, ridefi-
nizione, puntualizzazione.
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Premesse storiche e culturali 21


In verità, durante questi secoli, sono stati in pochi a se-
guire le indicazioni di linguisti e studiosi; tuttavia, le loro af-
fermazioni, i vocabolari compilati, le discussioni e le corre-
zioni suggerite hanno avuto il merito di costituire un “sotto-
fondo” – simbolico ma permanente – di orientamento della
produzione vocale. Il prestigio di alcuni poeti o intellettua-
li mostrava al “volgo” un modo differente di nominare e
pronunciare gli oggetti; e così facendo, lentamente e incon-
sciamente, lo condizionava. E questa influenza ha modifica-
to in modo sensibile le forme collettive di come parlare e
ascoltare.

1.3 Il rapporto dialetto-lingua nazionale

Accanto (anzi, precedente) a questo percorso di forma-


zione della lingua italiana (e quindi della pronuncia), in mo-
do altrettanto complesso e stratificato se ne è formata un’al-
tra ugualmente rilevantissima, ossia la lingua dialettale: an-
ch’essa con i propri problemi morfologici e sintattici, ma an-
che fonoarticolatori, storico-etimologici e fonosimbolici.
Ognuna di queste due lingue ha proceduto per la propria
via. Talora i percorsi non si sono mai incrociati; altre volte
invece si sono intrecciati e sovrapposti, producendo così
moltiplicazioni e allargamenti del lessico. Ognuna ha veico-
lato l’immaginario della gente che l’ha padroneggiata, en-
trambe hanno proposto e raccontato in modo diverso (come
ogni lingua fa) il mondo.
È successo però, soprattutto negli ultimi decenni ma a
partire dall’inizio del Novecento, un fenomeno traumatico:
altamente positivo per tanti aspetti, molto negativo per altri.
Ci riferiamo alla impetuosa, invadente, condivisa, perentoria
affermazione della lingua e della fonetica “italiana”. Dappri-
ma con le leve militari, in séguito con la scuola elementare
obbligatoria, quindi con l’avvento della radio e del cinema
sonoro, per finire con l’avvento della televisione (il più po-
tente), il suo uso si è allargato a macchia d’olio, penetrando
profondamente in tutti gli strati della popolazione. Questo è
un fatto molto positivo. Che è stato però pagato, drammati-
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22 100 monologhi ben pronunciati

camente, con una violenta censura nei confronti della lingua


dialettale (fino agli anni Sessanta, emarginata e subordinata)
e con una assimilazione – troppo veloce e spesso superfi-
ciale – della stessa lingua nazionale. E questo è un fatto ne-
gativo. La lingua, infatti, è una dimensione troppo delicata e
complessa per essere imposta “per decreto”, ignorandone le
motivazioni storiche e psicologiche, antropologiche e poeti-
che che ne hanno determinato la formulazione e l’uso.
È successo, allora, che le nuove generazioni hanno for-
temente disimparato il dialetto dei propri parenti, e hanno
fin troppo sbrigativamente interiorizzato la lingua italiana.
Anzi, per essere precisi, va chiarito che è accaduto un feno-
meno ancora più regressivo. Ignorando la complessa archi-
tettura che sorregge la lingua italiana (raramente, a scuola,
se ne insegnano e chiariscono i sistemi fonetici d’uso) e ren-
dendo periferico il dialetto, abbiamo reagito nel modo me-
no maturo: dialettizzando l’italiano e nazionalizzando le lin-
gue dialettale, e facendo perdere a entrambe la propria spe-
cificità, originalità, unicità.
È così che tutte le regioni e ogni città – messa da parte
la lingua del proprio territorio – hanno semplificato e omo-
logato la pronuncia della fonetica italiana. A fronte di una
orchestrazione fonetica varia e articolata, ricca di sfumature
e differenze, si è affermata una rielaborazione più rigida e
spenta, prevedibile e monocorde.

1.4 La mediazione fiorentina

Abbiamo detto che la madre della nostra lingua nazionale


(riconosciuta come corretta) è il fiorentino. Attraverso la me-
diazione di Firenze, il vecchio modello latino ha mantenuto
una sua moderna vitalità: le parole e i suoni sono cambiati
in modo sostanzialmente lineare, ordinato e “ricostruibile”.
Il latino, che poteva contare su dieci vocali (le canoniche
“a”, “e”, “i”, “o”, “u”, sia brevi, sia lunghe), è stato filtrato dal
fiorentino in modo coerente: le “u” lunghe sono rimaste “u”,
mentre quelle brevi si sono trasformate in “ó”; le “o” lunghe
si sono attestate anch’esse come “ó”, mentre quelle brevi so-
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Premesse storiche e culturali 23


no state pronunciate “ò”. Le “i” lunghe si sono mantenute
“i”, mentre quelle brevi sono diventate “é”. Anche le “e”
lunghe sono state dette in forma chiusa – “é” –, a differenza
di quelle brevi, pronunciate come “è”. Le “a”, sia lunghe sia
brevi, sono rimaste “a”.
Per essere ancora più precisi, aggiungeremo inoltre che
le “e” e le “o” brevi hanno prodotto, a volte, i dittonghi. E
questo è successo quando le due vocali erano interne a sil-
labe libere. Sono chiamate libere le sillabe che si concludo-
no con una vocale; sono invece dette implicate quelle che
terminano con una consonante. È per questo che “homo”,
con la “o” breve in sillaba libera, si è trasformato in lingua
italiana in “uomo”, così come (esempio ancora più calzante)
è per la stessa ragione che “venit” con la “e” lunga si è atte-
stato in “vénne”, mentre “venit” con la “e” breve è diventato
“viène”.
E infine, per ciò che concerne i raggruppamenti di voca-
li (dittonghi e iati), possiamo indicare che – tendenzialmen-
te – “au” si è trasformato in “ò” (il latino “aurum” è infatti
l’italiano “òro”); che “ae” si è risolto in “ie” (laetum-lièto); e
che il gruppo latino “oe” è stato registrato col tempo in for-
ma chiusa (poena-péna).
Insomma, se si dispone di un vocabolario latino e lo si
confronta con un dizionario italiano, si può notare che l’ac-
centazione ritenuta oggi corretta è quella più ancorata e
continuatrice della pronuncia latina. E, tutto questo, non so-
lo per ciò che concerne le vocali, ma anche per le conso-
nanti e altri comportamenti fonetici.

Perché Firenze? Abbiamo riconosciuto questa città (co-


me punto di riferimento, nel corso di un lungo processo
storico) per ragioni di prestigio (è la lingua di Dante, di Pe-
trarca, di Boccaccio), per motivi economici (la nascita delle
banche, strumento formidabile di scambio e negoziazione)
e, forse, anche per caratteristiche storiche che affondano le
radici nel rapporto tra dominazione latina ed Etruria (la vec-
chia Toscana): questa fu conquistata nel III secolo a.C.,
quando la lingua latina, pur consolidata, non era ancora sta-
ta influenzata da altre parlate italiche (e quindi il fiorentino
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24 100 monologhi ben pronunciati

dovrebbe aver conservato le più originarie strutture della fo-


netica latina).
Più ci allontaniamo dal modello fiorentino e più la situa-
zione si fa confusa: non perché le altre regioni siano lingui-
sticamente meno ricche, ma solo perché queste hanno do-
vuto rinunciare alla propria lingua storica (potremmo dire
“al loro dialetto più nobile”), riproponendo un modello più
superficiale e (ovviamente) meno convinto di fiorentinismo.

1.5 L’adeguamento delle altre regioni

Per essere ancora più chiari, bisogna pensare al fiorentino


come a un dialetto – uno tra i tantissimi di cui è ricca la no-
stra penisola – e immaginare che gli abitanti degli altri terri-
tori italiani (ognuno col proprio dialetto) abbiano dovuto,
da un certo momento in poi, comunicare attraverso quello
fiorentino. Questo diventa “lingua nazionale”, mentre tutti
gli altri si raddoppiano o divaricano: da un lato il dialetto
originario, e dall’altro quello che tenta di mostrarsi come
fiorentino.
Poteva, tale percorso, rivelarsi molto fruttuoso, permet-
tendo a tutti di padroneggiare due lingue (due dialetti: quel-
lo del proprio territorio e quello fiorentino); e invece gli ita-
liani non fiorentini sono stati costretti a far convergere in
un’unica, nuova lingua le due iniziali tensioni. Sono così na-
te – senza assimilare la struttura fonetica latino-fiorentina e
talora violentando il dialetto di base – le cosiddette “lingue
regionali”.
In esse, ormai, c’è una traccia molto esigua della ric-
chezza e della tipicità dell’iniziale suono dialettale; e, lo ri-
petiamo, non c’è coscienza (né implicita né esplicita) del va-
lore storico e linguistico del modello fiorentino che propo-
niamo come “italiano”.
Sarebbe come se in Europa (l’esempio non sembri biz-
zarro), per motivi di funzionalità, si decidesse di utilizzare
un’unica lingua sovranazionale, e che quella privilegiata
debba essere (il caso ha voluto così) la lingua francese. Di
fronte a tale novità, potremmo (noi altri: italiani, inglesi,
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Premesse storiche e culturali 25


spagnoli, tedeschi, etc.) mantenere la nostra lingua e dili-
gentemente imparare il francese: assimilandolo, affinandolo,
perfezionandolo. Così facendo, in alcune situazioni noi ita-
liani parleremmo la nostra lingua madre, mentre in altre –
per esempio all’estero – ci serviremmo della nuova lingua,
recentemente acquisita. Insomma, potrebbe diventare un’oc-
casione per possedere due differenti strumenti comunicativi.
L’alternativa più rozza e indolente sarebbe invece un’al-
tra. Impossibilitati ad apprendere altri codici, finiremmo col
trasformare il nostro italiano in un francese arrangiato e po-
sticcio. Ci chiederemmo quali siano i parametri fonetici più
facilmente interpretabili come “francesi” e li adegueremmo
maldestramente all’italiano. Forse renderemmo tronche tutte
le nostre parole (accentandole alla fine), poi arroteremmo la
“r” (che scriveremo R), e infine indeboliremmo le “c(i)” e le
“g(i)”, trasformandole in “sc(i)” e “sg(i)”. Se io mi abituassi a
dire “sciaò, iò sonò dilisgentè nel miò fRanscesè”, farei sorri-
dere i miei ascoltatori (e in effetti comico è a volte l’effetto
che una pronuncia fiorentina diventa in bocca napoletana,
palermitana, triestina, etc.): tutti si accorgerebbero che il
mio francese è maldestro e impreciso ma alla fine mi tolle-
rerebbero (forse) e capirebbero (male).
Dal comico si passerebbe al drammatico se, dopo un
po’, io (aspirante francese) dimenticassi il mio italiano e mi
abituassi a sopravvivere con una lingua che mastico poco e
che non so governare. La regressione si è compiuta; la pos-
sibilità di una moltiplicazione delle lingue si spegne e un fa-
stidioso monolinguismo si instaurerebbe nel nostro conti-
nente.

1.6 L’asse fonetico Roma-Milano

Non tutte le regioni (per motivi storici ed economici) vengo-


no considerate equivalenti, e la tendenza fonetica in atto sta
producendo una ulteriore, dannosa alterazione: quella di as-
sistere – nel presente periodo storico – alla supremazia di
due lingue cittadine nel più vasto scambio linguistico nazio-
nale. Purtroppo, non solo non abbiamo imparato la lingua
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26 100 monologhi ben pronunciati

fiorentina (a cui abbiamo riconosciuto nei secoli la respon-


sabilità unificante nazionale); non solo abbiamo italianizzato
in modo sbrigativo il nostro dialetto; ma stiamo ora aderen-
do (ancora una volta traumaticamente, senza alcuna giustifi-
cazione e meditazione storica), alla pronuncia veicolante di
due specifiche lingue cittadine: l’italo-romano e l’italo-mila-
nese. Le quali, se in contrasto con la norma italiana (sancita
dai vocabolari), riescono a vedere tollerato, a volte “accolto”
o addirittura consigliato, il loro modo di pronunciare.
Impossibile sarebbe la proposta alternativa di una pro-
nuncia catanzarese, pescarese, veneziana, etc. Impossibile
(ma non per problemi di rappresentatività linguistica, quan-
to per problemi di controllo e gestione dei sistemi massme-
diali contemporanei) sarebbe l’ipotesi di una tendenza fone-
tica materana-nuorese-vicentina.
Il problema ovviamente non è quello di mettere in op-
posizione una lingua contro un’altra (bene o male, a una bi-
sogna far riferimento), quanto quello di riaffermare le ragioni
di una lingua sedimentata nel tempo (e alla cui elaborazione
hanno concorso moltitudini di operatori, anche extrafiorenti-
ni) a dispetto di una lingua formalizzata velocemente, per
adeguare una fonetica dialettale a una lingua nazionale.
La prima – la lingua nazionale-fiorentina – riesce a spie-
garci con chiarezza la pronuncia di larga parte delle parole:
e lo fa in relazione al latino (e al greco, al bizantino, al lon-
gobardo, al francese, etc.) e in rapporto con motivazioni fi-
lologiche, psicologiche, poetiche. Ogni altra lingua, purtrop-
po, avendo operato un salto netto dal dialetto all’italiano, è
necessariamente più semplificata e omologata. Barese o vi-
centina, milanese o catanzarese che sia, essa non potrà che
essere considerata come una neo-lingua formatasi dall’assi-
milazione della fonetica fiorentina.
Se, attraverso la mediazione fiorentina, possiamo com-
prendere la differenza della pronuncia tra la “o” di “Apòllo”
e quella di “póllo”, di “fòro” (il tribunale) e “fóro” (il buco),
di “Giòve” e di “gióvo”, la “e” di “io fréno” e “il frèno”, “che
io téma”, “il tèma”, “il cèntro”, “io c’éntro”, la “s” di “musica”
e quella di “asino”, di “poesia” e di “pisello”, la “z” aspra di
“zolfo” e di “nazista”, la “z” dolce di “pranzo” e di “frizzan-
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Premesse storiche e culturali 27


te”, con nessun’altra lingua regionale o cittadina ci è per-
messa una articolata ricostruzione. Le variabili fonetiche si
sono ridotte e la sapiente orchestrazione sonora della lingua
si smorza e si appiattisce.
Decidendo di privilegiare, ora, la lingua italo-milanese o
italo-romana, si afferma implicitamente di voler smarrire un
po’ il senso storico della fonetica italiana, per farlo aderire a
questioni di moda e di consenso effimero.
E se domani, all’improvviso, il centro televisivo e mas-
smediale nazionale si spostasse a Trapani, oppure a Udine,
sarebbe quest’ultimo tipo di pronuncia (la italo-trapanese o
la italo-udinese) a diventare inevitabilmente punto di riferi-
mento e origine del condizionamento.
La vecchia lingua fiorentina – con la sua lenta e sedi-
mentata tradizione storica, a cui le altre regioni hanno aderi-
to nel corso dei secoli – sarebbe ancora una volta resa mar-
ginale e periferica. E la lingua vincente e alternativa non po-
trebbe esibire la dignità di una evoluzione complessa. Una
volta troncata ogni relazione con il proprio dialetto, avendo
appreso essa stessa (in fretta) la lingua fiorentina, e prefe-
rendo adeguare sbrigativamente la propria pronuncia a que-
sta, sarebbe incapace di offrire ogni profonda ricostruzione:
manifestandosi inevitabilmente in modo omologato e sem-
plificato.

1.7 Le minoranze linguistiche in Italia

Concludiamo questo primo capitolo con una ricognizione –


necessariamente sommaria – delle comunità che, pur risie-
dendo nel territorio italiano, utilizzano strutture lessicali, sin-
tattiche e grammaticali (e fonetiche) di chiara matrice stra-
niera: soprattutto francese, tedesca, arbëëreshëë (la lingua
parlata da molteplici gruppi albanesi, risalente al 1500, epo-
ca del loro trasferimento in Italia). (E sarebbe ugualmente
interessante accennare al quadro di contaminazioni linguisti-
che che gli attuali flussi migratori – africani, dell’Est euro-
peo, etc. – determinano nei loro passaggi o nelle loro stan-
zialità.)
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28 100 monologhi ben pronunciati

Il potere di influenza e condizionamento di queste mi-


noranze non è probabilmente alto (e spesso si tratta di
gruppi che, nella conservazione della propria lingua, cerca-
no un ancoraggio a precise – talora isolate – realtà culturali
e identitarie). Ciononostante, siamo convinti che una loro
breve descrizione possa giovare a comprendere ancora me-
glio la complessità, la ricchezza e l’interdipendenza (fatta di
difese, scontri, contaminazioni) in cui – sempre – lo scam-
bio linguistico è immerso. Il tutto per ribadire due differenti
obiettivi: accrescere la consapevolezza della varietà di pro-
nuncia della lingua italiana; reclamare comunque un punto
di riferimento (anche se virtuale e orientativo).

La Valle d’Aosta è ufficialmente bilingue (italiano e fran-


cese) e, inoltre, è arricchita da un altro idioma – il patois –
del gruppo franco-provenzale; sono infine presenti alcune
minoranze walser, che parlano un particolare dialetto tede-
sco.
L’influenza francese è vistosa anche in Piemonte, nono-
stante la pesante immigrazione meridionale del secondo do-
poguerra ne abbia in parte modificato la pronuncia; ritrovia-
mo (così come in Val d’Aosta) le minoranze walser, unita-
mente a parlate provenzali e francoprovenzali.
Fortemente diviso in due differenti aree linguistiche è il
Trentino Alto Adige, con epicentri Trento (di matrice italia-
na) e Bolzano (con vistose influenze tedesche). Lingua ita-
liana e lingua tedesca trovano in questa regione pari dignità,
interpretate e proposte nella loro valenza culturale e identi-
taria. Ugualmente importante è la lingua ladina (un gruppo
dialettale neolatino), parlata soprattutto in provincia di Bol-
zano.
Il Friuli Venezia Giulia fa registrare una vistosa differen-
za tra le province di Udine e Pordenone (più legate alle abi-
tudini padane: per esempio lombarde), e quelle di Trieste e
Gorizia, dove è presente una discreta presenza di slovacchi
(ma anche croati e serbi) che ne ha ovviamente caratterizza-
to gli sviluppi fonetici. Presenze di minoranze ladine e slo-
vene (meno tutelate) si registrano anche in alcuni territori
della provincia di Udine. Ancora più ridotte sono alcune co-
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La pronuncia 29
munità tedesche, nell’alta Carnia.
Fino all’inizio del Novecento, anche in Veneto erano dif-
fusi alcuni dialetti tedeschi. Col tempo essi sono scomparsi,
a eccezione di alcune comunità ladine e tedesche, entrambe
residenti in provincia di Belluno.
Saltando i territori liguri, lombardi, emiliano-romagnoli e
marchigiani (privi di significativi innesti extranazionali), bi-
sogna raggiungere l’Abruzzo per ritrovare alcune interessan-
ti minoranze linguistiche albanesi, e il Molise, laddove è in-
vece possibile rintracciare piccole comunità provenienti dal-
la Dalmazia. Un piccolissimo centro in cui sopravvive la lin-
gua albanese è anche in Campania, in provincia di Avellino.
Sensibilmente più marcata è la presenza albanese in Ba-
silicata (sia in provincia di Matera, sia in quella di Potenza)
e in Puglia. In quest’ultima regione, vanno segnalati inoltre
– nel Salento – una orgogliosa comunità di lingua greca (la
cosiddetta “Grecìa salentina”) e, di minore entità, un dialetto
provenzale in provincia di Foggia.
In Calabria, accanto alla lingua albanese, è parlata in al-
cuni comuni una particolare variante della lingua greca e
(nella provincia di Cosenza) un dialetto provenzale.
Per quanto riguarda le nostre due isole (accanto alla sot-
tolineatura della loro particolarità fonetica generale), è utile
segnalare la presenza in Sicilia di alcune comunità albanesi
e provenzali, e ad Alghero, in Sardegna – regione dotata di
una lingua neolatina sensibilmente diversa dai dialetti italici
– vale la pena invece ricordare il persistere di una antica e
solida comunità catalana.

2. LA PRONUNCIA

2.1 Le vocali

Dopo aver elencato velocemente le minoranze linguistiche


presenti in Italia, e dopo l’argomentazione del passaggio dal
latino all’italiano mediato dalla lingua fiorentina, entriamo
nel merito delle regole di pronuncia della lingua nazionale.
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30 100 monologhi ben pronunciati

E lo faremo avendo ben presenti le distanze – benefiche –


che intercorrono tra lingua “italiana” e lingue “dialettali”, e
quelle, meno stimolanti (talora regressive e pericolose), tra
la pronuncia nazionale e le sue varianti regionalizzate.
La nostra proposta – positiva e migliorativa – è dunque
quella di tendere all’apprendimento e all’uso di due lingue:
il dialetto e l’italiano (e non un univoco italiano regionale
imbastardito). E che, queste, risultino due lingue consapevo-
li, cólte, ricche, capaci di restituire nella propria pronuncia
la loro freschezza e originalità; una lingua nazionale e una
lingua dialettale che, pur guardando al futuro (e alle sue
inevitabili trasformazioni), siano in grado di cogliere il senso
delle proprie radici ed evoluzioni: di capire cioè il presente.
In questo volume parleremo della pronuncia italiana,
perché questa è la competenza primaria che noi padroneg-
giamo. E partiremo innanzitutto dalle vocali e dalle conso-
nanti, veri e propri mattoni della nostra comunicazione. Poi,
sùbito dopo, si accennerà ai digrammi infedeli, cioè a quei
gruppi consonantici che, scritti in un certo modo, vanno
pronunciati con suoni sostanzialmente differenti. Ci impe-
gneremo quindi a spiegare con chiarezza la differenza tra
lettere dolci e lettere aspre, la regolamentazione dei raddop-
piamenti fonosintattici, il fonosimbolismo, la prosodia, la
cantilena, gli errori regionali più vistosi e fastidiosi.
Prima di cominciare, va comunque sottolineato che la
lingua italiana “nazionale”, rispetto ad altre lingue moderne
(per esempio l’inglese o il francese), è sufficientemente pre-
cisa nella sua convergenza tra scrittura e lettura, tra i suoi
grafemi e fonemi: quello che scriviamo in italiano è cioè
meno esente da differenze e ambiguità di pronuncia. Ciò
deriva dall’essere stata ufficializzata molto recentemente (e
una lingua nazionale si fonda quando si suggella la sua na-
zione), e dall’essere parlata da un gruppo più ristretto di
abitanti. (E, infatti, lingue come l’angloamericano o il france-
se, parlate da centinaia di milioni di persone, hanno una
corrispondenza scritto-parlato molto più grossolana.)
Nonostante tutto questo, però, anche in italiano esistono
alcuni scarti e incongruenze tra quello che scriviamo e ciò
che leggiamo. Partiamo dalle vocali.
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La pronuncia 31
Tutti noi ci serviamo di cinque vocali scritte, ma ogni
italiano (anche quando parla il suo “italiano-regionale”) ne
pronuncia quasi sempre di più. E allora, per essere precisi,
bisognerà riconoscere che disponiamo di ben undici diffe-
renti vocali. Se infatti noi usiamo una sola “a”, disponiamo
invece di tre diversi tipi di “e” e di “o”, così come pronun-
ciamo due diverse forme di “i” e di “u”: le undici vocali del-
la fonetica italiana potremmo scriverle in questo modo: a, è,
é, E, i, j, ò, ó, O, u, w.
Descriviamo quelle aperte e chiuse. Sia le “e” sia le “o”
possono essere pronunciate in modo aperto (la mandibola è
distanziata dalla mascella, la lingua è più rilassata e garanti-
sce maggiore spazio all’aria che esce dalla gola), oppure
chiuso: in tal caso la bocca e la lingua tendono a imporre
una lieve chiusura all’aria che viene fuori dalla gola.
Per le leggi che regolamentano la chiusura o l’apertura
di queste vocali, rimandiamo all’appendice finale del volu-
me. Per ora è solo necessario sottolineare che tali vocali
possono aprirsi o chiudersi esclusivamente in posizione to-
nica, cioè sotto accento.
Ogni parola ha una sua vocale tonica, e questo è il suo-
no su cui poggiano tutte le sillabe che compongono quella
parola.
Un vocabolo può essere tronco (quando l’accento cade
sull’ultima sillaba: per esempio “ragù”, “libertà”, “mercoledì”,
“giù”), piano (quando l’accento cade sulla penultima sillaba:
“lìbro”, “gelàto”, “violoncèllo”, “rapidaménte”), sdrucciolo
(quando l’accento cade sulla terzultima sillaba: “àlbero”,
“doménica”, “ritornàrono”), bisdrucciolo (quando l’accento
cade sulla quartultima sillaba: “càntamelo”, “prendiàmoce-
lo”, “rispàrmiatelo”); eccezionalmente possiamo incontrare
anche parole trisdrucciole (órdinaglielo).
Ora: se l’accento cade proprio su una “e” o su una “o”,
queste due vocali dovranno “sbilanciarsi”, aprendosi o chiu-
dendosi. Un italiano che si esprime correttamente, dirà “cèr-
to, un poèma lètto mólto bène è spésso uno struménto di
créscita déi valóri”; un italiano impreciso potrà dire “cérto,
un poéma létto mòlto béne…”, ma entrambe le pronunce,
come si può notare, poggiano proprio sulle “e” e “o” toni-
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32 100 monologhi ben pronunciati

che, e le due differenti pronunce saranno costrette a chiude-


re o aprire questi due suoni.
Se invece le due vocali in questione sono atone (prive
cioè di accento tonico), qualsiasi persona le pronuncerà au-
tomaticamente in modo neutro: né aperte né chiuse (e nelle
trascrizioni fonetiche segneremo queste neutralità con i se-
gni E e O): “cOmpitàrE cón ElEgànza fa migliOràrE la pEr-
sOnalità individuàlE”.
Facciamo un altro esempio: se io mi chiamassi Nicola, o
Giorgio, o Michele, sentirei pronunciare il mio nome dai
miei amici (a seconda delle loro influenze fonetiche regio-
nali) in modo forse diverso: “Nicòla-Nicóla”, “Giòrgio-Giór-
gio”, “Michèle-Michéle”. Se invece il mio nome fosse Gen-
naro, oppure Angelo o Paolo, gli stessi miei amici non po-
trebbero che chiamarmi nel medesimo, identico modo.
Mentre nei primi nomi l’accento cade sulla “o” (Nicola,
Giorgio) e sulla “e” (Michele), nei successivi tre – Gennaro,
Angelo, Paolo – gli accenti, cadendo sempre sulla “a”, ren-
dono atone le “e” e le “o” impedendo a queste vocali ogni
apertura o chiusura.
In alcuni manuali di dizione viene scritto il contrario.
Viene cioè indicato che le “e” e le “o” non toniche vanno
pronunciate uniformemente chiuse. È un’affermazione errata
che discende, forse, dalla confusione tra dizione e cantilena.
Infatti, solo se rallento la pronuncia delle vocali di una pa-
rola, quasi sillabandola (e con ciò realizzando una cantile-
na) io posso chiudere – o aprire – le vocali atone. Ed è evi-
dente che (ad esempio) un siciliano o un lombardo, che
pronunciano normalmente le parole tronche in modo aperto
(dicono “trè”, “mè”, “tè”…), possono, se caratterizzati da
una propensione alla cadenza regionale, dire “trè-man-tè”,
“mè-schi-nè”, “rè-ga-la-rè”, e così via.
In assenza di cadenza, mentre tutti possiamo renderci
conto della differenza di pronuncia della “e” tonica di “fèr-
mo” e “férmo”, di “còrso” e “córso”, di “avèvo” e “avévo”, di
“compòrre” e “compórre”, molto più difficile (a nostro avvi-
so impossibile) sarà rintracciare distanze nelle “e” di “fer-
miamo” e di “avevate”, nella “o” di “corsaro” e nelle due pri-
me “o” di “composizione”. Insomma se, con una fluenza
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La pronuncia 33
normale e colloquiale, mi impegno a dire “tremèndo” e “tre-
méndo”, a ben pensarci, come ho pronunciato la “e” della
prima sillaba? Né aperta né chiusa ma, automaticamente,
corretta. In fonetica, come già anticipato, queste vocali, ato-
ne, si scrivono in maiuscolo: “E” e “O”.
Un’ultima, importante informazione di natura “fonoacu-
stica” è legata alla (a prima vista inaspettata) vicinanza tra le
vocali “e” e “o” chiuse con le vocali “i” e “u”. Per quanto
possa sembrare strano, a un attento esame acustico si può
tranquillamente notare come la distanza tra la “è” e la “é”
sia più forte che tra la “é” e la “i”; allo stesso modo, la “ó” è
più simile alla “u” che non alla “ò”.
Questa particolare prossimità ci può far riflettere sul for-
zato (alterante) condizionamento che la forma scritta ha
operato su quella orale. Infatti, è forse solo per questo moti-
vo che una eventuale rima – strutturata sull’assonanza “è-é”
o “ò-ó” – viene tradizionalmente ben accettata da qualun-
que lettore o ascoltatore; mentre eventuali altre rime, gioca-
te sulle assonanze “é-i” o “ó-u”, producono un (ingiustifica-
to) senso di errore e stonatura.
Una strofa del tipo “eppure mai ti ho détto, quel che per
te ho scritto e lètto”, sarebbe interpretata come corretta e
normale; un’altra che suoni “eppure mai ti ho détto, che mi
sento uno sconfitto”, verrebbe percepita invece come (al di
là del contenuto) più infelice e sgraziata. Allo stesso modo,
ci sembrerebbe del tutto legittima una rima “dòlo-vólo” (per
me il più grande dòlo, è saper che hai preso il vólo), ma
stupirebbe invece non poco la proposta di due versi come
“e per me il più grande vólo non lo compie certo un mulo”.
Sappiamo bene che quanto stiamo dicendo creerà per-
plessità, così come siamo consapevoli che per secoli (da Pe-
trarca ai giorni nostri) ci siamo abituati a sentire solo ed
esclusivamente un certo tipo di rime, fortemente segnato
dalla ripetitività vocalica grafica: a-a, e-e, etc.; eppure un
qualsiasi strumento meccanico o elettronico (anche un sem-
plice computer con discriminazione acustica), interrogato su
queste vicinanze e distanze, confermerà in modo netto que-
sta nostra indicazione: la “i” è più simile alla “é” di quanto
non lo sia la “è”; sono più vicini “u” e “ó” che non “ó” e “ò”.
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34 100 monologhi ben pronunciati

Questa consapevolezza può tornarci utile nell’esercitarci


alla corretta pronuncia delle vocali. Se, cioè, sono abituato a
dire una parola con la “o” aperta (e invece capisco che la
dizione esatta è quella chiusa), sarà sufficiente dire quella
vocale “pensando” a una “u”: una forma intermedia più
prossima alla “u” mi garantirà la corretta, chiusa fonazione
della vocale. Allo stesso modo (qualora occorra, e invece
non ne sono capace), pensando alla “i”, dirò una “e” chiara-
mente ed efficacemente chiusa.

2.2 Le semivocali e le semiconsonanti

Per quanto riguarda la differenza tra “i” e “j”, “u” e “w”, bi-
sognerà necessariamente chiarire lo scarto che separa le vo-
cali dalle consonanti. Chiesto in modo più elementare:
quando un suono può dirsi pienamente “vocale” e quando
no?
I segni distintivi di una “vera” vocale sono due: a) il po-
ter prolungare il proprio suono (poter dire “aaa…”, “eee…”,
“iii…”); b) il non incontrare, nell’uscita dell’aria dalla bocca,
nessun ostacolo.
Al contrario, una “autentica” consonante sarà caratteriz-
zata da un suono breve (una “p” allungata è impossibile da
produrre) e dalla presenza dell’interferenza e dell’ostacolo
di un organo fonatorio durante l’uscita dell’aria dalla bocca:
la lingua per la “l” e la “n”, le labbra per “b”, “p”, “m”, i
denti per “t” e “d”, e così via.
Ora, a ben pensarci, mentre se dico “mio” o “tuo” posso
allungare a mio piacimento le due vocali toniche (miiio,
tuuuo), non riuscirò a compiere la stessa operazione nella
“i” e nella “u” di “piedi” e “scuola”: dire “vado a piiiedi a
scuuuola” è pressoché impossibile o comunque stravagante.
Queste due vocali – “i” e “u” – sono quindi, in alcuni casi e
contesti, pienamente vocali (mio, cibo, via, mira, vino, tuo,
muro, bua, tubo, etc.); in altre parole invece si comporte-
ranno come false, incompiute vocali (ciao, piede, chiedo,
miele, scuola, buono, quello, sguardo, etc.).
A ulteriore riprova della loro differenza, mentre è possi-
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La pronuncia 35
bile dividere sillabicamente (e, quando scrivo, andare a ca-
po) le parole “pi-no”, “ci-bo”, “gu-fo”, “tu-bo”, un’analoga
operazione mi sarà impedita in termini come “gi-allo”, “gi-
oco”, “cu-ore”, “nu-ovo” (andare a capo cioè dopo “gi”,
“cu”, “nu”…).

Date queste informazioni più neutre, è ora il momento


di chiarire alcuni aspetti (e talora specifici problemi) di pro-
nuncia.
Partiamo dalla consapevolezza che ogni vocale tonica
dura un po’ di più rispetto ad altre vocali non toniche, e
molto di più delle eventuali semivocali della parola nella
quale è inserita. Riflettiamo anche sul fatto che questo pic-
colo impegno fonatorio viene (a volte, e non sempre è un
bene) inconsapevolmente ridotto o eliminato.
Ci sono situazioni in cui è addirittura impossibile sottrar-
si a questa “riduzione” di lavoro fonoarticolatorio. E questo
succede nella fluenza parlata, laddove spesso le “i” e le “u”
vocaliche si trasformano sovente in semivocali. Prima dice-
vo “è mio, è tuo”, e consegnavo alle due vocali una piena
dignità espiratoria; ma se invece ora dico “mia madre”, “tuo
padre”, il peso fonico sulle due vocali si riduce ed esse di-
ventano suoni del tutto semivocalici (“mjamadre”, “twopa-
dre”: alla stregua di “kjodo” e di “scwola”).
Un altro fenomeno – forse tollerabile – è legato alla ca-
duta in disuso della doppia “i”. Essa resiste ormai solo nel-
l’uso di rare forme del congiuntivo (che io mi avvii), del
passato remoto indicativo di alcuni verbi in “ire” (io capìi,
gioìi, soffrìi) e in quasi tutte le forme del plurale di parole
bisillabiche in “io” (pii, rii, zii). In molti altri casi, invece,
stiamo assistendo a una loro esplicita e ufficiale contrazione.
Questa è praticamente generale nell’allungamento della
doppia “i” nelle forme plurali di parole come “binario”,
“consultorio”, “principio”, “vario”, etc., a volte generando un
po’ di confusione, nelle forme scritte, tra i “conservatori”
(collocazione politica) e i “conservatorii” (scuole di insegna-
mento di musica), gli “oratori” (persone abili in retorica) e
gli “oratorii” (luoghi annessi alle chiese), etc.
Sicuramente più grave è però la trasformazione della
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36 100 monologhi ben pronunciati

vocale in semivocale per rendere più veloce la parola che


stiamo pronunciando. Questo succede spostando l’accento
(per esempio “Nuòro”, anziché “Nùoro”: nel primo caso
avremmo tre sillabe; nel secondo, due); o – fenomeno an-
cora più discutibile – trasformandone del tutto il suono. Di-
cendo per esempio “giografia” anziché “geografia” (o “gio-
metra” invece di “geometra”), stiamo trasformando la voca-
le “e” in una “i” semivocalica: col risultato di una minore fa-
tica espiratoria ma anche – a nostro avviso – di una sgrazia-
ta resa fonetica.
Prima di concludere, vale la pena ricordare come in al-
cuni dialetti, e in alcuni regionalismi (soprattutto nel Sud
Italia), la differenza tra vocali e semivocali non è sempre
percepita. Fedeli e ancoràti alla vecchia pronuncia latina,
sempre vocalica, sentiremo pronunciare in modo allungato
anche le semivocali. Così, una frase come “diciotto camicie
sono sufficienti” sembrerà suonare come “dici-otto camici-e
sono suffici-enti”. Anche gli stranieri, spesso, commettono
tale errore: un’alterazione di cui forse non hanno colpa e
che nasce proprio da queste piccole ambiguità e incon-
gruenze della fonetica italiana.

Così come esistono due suoni talora un po’ “infiltrati”


nelle vocali (le due semivocali “j” e “w”), allo stesso modo
possiamo individuare alcune consonanti “spurie” e un po’
“vocaliche”. Si tratta certamente delle due “s” e delle due “z”
(quelle aspre e quelle dolci), ma anche dei suoni “r”, “f”, “v”
e infine “sc(i)”.
Questi otto suoni – s, s, z, z, r, f, v, sc(i) – non possono
essere definiti pienamente vocali (l’uscita dell’aria è frenata
dalla lingua, o dalle labbra o dai denti), ma nemmeno po-
tremo chiamarli consonanti. Sono infatti facilmente e sicura-
mente “allungabili”, consentendoci espressività e forza co-
municativa (sss…, dsss…, zzz…, dzzz, rrr…, fff…, vvv…,
sccc(i)…). In fonetica vengono indicati come semiconso-
nanti.
In alcuni testi scolastici, soprattutto in uso nei licei clas-
sici, si parla di semiconsonanti a proposito della “r”, ma an-
che della “l” e della “m”. Ciò deriva forse da un diverso mo-
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La pronuncia 37
do di pronunciare questi suoni nell’antichità classica. In re-
altà, queste ultime due lettere sono, a nostro parere, delle
semplici consonanti. In nessun modo ne sarà possibile pro-
lungare l’emissione.
La differenza tra vocali e consonanti ha una conseguen-
za straordinaria nella recitazione e più in generale nell’inter-
pretazione delle (nel dare cioè “colore” alle) nostre frasi.
Possiamo infatti intonare le nostre parole soprattutto pog-
giando sulle vocali, e in particolar modo sulle vocali toni-
che. E, proprio grazie all’allungamento che ci garantiscono
le vocali, potremo inserire le nostre intenzioni ironiche,
amorevoli, violente, seducenti, e così via.
Nella pronuncia delle consonanti, tale possibilità espres-
siva è invece oggettivamente più ridotta. E se non potremo
intonare in alcun modo le “i” e le “u” semivocaliche, e avre-
mo difficoltà a intonare le consonanti, molto più spazio sarà
praticabile con le semiconsonanti (le più vicine alle vocali
per via della loro allungabilità) e ovviamente – lo abbiamo
già detto: regine della intonazione – con le vocali.

2.3 Le consonanti

Analizzando le consonanti, sarà innanzitutto necessario divi-


derle in relazione al loro “luogo di articolazione”. Gli stru-
menti fonatori coinvolti sono le labbra, i denti, gli alveoli
(quei piccoli rigonfiamenti che “contengono” la radice dei
denti), il palato, il velo palatale (altrimenti detto “palato
molle”), ossia la parte più arretrata del palato, immediata-
mente precedente l’ugola (o “uvula”).
Anche la lingua, a sua volta, va divisa in più punti: la
“punta”, la “corona” (la parte superiore della lingua, di po-
chi millimetri arretrata dalla punta), il “dorso” (la parte cen-
trale), la “radice” (l’ultimo tratto inferiore, il più arretrato,
della lingua). Per toccare i vari punti dell’apparato fonatorio,
utilizziamo molto spesso la nostra lingua. Questa – un orga-
no fondamentale della fonazione – mentre parliamo è infatti
continuamente in movimento; e alcune volte (per produrre i
suoni “gh” e “ch”, ma anche “m”) si ritrae, assomigliando a
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38 100 monologhi ben pronunciati

un piccolo pugno interno alla nostra bocca.


Tornando quindi all’obiettivo summenzionato – descri-
vere le consonanti in base al loro luogo di articolazione –,
possiamo dividere i suoni in labiali (“p”, “b”, “m”: due lab-
bra che si toccano e nell’atto di staccarsi permettono la pro-
duzione dei suoni), labiodentali (“f”, “v”: i denti incisivi su-
periori toccano il labbro inferiore); dentali (“t”, “d”: la punta
della lingua tocca i denti incisivi superiori); alveodentali
(“s”, “s”, “z”, “z”: la punta della lingua tocca il punto di sal-
datura tra gli incisivi inferiori e gli alveoli inferiori); alveola-
ri (“c” di “ciao” e “g” di “già”: la corona della lingua tocca
gli alveoli superiori); alveopalatali (“n”, “l”, “r”: la punta del-
la lingua tocca la zona di giuntura tra alveoli e palato e, nel
caso della “r”, produce una serie di vibrazioni); palatali (la
“gn(i)” di gnomo e la “gl(i)” di moglie: il dorso della lingua
tocca il palato); velopalatali o anche velari (“gh”, “ch”: la ra-
dice della lingua si innalza e tocca la parte più arretrata del
palato: il velo palatale). A questi suoni va infine aggiunto
anche la “sc(i)” di “sciroppo”: un suono alveolare (in parte
alveopalatale) un po’ particolare che abbisogna di una pic-
cola “biforcazione” della porzione più avanzata della lingua.
Un ultimo suono (in realtà usato in modo ridotto) è
quello che la “n” produce in parole come “anche” o “ango-
lo”. Se stiamo attenti, ci rendiamo infatti conto che la “n” di
“anche” è ben diversa da quella di “no”: in quest’ultimo ca-
so portiamo la lingua verso l’alto (l’abbiamo già visto: il suo-
no è alveopalatale), mentre nel caso di “angolo” (quindi,
quando la “n” precede la “gh”, ma anche la “c(i)”, la “g(i)” e
la “ch”) la lingua è posizionata chiaramente nel palato infe-
riore, quasi immobile.
Come si può notare, abbiamo omesso dal nostro elenco
le consonanti “h” e “q”: queste infatti sono del tutto prive di
un loro reale valore fonetico. La “h”, a ben pensarci, serve
per le esclamazioni e per differenziare la “c” di “ciao” da
quella di “chiesa”, la “g” di “gioco” da quella di “ghiro”,
nonché le “o” e le “a” verbali (io ho, lui ha) dalla congiun-
zione “o” (io o lei) e dalla preposizione “a” (vado a casa).
Per quanto riguarda la “q”, se provassimo a sostituirla con la
“c(h)” o (se l’avessimo nel nostro alfabeto) con la lettera
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La pronuncia 39
“k”, da un punto di vista della pronuncia non ci accorge-
remmo di alcuna differenza “acqua-akkua-accua”, “quadro-
cuadro-kuadro”, “questo-cuesto-kuesto”, etc. (Ovviamente
questa puntualizzazione non va fraintesa. Non va infat-
ti confusa la regolamentazione fonetica con quella grafica,
e non speriamo in alcun modo che le lettere “h” e “q” spa-
riscano dalla lingua nazionale. Al limite si potrebbe comin-
ciare a includere altri suoni: per esempio i già noti “k”, “j”,
“w”.)
Tenuto conto della complessità che caratterizza il nostro
alfabeto, è possibile anche descriverne le lettere da un altro
punto di vista: dal loro “modo” di articolazione.
In tal caso chiameremo occlusive le consonanti che
comportano la chiusura (ovviamente temporanea) dell’uscita
dell’aria dalla bocca: si tratta di tutti e tre i suoni bilabiali (b,
m, p), dei due suoni dentali (d, t), dell’alveolare “n” e dei
due velari (gh, ch).
Sono denominate invece costrittive (ma anche fricative o
continue) quelle consonanti che prevedono il restringimen-
to del canale dell’aria: ci riferiamo alle due labiodentali “f” e
“v”, alle alveolari “s” e “s”, alle alveopalatali “r”, “n” e “l”,
nonché alla “sc(i)” e alla palatale “gl(i)”.
Registreremo infine come affricate quattro consonanti,
un po’ a metà (una sorta di fusione) tra occlusive e fricative:
le alveodentali “z” e “z”, e le alveopalatali “c(i)” e “g(i)”.
Un ultimo modo di appellare le consonanti è legato, in-
fine, alla loro nasalità (o “buccalità”) e dolcezza (o asprez-
za). E, tra tutte le consonanti della lingua italiana, solo tre
(m, n, gn) prevedono l’uscita dell’aria (di una larga parte
dell’aria) dal naso anziché dalla bocca.
Tutte le altre consonanti – che per l’appunto vedono
l’aria uscire chiaramente dalla bocca – vengono chiamate
buccali.
Sono invece dolci (tra un po’ chiariremo il perché) le
consonanti “b”, “d”, “gh”, “g(i)”, “gl(i)”, “gn(i), “l”, “m”, “n”,
“r”, “s”, “v”, “z”. E sono infine da considerare aspre le se-
guenti consonanti: “ch”, “c(i)”, “f”, “p”, “s”, “sc(i)”, “t”, “z”.
Diremo quindi – per essere completi e precisissimi –
che la consonante “b” è un suono buccale, bilabiale, occlu-
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40 100 monologhi ben pronunciati

sivo, dolce; che “gn” è nasale, palatale, occlusivo, dolce. E


così via.

Per concludere il nostro paragrafo sulle consonanti, ag-


giungeremo una breve descrizione dei loro meccanismi di
aggregazione. E chiariremo due aspetti: innanzitutto che le
consonanti si legano tra loro con un po’ difficoltà fonoarti-
colatoria (raramente sono tre; eccezionalmente, accorpando
due parole, raggiungono il numero di quattro: “con stru-
menti, gran strapazzo”); e aggiungeremo inoltre che solo al-
cune sono “disponibili” a convivere con altre consonanti,
mentre la maggior parte di esse si lega esclusivamente a vo-
cali. Proprio così: ci sono consonanti filantrope (poche) e
misantrope (molte).
Alla difficoltà di legamento delle consonanti si ricorre ta-
lora con l’ausilio della “prostesi”: l’inserimento di una vocale
che leghi in modo più fluido le parole. Si dice ancora (pri-
ma molto più diffusamente) “per iscritto”, “con istrumenti”,
così come “per escusarsi” “in Ispagna” o “in istoria”, etc. E,
tutto questo, a conferma della mancanza di naturalezza
e della difficoltà – per la lingua italiana – di governare paro-
le con un numero di consonanti tra loro successive troppo
alto.
Per quanto riguarda la divisione tra consonanti “disponi-
bili” e consonanti “ritrose”, possiamo notare che nella prima
categoria ci sono i suoni alveolari (l, n, r) e la semiconso-
nante “s”; nella seconda tutte le altre. È una disponibilità pe-
rò relativa, giacché – a eccezione della “r”, la più libera e
“aperta” tra le consonanti (in realtà, l’abbiamo visto, anche
“r” è una semiconsonante) – la fusione di “l”, “n” e “s” è rea-
lizzata quasi sempre “prima” del suono con cui queste si ac-
compagnano. Se infatti è usuale dire “alba”, “molto”, “tal-
co”…; “anca”, “info”, “tanfo”...; “arco”, “orco”, “porco”…;
“costo”, “pasta”, “pista”… molto più raro è trovare queste
consonanti in differente, invertita posizione: “ablativo”, “ca-
blare”; “acne”, “aracnoide”; “abside”, “psiche”, etc.
Ancora più raro (in molti casi non avviene mai) sarà tro-
vare la “b” seguita dalla “c(h)”, dalla “c(i)”, dalla “f”…, la
“c(h)” che anticipa la “b”, la “c(i)”, la “f”… E così via.
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La pronuncia 41
Approfondiremo in séguito la differenza fra trasmissione
dotta e volgare (legata anche alla difficoltà di fonazione del-
le parole dotte); ma ora qui, in questo paragrafo, vale la pe-
na sottolineare che parole come “abdicare” e “abside”, “ec-
zema” ed “ectoplasma”, “Edgardo” ed “Edvige”, “nafta” e
“oftalmico”, “segmento” e “pigmento”, e così via, abbisogna-
no di un maggiore impegno fonoarticolatorio: la loro pro-
nuncia è infatti oggettivamente più faticosa, atipica e mac-
chinosa. Queste parole (e altre, analoghe) vanno quindi sor-
vegliate per evitare fastidiose semplificazioni e riduzioni.

2.4 I digrammi infedeli

Un posto a parte, nella nostra elencazione, meritano i suoni


doppi. E tra questi i più ostici – perché più incongruenti nel
rapporto scrittura-lettura – sono i gruppi “gl(i)”, “gn(i)”,
“sc(i)” e la consonante “z” (aspra) intervocalica. Se quindi
bisogna riservare molta attenzione alle parole con sillabe ca-
ratterizzate dalla presenza di due o tre consonanti tra loro
consecutive (che richiedono evidentemente maggiore forza
fonatoria), a maggior ragione è necessario sottolineare la
particolarità dei quattro summenzionati digrammi.
Non si tratterà di aprire o chiudere tali suoni (l’abbiamo
visto: questo è possibile solo con “e” e “o” in posizione to-
nica), ma di renderne “intense” (come se fossero doppi) la
pronuncia e l’emissione. Infatti, quando questi quattro suoni
sono preceduti e seguìti da vocali (quando cioè sono inter-
vocalici) essi vanno pronunciati con accentuata intensità
(che indicheremo qui con le lettere maiuscole: moGLie, pa-
GLia; diseGNo, soGNo; eSCi, faSCia; aZione, diZione).
È chiaro che la posizione intervocalica è raggiunta an-
che quando la parola comincia con questi quattro suoni ed
è preceduta da un articolo o da una particella. Se, cioè, dico
“uno-gnomo”, “lo-sciroppo”, “la-zia”, i suoni “gn(i)”, “sc(i)”,
“z”, si ritrovano comunque in posizione intervocalica: e in-
fatti diremo “unoGNomo”, “unoGNocco”, “loSCiroppo”, “le-
SCiabole”, “laZia”, “loZucchero”. (In lingua italiana non esi-
stono parole che iniziano per “gl(i)” – a parte un raro
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42 100 monologhi ben pronunciati

“gliommero”, ossia gomitolo –, e quindi il problema non si


pone.)
Insomma, dicendo semplicemente “sciroppo” (sciroppo)
e aggiungendo poi l’articolo (lo sciroppo), affido una diver-
sa intensità al suono “sc(i)”. E lo stesso vale per “gnomo”
(gnomo; uno gnomo), “zia” (zia; la zia), come del resto av-
viene per le posizioni chiaramente intervocaliche dapprima
presentate (moglie, paglia, disegno, sogno, esci, etc.).
Anche in tal caso, il motivo del raddoppiamento risiede
nella lingua latina e nel suo sviluppo. Gli antesignani di
questi quattro suoni sono infatti “ct” (actione, dictione); “x”
(da leggersi “cs” e poi “c(i)s”: exit, laxat); “ll” (fillium); “ln”
(che diventa poi “gn”: balneum: bagno).
La continua presenza di due suoni (c-t, c(i)-s, l-l, l-n) ha
condizionato nel corso dei secoli le trasformazioni fonetiche
di questi digrammi; e così, nonostante l’esito scritto, abbia-
mo comunque fatto sopravvivere nella pronuncia la doppia
e intensa, antica attestazione: “actione-aczione-aZione”, “la-
xat-lacsat-lac(i)sat-laSCia”, “fillium-figllium-fiGLio”, “bal-
neum-bagneum-baGNo”.
Se, come raccomandano i fonetisti, trascriviamo tali
quattro suoni nel seguente modo (gn: ; gl: ; sc: ; z:ts), po-
tremo dire “ omo”, “ i”, “ iroppo”, “tsio”, ma dovremo poi
pronunciare “lo omo”, “a i”, “lo iroppo” e “lotssio”. In
questi ultimi casi, i quattro suoni sono intervocalici ed esi-
gono quindi la produzione intensa nella nostra fonazione.
Si dice dunque “so o”, “le o”, “fo a”; “mo e”,
“fi o”, “fo a”; “pe i”, “la io”, “co e”; “natssione”, “dits-
sione”.
Per essere completi nell’esposizione di questi quattro
suoni, segnaliamo infine un’annotazione riguardante la “z”
intervocalica, giacché non sempre essa proviene dal latino
“ct” ma talora dal semplice (comunque latino) “t”. È per
questo che fino a due secoli fa si distingueva tra parole co-
me “nationem” (da pronunciare con una “z” non intensa)
dalle altre come “actionem” o “ractionem”, segnalate nei vo-
cabolari in forma doppia e intensa. Nel corso del tempo pe-
rò, per “assonanza”, la pronuncia della “t” si è uniformata a
quella più ricorrente e squillante del vecchio “ct”, esigendo
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La pronuncia 43
quindi la permanente intensità della “z” intervocalica. In
pratica, nonostante scriviamo (sempre con una “z”) “azio-
ne”, “nazione”, “razione”, “organizzazione”, dovremo pro-
nunciare (sempre con due “z”) “azzione”, “nazzione”, “raz-
zione”, “organizzazzione”, “privatizzazzione”.
Alcuni autorevoli fonetisti – richiamandosi ai principi di
assonanza dapprima citati – inseriscono tra questi suoni (da
rendere doppi, intensi) anche la “z” dolce. Dichiarano cioè
la correttezza della pronuncia accentuata di parole come
“azoto”, “Gaza”, “mesozoico”, “azimut”, “schizofrenia”: di-
ventando quindi “azzoto”, “Gazza”, “mesozzoico”, “azzimut”,
“schizzofrenia” (o, peggio, com’è purtroppo ora pronuncia-
to, “schizzofrenia” – con le due “z” aspre). Noi sconsigliamo
questa indicazione. Tali termini appartengono infatti alla tra-
dizione dotta (quasi sempre greca); si tratta di parole “parti-
colari”, eleganti, “nobili”, e l’omologazione al comportamen-
to della “z” aspra intervocalica non può che appiattire e im-
poverire la melodia complessiva della frase in cui la parola
è inserita.
L’unico raddoppiamento auspicabile per le “z” dolci, a
nostro parere, va prodotto laddove questo suono sia iniziale
di parola e preceduta da articoli o particelle nominali:
“unoZZaino”, “loZZero”, “quegliZZigomi”, “laZZona”, etc.
Diremo quindi, correttamente, “Gaza fa parte di una na-
Zione il cui azimuth ha un’aZione ricca di raZionalità. In
questa Zona non c’è schizofrenia ma organizzaZione socia-
le”.

2.5 Suoni dolci e suoni aspri

Più volte abbiamo fatto riferimento a dolcezze o asprezze


dei suoni della nostra lingua, ed è ora giunto il momento di
chiarirne meglio il significato, che ha valenze fonetiche ma
anche espressive e fonosimboliche. (Prima di cominciare, ri-
cordiamo che i suoni dolci possono essere chiamati anche
sonori; mentre quelli aspri sono ugualmente denominati
sordi.)
Partiamo da una delle tante coppie dolce-aspro della lin-
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44 100 monologhi ben pronunciati

gua italiana – “b” e “p” – e proviamo a pronunciare questi


suoni in modo ripetuto: “bbbbb”, “ppppp”. Non dovrebbe
essere difficile notare che i movimenti dell’apparato fonato-
rio sono perfettamente gli stessi: per dire “b”, io avvicino tra
loro le due labbra, e butto fuori il mio respiro (la mia voce);
e così succede anche se dico “p”. (Per un’ulteriore confer-
ma, posso anche guardarmi allo specchio e ripetere parole
come “babbo-babbo-babbo” e “pappo-pappo-pappo”, o an-
che “babà-papà”, “bibì-pipì”: il lavoro di mandibola, mascel-
la, labbra è del tutto analogo.) Anche per altre coppie di
consonanti, i movimenti e gli strumenti fonatori coinvolti
non si discostano: “v” e “f”, “c(i)” e “g(i)”, “ch” e “gh”, “d” e
“t”, “s” e “s”, “z” e “z”.
Quindi in queste coppie, nonostante un identico uso di
lingua, labbra, denti, alveoli, palato, i suoni prodotti sono
del tutto differenti. (I doppiatori conoscono bene tale analo-
gie, e approfittano costantemente di un movimento identico
– com’è il caso della “f” e della “v”, della “p” e della “b”, etc.
– per pronunciare entrambi i suoni.)
È evidente che la ragione di tale distanza risieda al di
fuori dell’apparato fonatorio. Poiché, come già detto, i mo-
vimenti e gli organi interessati sono gli stessi per ogni cop-
pia, chiariremo che la differenza di suono è esclusivamente
legata al coinvolgimento (o non) delle corde vocali. Queste
ultime, una specie di “molla” presente nella nostra laringe
all’altezza del pomo d’Adamo, possono tra di loro avvicinar-
si – restringendo, quasi chiudendo, il condotto della laringe
– oppure, al contrario, possono rimanere in posizione di-
stante e contratta.
Immaginiamo (l’esempio è ancora più pertinente) che
le nostre corde vocali siano due piccole labbra, posiziona-
te dentro il nostro collo: al centro del “tubo” che collega i
polmoni con la bocca. Se io avvicino tra loro queste “lab-
bra” e provo a parlare, il mio fiato e la mia voce saranno in
parte frenati e ostruiti nel loro passaggio. Le corde (le “lab-
bra”), dunque, vibreranno un po’ e poi faranno proseguire
il viaggio dell’aria nella gola, e successivamente fuori dalla
bocca.
Se al contrario io mantengo le mie corde vocali contratte
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La pronuncia 45
e distanti tra di loro, l’aria non incontrerà alcun ostacolo.
L’aria (trasformata in suono) uscirà forte e piena, priva di
freni o vibrazioni. Infatti, se avvicino la mano alla bocca e
dico “p”, sentirò una forte uscita di aria; se invece pronun-
cio “b”, questa percezione sarà molto più attenuata. E anco-
ra: se provo a mettere la mia mano all’altezza del pomo
d’Adamo e pronuncio ad alta voce i suoni dolci (e sonori),
sentirò una interna vibrazione (o un rimbombo); se dico in-
vece con uguale forza i suoni aspri (e sordi) questa perce-
zione di vibrazione e rimbombo non ci sarà. (Per un princi-
pio fisico molto elementare di propagazione, il rimbombo
dei suoni dolci sarà avvertito anche se posiziono le mani a
coprirmi le orecchie o la nuca.)
Accanto ai suoni aspri già elencati (c(i), ch, f, p, s, t, z)
ne va aggiunto un altro: “sc(i)”. Unitamente a quelli dolci
(b, d, g(i), gh, s, v, z) dovremo anche ricordare le conso-
nanti “l”, “m”, “n”, “r”, nonché i suoni “gn(i)” e “gl(i)”.
Come si può notare, il gruppo dei suoni dolci è senz’al-
tro più numeroso di quello aspro. La distanza si fa ancora
più netta (a vantaggio della dolcezza) se consideriamo
quanto anche tutte le vocali (a, è, é, E, i, j…) coinvolgano le
corde vocali e siano da ritenersi a tutti gli effetti “dolci”.
Questa superiorità ha una diretta conseguenza nella no-
stra fonazione e può portare (talora) a fastidiose alterazioni
di pronuncia. Proviamo ad analizzarla. Se io pronuncio la
frase “ho un’idea buona, bella e regolare; e domani ne vor-
rei dialogare a lungo nel bar di Mario”, controllando il pre-
cedente elenco aspro-dolce, noto che tutti i suoni qui com-
presi sono dolci. In pratica, mentre pronuncio questa frase,
dopo aver preso fiato, avvicino tra di loro le corde vocali e
– mantenendole nella stessa posizione – parlo e dico per in-
tero le parole sopra riportate. La mia fonazione ne risulta al-
leviata: diciamo che è più comoda.
Se invece dico “la mia idea è un buon regolamento”,
succede che – in un unico punto, coincidente in questo ca-
so con la pronuncia del suono aspro “t” – le corde vocali
dovranno tra di loro distanziarsi. La frase è infatti sempre
dolce; interrompe la sua sonorità con la “t” per poi ripren-
derla con la “o” finale di “regolamento”. La tentazione – un
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po’ pigra e indolente – sarà quella di sostituire la aspra “t”


con la consonante gemella (per quanto riguarda i movimen-
ti fonatori) ma addolcita: trasformando quindi “regolamento”
in “regolamendo”. Le mie corde vocali eviteranno il movi-
mento di contrazione-rilassamento e, di conseguenza, si
stancheranno un po’ di meno.
È quindi foneticamente più semplice (ma è ovviamente
sbagliato e stonato) dire “regolamendo”, così come “riembi-
re”, “neanghe”, “non gi penso”, e così via.
Questo tipo di errore – è bene ribadirlo, a fronte di alcu-
ne tendenziose ricostruzioni – è diffuso in tutta la nazione.
Se in alcune zone (sud delle Marche, Lazio, Umbria, Abruz-
zo e l’intero meridione d’Italia) è il frutto di certe influenze
prelatine (per esempio legate alla lingua osca), in realtà an-
che al Nord e al Centro Italia questa addolcente tensione è
radicata e manifesta: dettata dal movimento delle corde vo-
cali e dalla loro posizione più comoda e ricorrente.
E non è un caso che, anche in lingue regionali conside-
rate “dotte” o tra i professionisti della parola, si possa senti-
re pronunciare “menzogna”, “nazista”, “Monza” (anziché,
com’è corretto, “menzogna”, “nazista”, “Monza”). È oggetti-
vamente più comodo dire “danza” o “Enzo”, al posto dei
corretti “danza, Enzo”.
La percezione (anche inconsapevole) di questo errore
conduce talora a forme di “ipercorrettismo”: una specie di
“senso di colpa” che porta a invertire parole come “quando”
e “quanto”, a pronunciare “unchia”, “pentente”, “canciante”
(e molti altri termini), al posto dei normali “unghia”, “pen-
dente”, “cangiante”, e così via.
Vale la pena sottolineare, in relazione a tale forzato ad-
dolcimento, che la sostituzione di un suono aspro con il suo
gemello dolce (tutti questi esempi lo confermano) è molto
più frequente quando la consonante aspra è nasale: prece-
duta quindi dal suono “n” e dalla “m”.
È altresì evidente che la possibilità di errore (la tentazio-
ne di ricorrere alla variante dolce) è un po’ inferiore nei
suoni iniziali di parola. Infatti, nell’“attacco” di una frase o
di un termine disponiamo naturalmente di una maggiore
potenza di fiato, e questa si concilia meglio con la forza
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La pronuncia 47
espiratoria tipica del suono aspro. E se in Italia il verbo “ca-
care” (che viene dalla ripetizione infantile “ca-ca”) è spesso
pronunciato anche “cagare”, è pressoché impossibile sentir-
lo alterato invertendo la prima sillaba in “gacare” (E così ca-
piterà di sentire qualcuno che, sbagliando, dica “Giangarlo”,
ma non “Ciancarlo”, “pardire” e mai “bartire”, “calzoni” e
mai “galzoni”, e così via.)

2.6 Il fonosimbolismo

La differenza tra suoni dolci e suoni aspri è – l’abbiamo an-


ticipato in premessa – anche fonosimbolica: e, tendenzial-
mente, le parole più rozze e volgari sono quelle più dense
di suoni aspri. Questi permettono una sorta di psicologica,
fonatoria “liberazione”: esigono maggiore forza espiratoria,
stridono da un punto di vista acustico, sono collegati a sen-
sazioni più fastidiose e dure. È evidente che parliamo di
grandi numeri (parole come “affetto”, “piatto”, “concetto”,
“cioccolato” dovrebbero risultare sgradevoli, e non lo sono);
ma siamo convinti che – nella maggior parte dei casi – in-
sulti, ingiurie, improperi siano proprio caratterizzati dalla ri-
correnza dei suoni “ch”, “cch”, “cci”, “zz”, “ss”, “ff”, “pp”…
E così abbiamo parole come “sputo”, “assassino”, “scas-
sato”, “puzza”, “feccia”, “tozzo”, “scocciato” e locuzioni co-
me “statti zitto!”, o peggio, “fatti fottere!”, “sparisci!”, “ti spac-
co la faccia!”, “testa di cazzo!”. Parlare di “cosce” anziché di
“gambe”, “faccia” in luogo di “viso”, “bonazze” invece che
“donne belle”, o semplicemente dire “feccia!” al posto di
“merda!”, evidenzia – nel primo termine – una tensione più
volgare, o semplicemente “materiale” e concreta.
Se esiste una generale distanza tra suoni dolci e aspri –
e i primi sono generalmente più eleganti dei secondi –, è
possibile registrare una interna gerarchia nei due schiera-
menti: legata alla qualità dei singoli suoni, ma anche al frut-
to delle loro aggregazioni. Ribadiamo: quello che stiamo ar-
gomentando è un discorso tendenziale e complessivo; non
tiene conto di casi specifici; è legato a questioni soggettive
come il gusto, la sensazione e la percezione, talora difficili
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da codificare ed elencare. E, infine, è evidente che un ruolo


importante è giocato anche dalla diversificazione del suono:
anche il più bello di tutti, se fosse sempre presente, finireb-
be col diventare comunque fastidioso e monotono.
Ciononostante, consapevoli di queste parzialità – e sfrut-
tando le ricorrenze nelle onomatopee e nei testi poetici –, ci
sembra opportuno e utile proporre una breve elencazione
che parta dai suoni più rozzi e ci conduca a quelli più ele-
ganti e alti della nostra lingua e per la nostra cultura.
E quindi, accanto alla prima generale categoria dei suoni
aspri, ne aggiungiamo un’altra, legata ai suoni doppi. L’elen-
co comprende per definizione (è bene ripeterlo) anche i di-
grammi intervocalici “gl(i)”, “gn(i)”, “sc(i)”, “z”; è altresì op-
portuno ricordare che tutte le consonanti della lingua italia-
na possono essere raddoppiate, a eccezione della “s” dolce
(tranne che in fonosintassi: “chessbaglio!”, “tressbirri”, etc.).
Riprenderemo questo tema anche in séguito, parlando
della pronuncia settentrionale (e della sua fortuna). Ma ora,
qui, dichiariamo come, nella maggior parte dei casi, un suo-
no doppio – specie se aspro – sia percepito come più vol-
gare e “basso”: come se il vigore fisico nel pronunciarlo sia
testimonianza di una materialità e concretezza che il suono
singolo – più delicato e tenue – non manifesta. (Ed è infatti
indubbio che uno degli epiteti volgari più ripetuti – “vaffan-
culo!” – diventi meno irritante, quasi scherzoso, se le due
aspre “f” si dimezzano, e se il duro “ch” si addolcisce nel
più morbido “gh”: “vafangulo”.)
È sufficiente al riguardo notare la leggerezza e l’elegan-
za di termini come “filiale” o “familiare”, a dispetto della va-
riante “famigliare” e di un composto di “figlio” come “figlia-
re”. E, per rimanere all’opposizione intenso-singolo del suo-
no “gl(i)”, pensiamo all’alterazione popolare (e volgarizzan-
te) di “migliardo” e di “miglione” al posto dei corretti e più
eleganti (ovviamente con una sola “l”) “miliardo” e “milio-
ne”.
Abbiamo parlato delle onomatopee, ed è quindi il caso
di evidenziare un altro gruppo di parole “stonate”, legate ad
aggregazioni sonore più ricorrenti in situazioni di “aggres-
sione” (sgrunt), di disgusto (sblu), di sarcasmo (bla-bla), di
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La pronuncia 49
evocazioni elementari (gnam-gnam, gnum-gnum, slam), di
ripetizione di suoni animali (bru, gra-gri), etc.
Ne faranno le spese parole come “cetriolo”, “cruento”,
“grugno”, “grattare”, “grumo”, “gnomone”, “sgravare”,
“sbronzo”, “sbruffone”, “screanzato”, “strutto”, “trullo”.
Un ultimo gruppo di parole, di cui è più facile cogliere
un uso più basso e ordinario, è – tendenzialmente – forma-
to da termini che vedono la ripetizione e la ricorrenza della
medesima vocale o sillaba. Ed è per questo che parole co-
me “lasagna”, “patata”, “castagna”, “cucùlo” oppure “chiac-
chiera”, “cocchio”, “mummia”, “pappagallo”, sono per lo più
vituperate e sgradite dalla lingua nazionale: e non è un caso
che, ad esempio, la parola “cocomero” sia più piacevolmen-
te sostituita con (la meno corretta, ma percepita come meno
goffa) “anguria”.
Tra le vocali, sono generalmente considerate più elegan-
ti quelle aperte, soprattutto “è” ed “ò”. E infatti, in ragione
di questa tendenza, nelle letture cattoliche in latino, i vertici
ecclesiastici sollecitano i prelati ad accentare in forma aperta
le vocali “e” e “o” toniche incontrate, così come non è irrile-
vante il fatto che, a partire dall’Umanesimo, quando i nostri
intellettuali si sono imbattuti in parole dotte straniere (so-
prattutto greche o arabe) con la “e” o la “o” tonica, abbiano
preferito attestarle con la pronuncia aperta.
E così anche noi, inconsapevoli odierni continuatori di
questa consuetudine, se prendiamo parole come “yogurt”,
“yoga”, “sport”, oppure come “sexy”, “jolly”, “stress”, “caffè”,
“dessert”, “matrioska” (di origine varia: turca, indiana, ingle-
se, francese, russa), ci siamo abituati a pronunciarle in for-
ma aperta: quasi una sorta di “cortese ospitalità” fonetica ri-
servata a termini stranieri, di cui spesso ignoriamo la pro-
nuncia adoperata nel loro paese di origine. (Anche le sigle, i
nomi inventati, gli acronimi hanno goduto di questo diritto
di elegante apertura fonetica: “l’ònu”, “il còni”, “l’unèsco”; le
lettere sono “èffe”, “èlle”, “èmme”, “ènne”; le note musicali
sono “dò”, “rè”, “sòl”.)
Un evidente esempio – tutto italiano – di questa diffe-
renza tra l’eleganza delle “e” e “o” aperte e la ordinarietà di
quelle chiuse (nonché di quella già nota tra consonanti dol-
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ci e aspre) è data dai suffissi “óso” e “òsi”: il primo generi-


camente aggettivale e il secondo più specificamente sostan-
tivale e medico-scientifico. Difatti, a fronte di una iniziale
comunanza latina, a partire dall’Umanesimo e dalla sua ri-
scoperta di vocaboli classici, il vecchio suffisso “osus” si è
sdoppiato, generando una variante più nobile e raffinata.
Avremo quindi “óso” – con la “s” aspra – per parole norma-
li, “quotidiane” (famóso, studióso, meraviglióso, noióso) e
“òsi” – con la “s” dolce – per termini medici come “trombò-
si” (da trombo, arteria), “lordòsi” (dal greco “lordo”, cioè
curvo), “nevròsi” (da nervo). In corretto italiano, per le ra-
gioni esposte, bisognerà quindi dire “ho una noiósa nevrò-
si”, “una fastidiósa osteoporòsi”.
Un analogo insegnamento (identico iter: un unico inizia-
le suffisso latino, uno sdoppiamento avvenuto nel Medioe-
vo) è legato alle particelle “óio” e “òrio”, entrambe utili per
la formazione di sostantivi legati a luoghi e oggetti. Diciamo
“accappatóio”, “innaffiatóio”, “corridóio”, “mattatóio”, ma
dobbiamo pronunciare “oratòrio”, “refettòrio”, “vittòria”,
“baldòria”. E d’altro canto se, parlando di un luogo decisa-
mente volgare, lo definissimo “pisciatòrio” (e non “pisciató-
io”, come più usuale), altereremmo senz’altro la percezione
fonosimbolica di quel posto: rendendolo inevitabilmente
più nobile ed elegante.
Altri esempi utili alla conferma della tendenziale elegan-
za di “e” e “o” aperti ci vengono da termini omografi (che
scriviamo nello stesso modo) o assonanti. Ci riferiamo a
“fòro” (il tribunale) e “fóro” (buco), “rèni” (le ghiandole) e
“réni” (la zona lombare), e anche “il frèno” e “io fréno”, “il
crèdo” e “io crédo”, “l’arèna” e “la réna”, “Giòve” e “gióvo”,
etc.
Se “aperto” è quindi generalmente più gentile (e “chiu-
so” è percepito come più cupo), vale la pena ripetere quan-
to prima segnalavamo a proposito del rischio di monotonia
vocalica: di quanto cioè ogni valutazione debba tenere con-
to del “contesto” dei suoni, della loro alternanza e diversifi-
cazione.
Non è un caso quindi che la pronuncia italo-siciliana o
italo-calabrese e italo-salentina e, in parte, italo-piemontese
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La pronuncia 51
(che apre in maniera costante e ricorrente le “e” e “o” toni-
che: “la vèrde tèla dèl dolòre, nèl piacère dèl mòlto amò-
re”), faccia prevalere, eventualmente, un senso di monoto-
nia e non di gentilezza ed eleganza fonetica.
Una sorta di “schizofrenia” appartiene invece alla vocale
“u”: la quale – cupa e chiusa per definizione – si lega tanto
a parole nobili ed eleganti, quanto, al contrario, a termini e
locuzioni di opposta natura.
Da un punto di vista strettamente fonetico, la “u” è infat-
ti il suono vocalico più antico e ancorato alla vecchia dizio-
ne latina: una pronuncia che ha resistito e che non è stata
scalfita da “masticazioni” e “maccheronismi”. Ne percepiamo
la sonora nobiltà in parole come “autunno”, “augusteo”,
“puro”, “lutto”, “culto”, così come nel suo inserimento – così
tanto raro e particolare – nella formazione di alcuni aggettivi
in “óso”: “luttuóso” (e non “luttóso”), “sinuóso”, “sontuóso”,
“delittuóso”.
Al contrario, la troviamo – con evidente negativa perce-
zione – in termini più rozzi e popolari, come “buco”, “rut-
to”, “muco”. In alcuni di questi (mulo, ululato, mugugno,
grugno, etc.) è evidente la sua funzione onomatopeica, lad-
dove il suono “u” è proposto soprattutto nella sua variante
più primitiva e animale (vedi parole come “mucca”, “muto”,
“gufo”…).
Per quanto riguarda le due ultime vocali toniche della
lingua italiana – “a” e “i” –, c’è da segnalare la forte conno-
tazione squillante del suono “i” (il più acuto e “alto” da un
punto di vista acustico) e la solidità e ricorrenza della “a”.
Questa è l’unica vocale, come abbiamo visto, che ha som-
mato le vecchie lunghezze e brevità delle “a” latine (mentre
le vocali “e”, “i”, “o”, “u” brevi si sono modificate, la “a” bre-
ve è rimasta per l’appunto sempre “a”).
L’altezza fonica della “i” (il poterla percepire più netta-
mente e distintamente) le ha permesso di guadagnarsi l’im-
portante funzione di discriminare il singolare maschile dal
plurale, un compito che la “e” (per quanto riguarda il genere
femminile) non riesce sufficientemente a garantire. È la vo-
cale del “sì” (distante ovviamente dal più – acusticamente –
basso “no”) e di molte lallazioni e parole infantili: la sua al-
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tezza acustica la rende sempre più facilmente riconoscibile.


La “a” è invece considerata un suono caratterizzato da
una forte semplicità fonosimbolica: un suono elementare,
chiaro, regolare. È, come già detto, la vocale più ricorrente
nel vocabolario italiano. Quando la sua ripetitività è interna
allo stesso termine (patata, calamaro, cravatta) la “a” produ-
ce una percezione acustica talora più modesta e banale.
Possiamo forse dire che la sua estrema disponibilità e fre-
quenza ne attenua ogni senso di sorpresa o ricercatezza.

2.7 I raddoppiamenti fonosintattici

Se dico “guardo tutto” e “guardò tutto” – non specificando il


soggetto ma sottintendendolo – riesco a farmi comprendere
con esattezza dal mio ascoltatore a patto di inserire nella
mia frase un raddoppiamento fonosintattico: l’accentuazione
della consonante che segue la vocale tronca della frase. In
questo caso, solo pronunciando “guardòTTutto” si riesce a
comprendere il senso vero della comunicazione; in assenza
di questa accentuazione le due frasi iniziali si confondono
tra di loro. La vocale accentata in finale di parola ha pertan-
to una vitale necessità, se seguita da consonante, di vedere
raddoppiata quest’ultima: pena la sua scomparsa nella inde-
finitezza della frase.
Giacché relative soprattutto all’accento in finale di paro-
la, il caso più inconfutabile di ricorso al raddoppiamento fo-
nosintattico è quello legato alle parole tronche, cioè accen-
tate in finale di parola: “caffè”, “città”, “libertà”, “né… né”,
“trentatré”, etc. (caffèDDoppio, cittàVVecchia, libertàCConte-
sa, néDDomani néMMai, trentatréTTrentini, etc.).
Questa intensità accentuativa – fondamentale per tutte le
parole accentate graficamente – vale, evidentemente, anche
per quelle monosillabiche, come “sì”, “giù”, “già”, “più”, “là”,
“lì” e molte altre. Raddoppieremo quindi le consonanti in
frasi come “sìCCaro”, “sìTTesoro”, “giùTTutti”, “giàFFatto”,
“piùRRicco”, etc., ma, seguendo lo stesso principio, anche
con alcuni monosillabi su cui però, per convenzione, non
adoperiamo e scriviamo l’accento tonico.
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La pronuncia 53
Per quanto riguarda questo ultimo gruppo di parole, bi-
sogna necessariamente affidarsi alla dimensione acustica, di-
stinguendo monosillabi deboli da monosillabi forti. I quali,
in sostanza, pur non richiedendo (per abitudine ortografica)
la presenza di alcun segno scritto, sono ugualmente “pesan-
ti” (e addirittura in molti casi abbiamo la tentazione di scri-
verne l’accento).
Facciamo due esempi e riflettiamo sulla intensità della
vocale “e” in locuzioni e frasi come “me ne vado!” e “me po-
vero!”, e ancora “la cosa che desidero…” e “che voglio?”.
Confrontando i due diversi tipi di “me” nel primo esempio,
noteremo – lo speriamo – una forte differenza di accenta-
zione – di “peso intonativo” – tra i due: il primo “me” (in
“me ne vado”) sembrerà smorzato e quasi atono; al contra-
rio, nel secondo avvertiremo – ci si augura – un grado più
sostenuto di intensità: come se in “me povero” ci fosse un
vero e proprio accento sulla “e” (mePPovero).
Allo stesso modo, per il successivo esempio, dovremmo
cogliere una differenza accentuativa tra le due frasi. Se,
cioè, non avvertiremo (non dovremmo avvertire) nessun bi-
sogno di calcare la consonante iniziale di “desidero” (la co-
sa che desidero…), al contrario sentiremo (dovremmo senti-
re) l’urgenza di insistere sulla “v” di “che voglio?” (cheVVo-
glio?).
È la stessa differenza che incontriamo tra l’articolo deter-
minativo “la” e il pronome “li”, e gli avverbi di luogo “là” o
“lì”. Anche in questo caso, le vocali del secondo gruppo pe-
sano maggiormente e sono più intense (e, in tale occorren-
za, l’ortografia si preoccupa di accentarle). E, così come di-
remo “làSSotto” e “lìSSopra” (ma non “laVVoglio” e “liCCer-
co”), allo stesso modo, nell’espressione “me povero” andrà
previsto il raddoppiamento della lettera “p”, com’è richiesto
dalla fonosintassi: “mePPovero”, e non “meNNevado!”
In Italia, soprattutto nelle regioni settentrionali, questa
differenza (e questa percezione o bisogno) di accentazione
non è avvertita. In altri territori si riscontra una inversione di
raddoppiamenti (la “r” e la “d” siciliana), o anche una omo-
logazione fonosintattica (è il caso del Centro Italia che non
distingue i due precedenti tipi di “che”), etc. Vale la pena,
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quindi, apprenderne regolamentazioni e funzioni. E, al di là


del maggiore rispetto verso la dizione italiana, ne gioverà
anche il ritmo e la vivacità delle frasi pronunciate. Come se
“una marcia in più” e un “ordine ritmico interno” fossero
entrati nel governo della fonazione.
Le parole tronche accentate graficamente, sia monosilla-
biche sia polisillabiche – è inutile ribadirlo – non ammetto-
no deroghe o problematizzazioni. E ci impegneremo dun-
que – sempre, in ogni caso – a raddoppiare la consonante
che segue.
Invece, i monosillabi che – pur in assenza di accento
grafico – vanno considerati intensi e meritano il raddoppio
della consonante successiva sono per noi i seguenti: “a”
(aCCasa, aQQuesto, aRRoma), “che” pronome e aggettivo
interrogativo o esclamativo (cheCCosa, cheDDiavolo, cheV-
Vuoi), “chi” (chiMManca, chiPParla, chiGGuarda), “e” (lui
eLLei, Gianni ePPinotto, Napoli eVVenezia), “fa” (faCCaldo,
faFFreddo, faNNotte), “fra’” (contrazione di “frate”: “fraM-
Martino”, “fraGGirolamo”); “ha” (haFFrainteso, haGGiocato,
haMMentito), “ho” (hoFFame, hoSSonno, hoCCapito), “me”
pronome (meTTapino, meFFelice, meFFerito), “no” (noB-
Bello, noCCaro, noGGrazie), “o” (oDDestra oSSinistra, oM-
Mangio oBBevo, oVVino oBBirra), “po’ (è un po’Bbuffo,
po’Ppoco, po’TTanto), “qua, qui” (quaDDentro, quaFFuori;
quiSSotto, quiVVicino), “re” (reCCarlo, reGGiovanni, reM-
Magi), “sa, so” (saMMolto, saPPoco; soTTanto, soTTutto),
“su” (suQQuesto, suMMonti, suVValli), “tre” (treCCorsa-
ri, treFFurfanti, treCCivette), “te, tu” (teBBalordo, teTTestar-
do; tuPPure, tuSSilenzioso), “va” (vaFForte, vaPPiano, vaV-
Veloce).
Sono ugualmente da raddoppiare le consonanti successi-
ve alle note musicali, alle lettere dell’alfabeto e, di conse-
guenza, alle sigle formate da lettere. Diremo quindi “reBBe-
molle, siSSettima, doDDiesis”; “biQQuadro, ciSSei, diNNo-
ve”; “biBBì, piPPii, ciTTiesse”, il “ciTTì” della squadra di
calcio.
Una risposta foneticamente corretta a una domanda rela-
tiva al nostro pranzo potrebbe suonare pressappoco così:
“cheCCosa hoFFatto? hoPPranzato aCCasa di Mario, suT-
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La pronuncia 55
TrePPiani, ed èSStato gustoso: cosìBBello che chiDDomani
lo rifarà, mangeràPPiùDDi me eTTe messi assieme”.
I raddoppiamenti fonosintattici trovano origine – e ra-
gione – nella caduta (avvenuta nel latino tardo) della conso-
nante finale delle parole. “Est” si trasformò nella forma ver-
bale “è” (Paulus est romanus: Paolo e(st) romano, Paolo èR-
Romano), “ad” in “a” (vago ad Roma, vago a(d) Roma, vago
aRRoma) , “et” in “e” (Paulus et Petrus, Paolo e(t) Pietro,
Paolo ePPietro), “quid” in “chi”, e così via. Questi suoni “ca-
duti” (un po’ fantasmi di una pronuncia negata) hanno ne-
cessariamente lasciato una traccia: le attuali parole “tronche”
godono (come orfane orgogliose) di un particolare diritto di
accentuazione, in assenza del quale esse si mimetizzerebbe-
ro e perderebbero nella fluenza della catena verbale, dive-
nendo ambigue sillabe aggregate alle parole.
Tali consonanti finali di parole, ormai scomparse e cen-
surate sul terreno della scrittura, reclamano in qualche mo-
do una loro necessità verbale e una loro funzione. E, con il
raddoppiamento della consonante della parola successiva,
sembrano ricordarci la loro vecchia, consolidata presenza.
Proprio in virtù di questa radice latina (e della caduta
delle consonanti in finale di parola), dobbiamo preoccupar-
ci di considerare anche “qualche” e “ogni” alla stregua di
parole tronche. La prima proviene infatti da “quale che
(sia)”, mentre la seconda è erede della latina “omnes”, ed
entrambe esigono il trattamento fonosintattico. Diremo
quindi “qualcheCCosa”, “in qualcheMModo”, “qualcheVVol-
ta”; “ogniSSanti”, “ogniTTanto”, “ogniVVolta”.
Per ragioni puramente espressive, tendiamo invece a
raddoppiare la consonante iniziale della madre di Gesù
(aveMMaria) e quella di Dio (mioDDio). (Anche se, in que-
st’ultimo caso, gioca il vecchio plurale di Dei: “gli Iddei”, da
cui “Iddio” e – l’altrimenti inspiegabile – “gli Dei”.)
Discutibile è la raccomandazione di alcuni manuali che
assimilano al comportamento fonosintattico anche la prepo-
sizione “da” (che ha radici esclusivamente toscane: “vengo
daFFirenze”). Tale raddoppiamento non è giustificabile da
un punto di vista etimologico (non vi è alcuna caduta di
consonante finale latina) e in alcuni casi determina ambigui-
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56 100 monologhi ben pronunciati

tà e sovrapposizioni con il “dà” imperativo o terza persona


singolare presente del verbo “dare”.
Ugualmente discrezionale (da noi non condivisa) è la
raccomandazione di raddoppiare le parole successive a “co-
me”, “dove”, “sopra”, “tra”, “fra”. Anche in questi casi, non
si spiegano con la ricostruzione latina e (è il caso della pre-
posizione “fra” e dell’avverbio “sopra”) con l’esigenza di ri-
durre il numero di ambiguità e sovrapposizioni della nostra
lingua (e infatti, il “fra” di “fra Michele e Maria” va inteso co-
me una contrazione di “frate” o come la preposizione sem-
plice “fra”?).

2.8 La trasmissione delle parole dotte

Abbiamo già parlato delle caratteristiche frequenti, non as-


solute di una parola dotta (il suo essere più ostica e meno
“masticata”: talora sdrucciola, o con consonanti tra loro
poco fluide, o con molte vocali), e vale la pena ora chiari-
re un po’ di più i tempi e i modi della sua emersione e atte-
stazione.
Il periodo a cui bisogna rifarsi è necessariamente quello
conclusivo del Medioevo (dal XII al XIV secolo): legato alla
coscienza della necessità di una lingua compiutamente ita-
liana, alla nascita delle università, alla comparsa di una clas-
se intellettuale nazionalmente estesa. E possiamo affermare
che, dopo i secoli bui precedenti, comincia a manifestarsi
un’attenzione profonda verso la lingua classica, lo studio dei
documenti antichi, la nostra “genealogia” linguistica e cultu-
rale. È un po’ come se all’improvviso si decidesse di andare
nelle cantine più impolverate riportando alla luce pergame-
ne, papiri, libri. In essi – come in una fotografia ormai sbia-
dita dal tempo – potremmo vedere i nostri antenati più re-
moti, con i loro tratti più belli e vivi. Dopo aver mandato
via la polvere, i documenti ci mostrerebbero molte parole
nel loro stadio iniziale: prima di essere modificate, nel corso
dei secoli, dal quotidiano esercizio del parlare.
Lo abbiamo visto più volte: un lavoro che noi uomini
conduciamo in modo lento e ripetuto è quello di semplifica-
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La pronuncia 57
re e omologare ciò che maneggiamo. E così anche le parole
– nel corso del millennio che intercorre tra il periodo “clas-
sico” (l’età imperiale latina) e il Basso Medioevo – sono sta-
te accorciate, elementarizzate, ammorbidite, semplificate.
All’improvviso, questi testi ci mostrano invece la compo-
sizione di alcune parole prima dell’intervento trasformativo
operato dal tempo. In tali documenti, per esempio, trovia-
mo la parola “duplice” che tutti ormai dicono “doppio”;
“lauro” che invece viene pronunciato “alloro”; “clarare”, che
ormai la gente pronuncia “chiarire”, e così via. Le pergame-
ne riportano “amplio”, “vigilia”, “tegola”, “nitido”, “questua”,
che le bocche e le lingue degli uomini hanno semplificato
in “ampio”, “veglia”, “teglia”, “netto”, “richiesta”, etc.
Di fronte a queste novità, gli intellettuali del Trecento e
quelli successivi (gli umanisti) agiscono nel modo più pro-
duttivo: valorizzano i nuovi innesti, con un aumento fruttuo-
so e prorompente del nostro lessico. Ci siamo ritrovati così,
più o meno velocemente, di fronte a una doppia possibilità
di nominare le cose, di segnare gli oggetti, le idee, i senti-
menti. In realtà, poiché nessun termine è perfettamente so-
stituibile con un altro, questa doppia possibilità ha determi-
nato un allargamento semantico: “duplice” e “doppio” signi-
ficano grosso modo la stessa cosa, ma ognuno offre una
sfumatura e un colore al concetto in una forma leggermente
diversa. E così il “conto” di qualcosa è diverso dal suo
“computo”, la “forma” dalla sua “formula”, “lavorare” da
“elaborare”, “allevare” da “alleviare”, “esplicare” da “spiega-
re”, “clausura” da “chiusura”.
Molte parole “ritrovate” erano facilmente ricollegabili al-
le loro forme più antiche e classiche; altre invece sembrava-
no del tutto nuove: il tempo non le aveva modificate ma
semplicemente cancellate. E queste nuove – “vecchie” – pa-
role ora tornavano col carico della loro antica fonetica: più
aulica, complicata, atipica. E tale riconoscibilità risiedeva
proprio nella loro particolare condotta vocalica: fatta di suo-
ni che il tempo non aveva smussato e semplificato.
Le caratteristiche distintive di tale “identità”, cólta e no-
bile, erano spesso le seguenti: a) il numero alto di vocali; b)
la vicinanza di consonanti foneticamente ostili; c) la pronun-
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58 100 monologhi ben pronunciati

cia sdrucciola. E, quindi, se una parola conteneva una o più


di una di tali caratteristiche, essa probabilmente non era sta-
ta usata nel millennio antecedente il Basso Medioevo, ma
era stata ripresa e “ribattezzata”, proprio in quei decenni,
dalla nuova classe intellettuale.
Parole come “laurea”, “nausea”, “caustico”, “aereo”,
“gaudio”, “claudicante”, “aurea”, rispondevano appieno alla
prima caratteristica: tante vocali una accanto all’altra allinea-
te. E, infatti, se qualcuno parlasse di un oggetto “aureo” – e
non dorato –, oppure ci dicesse di essere nato nel mese
“augusteo” – e non “di agosto” –, conferirebbe un tono sicu-
ramente più dotto (in questo ultimo caso, forse troppo) alla
sua conversazione.
Per quanto riguarda quegli accorpamenti di consonanti
complicate da pronunciare – secondo segno distintivo di
questa nuova e cólta identità lessicale – è evidente che se
pronuncio parole come “abside”, “acme”, “tecnica” lascio
emergere una terminologia più complessa e ricercata, di-
stante dalla quotidiana “masticabilità” collettiva.
Alcune consonanti (per esempio la “r”) hanno mostrato
una totale disponibilità nel legarsi ad altri suoni consonanti-
ci; altre (la “l” e la “n”) si sono rese solo in parte flessibili,
mentre tutte le rimanenti hanno lasciato emergere una netta
ritrosia a condividere legami fonetici. E infatti parole come
“abdicare”, “abnorme”, “ectoplasma”, “capzioso”, “eczema”,
“mnemonico”, “obsoleto”, “optare”, “psicologico”, “pneuma-
tico”, e molte ancora, manifestano chiara questa particolari-
tà, fonetica e lessicale.
Anche le parole sdrucciole, quando hanno potuto, si so-
no normalizzate nella pronuncia piana, sicuramente più
semplice da padroneggiare e pronunciare. Così abbiamo la
trasformazione di “duplice”, “nitido”, “lauro”, in “doppio”,
“netto”, “alloro”; così come ci viene il sospetto (o l’intuizio-
ne) di una qualche “nobiltà” in termini – tutti rigorosamente
sdruccioli – come “àmbito”, “calcolo”, “logica”, “panfilo”,
“pensile”, “prensile”, etc.
Le parole dotte – nei casi che abbiamo evidenziato – ab-
bisognano di maggiore puntualità fonoarticolatoria. Essendo
per definizione (molto spesso) più macchinose da pronun-
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La pronuncia 59
ciare, ci possono portare a “mangiamenti sillabici”, semplifi-
cazioni fonetiche, dimezzamenti vocalici. Esse vanno proba-
bilmente pronunciate con maggiore impegno articolatorio
(come se stessimo dicendo una parola “tra virgolette”), ma
vanno soprattutto seguìte – nella maggior parte dei casi –
nella loro concatenazione sillabica. In assenza di queste at-
tenzioni, parole come “tecnica” o “geometria” si semplifiche-
ranno in “tennica” (o, peggio, “tenica”) e “giometria”. “Ae-
reo” diventerà “ereo” o “erio”, “ectoplasma” e “obsoleto” si
banalizzeranno in improbabili e preoccupanti (o “proccu-
panti”) “ettoplasma” e “ossoleto”.
Se la qualità dell’accento (aperto o chiuso) delle parole
dotte è stata in molti casi ricostruita dalle fonti e dai vecchi
accenti latini (la “u” breve e la “o” lunga che si attestano in
“o” chiusa, la “o” breve che diventa “o” aperta, etc.), in altri
casi questo riferimento era del tutto assente. Non sempre,
infatti, dalle vecchie, logorate pergamene era possibile rica-
vare segni di quantità e di accenti: le parole e le frasi (poe-
sie, saggi, epigrafi) corrose e appena leggibili non fornivano
una precisa indicazione accentuativa. E quindi, in assenza di
tali segni grafici – di lunghezza o brevità delle vocali –, co-
me bisognava comportarsi?
È in questo periodo che si comincia a suggellare l’aper-
tura delle “e” e delle “o” in relazione alla nobiltà del termi-
ne. E nella maggior parte dei casi di fronte a questo tipo di
parole, nel dubbio, si preferiva adottare e suggerire la pro-
nuncia aperta del dotto vocabolo. È così che abbiamo ac-
centazioni come “dittòngo”, “còmputo”, “còmplice”, “còn-
scio”, “cònsole”, “fòrmula”, “arèna”, “Elisabètta”, “Agnèse”.
Allo stesso modo, sempre in questi decenni, la pronun-
cia delle “s” e delle “z” si addolcisce laddove il termine è
consuetudine di un linguaggio colto: perché religioso (para-
diso, cresima, battesimo, chiesa, Gesù), oppure letterario
(musica, poesia, prosa, rosa, teoresi) o altrimenti scientifico
(fisica, filosofia, nevrosi, cifosi). I nomi di persona – sempre
– cominciano a fregiarsi di questo addolcimento: per esem-
pio Cesare, Giuseppe, Teresa, Tommaso.
L’antica pronuncia latina della “s” intervocalica, sempre
aspra (riprenderemo ancora questo argomento), si arricchi-
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60 100 monologhi ben pronunciati

sce di una nuova spinta. E i vocaboli più eleganti e dotti si


emancipano con una sonorità che, sin dalla pronuncia, ne
lascerà comprendere eleganza e particolarità. Parole usuali,
quotidiane mantengono la propria “s” intervocalica aspra
(casa, cosa, naso, peso); le altre si addolciscono, nobilitan-
dosi. È per tali ragioni che è molto più corretto dire “un ani-
male a caso, per esempio un asino, anche se rosa, o meravi-
glioso, non può aspirare a un battesimo o a una cresima; e
questa usanza sarà presa in ogni casa”.

3. L’INTONAZIONE

3.1 La prosodia

Ogni frase, per essere compresa nel suo sviluppo (quando


inizia, quando sta per terminare, etc.), poggia su precisi ele-
menti melodici e intonativi. Nessuno di noi mentre parla si
atteggia a cantare ma, ciononostante, ogni singola parola
pronunciata (e, come vedremo, ogni sillaba) disegna un
particolare tipo di movimento: di salita, di discesa, o anche
di stasi. E queste dinamiche indicano l’attacco della frase, il
suo contenuto, il concatenamento delle proposizioni, l’im-
minenza della conclusione della stessa frase.
Tale particolare musicalità è evidentissima nelle forme
interrogative ed esclamative (se così non fosse, non capi-
remmo proprio se si sta facendo una domanda o un’affer-
mazione), ma essa accompagna, sempre e comunque, ogni
momento della nostra comunicazione orale.
La scienza che tratta questa parte della dizione si chiama
prosodia e nulla, in àmbito fonetico, è tanto vago e indefini-
to quanto la regolamentazione prosodica. Questo è un be-
ne. Giacché, se dovessimo obbedire in modo rigoroso a un
preciso principio melodico-vocale, la comunicazione perde-
rebbe l’impronta individuale e la capacità personale di rein-
ventare i legamenti delle parole. È una ricchezza il fatto che
ognuno “canti” con la propria sensibilità le frasi che pronun-
cia: le sue impennate, i suoi rallentamenti, le sue coloriture.
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L’intonazione 61
È altresì un bene inestimabile che ogni soggetto abbia i suoi
ritmi fonetici e rallenti e acceleri le parole in modo sempre
originale e (in parte) imprevedibile.
È vero però che una totale assenza di riferimenti e la più
insensata gestione prosodica possono produrre confusione
nella comunicazione e noia o disinteresse nell’ascoltatore.
Insomma: ognuno potrà intonare una domanda – o un’affer-
mazione, una richiesta – nel modo più personale, ma in
ogni caso la frase pronunciata dovrà testimoniare il suo es-
sere domanda, pena l’assenza di risposte e l’interruzione del
flusso della comunicazione. E – nel caso di una domanda:
qualunque essa sia, in qualsiasi modo venga formulata –
questa dovrà seguire alcuni generali andamenti intonativi:
una “curva” sinuosa a forma di onda (o di accento circon-
flesso) che ne accompagnerà l’esecuzione.
Cercheremo quindi, pur ribadendo le ragioni della liber-
tà prosodica individuale, di schematizzarne comportamenti
e direzioni generali: utili per evitare eventuali “cadute” into-
native, per ri-ascoltare in modo più attento i nostri anda-
menti melodici, per verificarne e accrescerne la ricchezza (o
denunciarne la povertà) in termini espressivi e relazionali.

3.2 Gli andamenti intonativi

Facciamo un esempio (con i limiti a cui ci costringe la paro-


la scritta, e non detta), e immaginiamo che qualcuno voglia
informarci che “sono le dieci e venti”. Per farlo, dovrà ne-
cessariamente (e lo farà in modo più o meno naturale) alza-
re l’intonazione su “dieci”, per poi riscendere a “e venti”. Se
così non fosse (se cioè “scendesse” a “dieci”), ciò sarebbe
da noi interpretato come “stonato” o sbagliato. Noi dappri-
ma capiremmo che sono le dieci, e poi (come in una rettifi-
ca) sapremmo che sono sì le dieci, ma “e venti”. La trascri-
zione ortografica potrebbe essere la seguente: “sono le die-
ci; e venti.”.
Alterando l’esempio, il nostro informatore potrebbe in-
vece volerci dire che sono (proprio) le dieci. Normalmente
noi diremmo questa frase scendendo con l’intonazione, con-
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cludendola. Se qualcuno però usasse un tono “in salita”, noi


ci aspetteremmo che la stessa frase fosse seguìta da qualco-
s’altro (rimarremmo in attesa di una puntualizzazione). E in-
vece no, usando un tono ascendente, lui ci dice “sono le
dieci…”, e poi va via.
Questo comportamento vocalico sarebbe da noi inter-
pretato come uno scherzo. Nel caso precedente (“sono le
dieci; e venti.”) penseremmo invece a un errore: il nostro
interlocutore si è accorto solo in ritardo che sono le dieci e
venti (all’inizio pensava fossero semplicemente le dieci).
Altre possibilità intonative potrebbero accompagnare
quest’ultima risposta, e ognuna di esse ci consegnerebbe un
sottotesto interpretativo. Per esempio, io so per certo che
sono almeno le dieci e lo dico sùbito, ma poi controllo
l’orologio e divento più preciso: “sono le dieci, e… e venti”;
so invece che sono le dieci ma non immagino che possano
essere addirittura “e venti”: “sono le dieci e… e venti!”. Pos-
so anche (prosodicamente) isolare singole parti della frase,
e anche in tal caso lo sviluppo di salite e discese della frase
cambierebbe: qualcuno diceva che erano le “nove” e venti,
e invece io puntualizzo che “sono le dieci e venti”; qualcun
altro diceva che sono le dieci e un quarto ma io, pignolo, lo
correggo con il mio “sono le dieci e venti”. Qualcun altro,
infine, dice che “saranno” (tra un po’) le dieci e venti, ma io
invece, lucidissimo, lo riporto alla verità effettiva del mo-
mento: “sono le dieci e venti”.
Insomma, questa semplice frase – come ogni segmento
di comunicazione orale – si piega a diverse forme di inter-
pretazione. Non abbiamo incluso (non è questa la sede) di-
mensioni emotive e quindi recitative (dire la frase con una
intonazione dolce, innamorata, impaurita, violenta, ansiosa,
annoiata, etc.): ci siamo limitati a comunicare un concetto
ma, come abbiamo visto, ogni concetto – pur se espresso in
modo neutrale, attraverso le nude parole – non può esistere
se privo del sostegno prosodico.

Così come possiamo individuare una intonazione stan-


dard di una domanda (e di una risposta), allo stesso modo
possiamo tentare di descrivere prosodicamente una qualsiasi
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L’intonazione 63
forma di messaggio orale: per lo meno nelle sue caratteristi-
che basiche. Prendiamo la frase “Giovanni ama Teresa”. La
lingua italiana (quella latina, molto meno) si è abituata a or-
ganizzare le sue proposizioni partendo dal soggetto, per poi
arrivare all’eventuale complemento: se qualcuno non ci
spiega il contrario, dalla lettura della frase precedente rica-
viamo che “Giovanni” ama Teresa (e anche se non è detto
che quest’ultima ricambi).
Non sempre la sequenza “soggetto-predicato-comple-
mento” è confermata mentre parliamo. Talora ci càpita di in-
vertire quest’ordine (“complemento-predicato-soggetto”) e –
pur mantenendo la stessa sequenza di parole – comunichia-
mo allora un altro messaggio, completamente diverso dal
primo: “Giovanni (proprio lui!) è amato da Teresa”, come se
alla domanda “chi ama, di chi è innamorata Teresa?” repli-
cassimo con la risposta “è innamorata di Giovanni” (e, quin-
di, con la virgola dopo il complemento: “Giovanni, ama Te-
resa”).
Se dunque ripetiamo l’informazione con questa intenzio-
ne – “è Giovanni che Teresa ama” – la composizione delle
altezze intonative e degli andamenti prosodici delle due di-
verse frasi sarà necessariamente diversa. Nel primo caso (in
cui il soggetto è Giovanni: “Giovanni ama Teresa”), ci “in-
nalzeremo” con il timbro mentre diciamo il soggetto. Nel se-
condo, differente caso (in cui il complemento oggetto è
Giovanni: “Giovanni, ama Teresa”), durante la pronuncia di
Giovanni, saremo costretti a una discesa del timbro. Infine,
probabilmente faremo una pausa appena più lunga, come
se mentalmente pronunciassimo qualcosa tipo “sì, proprio
lui”: “Giovanni (sì, non altri), ama Teresa”.
Insomma, una identica sequenza di parole può assume-
re, nell’atto del parlare, sfumature, colori, ma anche signifi-
cati e contenuti completamente diversi. E tutto questo è de-
terminato solo grazie agli andamenti prosodici utilizzati nel-
la nostra produzione verbale.
Se, attraverso lo strumento librario (quello di cui qui di-
sponiamo), è oggettivamente complicato descrivere l’anda-
mento “medio” della frase (più comodo sarebbe una audio-
cassetta o un pentagramma, o anche un quaderno a qua-
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dretti), vale comunque la pena sollecitare una riflessione


verso l’altalena continua di salite e discese, interruzioni e
picchi che la voce deve affrontare per offrire a chi ci ascolta
tutti gli elementi che compongono questa e altre frasi. (E la
proposizione potrebbe essere portatrice di ulteriori intenzio-
ni comunicative: potremmo star rettificando una persona
che ci parla dell’amore di qualcuno verso Teresa, e noi lo
blocchiamo affermando che “Giovanni – sottintendendo
“non un altro!” – ama Teresa”, o viceversa quando, nel caso
della sequenza invertita – Giovanni complemento oggetto,
Teresa soggetto –, correggiamo qualcuno che parla del-
l’amore di Teresa verso altri: “Giovanni, ama Teresa” – Tere-
sa non è innamorata di un’altra persona.)
Siamo di fronte a un’operazione naturale (che abbiamo
appreso dall’infanzia con l’ascolto e la rielaborazione delle
altrui forme espressive e intonative) che va però gestita con
dedizione e serenità, come una sorta di danza dotata di una
sua coerenza interna, totalmente disponibile ad assecondare
i gesti e i movimenti del corpo alle caratteristiche del suono
sentito e da produrre.
Io, nella mia personale esecuzione della frase, potrò in-
nalzarmi molto nella pronuncia del nome del soggetto;
qualcun altro potrà smorzare quest’enfasi, ma nessuno di
noi potrà gestire la frase in modo monocorde o casuale. Il
rischio che la frase possa essere percepita in modo ambiguo
(chi ama chi?) o come una descrizione robotica e inanimata
(tutte le sillabe “cantate” sullo stesso tono) frantumerebbe la
nostra fondamentale istanza comunicativa (con ciò annoian-
do e disorientando i nostri ascoltatori).

3.3 Prosodia e sintassi

A suggerire altezze e andamenti intonativi nelle nostre frasi


è quindi soprattutto il contenuto di quello che stiamo dicen-
do; e questo ci porta ad analizzare con maggiore precisione
il ruolo della sintassi nella regolazione della prosodia. Anco-
ra una volta, ognuno – l’abbiamo già detto ma conviene ri-
badirlo – nel concreto atto del parlare e nella sua libertà
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L’intonazione 65
espressiva potrà produrre aggregazioni differenti da quanto
noi stiamo indicando; se le nostre puntualizzazioni fossero
però del tutto ribaltate, la percezione di “stonatura” torne-
rebbe riaccresciuta. Di più: non si capirebbe il senso di
quello che vogliamo esprimere.
Stiamo parlando di contenuto e di sintassi, e questo ci
porta a evidenziare quelle che sono le parti costitutive del
discorso: i suoi snodi narrativi. Proporremo quindi una ver-
sione, più semplice e funzionale al nostro discorso, di “ana-
lisi del periodo”. Conosciamo, evidentemente, la differenza
tra analisi logica e analisi grammaticale, e le canoniche “par-
ti del discorso”: nome, articolo, aggettivo, pronome… Qui
però, ora, vogliamo riprendere solo quelle categorie più im-
plicate nella dimensione fonetica, operando una sovrapposi-
zione e una semplificazione molto nette (non ce ne vorran-
no grammatisti e italianisti) di tali procedimenti.
Privilegeremo quattro categorie – quella del soggetto, del
predicato verbale, del complemento e dell’avverbio –, inten-
dendole nella loro accezione più estesa. Suggeriamo di ri-
flettere sull’utilità di questo procedimento, portatore, a no-
stro avviso, di una maggiore comprensione e di una effica-
cia comunicativa del testo da recitare (o di una qualsiasi no-
stra frase da pronunciare).
Facciamo un esempio: pronunciamo la frase “quel gior-
no di ottobre, gli amici del generale Anselmi decisero di
non rifiutare una grandiosa cena offerta in loro onore”. Da
un punto di vista canonico, l’analisi, se fosse grammaticale,
ci porterebbe a stabilire che “quel” è un aggettivo dimostra-
tivo, “giorno” è il nome, “di” è una preposizione semplice,
etc. Se l’analisi fosse logica, troveremmo un complemento
di tempo, un soggetto, il suo complemento di specificazio-
ne, etc.
Noi chiediamo invece in modo meno raffinato e più ge-
nerale di pensare a “quel giorno di ottobre” come a un av-
verbio; “gli amici del generale Anselmi” rappresenta per noi
il soggetto; “decisero di non rifiutare” è invece il predicato
verbale; mentre “una grandiosa cena offerta in loro onore” è
il complemento oggetto dell’intera frase.
Nel nostro oggetto di indagine, rivendichiamo l’utilità
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della semplificazione proposta. La troviamo interessante


giacché a nostro avviso queste quattro parti del discorso go-
dono di una loro interna omogeneità: “quel-giorno-di-otto-
bre” “gli-amici-del-generale-Anselmi” “decisero-di-non-rifiu-
tare” “una-grandiosa-cena-offerta-in-loro-onore” sono quat-
tro informazioni che (tendenzialmente) noi pronunceremo
legando al loro interno i singoli blocchi. E ognuno di questi
avrà (dovrà ricevere) una differente gestione intonativa. I
blocchi sono vocalmente “indivisibili”, partecipano della
stessa intenzione prosodica, godono di una riconosciuta au-
tonomia intonativa. Ancora: i quattro blocchi sono al loro
interno concatenati; le parole che li compongono partecipa-
no dell’ascesa o della discesa dell’intonazione e solo al ter-
mine dei blocchi è possibile operare una pausa.
In un’analisi prosodica sono queste le dimensioni più
complesse e centrali.
Facciamo un nuovo esempio – che collegheremo tra un
po’ a quello precedente – e prendiamo una frase che descri-
ve l’azione di Anselmi: “Anselmi mangia una mela”. Si tratta
di una frase elementare, e forse la pronunceremo senza
pause al suo interno: “Anselmi-mangia-una-mela”. Se pro-
prio però dovessimo operarne una, sicuramente questa non
sarebbe situata all’interno di “una-mela”: il fatto che ci siano
un articolo e un complemento oggetto non rende per niente
disgiunte queste due parole. A meno che non vogliamo cal-
care sul fatto che Anselmi stia mangiando proprio “una” me-
la (o che non stia mangiando una “pera”, come fa di solito,
ma una “mela”), produrremo normalmente “unamela” come
un’unica parola. Questa partecipa dell’intonazione conclusi-
va della frase.
Schematizziamo e immaginiamo che la frase sia esprimi-
bile come un trapezio isoscele regolare (privo della base): il
soggetto (Anselmi) corrisponde al lato di sinistra, e va dal
basso verso l’alto; il verbo corrisponde al lato superiore
(mangia), mentre il lato destro, che va dall’alto verso il bas-
so, è occupato dal complemento (“una mela”; anzi: “uname-
la”). Dunque, ecco i tre lati del trapezio: uno che sale (la
parte iniziale della frase: il soggetto), uno che si distende (il
verbo) e l’ultimo lato che scende (il complemento). Bene:
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L’intonazione 67
se pronunciamo la frase in modo descrittivo, senza enfasi su
alcuni suoi aspetti interni (cioè sul fatto che sia proprio “An-
selmi” e non un altro; che “mangi” la mela, e non la rifiuti),
rispetteremo grosso modo il disegno del trapezio appena
presentato.
Le pause – in questa frase solo accennate – sono natu-
ralmente tese a evidenziare questi pilastri rappresentati dal
soggetto, dal predicato e dal complemento oggetto. Col sog-
getto tenderemo a far salire la nostra intonazione, mentre
con il complemento la faremo scendere. Se seguiremo que-
ste semplici attenzioni prosodiche, chiunque ci ascolta capi-
rà che con “unamela” abbiamo terminato la nostra frase;
mentre, se altereremo tali indicazioni, qualcuno potrebbe
fraintenderne il significato: “Anselmi” potrebbe essere un
vocativo; “unamela” potrebbe essere seguìta da qualcos’altro
(O, Anselmi, mangia una mela… e una pera!).
Se siamo d’accordo che la prima intonazione (Anselmi
mangia una mela) è completamente diversa dalla seconda,
nella quale pure queste parole sono inscritte (O, Anselmi,
mangia una mela… e una pera!), passiamo a confrontarci
con la frase – più complessa – iniziale. Notando sùbito che
tra “gli amici del generale Anselmi” (soggetto della prima
proposizione) e “Anselmi” (soggetto della seconda) non c’è
differenza intonativa. Entrambi sono attraversati da curve e
movimenti, ma questi sono tra loro sostanzialmente coeren-
ti: un po’ come se “in scala” i due soggetti assecondassero
le medesime istanze, come se “al microscopio” potessimo
cogliere nei movimenti intonativi di “Anselmi” gli stessi, più
evidenti, di “gli amici del generale Anselmi”.
Anche le altre porzioni di frasi sono tra loro commensu-
rabili – si muovono seguendo le stesse direzioni –, e se ci
impegniamo a sostituire il primo “decisero di non rifiutare”
con il secondo “mangia”, ci rendiamo sùbito conto che le
due proposizioni seguono un’analoga altezza intonativa e
una identica tensione prosodica. Lo stesso vale per “una
grandiosa cena in loro onore” e “una mela”, i due comple-
menti oggetti delle differenti frasi.
E, ancora una volta, così come non è ipotizzabile alcuna
pausa tra “una” e “mela” (unamela), allo stesso modo sarà
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un unico blocco il complemento “una grandiosa cena offer-


ta in loro onore” (al limite, vista la lunghezza, potremo forse
dire “unagrandiosacena” seguìta, dopo una lieve pausa, da
“offertainloroonore”). E, così come non c’è (trattandosi di
una sola parola) nessuna pausa in “Anselmi”, non ce ne sarà
nemmeno per l’altro soggetto corrispondente, “gliamicidel-
generaleAnselmi”.
Concludiamo la frase aggiungendo un avverbio, e anco-
ra una volta noteremo che tanto un avverbio semplice (una
sola parola: per esempio “ieri”) quanto uno più esteso (un
giorno di ottobre) mostrano i parallelismi a cui abbiamo ac-
cennato: l’essere omogenei, accorpati, il sottostare a una
analoga direzione intonativa. Se dico “in un giorno di otto-
bre Anselmi mangiava una mela”, e poi pronuncio “ieri An-
selmi mangiava una mela”, avverto la permanenza di preci-
se congruenze e affinità prosodiche: così come si riconfer-
mano quelle tra “ieri gli amici del generale…”, e il già ripe-
tuto “in un giorno di ottobre gli amici del generale…”.

3.4 Proposizioni principali e incidentali

All’interno di ogni frase, mentre parliamo, inseriamo conti-


nuamente proposizioni incidentali o parentetiche (come se
fossero appunto frasi “tra parentesi”) e aggiustamenti di in-
formazioni.
È naturale che, proprio mentre stiamo pensando a ciò
che dobbiamo dire, le parole si “aggiustino” nella frase, e
che altre idee e concetti chiedano di entrare, disordinando o
arricchendo ciò che stiamo dicendo. In questo caso, solo un
buon andamento intonativo (che lasci comprendere la diffe-
renza tra frase principale, subordinata, incidentale, etc.) può
permetterci di continuare il nostro discorso, portandolo a
termine senza intoppi. (Spesso, infatti, mentre stiamo par-
lando torniamo indietro, oppure interrompiamo del tutto la
nostra frase, ricominciandola in modo differente.)
Se quindi io volessi arricchire la mia frase originaria (An-
selmi mangia una mela) con altre, subordinate proposizioni,
dovrei – comunque – fare attenzione a non affollarla ecces-
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L’intonazione 69
sivamente, pena la confusione nel mio ascoltatore (e in me,
narratore).
Sto parlando di Anselmi e del fatto che ieri ha mangiato
una mela, e voglio anche aggiungere altri elementi: “ieri, o
forse l’altroieri, non mi ricordo bene, Anselmi ha mangiato –
anzi, ha letteralmente sbranato, che poi non fa parte del suo
carattere – una mela”.
Già questi parziali inserimenti corrono il rischio di pre-
giudicare la comprensione della mia frase (e chi mi sente
avrà un po’ di difficoltà a collegare il complemento oggetto
– “una mela” – con il soggetto iniziale: “Anselmi”). Se men-
tre parlo opero altri due o tre inserimenti di questo tipo,
l’incomprensione sarà totale: “ieri, o forse l’altroieri, non mi
ricordo bene, eppure sto prendendo pillole per la memoria,
Anselmi ha mangiato, anzi ha sbranato, che poi non fa parte
del suo carattere, e comunque gliel’ha consigliato un medi-
co, una mela”.
La frase è lunga, contorta e disordinata, ma riprende un
modello più o meno usuale e quotidiano di relazionarci (ed
è così che i nostri autori più recenti scrivono i propri testi
teatrali, cinematografici e poetici). Spesso, durante le nostre
conversazioni, ci aiutiamo con gesti e con ripetizioni, men-
tre altre volte ci blocchiamo, e riprendiamo dall’inizio. L’aiu-
to più alto però, ancora una volta, è offerto da un (anche
inconsapevole) sostegno prosodico e intonativo: dalla capa-
cità di accompagnare le singole porzioni del nostro pensiero
con appropriati ritmi e altezze timbriche.
Per precisare ancor meglio quest’ultima affermazione,
concentriamo la nostra attenzione su altri due aspetti: a) sul-
la particolare intonazione delle parentetiche nel loro attacco
iniziale e nel loro termine; b) sulla differenza di velocità che
caratterizza una frase “normale” (per esempio una principa-
le) dagli inserimenti parentetici e incidentali che operiamo
nella stessa frase. Ci sembra tutto uguale?
Vediamo (anzi: sentiamo). La frase iniziale era la descrit-
tiva “Anselmi mangia una mela”, e questa sarà prodotta con
le già chiarite salite e discese intonative (ci rifacciamo per
comodità al trapezio precedente). Se però inserisco una
proposizione incidentale (Anselmi, che è un mio amico di
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70 100 monologhi ben pronunciati

infanzia, mangia…), riuscirò a farmi seguire a patto di ri-


prendere l’intonazione del verbo della frase principale
(mangia) lì dove ho lasciato quella del soggetto (Anselmi).
Detto in altre parole: tanto più il verbo “mangia” sarà vicino,
intonativamente, a “infanzia” (e non ad “Anselmi”), tanto
più aumenterà il livello di confusione nella mia comunica-
zione.
Per ciò che concerne il ritmo usato nella pronuncia della
frase, esso sarà naturalmente differente tra principale e inci-
dentale. Proprio come se fossimo consapevoli della partico-
larità di quest’ultima, la pronunceremo (dovremmo pronun-
ciarla) con una velocità differente: più frettolosamente se la
riteniamo secondaria e parziale (come se, ortograficamente,
la mettessimo tra parentesi o tra virgole); oppure più lenta-
mente se invece vogliamo darle risalto ed enfasi (e forse,
trascrivendola, la metteremmo fra trattini).

Alla luce degli esempi riportati (che non esauriscono af-


fatto la gamma di problematiche connesse alla intonazione
e alla prosodia), dovrebbe emergere chiara l’esigenza di ri-
flettere e studiare gli aspetti più musicali dei nostri anda-
menti vocalici: la capacità di gestire le salite e le discese del-
le parti del discorso in relazione alla loro posizione; l’abitu-
dine a far comprendere lo sviluppo della frase in modo ar-
monico e coerente, come se ogni porzione della stessa do-
vesse “anticipare” ciò che in séguito andremo dicendo; la
capacità di riprendere (se lo vogliamo, se riteniamo che la
frase lo chieda) le varie altezze della proposizione in rela-
zione a eventuali inserimenti incidentali; la capacità di cam-
biare la velocità di fonazione tra principale, subordinata, in-
cidentale.
Nel suo piccolo, come si può intuire, ogni nostro discor-
so assomiglia un po’ a un’aria musicale; la quale – pur igno-
ta a chi ci ascolta – chiede una costante attenzione verso il
timbro, il ritmo, l’intonazione. E del resto, anche quando
ascoltiamo una nuova canzone (pur se non l’abbiamo mai
sentita in precedenza) siamo in grado di riconoscere una
eventuale stonatura o sfasatura dell’interprete nella sua ese-
cuzione.
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L’intonazione 71
È evidente che in una qualsiasi interpretazione (attoriale
e non) potremo decidere di valorizzare appieno la presenza
prosodica della frase che stiamo pronunciando, ma potremo
anche attenuarla, spegnerla, ribaltarla. Se recito la parte di
uno stupido o di una persona noiosa o annoiata, se il mio
personaggio ha turbe psichiche e sbalzi d’umore sarò atten-
to a produrre in maniera irregolare il mio andamento proso-
dico. È altresì evidente che solo una consapevolezza della
ricchezza e della generale logica e architettura che caratte-
rizza i parametri intonativi mi può permettere una loro con-
traddizione e neutralizzazione.

3.5 Cadenze e cantilene

Chiarito a grandi linee le attenzioni elementari da riservare a


una corretta (normale) dimensione prosodica, è possibile
ora tentare di analizzare le cadute cantilenanti che singoli
regionalismi o localismi fanno emergere: stabilire quando
un’intonazione può essere definita “cadenza” o (che per noi
è lo stesso) quando parliamo “con cantilena”.
Sgombrate, per motivi di sintesi, le ripetute cautele a fa-
vore di ogni libertà intonativa (al piacere di sostenere le pro-
prie frasi ancorandole a una musicalità di appartenenza: il
proprio paese, il proprio territorio, etc.), vale comunque la
pena riflettere sulle conseguenze causate da eccessive cadu-
te della prosodia sul piano interpretativo e comunicativo; in
termini di ricchezza espressiva e di chiarezza contenutistica.
Le ricadute più evidenti sono facilmente intuibili: se reci-
to la parte di Lucia in una trasposizione classica e tradizio-
nale dei Promessi sposi (magari prodotta da un teatro stabile
di Milano) e mostro la mia evidente cantilena siciliana, è ra-
gionevole che uno spettatore possa percepire come striden-
te e stonata la mia interpretazione (al di là della mia recita-
zione e della mia capacità espressiva). La cadenza regionale
soffocherebbe e influenzerebbe l’aria, il contenuto e la com-
posizione del mio personaggio. Allo stesso modo, un analo-
go fastidio potrebbe provocare, in uno spettatore palermita-
no, la cantilena lombarda nella interpretazione, a Palermo,
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72 100 monologhi ben pronunciati

di un personaggio pirandelliano. E così via.


In sostanza, una neutralità intonativa (anche se relativa,
che non lasci percepire chiare cantilene locali) può essere
un punto di partenza importante in termini di rispetto verso
spettatori, regista, messinscena. (Salvo, poi, utilizzare in altri
contesti ogni tipo di cadenza, cantilena, regionalismi – i
quali, come già detto, non vanno cancellati ma solo control-
lati e riorientati.)

Così come è complicato definire una corretta prosodia, è


altrettanto intricato indicare in modo chiaro e univoco cosa
sia una cadenza locale e regionale: quando cioè un attore, o
un qualsiasi parlante, stia manifestando un evidente cedi-
mento cantilenante. La descrizione è resa ancor più spinosa
dalla presenza di molteplici cadenze: giacché se la presenza
di una pronuncia “localistica” è percepita con immediatezza
da un qualsiasi ascoltatore, è indubbio che gli andamenti rit-
mici e intonativi di un napoletano e di un milanese (e di un
cosentino, un torinese, etc.) sono tutti tra loro differenti (co-
sì come diverse sono le cadenze tra paese e paese, e a volte
anche all’interno della medesima città). In sostanza, ci può
capitare di capire che il nostro interlocutore stia cantilenan-
do, e non essere in grado di individuarne la provenienza
geografica, oppure di cogliere appieno le distanze tra due
differenti, regionali cadenze.
Siamo quindi costretti a stabilire “per difetto” e per
esclusione che cosa sia una cantilena, e per farlo dovremo
rifarci alla precedente presentazione del trapezio, tentando
di dimostrare come, quanto più ci si discosti da quel tipo di
andamento intonativo, tanto maggiori sono i rischi di un fa-
stidioso insorgere di cantilene.
Schematizzando, possiamo dire che eventuali picchi di
salite e discese “interne” al trapezio rappresentano la spia
chiarissima di una consolidata cadenza locale e regionale.
Se nella frase “corretta” noi abbiamo un innalzamento della
frase, un suo impennarsi e (solo alla fine) una sua discesa,
in presenza di cadenze saremo invece di fronte a continue
salite e discese intonative all’interno della pronuncia della
stessa frase.
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L’intonazione 73
Nella proposizione “Anselmi mangia una mela”, ogni
segmento vedrà salire e scendere l’intonazione: “Anselmi”
forse salirà ad “an” e scenderà a “selmi” (o il timbro si im-
pennerà dicendo “anse” per poi cadere nel successivo
“lmi”), così come il picco di “una mela” potrà essere diffe-
rentemente pronunciato dalle diverse cantilene, ma sempre
saranno evidenti cadute e cedimenti intonativi. Detto con
un’altra approssimazione: mentre nella frase “corretta” avre-
mo un unico trapezio (o, se si vuole, un unico semicerchio)
nel quale inscrivere l’intera frase, in quella cantilenata i tra-
pezi si realizzeranno “durante” e “dentro” tutti gli snodi co-
stitutivi della frase (nel soggetto, nel verbo, nel complemen-
to, nell’avverbio).
Secondo questa logica, è da considerarsi cantilena anche
quella particolare forma di intonazione che tiene costante-
mente aperta ogni porzione della frase, come se essa fosse
sempre seguìta da puntini di sospensione. È, questa, una
forma espressiva molto presente in una qualsiasi fonazione
“nervosa” ma, ancora di più, nelle abitudini dei nostri spea-
ker radiofonici e televisivi, e più in generale delle persone
impegnate a leggere testi dando continuamente l’impressio-
ne di una “non conclusione” degli stessi: “ehm… ora…,
ehm… passiamo…, ehm… al nostro, ehm… servizio,
ehm… dall’estero!”.
Ogni singola parola in questo caso si innalza e, pur non
arrivando al punto intonativo di partenza (rimanendo un po’
più su), fa registrare una sua parziale discesa al termine del-
la stessa parola. Ancora una volta, quelle che sono le carat-
teristiche corrette di un buon andamento prosodico – la sua
“aria”: la frase che nasce, si innalza, staziona, si impenna e
poi, solo nella sua conclusione, riportata al suo timbro più
basso – vengono alterate e, nella continua ripetitività di sali-
te e discese dell’intonazione delle singole parole, contrad-
dette e banalizzate.
Un esercizio utilissimo nel tentare di fermare l’eventuale
cantilena è quello della scansione: sillabica e terminologica.
Si tratta semplicemente di impegnarsi, per qualche minuto,
a leggere un testo dividendolo in sillabe e, dopo, in parole:
mantenendo però una intonazione astratta, neutra, come se
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74 100 monologhi ben pronunciati

– musicalmente – battessimo sempre lo stesso tasto di pia-


noforte.
La frase del precedente capoverso dovrebbe essere detta
così: “un-e-ser-ci-zio-u-ti-lis-si-mo-nel-ten-ta-re-di-fre-na-re-
la...” con, ripetiamo, ogni sillaba priva di senso e legame
con la sillaba successiva e con la parola nella quale è conte-
nuta. Dovremo pronunciare queste sillabe – separate tra lo-
ro da una lieve pausa – come se non significassero nulla:
sillabe astratte, senza né inizio né fine, “né capo né coda”.
Se prendo sillabe a casaccio, non avrò alcun problema a
dirle in modo “non intonato”, “non cantato”, neutrale: ba-bi-
ga-fu-ni-no-ca-ru…. Se al contrario dico “un-e-ser-ci-zio”
(sillabe concatenate da un senso logico), avrò invece la ten-
tazione – in questo caso negativa – di “cantare” le sillabe,
affidando loro intonazione e senso, come se la “ci” (penulti-
ma sillaba di “esercizio”) dovesse preannunciarci l’arrivo
dell’ultima sillaba della parola: “zio”.
Per allenarci anche alla pronuncia più ostica dei suoni
doppi e dei gruppi consonantici più complessi, suggeriamo
di concludere ogni singola sillaba, se possibile, con le vocali
e non con le consonanti: “be-lli-ssi-mo”, “bru-tti-ssi-mo”, e
non “bel-lis-si-mo”, “brut-tis-si-mo”. Tutto ciò per abituarci
con maggiore naturalezza ai suoni intensi e composti della
nostra lingua.
La scansione della frase precedente – ogni sillaba va se-
parata dalle altre da una lieve pausa – è quindi così pronun-
ciata: “un-e-se-rci-zio-u-ti-li-ssi-mo-nel-te-nta-re-di-blo-cca-
re-la-e-ve-ntua-le-ca-nti-le-na…”.
Dopo questa prima lettura, ne va operata un’altra “a sin-
gola parola”, come se ogni vocabolo – ancora una volta –
non avesse alcun nesso con gli altri e con l’intera frase: pa-
role concluse e “autorisolte”, che non annunciano e non an-
ticipano alcun senso o sviluppo: “un!”, “esercizio!”, “utilissi-
mo!”, “nel!”, “tentare!”, “di!”, “frenare!”, e così via.
Solo dopo queste due letture neutre e un po’ robotiche,
suggeriamo di cimentarsi con la lettura “sensata” del brano:
quella che – riprendendo l’esempio del trapezio e la solleci-
tazione a seguire i corretti andamenti intonativi delle parti
del discorso – ci lascia prevedere lo sviluppo della frase e
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I difetti di pronuncia 75
chiede la gestione di un armonico sostegno: prosodico e in-
tonativo.

4. I DIFETTI DI PRONUNCIA

4.1 Le motivazioni

Nella fonazione, i difetti – utilizziamo questo termine in mo-


do molto cauto – nascono da motivazioni molteplici. Alcuni
possono essere considerati “fisiologici”, e possono essere le-
gati alla individuale, particolare conformazione della bocca:
per esempio una mandibola e una mascella troppo distanti
nella corrispondenza dei denti incisivi; oppure il contrario:
mandibola troppo avanzata e conseguente problema di pro-
gnatismo. Anche l’alterazione dei denti (incisivi superiori o
inferiori), o la loro perdita, ha ricadute evidenti nella pro-
nuncia dei suoni. E questo – ovviamente – sia nei suoni
dentali che in quelli alveolari: giacché chi perde un dente
inevitabilmente rimane privo del suo alveolo, cioè la curva
dettata dalla radice dello stesso dente.
Un altro motivo di difettosa fonazione è legato alle abi-
tudini territoriali di ogni singola dizione. Nella sua distanza
dalla lingua fiorentina “pura” (sgrossata cioè da atteggia-
menti provinciali e cittadini), ogni regione insiste su sue
specifiche e sedimentate abitudini. Alcune vocali sono dette
in modo “ibrido” (per esempio la “o” lombarda, intermedia
tra la “o” e la “u”; oppure la “a” di alcune zone della Puglia,
più prossima alla “e”); altre sono dette più sbrigativamente
(poggiando sulle consonanti, riducendo la presenza vocali-
ca); mentre in alcuni territori le vocali sono allungate, quasi
fossero “raddoppiate” (come succedeva con il latino, che
aveva vocali brevi e per l’appunto “lunghe”).
La “resistenza” territoriale, è prevedibile, può deformare
anche i suoni consonantici. È il caso di alcune palatalizza-
zioni di “s” e “s” (che diventano “sc(i)” e “sg(i)”: “sc’trano”,
“sg’bagliato”, anziché “strano” e “sbagliato”), di alcune tra-
sformazioni di suoni alveolari in dentali (“zao”, anziché
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76 100 monologhi ben pronunciati

“ciao”, “zinquantazinque”, etc.), dell’addolcimento perma-


nente di alcune consonanti in presenza della coppia “n” e
“m” (riembire anghe un gerchio).
Un ultimo motivo di difettosa fonazione è legato alla
“pigrizia” fonoarticolatoria. Tenuto conto della dimensione
“muscolare” della produzione verbale, è facile capire che
purtroppo (molto spesso) ricorriamo a piccoli, involontari
espedienti per ridurre il nostro impegno e il nostro sforzo.
Questo succede principalmente nei suoni più complessi
(che abbisognano di maggiore movimento: salite e discese
della lingua, allineamento mascella-mandibola, etc.), e suc-
cede anche nelle parole più macchinose e meno fluide. Fac-
ciamo quindi un po’ di lavoro in più nel dire (correttamen-
te) suoni come “gl(i)”, “r”, “s”, “ci”. C’è inoltre bisogno di
maggiore espirazione nei suoni doppi (ottantotto, settecen-
tosettantasette, attaccatutto, etc.); dobbiamo infine usare
maggiore accortezza nel dire frasi come “insomma, forse
penso sia falso” (che per un’analoga pigrizia tendiamo a tra-
durre in “inzomma, forze penzo sia falzo”).
Accanto a questi errori – talora comuni e ricorrenti – va
segnalato l’ulteriore, continuo (spesso sgraziato) lavorìo di
semplificazione dei termini che vedono una sovrabbondan-
za di vocali tra loro giustapposte. È oggettivamente più im-
pegnativo pronunciare parole tipo “aereo”, “etereo”, “nau-
sea”, “laurea”, o locuzioni e forme verbali come “affinché
voi insegniate”, che abbisognerebbero dell’allungamento
della vocale “i” e della sua autonomia dalla successiva voca-
le “a”.
In ragione di questa difficoltà, a volte, stonatamene, eli-
miniamo una delle vocali (“le isole olie”, anziché “eolie”,
“proccupato” invece di “preoccupato”), oppure risolviamo il
problema trasformando le vocali (che sono, per definizione,
più impegnative) in semivocali (più veloci e sbrigative).
“Geografia” e “geometra” diventano “giografia” e “giometra”
(in questi casi, la “i” è una semivocale), mentre l’ostico “ae-
reo” può diventare addirittura “erio”.
Un’ultima attenzione è da riservare a quelle parole che
ripropongono al proprio interno una esplicita ripetizione sil-
labica. Anche in questo caso interviene – sempre a causa di
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I difetti di pronuncia 77
un maggiore impegno fonoarticolatorio – la tentazione di
saltarne una parte, semplificando o “mangiando” la sillaba
ripetuta. “Proprio” diventa “propio” (e “proprietà” si assotti-
glia in “propietà”), “avevàmo” si semplifica in “avàmo”, e la
sequenza tra “sessanta e settanta” si prosciuga in ‘santa,
‘santuno, ‘santadue… (così come la pronuncia legata dei
numeri sedici-diciassette con le sillabe “dici-dici” ripetute
sempre più si altera in “se-diciassette”).
Allo stesso modo vanno interpretate – e, nell’atto della
recitazione, pronunciate con maggiore attenzione – le paro-
le che vedono la ripetizione di sillabe equivalenti da un
punto di vista fonatorio. Ci riferiamo alla classificazione la-
biali, alveolari, dentali, dapprima esplicitata, ritrovando
analoghi “ostacoli” nei blocchi “r-l-n”, “k-gh”, “t-d”, etc. La
difficoltà che incontro nel dire “capire realmente…” o “capi-
vo volentieri” (laddove troviamo la ripetizione delle sillabe
“re-re” e “vo-vo”) è infatti analoga a quella che provo nel
pronunciare “mangiare legumi” o “cercavo fotografie”: an-
che in questo caso, chiedo alla lingua di battere due volte,
consecutivamente, nello stesso luogo di articolazione. E il
nostro inconsapevole rifiuto, per pigrizia e disimpegno, può
diventare una dannosa abitudine nel quotidiano esercizio
del parlare.
Del primo ordine di problema (che abbiamo definito fi-
siologico: dentatura disallineata, alterazione mascella-mandi-
bola, etc.) non possiamo purtroppo offrire rimedi compiuti
(raccomandiamo però esercizi fonarticolatori e di sillabazio-
ne) mentre, per le altre due tentazioni (cedere alle abitudini
territoriali, impigrire la nostra fonazione), forniremo indica-
zioni più puntuali e specifiche.
Consigliamo comunque – a tutti i lettori del presente te-
sto – di seguire per intero ogni successivo paragrafo. È in-
fatti molto probabile che alcune indicazioni rivolte soprattut-
to alle abitudini di pronuncia “settentrionali” siano riscontra-
bili in aree geograficamente distanti, e viceversa. È altresì si-
curo che solo una attenta valutazione delle differenti pro-
nunce regionali e cittadine possa determinare una padro-
nanza completa del proprio repertorio fonetico.
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78 100 monologhi ben pronunciati

4.2 Gli errori “regionali”

Parlare delle differenze accentuative nei vari territori italiani


è operazione macchinosa e complessa, tante sono le diffe-
renze e i particolarismi che ogni territorio rivendica e lascia
emergere. Le differenze seguono percorsi che non sempre
corrispondono a confini geografici e delimitazioni istituzio-
nali (regioni, province, Italia del Nord, del Centro, del Sud)
e spesso alcune distanze macroscopiche sono interne allo
stesso territorio. A volte sono i fiumi e le catene montuose a
segnare le diversità fonetiche; in altri casi a determinare di-
stanze intervengono le dominazioni subite, i rapporti com-
merciali, le relazioni esterne ed extranazionali.
In alcune regioni, infine, le distanze sono segnate da
evidenti contiguità con territori stranieri: questo succede in
luoghi caratterizzati da un vero e proprio bilinguismo (fran-
cese e italiano per Valle d’Aosta e alcune zone del Piemon-
te, tedesco per l’Alto Adige, etc.).
Ciononostante, consapevoli di operare una schematizza-
zione generale e orientativa, vogliamo mostrare alcune spe-
cifiche, omogenee abitudini fonetiche. E, su queste, offrire
consigli correttivi e integrativi.
È evidente che non parleremo in nessun modo di “pro-
nunce dialettali” (troppo articolato sarebbe ogni tipo di rica-
pitolazione), quanto – esclusivamente – di pronunce “italo-
regionali” o “italo-provinciali”: i differenti gradi di apertura
vocalica o di gestione consonantica che ogni cittadino – im-
pegnandosi a parlare nella comune lingua nazionale – co-
munque manifesta.

4.3 Gli errori regionali nel Nord Italia

Una prima, fondamentale divisione territoriale è data dalla


linea cosiddetta gotica o “del Rubicone”: un fiume che colle-
ga (idealmente) la città di La Spezia con quella di Rimini, e
che ci riporta ai vecchi confini del mondo latino e alle vi-
cende dell’imperatore Giulio Cesare.
Questa macro-divisione (in realtà l’asse geografico è
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I difetti di pronuncia 79
quello a sud di Rimini: La Spezia-Ancona o La Spezia-Mace-
rata) è significativa per due fenomeni precisi: la riduzione
dei suoni doppi (o scempiamento) e il permanente addolci-
mento della “s” intervocalica.
Fortemente legati alle abitudini fonetiche europee (fran-
cesi, tedesche, inglesi in primo luogo), gli abitanti al nord
del Rubicone pronunciano con la “s” in forma dolce tanto le
parole dotte (per esempio “fantasia”, “poesia”, “paradiso”,
“musica”) quanto quelle “volgari” (casa, naso, cosa, asino),
sia i suffissi “nobili” (òsi, èsimo, ésimo: nevròsi, osteoporòsi;
il novantèsimo incantésimo, l’ennèsimo protestantésimo) sia
quelli più usuali (ése e óso: catanése, torinése, famóso, stu-
dióso), nonché tutte le parole “composte” (ri-serva, di-se-
gno, de-siderio).
A fronte del preponderante addolcimento della “s” in
posizione intervocalica, va ricordata anche un’altra deforma-
zione nella quale è coinvolto soprattutto il lato orientale del
settentrione italiano: la sostituzione – quando è preceduta
dalla consonante “n” – della “s” aspra. Troviamo quindi
“tranzazione”, “conzonante”, “intranzigente” in luogo delle
corrette “transazione”, “consonante”, “intransigente”.
Il secondo “difetto” – diffuso e trasversale – è però sen-
z’altro più grave, sempre riconducibile a un’abitudine “nor-
dica” (francese, tedesca, inglese, etc.): la lingua settentriona-
le – da Sanremo a Trieste, da Sondrio a Forlì – percepisce
come poco significativa l’intensità di alcuni suoni consonan-
tici (quelli che scriviamo come doppi) nelle parole e nelle
frasi. “Gennaro balla benissimo” corre il rischio di diventare
“Genaro bala benisimo”, “Giovanni legge troppo” si indebo-
lisce in “Giovàni lege tropo”, e così via.
Questa regressione è ancora più evidente e ripetuta lad-
dove in realtà la forma scritta non indica l’intensità del suo-
no (e che invece, nel resto d’Italia, si dà più o meno per ac-
quisita): e questo succede nei raddoppiamenti fonosintattici
e nel dimezzamento dei quattro suoni dapprima segnalati
come “intervocalicamente” doppi: “gn”, “gl(i)”, “sc(i)”,
“z(z)”.
Domande o frasi come “che figlia sogni?”, “è tornato lu-
nedì mattina!” (che andrebbero pronunciati “cheFFiGLiaso-
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80 100 monologhi ben pronunciati

GNi?” e “eTTornatolunediMMattina”) finiscono così per esse-


re prodotte in tutt’altra forma – “chefiliasoni?”, “Etornatolu-
nedimatina!” –, con pericolose compromissioni, lessicali e
ritmiche.
Ne consegue che, se questo indebolimento fonetico è
persistente e manifesto, i rischi di equivoci e ambiguità fo-
netiche diventano altissimi. Se infatti in lingua italiana l’op-
posizione tra parole omografe (che scriviamo nello stesso
modo) con vocali aperte e chiuse è quasi irrisoria, quella tra
parole con suoni doppi e con suoni singoli è enormemente
più alta e significativa. Abbiamo effettivamente, nel primo
caso, parole come “pèsca-pésca”, “èsca-ésca”, “bòtte-bótte”,
“accètta-accétta”, “vènti-vénti” (e pochissime altre); nel se-
condo le opposizioni si moltiplicano in modo esponenziale,
così come i seguenti esempi ci fanno chiaramente intuire:
“ada-adda”, “ala-alla”, “ano-anno”, “baco-bacco”, “bara-bar-
ra”, “bela-bella”, “beve-bevve”, “cane-canne”, “casa-cassa”,
etc. Per non parlare infine delle forme verbali in “ete-ette”
(dovete-dovette, potete-potette), ma soprattutto – perché
molto più frequenti – in “emo-emmo” (avremo-avremmo,
berremo-berremmo, faremo-faremmo, e così via).
È quindi consigliabile, per tutta quest’area, impegnarsi a
rendere intenso e accentuato ogni raddoppiamento conso-
nantico: con esercizi di “maggiorazione di fiato nella emis-
sione”, con una particolare “scansione sillabica” e, infine,
con un ascolto attento e critico della propria e dell’altrui fo-
nazione, sempre per ciò che concerne questi aspetti della
dizione. Sulla scansione sillabica, rimandiamo al capitolo 3,
par. 5 (laddove si tratta il problema della cadenza); per
quanto riguarda la “maggiorazione di fiato”, invitiamo inve-
ce a leggere ad alta voce le varianti dapprima evidenziate
(ada-adda, baco-bacco, beve-bevve, e altre), esagerandone
sforzo fonoarticolatorio, espirazione, emissione, componen-
te muscolare: lingua, labbra, coordinamento mascella-man-
dibola.
Per quanto attiene, infine, all’ascolto “critico”, vale la pe-
na sottolineare che il nostro modo di discriminare il signifi-
cato delle parole e delle frasi è sempre molto (talora trop-
po) “disponibile”. Quando cioè qualcuno ci dice di essere
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I difetti di pronuncia 81
nato nel “‘santaquattro” (o, addirittura, nel “‘san’quatro”),
noi capiamo comunque che intendeva dire “sessantaquat-
tro”. Questa “percezione accomodante” è per certi versi un
bene (se fossimo esigentissimi, saremmo sempre costretti a
far ripetere la frase al nostro interlocutore). Finisce però con
l’essere un grave danno se ripetuta nel corso di dialoghi e
comunicazioni verbali: finisce col produrre ambiguità, incer-
tezze, incongruenze nella nostra comprensione. L’invito è
quindi quello di cogliere bene la differenza tra gruppi doppi
e non: magari (l’esercizio è elementare, ma può essere utile)
ripetendo con correttezza (e forza) ad alta voce – e autoa-
scoltandosi – le sequenze numeriche da sessanta a settanta,
da settanta a ottanta e da ottanta a novanta (e, anche, da
settecentosettanta a settecentonovanta, e così via).

Accanto a queste forme di forzato addolcimento conso-


nantico e all’allentamento dei suoni doppi, vanno segnalate
infine – sempre in modo estremamente generale e questa
volta collegate alla errata accentazione delle vocali – due fa-
stidiose omologazioni.
La prima è relativa alle aperture delle “e” e delle “o” nei
territori occidentali (parte del Piemonte, della Valle d’Aosta
e della Liguria) e orientali (soprattutto l’Istria e le zone con-
finanti con i Balcani). In queste regioni è facile percepire un
uso delle vocali ripetitivo e ricorrentemente aperto: simile in
parte a quello utilizzato nel sud della penisola, nel Salento e
in Sicilia (evidentemente con una prosodia che li fa però
percepire come completamente differenti).
La seconda omologazione è invece presente nella parte
centrale della penisola, ed è legata alla pronuncia chiusa
della “e” in presenza dei (quando precede i) tre suoni nasali
della lingua italiana: “n”, “m”, “gn”. A Milano, quindi, e nel
raggio che arriva a lambire la Liguria, l’Emilia e il Veneto,
sarà facile sentire pronunciare – erroneamente – “dénte”,
“pénso”, “régno”, “settémbre”, “spégnere”, “témpo”, etc.
Particolare rilevanza ha questa ultima alterazione se rap-
portata ai suffissi “ente” ed “enza” e alla desinenza verbale
“endo” (cosciente-coscienza, diligente-diligenza, eminente-
eminenza, penitente-penitenza; avendo, cadendo, potendo,
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82 100 monologhi ben pronunciati

ridendo, etc.). Tali particelle, infatti – che vanno prodotte


sempre in forma aperta –, si vedono frequentemente con-
traddette nell’area territoriale settentrionale. Tenuto conto
della loro altissima ricorrenza, vale la pena segnalarne con
urgenza la correzione.

4.4 Gli errori regionali nel Centro Italia

Passando dall’Italia “gallica” (a nord del famoso fiume Rubi-


cone) al centro della nostra penisola e toccando la Toscana,
incontriamo – come è ovvio – la pronuncia delle “e” e delle
“o” (e delle “s” e delle “z”) più corrette d’Italia. Le accenta-
zioni prescritte dai nostri vocabolari sono infatti (quasi sem-
pre) del tutto rispettate in questa regione, soprattutto nella
città di Firenze.
Questo però non vuol dire che la lingua toscana goda
di una perfetta fonazione, e anche per i suoi abitanti an-
dranno segnalati errori e distorsioni. Innanzitutto, c’è da ri-
cordare la forte invadenza intonativa e cantilenante, tipica
dei territori privi di dialetto (meglio: che hanno visto la per-
fetta coincidenza del loro dialetto con la lingua nazionale).
Se infatti tutte le altre regioni dispongono di due tendenze
linguistiche differenti (una più italianizzata; l’altra più dia-
lettizzata), il privilegio toscano ha fatto sì che la musicalità
tipica di ogni dialetto fosse qui molto più vistosa e pene-
trante. Detto in altro modo: se nelle restanti regioni c’è la
consapevolezza di un doppio registro fonetico (e gli abitan-
ti sanno quando utilizzano l’italiano standard o quello re-
gionale), in Toscana i due registri sono perfettamente so-
vrapposti, e il “raffreddamento” della cantilena è più diffici-
le da realizzare.
Accanto a questa super-musicalità regionale, vanno inol-
tre ricordati gli scempiamenti di “c(i)” e, soprattutto, “g(i)”:
trasformati – come in lingua francese – in “sc(i)” e “sg(i)”.
Tale alterazione, sempre presente, è molto più acuta quan-
do le due consonanti si trovano in posizione intervocalica:
“piascere” e, ancor più, “rasgione”, “grisgio”, “pasgina”.
Un altro noto difetto dell’area toscana è quello della
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I difetti di pronuncia 83
“gorgia”: un termine che significa esattamente “gola” e che
vede la “spirantizzazione” (una specie di eliminazione e di
“soffio”) della “c” gutturale (anche “gutturale” proviene, tra
l’altro, dalla parola “gola”). Il tutto, ancora una volta, princi-
palmente in posizione intervocalica: “sono comuni cose di
casa” diventa così “sono ‘homuni ‘hose di ‘hasa”.
Un’ultima, piccola alterazione fonetica fiorentina è legata
all’uso della preposizione “da”, pronunciata sempre (erro-
neamente) alla stregua di un raddoppiamento fonosintattico.
“Vado da Firenze ad Aosta” e “da Michele e da Tommaso
non mi aspetto granché” vengono infatti pronunciati in que-
sto modo: “vado daFFirenze ad Aosta” e “daMMichele e
daTTommaso non mi aspetto granché”.

Per quanto riguarda la zona a sud della Toscana, c’è da


segnalare un’alterazione fonetica che caratterizza la fascia
tirrenica centrale (e meridionale), che coinvolge quindi
grossi centri (come Roma, Napoli, Salerno e, nel sud, Gioia
Tauro, Reggio Calabria, Messina, Palermo), e che in realtà si
sta allargando sempre più anche nelle zone interne. Alludia-
mo al raddoppiamento – in posizione intervocalica – delle
consonanti “b”, “g(i)” e “m” (e talora, nelle parole composte,
anche della “d”). Abbiamo infatti la pronuncia di “abile”,
“incredibile”, “possibile”, “frigido”, “Parigi”, “camera”, etc.
trasformata in “abbile”, “incredibbile”, “possibbile”, “friggi-
do”, “Pariggi”, “cammera”. Nelle parole in cui la “d” è inizia-
le di una parola composta (del suo secondo termine) spesso
l’esito è quello di una doppia “d”: “luneddì”, “marteddì” (i
“dì”, cioè i giorni della Luna e di Marte), “ventiddue”, “cen-
toddue”, etc.
Nella stessa zona (testimonianza di un’alta frequenza di
scambi e relazioni) incontriamo il netto e ripetuto indeboli-
mento della “c(i)” in “sc(i)” (soprattutto in posizione intervo-
calica), e quello della “gl(i)” in “ij”. Abbiamo quindi “scento-
scinquantascinque”, “le camiscie di sCesare sono luscide”, e
– per quanto riguarda la “gl(i)” – pronunce del tipo “mia
moje e mio fijo non vojono l’ajo”.
Il motivo di questi ultimi due errori è ancora una volta
legato alla pigrizia e al ridotto impegno fonoarticolatorio
Imp. 100 monologhi 29-01-2008 15:49 Pagina 84

84 100 monologhi ben pronunciati

nella produzione vocale. Il suono “gl(i)” è infatti uno dei


più complicati del nostro alfabeto e presuppone l’innalza-
mento del dorso della lingua verso il palato, integrato dal-
l’adesione della corona verso gli alveoli e della radice ver-
so il velo palatale: un movimento ampio che in tutto que-
sto arco territoriale si tende diffusamente a semplificare e
ridurre.
Per eliminare questo problema, può essere utile eserci-
tarsi a pronunciare il gruppo “gl(i)” facendolo precedere
dalla pronuncia della consonante “L” (mia mo-L-glie e mio
fi-L-glio non vo-L-gliono l’a-L-glio; vo-L-gliono le fo-L-glie di
mi-L-glio che racco-L-gliamo su-L-gli sco-L-gli). Sarà oppor-
tuno quindi provare più volte a ripetere frasi di questo tipo,
per poi pian piano eliminare la pronuncia della “L” (ricor-
dandoci di alzare però la lingua nella fonazione): il risultato
positivo non dovrebbe tardare ad arrivare. Con un po’ di
esercizio, la lingua dovrebbe cioè – a ridosso della pronun-
cia del suono “gl(i)” – avvertire un automatico bisogno a in-
nalzare la sua parte dorsale e la corona.
Anche la “c(i)” – correttamente pronunciata – presuppo-
ne l’innalzamento e la pressione della corona della lingua
verso gli alveoli e il palato. Se invece tale sforzo viene ridot-
to e la lingua (rimanendo in basso) tende un po’ a curvarsi
al centro (come nella “sc(i)” di “sciare”), il suono risulterà
evidentemente “scempiato”, cioè diminuito.
La consapevolezza di questo movimento e della sua uti-
lità può essere ulteriormente rafforzata riflettendo sulla posi-
zione della lingua in parole tra loro (per ciò che concerne la
“c”) chiaramente differenti: per esempio provando a dire
“scena”, “sciame”, “sciare”, “sciroppo”, e poi invece “boccia-
re”, “cacciato”, “faccione”, “luccicante”. Subito dopo può ri-
velarsi efficace ripetere – in modo più mirato e sorvegliato –
sequenze come “centocinquanta, centocinquantuno, cento-
cinquantadue”, etc. e “cinquecentocinquanta, cinquecento-
cinquantuno, cinquecentocinquantadue”, e così via.

Più circoscritta all’area romana – concludendo questo di-


scorso su errati raddoppiamenti o dimezzamenti – è invece
l’indebolimento che spesso caratterizza i suoni alveo-palata-
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I difetti di pronuncia 85
li: “r”, “n”, “l”. Il primo suono (quello più evidente) è allen-
tato in parole come “erore”, “guera”, “orore”, “tera” (anziché
“errore”, “guerra”, “orrore”, “terra”). Anche la doppia “l” e la
doppia “n” seguono però questo percorso di indebolimento:
nel primo caso (soprattutto nelle preposizioni articolate) fa-
cendo pronunciare “nela casa dela signora”, “nele sere dela
primavera”; nel secondo portando a dire, talora, “(h)ano fat-
to male, (h)ano sbagliato” o, più “coerente” e più errato,
“(h)ano sbaijato”.
Per quanto riguarda l’uso delle “e” e delle “o” a Roma,
va fatta una ulteriore puntualizzazione, dichiarando la larga
correttezza della pronuncia di queste due vocali. (Si tratta di
una correttezza circoscritta a Roma, quasi un’isola all’interno
della regione laziale, nella quale la capitale d’Italia è collo-
cata. E, per rendersene conto, è sufficiente ascoltare una
pronuncia reatina e frusinate, molto più distante da Roma –
e da Firenze – piuttosto che da Napoli o Salerno.)
Va quindi chiarito che tale specifica e circoscritta “diver-
sità” romana si sostanzia a partire dal XVI secolo. Durante il
periodo rinascimentale, furono eletti molti papi di prove-
nienza fiorentina. E questo comportò l’arrivo, a Roma, di
“cancellerie” – intellettuali, scrittori, giuristi – della stessa cit-
tà di Firenze. È evidente, quindi, che tra la pronuncia roma-
na e quella “petrarchesca” in auge nel Cinquecento – e
quella che si è sviluppata fino ai nostri giorni – ci siano nu-
merosissime affinità e convergenze. Sono rimasti – ribadia-
molo – gli scempiamenti tipici dell’area (ci, gl(i), r, l, n); si
sono mantenuti i raddoppiamenti errati di “b”, “g” e “m”, ma
le aperture e chiusure delle due vocali “e” e “o” sono so-
stanzialmente corrette.
Per rendere ancora più completa questa porzione “ro-
mana” del paragrafo, segnaliamo comunque alcune infedel-
tà o incongruenze di pronuncia: parole che, evidentemente,
tradiscono altre, errate derivazioni. Ci sembra utile segnalare
tali alterazioni di pronuncia soprattutto in relazione all’alto
potere di condizionamento che le abitudini fonetiche roma-
ne hanno nei confronti dell’intera pronuncia nazionale.
I termini più ricorrenti – e travisati – sono i seguenti
(qui proporremo l’accentazione corretta): ahimè, atróce,
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86 100 monologhi ben pronunciati

cèntro, còlto (da “coltivare”: io ho còlto…), cométa, còmpli-


ce, cònscio, dièci, dittòngo, dópo, dòrso, dòtto (da “docen-
te”), feróce, fóro (fessura), inètto, insònne, intéro, lèttera, òr-
co, pósto, quattórdici, rispósta, rivélo-rivéli, svélo-svéla, (io)
sóno-(loro) sóno, sóra (contrazione di “signora”: sóra Lella),
téma (timore), tèmpio, trégua, trénta, velóce. Tra i nomi ri-
cordiamo Agnèse, Césare, Elisabètta, Giórgio, Maddaléna,
Stéfano.
Le desinenze e i suffissi errati sono invece quattro: 1) il
suffisso astratto (legato a sensazioni e percezioni) “ognolo”
(amarógnolo, azzurrógnolo, verdógnolo); 2) quello numera-
le ordinale “esimo” (che va pronunciato con la “e” aperta e
con la “s” dolce: “dodicèsimo”, “ennèsimo”, “millèsimo”,
“ventèsimo”); 3) la desinenza verbale del condizionale in
“ebbe” ed “ebbero” (avrèbbe, avrèbbero, farèbbe, farèbbero,
potrèbbe, potrèbbero); 4) quella del passato remoto in “et-
te” e “ettero” (dovètte, dovèttero, potètte, potèttero, ripetèt-
te, ripetèttero).
Errato è infine il permanente inasprimento della “s” in-
tervocalica (in riga con le abitudini latine e centromeridio-
nali), nonché la forte omologazione “addolcente” della “z”
iniziale di parola, che fa pronunciare in modo scorretto
(dolce), la “z” aspra di “zampogna”, “zar”, “zattera”, “zecca”,
“zecchino”, “zimbello”, “zingaro”, “zio”, “zuppa”. Per quanto
riguarda la “z” interna ai singoli vocaboli, segnaliamo le
scorrette alterazioni di termini molto usuali come “danza”,
“fidanzato”, “Enzo”, “menzogna”, “nazista”, “pranzo” (quella
qui riportata è la pronuncia corretta).

Per quanto riguarda la fascia più appenninica dell’Italia


centrale – ci riferiamo soprattutto all’Umbria, alle Marche e
all’Abruzzo (ma solo quello occidentale, con epicentro
L’Aquila) – vediamo che i livelli di relazione con la Toscana
sono piuttosto alti. E, tale reciprocità culturale – e fonetica –
ha determinato omogeneità e assonanze di pronuncia della
lingua italiana. Se però, in tutta questa zona, le accentazioni
delle parole sono per buona parte esatte, c’è da denunciare
(talora) il fenomeno dell’addolcimento consonantico: con
punte più alte nella parte meridionale delle tre regioni, l’abi-
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I difetti di pronuncia 87
tudine a sostituire la “ch” con la “gh”, la “ci” con la “gi”, la
“p” con la “b”, la “z” dolce a quella aspra nonché alla “s”
aspra (“penzo”, “inzomma”, “menzola”).
Tale errore, lo si ricorderà, è già stato segnalato. Esso af-
fonda le sue ragioni in una maggiore comodità del movi-
mento delle corde vocali (è più faticoso dire “neanche un
momento” piuttosto che “neanghe un momendo”); ma esso
è forse rafforzato dal tipo di pronuncia osca (una popolazio-
ne contemporanea a quella etrusca, con forte preponderan-
za consonantica dolce), che proprio in queste zone aveva
alcuni dei suoi massimi epicentri.
Di fronte a questa alterante abitudine, consigliamo un
esercizio di ripetizione di tali coppie di consonanti, facen-
dole precedere dal suono “n” (e “m” per la “b”). Suggeria-
mo cioè di dire – ad alta voce e con forza – “mp-mb, mp-
mb, mp-mb…”, “nch-ngh, nch-ngh, nch-ngh…”, “nci-ngi,
nci-ngi, nci-ngi…”. Suggeriamo, parallelamente, di ripete-
re la sequenza alternando ritmi lenti con ritmi più veloci e
serrati.
Dopo questa sorta di “ginnastica consonantica”, meglio
se differenziata nei ritmi e nelle velocità, è ovviamente ne-
cessario inserire i suoni cui facciamo riferimento in parole e
frasi compiute (del tipo “un’ombra in campo”, “ti compro
un rombo”, “ti mangio la pancia”, “ti compiango sempre”,
etc.), sì da verificarne la corretta pronuncia.
La semplice, specifica ripetizione e diversificazione di ta-
li suoni, unitamente a un costante autocontrollo, non può
che rivelarsi benefico e, dopo un po’, risolutivo.

4.5 Gli errori regionali nel Centro-Sud Italia

Come già anticipato, se Roma – a parte i problemi legati agli


scempiamenti e ai raddoppiamenti consonantici dapprima
esposti – ha una buona e corretta coincidenza con le accen-
tazioni aperte e chiuse, dolci e aspre della regolamentazione
nazionale, non altrettanto si rileva nel resto della regione la-
ziale.
Qui infatti, ritroviamo – talora ancora più accresciuti –
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88 100 monologhi ben pronunciati

quei fenomeni tipici di addolcimento delle consonanti e di


palatalizzazione di alcuni suoni gutturali già riscontrati al
sud dell’Umbria e delle Marche. A ciò va aggiunto che molti
territori dell’attuale Lazio, fino al secolo scorso, “amministra-
tivamente” appartenevano alla Campania, e che quest’ultima
aveva forti relazioni con la cultura e la lingua osca. Insom-
ma, frequenti e ripetute sono pronunce del tipo “camba-
gna”, “frangese”, “non gi volevo condare”, “neanghe un bo-
co”, “riembire” (anziché “campagna”, “francese”, “non ci vo-
levo contare”, “neanche un poco”, “riempire”).
Allo stesso modo, ritroviamo la pronuncia della conso-
nante “s” del tipo “sc(i)cappare”, “sg(i)onfiare”: come se so-
stituissimo la “sc” di “scatola” e di “sgolare” con quella di
“sciare” o “sgelare”.
Tali fenomeni – come già anticipato – sono comuni a
larga parte del centrosud italiano, con punte di maggiore
densità e sonorità nell’area campana. In realtà, è possibile
notare in alcune zone a sud di Roma una dilatazione di
quest’ultimo tipo di palatalizzazione: non soltanto con la “s”
seguìta dalla “c(h)” e dalla “g(h)”, ma anche con “b”, “p”,
“f”, “v”, e talora anche con la “m” e la “n” (s(gi)bagliare,
s(ci)paccare, s(ci)farinare, s(gi)valigiare, s(gi)mammare,
s(gi)naturato).
In taluni testi di fonetica e dialettologia si parla di una
errata palatalizzazione della “s” anche in presenza dei suoni
dentali “d” e “t” (s(g)dentato, s(ci)tonato). Noi non siamo
del tutto d’accordo. Un attento ascolto delle differenti altera-
zioni fonetiche mostra che quest’ultimo errore è soprattutto
tipico di alcuni territori della fascia adriatica, dall’Abruzzo al
Salento – laddove non compare invece la forma di addolci-
mento con le precedenti consonanti (b, p, f, v, m, n).

Spostandoci dal Tirreno e toccando ora l’Abruzzo adria-


tico, il Molise, l’intera Puglia con esclusione del Salento, la
Basilicata orientale, il nord della Calabria, notiamo un pri-
mo, vistoso fenomeno di semplificazione vocalica. Proprio
così: a fronte di un percorso complesso (vocali lunghe, bre-
vi, sillabe implicate, parole dotte, etc.) che la lingua fiorenti-
na ha potuto coerentemente sviluppare dal latino, nei terri-
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I difetti di pronuncia 89
tori centromeridionali dapprima elencati si è invece attestato
un adeguamento alla fonetica fiorentina-italiana (per ciò che
concerne le “e” e le “o” toniche), dettato da un unico ele-
mento, ossia il numero delle consonanti che segue le due
vocali.
Questa regola è presto detta: se la “e” o la “o” tonica so-
no presenti in parole piane – e sono seguite da una sola
consonante – le due vocali vengono pronunciate in forma
chiusa; in tutti gli altri casi alle vocali viene assegnato il suo-
no aperto.
In virtù di questa legge, abbiamo la pronuncia di parole
come “candéla”, “méla”, “mése”, “néro”, “pianéta”, “sóle”,
“sólo”, “téla”, “véla” (vocaboli piani con le “e” e le “o” se-
guìti da una sola consonante); e di vocaboli tipo “cèdola”,
“caffè”, “dèstra”, “fòrte”, “govèrno”, “pènso”, “nò”, “pèrdo”,
“tèmpo”, “thè” (che rappresentano altri tipi di parole: tron-
che, sdrucciole, oppure con le due vocali seguìte da due o
più consonanti).
Tutti gli esempi finora riportati sono in linea con la pre-
scrizione della pronuncia latina-fiorentina-italiana. Questo
però è determinato da una semplice e fortuita coincidenza,
giacché questo modello – sempre legato alla regola del nu-
mero delle consonanti che segue la vocale – produce invece
l’errata pronuncia di parole come “avèvano”, “béne”, “ciélo”,
“cósa”, “diéci”, “domènica”, oppure “agòsto”, “bòmba”,
“concòrso”, “permèsso”, “pòsto”, “vètro”, e numerosissimi
altri vocaboli. E sarà facile sentire locuzioni e frasi come
“cóvo le uóva”, “un tònno insònne”, “tòrno con un fòrno”
(anziché le corrette “cóvo le uòva”, “un tónno insònne”,
“tórno cón un fórno”).
Per quanto riguarda la presenza di parole tronche,
sdrucciole o bisdrucciole, avremo la pronuncia (casualmen-
te corretta) di “cèrnita”, “còmico”, “còstola”, “mètrico”, “mò-
dulo”; così come di “bignè”, “caffè”, “spòrt”, “strèss”, “tèst”;
ma anche (erronee) di “crédito”, “débole”, “fégato”, “fémmi-
na”, “onorévole”; e, ancora erronee, di “mé”, “né… né..”,
“perché”, “tra sé e sé”, “tré” (dette, in questi territori, in mo-
do aperto).
In tale breve partizione, fanno eccezione (sembrerebbe)
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90 100 monologhi ben pronunciati

solo parole come “sedia” o “storia” (o inedia, medio, gloria):


con la vocale accentata seguìta da una sillaba con dittongo.
Gli abitanti di queste regioni, così come dicono “céna”, “mé-
la”, “fóro” e “sóle”, dovrebbero pronunciare “sédia” e “stó-
ria” (e inédia, médio, glória). La pronuncia aperta può forse
invece essere spiegata con la “potenziale” accentazione
sdrucciola delle stesse. Se infatti (così come succedeva al
tempo latino) pronunciamo queste parole allungandone la
semivocale, abbiamo una sillaba in più (se-di-a, sto-ri-a,
etc.), diventando in tal modo sdrucciole. E giacché, come
abbiamo visto, tutte le parole sdrucciole sono in questi terri-
tori pronunciate in forma aperta, anche esse soggiaceranno
a questo errato, semplificante criterio fonetico.
Insomma, riprendendo e considerando le regole di auto-
organizzazione di queste aree geografiche centromeridiona-
li, la ricca orchestrazione fonetica del nostro lessico – esito
del complesso passaggio che si è avuto dal latino all’italiano
– viene in parte smorzata. La pronuncia generale delle frasi
soffrirà, consequenzialmente, di questo modello: rendendo
la pronuncia delle parole molto più ripetitiva, prevedibile e
automatica.
Un ultimo, vistoso difetto attraversa alcuni territori a cui
abbiamo fatto riferimento: ed è legato alla diminuzione di
voce nella sillaba o nella vocale conclusiva di parola. Non si
tratta della apocope (fenomeno per cui si tronca l’ultima sil-
laba di una parola: “Giovà”, “Marcè”, per “Giovanni”, “Mar-
cello”; “cantà”, “giocà”, per “cantare”, “giocare”), quanto di
un vero e proprio annullamento progressivo di volume dei
suoni finali del termine pronunciato: “Marcell” e “Giovann”
per i nomi; “cas” e “cos” per “casa” e “cosa”, etc.
Atteggiamento fastidioso e marcato, questo errore pro-
duce ovviamente ambiguità e confusione (per esempio nella
discriminazione tra maschile e femminile, singolare e plura-
le), unitamente a una ulteriore, noiosa e cantilenante tensio-
ne fonetica.

Per ciò che concerne la parte più meridionale della no-


stra nazione (Salento, Calabria, Sicilia), si è già accennato
alla tendenza aperta di tutte le vocali toniche, all’addolci-
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I difetti di pronuncia 91
mento dei suoni che seguono le consonanti “n” e “m” e, in-
fine, alla palatalizzazione della “s” seguìta dalle consonanti
“t” e “d”.
In ogni circostanza (sillabe libere o implicate, vocali se-
guite da nasali o buccali, seguite da una o più consonanti,
etc.), sarà facile sentire le “e” e le “o” dette in forma aperta:
“l’amòre avèva in sè ògni fòrma di calòre e di sapòre, e sè
la naziòne avèsse dètto lòro ‘cèrcalo’, i rè e le mògli, princi-
pèsse torinèsi e catanèsi avrèbbero dato sèguito a èsso:
l’amòre”. Così proposte, le parole e le frasi faranno inevita-
bilmente registrare una ulteriore penalizzazione della loro
varietà e ricchezza accentuativa: l’orchestrazione vocalica ri-
sulterà ancora più piatta e ripetitiva.
A ciò va aggiunto infine l’addolcimento, ancora più net-
to che nei territori meridionali abruzzesi, pugliesi e lucani,
del suono “z”: in ogni posizione, intervocalica e non. Avre-
mo quindi “fazzoletto”, “alzare”, “nazione”, “organizzazio-
ne”, “polizia”, “letizia”, etc.
Salento, Calabria e Sicilia, pur avendo molte caratteristi-
che fonetiche tra loro accomunabili, lasciano emergere an-
che, evidentemente, distanze e differenze.
Una particolare rilevanza assume, in Calabria, la pronun-
cia “cacuminale” dei suoni alveolari e (in minor misura)
dentali. Si tratta dell’innalzamento forzato della punta della
lingua nella pronuncia di “l”, “r”, “n”, “d” e “t”: un innalza-
mento che ne modifica il suono rendendolo quasi “aspirato”
ed enfatizzato.
Un altro elemento di differenza – che caratterizza la zo-
na più a sud della Calabria e larga parte della Sicilia – è il
raddoppiamento fonosintattico riservato alla lettera “r”. Tale
consonante, se preceduta sia da suoni accentati (come sa-
rebbe giusto), sia da vocali non accentate (come invece non
è consigliato), viene raddoppiata e rafforzata: producendo
pronunce del tipo “santa (r)Rosalia”, “la (r)resa dei conti
(r)riserverà sorprese”, etc.
L’addolcimento consonantico, invece, fa sì che risulti più
facile dire – fenomeno comune, come già visto, ad altri ter-
ritori – “neanghe un momendo ho imbarato il frangese”, e
comportamenti fonetici similari: “son gingue giorni che”, etc.
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92 100 monologhi ben pronunciati

Anche in tal caso, resistenza regionale e pigrizia fonoar-


ticolatoria si incrociano. La maggiore facilità di produrre un
certo tipo di suoni o sillabe (o accorpamenti di suoni) raf-
forza una particolare alterazione della pronuncia nazionale:
e questa diventa più elementare e semplificata.
In Sardegna, infine, è facile trovare la presenza ripetuta
del fenomeno fonetico della metafonesi. Si tratta di un com-
portamento delle “e” e delle “o” differente a seconda della
vocale a loro successiva. Quando queste due vocali sono
seguìte dalla “i” e dalla “o”, le “e” e le “o” vengono – in lar-
ga parte dei territori sardi – pronunciate in forma chiusa; al-
trimenti la loro dizione sarà aperta. Avremo, quindi, “nòn-
na”, “nònne”, ma “nónni” e “nónno”, “lui assòlda”, ma “sól-
do” e “sóldi”.
La metafonesi in realtà, a ben guardare, esiste in larga
parte d’Italia (non in Toscana – e perciò inesistente nella fo-
netica “corretta” nazionale, che a questa regione fa riferi-
mento). In Sardegna però essa raggiunge un livello più alto
di presenza, alterando (talora) anche l’intensità delle conso-
nanti in particolari contesti lessicali: “un próffuggo fa
la préddicca sui trénni”, al posto del normale “un profugo
fa la prèdica sui trèni”. (Si noterà, in questi casi, che la sil-
laba a ridosso dell’accento tonico è formata da due conso-
nanti, e la vocale tonica è seguita da vocali con “i” oppure
“o” o “u”.)

4.6 La macchina fonatoria

Se questi (in linea generale, molto sommariamente) sono i


difetti più vistosi delle zone che compongono la nostra na-
zione, vanno ribaditi due inviti più volte emersi nel nostro
volume: uno alla concretezza e un altro, parallelo, alla più
libera immediatezza e spontaneità.
Da un lato, quindi, chiediamo di interpretare la nostra
produzione vocale – anche – come un’operazione fisica,
concreta, muscolare. La rete fonatoria che abbiamo a dispo-
sizione (bocca, naso, polmoni, gola, corde vocali) è, al di là
della sua complessità intellettuale e psicologica, una “mac-
Imp. 100 monologhi 29-01-2008 15:49 Pagina 93

I difetti di pronuncia 93
china”. E le macchine vanno curate, mantenute, aggiornate,
usate.
Gli esercizi che abbiamo consigliato, e altri che qui illu-
streremo, possono sembrare artificiosi (taluni anche un po’
bizzarri), ma vale il principio di una serena abitudine all’au-
tocontrollo: come se ogni tanto, mentre parliamo, ci ascol-
tassimo, sorvegliassimo, rettificassimo. E vale la consapevo-
lezza che la nostra macchina fonatoria è dotata di un’impal-
catura e un’architettura ampia, plurale, multiforme.
Parliamo muovendo le labbra, ma anche distanziando
mascella e mandibola; parliamo respirando, ma contempo-
raneamente facendo danzare in continuazione la nostra lin-
gua: un balletto in cui punta, corona, dorso, radice sono in
coerente movimento; piccoli avanzamenti e spostamenti mi-
nuti (talora pochi millimetri) producono un suono anziché
un altro, e così via. E allo stesso tempo la paziente elasticità
delle corde vocali – il loro avvicinarsi, tendersi o distendersi
– ci regala la giusta alternanza di suoni dolci e aspri di cui si
nutre la lingua italiana. E infine il naso, che serve per inspi-
rare l’aria ma che, grazie all’aiuto della radice della lingua
che si inarca, risulta necessario anche alla formazione dei
suoni nasali che compongono il nostro alfabeto.
Gli esercizi – già presentati nel paragrafo sulla prosodia
(la cantilena) – sono sicuramente utili per abituarci a una
scansione e a una maggiore e più elastica fonoarticolazione.
Ugualmente efficaci si riveleranno gli esercizi di opposizio-
ne e discriminazione, suggeriti a proposito della debolezza
di pronuncia settentrionale dei suoni doppi: pronunciare
coppie come “ala-alla” (belo-bello, casa-cassa, etc.) impri-
mendo alle seconde una maggiore potenza di fiato e di
emissione.
Analoghi esercizi di contrapposizione sono consigliati in
ogni tipo di alterazione e confusione fonetica. Così, se ad
esempio noto una macchinosità (o una sostituzione) tra i
suoni “nch-ngh”, varrà la pena proprio insistere sulla pro-
nuncia di questa coppia: dicendo, ad alta voce, “ngh-nch,
nghngh-nchnch, nghnghngh-nchnchnch”. Poi si potrà passa-
re alla medesima pronuncia con ritmi differenti (lento, nor-
male, veloce, velocissimo); e, sùbito dopo, converrà inserire
Imp. 100 monologhi 29-01-2008 15:49 Pagina 94

94 100 monologhi ben pronunciati

questi suoni in vere e proprie parole o frasi (del tipo “il san-
gue anche”, “pingui fianchi”, “lunghe panche”, etc.).
Se, allo stesso modo, ho difficoltà nel percepire –
e quindi nel produrre – le differenze tra “sc(i)” o “z” inter-
vocalici (che, come si ricorderà, vanno pronunciati in mo-
do intenso, come fossero “doppi”), comincerò dicendo
più volte “sc-SC, sc-SC”; “gn-GN, gn-GN”, per poi pronun-
ciare – con determinazione e impegno – “scena-laSCena”,
“sciroppo-loSCiroppo”; “gnocchi-gliGNocchi”, “gnomo-lo-
GNomo”, etc.
Ugualmente utile si rivelerà l’allenamento della lingua e
dei muscoli del viso: i già ricordati muscoli orbicolari, zigo-
mali, buccinatori, risori, canini. Se abbiamo difficoltà a pro-
nunciare in modo perfetto suoni come la “r” (o la “gl(i)”, la
“ci”, la “gi”), bisognerà orientare la lingua in modo più deci-
so e preciso verso il suo relativo luogo di articolazione: il
dorso verso il palato per la “gl(i)”, la corona verso gli alveoli
per la “c(i)” e la “g(i)”. (Esercizi più mirati sono stati illustra-
ti nel capitolo 4, par. 4, relativo al centrosud tirrenico, e a
essi si rimanda per un ulteriore controllo e verifica.)
Per quanto riguarda la “r”, bisognerà impegnarsi a smor-
zare il coinvolgimento della radice della lingua, interessando
esclusivamente la punta della stessa: nel medesimo luogo di
articolazione di “l”, “n”, un po’ più su di quando normal-
mente diciamo “d” oppure “t”. Se mi concentro su questi
due aspetti – radice rilassata, punta della lingua che spinge
verso gli alveoli – la mia pronuncia migliorerà sicuramente.
Un ulteriore progresso potrà derivare dalla pronuncia con-
giunta della “r” con altre consonanti “prossime” (T-R, D-R,
L-R, N-R), nonché, successivamente, dalla “r” in posizione
intervocalica, e poi doppia (ara, ère, ére, iri, òro…; arra, èr-
re, érre, irri, òrro…).
Sempre – comunque – è opportuno sciogliere e tenere
elastici i muscoli del viso, con distanziamenti della mandi-
bola dalla mascella e con movimenti di apertura e chiusura
della bocca: meglio se ampi, esagerati, estremi. Consiglia-
mo, ad esempio, una finta masticazione che veda dapprima
le labbra (superiori e inferiori) rientrare nella bocca, per poi
uscirne una volta spalancata la stessa; e quindi, dopo aver
Imp. 100 monologhi 29-01-2008 15:49 Pagina 95

I difetti di pronuncia 95
portato avanti le labbra (come dessimo un vistoso bacetto),
riportarle all’interno della bocca, circolarmente.
Per indicazioni più schematiche e precise rinviamo al
nostro Manuale di dizione, voce e respirazione (corredato
da numerose fotografie) ma, per ora, basti riflettere sulla ne-
cessità di tenere vivi e in movimento i muscoli fonatori: pro-
ducendo “boccacce” e disegnando facce esagerate ed estre-
me, con il massimo vigore e coinvolgimento dei muscoli
che ci interessano.
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SECONDA PARTE
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98 100 monologhi ben pronunciati

Avvertenza

I successivi monologhi sono tutti corredati da precise indi-


cazioni di pronuncia: sia per ciò che concerne le “e” e le
“o” toniche – indicate nella loro apertura o chiusura – sia
per quanto riguarda le “z” dolci – tutte, in qualsiasi posizio-
ne – e sia, infine, per le “s” dolci – solo in posizione inter-
vocalica –, segnate da un trattino sottostante.
Abbiamo invece evitato di indicare – per un fatto esteti-
co, e per eludere confusioni nei raddoppiamenti fonosintat-
tici – l’accento di alcuni monosillabi. Si tratta delle congiun-
zioni “e” e “o”, degli articoli determinativi “le” e “lo”, delle
particelle “che”, “ne”, “se”, “te”, etc. Giova comunque riba-
dire che tutti questi monosillabi – così come argomentato
nell’appendice in calce al volume, a cui si rimanda – vanno
pronunciati, sempre, in forma chiusa.
Abbiamo ancora una volta sottolineato (nella prima par-
te del libro, in maiuscolo; ora invece in neretto) i quattro
digrammi esposti nel secondo capitolo (paragrafo 4). Si trat-
ta di “gl(i)”, “gn(i), “sc(i)” e “z”, da pronunciare sempre –
in posizione intervocalica – in modo intenso e marcato. Si
ripete, al riguardo, che la posizione intervocalica è raggiun-
ta sia all’interno della parola (moglie, sogno, pesci, azio-
ne), sia nei legamenti delle stesse con parole che si conclu-
dono con una vocale (lo gnomo, una sciabola, la zia).
È evidente che, soprattutto per le opere medievali,
umanistiche e rinascimentali, le indicazioni fonetiche sono,
in parte, frutto di valutazioni soggettive. In assenza di una
normativa condivisa (che, come si ricorderà, si sviluppa so-
lo dopo il XVI secolo), può essere infatti arbitraria un’indi-
cazione piuttosto che un’altra: quando Dante scrive “a la
mia donna”, l’attacco va letto con fonosintassi («“alla” mia
donna» o, più delicatamente, proprio «“a la” mia donna»?).
Tenuto conto di queste specifiche problematiche, abbiamo
voluto fornire comunque (speriamo in modo discreto e
puntuale) gli elementi a nostro parere corretti e imprescin-
dibili di pronuncia.
Sempre per ciò che concerne i raddoppiamenti fonosin-
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Avvertenza 99
tattici, abbiamo messo in atto quanto argomentato nel capi-
tolo 3, par. 2: relativo alla prosodia e alla nostra, particolare
proposta di dividere le frasi in soggetto, avverbio, predicato
verbale, complemento, o semplicemente di avere chiara la
distanza tra proposizioni principali e subordinate. Quindi,
mentre abbiamo segnato il raddoppiamento in frasi come
“tre corsari” (soggetto), o in “ho tolto” (predicato verbale),
non lo abbiamo indicato in “alle tre, corsari miei…” o
“quello che ho, tolto il mio onorario, è…”, laddove le paro-
le accentate concludono la porzione della frase e abbiso-
gnano di una relativa, successiva pausa.
Vale comunque – in ogni caso – il principio della legge-
rezza e sensibilità soggettiva nell’affrontare e rispettare tali
indicazioni: nell’evitare che la nostra dizione venga perce-
pita da chi ci ascolta come artificiosa e forzata e, infine, di
tener conto che – sempre – particolarissime condizioni (le-
gate al tipo di recitazione prescelto, alla personale volontà
interpretativa, o altro) potranno orientare la nostra esecu-
zione in modo più autonomo e personale.
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100 100 monologhi ben pronunciati

Francesco d’Assisi
Cantico di Frate Sole (1223)

Francesco d’Assisi (Assisi, 1182-1226), oltre che santo e pa-


trono d’Italia, è uno dei più alti rappresentanti della spiri-
tualità medievale. La sua biografia (di agiata famiglia,
compie il voto di povertà e fonda un ordine religioso) è in-
trecciata con la sua produzione letteraria, scritta in latino,
francese e volgare italiano, di cui il Cantico rappresenta
uno dei primi, più alti documenti.

Il Cantico è uno dei testi più noti della letteratura italiana,


e pur risentendo – linguisticamente – di antiche influenze
umbre, è facilmente comprensibile. Abbiamo, ne siamo
consapevoli, operato una forzatura: le accentazioni propo-
ste sono infatti indicative e non risolutive. Ciononostante, il
piacere di poter sollecitare una lettura – ad alta voce – di
questo suggestivo lavoro ci ha fatto propendere per una
sua inclusione nel nostro elenco.

Nel testo, a cadenza regolare, compare l’incipit “Laudato


si’…”, quasi un dolce, affettuoso martellare del verso. A ri-
dosso della fine, il respiro della frase si fa invece differen-
te, per aver toccato il punto più critico e straordinario: la
sofferta – e meravigliosa – lode per “la nostra morte corpo-
rale”.
Imp. 100 monologhi 29-01-2008 15:49 Pagina 101

Cantico di Frate Sole 101

A ltissimu, onnipotènte, bòn Signóre,


Tue so’ le laude, la glòria e l’honóre e onne benedict(z)ióne.
Ad Te sólo, Altissimo, se konfàno,
et nullu hòmo ène dignu Te mentovare.
Laudato sie, mi’ Signóre, cum tucte le Tue creature,
spet(z)ialménte messòr lo frate Sóle,
lo quale è jórno, et allumini nói pér lui.
Et ellu è bellu e radiante cum grande splendóre:
de Te, Altissimo, pòrta significat(z)ióne.
Laudato si’, mi’ Signóre, pér sòra Luna e le stélle:
in cèlu l’ài formate clarite et pret(z)ióse et bèlle.
Laudato si’, mi’ Signóre, pér frate Vènto
et pér aere et nubilo et seréno et ónne tèmpo,
pér lo quale a le Tue creature dài sustentaménto.
Laudato si’, mi’ Signóre, pér sòr’Aqua,
la quale è multo utile et umile et pret(z)iósa et casta.
Laudato si’, mi’ Signóre, pér frate Fòcu,
pér lo quale ennallumini la nòcte:
ed éllo è bèllo et iocundo et robustóso et fòrte.
Laudato si’, mi’ Signóre, pér nòstra matre Tèrra,
la quale ne sustènta et govèrna,
et produce divèrsi fructi cón coloriti fióri et hèrba.
Laudato si’, mi’ Signóre, pér quélli ke perdónano pér lo
Tuo amóre et sostèngo(no) infirmitate et tribulat(z)ióne.
Beati quélli ke ‘l sosterranno in pace,
ka da Té, Altissimo, siràno incoronati.
Laudato si’, mi’ Signóre, pér sòra nòstra Mòrte corporale,
da la quale nullu hòmo vivènte po’ skappare:
guai a cquelli ke morràno ne le peccata mortali;
beati quelli ke trovarà ne le Tue sanctissime volutati,
ka la mòrte secunda no ‘l farrà male.
Laudate e benedicéte mi’ Signóre, et rengrat(z)iate
e serviateli cum grande humiltate.
Imp. 100 monologhi 29-01-2008 15:49 Pagina 102

102 100 monologhi ben pronunciati

Lotario Diacono
La vanità dei beni terreni (traduzione dal
latino de, 1280 circa)

Lotario Diacono (al secolo, Lotario dei conti di Segni: Ana-


gni, 1160 – Perugia, 1216), è noto soprattutto con il suo
nome di papa: Innocenzo III. Personaggio controverso (sot-
to il suo comando furono condotte le crociate contro gli Al-
bigesi e gli “infedeli”, ma furono altresì riconosciuti gli or-
dini francescani e domenicani), fu studioso di teologia e
grande teorico della meditazione e della vita ascetica.

La vanità dei beni terreni è un’opera scritta in latino, il cui


titolo in italiano è tradotto con “La miseria della condizione
umana” o con un ancor più netto “Il disprezzo del mon-
do”. Ne emerge, evidentemente, una visione profondamen-
te spirituale, contro ogni illusione umana e materiale. Qui
proponiamo una traduzione anonima del XIII secolo, che
rende ancora più crudo il tono sanguigno e visionario del
testo.

Il monologo è diviso in tre parti tra loro omogenee. Nella


prima, compare una furente ed esaltata sequenza di so-
stantivi; nella seconda, una serie di domande retoriche;
nella terza, una presa d’atto lacerante – che placa ogni pre-
cedente impeto – sulla ineluttabilità della morte.
Imp. 100 monologhi 29-01-2008 15:49 Pagina 103

La vanità dei beni terreni 103

Q uasi tutte le vite de’ mortali sóno piène di peccati


(…). Ripiène d’ógni iniquità, malizia, avarizia, nequi-
zia; pièni d’invidia, omicidio, contenzióne, inganno, mali-
gnità; sussurróni, mormoratóri, in òdio di Dio, pièni di vil-
lanie, supèrbi, gonfiati, inventóri de’ mali, disubidiènti a’
padri, pazzi, nón compósti, sènza affezióne, sènza patti,
sènza misericòrdia. Quésto móndo è ripièno di tali e mól-
to peggióri: abbónda di erètici, di scismatici, di pèrfidi e ti-
ranni, simonìaci, ipòcriti, ambiziósi, cupidi, ladri, rubatóri;
di riscotitóri, violènti, d’usurai, di falsari, d’uòmini crudèli
(…).
O uòmo, tu se’ corruzióne e figliuòlo de’ vèrmini.
Quanto è brutto tuo padre! Quanto è vile la madre! Quan-
to è abominévole la sorèlla! L’uòmo è stato conceputo di
sangue corrótto pér ardóre di libidine, al còrpo mòrto dél
quale niènte di méno e’ vèrmini staranno presènti cóme
còsa mortifera. L’uòmo vivo ha ingenerato e’ pidòcchi e’
bachi; mòrto genererà vèrmini e mósche. (…) Adunque,
qual còsa è più puzzolènte dél còrpo mòrto? Qual còsa è
più spaventévole dell’uòmo mòrto? Lo abbracciaménto di
colui che èra gratissimo in vita, lo aspètto suo sarà terribile
nélla mòrte. Adunque che gióvono le ricchézze? Che gió-
vono le vivande? Che gli onóri?
Imperò che le ricchézze nón libereranno l’uòmo dalla
mòrte; le vivande nón lo difenderanno dai vèrmini; gli
onóri nón lo libereranno dal puzzo. Colui che pòco fa se-
déva glorióso nélla sèdia, óra iace seppellito nélla sepoltu-
ra; colui che pòco innanzi risplendéva ornato nélla casa re-
gale, óra ignudo e brutto nélla tómba. Colui che pòco fa
usava le dilicatézze nélla sala, óra è consumato da’ vèrmini
nélla sepoltura.
Imp. 100 monologhi 29-01-2008 15:49 Pagina 104

104 100 monologhi ben pronunciati

Dante Alighieri
La Vita Nuova (1293)

Dante Alighieri (Firenze, 1265 – Ravenna, 1321) è forse il


poeta più noto e rappresentativo dell’intera storia della let-
teratura italiana. Educato alla retorica e alla scrittura (ar-
ti indispensabili per accedere alle cariche pubbliche), provò
sin da giovane la vocazione verso la poesia, che apprese in
modo autodidatta leggendo i poeti provenzali, quelli sici-
liani e – tra i toscani – le opere di Guittone d’Arezzo, Gui-
nizzelli e Cavalcanti. Arricchito il suo bagaglio poetico e
intellettuale con studi filosofici e linguistici, religiosi, di
cultura classica e politici (nonché poetico-burleschi, allego-
rici e realistici), Dante Alighieri ci ha lasciato opere di stra-
ordinaria importanza, a partire dalla monumentale e in-
superata Divina Commedia.

La composizione della Vita Nuova rappresentò una grande


novità in àmbito poetico. Dante infatti alterna versi a com-
menti retorici, tesi a chiarire il senso delle sue strofe:
aprendo in tal modo un dialogo interiore di grande pro-
fondità col suo lettore. Protagonista dell’opera è Beatrice
(il componimento fu scritto dopo la sua morte), e la sua
apparizione ha il sapore del miracolo.

Le due parti che compongono il testo appaiono a prima vi-


sta differenti: una più didascalica e descrittiva; l’altra più
poetica e trasognata. Eppure, un anelito estasiato e com-
mosso le accomuna e le fonde: mirabilmente.
(“Deven” sta per “diventa”, “diviene”.)
Imp. 100 monologhi 29-01-2008 15:49 Pagina 105

La Vita Nuova 105

Q uésta gentilissima dònna, di cui ragionato è ne le pre-


cedènti paròle, vénne in tanta grazia de le gènti, che
quando passava pér via, le persóne corréano pér vedére
lèi; ónde mirabile letizia me ne giungéa. E quando élla fós-
se prèsso d’alcuno, tanta onestade giungéa nél cuòre di
quéllo, che nón ardia di levare li òcchi, né di rispóndere a
lo suo saluto; e di quésto mólti, sì cóme espèrti, mi po-
trèbbero testimoniare, a chi nón lo credésse. Élla coronata
e vestita d’umilitade s’andava, nulla glòria mostrando di ciò
ch’élla vedéa e udia. Dicéano mólti, pòi che passata èra:
“Quésta non è fémmina, anzi è uno de li bellissimi angeli
dél cièlo”. E altri dicéano: “Quésta è una maraviglia, che
benedétto sia lo Signóre, che sì mirabilménte sae adopera-
re”. Io dico ch’élla si mostrava sì gentile e sì pièna di tutti
li piacéri, che quélli che la miravano comprendéano in ló-
ro una dolcézza onèsta e soave, tanto che ridicere nón lo
sapéano; né alcuno èra lo quale potésse mirare lèi, che nél
principio nól convenisse sospirare. (...) Allóra dissi quésto
sonétto, lo quale comincia: Tanto gentile.
Tanto gentile e tanto onèsta pare
la dònna mia quand’élla altrui saluta,
ch’ógne lingua deven tremando muta,
e l’òcchi no l’ardiscon di guardare.
Èlla si va, sentendosi laudare,
benignaménte d’umiltà vestuta;
e par che sia una còsa venuta
da cièlo in tèrra a miracol mostrare.
Móstrasi sì piacènte a chi la mira
che dà pér li òcchi una dolcézza al còre,
che ‘ntènder nón la può chi no la pròva:
e par che de la sua labbia si mòva
un spirito soave pièn d’amóre,
che va dicèndo a l’anima: Sospira.
Imp. 100 monologhi 29-01-2008 15:49 Pagina 106

106 100 monologhi ben pronunciati

Immanuel Romano
La frottola di “Bisbidis” (1320)

Immanuel Romano (Roma, 1265 circa – Fermo, 1330 cir-


ca) è poeta di origine ebrea. Grande ammiratore di Dante
e della Commedia (a cui si rifece per la sua più importante
opera in lingua ebraica), soggiornò in numerose città ita-
liane, maturando uno stile poetico originale e moderno. Ci
ha lasciato quattro sonetti in volgare, il più famoso dei
quali è senz’altro La frottola di “Bisbidis”.

La “frottola” (un tipico componimento “scherzoso”) è dedi-


cata al signore di Verona, Cangrande della Scala. Del qua-
le, soprattutto attraverso onomatopee e sperimentazioni
linguistiche, vengono narrate le magnificenze e le ricchez-
ze: materiali e culturali.
[“chi’n pian vol sonare” sta per “suonare in pianura”; “ghiri-
bare” vuol dire “suonare il caribo” (cioè una canzone a
ballo), per “fugare” si intende “fuggire”, “darsi alla fuga”.
“Bisbidis” è invece, molto probabilmente, il suono del bru-
sio e del parlottare: allegro e positivo.]

In una struttura chiaramente elencativa, la “frottola” mani-


festa una sua tensione ludica e giocosa: quasi l’autore si
proponga – lui stesso – come incantato testimone delle
sorprese e delle meraviglie descritte.
Imp. 100 monologhi 29-01-2008 15:49 Pagina 107

La frottola di “Bisbidis” 107

D él móndo ho cercato – pér lungo e pér lato / un caro


mercato – pér tèrra e pér mare. (…) / Di quél ch’ag-
gio intéso – veduto e compréso, / mi sóno óra accéso – a
volérlo contare; (…) /
Baróni e marchési – dé tutti i paési, / gentili e cortési –
qui védi arrivare; / quivi Astrologia – cón Filosofia / e di
Teologia – udrai disputare; / e quivi Tedéschi, – Latini e
Francéschi, / Fiamménghi e Inglechéschi – insième parlare;
/ e fanno un trombómbe, – che par che rimbómbe / a
guisa di trómbe, – chi ‘n pian vòl sonare. / Chitarre e liùte,
– viòle e flaùte / vóci alt’e argute – qui s’òdon cantare. /
Stututù ifiù ifiù ifiù – stututù ifiù ifiù ifiù / stututù ifiù
ifiù ifiù – tamburar, zufolare. E qui, bòn cantóri – cón into-
natóri / e qui, trovatóri – udrai concordare. / Quivì si ritrò-
va – mangiatóri a pròva, / che par còsa nòva – a vedérli
golare. / Intarlatìn – intarlatìn / intarlatìn – ghiribare e dan-
zare. /
Li falcóni cui cui – li bracchétti gu gu / li levrièri guuu
uu – pér volérsi sfugare. / E qui falconièri – maèstri e scu-
dièri, / ragazzi e corrièri, – ciascun pér sé andare. / E
quanto e quanto – e quanto e quanto / e quanto e quanto
– li védi spazzare. / E l’uno va su – e l’altro vèn giù; / tal
dònna vèn giù, – nón lassa passare. / Bis bis bis, – bisbidis
bisbidis, / bisbisbidis – udrai consigliare. /
E qui babbuini, – Romèi e pellegrini / Giudèi e Saraci-
ni – vedrai capitare. / Tatìm tatìm, tatìm tatìm, / tatìm tatìm,
– sènti strombettare. / Balaùf balaùf – balaùf balaùf, / ba-
laùf balaùf – udrai tringuigliare. / Di giù li cavalli, di su i
pappagalli / su la sala i balli, – insième operare. / Dududù
dududù – dududù dududù / dududù dududù, – sentirai
naccherare.
Imp. 100 monologhi 29-01-2008 15:49 Pagina 108

108 100 monologhi ben pronunciati

Francesco Petrarca
Voi ch’ascoltate in rime sparse il suono
(1350 circa)

Francesco Petrarca (Arezzo, 1304 – Arquà, 1374) è uno


dei poeti più importanti dell’intera storia letteraria italiana.
Fu costretto dagli eventi storici e famigliari a spostarsi, sin
dalla tenera età, in molte corti e città (tra cui Milano, Ro-
ma, Padova, Firenze, Venezia). Ad Avignone, dove risie-
dette a lungo, poté affinare i suoi studi classici e misurarsi
con la più alta sensibilità provenzale: in una sintesi poeti-
ca che è ricca di spiritualità, filosofia, cultura.

Voi ch’ascoltate in rime sparse il suono costituisce il proe-


mio – cioè la solenne introduzione – del Canzoniere del
Petrarca: la sua opera poetica in volgare (la maggior parte
dei testi fu invece scritta in latino) più bella e famosa. Il
Canzoniere è in realtà un bilancio – in parte amaro – della
vita del poeta: Petrarca valuta i suoi versi come disordinati
(sono “rime sparse”), la sua vita (di cui “medesmo meco
mi vergogno”) potrà riscattarsi solo grazie a una profonda,
filosofica meditazione.

Nella strofa proposta (soprattutto nella sua parte iniziale),


segnaliamo la ricchezza di digressioni e proposizioni inci-
dentali: quasi un bisogno – in itinere – di dare ai lettori il
maggior numero di informazioni. Un desiderio di sincerità
e complicità che solo la purezza del sentimento non ha ti-
more di rivelare.
Imp. 100 monologhi 29-01-2008 15:49 Pagina 109

Voi ch’ascoltate in rime sparse il suono 109

V ói ch’ascoltate in rime sparse il suòno


di quéi sospiri ónd’io nudriva ‘l còre
in sul mio primo giovenìle erróre
quand’èra in parte altr’uòm da quél ch’i’ sóno,
del vario stile in ch’io piango e ragióno
fra le vane speranze e ‘l van dolóre,
óve sia chi pér pròva intènda amóre,
spèro trovar pietà, nonché perdóno.
Ma bèn véggio ór sì cóme al pòpol tutto
favola fui gran tèmpo, ónde sovènte
di me medésmo méco mi vergógno;
e dél mio vaneggiar vergógna è ‘l frutto,
e ‘l pentérsi, e ‘l conóscer chiaraménte
che quanto piace al móndo è brève sógno.
Èra il giórno ch’al sól si scoloràro
per la pietà dél suo fattóre i rai,
quand’i’ fui préso, e nón me ne guardai,
ché i bè’ vòstr’òcchi, dònna, mi legàro.
Tèmpo nón mi paréa da far riparo
cóntra cólpi d’Amór: però m’andai
secur, sènza sospètto; ónde i mièi guai
nél commun dolór s’incominciàro.
Trovòmmi Amór dél tutto disarmato
éd apèrta la via pér gli òcchi al còre,
che di lagrime són fatti uscio e varco:
però al mio parér nón li fu onóre
ferir me de saétta in quéllo stato,
a vói armata nón mostrar pur l’arco.
Imp. 100 monologhi 29-01-2008 15:49 Pagina 110

110 100 monologhi ben pronunciati

Giovanni Boccaccio
Guiscardo e Ghismunda (1351 circa)

Giovanni Boccaccio (Firenze, o Certaldo, 1313 – Certaldo,


1375). dopo la fanciullezza, visse a Napoli per quasi quin-
dici anni, formando le sue esperienze (di studio e di vita)
in una città vitalissima e ricca di legami con l’intero Medi-
terraneo: crocevia di avventurieri, marinai, mercanti.
Contemporaneamente, la sua posizione sociale (il padre
era un importante uomo d’affari) gli permise di frequenta-
re gli ambienti più borghesi e “cortesi” cittadini. Studiò di-
ritto canonico, e parallelamente (da autodidatta) la poesia,
soprattutto quella di Dante e Petrarca. Quando sarà co-
stretto (per ragioni economiche famigliari) a ritornare a
Firenze, subirà una profonda trasformazione, più intima e
religiosa. In questi anni scriverà il suo capolavoro (Il Deca-
meron) e avvierà un importante carteggio con il suo mae-
stro più alto, Petrarca.

Guiscardo e Ghismunda (e il padre di quest’ultima, il prin-


cipe – “prenze” – Tancredi) sono i protagonisti della quarta
giornata, prima novella, del Decameron. Padre e figlia, en-
trambi vedovi, vivono insieme una vita serena e agiata. Ma
il desiderio – anche fisico – della donna la porta a innamo-
rarsi di un “uom di nazione” (cioè di nascita) “umile”, ma
“per vertù e per costume, nobile”. Il finale della novella
porta una nota di tragico sapore nella struttura, complessi-
vamente giocosa, del Decameron.

Una vena duplice attraversa l’intera descrizione: erotica,


sensuale ma allo stesso tempo fatalmente malinconica.
Imp. 100 monologhi 29-01-2008 15:49 Pagina 111

Guiscardo e Ghismunda 111

È ra costèi bellissima dél còrpo e dél viso quanto alcuna


altra fémina fósse mai, e gióvane e gagliarda e savia
più che a dònna pér avventura nón si richiedéa. E dimo-
rando cól tènero padre, sì cóme gran dònna, in mólte deli-
catézze, e veggèndo che il padre, pér l’amóre che égli le
portava, pòca cura si dava di più maritarla, né a lèi onèsta
paréva il richièdernelo, si pensò di volér avére, se èsser
potésse, occultaménte un valoróso amante.
E veggèndo mólti uòmini nélla córte dél padre usare,
gentili e altri, sì cóme nói veggiamo nélle córti, e conside-
rate le manière e’ costumi di mólti, tra gli altri un gióvane
vallétto dél padre, il cui nóme èra Guiscardo, uòm di na-
zióne assai umile ma pér virtù e pér costumi nòbile, più
che altro le piacque, e di lui tacitaménte, spésso vedèndo-
lo, fieraménte s’accése, ognóra più lodando i mòdi suòi. E
il gióvane, il quale ancóra nón èra avveduto, essèndosi di
lèi accòrto, l’avéva pér sì fatta manièra nél cuòr ricevuta,
che da ógni altra còsa quasi che da amar lèi avéva la mén-
te rimòssa. (…)
(Ghismunda, un giórno,) faccèndo sembianti di volér
dormire, mandate via le damigèlle e sóla serratasi nélla ca-
mera, apèrto l’uscio nélla gròtta discése, dóve, trovato
Guiscardo, insième meravigliosaménte si dimorarono; e
dato discréto órdine alli lóro amóri acciò che segréti fósse-
ro, tornatosi nélla gròtta Guiscardo, e élla, serrato l’uscio,
alle sue damigèlle se ne vénne fuòri. Guiscardo pòi la nòt-
te veggènte, su per la sua fune saglièndo, pér lo spiraglio
dónde èra entrato se n’uscì fuòri e tornòssi a casa; e avèn-
do quésto cammino appréso più vòlte pòi in procèsso di
tèmpo vi ritornò.
Ma la fortuna, invidiósa di così lungo e di così gran di-
lètto, cón doloróso avveniménto la letizia de’ due amanti
rivòlse in tristo pianto.
Imp. 100 monologhi 29-01-2008 15:49 Pagina 112

112 100 monologhi ben pronunciati

Luigi Pulci
Il Morgante (1478 circa)

Luigi Pulci (Firenze, 1432 – Padova, 1484) fu uno scrittore


irriverente, passionale e incline alla parodia e allo scherno,
anche letterario. Per anni fu legato da amicizia con il gio-
vane Lorenzo de’ Medici, ma questi – avvicinatosi nel corso
del tempo a maestri dalla forte tensione religiosa – progres-
sivamente lo allontanò dalla corte. Pulci lasciò Firenze e,
proprio per questa sua istanza di strenua “eterodossia”, al
momento della morte, sospettato di magia ed eresia, fu se-
polto in terra sconsacrata.

Il Morgante riprende i temi più noti delle leggende carolin-


ge (la battaglia contro gli “infedeli”, le gesta di Orlando e
la sua morte a Roncisvalle), arricchendole di temi moltepli-
ci: situazioni grottesche ed estreme, viaggi tra Asia e Africa,
incontri favolosi. Protagonista della storia è Morgante: un
gigante che, catturato da Orlando, si converte alla fede cri-
stiana e lo segue, bizzarro e incontrollato. Margutte è inve-
ce un suo compagno di avventure: un “mezzo” gigante fur-
bo e spregiudicato, amante della birra (la cervogia) e del
vino (e il suo succo: il mosto). Preferisce inoltre l’“aspro” al
“mangurro”, parole che a quei tempi indicavano due mo-
nete turche: la prima d’argento, la seconda di rame. Ma
aspro è, ancora una volta, il vino; e quindi Macometto
(cioè Maometto), che lo vieta, è solo un sogno o un fanta-
sma “inconsistente”.

D isse Morgante: – tu sia il bèn venuto:


ècco ch’io a(v)rò pure un fiaschétto a lato,
che da due giórni in qua nón ho be(v)uto;
Imp. 100 monologhi 29-01-2008 15:49 Pagina 113

Il Morgante 113
e se cón méco sarai accompagnato,
io ti farò a camin quél che è dovuto.
Dimmi più óltre: io nón t’ho domandato
se se’ cristiano o se se’ saracino
o se tu credi in Cristo o in Apollino –.
Rispóse allór Margutte: – A dirtel tòsto,
io nón crédo più al néro ch’a l’azzurro,
ma nel cappóne, o lésso o vuogli arròsto;
e crédo alcuna vòlta anco nél burro,
nélla cervògia e, quando io n’ho, nél mósto,
e mólto più nell’aspro che il mangurro;
ma sópra tutto nél buòn vino ho féde,
e crédo che sia salvo chi gli créde.
E crédo nélla tórta e nél tortèllo:
l’uno è la madre e l’altro è il suo figliuòlo;
e ‘l véro paternòstro è il fegatèllo,
e pòsson èsser tré, due éd un sólo,
e diriva dal fégato almén quéllo.
E perch’io vorrèi bér cón un ghiacciuòlo,
se Macométto il mósto vièta e biasima,
crédo che sia il sógno o la fantasima; (…)
S’tu mi vedéssi in chièsa sólo,
io són più vago di spogliar gli altari
che ‘l mésso di contado dél paiòlo;
pòi córro alla cassétta de’ denari;
ma sèmpre in sagrestia fo il primo vólo,
e se v’è cróce o calici, io gli ho cari,
e’ crocefissi scupro tutti quanti,
pòi vo spogliando le Nunziate e’ santi. (…)
Io t’ho lasciato indrièto un gran capitolo
di mille altri peccati in guazzabuglio;
ché s’i’ voléssi lèggerti ogni titolo,
e’ ti parrèbbe tròppo gran miscuglio;
e cominciando a sciòrre óra il gomitolo,
ci sarèbbe faccènda sino a luglio;
salvo che quésto, alla fine, udrai:
che tradiménto ignun nón féci mai –.
Imp. 100 monologhi 29-01-2008 15:49 Pagina 114

114 100 monologhi ben pronunciati

Lorenzo de’ Medici


Canzona a Bacco (1480 circa)

Lorenzo de’ Medici (detto “il Magnifico”, Firenze, 1449


–1492), fu signore di Firenze per oltre vent’anni: e proprio
grazie alla sua abilità politica e diplomatica fece godere al-
la città (e non solo) un periodo di pace ed equilibrio socia-
le. Educato alla cultura classica dai più famosi umanisti
del tempo, Lorenzo fu poeta versatile e curioso, autore di
opere religiose, filosofiche, ma anche puramente ludiche e
giocose.

La Canzona a Bacco (altrimenti nota come Trionfo di Bac-


co e Arianna) fa parte della produzione ludica di Lorenzo,
e più in particolare della sua raccolta Canti carnasciale-
schi, cantati e musicati soprattutto durante il periodo di
carnevale. Questa “canzona” però, accanto alla gioia del-
l’immediatezza e del piacere, lascia emergere la lucida con-
sapevolezza della costitutiva precarietà della vita umana.

Tutte le strofe sono segnate da una estroversa e orgogliosa


cantabilità. E l’insistente ripetitività del verso finale di ogni
strofa (“chi vuol esser…”) sembra lanciare un monito: di
urgenza e immanenza.
Imp. 100 monologhi 29-01-2008 15:49 Pagina 115

Canzona a Bacco 115

Q uant’è bèlla giovinézza, / che si fugge tuttavia!


Chi vuòl èsser lièto, sia: / di doman nón c’è certézza.
Quést’è Bacco e Arìanna / bèlli, e l’un déll’altro ardènti:
perché ‘l tèmpo fugge e inganna, / sèmpre insième stan
contènti. Quéste ninfe ed altre gènti / sóno allegre tuttavia.
Chi vuol èsser lièto, sia: / di doman nón c’è certézza.
Quésti lièti satirétti, / délle ninfe innamorati,
pér cavèrne e per boschétti / han lór pósto cènto agguati;
ór, da Bacco riscaldàti, ballon, salton tuttavia.
Chi vuòl èsser lièto, sia: / di doman nón c’è certézza.
Quéste ninfe anche hanno caro / da lór èssere ingannate:
nón può fare a Amór riparo / se nón gènte rózze e ingrate:
óra, insième mescolate, suònon, cànton tuttavia.
Chi vuòl èsser lièto, sia: / di doman nón c’è certézza.
Quésta sòma, che vièn drièto / sópra l’asino, è Silèno:
così vècchio, è ebbro e lièto, / già di carne e d’anni pièno;
se nón può star ritto, alméno / ride e gòde tuttavia.
Chi vuòl èsser lièto, sia: / di doman nón c’è certézza.
Mida vièn drièto a costóri: / ciò che tócca, òro divènta.
E che gióva avér tesòro, / s’altri pòi nón si contènta?
Che dolcézza vuòi che sènta / chi ha séte tuttavia?
Chi vuòl èsser lièto, sia: / di doman nón c’è certézza.
Ciascun apra bèn gli orécchi, / di doman nessun si paschi,
òggi siàn, gióvani e vècchi, lièti ognun, fémmine e maschi;
ógni tristo pensièr caschi: / facciam fèsta tuttavia.
Chi vuòl èsser lièto, sia: / di doman nón c’è certézza.
Dònne e giovinétti amanti, / viva Bacco e viva Amóre!
Ciascun suòni, balli e canti! / Arda di dolcézza il còre!
Nón fatica, nón dolóre! / Ciò c’ha a èsser, convièn sia.
Chi vuòl èsser lièto, sia: / di doman nón c’è certézza.
Imp. 100 monologhi 29-01-2008 15:49 Pagina 116

116 100 monologhi ben pronunciati

Angelo Ambrogini detto Il Poliziano


Canzoni a ballo (1480 circa)

Angelo Ambrogini (meglio noto come il “Poliziano”, Monte-


pulciano, 1454 – Firenze, 1494), è il più grande poeta del
Quattrocento italiano. Profondo conoscitore delle lingue
classiche, fu autore di opere in greco e latino, nonché do-
cente di eloquenza. Fu anche poeta “volgare” e filologo: un
impegno, quest’ultimo, portato avanti con rigore scientifico,
spirito laico e moderno.

Quella che qui proponiamo è la quarta delle cinque “can-


zoni a ballo” scritte da Poliziano nei suoi anni giovanili.
Nel testo emerge con chiarezza la felicissima duplicità del-
l’abilità del poeta: un ritmo fresco, popolare, semplice, uni-
to a una padronanza raffinata e straordinaria della lettera-
rietà classica. Sullo sfondo, una primavera sensuale e gio-
cosa (e un invito, alle donne, a restituire i cuor “furati”,
cioè rubati: ad abbandonarsi all’amore).

La canzone di Poliziano, ricca di doppi sensi e allusioni


erotiche, sembra chiedere una esecuzione “sfacciata” e li-
bera: capace di ogni lusinga (voce sferzante, soffiata, am-
miccante, gioiosa) pur di sollecitare all’atto d’amore i pro-
pri ascoltatori (meglio: le proprie “ascoltatrici”).
Imp. 100 monologhi 29-01-2008 15:49 Pagina 117

Canzoni a ballo 117

B èn vènga maggio / e ‘l gonfalón selvaggio!


Bèn vènga primavèra / che vuòl l’uòm s’innamóri
E vói, donzèlle a schièra /cón li vòstri amadóri
che di ròse e di fióri / vi fate bèlle il maggio.
Venite alla frescura / délli vérdi arboscèlli:
ógni bèlla è sicura / tra tanti damigèlli;
ché le fière e gli uccèlli / ardon d’amóre il maggio.
Chi è gióvane e bèlla / dèh, nón sie punto acèrba,
ché nón si rinnovèlla / l’età cóme fa l’èrba:
nessuna stia supèrba / all’amadóre il maggio.
Ciascun balli e canti / di quésta schièra nòstra.
Ecco che i dólci amanti / van pér vói, bèlle, in giòstra:
qual dura a lór si móstra / farà sfiorire il maggio.
Pér prènder le donzèlle / si són gli amanti armati.
Arrendétevi, bèlle / a’ vòstri innamorati;
rendéte e’ cuòr furati, / nón fate guèrra il maggio.
Chi l’altrui còre invóla / ad altrui dóni él còre.
Ma chi è quél che vóla? E’ l’angiolèl d’amóre,
che viène a fare onóre / cón vói, donzèlle, al maggio.
Amór ne vièn ridèndo / cón ròse e gigli in tèsta,
e vièn di vói caèndo. / Fategli, o bèlle, fèste.
Qual sarà la più prèsta / a dargli e’ fiór dél maggio?
Bèn vènga il peregrino. / Amór, che ne comandi?
Che al suo amante il crino / ógni bella ingrillandi;
ché le zitèlle e grandi / s’innamóran di maggio.
Imp. 100 monologhi 29-01-2008 15:49 Pagina 118

118 100 monologhi ben pronunciati

Iacopo Sannazaro
L’Arcadia (1504)

Iacopo Sannazaro (Napoli, 1457-1530) è una delle espres-


sioni più colte e raffinate della corte aragonese rinascimen-
tale. Con il trionfo e la successiva dominazione spagnola,
condusse vita ritirata e isolata, rafforzando la sua tensione
meditativa e spirituale. Precorse, e il suo linguaggio ne è
evidente, la riforma “fiorentina” proposta dal Bembo. Scris-
se anche opere in latino, in cui sono chiarissime le vici-
nanze con Lucrezio, Orazio e, soprattutto, Virgilio.

L’Arcadia – così come La Vita Nuova di Dante – è un com-


ponimento che intervalla poesia e prosa: liriche e riflessio-
ni filosofiche ed etiche. I protagonisti – soprattutto pastori
– sono interni a una natura incontaminata: parlano di amo-
re con un linguaggio aulico ma mai forzato. Proprio questo
equilibrio garantì una fortuna altissima all’opera, tra le più
lette in Europa fino al tardo 1600. In questo proemio viene
sviluppato il confronto tra la natura selvaggia (e pura) e
quella modellata dagli uomini, più artificiosa. Allo stesso
modo, i suoni dei pastori sono valutati più gradevoli delle
complicate strofe dei poeti.

L’intonazione è chiaramente didattica e persuasiva: quasi


una lezione raffinata sulla bellezza della natura e sui rischi
derivati da un suo forzato abbellimento. Ma, all’interno
della pagina, emerge una ricerca misurata del lessico teso a
toccare un perfetto equilibrio sonoro: quasi bisognosa – la
pagina – di una lettura lenta, “parola per parola” delle frasi
adoperate dall’autore.
Imp. 100 monologhi 29-01-2008 15:49 Pagina 119

L’Arcadia 119

S ògliono il più délle vòlte gli alti e spaziósi alberi negli


òrridi mónti délla natura produtti, più che le coltivate
piante da dòtte mani espurgate négli adórni giardini (…).
Pér la qual còsa ancóra (sì cóme io stimo) addiviène
che le silvèstre canzóni vergate ne li ruvidi cortécci de’ fag-
gi dilèttino nón méno a chi lègge, che li cólti vèrsi scritti
ne le rase carte dégli indorati libri; e le incerate canne de’
pastóri pórgano pér le fiorite valli più piacévole suòno,
che li tèrsi e pregiati bòssi de’ musici pér le pompóse ca-
mere nón fanno.
E chi dubita che più nón sia a le umane ménti aggra-
dévole una fontana che naturalménte èsca da le vive piè-
tre, attorniata di vérdi erbétte, che tutte le altre ad arte fatte
di bianchissimi marmi, risplendènti pér mólto òro?
Cèrto, che io créda, niuno. Dunque, in ciò fidandomi,
potrò bèn io tra quéste desèrte piagge agli ascoltanti albe-
ri, et a quéi pòchi pastóri che vi saranno, racontare le
rózze Ecloghe da naturale véna uscite, così di ornaménto
ignude esprimèndole cóme sótto le dilettévoli ómbre, al
mormorio de’ liquidissimi fónti, da’ pastóri d’Arcadia le
udii cantare, a le quali, nón una vòlta ma mille, i montani
Idii, da dolcézza vinti, prestarono intènte orécchie, e le tè-
nere ninfe, dimenticate di perseguire i vaghi animali, la-
sciarono le farètre e gli archi appiè dégli alti pini…
Imp. 100 monologhi 29-01-2008 15:49 Pagina 120

120 100 monologhi ben pronunciati

Niccolò Machiavelli
La Mandragola (1518)

Niccolò Machiavelli (Firenze, 1469-1527) trascorre i suoi


primi anni di vita, intellettuale e professionale, intento a
comprendere meccanismi storici e psicologici dell’arte poli-
tica. Soltanto nel 1512 è costretto, suo malgrado, a vivere
in modo più appartato e solitario. E così perfeziona e com-
pleta molte opere di storia – in cui emerge un’analisi laica
e moderna delle dinamiche politiche e militari –, e comin-
cia a scrivere i suoi testi teatrali più noti. Tra questi (desti-
nato a incontrare sùbito un vastissimo successo) La Man-
dragola.

Lucrezia è la bellissima moglie di Nicia, uomo sciocco e


borioso. Callimaco se ne innamora e per conquistarla ap-
profitta della insoddisfazione di Nicia, impossibilitato ad
avere figli. Con l’aiuto spregiudicato di un amico e di un
prete, persuade Nicia a far bere alla moglie un misterio-
so intruglio (a base di erba mandragola); e poiché (così
gli spiega) il primo uomo che la possederà perderà la vita,
fa in modo di essere lui stesso (travestitosi da vagabondo)
ad accoppiarsi con lei. Diventandone, evidentemente,
l’amante.

Siamo nella parte centrale del testo, e Callimaco è impe-


gnato in due registri vocali: il dialogo con Ligurio e la ri-
produzione delle frasi dell’amante Nicia. Ma, al termine del
monologo, emerge un terzo registro: più estatico e intro-
verso.
Imp. 100 monologhi 29-01-2008 15:49 Pagina 121

La Mandragola 121

C allimaco: Cóme io t’ho détto, Ligurio mio, io stètti di


mala vòglia insino alle nòve óre: e benché io avéssi
grande piacére e’ nón mi parve buòno.
Ma pòi che io me le fu’ dato a conóscere e che io l’èb-
bi dato ad intèndere l’amóre che le portavo, e quanto facil-
ménte pér la semplicità dél marito nói potavàno vivere fe-
lici sanza infamia alcuna, promettèndole che qualunque
vòlta Dio facéssi altro di lui di prènderla pér dònna: éd
avèndo élla, óltre alle vére ragióni, gustato che differènza
è délla giacitura mia a quélla di Nicia, e da e baci d’uno
amante gióvane a quélli d’uno marito vècchio, dóppo
qualche sospiro disse: – Pòiche l’astuzia tua, la sciocchéz-
za dél mio marito, la semplicità di mia madre e la tristizia
dél mio confessóro mi hanno condótta a fare quéllo che
mai pér me medésima arèi fatto, io voglio iudicare che e’
vènga da una celèste disposizióne che abbi voluto così, e
nón sóno sufficiènte a recusare quéllo che ‘l cièlo vuole
che io accetti.
Però io ti prendo pér signóre, padróne, guida; tu mio
padre, tu mio defensóre, e tu vòglio che sia ógni mio bè-
ne; e quéllo che ‘l mio ha voluto pér una séra, vòglio
ch’abbia sèmpre. Fara’ti adunque suo compare, e verrai
quésta mattina alla chièsa, e di quivi ne verrai a desinare
cón ésso nói; e l’andare e lo stare starà a te, e potrémo ad
ógni óra e sanza sospètto convenire insième. –
Io fui, udèndo quéste paròle, pér morirmi pér la dol-
cézza. Nón potètti rispóndere alla minima parte di quéllo
che io arèi desiderato. Tanto che io mi tròvo el più felice e
contènto uòmo che fussi mai nél móndo, e se quésta feli-
cità nón mi mancasse o pér mòrte o pér tèmpo, io sarèi
più beato ch’e beati, più santo ch’e santi.
Imp. 100 monologhi 29-01-2008 15:49 Pagina 122

122 100 monologhi ben pronunciati

Pietro Bembo
Prose della volgar lingua (1525)

Pietro Bembo (Venezia, 1470 – Roma, 1547) fu uomo poli-


tico ma soprattutto letterato e cultore della lingua volgare.
Visse tra Venezia, Ferrara, Messina, Urbino, Roma e Pado-
va, e ricoprì a lungo la carica di cardinale; studiò latino e
greco; compose opere poetiche e storiche in latino e fu pro-
pugnatore autorevole dell’uso – a livello nazionale – della
lingua fiorentina: che si rifacesse non tanto al fiorentino a
lui contemporaneo, bensì a quello più classico e meditato
del Trecento, soprattutto del Petrarca.

Le Prose della volgar lingua è un trattato in cui si immagi-


nano i dialoghi – coltissimi e raffinati – tra Giuliano de’
Medici, Carlo Bembo (fratello di Pietro) e due monsignori:
Ercole Strozza e Federico Fregoso. I temi affrontati toccano
le differenze tra scritto e parlato, tra latino e volgare, e, so-
prattutto, tra i differenti “volgari” parlati nell’Italia del tem-
po. Ne viene fuori la necessità di valorizzare la lingua
“pensata” (cioè scritta) dai poeti più eccellenti, nonché l’at-
tenzione che ogni scrittore dovrà dedicare alla disposizio-
ne dei suoni, nella scelta di vocali, consonanti, accenti.

Le lettere dell’alfabeto (che consigliamo di pronunciare


senza l’aggiunta delle vocali, “l” e non “elle”, etc.) diventa-
no le protagoniste delle pagine di Bembo. La descrizione,
tutta astratta e delicata, si impegna a individuare con cura
gli aggettivi più adatti e consoni: da restituire, nella lettura,
alla loro più elegante ricercatezza.
Imp. 100 monologhi 29-01-2008 15:49 Pagina 123

Prose della volgar lingua 123

D ilicata e piacevolissima è la L, e di tutte le sue


compagne lèttera dolcissima. Allo ‘ncóntro la R àspera
ma di generóso spirito. Di mezzano pòi tra quéste due la
M e la N, il suòno délle quali si sènte quasi lunato e cor-
nuto nélle paròle.
Alquanto spésso e pièno suòno apprèsso rènde la F.
Spésso medesimaménte e pièno, ma più prónto il G. Di
quélla medésima e spessézza e prontézza è il C, ma più
impedito di quést’altri. Puri e snèlli e ispediti pòi sóno il B
e il D.
Snellissimi e purissimi il P e il T, e insième ispeditissi-
mi. Di pòvero e mòrto suòno, sópra gli altri tutti, ultima-
ménte è il Q; e in tanto più ancóra maggiorménte, che
egli, sènza la U che ‘l sostènga, nón può avér luògo. La H,
perciò che nón è lèttera, pér sé medésima niènte può; ma
giugne solaménte pienézza e quasi pólpa alla lèttera, a cui
élla in guisa di servènte sta accanto.
Conosciute óra quéste fòrze tutte délle lèttere, tórno a
dire, che secondaménte che ciascuna vóce le ha in sé, così
élla è óra grave, óra leggièra, quando aspera, quando mòl-
le, quando d’una guisa e quando d’altra; e quali sóno pòi
le guise délle vóci, che fanno alcuna scrittura, tale è il suò-
no, che dél mescolaménto di lóro èsce o nélla pròsa o nél
vèrso, e talóra gravità gènera e talóra piacevolézza.
Imp. 100 monologhi 29-01-2008 15:49 Pagina 124

124 100 monologhi ben pronunciati

Ludovico Ariosto
Il Negromante (1528 circa)

Ludovico Ariosto (Reggio Emilia, 1474 – Ferrara, 1533) al-


ternò alla sua produzione artistica un discontinuo impe-
gno diplomatico. La sua occupazione primaria e perma-
nente fu però quella di “organizzatore di spettacoli”, e c’è
chi lo propone come il fondatore – a Ferrara – del primo
teatro stabile italiano dell’età moderna. Per poter seguire la
sua vocazione artistica (e seguire la lunghissima opera di
stesura dell’ Orlando Furioso), Ariosto predilesse uno stile
di vita sereno e appartato, conscio di sacrificare in tal mo-
do ogni carriera politica e istituzionale.

Nella Cremona del tempo, i problemi d’amore (fisici, oltre


che affettivi) vengono risolti anche con l’aiuto di un “ne-
gromante”: un uomo – così lui si propone – esperto di ma-
gia e psicologia. Ci va Massimo, perché suo figlio si dichia-
ra (si finge) impotente; lo consulta Cintio, che vuole sepa-
rarsi da sua moglie Emilia; e vi si reca anche Camillo, che
spera invece a tutti i costi di conquistare Emilia. Il Negro-
mante tenterà di truffare i suoi pazienti; ma se i problemi
di questi ultimi si risolveranno, il furbo Negromante sarà
invece costretto a fuggire dalla vivacissima Cremona. Nel
monologo, il Negromante parla di “elitròpia” (la pietra ma-
gica che dona l’invisibilità) e della necessità di sacrarla
(cioè consacrarla magicamente).

Siamo nella prima parte dell’opera e il Negromante – traco-


tante e spavaldo nel suo imbonimento – individua un im-
probabile registro scientifico (a metà tra il medico e lo psi-
cologico) teso a circuire i suoi clienti: con un’intonazione
necessariamente enfatica e coinvolgente.
Imp. 100 monologhi 29-01-2008 15:49 Pagina 125

Il Negromante 125

I l Negromante: Són cènto mòdi facili


da mandarvi sicur. Vi farò prèndere
fórma, s’io vòglio, d’un cane dimèstico
o di gatto. Ór che diréste, vedèndovi
trasformare in un tòpo che è sì piccolo? (…)
Cangiar vi pòsso in quante varie spècie
són d’animali, e farvi indi rassumere
la pròpria fórma: vi pòsso invisibile
mandar. Ma, udite: potréste, volèndovi
mutar in carne o in gatto, guadagnàrvene
qualche mazzata, e nél tèmpo più còmmodo
vói saréste cacciato de la camera. (…)
Invisibil pér cèrto; ma dissimileménte
da quél che pensate. Volèndovi
mandar a mòdo, che dite, invisibile,
trovar bisognerèbbe una elitròpia;
et a sacrarla, et a métterla in órdine,
cóme si dèbbe, nón abbiamo spazio.
Ma serbando gl’incanti quando siano
più di bisógno, ho pensato che chiudere
vi farò in una cassa, e ne la camera
di lèi portar; e a tutti darò a intèndere
che quélla cassa sia pièna di spiriti;
sì che nón sarà alcun che d’appressàrsele
ardisca a quattro braccia…
Imp. 100 monologhi 29-01-2008 15:49 Pagina 126

126 100 monologhi ben pronunciati

Pietro Aretino
Dialogo della Nanna e della Pippa (1530 circa)

Pietro Aretino (Arezzo, 1492 – Venezia, 1556), figlio di un


umile calzolaio, grazie alla originalità e sagacia dei suoi
scritti, frequentò e fu ospite delle personalità (artistiche,
istituzionali e politiche) più prestigiose del periodo. Cantore
della sensualità e della carnalità, non ebbe timore di toc-
care questi temi anche con toni licenziosi e osceni, voluta-
mente scandalosi. Spesso il suo bersaglio privilegiato fu la
Chiesa, con la sua veste più ipocrita e perbenista.

Il Dialogo della Nanna e della Pippa è diviso in tre giorna-


te: nella prima, la Nanna insegna “a la sua figliuola Pippa
l’arte puttanesca”; nella seconda, le racconta “i tradimenti
che fanno gli uomini a le meschine che gli credano”; nella
terza, Nanna e Pippa ascoltano una comare e la balia che
“ragionano de la ruffianìa”. Nella pagina che presentiamo,
alcune parole e locuzioni sono ovviamente un po’ arcaiche
o locali: “a staffetta” vuol dire “di corsa”; “allotta”, “pocce”,
“ceffo” significano rispettivamente “allora”, “seni”, “faccia”.
La “monina” sottintende qui i genitali femmnili, mentre le
“mostacciatine” sono “piccoli schiaffetti”.

La spiegazione, pur nella volgarità dei rimandi, è pura ten-


sione educativa: didascalica e pedagogica.

N anna: Pòi, méntre égli si corcarà a staffétta, vatti


spogliando pian piano, e mastica qualche parolina
fra te stéssa mescolandola cón alcun sospiro: pér la qual
còsa sarà di necessità che (lui) ti dimandi, nél tuo entrargli
allato: «Di che sospiravate vói, anima mia?».
Imp. 100 monologhi 29-01-2008 15:49 Pagina 127

Dialogo della Nanna e della Pippa 127


Allotta (tu) squintèrnane un altro, e dì’: «Vòstra Signo-
ria mi ha amaliato»; e dicèndolo abbraccialo strétto strétto;
e, basciàtelo e ribasciàtelo che tu lo arai, fatte il ségno de
la cróce, fingèndo di èssertene scordata a lo entrar giù: e
se nón vuòi dire orazióne né altro, ména un pochétto le
labbra acciò che paia che la dica pér èsser costumata in
ógni còsa.
Intanto il brigante, che ti stava aspettandoti nél lètto có-
me uno che ha fame bestiale e si è pósto a tavola sènza
èsserci ancór suso né pan né vino, ti andrà lisciando cón la
mano le pócce, tuffandoci tutto il cèffo pér bérsele, e pòi il
còrpo, calandola a pòco a pòco a la monina; e dato che le
arà parécchi mostacciatine, verrà a maneggiarti le còsce: e
perché le chiappettine són di calamita, tiraranno a sé la
mano che io ti dico; e, festeggiatole alquanto, cominciarà a
tentarti, con lo intermétterti il suo ginòcchio tra le gambe,
di voltarti (nón si arrischiando di chièdertelo così a la pri-
ma): e tu sòda; e caso ch’égli imiagolando faccia il bambo-
lino cadèndo néi vézzi salvatichi, nón ti voltare. (…)
Se pur pure égli ti va ponèndo la lèva tra le còsce pér
vòlgerti a suo mòdo, atasta si égli ha catenine al braccio o
anèlli in dito; e secóndo che il moscóne ti si raggira intór-
no pér la tentazióne che gli dà l’odóre déll’aròsto, pròva
se gli si lascia tòrre: se lo fa, lascialo fare; e svalisciàtelo
de le giòie, lo truffarai pér lèttera; quando no, digli a la li-
bera: «Dunque Vòstra Signoria va dirièto a così fatte ribal-
darie?».
Ciò détto, ti recarà a buòn mòdo; e montandoti a dòs-
so, fa’ il tuo débito, figlia: fallo, Pippa, perché le carézze
cón le quali si fanno compire i giostranti són la rovina ló-
ro, il dargliene dólce gli ammazza; e pòi una puttana che
fa bèn quél fatto è cóme un merciaro che vénde care le
sue robbe: e nón si pònno simigliare se nón a una bottéga
di merciarìe le ciancie, i giuòchi e le fèste che èscano da
una puttana scaltrita.
Imp. 100 monologhi 29-01-2008 15:49 Pagina 128

128 100 monologhi ben pronunciati

Accademici Intronati di Siena


Gli ingannati (1532)

Quella degli “Intronati” fu il nome di una vivace accade-


mia senese, attiva tra il 1530 e il 1560. Composta da intel-
lettuali e letterati colti e aristocratici (in opposizione alla –
più popolareggiante – accademia dei Rozzi), gli Accademi-
ci Intronati si fecero portatori di un modo nuovo di conce-
pire la commedia: moderna, aderente alla realtà (pur sen-
za tradire i modelli classici), ricca di innesti dialettali dif-
ferenti.

La vicenda, intricatissima e ricca di colpi di scena, è incen-


trata sull’amore di Lelia per Flamminio: e per lui Lelia si
traveste da uomo e gli si mette al servizio, sotto il nome
fittizio di Fabio. Isabella, di cui Flamminio è a sua volta in-
namorato, a furia di frequentare Lelia (sotto le sembianze
maschili), se ne invaghisce. Lelia approfitta di questo senti-
mento per sollecitare Flamminio a cambiare l’oggetto del
suo amore...

Siamo nella prima parte dell’opera e Lelia, travestita da uo-


mo, cammina e rimugina ad alta voce, tra sé e sé. E in
quieta alternanza tra fattezze maschili e voce femminile, tra
parole di sfogo e ricerca di razionalità e progettazione, la
sua figura appare più infantile e tenera: una tenerezza an-
cora più accresciuta dall’improvviso cambiamento finale,
nell’incontro con la balia. (Gli straccioni sono originari di
“Scio” – perciò “Sciotti”; Avino e Avorio sono due famosi
fratelli dell’epica romanzesca. “Déssi” è qui un pronome
arcaico, che sta per “essi stessi”.)
Imp. 100 monologhi 29-01-2008 15:49 Pagina 129

Gli ingannati 129

L elia (travestita da uomo): Gli è pure un grande ardire il


mio, quando io ‘l considero, che, conoscèndo i disonè-
sti costumi di quésta scorrètta gioventù modanése, mi mét-
ta sóla in quésta óra a uscir di casa! Oh, cóme mi starèbbe
bène che qualcun di quésti gióvani scapestrati mi pigliasse
pér fòrza e, tirandomi in qualche casa, volésse chiarirsi s’io
són maschio o fémina! E così m’insegnassero a uscir di ca-
sa, così di buòna óra.
Ma di tutto quésto è cagióne l’amóre ch’io pòrto a qué-
sto ingrato e a quésto crudèl di Flamminio. Oh, che sòrte è
la mia! Amo chi m’ha in òdio, chi sèmpre mi biasma; sèrvo
chi nón mi conósce: ed aiùtolo, pér più dispètto, ad amare
un’altra (che, quando si dirà, nessun sarà che lo créda)
sènza altra speranza che di potér saziare quésti òcchi di
vedérlo, un dì, a mio mòdo. Ed infino, a qui, mi è andato
assai bèn fatto ógni còsa. Ma, da óra innanzi, cóme farò?
Che partito ha da èssere il mio?
Mio padre è tornato. Flamminio è venuto ad abitar nél-
la città. E qui, nón pòss’io stare sènza èsser conosciuta: il
che, se avviène, io rèsto vituperata pér sèmpre e divènto
una favola di tutta quésta città.
E pér quésto sóno uscita fuòra a quést’óra; pér consi-
gliarmi cón la mia balia che da la finèstra ho veduta venire
in qua, éd insième cón lèi pigliarci quél partito che giudi-
cherémo miglióre. Ma prima vo’ vedére s’élla in quésto
abito mi conósce (…) (cambiando voce, alla balia) Dio vi
dia il buòn dì, (signóra)!
Imp. 100 monologhi 29-01-2008 15:49 Pagina 130

130 100 monologhi ben pronunciati

Annibal Caro
Gli straccioni (1543)

Annibal Caro (Civitanova Marche, 1507 – Roma, 1566)


visse tra Firenze e Roma, e fu precettore e segretario eccle-
siastico (al termine della sua vita fu segretario di Alessan-
dro Farnese). Scrittore misurato e raffinato, si trovò al cen-
tro di una famosissima disputa letteraria da cui ne uscì
apprezzato vincitore. Oltre a un gruppo di Lettere – carat-
terizzate da rara profondità e acutezza psicologica – e alla
commedia Gli straccioni, ci ha consegnato una delle più
celebri e limpide traduzioni dell’ Eneide.

Due fratelli “straccioni” (Battista e Giovanni de Canali) so-


no alla ricerca di Giulietta, figlia di Giovanni, fuggita con il
suo innamorato Tindaro. E a quest’ultimo è sembrato, du-
rante un assalto turco, che la sua Giulietta venisse decapi-
tata. Un altro personaggio dell’opera – Demetrio – è invece
alla ricerca, su richiesta della signora Argentina, del marito
Giordano. Entrambi (Giordano e Giulietta) sono ben vivi, e
compariranno proprio mentre Tindaro si è sposato con Ar-
gentina. Anche tra Giordano e Giulietta scoccherà l’amore.
Sullo sfondo, una causa giudiziaria intricatissima, intentata
dai fratelli straccioni, e vinta dagli stessi. (Gli straccioni so-
no originari di “Scio” – perciò “Sciotti”; Avino e Avorio so-
no due famosi fratelli dell’epica romanzesca. “Déssi” è qui
un pronome arcaico, che sta per “essi stessi”).

È il prologo dell’opera e l’attore chiama a raccolta il pub-


blico, zittendolo e introducendolo nella storia. Pronuncia
nomi e cita luoghi (ricchi di digressioni e puntualizzazio-
ni); alterna ritmi veloci a frasi più scandite; usa intonazioni
coinvolgenti e complici: tutto, pur di dare la giusta spinta
all’imminente e atteso spettacolo.
Imp. 100 monologhi 29-01-2008 15:49 Pagina 131

Gli straccioni 131

P rologo: Spettatóri, vói dovéte la più parte avér cono-


sciuti gli Straccióni: quél Giovanni e quél Battista, o
piuttòsto quél Giovanni Battista, fratèlli Sciòtti, che èrano
due in uno, o uno in due; vói m’intendéte: quéll’Avino
Avòrio de’ nòstri tèmpi cón quéi palandrani lunghi, lavorati
di tòppe sópra tòppe, e ricamati di réfe riccio sópra riccio:
quéi zazzeruti, cón quéi nasi tòrti, arpionati, e pizzuti,
quégli unti bisunti che andavano pér Róma sèmpre insiè-
me, ch’èrano d’una medésima stampa, che facévano, che
dicévano le medésime còse, che parlavano tutti e due in
una vòlta, o l’uno serviva pér l’èco déll’altro.
Nón guardate ch’uno d’éssi sia mòrto; ché neanco pér
mòrte si pòssono scompagnare. Il vivo è mòrto in quél di
là, e ‘l mòrto vive in quésto di qua; così, talvòlta són mòrti
tutti due, e talvòlta són tutti due vivi. E, pér ségno di ciò,
quésto pér cèrti giórni nón si véde: e òggi vedréte qui,
l’uno e l’altro di lóro.
Vói avéte sentito dire di quél Càstore, e di quél Pollùce
quélle bèlle faccènde che fécero nón so che comunèlla di
nasciménto, di vita, e di mòrte e che diventarono anco im-
mortali. O, se nón són mòrti mai, immaginatevi che quésti
siano déssi, perché fanno de le medésime còse, e sóno an-
co due bèi gióvani cóme èrano quélli: salvo che (a dire il
véro) sóno un pòco più sudici di lóro.
Vói gli avéte pér pòveri e pér pazzi, e l’autóre ha tòrto
a farli ricchi e savi. La cagióne che lo muòve è da ridere, e
diròlla ancóra a vói: ma… tenétemi secréto.
Imp. 100 monologhi 29-01-2008 15:49 Pagina 132

132 100 monologhi ben pronunciati

Giovan Maria Cecchi


L’assiuolo (1549)

Giovan Maria Cecchi (Firenze, 1518-1587) fu commedio-


grafo fecondissimo e grande esperto della lingua popolare
fiorentina; famosa resta, ancor oggi, una Dichiarazione dei
proverbi e dei modi di dire della città di Firenze. Scrisse
farse e testi teatrali di argomento religioso: tutti scritti in
versi; tutti molto elaborati nella costruzione e nell’intreccio,
oltre che ricchi di innesti linguistici volgari.

La giovane, bella Oretta è sposata con l’avvocato Ambro-


gio, uomo di mezza età, gelosissimo e severo. Rinuccio e
Giulio sono due amici, entrambi innamorati di Oretta.
Oretta scopre un giorno che il marito si è invaghito della
madre di Rinuccio, Anfrosina, e insieme con quest’ultima
tenta di punire il pedante marito. Anche i due giovani so-
no al corrente delle mire di Ambrogio, e cercano di appro-
fittarne per conquistare Oretta. Che, dopo un intreccio ric-
co di travestimenti e colpi di scena, otterrà la piena libertà
e l’allontanamento dell’ingombrante e infedele marito.

Qui siamo nella prima parte dell’opera, con un monologo


che dà subito il segno della tenacia (anche un po’ femmi-
nista) della protagonista.

M adonna Oretta, travestita da uomo, sola, mentre si


reca da Anfrosina per sorprendere il marito: Quanto
sia misero e infelice lo stato di noialtre dònne, facilménte
in parte conoscerlo può chi considera a quanti incòmodi
nói siamo sottopóste, e di quanti piacér prive, e sótto cru-
dèle tirannide il più délle vòlte ci tócca a vivere.
Imp. 100 monologhi 29-01-2008 15:49 Pagina 133

L’assiuolo 133
Gli uomini, avèndo a tòr dònna, tòlgono quasi sèmpre
chi éssi vògliono; a nói pér lo contrario ci convièn tòrre
chi ci è dato: e ci tócca talvòlta (misera a mé! e io ne pòs-
so far féde) ad avér uno, il quale (lasciamo stare che nél-
l’età égli sia così da nói differènte, che piuttòsto nòstro pa-
dre, che nòstro marito starèbbe bène) è così rózzo e inu-
mano, che piuttòsto una béstia di due gambe, che un uò-
mo chiamar si puòte.
Ma lasciamo andare il dolérse délla sòrte misera déll’al-
tre, e diciamo délla mia, di tutte le misere miserissima. Io
mi tròvo maritata a Messér Ambrògio, che potrèbbe èsser
mio avolo. Oh, gli è ricco! già nón mang’io pér quésto di
più un boccón di pane.
E al male déll’avére il marito vècchio, s’è accozzato
l’avérlo gelóso, gelóso a tòrto e d’una gelosia che io nón
crédo che la maggiore immaginare si pòssa: e così, pér la
gelosia, mi sóno (stati) tòlti gli spassi di fuòri, e pér la vec-
chiézza quélli di casa.
Né è bastato alla fortuna farmi tutti quésti mali, che él-
l’ha voluto, cón il farmi uno altro schérno, maggiorménte
pigliarsi giuòco di mé, facèndo innamorare quésto mio
vècchio pazzo, a chi mi pare che manchino a un tratto tut-
te le fòrze dell’ingégno cón quélle dél còrpo: e così (pòve-
ra Orétta, nón ti mancava altro!) stare in una prigióne a vi-
ta, avére il marito vècchio, gelóso, innamorato, e rimbam-
bito; acciocché i’ m’avéssi a condurre, pér riguidarlo a ca-
sa, ad avére in abito d’uòmo sulle quattro óre a scalar le
mura déll’òrto pér uscir di casa, andar pér Pisa travestita,
entrare pér le case altrui, e farmi fórse tenére quélla che io
nón fui mai, né mai èbbi intenzióne d’èssere.
E se nón ch’io crédo, che quésta abbia a èssere una òt-
tima medicina pér cavare chetaménte il pazzo dal capo a
quésto vecchiaccio, io la pigliavo altaménte. Ho io sentito
l’uscio di Madònna Anfrosina? Egli è ésso. Alò: la sèrva
m’accènna; via, che il tórdo è in gabbia: buòna séra, è ve-
nuto quésto valènt’uòmo!
Imp. 100 monologhi 29-01-2008 15:49 Pagina 134

134 100 monologhi ben pronunciati

Anton Francesco Grazzini detto Il Lasca


La gelosia (1550)

Anton Francesco Grazzini (detto “Il Lasca”, Firenze, 1503-


1584) si formò come autodidatta ma partecipò appieno alle
discussioni sulla lingua fiorentina, alle dispute sul volgare e
la difesa della tradizione. Fu anche editore delle Rime del
Berni e contribuì a fondare, insieme con Lionardo Salviati,
la famosa Accademia della Crusca. La sua attività centrale
fu però quella di autore di drammi comici: affrontati con
grande senso dell’intreccio e modernità di linguaggio.

La bella e giovane Cassandra è promessa in moglie, dal pa-


dre Giovacchino, a Pierantonio. Ma il padre, dopo poco,
cambia idea e – per motivi economici – la offre in sposa al
vecchio e ricco Lazzero. Per salvare la sorella dal triste ma-
trimonio, interviene il fratello Alfonso, che con l’aiuto del
servo Ciullo cerca di alimentare la gelosia del vecchio Laz-
zero: la sorella – così gli dichiara Alfonso – è amante di
Pierantonio. Per confermarglielo – complici i suoi servi –,
imbastisce una serie di travestimenti e sostituzioni di per-
sona. Alla fine, il vecchio Lazzero si rassegna e acconsente
al matrimonio tra Cassandra e Pierantonio.

Siamo ancora nella prima parte – preparatoria – del testo.


E qui Alfonso è divertito e diverte: vive la vicenda come
una sana avventura domestica, un gioco nato per affetto e
generosità, una distrazione spensierata e scanzonata. È
estroverso e coinvolgente, e, per accentuare questo dialo-
go diretto con il pubblico, non esita a moltiplicare doman-
de retoriche ed esclamazioni dirette. La sua voce è fresca,
immediata, sincera, e – così facendo, pian piano – mostra
una saggezza e un desiderio di equilibrio che lo caratteriz-
zerà per tutto il resto della commedia.
Imp. 100 monologhi 29-01-2008 15:49 Pagina 135

La gelosia 135

A lfonso: Io crèpo d’allegrézza, e mi pare ógni moménto


un anno di vedére gli andaménti, e udir le paròle lóro.
Chi crederèbbe mai che Lazzero, vècchio, cittadin ripu-
tato e d’òttima fama, vinto dalle persuasióni false d’un ri-
baldo sèrvo, si sia, nón guardando l’onór suo, sì follemén-
te a così fatto pericol mésso?
Dèbb’égli però sì leggerménte crédere ch’una fanciulla
nòbile, d’onorato padre e di madre onestissima nata, così
agevolménte in simili vitupèri incórra? Ma che? nón veggia-
mo nói pér pròva ognóra quanto pòssa la gelosia, e mag-
giorménte négli animi di colóro i quali alle lór dònne, o
pér tròppa sómma d’anni, o per difètto délla natura, scon-
venévoli siano?
E che meraviglia, poiché tanta féde alle paròle di quél
tristo dél Ciullo prèsta? va’ pòi, e fidati di servitóri! Ma cón
verità, ch’a lui sta tròppo bène ógni male: piatisce cói ci-
mitèri, e cérca di móglie; in malóra, avéssila tòlta quan-
d’égli èra d’altra fatta e gióvine, e nón óra che gli ci sta
appiccato cón la céra.
Ma oh, oh, sènt’io l’uscio? sì cèrto: lasciami discostare
e pórmi astutaménte in luògo ch’io véggia e òda tutti gli
atti e i ragionaménti lóro.
Imp. 100 monologhi 29-01-2008 15:49 Pagina 136

136 100 monologhi ben pronunciati

Torquato Tasso
Aminta (1573)

Torquato Tasso (Sorrento, 1544 – Roma, 1595) è figura


tormentata di poeta e di artista. Sin dalla giovinezza (al-
l’inizio per cause famigliari) fu costretto a vagare per le
corti italiane, fermandosi più a lungo tra Padova e Vene-
zia, dove compose la sua opera teatrale più nota – Aminta –
e la prima versione della Gerusalemme liberata. Dopo es-
sersi autoaccusato (per scrupolo dottrinale? per opportunità
politica?) al Tribunale dell’Inquisizione, e dopo essere stato
assolto da ogni accusa, affrontò un lungo periodo di squili-
brio e angoscia, durante il quale comunque scrisse altre
opere e perfezionò il suo capolavoro.

Il pastore Aminta è tenacemente innamorato di Silvia; ma


questa, acerba e ritrosa, gli preferisce la caccia e il culto
di Diana. Dopo averla liberata dalla violenza di un satiro
(Silvia però non lo ha nemmeno ringraziato) e aver avuto
notizia della sua morte in una battuta di caccia, Aminta si
lancia in un burrone. In realtà, Silvia era semplicemente fe-
rita. Resasi conto dell’amore del pastore, pronta finalmente
a ricambiare, scopre che anche Aminta è scampato alla
morte, salvato da un cespuglio. E l’amore sarà finalmente
appagato.

A minta: Picciola è l’ape, e fa cól picciol mòrso


pur gravi e pur molèste le ferite;
ma qual còsa è più picciola d’Amóre,
se in ógni brève spazio éntra, e s’ascónde
in ógni brève spazio? Ór sótto a l’ómbra
de le palpebre, ór tra’ minuti rivi
d’un bióndo crine, ór déntro le pozzétte
Imp. 100 monologhi 29-01-2008 15:49 Pagina 137

Aminta 137
che fórma un dólce riso in bèlla guancia;
e pur fa tanto grandi e sì mortali
e così immedicabili le piaghe.
Ohimè, che tutte piaga e tutte sangue
són le viscere mie; e mille spièdi
ha négli òcchi di Silvia il crudo Amóre.
Crudèl Amóre, Silvia crudèle ed émpia
Più che le sélve! Oh, cóme a te confassi
tal nóme, e quanto vide chi te ‘l pòse!
Cèlan le sélve angui, leóni ed órsi
déntro il lór vérde; e tu déntro al bèl pètto
nascóndi òdio, disdégno ed impiegate,
fére peggiór ch’angui, leóni ed órsi;
ché si placano quéi, quésti placarsi
nón pòssono pér prègo né pér dóno.
Ohimè, quando ti pòrto i fióri novèlli,
tu li ricusi, ritrosétta, fórse
perché fiór via più bèlli hai nél bèl vólto.
Ohimè, quando io ti pórgo i vaghi pòmi,
tu li rifiuti, disdegnósa, fórse
perché pòmi più vaghi hai nél bèl séno.
Lasso, quand’io t’offrisco il dólce mèle,
tu lo disprèzzi, dispettósa, fórse
perché mèl via più dólce hai ne le labbra.
Ma se mia povertà nón può donarti
còsa ch’in te nón sia più bèlla e dólce,
me medésimo ti dóno. Ór perché iniqua
schérni ed abbòrri il dóno? Nón són io
da disprezzar, se bèn me stésso vidi
nel liquido dél mar, quando l’altr’ièri
tacévano i vènti ed éi giacéa senz’ónda.
Quésta mia faccia di colór sanguigno,
quéste mie spalle larghe, e quéste braccia
toróse e nerborute, e quésto pètto
setóso, e quéste mie velate coscie
són di virilità, di robustézza
indicio; e se no ‘l crédi, fanne pròva.
Imp. 100 monologhi 29-01-2008 15:49 Pagina 138

138 100 monologhi ben pronunciati

Giordano Bruno
Il candelaio (1582 circa)

Giordano Bruno (Nola, 1548 – Roma, 1600) fu scrittore,


filosofo e studioso di teologia e alchimia. Dopo aver trascor-
so i primi anni a Napoli, e dopo aver girato – studiato e in-
segnato: talora avventurosamente – le principali città euro-
pee, si fermò a Venezia, dove fu però accusato di eresia. Su
richiesta dell’Inquisizione, fu trasferito a Roma ne 1593,
dove fu poi condannato a morte. Nei sette anni di segrega-
zione, non rinunciò a confermare la sua concezione laica
e sperimentale della storia e della natura.

Protagonista del dramma è Bonifacio, chiamato “Candela-


io” per le sue trascorse propensioni omosessuali. Ora però,
pur sposato con Carubina, è attratto da Vittoria. Confessa
la sua passione all’amico Bartolomeo (dedito senza succes-
so a comprare ricette per fabbricare l’oro) e decide, per
conquistare Vittoria, di avvalersi delle arti magiche di Sca-
ramurè. Ma, dopo che Vittoria tenta di derubare Bonifacio,
la moglie scopre tutto. Trovando in un altro uomo – Gio-
van Bernardo – un affettuoso consolatore e un valente
amante.

Siamo nella parte centrale dell’opera, e Bartolomeo è im-


pegnato a enumerare tutta la ricchezza e bontà della scien-
za alchemica. Lo fa alternando toni estatici e scientifici, ir-
razionali e logici, in una coinvolgente, allucinata tensione
filosofica.
Imp. 100 monologhi 29-01-2008 15:49 Pagina 139

Il candelaio 139

B artolomeo, solo. Li metalli, cóme òro ed argènto, sóno


il fónte de ógni còsa: quésti, quésti appòrtano paròle,
èrbe, piètre, lino, lana, séta, frutti, fruménto, vino, òglio;
ed ógni còsa sópra la tèrra desiderabile da quésti si cava:
quésti dico talménte necessarii, che, sènza éssi, còsa ni-
sciuna di quélle si accàpa o si possiède.
Però l’òro è détto matèria dél sóle, e l’argènto la luna:
perché, tògli quésti due pianéti dal cièlo, dóve è la
generazióne délle còse? dóve è il lume déll’univèrso? Tògli
quésti dui de la tèrra, dóve è la partecipazióne, possessió-
ne e fruizióne di quélle?...
Èrbe, paròle e piètre, són matèria di virtù a prèsso cèrti
filòsofi matti ed insensati, li quali, odiati da Dio, dalla natu-
ra e dalla fortuna, si védono morir di fame, lagnarsi sènza
un poverèllo quattrino in bórsa; pér temprar il tòssico dél-
l’invidia c’hanno vèrso i pecuniósi, biasimano l’òro, argèn-
to e possessóri di quéllo. Pòi quando mi accòrgo, ècco che
tutti quésti vanno cóme càgnoli pér le tavole de ricchi, ve-
raménte cani che nón sanno cón altro che cón il baiare ac-
quistars’ il pane. Dóve? A tavole di ricchi, di que’ stólti, di-
co che pér quattro paròli a sproposito da quélli détte cón
cèrte ciglia irsute, òcchi attòniti ed atto di maraviglia, si
fanno cavar il pan di cascia e danari dalle bórse; e gli fan-
no conchiudere cón verità che “in vèrbis sunt virtutes”. Ma
starèbon bèn fréschi, si dal canto mio aspectassero effètto
de lór ciancie; attéso che nón so ripascere d’altro che di
quélle medésme, chi mi pasce di paròle.
Ór facciano cónto di èrbe le béstie, di piètre gli matti e
di paròli gli saltainbanco, ch’io pér me nón fo cónto d’al-
tro che di quéllo pér cui si fa cónto d’ógni còsa. Il danaio
contiène tutte l’altre (…); a chi manca il danaio, nón sólo
mancano piètre, èrbe e paròle, ma l’aria, la tèrra, l’acqua, il
fuòco e la vita istéssa.
Quésto dà la vita temporale e la etèrna ancóra, sapèn-
dosene servire, cón farne limòsina; la qual pure si dève far
cón gran discrezióne, e, nón sènza sapér il cónto tuo, dèvi
privar la bórsa déll’anima sua: (...)
Imp. 100 monologhi 29-01-2008 15:49 Pagina 140

140 100 monologhi ben pronunciati

Battista Guarini
Il pastor fido (1590)

Battista Guarini (Ferrara, 1538 – Venezia, 1612) fu poeta


e docente di retorica e poetica. Divenuto presto il composi-
tore ufficiale della corte estense (anche in virtù dell’allon-
tanamento di Torquato Tasso), risiedette poi a Mantova,
Roma, Torino e (sotto i Medici) a Firenze. Interessante è la
polemica, nella quale fu coinvolto, sulle concezioni teatrali
aristoteliche. Contro la centralità della tragedia e della
commedia, Guarini propose la tragicommedia pastorale
che, poeticamente, “dilettava imitando”.

Una maledizione grava sull’Arcadia, lanciata da Diana con-


tro un sacerdote. E ogni anno, per placare l’ira della princi-
pessa, viene sacrificata una giovane ragazza, tra quelle rite-
nute colpevoli di aver tradito la fiducia del proprio amato.
Per interrompere questa maledizione, è necessario che due
giovani di discendenza divina si uniscano, carnalmente. I
protagonisti della storia, tragica e divertente allo stesso
tempo, sono la ninfa Amarilli e il pastore Mirtillo (innamo-
rato della ninfa), unitamente a Silvio e Dorinda e alla diso-
nesta Corisca. Alla fine, scopriremo che Mirtillo altri non
era che il figlio (dato per disperso) del sacerdote, e il suo
amore per Amarilli – sono entrambi di discendenza divina
– potrà sanare per sempre il futuro dell’Arcadia.

E rgasto (a Corisca): Oh! se tu avéssi


veduta la bellissima Amarilli,
quando la man pér pégno de la féde
a Mirtillo éssa pórse,
Imp. 100 monologhi 29-01-2008 15:49 Pagina 141

Il pastor fido 141


e pér pégno d’amór Mirtillo a lèi
un dólce sì, ma nón intéso bacio,
nón sò se dir mi dèbbia o diède o tòlse;
sarésti cèrto di dolcézza mòrta.
Che purpora? Che ròse?
Ógni colóre o di natura o d’arte,
vincéan le bèlle guance,
che vergógna copriva
cón vago scudo di beltà sanguigna,
che fòrza di ferirle
al feritór giungéva:
éd élla, in atto ritrosétta e schiva,
mostrava di fuggire
pér incontrar più dolceménte il cólpo;
e lasciò in dubbio se quél bacio fósse
o rapito o donato;
cón sì mirabil arte
fu conceduto e tòlto. E quél soave
mostrarsene ritrósa,
era un “nò”, che voléva; un atto misto
di rapina e d’acquisto;
un negar sì cortése che bramava
quél che negando dava;
un vietar ch’èra invito
sì dólce d’assalire,
ch’a rapir chi rapiva èra rapito;
un restar e fuggire,
ch’affrettava il rapire,
oh, dolcissimo bacio!
Nón pòsso più, Corisca:
vò diritto diritto
a trovarmi una spòsa:
ché’n sì alte dolcézze
nón si può bèn gioir, se nón amando.
Imp. 100 monologhi 29-01-2008 15:49 Pagina 142

142 100 monologhi ben pronunciati

Giambattista Della Porta


La fantesca (1592)

Giambattista Della Porta (Napoli, 1535-1615) fu dotto in-


tellettuale, esperto di magia, scienze e filosofia. Spesso par-
lava dei suoi (numerosi) drammi come “scherzi della sua
fanciullezza”, ma in realtà fu autore comico di grande
abilità ed esperienza. In molti casi, i suoi testi riprendono
occasionalmente alcune avventure dell’Ariosto, o testi del
Bandello, ma la critica ha giustamente sottolineato la sua
profonda conoscenza degli autori latini e, tra tutti, Plauto.

Essandro, innamorato di Cleria, si traveste da cameriera (da


fantesca) e viene assunto – col nome di Fioretta – da Gera-
sto, padre della ragazza. Gerasto però (che ha promesso la
figlia al “romano” Cinzio) si innamora sùbito di Fioretta
(cioè di Essandro), provocando la gelosa reazione di Nepi-
ta, l’altra badante di casa. Essandro svela a Nepita la sua
vera identità, le promette in sposa il suo servo, e con l’aiu-
to di questi, e di altri travestimenti, riesce a mandare a
monte il matrimonio del “romano”, sposando così la sua
bella Cleria.

Siamo in presenza di un dialogo con un suo interlocutore


preciso, e che però sembra soprattutto un soliloquio felice
e appagato nella consapevolezza dell’amore ricambiato:
compiaciuto nel ripetere a se stesso il godimento per la
conquista ormai prossima.
Imp. 100 monologhi 29-01-2008 15:49 Pagina 143

La fantesca 143

E ssandro (a Cleria): Veraménte, i spassi amorósi sóno i


più dólci che fioriscono ne’ giardini délla gioventù,
menàti dalla primavèra dégli anni.
È dégno che un sól moménto di quélli s’acquisti cón
una lunga e penósa servitù d’anni; perché quésto sól pia-
cére par che eguagli il sómmo dilètto che si può trovar qui
in tèrra, e méntre si bacia il viso délla amata dònna, si ha
quéllo contènto cómpito che pòssa da nói gustarsi in tèrra.
O, felici e sovramòdo felici colóro che in lièta còppia, da
pari ardór feriti, amór gli annòda, e sènza sospètto alcuno
di gelosia si gòdono felici insino alla mòrte!
Entrato che fui déntro, (la persuasi dél fatto mio; e)
nón èbbi mólta resistènza. Baciandola, dicéva che il mio
fiato sapéa di quél di Fiorétta; allóra gli scovérsi cóme io e
Fiorétta eravamo una còsa medé(si)ma, e l’inganno che
(io) avéa usato pér servirla. Le dispiacque nón avérlo sco-
pèrto al principio; ché sènza inganno arèi avuto da lèi
quéllo che in sì lungo tèmpo avéa acquistato, né saréssimo
stati tanto tèmpo ociósi. E mi cercò perdóno se méntre
(io) la serviva, nón sapèndolo, m’avésse offéso.
Ahi, quanta sarèbbe stata la mia giòia, se nón fusse in-
terrótto da quésto romano! Ahi, che quanto è stato più
smisurato il piacére, tanto sarà più sènza pari il dolóre, sa-
pèndo che ho da lasciarla. O, fortuna, che fusse nato sèn-
za cuòre, ché ór nón serìa ricètto di tante fiamme!
Ma farò prima tutto quéllo che sarà possibile, accioc-
ché i lóro desidèri nón abbino effètto. Andrò a travestirmi,
ridur quélli a casa e attèndere al fatto mio.
Imp. 100 monologhi 29-01-2008 15:49 Pagina 144

144 100 monologhi ben pronunciati

Antonio Ongaro
Alceo (1592)

Antonio Ongaro (Venezia, 1560-1593) fu poeta elegante e


versatile: accanto a testi in versi di ispirazione religiosa,
compose poemi amorosi e strofe elogiative ed encomiasti-
che. Sue sono anche le egloghe Fillide (in parte autobiogra-
fica, firmata con l’anagramma “Ganoro”) e Glicone.

L’Alceo è, come recita il sottotitolo, una “favola piscatoria”.


E l’opera vuole essere, dichiaratamente, un “travestimento
piscatorio” dell’Aminta di Tasso (e infatti l’Alceo fu per de-
cenni soprannominata “L’Aminta bagnata”). Questa – pro-
prio per la distanza che poneva con la tradizionale poesia
pastorale – fu considerata dalla critica del tempo come for-
temente innovativa; ugualmente interessante è la ricorrenza
di citazioni classiche, nonché di versi di Dante e Petrarca.

A lceo (alla sua amata, Eurilla):


Ah crudèl, dunque vuòi
negare albèrgo e stanza nél tuo pètto
ad amóre, ór che sóno
tutti gli altri animali innamorati?
Amano i pésci; udito il fischio appéna
de l’amato serpènte,
ésce da l’ónde la murèna, e córre
a’ dólci abbracciaménti;
ama il pólpo l’oliva,
e l’ama di manièra
che vedèndo le réti circondate
da le pallide fróndi,
Imp. 100 monologhi 29-01-2008 15:49 Pagina 145

Alceo 145
va volontario a farsi prigionièro;
il sargo ama la capra,
la raia ama lo squadro,
la sépia ama la sépia,
la triglia ama la triglia,
il pèrsico l’occhiata;
e pér la cara amata
il velóce delfin gème e sospira. (…)
S’aman’ anco le piante;
aman le sièpi i flessuósi acanti;
e l’édere le viti
amano gli ólmi e i trónchi lór mariti;
la palma ama la palma in guisa tale
che nón sa viver sóla, o, se pur vive,
vive infecónda e mèsta:
amano i casti allòri;
l’alno rispónde sibilando a l’alno
e l’un pér l’altro platano sospira.
Amano i vérdi mirti
i purpurei granati:
e le pallide olive i vérdi mirti.
Ma che dico le piante e gli animali,
c(h)’hanno pur sènso e vita? Amano i sassi
c(h)’hanno l’èssere appéna.
Ne le rigide piètre
stanno le fiamme ascóse;
ama il iacinto il riso e l’allegria;
ama l’ambra la paglia;
ama l’asbèsto il fuòco;
altra piètra è ch’accésa
in mèzzo l’acque avvampa;
altra, che in mèzzo a l’acque anco s’accènde;
altra ch’eternaménte
lagrima pér amóre; ór tu da méno
èsser vuòi délle piètre?
Ah, dispietata Eurilla,
quésta tanta durézza ormai si spètre.
Imp. 100 monologhi 29-01-2008 15:49 Pagina 146

146 100 monologhi ben pronunciati

Federico Della Valle


Judit (1600 circa)

Federico Della Valle (Asti, 1560 – Milano, 1628) è un auto-


re – poco rappresentato – riportato all’attenzione dramma-
turgica da Benedetto Croce. Segnato da una tensione forte-
mente letteraria, curvato su produzioni tragiche e dense di
valore morale, Della Valle privilegia gli avvenimenti storici:
le guerre di religione, i conflitti di potere tra i nascenti Sta-
ti, i racconti biblici. Il tutto con una limpida, raffinata se-
verità.

La città israelitica di Betulia è cinta d’assedio dagli Assiri,


guidati dal generale Oloferne. La bellissima e sensuale Ju-
dit, principessa ebrea, ottiene un permesso per uscire dalle
mura: e arriva nell’accampamento nemico, pronta a conce-
dersi a Oloferne. Questi, inebriato dall’arrivo della donna,
rinvia l’attacco finale e, proprio in onore di Judit, organizza
una sontuosa festa. Quando i due si appartano, la princi-
pessa ne approfitta per mozzargli la testa: e, ritornata a Be-
tulia, mostra al popolo il macabro, vincente trofeo.

Siamo ormai al termine dell’opera e quella di Judit è un’ar-


ringa, esaltata e violenta, rivolta al suo popolo. La princi-
pessa è compiaciuta per il risultato finale raggiunto ma an-
che – forse in ugual misura – per il successo della sua sen-
sualità e della sua bellezza.
Imp. 100 monologhi 29-01-2008 15:49 Pagina 147

Judit 147

J udit: Lodate, o di Giàcob stirpe fedéle,


santa gènte, lodate il nòstro Dio,
che le speranze nòstre in lui fermate
no have abbandonate!
Ed adempièndo quél ch’. Égli promise
di bène e di salute ad Israèlle,
cón quésto braccio mio,
feminil braccio, imbèlle,
ha ferito, ha percòsso
il fièr nemico dal Levante mòsso
ad incèndio, a ruìna
de la santa Città, del sacro Altare,
óve benigna spaventando appare
la Sómma de le glòrie etèrne.
Vinto è Olofèrne, è vinto!
Ed èccone la tèsta alta e supèrba!
Quésta ha trónco il gran Dio da l’émpio busto
pér la man mia, cón la spietata spada
che balenava già focósa e fièra
sóvra nói tutti, sóvra tórri e mura
de la nòstra Betulia, pria vicina
ad èsser piaggia di virgulti e d’èrba.
Io, da l’angel di Dio serbata intatta,
a vói tórno, a vói vèngo
qual mi partii da vói,
se nón quanto èra alór mèsta e dolènte
ór bèn lièta, ór ridènte.
Lièta de la vittòria dél gran Dio,
de la libertà vòstra,
e de lo scampo mio.
Confessate óra vói cón alte vóci,
o, gènte liberate,
dite cón chiaro suòno:
buòno è ‘l Dio nòstro! è buono!
e sempitèrna è in lui
la pietade e ‘l perdóno!
Imp. 100 monologhi 29-01-2008 15:49 Pagina 148

148 100 monologhi ben pronunciati

Michelangelo Buonarroti il giovane


La Tancia (1612)

Michelangelo Buonarroti (Firenze, 1568-1646), pronipote


del celeberrimo omonimo pittore e scultore (e architetto e
poeta), indirizzò i suoi interessi soprattutto verso la produ-
zione e l’analisi letteraria. Fu autore di felicissime, apprez-
zate commedie – spesso giocate sul divertito contrasto tra
lingua volgare e lingua letteraria – e contribuì alla reda-
zione (e, successivamente, alla revisione) del primo voca-
bolario degli Accademici della Crusca.

Cecco e Ciapino sono due amici: Ciapino è innamorato


della bella Tancia, ma quest’ultima è invaghita di Cecco.
Incurante di questi retroscena, Giovanni (padre della Tan-
cia) ha promesso la figlia al ricco e borghese Pietro. Anche
(almeno) un altro personaggio – la Cosa – si inserisce nella
storia: innamorata di Ciapino, riesce alla fine a sposarlo,
con l’aiuto di Cecco. E questi diventerà (com’era prevedibi-
le) il marito della Tancia.

Siamo nella prima parte della storia e assistiamo a un mo-


nologo che, sotto la apparente immediatezza, rivela una
sintesi di grande eleganza stilistica. (“contradio”, “sprendo-
re”, “olore” sono gli arcaici “contrario”, “splendore”, “odo-
re”; la “giomella” – ora giumella – è un’unità di misura cor-
rispondente a due mani concave accostate tra loro; la “bor-
rana” e l’“acetona” sono due piante commestibili. Il con-
fronto finale – tra il soggetto amato e altri pretendenti –
pone l’attenzione sul “visaggio”, sul “dosso”, sulla “cera e
la luchera”, che stanno per “viso”, “profilo”, “colore del
volto”, “modo di guardare”.)
Imp. 100 monologhi 29-01-2008 15:49 Pagina 149

La Tancia 149

T ancia: Quél che si sia l’amóre io nól sò bène,


e nón sò s’io mi sóno innamorata;
ma gli è vér ch’e’ c’è un ch’io gli vo’ bène,
e sènto un gran piacér quand’e’ mi guata,
e ‘l sènto più quand’e’ s’apprèssa a méne:
e pél contradio, poich’e’ m’ha lasciata,
par ch’e’ mi lasci un nidio sènza l’uòva.
Che còs’è amór? Ditélmi un po’ chi ‘l pròva.
Ma ór ch’io ho còlta un’insalata bèlla
s’io riscontrassi a sòrta dél mio sprendóre
io gnéne vorre’ dare una giomèlla:
s’io l’annuso, uh l’ha pure il nòstro olóre!
C’è délla ménta, délla nipitèlla,
délla borrana che rallégra ‘l cuòre:
quésta acetósa, ch’è sì grata al dènte,
lui, ch’è tutto sapór, par propiaménte.
Io nón crédo che mai pér San Giovanni,
ch’a Firènze si fa la processióne,
quand’ognun va a caval cón que’ be’ panni,
innanzi al duca vadia un tal garzóne.
O, guarda un po’ s’a lui Ciapin o Nanni
si può agguagliare, o Sabatino o Móne:
quél visaggio, quél dòsso, quélla céra,
quél parlar, quéll’andar, quélla luchèra!
Imp. 100 monologhi 29-01-2008 15:49 Pagina 150

150 100 monologhi ben pronunciati

Metastasio
Attilio Regolo (1730) (?)

Metastasio (nome grecizzato di Pietro Trapassi, Roma,


1698 – Vienna, 1782) fu educato sin dall’infanzia a un se-
vero classicismo. Visse prima a Roma, Scalea, Napoli, Vene-
zia, e poi, soprattutto, a Vienna. Dotato di una sensibilità
musicale straordinaria (le sue opere più belle – compresa
quella che qui proponiamo – sono cantate), Metastasio si
impegnò a rappresentare – forse sul modello francese di
Corneille, e sul pensiero di Cartesio – un ordine schematico
dei suoi drammi: in un contesto atemporale e simbolico,
con protagonisti che incarnano grandi ideali e passioni.

Attilio Regolo, fatto schiavo dai Cartaginesi, ha la possibili-


tà di fare ritorno a Roma in veste di mediatore a patto che
persuada il suo popolo ad accettare una proposta di accor-
do avanzata dal popolo cartaginese. In caso contrario (se i
Romani non accetteranno), egli si è impegnato a far ritor-
no, come schiavo, a Cartagine. La mediazione non è però
vantaggiosa per i Romani, e Regolo è il primo a denunciar-
lo. E così, tra lo stupore e il dolore del suo popolo, il pro-
tagonista – pur di mantenere l’impegno preso col nemico –
farà ritorno a Cartagine.

R egolo: Róma ramménti


che il suo padre è mortal, che alfin vacilla
anch’éi sótto l’acciar, che sènte al fine
anch’éi le véne inaridir, che ormai
nón può versar pér lèi
né sangue né sudór, che nón gli rèsta
Imp. 100 monologhi 29-01-2008 15:49 Pagina 151

Attilio Regolo 151


che finir da romano. Ah! m’apre il Cièlo
una splèndida via: de’ giórni mièi
pòsso l’annóso stame
troncar cón lòde, e mi voléte infame!
Nò, possibil nón è: de’ mièi Romani
conósco il còr. Da Règolo divèrso
pensar nón può chi respirò, nascèndo,
l’aure dél Campidòglio. Ognun di vói
sò che nél còr m’applaude;
sò che m’invidia e che, fra’ mòti ancóra
di quél che l’ingannò tènero eccèsso,
fa vóti al Cièl di potér fare l’istésso.
Ah! nón più debolézza. A tèrra, a tèrra
quéll’armi inopportune! Al mio triónfo
più nón tardate il córso,
o amici, o figli, o cittadini. Amico,
favór da vói domando;
esorto, cittadin; padre, comando. (…)
Romani, addio. Siano i congèdi estrèmi
dégni di nói. Lòde agli dèi, vi lascio,
e vi lascio Romani. Ah! conservate
illibato il gran nóme; e vói saréte
gli arbitri délla tèrra, e il móndo intéro
roman diventerà. Numi custòdi
di quést’almo terrén, dèe protettrici
délla stirpe d’Enèa, confido a vói
quésto pòpol d’eròi: sian vòstra cura
quésto suòl, quésti tétti e quéste mura.
Fate che sèmpre in ésse
la costanza, la fé, la glòria albèrghi,
la giustizia, il valóre. E, se giammai
minaccia al Campidòglio
alcun astro maligno influssi rèi,
ècco Règolo, o dèi: Règolo sólo
sia la vittima vòstra, e si consumi
tutta l’ira del Cièl sul capo mio.
Ma Róma illésa… Ah! qui si piange: addio.
Imp. 100 monologhi 29-01-2008 15:49 Pagina 152

152 100 monologhi ben pronunciati

Carlo Goldoni
Il teatro comico (1750)

Carlo Goldoni (Venezia, 1707 – Parigi, 1793), nonostante


la sua laurea in giurisprudenza, fu progressivamente cat-
turato dall’interesse e dalla passione per il teatro. Dopo
aver prodotto apprezzati intermezzi, tragicommedie in ver-
si e libretti di opere buffe, concentrò il suo lavoro verso una
“riforma” del teatro che garantisse “naturalità” e verità ai
personaggi e ai testi da rappresentare. Contro la pratica
dell’improvvisazione e della commedia dell’arte, pose la fi-
gura dell’autore – soprattutto scrivendo “sedici commedie
nuove” – al centro della messinscena. Il suo successo (se-
gno, anche, del rinnovato clima illuministico e razionali-
stico) fu però gravato spesso da incomprensioni e difficoltà
economiche: le stesse che lo portarono a Parigi e che videro
un po’ spegnersi la sua straordinaria – popolare e borghese
– istanza teatrale.

Il capocomico Orazio sta allestendo un nuovo spettacolo,


e gli attori si stanno misurando con un modo di lavorare
completamente diverso: non più governato dalla libera im-
provvisazione, ma da un testo drammaturgico rigoroso e
da una direzione registica precisa. Due nuovi interpreti
vengono valutati dal capocomico – il poeta dilettante Lelio
e l’ex cantante d’opera Eleonora – e questo è il pretesto,
elegante e divertente, per chiarire meglio le nuove qualità
– e responsabilità – degli attori moderni.

Ottavio sta tenendo una vera e propria lezione, scandendo


parole e illustrando concetti. E quanto più sembra rivolger-
si alla “principiante”, tanto più ne approfitta per elencare al
pubblico le sue fondanti teorie e pratiche di recitazione.
Imp. 100 monologhi 29-01-2008 15:49 Pagina 153

Il teatro comico 153

O ttavio: Pér una principiante siète passabile; la vóce


nón è férma, ma quésta si fa cón l’uso dél recitare.
Badate bène di battere le ultime sillabe, che s’intènda-
no. Recitate più tòsto adagio, ma nón tròppo, e nélle parti
di fòrza, caricate la vóce, e accelerate più dél solito le pa-
ròle. Guardatevi sópra tutto dalla cantilèna, e dalla decla-
mazióne, ma recitate naturalménte, cóme se parlaste, mén-
tre essèndo la commèdia una imitazióne délla natura, si
dève fare tutto quéllo che è verisimile.
Circa al gèsto, anche quésto dève èssere naturale. Mo-
véte le mani secóndo il sènso délla paròla. Gestite pér lo
più cólla dritta, e pòche vòlte cólla sinistra, e avvertite di
nón mòverle tutte due in una vòlta, se nón quando un im-
peto di còllera, una sorprésa, una esclamazióne lo richie-
désse; servèndovi di règola, che principiando il periodo
cón una mano, mai nón si finisce coll’altra, ma cón quélla
cón cui si principia, terminare ancóra si dève.
D’un’altra còsa mólto osservabile, ma da pòchi intésa,
vòglio avvertirvi. Quando un personaggio fa scèna cón
vói, badategli, e nón vi distraéte cógl’òcchi, o cólla ménte;
e nón guardate qua, e là pér le scène, o pér i palchétti,
méntre da ciò ne nascono tré pessimi effètti.
Il primo, che l’udiènza si sdégna, e créde, o ignorante,
o vano il personaggio distratto. Secóndo, si commétte una
mala creanza vèrso il personaggio cón cui si dève far scè-
na; e pér ultimo, quando nón si bada al filo dél ragiona-
ménto, arriva inaspettata la paròla dél suggeritore, e si rè-
cita cón sgarbo, e sènza naturalézza; tutte còse che tèndo-
no a rovinar il mestière, e a precipitare le commèdie.
Imp. 100 monologhi 29-01-2008 15:49 Pagina 154

154 100 monologhi ben pronunciati

Pietro Chiari
Il filosofo viniziano (1753)

Pietro Chiari (Brescia, 1712-1785) fu scrittore, saggista e


uomo di teatro. Assunto a Venezia come “poeta” del teatro
di San Samuele (lo stesso dove aveva lavorato Goldoni) co-
minciò a scrivere alcuni drammi: in parte parodistici verso
la commedia goldoniana, in parte di ispirazione classica
latina. Attirato dalla produzione teatrale europea del pe-
riodo – da Fenelon a Marivaux – compose altri drammi (e
romanzi) in cui sono evidenti una tensione illuministica e
una grande competenza filosofica.

Il veneziano Roberto (il suo vero nome è però Zanetto) vi-


ve ad Amsterdam – ospite di un noto libraio – per evitare
le nozze che gli ha imposto il suo facoltoso padre. E qui si
innamora di Marianna, anche lei destinata in sposa a un
non precisato “straniero” (la promessa fu fatta dal padre
della ragazza, in letto di morte). Compagno di viaggio di
Zanetto è Valerio, amato a sua volta da Lauretta, figlia del
libraio. Valerio, in segreto (forse per sollecitarlo a un inter-
vento, anche economico), tiene informato il padre di Za-
netto delle sue precarie condizioni. A sorvegliare i giovani
interviene anche il giudice Osbech, grande bibliofilo, il
quale è costretto a far arrestare Zanetto per debiti. Alla fine
si scoprirà che il padre di Marianna, in vita, aveva scelto
proprio lui come futuro sposo della figlia.

Posto a metà dell’opera, il monologo di Lauretta (rivolto al


suo innamorato) è un’espressione alta di orgoglio civile e
morale. Da un lato, a parlare è una signorina innamorata e
coinvolta; ma dall’altro, una donna lucida e (come nello
spirito della commedia) “filosoficamente” matura.
Imp. 100 monologhi 29-01-2008 15:49 Pagina 155

Il filosofo viniziano 155

L auretta (a Valerio):
Se pochi ognór n’avéste, perché ne spèndi assai?
Perché quél tuo vestito ti còpra e ti riscalda
è superfluo quéll’òro, superflue quélle falde.
Tanta pólve sul crino ségno è di leggerézza,
se brami avérlo bianco, aspètta la vecchiézza.
Ah, móndo, móndo indégno! Un èstro in mé s’accènde
che m’agita, mi scalda, di me maggiór mi rènde.
Uòmini quanti siète, udite, io vi confóndo:
a tòrto vi doléte ch’è mal diviso il móndo.
I limiti ha distrutti un’avida paura:
tutto lo fè di tutti la pavida natura.
Comun l’aria agli uccèlli, a’ pésci l’oceàno,
la boscaglia alle fière, all’èrbe il mónte e il piano.
L’uòmo pér sé vuòl tutto; dall’uòmo sól s’udìo
délla natura a scòrno parlar dél tuo e dél mio.
Ecco pér sua difésa le sièpi e le muraglie,
ècco pér danno altrui le guèrre e le battaglie.
Si comincia co’ sassi, si crésce a pòco a pòco,
si dissottèrra il fèrro, si fa volar il fuòco.
Régni e città s’usurpano, s’usurpan mari e fiumi:
manca sól che si caccino anche dal cièlo i numi.
Se mal diviso è il móndo, cólpa dél Cièl nón è,
ognun vuòl tròppo, ognuno tutto lo vuòl pér sé.
Era già pòco il móndo all’alte sue domande
e brève fòssa ór chiude anche Alessandro il grande.
Imp. 100 monologhi 29-01-2008 15:49 Pagina 156

156 100 monologhi ben pronunciati

Carlo Gozzi
L’amore delle tre melarance (1761)

Carlo Gozzi (Venezia, 1720 – San Cassiano (?), 1806) fu


scrittore, poeta, ma soprattutto uomo di teatro, fondatore
di compagnie teatrali e (almeno da giovane) attore egli
stesso. In polemica con Goldoni e la sua attenzione verso la
classe borghese (e la sua lingua), Gozzi fece valere una fer-
rea volontà classicista, di fattura erudita e aulica. Tutto
questo non ferma però la sua carica fantastica, giocosa e
(spesso, ancora contro Goldoni) sarcastica.

Il principe Tartaglia è gravemente malato di ipocondria, e


suo padre, il re Silvio, fa di tutto per guarirlo. Il ministro
Leandro, aiutato dalla perfida Fata Morgana, spera invece
che Tartaglia muoia al più presto: in tal modo potrà appro-
priarsi di parte della sua eredità. E così, proprio quando
Tartaglia comincia a sorridere (e a guarire), Morgana lancia
una maledizione, facendo sì che il principe si innamori di
tre melarance. Alla fine, dopo lunghe – e magiche – peri-
pezie, l’ultima delle tre melarance, diventata una bellissima
fanciulla, sposerà il principe guarito e felice.

Accanto alle (scarne) notizie sull’opera, il prologo di Gozzi


è un proclama carico di sottotesti e allusioni ai teatranti del
suo tempo. E questo “ragazzo nunzio” sottolinea con chia-
rezza le novità del dramma, artistiche e intellettuali.

P rologo di “un ragazzo nunzio all’uditorio”:


Vogliamo in scèna pór Commèdie nuòve,
còse grandi, e nón mai rappresentate.
Nón mi chiedéte quando, cóme, o dóve
Imp. 100 monologhi 29-01-2008 15:49 Pagina 157

L’amore delle tre melarance 157


abbiam le còse nuòve ritrovate;
che dópo un serén lungo, quando piòve,
novèlla piòggia quélla pur chiamate:
ma bench’élla vi sémbri piòggia nuòva,
fu sèmpre piòva l’acqua, e l’acqua piòva.
Nón van tutte le còse all’infinito.
Quéllo, ch’è capo un dì, ritórna códa.
Qualche antico ritratto avrà un vestito,
ch’oggi vediam ritornato alla mòda.
L’amór, l’opinióne, e l’appetito
fan che pér bèllo e buòn tutto si gòda,
e nói possiam giurar che pòco, o assai,
quéste Commèdie nón vedéste mai.
Dégli argoménti abbiamo pér le mani,
da fare i vècchi ritornar bambini,
i paziènti Genitóri umani
condurran cèrto i lóro fantolini.
Nón verranno i talènti sovrumani,
e paziènza avrém, ché già i quattrini
nón odoriam pér sentir, se han fragranza,
o sappian di dottrina, o d’ignoranza.
D’inaspettati casi vederéte
in quésta séra un’abbondanza grande,
maraviglie, che udite avér potéte,
ma nón vedute dalle nòstre bande.
E béstie, e porte, ed uccèlli udiréte
parlare in vèrsi, e meritar ghirlande,
e fórse i vèrsi saran Martelliani,
acciò battiate volentièr le mani.
I vòstri servi stan pér uscir fuòre,
e vorrèi dirvi prima l’argoménto;
ma mi vergógno, e trèmo, ed ho timóre
con urla e fischi mi lanciate drénto.
Délle tre Melarance égli è l’amóre.
Che sarà mai? L’ho détto, e nón mi pènto.
Fate cónto, mie vite, mie colónne,
d’èssere al fòco cólle vòstre nònne.
Imp. 100 monologhi 29-01-2008 15:49 Pagina 158

158 100 monologhi ben pronunciati

Vittorio Alfieri
Mirra (1784)

Vittorio Alfieri (Asti, 1749 – Firenze, 1803) trascorse larga


parte della sua vita in molteplici territori, italiani e stranie-
ri. Il suo ancoraggio alla cultura classica è però manifesto
sia nella sua produzione teatrale e poetica, sia nel suo la-
voro di traduttore: dal latino e (in avanti con gli anni) dal
greco. Posto, da un punto di vista temporale, a metà tra il-
luminismo e romanticismo, Alfieri fonde nella battaglia
contro la tirannide le sue differenti tensioni: in un anelito
verso la libertà, che è dimensione sociale ma anche – ancor
più – individuale, sentimentale.

Mirra, figlia del re Ciniro, sta per sposarsi con il principe


Pereo. Nonostante non ci siano ombre sul loro legame, e
Pereo sia stato scelto dalla stessa Mirra, quest’ultima mani-
festa una profonda tristezza. Tutti, ovviamente, se ne ac-
corgono e propongono un rinvio delle nozze. Ma Mirra è
(sembra) risoluta: da un lato indossa il suo abito da sposa,
dall’altro si accorda con la nutrice perché l’aiuti a suicidar-
si. La celebrazione ha inizio. Mirra trema e delira. Pereo,
sconvolto, si allontana per uccidersi. E anche Mirra – im-
bracciata la spada del padre – si procura subito dopo la
morte. Non prima di aver confidato il suo vero, insoppri-
mibile amore nei confronti del padre.

Siamo nella parte centrale dell’opera, e Mirra si muove con


grande misura e umanità tra il bisogno di comunicare (sfo-
gandosi?) la sua infelicità, e il timore di ferire altre persone
(in questo caso, la madre): il tutto a causa di un sentimen-
to personalissimo – e inconfessabile – vissuto con grande
senso di colpa.
Imp. 100 monologhi 29-01-2008 15:49 Pagina 159

Mirra 159

M irra: Nón trèmo…


parmi…; od almén, nón tremerò più omai,
poiché ad udirmi ór sì pietósi state. –
L’unica vòstra, e tròppo amata figlia
són io, bèn sò. Godér d’ógni mia giòja,
e v’attristar d’ógni mio duòl vi véggio;
ciò stésso il duòl mi accrésce. Óltre i confini
dél natural dolóre il mio trescórre;
invan lo ascóndo; e a vói vorrèi pur dirlo,…
óve il sapéssi io stéssa. Assai già pria,
ch’io fra ‘l nòbile stuòl de’ pròci illustri
Perèo scegliéssi, in mé, cógli anni sèmpre
la mia fatal tristézza òrrida èra ita,
ógni dì, più crescèndo. Irato un nume,
implacabile, ignòto, éntro al mio pètto
si albèrga; e quindi, ógni mia forza è vana
cóntro alla fòrza sua… Crédilo, o madre;
fòrte, assai fòrte (ancór ch’io gióvin sia)
ebbi l’animo, e l’ho: ma il débil còrpo,
egro éi soggiace;… e a lènti passi in tómba
andar mi sènto… – Ógni mio pòco e rado
cibo, mi è tòsco: ognór mi sfugge il sónno;
o cón fantasmi di mòrte tremèndi,
più che il vegliar, mi dàn martìro i sógni:
né dì, né nòtte, io nón tròvo mai pace,
né ripòso, né lòco. Eppur sollièvo
nessuno io bramo; e stimo, e aspètto, e chièggo,
cóme rimèdio unico mio, la mòrte.
Ma, pér più mio supplicio, co’ suòi lacci
viva mi tièn natura. Ór me compiango,
or me stéssa abborrisco: e pianto, e rabbia,
e pianto ancóra… E’ la vicènda quésta,
incessante, insoffribile, feróce
in cui mièi giórni infelici trapasso.
Ma che? … vói pur déll’orrèndo mio stato
piangéte?… Oh, madre amata!… éntro il tuo séno
ch’io suggèndo tue lagrime, concèda
un brève sfógo anche alle mie!
Imp. 100 monologhi 29-01-2008 15:49 Pagina 160

160 100 monologhi ben pronunciati

Ugo Foscolo
Tieste (1797)

Ugo Foscolo (Zante, 1778 – Londra, 1827), sùbito dopo la


morte del padre (un medico veneziano), si trasferì a Vene-
zia con la madre, di origine greca. Del tutto interno – e
coinvolto – nel panorama politico del tempo, fu ardente
giacobino, si arruolò nella Guardia nazionale e poi nel-
l’armata francese. Proprio per questo suo impegno appas-
sionato, fu costretto ad abbandonare l’Italia e trasferirsi a
Londra, in misere condizioni economiche. Accanto alla
produzione drammaturgica, va segnalata la sua fortuna-
tissima opera poetica e narrativa, dal carme Dei sepolcri
al romanzo Le ultime lettere di Jacopo Ortis.

Erope – pur innamorata di Tieste, da cui aspetta un figlio –


è costretta dal padre a sposare Atreo, fratello dello stesso
Tieste. Questi, dopo cinque anni, decide di vendicarsi e si
reca ad Argo, dove il fratello vive con Erope e col suo fi-
glioletto, tenuto imprigionato. Ippodamia, madre dei due
fratelli, aiuta Tieste a fuggire con Erope. Il tentativo però
fallisce, ma Atreo magnanimamente dichiara di voler per-
donare il fratello, a cui offre una tazza colma del sangue
del figlio. Tieste si uccide; ed Erope cade, distrutta dal do-
lore.

Siamo nella parte finale dell’opera e la regina Ippodamia è


impegnata a parlare con i suoi due figli. Uno dei due – ne
è tragicamente consapevole – sarà ucciso dall’altro, e il
sangue continuerà a scorrere nella famiglia. La regina alter-
na necessariamente i suoi registri più vari: donna severa e
irata; mamma speranzosa, impotente e implorante.
Imp. 100 monologhi 29-01-2008 15:49 Pagina 161

Tieste 161

I ppodamia: Tiranno inesorabile! placato


Nón se’ tu ancóra? Ór che riman? Vuòi fórse
Cón émpj eccèssi prevenir le cólpe? –
Crudèle! – Ormai trassi cinqu’anni in pianto,
Pace sperando; ma sperar che gióva,
Se anèli al lutto? Ór tu sguai:na il brando
E il ruòta a cérchio; semiviva, esangue
Cadratti a’ pièdi cól fratèl la madre.
Ma di’: felice tu sarai? Nò: cruda
Necessità di sangue il còre irato
T’arderà sèmpre, e d’uòpo fia versarne
A rivi; e più versato, e più tu ingórdo
Ne diverrai; ma règia è l’òpra: imprèndi
Da me, tu, prima: io tél ridico, alcuno
Nón preverrammi da té spènto. (…)
Io di ré móglie e di ré figlia e madre
La péna scónto di tai nómi; io quindi
Maledétta dal Cièl vói dal mio fianco
Trassi stroménti di mie péne, vói
D’orróre insaziabili e di stragi.
Io vi són madre: ècco mio vanto; all’òpra
M’unisco orrènda, e furibónda io bramo
Vendicativi parricidj. – Lassa!
Cón chi deliro?... Óv’io mi vòlgo? – A tutto
Deh! T’arrèndi, Tièste: ti scongiura
Tua madre… fa’ che quést’amplèsso, o figlio,
L’estrèmo… a me nón sia.
Imp. 100 monologhi 29-01-2008 15:49 Pagina 162

162 100 monologhi ben pronunciati

Vincenzo Monti
Caio Gracco (1799)

Vincenzo Monti (Alfonsine, 1754 – Milano, 1828), grazie


alle sue precoci doti poetiche, fu invitato a Roma a seguire
l’Arcadia. E qui, grazie alla produzione di raffinatissimi
poemi celebrativi e d’occasione, acquisì una prestigiosa po-
sizione sociale. Cominciò a comporre tragedie, di argo-
mento storico e mitologico. Con la rivoluzione francese, la
situazione romana – e papale – degenerò, e Monti volle tra-
sferirsi a Bologna e poi a Milano. Le sue propensioni politi-
che divennero più nette, con scritti contro la superstizione e
il fanatismo. Ma le frenetiche, altalenanti vicende storiche
lo portarono dopo un po’ a rifugiarsi esclusivamente nelle
cure filologiche: nacque in questo clima la traduzione
dell’ Iliade e la proposta di riforma del Vocabolario della
Crusca.

Caio Gracco fa ritorno all’improvviso a Roma, da Cartagi-


ne: il partito aristocratico, guidato da Lucio Opimio, vuole
sovvertire la Repubblica, con la quale Gracco è schierato.
La lotta tra le due fazioni è complicata dalla parentela di
Caio Gracco con alcuni membri dei rivoltosi aristocratici. E
sua moglie Licinia lo invita a non contrapporsi a essi, solle-
citandolo piuttosto a ritirarsi dalla vita pubblica: a scegliere
di vivere. Caio Gracco – forte anche del séguito e del cari-
sma che lo sostiene – persevera nella sua battaglia politica
e ideale, salvo poi, vittima di tradimenti e congiure, suici-
darsi eroicamente.

L icinia: Morir? Crudèle! Ed in obblìo ponésti


ch’altri pure in te vive? E quésta vita,
di che dispóni, è fórse tua? Nón hai,
Imp. 100 monologhi 29-01-2008 15:49 Pagina 163

Caio Gracco 163


nón hai tu dunque una consòrte, un figlio
che sui tuòi giórni han dritto, e moriranno
se tu muòri? (…)
A ricordarti io vèngo
che tu sèi padre, che tu sèi marito,
che inumana, esecrata òpra commétti
se m’abbandóni. Già nón vai tu a guèrra
óve glòria si còlga, óve tua mòrte
lutto onorato partorir mi pòssa.
Misto allóra fôra d’alcun dólce alméno
il vedovil mio pianto, e al còr confòrto
le vittòrie narrarne, e i fatti egrègi,
e l’onèste ferite. Ma qui, lassa!
a ciménto tu córri, óve sicura
fia l’ignomìnia, e pér la patria nullo
dél tuo morire il frutto. Già vincènti
sóno i peggióri: vïolènza e fèrro
tutto decide; il tuo nemico ha vòlto
cóntra te stésso il beneficio tuo:
pér infame decréto égli è di Róma
arbitro, e l’armi che ne fan qui cérchio
són segnale di mòrte. Iniqui amici
iniqua han fatta la tua causa: i pòchi
nón scellerati, ma tremanti e vili,
si dileguär: sèi sólo e inèrme, e carco
d’òdio patrizio. In cotanta ruina
che ti rèsta, infelice? (…) Deh! prèndi
altro consiglio. Sàlvati, ricóvra
ai tuòi Penàti in braccio. Io ti fò scudo
di quésto pètto. Mé, mé prima in brani
faran l’armi d’Opìmio. Ah! vièni, ah! cèdi,
invólati. Pér quésto pianto mio,
pél nòstro marital nòdo, pér quanti
d’amór pégni ti dièdi, pél tuo figlio,
pél tuo misero figlio, abbi, ti prègo,
pietà délla cadènte tua famiglia,
e al còr ti scénda di natura il grido.
Imp. 100 monologhi 29-01-2008 15:49 Pagina 164

164 100 monologhi ben pronunciati

Silvio Pellico
Francesca da Rimini (1815)

Silvio Pellico (Saluzzo, 1789 – Torino, 1854) ha legato il


suo nome soprattutto alle vicende storiche del Risorgimento
italiano. Per il suo impegno politico (aderì alla Carbone-
ria) fu arrestato dagli austriaci e trascorse dieci anni in un
carcere (tristemente noto: lo Spielberg) della Moravia. Gra-
ziato nel 1830, scrisse il libro di memorie Le mie prigioni,
che divenne subito celebre per l’attualità delle vicende nar-
rate e la sua intensa religiosità.

Il signore di Rimini è storicamente in guerra con quello di


Ravenna, e per evitare ulteriori lutti e scontri, decide di da-
re in sposa sua figlia Francesca al primogenito ravennate
Lanciotto. Le due casate saranno finalmente in pace ed al-
leate. In realtà, Francesca è innamorata di Paolo, fratello di
Lanciotto. E quando lo incontra, nonostante una terribile
scoperta (Paolo ha ucciso in uno scontro il fratello di Fran-
cesca), gli confida il suo amore, apprendendo stupita che è
del tutto ricambiato. Francesca sviene nelle braccia di Pao-
lo, annebbiando di gelosia Lanciotto. Il quale, in un impe-
to di collera, e con un successivo, terribile senso di colpa,
ucciderà i due innocenti innamorati.

Il monologo di Paolo, nella seconda parte dell’opera, è un


atto di amore in cui filtra, tra le pieghe, il presagio della
possibile, imminente tragedia.

P aolo (a Francesca): Repènte


nón è, nón è la fiamma mia. Perduta
hò una dònna, e sèi tu: di te parlava,
Imp. 100 monologhi 29-01-2008 15:49 Pagina 165

Francesca da Rimini 165


di te piangéa, te amava, te sèmpre amo,
te amerò sino all’ultim’óra… e s’anco
dell’émpio amór soffrir dovéssi etèrno
il castigo sottèrra, eternaménte
più e più sèmpre t’amerò. (…)
Il giórno che a Ravénna io giunsi
ambasciatór dél padre mio, ti vidi
varcare un atrio cón feral cortéggio
di mèste dònne, ed arrestarti a’ piedi
d’un recènte sepólcro, ed ossequiósa
ivi prostrarti, e le man giunte al cièlo
alzar cón muto, ma dirótto pianto.
Chi è colèi? dissi a talun. – La figlia
di Guido, mi rispóse. – E quél sepólcro? –
di sua madre il sepólcro. – Oh, quanta al còre
pietà sentii di quell’afflitta figlia!
Oh, qual confuso palpitar! Velata
èri, o Francésca, gli òcchi tuòi nón vidi
quél giórno, ma t’amai sin da quél giórno (…)
Io quésta fiamma
alcun tèmpo celai, ma un dì mi parve
che tu nel còr lètto m’avéssi. Il piède
dalle virginee tue stanze volgévi
al secréto giardino; e prèsso al lago,
in mèzzo ai fiór prostéso, io sospirando
le tue stanze guardava, e al venir tuo
tremando sórsi. – Sópra un libro attènti
nón mi vedéano gli òcchi tuòi, sul libro
ti cadéva una lagrima. Commòsso
mi t’accostai. Perplèssi èran mièi détti,
perplèssi pure èrano i tuòi. Quél libro
mi porgésti e leggémmo. Insièm leggémmo
di Lancillòtto cóme amór lo strinse:
sóli eravamo e sènza alcun sospètto…
gli sguardi nòstri s’incontraro… il viso
mio scoloròssi, tu tremavi, e ratta
ti dileguasti.
Imp. 100 monologhi 29-01-2008 15:49 Pagina 166

166 100 monologhi ben pronunciati

Alessandro Manzoni
Il conte di Carmagnola (1819)

Alessandro Manzoni (Milano, 1785-1873) per i suoi natali


ebbe modo di frequentare sin da adolescente alcune tra le
personalità più interessanti della cultura italiana e france-
se del suo tempo. Avvicinatosi sùbito allo studio e alla pra-
tica della poesia e della letteratura, fu segnato – nel 1810 –
da una profonda conversione religiosa, che si dispiegherà
in modo originale e intenso nella sua intera produzione
letteraria. Accanto alla qualità narrativa (in cui ovvia-
mente va menzionato il suo straordinario I promessi sposi)
è da ricordare anche il suo impegno per la creazione di
una lingua “nazionale”, che compenetri la bellezza lettera-
ria con l’immediatezza e la modernità dell’uso.

Venezia, d’intesa con Firenze, decide di sferrare l’attacco


contro il duca di Milano. La scelta di guidare la battaglia ri-
cade sul conte di Carmagnola, nonostante i dubbi del Se-
nato veneziano per le origini lombarde del conte, esautora-
to dal duca di Milano per il séguito di cui godeva. Nella
battaglia di Maclodio, Venezia ha la meglio ma – com’è tra-
dizione – il conte di Carmagnola intende rilasciare i prigio-
nieri. Tanto basta per riaccendere l’antica diffidenza vene-
ziana nei confronti del conte che, nonostante i suoi meriti
e la sua lealtà, viene arrestato e ucciso.

È la parte conclusiva della tragedia, e il conte lascia emer-


gere la sua profonda – epica – statura morale. (“Riedire è
un arcaico “ritornare”.)
Imp. 100 monologhi 29-01-2008 15:49 Pagina 167

Il conte di Carmagnola 167

C onte: Nò, mia dólce Matilde; il tristo grido


délla vendétta e dél rancór nón sórga
dall’innocènte animo tuo, nón turbi
quésti istanti: són sacri. E’ grande il tòrto;
ma perdóna, e vedrai che in mèzzo ai mali
un’alta giòia anco riman. La mòrte!
Il più crudèl nemico altro nón puòte
che accelerarla! Oh, gli uòmini nón hanno
inventata la mòrte: élla saria
rabbiósa, insopportabile: dal cièlo
élla ci viène, e l’accompagna il cièlo
cón tal confòrto, che né dar né tórre
gli uòmini pónno. O spòsa, o figlia, udite
le mie paròle estrème: amare, il védo,
vi piómbano sul còr; ma un giórno avréte
qualche dolcézza a rammentarle insième.
Tu, spòsa, vivi; il dolór vinci, e vivi;
quésta infelice òrba nón sia dél tutto.
Fuggi da quésta terra, e tòsto; ai tuòi
la riconduci: élla è lór sangue; ad éssi
fósti sì cara un dì! Consòrte pòi
dél lór nemico, il fósti mén; le crude
ire di stato avvèrsi féan gran tèmpo
de’ Carmagnòla e de’ Viscónti il nóme.
Ma tu rièdi infelice; il tristo oggètto
dell’òdio è tòlto: è un gran pacièr la mòrte.
E tu, tènero fiór, tu che fra l’armi
a rallegrare il mio pensièr venivi,
tu chini il capo: oh! la tempèsta rugge
sópra di te! tu trèmi, ed al singulto
più nón règge il tuo sén; sènto sul pètto
le tue infocate lagrime cadermi;
e tèrgerle nón pòsso: a mé tu sémbri
chièder pietà, Matilde: ah! nulla il padre
può far pér te; ma péi disèrti in cièlo
c’è un Padre, il sai. Confida in ésso, e vivi
a dì tranquilli se nón lieti: éi certo
te li prepara.
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168 100 monologhi ben pronunciati

Giacomo Leopardi
Lettera al padre (1836)

Giacomo Leopardi (Recanati, 1798 – Napoli, 1837) è uno


dei più eleganti e complessi poeti dell’intera storia letteraria
italiana. Dotato di una solida preparazione in campo filo-
logico (con originali traduzioni dal greco e dal latino), fu
segnato da una particolare sensibilità psicologica, capace
di cogliere le intime contraddizioni della natura umana.
Visse – spesso con grandi sofferenze, economiche e relazio-
nali – tra Recanati, Roma, Milano, Pisa, Firenze, Napoli.
Oltre alla sua produzione poetica, è necessario segnalare le
sue opere letterarie, ricche di rimandi e sollecitazioni filo-
sofiche.

La Lettera al padre, che qui si propone, è una delle ultime


che il poeta scrive alla sua famiglia: la più toccante, antici-
patrice dell’imminente fine.

Si tratta di una lettera “formale” e misurata, eppure – quan-


to più le frasi toccano con pudore e compostezza questioni
finanziarie e famigliari, tanto più le parole lasciano traspa-
rire una straordinaria sensibilità e un’incancellabile dolcez-
za, e dolore.

Torre del Greco, Napoli, 11 dicembre 1836

M io caro Papà. Io nón sapéva cóme interpretare l’asso-


luta mancanza di ógni riscóntro di costà, in cui sóno
vissuto fino a òggi che dalla pòsta mi vèngono 7 lèttere,
tra le quali le sue care déi ventidue Ottóbre e déi dièci No-
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Lettera al padre 169


vèmbre, e che cói mièi infelicissimi òcchi incomincio
la presènte.
La confusióne causata dal cholèra, e la mòrte di tré im-
piegati alla pòsta, potranno fórse spiegarle quésto ritardo.
Rèndo grazie sènza fine a Lèi ed alla Mamma délla carità
usatami déi 41 colonnati. Il tuòno délle sue lèttere alquan-
to sécco, è giustissimo in chi fatalménte nón può conósce-
re il véro mio stato, perch’io nón ho avuto mai òcchi da
scrivere una lèttera che nón si può dettare e che nón può
nón èssere infinita; e, perché cèrte còse nón si dèbbono
scrivere ma dire sólo a vóce.
Élla créde cèrto ch’io abbia passati tra le ròse quésti
sette anni, ch’io ho passati fra i giunchi marini. Quando la
Mamma conoscerà che il trarre pér una sovvennióne stra-
ordinaria nón può accadérmi e nón mi è mai accaduto se
nón quando il bisógno è arrivato all’articolo pane; quando
saprà che nessuno di lóro si è mai trovato in sua vita, né,
grazie a Dio, si troverà in angustie délla terribile natura di
quélle in cui mi sóno trovato io mólte vòlte sènza nessuna
mia cólpa; quando vedrà in che panni io le tornerò davan-
ti, e saprà ancóra che il rifiuto di una cambiale significa
protèsto, e il protèsto di una mia cambiale, nón potèndo io
ripagare l’equivalènte sómma, significa prónto arrèsto mio
personale, fórse proverà dispiacére (...).
Mio caro Papà, se Iddio mi concède di rivedérla, Ella e
la Mamma e i fratèlli conosceranno che in quésti sètte anni
io nón ho demeritata una ménoma particèlla dél bène che
mi hanno voluto innanzi, salvo se le felicità nón scémano
l’amóre néi genitóri e néi fratèlli, cóme l’estinguono in tutti
gli altri uòmini. Se morrò prima, la mia giustificazióne sarà
affidata alla Provvidènza. Iddio concèda a tutti lóro nélle
pròssime fèste quéll’allegrézza che io difficilménte proverò.
La prègo di cuòre a benedire il suo affezionatissimo figlio.
Le ultime nuòve di Napoli e contórni sul cholèra, òggi,
quindici, sóno buòne.
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170 100 monologhi ben pronunciati

Paolo Ferrari
Goldoni e le sue sedici commedie nuove
(1851)

Paolo Ferrari (Modena, 1822 – Milano, 1889) cominciò a


scrivere le sue commedie in dialetto, per poi continuare la
sua produzione in lingua italiana. Autore di largo succes-
so popolare, toccò la fama più ampia con commedie cosid-
dette “a tesi” (Il duello, ll suicidio, Il ridicolo) ricche di im-
plicazioni morali, pedagogiche ed educative.

Circola la voce che Carlo Zigo (qui pseudonimo di Carlo


Gozzi, il più feroce rivale di Goldoni) si sia impossessato
del copione della goldoniana Vedova scaltra per allestirla
in forma di satira. Se lo spettacolo di Zigo avrà successo,
Goldoni – è il suo impresario a ordinarglielo – dovrà pro-
porre sùbito un nuovo lavoro. Così accade. Goldoni prepa-
ra una sdegnata risposta alla satira di Zigo; il suo impresa-
rio – sempre più critico nei suoi confronti – lo minaccia,
paventando un intervento della censura, e Goldoni, ancora
più fieramente, riconferma il suo pensiero annunciando i
titoli delle nuove “sedici commedie” che decreteranno il
suo trionfo.

Siamo nella parte conclusiva del dramma, e Goldoni (pro-


tagonista dell’opera) utilizza un tono lucido e allo stesso
tempo solenne. È consapevole delle responsabilità – stori-
che – delle sue scelte e dopo un tono dialogico e collo-
quiale, lascia emergere il suo vigore e rigore intellettuali e
morali.
Imp. 100 monologhi 29-01-2008 15:49 Pagina 171

Goldoni e le sue sedici commedie nuove 171

G oldoni (sorridendo): Ecco i giudizi dégli uòmini. Se


ho esercitato una professióne cón pòca cosciènza è
stata quélla di maèstro di grammatica: ne sò di medicina,
di criminale, di diritto civile, ma di grammatica ne sò po-
chétto. – Ecco cóme ho fatto l’avventurière; e sfido a tro-
vare nélla mia vita un fatto sólo che pròvi in me dimenti-
canza délle léggi déll’onóre e délla lealtà.
Ma in mèzzo a tutte quéste avventure, un’idèa, una ca-
ra idèa mi dominava e mi attirava continuaménte a sé; io
nón pensava mai ad altro che al teatro, alla commèdia: da
per tutto vedéva scène e caratteri; al lètto de’ mièi amma-
lati studiava l’uòmo che sòffre; nélle carceri, il furbo bir-
bante che spèra, lo sciòcco innocènte che ha paura; nélle
aule déi tribunali, l’imbroglióne che vince, il galantuòmo
che si rovina… e facévo tesoro nélla mia ménte délle mie
osservazióni; e benché lontano dal teatro abbia sovèn-
te potuto formarmi una posizióne còmoda ed onorévole,
una fòrza irresistibile mi ha sèmpre trascinato vèrso i Flo-
rindi e le Rosaure, perché talóra ho la debolézza o la pre-
senzióne di crédermi destinato a fare un po’ di bène al
teatro italiano.
(Si va esaltando) E sóno quindici anni, Eccellènza, che
io sacrifico fortuna, còmodi, salute, pace, tutto al proposito
di migliorarlo. Ma il proposito è generóso, ed ècco l’invi-
dia che mi si scaténa. Sóno stato attaccato altre vòlte: me-
schini attacchi; ho oppósto il silènzio. Òggi però l’attacco
èra tròppo violènto perché l’interèsse déll’arte e dél mio
decòro nón mi spingésse a difèndermi.
Ebbène: perché mi sóno diféso, e diféso cón valóre,
perché nón si sa che rispóndermi, mi si minaccia, si vuole
ch’io distrugga in un giórno l’òpera di quindici anni, che
dico? Déll’intéra mia vita! Si vuòle che io… (Alzandosi con
forza) Oh! Ma vivaddio! Nò, nò. Lo scritto è fuòri, e ci sta-
rà. Se dà fastidio al Tribunal Suprèmo, abbia (il Tribunale
stesso) in faccia al móndo e ai pòsteri la responsabilità
d’avérlo fatto sequestrare: Goldóni nón ritira nulla.
Imp. 100 monologhi 29-01-2008 15:49 Pagina 172

172 100 monologhi ben pronunciati

Paolo Giacometti
La morte civile (1861)

Paolo Giacometti (Novi Ligure, 1816 – Gazzuolo, 1882) fu


autore prolifico e versatile. Profondo conoscitore della
drammaturgia francese, produsse interessanti testi “storici”
(legati alle figure, ad esempio, di Torquato Tasso e della re-
gina di Francia Maria Antonietta) e altri dichiaratamente
“sociali”, tra i quali il più noto è senz’altro La morte civile.

Nella Calabria borbonica, il medico Palmieri (ateo, vedovo)


ospita una donna, Rosalia, che l’aiuta ad allevare una bim-
ba: la figlia Emma. La presenza della donna è però oggetto
di scandalo nel paese, soprattutto per colpa della severa
ingerenza dell’abate. Quando Palmieri decide di rivelargli
che il marito di Rosalia è un ergastolano, e che in effetti la
bimba – il suo vero nome è Ada – è stata da lui adottata,
all’improvviso si presenta – perché evaso – Corrado, l’erga-
stolano. Il quale, dopo molte traversie, comprendendo che
la moglie e la figlia hanno forse raggiunto con il medico
una condizione famigliare felice, si suicida.

Sono vari i registri che il protagonista – a ridosso della


conclusione dell’opera – utilizza parlando con il latitante
Corrado, nel tentativo di convincerlo della propria corret-
tezza; utilizza discorsi diretti e indiretti; riporta monologhi
interiori ed è sempre, contemporaneamente, persuasivo e
disperatamente orgoglioso.
Imp. 100 monologhi 29-01-2008 15:49 Pagina 173

La morte civile 173

P almieri (a Corrado): È inutile che vi spièghi di quali


mèzzi si giovò la provvidènza pér farmi incontrare Ro-
salia. Ciò avvénne alcuni mési dópo la vòstra carcerazióne.
Io la conóbbi afflitta, grama, poverissima, sènza fami-
glia, sènza affètto, respinta benanco dalla madre agoniz-
zante, spirata d’angòscia sul sepólcro dél misero Alonzo.
La sua situazióne deplorabile mi parlò subito al cuòre; mi
persuasi che, nón a caso, il Signóre mi avéva condótto
prèsso quélla infelice creatura, e bèn prèsto diventai il suo
benefattóre, sènza altro scòpo che quéllo dél benefizio.
Èro infelice io pure: da qualche tèmpo avévo perduto
la móglie e la mia piccola Emma; nón mi sarèbbe stato
possibile di nutrire una passióne colpévole, perché quélli
che sòffrono sóno sèmpre buòni. Nulla di méno, vi confès-
so candidaménte, che se Rosalia fósse stata libera, io le
avrèi dato il mio nóme per riabilitarla… ma la poverétta
èra legata alla vòstra caténa! Io osservavo cón un sènso
ineffabile di pietà la piccola Ada, che rassomigliava un pò-
co alla mia Emma, e pér una predestinazióne singolare, mi
si andava affezionando ógni giórno di più, fórse perché la
ricolmavo di carézze. (…)
Dicévo fra me: “Pòvera bambina! Quando, fra pòco,
giunta l’età délla ragionevolézza, chiederai di tuo padre,
ché ti risponderà la madre tua? ché ti diranno gli altri? Ahi-
mè! Un’idèa fissa, umiliante si mischierà sèmpre alle tue
giòie, alle tue affezióni, ti turberà i sónni – e, più tardi,
néll’età délle felici illusióni, quando l’anima vérgine avrà
bisógno di amóre, chi verrà a proferirtelo? Chi vorrà dare
il pròprio nóme alla figlia di un forzato?”.
Quéste riflessióni mi fécero pensare al rimèdio; pensai
di corrèggere a suo riguardo il vècchio pregiudizio, e dissi
un giórno a Rosalia: “Buòna madre, se vói lo voléte, io co-
stringerò il móndo a rispettare quésta fanciulla. Se nón
pòsso riabilitare la madre, pòsso però riabilitare la figlia,
darle un nóme intemerato, il mio nóme. Credèndo di avér
fatto un cattivo sógno, riabbraccerò la mia Emma nélla vò-
stra Ada; avrò un angiolo in cièlo, ed una figlia in tèrra”.
Così avvénne… e óra, vói, giudicatemi!
Imp. 100 monologhi 29-01-2008 15:49 Pagina 174

174 100 monologhi ben pronunciati

Giovanni Verga
Cavalleria rusticana (1880)

Giovanni Verga (Catania, 1840-1922), dopo una prima


produzione sostanzialmente “borghese” e tardo-romantica,
divenne uno dei rappresentanti più alti del verismo italia-
no: nella volontà di rendere oggettivo, impersonale e scien-
tifico il linguaggio narrativo. La sua attenzione – forse at-
traversata da una sfiducia conservatrice – è rivolta ai “vin-
ti” e alla scomparsa di tradizioni e valori antichi. Notevole
è la sua produzione novellistica (con successive trasposizio-
ni in testi teatrali), compresa la Cavalleria rusticana, di cui
egli stesso firmò anche una famosissima versione musicale.

Santuzza è assalita dalla gelosia per il suo fidanzato Turid-


du, un tempo legato a Lola. Quest’ultima, dopo la partenza
di Turiddu per il servizio militare, si era sposata con Alfio,
ma forse non ha mai smesso di amarlo, e sicuramente ne è
l’amante. Santuzza cerca Turiddu nella bettola di gna’ Nun-
zia, madre dello stesso Turiddu, e, non trovandolo, va da
Alfio a denunciare la relazione della moglie. In un’atmosfe-
ra irreale – è Pasqua, il paese è in festa – Alfio sfida a
duello Turiddu, uccidendolo.

Siamo nella seconda parte dell’opera, a ridosso del tragico


epilogo. Le parole di Santuzza sono dirette, talora selvag-
ge; le frasi sono ricche di domande ed esclamazioni: eppu-
re traspare la lucidità – e l’umanità – di un amore che in
modo ineffabile un’altra donna (il fato?) le ha sottratto.
Imp. 100 monologhi 29-01-2008 15:49 Pagina 175

Cavalleria rusticana 175

S antuzza (alla gna’ Nunzia): Lo sò, che si affacciava


ógni vòlta, quando lo vedéva passare dinanzi la mia
pòrta, e me lo rubava cógli occhi quélla scomunicata! E
cercava di attaccar discórso cón lui anche! – Compare Tu-
riddu, che ci venite a fare da quéste parti? Nón lo sapéte
che nón ci fu la volontà di Dio? Óra lasciatemi stare che
són di mio marito –.
La volontà di Dio èra pér tentarlo! Egli si mettéva a
cantare sótto la mia finèstra pér far dispètto a lèi che s’èra
maritata cón un altro. Tanto è véro che l’amóre antico nón
si scòrda più. Io, cóme lo sentivo cantare quél cristiano,
sembrava che il cuòre mi scappasse via dal pètto.
Èro pazza, sì! Cóme potévo dir di nò quand’égli mi
pregava: – Apri, Santuzza, s’è véro che mi vuòi bène!… –
Cóme potévo? Allóra gli dissi: – Sentite, compare Turiddu,
giuratemi innanzi a Dio, prima! – Egli giurò. Dópo, cóme
lo sèppe lèi, quélla mala fémmina, diventò gelósa a mòrte;
e si mise in tèsta di rubarmelo.
Mi cambiò Turiddu di qua e di là. Égli néga, perché gli
faccio compassióne; ma d’amóre nón si ama più!… Óra
che sóno in quésto stato… che i miei fratèlli quando lo sa-
pranno m’ammazzeranno cólle sue mani stesse!
Ma di ciò nón m’impòrta. Se Turiddu nón volésse bène
a quéll’altra, morirèi contènta. Ièri séra vénne a dirmi: –
Addio, vado pér un servizio –. Cólla faccia tanto buòna!
Signóre! Cóm’è avére in còre il tradiménto di Giuda cón
quélla faccia? Più tardi una vicina che veniva pél filato mi
disse di avér visto compare Turiddu lì dalle nòstre parti,
dinanzi all’uscio délla gna’ Lòla.
Imp. 100 monologhi 29-01-2008 15:49 Pagina 176

176 100 monologhi ben pronunciati

Marco Praga
La moglie ideale (1890)

Marco Praga (Milano, 1862 – Varese, 1929) fu scrittore,


critico teatrale e organizzatore culturale. Figlio di Emilio –
uno dei massimi esponenti della scapigliatura italiana –
maturò (per reazione?) un’istanza moralizzante e severa.
Nei suoi molteplici testi (a cavallo del secolo tra i più repli-
cati e apprezzati), mette a nudo l’ipocrisia della classe bor-
ghese: e nelle sue storie – fatte spesso di adulteri e corruzio-
ne – l’unica speranza di riscatto è quella di tornare nell’al-
veo dei valori e delle regole condivise.

Giulia, sposata con Andrea, è amante di Gustavo, amico di


famiglia. Giulia comprende che il suo amante sta per la-
sciarla; apprende casualmente che addirittura sta per spo-
sarsi, e – facendo leva sull’insicurezza dell’uomo – gli im-
pone con forza di non interrompere la loro frequentazio-
ne: potrebbe dare fastidiosi sospetti al marito. E dopo aver-
lo umiliato, quella sera stessa, con Andrea felicemente a
braccetto, lo accoglierà nella sua casa.

È l’ultima parte del dramma, e la moglie “ideale” – furba,


strategica (moderna?) – si avvia a celebrare la sua ennesi-
ma, meritata vittoria.

G iulia (a Gustavo): Avéte finito? Voléte che ve la dica io


la verità? Nón valéte mèglio di un altro. Mi avéte tenuta
due anni, sinché vi ha fatto còmodo; pòi vi siète stancato, e
per abitudine, o pér inèrzia, o pér paura, trascinavate qué-
sto amóre cóme una caténa che nón vi riusciva di spezzare.
Nón valéte mèglio di un altro! Uno che fósse un uòmo
Imp. 100 monologhi 29-01-2008 15:49 Pagina 177

La moglie ideale 177


veraménte, nón un fantòccio, avrèbbe trovato il coraggio di
dirmelo. E cón una dònna cóme mé avréste potuto farlo,
sènza paure. Sapéte bène che se anche vi amassi ancóra – e
nón vi amo più, ve lo giuro – nón farèi nulla pér trattenérvi,
pér attaccarmi a vói, perché c’è sèmpre qualcòsa che mi
prème più di vói.
Così siète venuto a quésto bel risultato: che sóno io che
vi congèdo. Io, sì, perché se voléssi, potrèi vendicarmi, e
tenérvi pér fòrza: e ci staréste, perché avréste paura. Potrèi
tenérvi, divertèndomi anche, óra che nón vi amo più: un
fantòccio cóme té nón si ribèlla. Ma tròvo che nón ne vale
pròprio la péna.
Tranquillizzatevi: vedéte cóme sóno tranquilla, io! Però,
badate: vi ripèto quanto dissi testé: badate a quéllo che fate.
Prendéte móglie o no, nón me ne impòrta: ma salvate le
apparènze di frónte a mio marito. Nón vi allontanate da nói
bruscaménte talché égli nón pòssa spiegarsi il vòstro conté-
gno. Potrèbbe… nón dubitare, nò… ma stupirsi, ricordare il
passato, quéllo che avvénne ièri, ricostruire tanti piccoli fat-
ti… e pèrdere quélla complèta, quélla cièca fiducia che ha
in mé, a cui tèngo tanto, e di cui ho tanto bisógno!…
Ah! Ah! vòglio potér fare quéllo che vòglio, avér anche
un altro amante se mi talènta, sènza ch’io dèbba fingere più
e mèglio di quéllo che ho finto continuaménte finóra (…)
Nón vi amo più… nón so neppure se vi hò amato mai… mi
par fino impossibile di avér amato un uòmo cóme vói.
Ièri, vi ho lasciato dicèndovi: “Nón crediate di sposar-
la”. Èra l’eccitazióne dél moménto. Ci ho ripensato; óra vi
dico: “Sposàtela pure!”. Poverétta! Cóme la compiango!
E nón crediate che vi amerà cóme vi ho amato io… Già,
io spèro che sarà più intelligènte di mé, e capirà sùbito
che nón val la péna di amarvi: è tèmpo pèrso!… Oh, un’ul-
tima còsa. Abbiate la cortesia di mandarmi i bigliétti… Ba-
date di rimandarmi tutto, che nón manchi nulla. Nón com-
mettéte quést’ultima cattiveria di tenérvi qualcòsa. Già,
d’èssere stato mio amante nón vi converrà di vantarvi mai,
né potréste compiacérvene mai… Manderò io a prèndere
tutto, domani.
Imp. 100 monologhi 29-01-2008 15:49 Pagina 178

178 100 monologhi ben pronunciati

Gabriele D’Annunzio
La città morta (1898)

Gabriele D’Annunzio (Pescara, 1863 – Gardone Riviera,


1938) fu poeta, scrittore e autore drammatico. La cono-
scenza, ancor giovane, di Eleonora Duse, lo portò a un
prolifico impegno teatrale e a misurarsi con la produzione
drammaturgica europea più avanzata. Influenzato in par-
te dalle teorie di Nietzsche, D’Annunzio caratterizzò la sua
scrittura con un linguaggio onirico, magico, allucinato e
carico di colore che (soprattutto nei primi drammi) sembra
anticipare alcune suggestioni del teatro espressionista. Le
controverse tensioni politiche e militari lo allontanarono
dalle iniziali, felici ricerche artistiche, portandolo (salvo
nell’ultima opera Il ferro) a una produzione spesso forzata
e declamatoria.

A Micene, l’archeologo Leonardo è alla ricerca di tombe e


reperti antichi. Lo accompagnano, nella spedizione, la so-
rella Bianca Maria e l’amico poeta Alessandro con la mo-
glie Anna. Quest’ultima intuisce – a ragione – che il marito
ha una forte attrazione per Bianca Maria, ma sembra dispo-
sta comunque, per amore, a farsi da parte. Anche Bianca
Maria corrisponde questi sentimenti, e confida il tutto al
fratello. Ma Leonardo, nonostante il successo della spedi-
zione, ucciderà la sorella per darle una purezza che lui
stesso (forse attirato da una incestuosa attrazione) avrebbe
potuto compromettere. Sullo sfondo, un’antichità cupa e
densa di mistero.

Siamo nella parte finale del dramma, e Leonardo – proprio


nel delirio: nel suo lucido delirio – lascia trasparire
un’umanità più profonda e sincera.
Imp. 100 monologhi 29-01-2008 15:49 Pagina 179

La città morta 179

L eonardo, ad Alessandro: Ah, tu la conósci, tu la


conósci… tu sai che dólce, che tènera, che pura crea-
tura élla sia… mia sorèlla… Tu sai, tu sai che còsa élla sia
stata pér mé négli anni di solitudine e di lavóro… Èlla è
stata il profumo délla mia vita, il ripòso e la freschézza, il
consiglio e il confòrto, e il sógno, e la poesia, e tutto…
(…)
Ora, imagina uno che inconsapévole béva un tòssico,
un filtro, qualche còsa d’impuro che gli avveléni il sangue,
che gli contamini il pensièro: così, all’improvviso, méntre
la sua anima è in pace… Imagina quésta incredibile scia-
gura!… Tu sèi in un’óra comune délla tua esistenza, in
un’óra simile a tante altre; è un giórno d’invèrno, lucido e
limpido cóme il diamante: tutto è chiaro, tutto è visibile,
da vicino, da lontano.
Tu tórni dal tuo lavóro; la tua attenzióne si allènta; tu
nón scòpri nulla di singolare in te, nélle còse: il tuo respi-
ro è calmo, la tua anima è in pace, la tua vita scórre cóme
ièri nélla sua continuità, dal passato vèrso l’avvenire… Tu
tórni nélla tua casa che è pièna di luce e di silènzio cóme
ieri; tu apri una pòrta; tu éntri in una stanza… e tu la védi,
lèi, lèi, la tua compagna innocènte, tu la védi addormenta-
ta dinanzi al fuòco, tutta colorita dalla fiamma, cón i picco-
li pièdi nudi espósti al calóre.
Tu la guardi e sorridi. E, méntre sorridi, un pensièro
subitaneo e involontario ti attravèrsa lo spirito: un pensièro
tórbido cóntro di cui tutto il tuo èssere ha un frèmito di re-
pugnanza… Invano! Invano! Il pensièro persiste, crésce di
fòrza, divènta mostruóso, si fa dominatóre… Ah, è possibi-
le quésto?…
S’impadronisce di té, ti òccupa il sangue, ti invade tutti
i sènsi. E tu sèi cón la tua prèda, la tua prèda miserabile e
tremante; e tutta la tua anima, la tua anima pura, è infètta;
e tutto è in te macchia e contaminazióne… Ah, è credibile
quésto?
Imp. 100 monologhi 29-01-2008 15:49 Pagina 180

180 100 monologhi ben pronunciati

Carlo Bertolazzi
Il matrimonio della Lena (1900) (?)

Carlo Bertolazzi (Rivolta d’Adda, 1870 – Milano, 1916) fu


critico teatrale e drammaturgo precocissimo. La sua prima
produzione (in dialetto milanese) ha di mira le contraddi-
zioni interne alle popolazioni più misere (con il loro cini-
smo e grandezza) e all’ipocrisia che attraversava l’alta bor-
ghesia, non senza punte di critica sociale. Dopo la prima
produzione vernacolare, e nonostante il successo di cui go-
deva, Bertolazzi volle passare a scrivere in lingua italiana:
con risultati più discontinui ma comunque segnati da un
interessante realismo, anticipatore del successivo movimen-
to crepuscolare.

Lena vive in una famiglia piccolo borghese con i genitori e


due fratelli: Ettore e Maria. Lena è però nata “per errore e
per dispetto”, ed è per tali ragioni che viene trattata dalla
famiglia (con l’eccezione di Ettore) in modo rude e diretti-
vo, alla stregua di una cameriera. Le attenzioni riversate
dalla famiglia sull’imminente matrimonio di Maria rendono
ancora più marginale Lena, la quale – spirito comunque
positivo, sereno, forte – rimane sola a casa e viene dappri-
ma corteggiata, poi violentata da un amico di famiglia. Di
fronte all’indifferenza dei genitori e della sorella, dopo un
affettuoso colloquio con Ettore, decide di abbandonare de-
finitivamente la casa.

È questa la pagina conclusiva del dramma, e Lena sta per


andarsene di casa. È un atto di accusa – elementare ma
sincero – ma anche un’istanza di riscatto, di possibile rico-
struzione.
Imp. 100 monologhi 29-01-2008 15:49 Pagina 181

Il matrimonio della Lena 181

L ena (a Ettore): Ma staséra, staséra stéssa, quando mi


trovarono qui, sul paviménto… (guardandosi le mani)
cólle mani graffiate, cólla vèste strappata, agitata, convulsa,
tanto che sólo guardandomi in faccia avrèbbero dovuto
tremare, crédi tu ch’éssi abbiano pensato a me? ma che!
(Ironica, con odio) Il lóro pensièro è volato al librétto dél-
la banca, all’argenteria, alla possibilità che in casa fóssero
venuti i ladri… (…)
Volévi fórse che parlassi? che confessassi? Ché còsa? Ma
ché còsa comprèndono lóro? M’hanno capìta, una vòlta?
(Crescendo, con amarezza fino al grido disperato) Tutto
pér quéll’altra. Cure, educazióne, carézze, la vita sacrifica-
ta, tutto pér lèi… Perché quésto? (Gridato) Perché? perché?
rispóndimi tu. Perché?
(Ettore si lascia cadere su una sedia, affranto, copren-
dosi il volto con le mani. Lena è agitatissima, pallida, ner-
vosa sempre) Ed óra… éd óra… dópo quanto è avvenuto…
io te lo confèsso: io nón pròvo nulla… Se stésse a me,
sveglierèi la casa, i vicini, e griderèi cón quanto fiato ho in
góla, tutta la mia infamia, il mio delitto!
A me che impòrta che si sappia? Védi, nón piango
nemméno! (Con schianto)… nón piango, nón sò piangere
(Straziante) È un confòrto al quale nón mi hanno abitua-
ta… mi hanno cresciuta, mantenuta, ingrassata, nón sò,
pròprio cóme si ingrassano… là… i pólli in cucina.
(Con sentimento) L’ho provata io una carézza? L’ho gu-
stata io una carézza délla mamma? Dillo, hai visto tu?
Imp. 100 monologhi 29-01-2008 15:49 Pagina 182

182 100 monologhi ben pronunciati

Giuseppe Giacosa
Come le foglie (1900)

Giuseppe Giacosa (Collaretto Giacosa, 1847-1906) visse i


suoi anni giovanili tra Milano e Torino, del tutto interno al
movimento scapigliato, cimentandosi con produzioni lette-
rarie e poetiche. Raggiunto il successo con il dramma in
versi La partita a scacchi, affinò questa sua vocazione con
altri testi – i più celebri furono Come le foglie e Tristi amori
– in cui si avvicendano temi sociali e personali, storici e fa-
migliari. Notevole fu la sua produzione di librettista laddo-
ve (in collaborazione con Luigi Illica) firmò opere celeber-
rime come Bohème, Tosca, Madame Butterfly.

Una famiglia, travolta all’improvviso dai debiti, è costretta a


cambiare casa e tenore di vita. Ne fanno parte Giovanni
Rosani, la sua seconda moglie Giulia, la figlia Nennele e il
figlio di primo letto Tommy. A essi si aggiunge Massimo,
un cugino malvisto dai famigliari per il suo carattere ecces-
sivamente lucido e pragmatico. La situazione – con Giulia
che si innamora di un pittore; con Tommy che accetta mal-
volentieri un lavoro, diventando assenteista; con Nennele,
delusa e sull’orlo del suicidio – sembra precipitare. A sal-
varla sarà proprio Massimo, con il suo affetto positivo e
concreto.

Siamo nella seconda parte dell’opera, e Massimo svela ina-


spettati elementi del suo carattere: e scandisce chiaro i suoi
concetti, illuminando i dettagli dell’esistenza con un’intona-
zione e una tensione umanissime e straordinarie.
Imp. 100 monologhi 29-01-2008 15:49 Pagina 183

Come le foglie 183

M assimo: Crédi che ti conoscerèi se tu fóssi ancóra


milionario? Vi ho cercati mai pér l’addiètro, te e i
tuòi? Che mi impòrta la parentèla? Nón sènto la vóce dél
sangue, o la sènto soltanto quando parla in una pièna co-
munanza di lòtte, di sofferènze e di vittòrie.
Ah! Tre mési fa, quando ti ho veduto gióvane, intelli-
gènte e ricondótto alla légge comune dél bisógno, quali
speranze ho concepito di te! Se tu fóssi nato pòvero, saré-
sti riuscito un tal brav’uòmo! Se tu sapéssi còsa sta pér get-
tar via! Vièni qui, che ti ripigli. Lasciamo le paròle aspre.
Nón ti parlo di dovére, ti parlo di felicità.
Ma crédi che ci sia paragóne fra quéllo che ho goduto
io délla vita e quéllo che hai goduto tu? Ma soltanto la giò-
ia di volére! E vincere! Altro che le gare dél tènnis! Il vò-
stro móndo è un guscio di nóce. La vòstra gaiézza sta in
una bottiglia di schampagne. Crédi di avér riso mai, tu? Di
quél ridere che fa buòn sangue e scarica il cervèllo cóme
uno starnuto?
Vói sorridéte e deridéte: ècco tutto. La vòstra giocondi-
tà èsce di piccola véna. La prosperità nón vi rallégra, l’av-
versità vi attèrra. Nón ridéte che délla gènte simile a voi.
Déi dissimili òggi nón ridéte più, perché vi fanno paura.
Nói ridiamo di nói, di vói, délle vicènde pròspere e avvèr-
se. Vói schiumate la péntola: il buòn bròdo sta in fóndo.
Véde più còse un merciaiòlo ambulante nél giro délla
sua provincia, che vói nél giro délla tèrra. Vi lagnate che
tutti i paési si somigliano, e nón vi accorgéte che tutti gli
uòmini sóno differènti. (…) Ma guardala, lì fuòri, la ric-
chézza. È lì, fuòri délla finèstra. Sóno quéi prati, quéi bò-
schi, quél lago e quéi vignéti. La ricchézza è délle còse.
Imp. 100 monologhi 29-01-2008 15:49 Pagina 184

184 100 monologhi ben pronunciati

Roberto Bracco
Il piccolo santo (1909)

Roberto Bracco (Napoli, 1861 – Sorrento, 1943) fu critico


teatrale e musicale, poeta, novelliere e drammaturgo. At-
tento e curioso (soprattutto verso le nuove forme di teatro
europeo), maturò uno stile profondo e ricco di ricerche psi-
cologiche, spesso valutato come evocativo e simbolista. La
sua tensione politica e morale lo portò a un impegno diret-
to (fu deputato di opposizione tra il 1923 e il 1928) e que-
sto spiega in parte la cancellazione delle sue opere in molti
cartelloni teatrali del periodo fascista e del dopoguerra.

In un piccolo centro del Napoletano, vive il prete Fioren-


zo, considerato dai suoi concittadini “santo” per aver salva-
to dalla morte il povero Barbarello. Un giorno arrivano nel
paese – all’improvviso e separatamente – il fratello Giulio e
una donna giovane e affascinante, Annita. Per un momen-
to, forse, Fiorenzo ne è attratto, ma quest’ultima confida al
prete di essere sua figlia, frutto di un suo vecchio amore.
Annita, dopo un po’, si sposerà con Giulio, lasciando Fio-
renzo in una cupa malinconia. Barbarello, per reazione,
procurerà la morte di Giulio. Fiorenzo, appena ricevuta la
notizia, morirà a sua volta.

A ridosso della conclusione del dramma, il protagonista al-


terna razionalità e commozione, lucida argomentazione ma
anche ira, pulsione, desiderio.
Imp. 100 monologhi 29-01-2008 15:49 Pagina 185

Il piccolo santo 185

G iulio, a don Fiorenzo: Perché dovrèi tollerare più a


lungo la tua arbitraria requisitòria! Quéllo che sènto
pér Annita è dégno di lèi, e lo proclamo cón tutte le fòrze
dél mio èssere, respingèndo fieraménte i tuòi sospètti in-
consulti.
Una vòlta, no, nón sarèi stato capace di un simile amó-
re, éd io pér il primo lo dichiaro; ma siète stati tu e lèi che
mi avéte in pòco tèmpo ricostruito, siète stati tu e lèi che
mi avéte rinnovato, esercitando su me una spècie di malìa
irresistibile, éd è davvéro esasperante l’ingiustizia cón cui,
óra che mi avéte fatto diventare un vòstro affine e che pér
tale dovréste ritenérmi, tu mi vilipèndi éd élla mi disprèz-
za!
Cèrto, nón sóno un ascèta. Nón sò amare immergèndo-
mi nélle astrazióni cerebrali. I mièi sènsi gèmono, i mièi
sènsi anèlano, i mièi sènsi chièdono! Essi attribuiscono alla
persóna di quélla fanciulla una bellézza eccezionale, una
bellézza affascinante, che élla, probabilménte, non ha.
Io ho perduto la facoltà di esaminarla, di analizzarla, di
valutarla, e, malgrado quésto, o appunto pér quésto, nes-
sun’altra dònna, oramai, potrèbbe sembrarmi bèlla cóme
lèi, éd io la desidero, sì, la desidero, la desidero, cóme
nessun’altra dònna potrò mai più desiderare!... Ma è bèn
divèrso, caro Fiorènzo, quésto mio desidèrio dalla cupidi-
gia di cui tu mi accusi.
Quésto mio desidèrio si muterèbbe in ribrézzo, si mu-
terèbbe perfino in òdio se, pér uno strano fenomeno mo-
struóso, Annita mi si offrisse così, cóme tutte le dònne che
pér me tradirono un amante o un marito o gettarono alla
ventura la lóro verginità. E dunque? E dunque? Dov’è il
mio capriccio? Dov’è l’accanito puntiglio déi mièi sènsi?
Dov’è? Dimmelo! Dimmelo! Dimmelo, perdio!
Imp. 100 monologhi 29-01-2008 15:49 Pagina 186

186 100 monologhi ben pronunciati

Sem Benelli
La cena delle beffe (1909)

Sem Benelli (Prato, 1877 – Zoagli, 1949), fu scrittore auto-


didatta e appassionato di letture diversificate e molteplici.
In un clima culturale segnato dall’imperante dannunzia-
nesimo, Benelli seppe apportare elementi di innovatività,
distanziandosi anche, nei contenuti, nella lingua e nell’in-
treccio, dal teatro verista e borghese. La sua fortuna di au-
tore è però circoscritta al solo testo La cena delle beffe, re-
plicato anche a Broadway, e a Parigi con Sarah Ber-
nhardt.

Giannetto e Neri sono innamorati di Ginevra, e se la con-


tendono senza risparmiarsi inganni e tranelli, anche violen-
ti. A causa dell’infittirsi di queste sfide – soprattutto duran-
te un convivio, e dopo in una “prova della pazzia” – Gian-
netto prepara la beffa più atroce: dà appuntamento a Neri,
di notte, nella stanza di Ginevra; gli fa credere di averla se-
dotta, e aspetta che Neri lo uccida, credendolo nascosto
sotto le lenzuola. In realtà Neri ucciderà Gabriello, fratello
dello stesso Neri, il quale finirà con l’impazzire.

Un personaggio secondario per un monologo appassionato


e vibrante.

L isabetta (a Neri con voce semplice, ardente):


Cóme mi piaci anche così sconvòlto!...
Se ti avéssi baciato e ribaciato,
tu sarésti così, così turbato…
perché l’amóre è pure una pazzia…
Lo sò io; lo sò io! Lo sa la mia
Imp. 100 monologhi 29-01-2008 15:49 Pagina 187

La cena delle beffe 187


nonnina, cón la quale ne parlavo.
Oh quanto amóre! E nón lo protestavo!
Quanto dolóre! E nón me ne avvilivo!...
Tu mi passavi accanto, cóme al rivo,
copèrto di ranuncoli e di mammole,
passa il torrènte: canta e séco mórmora,
e nulla véde; e il rivo in lui si spècchia…
Sóla la mia compagna, la mia vècchia
nònna, ch’èbbe un amóre sfortunato,
a sperare, a sperare m’ha insegnato;
perché conósce cóme bèlla io sóno
e quante grazie pòrto, se mi dóno.
Ella mi dice che són d’òro vivo…
Perché délla lucèrna mi vergógno…
Fóssi tu la lucèrna! Che bèl sógno
di luce che sarèbbe! Ma tu invéce
mi sèi passato accanto e nón m’hai vista,
sebbène tu m’avéssi illuminata… (…)
Si dirèbbe che hai la ménte sana.
Pòvero amóre! Dicon che tu sia
feróce; ma è pur bèlla la feròcia!
Nói déboli fanciulle altro nón siamo
che agnellétte che trèmano, nascóste
sótto l’arbusto délla purità,
e che agógnano d’èsser divorate
da un magnifico lupo cóme té…
Guardami fisso!... Guardami!... Nón puòi?
Nón védi néi mièi òcchi quanto amóre?
(Neri resta immobile, impietrito, colmo di rabbia)
Mi chiamo Lisabètta, Lisabètta…
Nón saprésti ripètere il mio nóme?
Ah, nóme mio détto dalle tue labbra!
E mai nessuno te lo insegnerà!
Io dirò dunque il tuo, ché lo so bène:
tante vòlte l’ho détto quante gócce
passano d’acqua in Arno, in una nòtte.
E lo so dire in infiniti tòni:
piangèndo, desiando: Néri!... Néri!…
Imp. 100 monologhi 29-01-2008 15:49 Pagina 188

188 100 monologhi ben pronunciati

Filippo Tommaso Marinetti


Il re Baldoria (1910)

Filippo Tommaso Marinetti (Alessandria d’Egitto, 1876 –


Bellagio, 1944) legò il suo nome al movimento futurista, da
lui stesso fondato. Presentato (e ordinato) attraverso una
serie di “manifesti” (quelli concernenti il teatro furono
pubblicati dal 1911 al 1915), il futurismo marinettiano è
dinamicità, sovversione, conflitto. Al di là di tesi – e produ-
zioni artistiche – a volte espresse con ingenua e provocato-
rietà, l’opera di Marinetti rappresenta un elemento di svec-
chiamento dalle convenzioni rappresentative del naturali-
smo italiano.

Scritto inizialmente in francese (e solo dopo cinque anni


tradotto in italiano), Il re Baldoria è ambientato in epoca
genericamente medievale e – ricco di battaglie, assedi, ri-
volte – ha come tema principale il cibo: digiuni, ingozza-
menti, digestioni. I personaggi che attraversano l’opera
hanno tutti nomi strani (Mazzapicchio, Panciarguta, Fra’
Trippa, Santa Putredine; abitano il regno dei Citrulli, dei
Baccelloni; abitano la Villa dei Prosciutti…), a dimostrazio-
ne che l’unico orizzonte umano certo è quello delle ma-
scelle e della gola, e non più della poesia.

Il monologo presentato appartiene alla prima parte del-


l’opera e ne esprime la componente volutamente verbosa:
parole compiaciute e ricercate, e allo stesso tempo vomita-
te e svilite: “sputacchiate”.
Imp. 100 monologhi 29-01-2008 15:49 Pagina 189

Il re Baldoria 189

M azzapicchio: Mi destai, l’indomani, nélla soffitta


d’una lurida tavèrna, stéso boccóni su un lètto sfron-
dato… E sputavo sangue!… Un uragano squassava i muri,
e quéllo stambugio èra affocato cóme una fornace dalla cé-
nere róssa che tamburellava sui vétri!
Il vènto dél Sud s’accaniva, rabido, a volér sventrare la
catapécchia! Paréva che mille dèmoni stéssero tirando fero-
ceménte le budèlla immènse délla tèrra, dai mugghianti spi-
ragli délla cantina!… Tutte le lève déll’infèrno scricchiola-
vano sótto la pòrta… ed io sudavo fréddo… quando la
Mòrte entrò nélla mia soffitta… Quélla cialtróna maledétta
tramandava di sótto i suoi cénci fangósi uno strano puzzo
d’èrbe fradicie! Appéna entrata, élla protése vèrso di mé la
sua bócca dalle labbra tumide e rósse cóme la vulva di una
cagna in frégola…
Io vòlsi il capo, ma quélla bagascia mi prése alle spalle,
mi cinse il còrpo cón le braccia viscide e metalliche! Acca-
de mai a qualcuno di vói di rotolare, legati i pièdi e le ma-
ni, cóme un barile in fóndo alla stiva d’un brigantino tartas-
sato dalla burrasca? Così fu di mé, poiché la megèra mi
scuotéva sì violenteménte da farmi salir la nausea alla góla,
méntre mi stordiva affannandosi a cacciarmi tra le labbra,
nélle orécchie soprattutto, la sua lingua rigida e frédda!…
Ed io mi contorcévo, ve lo giuro, éntro la sua bócca stéssa,
più profónda di una cavèrna, e tra i suòi enórmi dènti
bianchi e radi cóme piètre tombali!…
Pér tré giórni e tré nòtti, i suòi baci viscósi colarono
grasso caldo e cénere nélle mie fauci e néi miei polmóni
ingorgati, che russavano cóme draghe. Ad un tratto, attra-
vèrso il fumo che m’annebbiava il cervèllo, vidi la mano
lèrcia délla Mòrte frugare nél mio cassétto, fra il colóre del-
l’òro!… Péntole di Satana! Pensai che élla stésse pér rubar-
mi tutti i mièi risparmi!…
E allóra… allóra… mi dièdi a mòrdere feroceménte,
cón tutta la fòrza délle mie mascèlle, nélla grascia dél séno
délla baldracca, e cón uno sfòrzo sovrumano le sputai in
faccia cènto vòlte, mille vòlte, innumerévoli vòlte!… Dio!
Che sputacchi!…
Imp. 100 monologhi 29-01-2008 15:49 Pagina 190

190 100 monologhi ben pronunciati

Luigi Chiarelli
La maschera e il volto (1916)

Luigi Chiarelli (Trani, 1884 – Roma, 1947) è considerato il


caposcuola del “teatro grottesco”. Con una solida esperien-
za di traduttore e narratore, Chiarelli pubblicò La masche-
ra e il volto nel 1916, con uno straordinario successo di
pubblico e di critica. Decise allora di dedicare la sua vita,
fondamentalmente, alla professione di drammaturgo e or-
ganizzatore teatrale. Luigi Chiarelli va infine ricordato per
aver realizzato le prime commedie scritte appositamente
per la radio.

Il conte Paolo scopre che sua moglie Savina lo tradisce.


Ignaro di chi sia l’amante della moglie, chiede a quest’ulti-
ma di andar via dalla sua vita, e racconta agli amici di
averla uccisa. Viene difeso, nel successivo processo, dal-
l’amico Luciano che, grazie a un’arringa dura nei confronti
della donna, riesce a ottenere il minimo della pena: sei
mesi. Trascorsi i quali, Paolo scopre la falsità di Luciano
(era lui l’amante), ma soprattutto riceve le clandestine visi-
te della moglie. La quale, ufficialmente morta, potrà ricon-
quistare il marito vivendo con lui in una condizione clan-
destina di totale e anticonvenzionale libertà.

Questa è la prima parte dell’opera, e il protagonista deve


comunicare – fingendo – ai suoi amici di aver commesso
un assassinio. È volutamente enfatico, autistico, contratto.
È falso ma comunque convincente; è freddo e cinico ma
allo stesso tempo profondamente tenero e innamorato.
Imp. 100 monologhi 29-01-2008 15:49 Pagina 191

La maschera e il volto 191

P aolo: agli amici Mi tradiva… l’ho uccisa (…) Un’óra fa,


méntre eravamo qui riuniti, élla èra nélla sua camera,
cón un uòmo! (…) L’ho sorprésa; ma ha avuto il tèmpo di
fuggire!…
(…) Pòi… èro rimasto qui, sólo… quando élla è torna-
ta… è apparsa diètro quéi vétri… è entrata… Sperava fórse
che io la perdonassi!...
(Si accende sempre più nella sua descrizione) Ah!…
perdonarla!… ha potuto sperare!… ha détto qualcòsa che
nón ricòrdo; mi sóno precipitato su di lèi… l’ho ghermi-
ta… pòi… nón sò bène… è riuscita a sfuggirmi… l’hò
présa alla góla…
Ecco… ricòrdo lucidaménte la sensazióne délle mie di-
ta, délle mie unghie che affondavano nélla mórbida bian-
chézza dél suo còllo… Addossata alla balaustrata… élla si
dibattéva… cón furóre… impallidiva sèmpre più… E io ad
un cèrto moménto… completaménte fuòri di me… l’ho
spinta… l’ho spinta…
È precipitata… giù!… Un grido… un tónfo… due mani
bianche in un gèsto disperato a fiór d’acqua… pòi déi cér-
chi, déi cérchi sèmpre più grandi… pòi più nulla… il silèn-
zio!…
Ècco!… L’hò uccisa!
Imp. 100 monologhi 29-01-2008 15:49 Pagina 192

192 100 monologhi ben pronunciati

Ettore Petrolini
Nerone (1917)

Ettore Petrolini (Roma, 1886-1936) si cimentò, sin dal-


l’adolescenza, con il teatro macchiettistico nei café chan-
tant romani. Dopo aver maturato una solidissima esperien-
za a Roma, fu apprezzato come attore moderno e geniale
dalla critica milanese, che lo incoraggiò a rappresentare i
suoi testi. E in questi (probabilmente prendendo di mira
l’imperante dannunzianesimo) Petrolini accentuò il suo
gusto irrisorio e dissacrante. Il successo – con tournées ac-
clamatissime – fu ulteriormente suggellato all’estero. Inte-
ressanti sono anche i volumi della sua Autobiografia.

Petronio avvisa il suo imperatore – Nerone – del malcon-


tento della plebe, e Nerone decide di dare fuoco alla città.
Di fronte alla reazione negativa del popolo, e poi è abile
nello sviare le accuse: per distrarli offre ai cittadini i nume-
ri della morra, e promette di ricostruire una Roma ancor
più ricca e sontuosa. Facendo leva esclusivamente sui pro-
pri interessi immediati, il popolo si impegna a decidere se
accordare o no la fiducia al becero imperatore. Ogni mi-
naccia infine scompare quando viene avviato un grande
baccanale…

Parole in libertà improvvisate e contemporaneamente ricer-


cate. Le frasi vengono fuori spontanee e veloci, ma i ritmi
adoperati (fatti di accelerazioni, digressioni brusche inter-
ruzioni) danno un senso di complicità giocosa e divertita.
Imp. 100 monologhi 29-01-2008 15:49 Pagina 193

Nerone 193

N erone (a una folla variegata di presenti): Oh, ignobile


ciurmaglia, dégna della Suburra! Còsa facevate in mia
assènza? Cospiravate fórse cóntro la mia sacra persóna?
Che tèmpi! Che bell’època quélla dél grande Ulisse che
qual guerrièro impavido sèmpre pugnando visse. I tèmpi
che vantarono Omèro ed il Nasóne… più giù cantò Virgi-
lio e pòi cantò Neróne, la solita canzóne.
Nò, cara piccina, nò, così nón va. Dóve sóno più gli
uòmini prodi? Dov’è più Muzio, quel po’ po’ di Muzio? Mi
hai détto niènte: Muzio? Muzio Scèvola, che, ardito, l’Etru-
sco uccise e il mèmbro suo sì fòrte, lo mise al fuòco e lo
lasciò arrostire, cón ghigno duro e disprezzò la mòrte?
Dóve sóno più quéi tré Orazi e Curiazi che si sfidarono
a singolar tenzóne? E Orazio Còclite, che segò il Pónte Su-
blicio, meritandosi fama di grande segatóre? E Menelao?
M’hai détto pòco, Menelao! Menelao! Me ne lavo le mani…
Menelao Ré délla Beozia Stercoraria… E Attilio Règolo che
pér règola mia e tua nón l’abbiamo mai visto né conosciu-
to… Fu ruzzolato in una bótte irta di chiòdi… E Marco Ca-
tullo Vespasiano che dettò quella famósa epigrafe, che an-
cór oggi potéte lèggere in tutti i civici giardini déll’Urbe: “È
vietato condurre séco cani sciòlti!”…
Io ho combattuto cóntro i galli, i pólli, i cimbri, i pachi-
dèrmi. Io mi sóno trovato quando Claudio sposò Lucrèzia
Borgia… e Galilèo Galilèi, pér vendétta, andò a nòzze cón
Messalina, e Messalina disse: “Eppur si muòve”. E Cornelia!
Cornelia, la madre déi Gracchi… un giórno le vénne do-
mandato: Dóve sóno i tuòi gioièlli? Quali sóno i tuòi gioièl-
li? Ella prése pér mano i suòi mocciósi bimbétti e bacian-
doli sulle calve testoline esclamò: “I mièi gioièlli li ho por-
tati al Mónte di Pietà!” E vói còsa facevate in mia assènza?
Cospiravate cóntro la mia sacra persóna?
Pér gli Dèi déll’Avèrno, nón fate che riapra il Circo
Massimo o il Colossèo, a prèzzi popolari…!
Imp. 100 monologhi 29-01-2008 15:49 Pagina 194

194 100 monologhi ben pronunciati

Pier Maria Rosso di San Secondo


Marionette, che passione! (1918)

Pier Maria Rosso di San Secondo (Caltanissetta, 1887 – Li-


do di Camaiore, 1956) si laureò in legge a Roma, dove fre-
quentò, tra gli altri, Luigi Pirandello e Anton Giulio Braga-
glia. Influenzato dall’espressionismo e dai suoi viaggi nor-
dici (in cui scoprì Ibsen, Strindberg, Maeterlinck e Wede-
kind), manifestò nei suoi testi un elevato controllo della pa-
rola simbolica; in cui sembra emergere, lungo alcuni pas-
saggi, la sensualità lirica di D’Annunzio.

Ambientata a Milano, la storia prende avvio in un ufficio


postale dove il “Signore in grigio” sta scrivendo un tele-
gramma. Accanto a lui, due persone: un “Signore a lutto”,
abbandonato dalla moglie infedele, e una “Signora dalla
volpe azzurra”, fuggita dal suo amante e dai suoi maltratta-
menti. Questi ultimi, per un attimo – che si rivelerà fatale
–, decidono di vivere assieme, confortandosi reciproca-
mente. Ma la realtà, ovviamente, è più complessa; e tragica
e banale.

È l’inizio del dramma, e il monologo ne svela subito i pos-


sibili, inquietanti sviluppi. (“Ridare” – da “ridda”, un antico
ballo – sta qui per “sballottolare”.)

I l signore in grigio: Un moménto, vi prègo, signóri mièi.


Ho bisógno di dirvi due paròle prima che ve n’andiate.
Anch’io dovévo scrivere il mio telegramma. Nón l’ho scrit-
to. Nón lo scrivo. Da un quarto d’óra avévo già risólto di
nón scriverlo. Però, sóno rimasto ad ascoltarvi. Sì, signóri,
ve lo confèsso. Ho finto d’èssere preoccupato d’altro: invé-
ce mi costernavo pér vói. Óra io vi dico che quanto vói
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Marionette, che passione! 195


state pér comméttere è folle, insensato, orribile. Ma soprat-
tutto: inutile.
Lasciate ch’io ve lo avvèrta in coscienza. Pòi andateve-
ne, se credéte. (I due ascoltatori – il Signore a lutto e la Si-
gnora dalla volpe azzurra – chinano gli occhi e si siedo-
no). Vedéte? È bastato ch’io, un estraneo, picchiassi alla
vòstra coscienza… e siète ricascati… Ma su, signóri, nón
abbiate cotést’aria umiliata dinanzi a me. Io nón sóno né
un ispettóre di polizia né un giudice istruttóre: né vói sta-
vate pér comméttere alcun delitto contemplato dalla légge.
Soltanto, poiché io sóno uno sciagurato cóme vói, nél-
l’ascoltarvi da quést’angolo di tavolo, ho avuto rabbia, pé-
na, angòscia, nél vedére rispecchiata in vói la mia stéssa
miseria.
Ma di più, nél vedérvi a pòco a pòco cascare nél tra-
nèllo d’una illusióne ch’io conósco di già: quélla di potérsi
legare ad un altro èssere pér dimenticare… Pazzie… paz-
zie, signóri mièi… Credéte a un uòmo ch’è stato pér com-
métterle tutte! Sì, e perché nón dirvelo? Quést’uòmo le ha
pensate tutte: gli hanno riddato nél cervèllo in trèno, all’al-
bèrgo, pér vie di città stranière, pér bòschi, pianure,
montagne dov’è andato corrèndo, fuggèndo… Pòi ha
compréso che la passióne èra invincibile, che bisognava
lasciarla logorare piano piano. Eh, èh! Lór signóri sóno no-
vizi!… (…)
Ma le pazzie nò, nón bisógna commétterle… Però, se
voléte, andate pure, adèsso. Se nón che, domani, ve l’av-
vèrto, avréte nausea di vói stéssi! Prendéte un appartamén-
to: fingéte d’èssere marito e móglie!… Che se domani nón
vi vergogneréte cóme ladri e potréte illudervi di aiutarvi,
di vincere la vòstra passióne pér un mése pér due pér tré,
più tardi sarà pèggio: vi odieréte; infine uno di vói due uc-
ciderà l’altro. Andatevene pure insième, se vi piace. Vedré-
te che còsa vi accadrà. Vói credéte di potér trattare la vò-
stra anima cóme si tratta un sèrvo. Ma che sèrvo! Nemmé-
no un sèrvo!… Credéte di potérne fare quél che voléte.
Provateci, signóri!
Imp. 100 monologhi 29-01-2008 15:49 Pagina 196

196 100 monologhi ben pronunciati

Luigi Antonelli
L’uomo che incontrò se stesso (1918)

Luigi Antonelli (Castilenti, 1877 – Pescara, 1942) fu scrit-


tore, giornalista, drammaturgo e, anche se raramente e so-
lo per i suoi testi, attore. Dopo gli studi universitari a Firen-
ze, visse un’esperienza di vita e lavoro in Argentina; poi
tornò in Italia riscuotendo un alto successo per i suoi spet-
tacoli, paradossali e irriverenti verso i clichés del teatro del
suo tempo. Al termine della sua carriera, malato (e quindi
impossibilitato a seguire fisicamente gli spettacoli), spostò i
suoi interessi verso la letteratura.

Nella strana, fantastica isola del dottor Climt arriva Luciano,


che ha scoperto l’infedeltà della moglie Sonia a causa di
un terremoto: sotto le macerie infatti sono stati ritrovati i
corpi della moglie e di Rambaldo, il miglior amico di Lu-
ciano. Climt ha la possibilità di fermare il tempo, rendendo
“presente” ciò che già è avvenuto, e spinge Luciano a tor-
nare indietro, sì da poter capire meglio i suoi errori ed
eventualmente cambiare il suo comportamento. L’esperi-
mento però è destinato a fallire: e Luciano lascia, senza al-
cuna nostalgia, l’isola e con essa la ricerca e la rettifica del
suo passato.

Siamo nella fase conclusiva del dramma, e il monologo è


una sintesi di dolcezza, ira, vendetta, bisogno di pacifica-
zione. Sullo sfondo, un’altalena di ricerca e di fuga dalla
realtà.
Imp. 100 monologhi 29-01-2008 15:49 Pagina 197

L’uomo che incontrò se stesso 197

L uciano: Il terremòto mi rivelò l’orribile inganno. Io èro


lontano, mancavo da casa da circa un mése… La mia
casa seppellita dal terremòto travòlse la dònna infedéle in-
sième cón l’amante, che manco a dirlo, èra mio amico inti-
mo. Cóme vedéte, l’avventura nón è insolita. C’è voluto il
terremòto pér aprirmi gli òcchi! C’è voluto che la tèrra si
squarciasse, inghiottisse, rovinasse!
Eppure vi giuro che avrèi preferito sapérli amanti, ma
vivi, piuttòsto che trovarli insième cóme se dormissero an-
córa, placidi sotto la vòlta che li seppellì! Quando sèppi
délla catastrofe, mi misi in trèno che sembravo un pazzo.
Chiamavo fòrte, disperataménte: “Sònia! Sònia! Sònia!” (…)
Durante il viaggio però, cóme succède, mi abituai al-
l’idèa di trovarla mòrta… Mi abituai e mi commòssi, in an-
ticipo. Vidi persino la commiserazióne déi presenti alla
scèna che sarèbbe stata esemplare da parte mia. Già mi
vedévo méntre scavavo cón le mani tra le macèrie… Pen-
sai anche, e scacciai cón orróre quésto pensièro – ma lo
pensai! – che mi sarèi riammogliato.
Sóno còse che nessuno òsa confessare: ma io che ama-
vo, io che adoravo la mia Sònia, pensai stupidaménte, sa-
crilegaménte, a un’altra dònna fórse biónda che mi avrèb-
be amato pér la mia tragedia. Pensai anche – e scacciai
cón orróre quést’altro pensièro, ma lo pensai – alle esè-
quie, alle epigrafi, e che voléte che vi dica! Quél maledét-
to trèno èra così lungo! (…)
E pòi, dópo, vòlli partire, viaggiare, ho girato il móndo,
són passati mólti anni, mi hanno silurato… E infine èccomi
qua. Pure pènso a Sònia sènza quéll’amarézza che sarèbbe
legittima in un uòmo tradito. Fórse anch’io ho sbagliato.
Avrèi potuto protèggerla, ma nón la sapévo in pericolo;
avrèi potuto consolarla ma nón la sapévo triste…
Che hò saputo di lèi? Niènte! Mai niènte! L’ho amata
cóme un ragazzo (…): e prima che io potéssi capirla è
mòrta. Nói uòmini siamo de’ grandi animali. Bisognerèbbe
che le dònne lo sapéssero!
Imp. 100 monologhi 29-01-2008 15:49 Pagina 198

198 100 monologhi ben pronunciati

Enrico Cavacchioli
L’uccello del paradiso (1919)

Enrico Cavacchioli (Pozzallo, 1885 – Milano, 1954) fu


giornalista, librettista, poeta, drammaturgo e critico teatra-
le. Attratto nella giovinezza dal movimento futurista, riuscì
a mantenere in séguito una forte tensione antiborghese e
anticonvenzionale, con la ricerca di innovativi esiti lingui-
stici e narrativi.

Giovanni è un autorevole ornitologo ed è proteso, nella vi-


ta, a cercare la perfezione dei suoi uccelli impagliati e la
vertiginosa fuga verticale dell’“uccello del paradiso”. La
moglie Anna l’ha lasciato proprio per questo, preferendo
vivere in modo più autentico e (inevitabilmente) contrad-
dittorio. Anna è legata a un uomo – denominato “Lui” – ed
è amante del cinico Mimotte, che a sua volta ha una rela-
zione con Donatella, giovane figlia di Giovanni e Anna.
Quando questo retroscena viene scoperto, Anna deve ri-
credersi sulla ricerca di pulizia e perfezione del marito. Ma
ormai (per volere di Lui?) è troppo tardi, e muore colpita
da un infarto.

Siamo all’inizio del dramma, e “Lui” tira fuori tutto il reper-


torio di lusinghe, insinuazioni, tentazioni: per coinvolgere
e circuire (deviare?) il pubblico.

L ui (parlando alle tre donne del dramma, e riferendosi a


Giovanni): Ma che galantuòmo siète! Sèrio, modèsto,
equilibrato! L’onestà in gonnèlla!
E vòstra móglie, la signóra vòstra móglie è quésto! E
vòstra figlia, la signorina vòstra figlia è quésto! E gli aman-
Imp. 100 monologhi 29-01-2008 15:49 Pagina 199

L’uccello del paradiso 199


ti di vòstra móglie, i rispettabili amanti di vòstra móglie só-
no quést’altro! Ma aprite gli òcchi anche vói, pér Dio! Vale
la péna di insegnare zoologia comparata, se nón conoscé-
te ancora tutto quésto bestiame? Capisco: ne va délla vo-
stra tranquillità digestiva! (…)
(Perché vi dico queste cose?!) In fóndo, lo faccio pér
amóre dél prossimo. Si capisce (si alza. Ora è come un
conferenziere dinanzi al piccolo uditorio delle tre donne)
Cón quéllo che sò, gòdo di fabbricare quéllo che nón vé-
do, di prevedére quéllo che accadrà, matematicaménte… E
tutto ciò per semplificare la vita e ridurla alla minima
espressióne sentimentale… Perché la verità nón è, ma si
fa!… (…)
Vói credéte che io vi parli. E nón è véro: vói traducéte
una suggestióne déllo spirito in una realtà. Vói mi date un
còrpo, un aspètto, un abito, una vóce. Io pènso, ma nón
esisto. Le rispóste che dò alle vòstre obiezióni sóno formu-
late dalla vòstra stéssa fantasia. Nón esisto né pér vói né
pér gli altri.
Se fóssi in un teatro, e se recitassi una commèdia, nón
esisterèi nemméno pér il pubblico, altro che cóme una
sémplice astrazióne. E potrèi perméttermi le còse più sag-
ge e più pazze. Tirare délle revolverate alla luna, o cammi-
nare cóme i pipistrelli. Avvelenarvi cón déi vapóri fosfòrici
o farvi morir diabètici pér l’eccessiva dolcézza délle mie
paròle. Se qui si è organizzata una conversazióne che sém-
bra lògica, si è perché siète vói che avéte accordato le vò-
stre affermazióni e le vòstre contraddizióni su di un argo-
ménto che può apparire intonato. (…)
Perché si hanno ancóra le tragedie délla gelosia? Per-
ché diamo una importanza tragica alla fedeltà. E quésta,
veraménte, è una debolézza inconcepibile in quégli anima-
li inferióri… che siamo! Buòna séra… (esce precipitosa-
mente).
Imp. 100 monologhi 29-01-2008 15:49 Pagina 200

200 100 monologhi ben pronunciati

Luigi Pirandello
La vita che ti diedi (1923)

Luigi Pirandello (Agrigento, 1867 – Roma, 1936) fu docen-


te universitario, narratore, drammaturgo. Dopo raffinati
studi di filologia, prima in Sicilia e poi in Germania, e do-
po essersi trasferito a Roma e misurato con la cultura più
avanzata del tempo, si dedicò con passione all’attività tea-
trale. Da Pensaci, Giacomino! e Liolà del 1916, Pirandello
ebbe un crescente successo di pubblico e di critica, affer-
mandosi in Italia e all’estero per l’audacia delle tematiche
affrontate nonché per le sue tecniche narrative e dramma-
turgiche. Protagonista straordinario del panorama teatrale
italiano, consacrò il suo successo ricevendo il premio Nobel
per la letteratura nel 1934.

Dopo sette, lunghissimi anni di attesa, Donn’Anna assiste


finalmente al ritorno di suo figlio. Ma questi è molto mala-
to, quasi irriconoscibile; e dopo due giorni dal rientro,
muore. Ma l’attesa era stata troppo intensa, la presenza
troppo fugace, e la madre così rifiuta la verità; scansa la
morte e si rifugia in un presente trasfigurato: suo figlio non
è mai morto, il ricordo di lui – di quello che era stato, le
fattezze di sette anni pima – la accompagnerà nei suoi
giorni di quieto dolore.

È la parte finale della tragedia, e la protagonista è final-


mente libera di sfogare un dolore troppo a lungo (e inutil-
mente) trattenuto.
Imp. 100 monologhi 29-01-2008 15:49 Pagina 201

La vita che ti diedi 201

D onn’Anna: Sì, sì: pér nói piangiamo; perché chi muò-


re nón può più dare – lui, lui – nessuna vita a nói,
cón quéi suòi òcchi spènti che nón ci védono più, cón
quélle sue mani frédde e dure che nón ci pòssono più toc-
care.
E che vuòle ch’io pianga, allóra, se è pér mé! – Quan-
do èra lontano, io dicévo: – “Se in quésto moménto mi
pènsa, io sóno viva pér lui”. – E quésto mi sostenéva, mi
confortava nélla mia solitudine. – Cóme dèbbo dire io óra?
Dèbbo dire che io, io nón sóno più viva pér lui, poiché
égli nón mi può più pensare – E vói invéce voléte dire che
égli nón è più vivo pér mé.
Ma sì che égli è vivo pér mé, vivo di tutta la vita che io
gli ho sèmpre data: la mia, la mia; nón la sua che io nón
sò! Se l’èra vissuta lui, la sua, lontano da me, sènza che io
ne sapéssi più nulla. E cóme pér sètte anni gliél’ho data
sènza che lui ci fósse più, nón pòsso fórse seguitare a dar-
gliela ancóra, allo stésso mòdo? Che è mòrto di lui, che
nón fósse già morto pér mé?
Mi sóno accòrta bène che la vita nón dipènde da un
còrpo che ci sia o nón ci sia davanti agli òcchi. Può èsserci
un còrpo, starci davanti agli òcchi, ed èssere mòrto pér
quélla vita che nói gli davamo. – Quéi suòi òcchi che si di-
latavano di tanto in tanto cóme pér un brio di luce improv-
viso che gliéli facéva ridere limpidi e felici, égli li avéva
perduti nélla sua vita; ma in mé, nò: li ha sèmpre, quégli
òcchi, e gli ridono sùbito, limpidi e felici, se io lo chiamo e
si vòlta, vivo!
Vuòl dire che io óra nón dèvo più perméttere che s’al-
lontani da mé, dov’ha la sua vita; e che altra vita si frap-
pónga tra lui e me: quésto sì! – Avrà la mia qua, néi mièi
òcchi che lo védono, sulle mie labbra che gli parlano; e
pòsso anche fargliela vivere là, dóve lui la vuòle: nón
m’impòrta!
Sènza darne più niènte, più niènte a me, se nón me ne
vuòl dare: tutta, tutta pér lui là, la mia vita: se vivrà lui, e io
starò qua ancóra ad aspettarne il ritórno, se mai riuscirà a
distaccarsi da quélla sua disperata passióne.
Imp. 100 monologhi 29-01-2008 15:49 Pagina 202

202 100 monologhi ben pronunciati

Achille Campanile
L’inventore del cavallo (1925)

Achille Campanile (Roma, 1899 – Lariano, 1977) ha af-


frontato sin dall’inizio – per sua stessa ammissione – in
modo frivolo e leggero le contraddizioni e i paradossi della
nostra contemporaneità. Spirito irriverente e arguto, fu
scrittore, critico televisivo, drammaturgo. Il suo L’amore fa
fare questo e altro scatenò violenti contrasti nel pubblico
milanese, e fu interrotto; il suo saggio Trattato delle barzel-
lette è ancor oggi uno dei più brillanti studi relativi ai
meccanismi su cui si basa (anche) il suo umorismo.

L’inventore del cavallo è il professor Bolibine, atteso con


impazienza in seduta straordinaria dai membri dell’Accade-
mia di Scienze, Lettere e Arti. Gli altri accademici ammaz-
zano il tempo tra dubbi e affermazioni («il freddo è fred-
do?», «il caldo è caldo!») oppure tra giochi infantili: lanci di
carta, palline, etc. Ma poi Bolibine arriva e affascina tutti
con i suoi disegni che mostrano lo sviluppo della sua in-
venzione. Tutti applaudono; ma applaude ancor di più per
strada la folla, all’arrivo di un reparto di cavalleria. Il caval-
lo in realtà era stato già inventato. Tra fischi e improperi,
Bolibine, eroico, si suicida.

Questa è una delle pagine più famose del testo: il protago-


nista ha un piglio autoritario e affettuosamente saccente; è
un professore enfatico e contemporaneamente un buffone
divertente e patetico.
Imp. 100 monologhi 29-01-2008 15:49 Pagina 203

L’inventore del cavallo 203

B olibine: Cóme lór signóri pòssono vedére da quésta


tavola illustrativa che mi permétto sottopórre alla lóro
attenzióne, ho diviso il cavallo in tre parti: tèsta, còrpo,
estremità.
L’ho fatto di quattro gambe, gli ho mésso la códa. (In-
dica) Gambe, códa. Dal mio primo cavallo (svolge un se-
condo rotolo con un bruttissimo cavallo deforme) – ancóra,
cóme si véde, rudimentale –, all’ultimo (indica il primo),
grande è il cammino che ho percórso. Ma mi propóngo di
perfezionare, sèmpre più, la mia inventióne, cón opportu-
ne modifiche.
Finóra, pér esèmpio, mi sóno limitato a produrre caval-
li néi sóli colóri bianchi, néri, grigi, caffellatte. In séguito
intèndo arrivare a produrne anche turchini, vérdi e róssi.
(Presenta il terzo quadro) Quésti saranno di mólto effètto
néi giórni di fèsta. Quanto alle applicazióni pratiche délla
mia inventióne, cóme tutti pòssono immaginare, ésse sóno
infinite. Anzitutto, il cavallo lo si può attaccare alle carròz-
ze, ai carrétti, ai calèssi. Il cavallo può, infatti, tirare.
Né basta: ci si può benissimo andare sópra. Inóltre, ci
si pòssono fare le córse. Le córse al galòppo, al tròtto. Ci si
pòssono fare una quantità di graziósi giuòchi al circo
equèstre. Cóme védono, infiniti sóno gli usi ai quali l’ani-
male da mé inventato può servire. (…) La códa (invece)
gliel’ho data un po’ cóme ornaménto, un po’ anche pér
iscacciare le mósche. Ma intèndo abolirla in un secóndo
tèmpo.
La mia inventióne è suscettibile di perfezionaménti de-
stinati a rènderla sèmpre più utile. Pér esèmpio, finóra tira
calci; provvederò a eliminare quésto difètto. Cérco, insóm-
ma, di arrivare a un tipo di cavallo più sémplice, econòmi-
co e alla portata di tutti, di cui pòssono vedére una bòzza
nélla quarta tavola illustrativa.
Imp. 100 monologhi 29-01-2008 15:49 Pagina 204

204 100 monologhi ben pronunciati

Massimo Bontempelli
Minnie la candida (1927)

Massimo Bontempelli (Como, 1878 – Roma, 1960) docente,


giornalista e critico letterario, fu tra i fondatori della com-
pagnia teatrale “Teatro d’Arte di Roma” (o “Teatro degli
Undici”) diretta da Luigi Pirandello. Il suo teatro – sempre
a metà tra realtà e trasfigurazione – tendeva (fu lo stesso
Bontempelli a dichiararlo) verso un “realismo magico”: te-
stimonianza della sua ansia di affrancarsi dalla corrente
futurista e dall’influenza dell’amico Pirandello.

Minnie sta per sposarsi con Skager, ed è una ragazza molto


semplice: crede, letteralmente, a tutto. Un amico un giorno
– scherzando – le rivela che i pesci della vasca, che Minnie
sta ammirando, sono falsi. La ragazza è sorpresa, e l’uomo
– che non comprende la sua particolare psicologia – le ag-
giunge un’altra “verità”: anche molti uomini che circolano
nel mondo sono in realtà “artificiali”. La percezione di una
realtà strana e alterata si fa strada in Minnie. Che, impaurita
da un mondo che le si presenta deforme e incontrollabile
(persuasa che anch’ella possa appartenere alla finzione del
reale), da un davanzale – nelle luci variopinte di una città
per lei sempre più sfuggente –, si suicida.

Sono le battute conclusive del dramma, immediatamente


prima del suicidio di Minnie. E la voce di quest’ultima va
avanti a scatti e a singhiozzo. Minnie dialoga con il suo
amante, ma anche con il vermiglio di luci che l’avvolge e
rapisce.
Imp. 100 monologhi 29-01-2008 15:49 Pagina 205

Minnie la candida 205

M innie (s’alza, lasciando la vestaglia sul letto, in ca-


micia di velo: afferra dalla toletta lo specchio, si but-
ta a terra nel punto più illuminato della stanza): Qui quél-
lo! (accenna a una lampada portatile con un lungo filo
che è sulla tavola: il fidanzato e l’amico gliela portano).
Vói nón venite. Nò. Lontani! (li scosta con le braccia)
Uuh! (con una specie di russare come quando dormiva,
si guarda avidamente allo specchio: cerca di tenerlo immo-
bile e di tenersi immobile: pare che con lo sguardo sfondi e
sprema lo specchio: poi comincia a tremare) Ecco, è cèrto.
Sì, óra sì, védo chiaro, sóno io, io. Nón sóno véra, io, nò,
nò… sóno una di lóro, quélle pòvere… fabbricate. Lonta-
no state, lontani… abbiate paura, abbiate paura di mé. E
nón lo sapévo… Vedére (si fissa ancora, poi il suo sguardo
dallo specchio si trova a mirare come un punto lontano).
Ma però, però… io mi ricòrdo tante còse vècchie. E al-
lóra? Sì. Mi ricòrdo, la mia madre ricòrdo, e mi parlava dél-
la penisola Italia: io èro piccola. Ma, ma, anche ricordare
può èssere finto. Sì, così: così hanno mésso déntro, déntro,
déntro insième quésto ricordare, quélli che m’hanno fab-
bricata, pér ingannarmi di più. Si véde. Si capisce tutto. E
nón lo sapévo! Oh, tante còse óra capisco, tutto capisco
io. Vói nón potéte sapére.
Cóme fare óra? Cóme faccio? Oh tu, perdónami, Ska-
ger… ah, ma nò, sai, l’amóre mio èra véro, sai; quéllo nò,
nessuno l’ha mésso lui fabbricato déntro di mé: sóno io,
quéllo, l’amóre mio, sai? tutto véro l’amóre mio.
Il rèsto nò, nò: mio piccolo Skager, la dònna tua nón
vera è, còsa fai tu délla tua dònna fabbricata tutta, ah… hai
paura… E nón èra cólpa mia, Skager, crédilo… uuh!
(stringe i denti, si stringe tutta in sé come per distruggersi e
scomparire. I due la afferrano per le braccia; lei urla) Nò
(imperiosa), abbiate paura! Nò! Andate via di qua. Nón po-
téte mai… (…) Andate via!
Imp. 100 monologhi 29-01-2008 15:49 Pagina 206

206 100 monologhi ben pronunciati

Sergio Tofano
Qui comincia la sventura del signor
Bonaventura (1927)

Sergio Tofano (Roma, 1886-1973), oltre che uno dei più


grandi attori della scena italiana (nonché docente di reci-
tazione all’Accademia Nazionale d’Arte Drammatica “Sil-
vio D’Amico”), fu anche illustratore e scrittore del «Giorna-
lino della domenica» e del «Corriere dei piccoli». E proprio
uno dei suoi personaggi, il signor Bonaventura, comparso
nel «Corriere» già dal 1917, diventerà uno dei suoi perso-
naggi più apprezzati: fatto di una leggerezza capace di
coinvolgere generazioni differenti e ogni tipo di pubblico.

Il signor Bonaventura fu definito da più parti “l’ultima ma-


schera della Commedia dell’Arte”, e in effetti è segno di
una interpretazione fatta di ritmo, improvvisazione, contat-
to e reciprocità con il pubblico. La sua scrittura però mo-
stra chiaramente la ricchezza di rimandi (che spaziano da
Metastasio al futurismo) cólti, irriverenti, raffinati e – nella
loro comicità – ricchi di una rara sapienza letteraria.

È questo uno dei monologhi più noti del signor Bonaven-


tura, che esalta il ritmo della filastrocca in modo voluta-
mente cantilenante, ironico e autoironico. La voce discetta
e puntualizza; insiste in giochi di parole, assonanze, ritmi
elementari e allo stesso tempo irresistibili.
Imp. 100 monologhi 29-01-2008 15:49 Pagina 207

Qui comincia la sventura del signor Bonaventura 207

B onaventura: E adèsso, ricominciamo a lavorare.


Spazzare, spazzare, sèmpre spazzare,
prima, durante e dópo,
di mia vita la scópa è lo scòpo…
E, qui comincia la sventura
dél signór Bonaventura!
Vita dura, sòrte oscura,
ché tortura addirittura
pér un’anima sì pura
di spazzar la spazzatura!
Dal mattino all’apertura,
alla séra alla chiusura,
cón il fréddo o la calura,
tutto il dì fra quattro mura
véra vita di clausura,
che mestièr da far paura,
malsicura congiuntura
per mé pòvera creatura
così ricca di coltura
avér cura cón premura
di spazzar la spazzatura!
Qui comincia la sventura
dél signór Bonaventura!
Ma che bèlla seccatura!
La fortuna mi trascura,
la disdétta è duratura,
cóntro mé tutto congiura,
se alla péna dò la stura
crésce il duòlo a dismisura.
Qui nél cuòre ho una puntura,
e il cervèllo va in cottura,
ónde avrò prèsto immatura
giacitura in sepoltura!
Qui comincia la sventura
dél signór Bonaventura!...
Imp. 100 monologhi 29-01-2008 15:49 Pagina 208

208 100 monologhi ben pronunciati

Italo Svevo
La rigenerazione (1928)

Italo Svevo (vero nome Ettore Schmitz, Trieste, 1861 – Mot-


ta di Livenza, 1928), oltre che uno dei narratori più inte-
ressanti dell’intero Novecento italiano, fu autore di tredici
commedie, non sempre portate a edizione definitiva e rara-
mente – fino agli anni Sessanta – apprezzate e rappresen-
tate. Centrale nel suo lavoro, accanto a una sperimentazio-
ne linguistica moderna e complessa, fu la crisi individuale
e sociale del periodo storico a cavallo tra i due secoli: la
messa a nudo di vicende apparentemente quotidiane, la
centralità di “antieroi” che arrancano (o si interrogano)
affannati, spesso vuoti di senso e di progetti.

Giovanni Chierici, settantaquattrenne svanito e con vuoti di


memoria, è attratto dagli studi di suo nipote, alle prese con
esperimenti medici di ringiovanimento. Questo interesse è
malvisto dalla figlia Emma (il cui marito è morto da poco
per invecchiamento precoce) e dalla cameriera Rita, che
vede nel progetto del suo padrone un tentativo di circuirla.
E in effetti Giovanni è alla ricerca di una sessualità che gli
riporti in vita antiche passioni. Alla fine, dopo l’intervento
medico, pur riuscito, Giovanni si renderà conto della vel-
leità dei suoi tentativi, accettando con serenità l’evolversi
dell’esistenza.

Siamo nella seconda parte della commedia, e l’anziano


protagonista è alle prese con l’opera di persuasione “ses-
suale”: è giovanile, razionale, minaccioso. Usa tutte le cor-
de – dell’amore e del potere – pur di concupire la sua ca-
meriera e misurarsi con la sua nuova condizione maschile.
Imp. 100 monologhi 29-01-2008 15:49 Pagina 209

La rigenerazione 209

G iovanni (alla cameriera Rita): parliamo di té. Nón si


potrèbbe – quando io diverrò gióvine sul sèrio e sa-
prò saltare e sottopórmi a dégli sfòrzi – organizzare le cò-
se in mòdo ch’io stésso t’aiuti nél tuo lavóro? sènza che
(mia móglie) se ne avvéda? Nón costerèbbe nulla e pér mé
sarèbbe un grande svago.
(Rita ride…) Ridi perché nón sai. Ma i dòtti sóno mè-
glio informati di té. (…) L’operazióne è d’èsito sicuro. Sol-
tanto che quél vècchio maiale… cóme si chiama?, ha détto
che l’èsito dève vedérsi dal contégno cón le dònne. Perciò
occórrono le dònne! Dèvi intèndere: nón si tratta più di un
vizio, di una còsa abominévole e abominata, ma di una
giusta, legittima… santa difésa délla pròpria salute e délla
pròpria giovinézza. Io altriménti nón accetterèi di dedicàr-
mivi perché io sóno e sóno stato sèmpre un uòmo casto.
In quanto a te, se collabori… (le versa da bere) cóme
dicévo? Ah, sì! Se collabori a tale òpera igiènica ne avrai si-
curaménte il prèmio. Lo avrai da mé, dapprima, che farò
pér té quante camere vorrai e pòi anche lassù. Mi pare
che tutte le religióni prescrivano di onorare i vècchi. E si è
vècchi anche quando si è ringiovaniti… vòglio dire che si
ha tuttavia il diritto a rispetto e protezióne… sì, perché gli
anni che si hanno, quélli restano tuttavia al lóro pósto.
Nón si pòssono cancellare.
(Cóme dici? il tuo fidanzato?!) A lui certaménte è diffici-
le spiegare tante còse. Eppòi anche se comprendésse…
nón si lascerèbbe convincere. Oh, io ricòrdo tutto. I ma-
schi pènsano all’onóre. Sóno egoisti. Neppure pér aiutarmi
in una còsa tanto importante, in quésta sémplice cura égli
s’accontenterèbbe. (Imperioso) Io dirèi di nón dirgli nulla.
Che diritto ha lui di sapérne qualche còsa? Nón sóno io il
padróne suo e il padróne tuo?
Imp. 100 monologhi 29-01-2008 15:49 Pagina 210

210 100 monologhi ben pronunciati

Cesare Zavattini
Totò il buono (1943)

Cesare Zavattini (Luzzara, 1902 – Roma, 1989) fu giorna-


lista, scrittore e sceneggiatore cinematografico. In questo
campo partecipò alla stesura di alcuni tra i film più noti e
importanti del dopoguerra italiano – da Sciuscià a Ladri di
biciclette, da Bellissima a Matrimonio all’italiana –, collabo-
rando con i più autorevoli registi del tempo: Visconti, Lat-
tuada e, soprattutto, De Sica. Sempre, nei suoi lavori, portò
la sua fantasia unita a un umorismo surreale e talora
grottesco: con un’attenzione particolare verso il mondo dei
più umili. Totò il buono, che qui si propone, divenne poi
la struttura portante del fortunatissimo film Miracolo a Mi-
lano, diretto da De Sica.

La storia è incentrata sulla figura di Totò, avvolto sin dalla


nascita (avvenuta sotto un cavolo?) in un alone di straordi-
naria, positiva serenità. La sua madre acquisita (la settan-
tenne signora Lolotta) lo accudisce e lo educa nella città di
Bamba.

È l’ultima pagina del libro, laddove Totò su una bicicletta


si dirige verso le stelle. Il tono è sognante e avvolgente,
epico ed elementare, in un crescendo narrativo impegnato
a mostrare l’eccezionalità che qualsiasi oggetto o cosa –
anche la più quotidiana – porta sempre con sé.

L o riconóbbero altri passanti, fórse lo avrèbbero portato


in triónfo, ma Totò si mise a córrere, a scappare e tutti
lo inseguirono gridando “Dalli, dalli, è Totò”. In brève alle
sue calcagna si èrano addensate centinaia di persone. Totò
Imp. 100 monologhi 29-01-2008 15:49 Pagina 211

Totò il buono 211


corréva più pér stupóre che pér paura, sentiva diètro le
spalle le lingue dégli inseguitóri. Nessuno di costóro pen-
sava a quéllo che (la città di) Bamba sarèbbe stato tra cin-
que anni, o che un giórno nón avrèbbe avuto più ai pièdi
quéste scarpe cón le quali lo inseguivano.
Totò avéva una gran vòglia di voltarsi e gridare: “Fra
cinque anni…”. Sarèbbe stato inutile. Totò, giunto davanti
a una bottéga dove vendévano scópe, ne inforcò una prò-
prio méntre le mani dégli inseguitori stavano pér afferrar-
lo, e gridò ansimando: Tac. La scópa si alzò néll’aria la-
sciando sbalorditi gli inseguitóri. Totò avéva ritrovato l’an-
tico potére. Fu subito préso dal desidèrio di vendicarsi: un
tòro alto cènto mètri apparve d’incanto nélla pianura; di
frónte al tòro, dall’altra parte délla città, fiammeggiava
l’orizzónte. Il tòro abbassò la tèsta e partì cóntro i vessilli
di fuòco dél tramónto: sótto le sue zampe le case èrano
schiacciate cóme tórte, però chi fósse stato sulla schièna
fumósa dél tòro nón avrèbbe sentito il rumóre neanche déi
cròlli; neanche le grida délle vittime. Èrano le óre vénti dél
diciòtto giugno. Il signór Mòbic stava facèndosi tògliere i
péli délle narici dal suo barbière; chi avéva un pane in ma-
no; chi dicéva lamb… cóme dève capitare alle formiche
quando nói le pestiamo.
Ma a Totò nón rèsse l’animo: féce risórgere Bamba e i
bambési. Tanto un giórno sarèbbero mòrti, sótto un tram o
soffocati o di malattia, sia pure di vecchiaia. “Aiuto –
avrèbbero gridato – ahi, uag, guag”, e chissà quali altri ur-
li. Potévano fórse alleviare di una benché minima porzió-
ne il lóro terróre, in quéll’attimo estrèmo cón il ricòrdo dél-
la fulgida quiète délle óre vénti, dél diciòtto giugno? Nò
cèrto. Lasciamoli dunque ai lóro affari, disse Totò. Pòi in-
dirizzò la scópa vèrso il nòrd e in brève sparì all’orizzónte,
néllo stésso punto in cui si èra dileguata la signóra Lolòtta,
dirètto vèrso un régno dóve dire buòn giórno vuòl dire ve-
raménte buòn giórno.
Imp. 100 monologhi 29-01-2008 15:49 Pagina 212

212 100 monologhi ben pronunciati

Ugo Betti
Corruzione al Palazzo di Giustizia (1944)

Ugo Betti (Camerino, 1892 – Roma, 1953) sintetizza in


modo felicissimo la condizione professionale di magistrato
con una vocazione più alta di drammaturgo e scrittore. E
infatti, dopo aver sperimentato forme differenti di teatro –
da quello di evasione a quello più cupo e nichilista –, Betti
troverà proprio nel suo lavoro di giudice (tra menzogne,
ipocrisie, ricerca – faticosa, amara – di verità) un terreno
assai congeniale. Con un teatro che è denuncia ma allo
stesso tempo istanza di responsabilità e riscatto morale.

Erzi, il consigliere inquisitore, ha avviato alcune indagini


sul locale Palazzo di giustizia. È evidente che la corruzione
si collochi proprio ai piani più alti del Palazzo. E qui i giu-
dici si lanciano tra loro accuse e insinuazioni. Due di essi,
Croz e Cust, tra i più animosi, fanno in modo che tutte le
colpe ricadano sull’anziano presidente Vanan, padre della
inconsapevole Elena. Croz e Cust puntano in realtà a sosti-
tuire Vanan. La loro lotta metterà in luce il livello profondo
dello scontro, attraversato da ambizione, sensi di colpa,
pazzia.

Cust, cinico e saggio, “inizia” Elena alla costitutiva sporci-


zia dell’esistenza umana.

C ust (a Elena): Arriva un giórno in cui uno spiraglio si


apre e nói guardiamo. E quél giórno è arrivato anche
pér vói, mia cara. Guardate! Guardàtelo vòstro padre, per-
dìo, finalménte; e guardàtevi anche vói stéssa, carina!
Ma che còsa credéte, che quésto bèl fióre di corpicino
Imp. 100 monologhi 29-01-2008 15:49 Pagina 213

Corruzione al Palazzo di Giustizia 213


nón si macchierà, nón si empirà anche lui di succhi e di fu-
róri, credéte che nón lo guasteréte, nón lo contamineréte, il
vòstro bèl corpicino, e pòi la vòstra vóce, il vòstro respiro
d’angelo, la vòstra anima?
(Improvvisamente convulso e pacato) E davvéro nón lo
sapevate che il grande Vanan èra malato? Malato, malato,
poverétto; èra quésto che arruffava in mòdo così buffo i
suòi discórsi; una vita lunga, sapéte, è raro che una vene-
randa canizie, in ultimo, nón sia il copèrchio sótto cui stan-
no accumulate mólte brutte còse, anche brutte, immónde
malattie, sóno pròprio ésse che rèndono pesante l’età. Qué-
sto nón c’èra scritto nél memoriale.
Che còse tristi, eh? Vói sentite che io dico scrupolosa-
ménte la verità? Vói in gènere arrossite veloceménte. Óra
invéce il colóre sta lentaménte lasciando le vòstre guance.
Vói dite addio all’incantévole adolescènza, diventate una
dònna; è un piccolo disturbo, dovéva venire; cóme a fuma-
re la prima sigarétta, un malessere qui. Ah, èro io che nón
conoscévo il grande Vanan! Se sapéste quanto ignorate,
vói, di lui! E di tutto il rèsto! E di vói stéssa. Pér quésto era-
vate ingiusta. Nón sapevate nemméno… (con un grido im-
provviso) che vòstro padre vi òdia! Vi òdia, sì, lo ha détto
qui! (Cambiando) E nemméno sapevate i viscidi imbrògli
amorósi in cui si è mésso il pòvero Vanan. Se n’è dovuto
occupare anche il palazzo, l’ufficio. Nemméno quésto c’èra,
nél memoriale. Viscidi imbrogli, l’amóre déi vecchi.
Eh, triste, tremènda còsa, mio pòvero angelo: l’amóre
déi vècchi, orrènda còsa, innominabile, straziante! Ci si pas-
sa tutti. Siamo così. Sóno còse di cui nón vi parla, eh? l’uò-
mo che tórna a casa e che abbracciate! Guardate, guardate
anche vói, dal vòstro spiraglio; si tratta di abituarsi. Vói sa-
péte che io dico la verità, è così? Ebbène, vói nón sapevate
nemméno che il primo giórno, quando fu accusato, il gran-
de Vanan scrisse una lèttera! E riconóbbe! Sì, riconóbbe, mia
cara. Riconóbbe fin dal principio. Voléte che vi ripèta le pa-
ròle precise di quélla lèttera? (Battendosi la fronte) Le ho
qui stampate. (Cominciando) “Signór Alto Revisóre… Un
vècchio magistrato chiède alla vòstra… ‘benevolènza…’”.
Imp. 100 monologhi 29-01-2008 15:49 Pagina 214

214 100 monologhi ben pronunciati

Primo Levi
Se questo è un uomo (1947)

Primo Levi (Torino, 1919-1987) ha visto segnata la sua esi-


stenza dalla tragica esperienza del campo di concentra-
mento di Auschwitz. Messa da parte la professione di chi-
mico, Levi volle tornare su questa esperienza con romanzi,
novelle e poesie. Lo stile – soprattutto nei primi testi, i più
famosi: Se questo è un uomo e La Tregua – è scarno, so-
brio, quasi impersonale, ma la scrittura (anche per le par-
ticolari scelte narrative adottate) riesce a diventare coin-
volgente e appassionante. Tra gli anni Sessanta e Settanta,
la ricerca di un nuovo linguaggio (più surreale e fanta-
scientifico) e di nuovi temi – più industriali e sociali – lo
portò a nuove produzioni letterarie.

Se questo è un uomo è la testimonianza diretta che Primo


Levi, internato ad Auschwitz durante la Seconda guerra
mondiale, ci offre per comprendere la più dolorosa, collet-
tiva vicenda storica, politica e umana del Novecento euro-
peo (e forse non solo). La descrizione dell’inferno del la-
ger, l’abietto, delirante progetto che lo sostiene sono inte-
grati, nell’edizione einaudiana, da La tregua (il ritorno dai
campi di sterminio), trasformando l’intero libro in un atto
di denuncia e insieme di dignitosa indicazione di un possi-
bile, necessario riscatto.

È una delle tante descrizioni – vissute in prima persona –


dell’inferno realizzato nei lager nazisti. Il tono è sommesso,
piano, distaccato; ma ciononostante – forse proprio a cau-
sa di questo ricercato straniamento – ancora più toccante e
commovente.
Imp. 100 monologhi 29-01-2008 15:49 Pagina 215

Se questo è un uomo 215

Q uanti mési sóno passati dal nòstro ingrèsso in campo?


Quanti dal giórno in cui sóno stato dimésso dal Ka-
Bè? E dal giórno déll’esame di chimica? E dalla selezióne
di ottóbre? Albèrto éd io ci poniamo spésso quéste doman-
de, e mólte altre ancóra. Eravamo novantasèi quando sia-
mo entrati, nói, gli italiani dél convòglio centosettantaquat-
tromila; ventinòve soltanto fra nói hanno sopravvissuto fi-
no all’ottóbre, e di quésti, òtto sóno andati in selezióne.
Óra siamo ventuno, e l’invèrno è appéna incominciato.
Quanti tra nói giungeranno vivi fino al nuòvo anno? Quan-
ti alla primavèra? (…)
Nói siamo i chimici, e perciò lavoriamo ai sacchi di fe-
nilbèta. Abbiamo sgomberato il magazzino dópo le prime
incursióni, nél cólmo dell’estate: la fenilbèta ci si incollava
sótto gli abiti alle mèmbra sudate e ci ridéva cóme una
lébbra; la pèlle si staccava dai nòstri visi in gròsse squame
bruciate. Pòi le incursióni si sóno interrótte, e nói abbiamo
riportato i sacchi nél magazzino. Pòi il magazzino è stato
colpito, e nói abbiamo ricoverato i sacchi nélla cantina del
Reparto Stìrolo. Óra il magazzino è stato riparato, e
bisógna accatastarvi i sacchi ancóra una vòlta. L’odóre acu-
to délla fenilbèta imprégna il nòstro unico abito, e ci ac-
compagna giórno e nòtte cóme la nòstra ómbra.
Finóra i vantaggi di èssere nél Kommando Chimico si
sóno limitati a quésti: gli altri hanno ricevuto il cappòtto e
nói nò; gli altri pòrtano sacchi di cinquanta chili di cemén-
to, e nói sacchi di sessanta chili di fenilbèta. Cóme pensare
ancóra all’esame di chimica e alle illusioni di allóra? (…)
Adèsso basta, adèsso è finito. È l’ultimo atto: l’invèrno
è incominciato, e cón lui la nòstra ultima battaglia. Nón è
più dato di dubitare che nón sia l’ultima. In qualunque
moménto del giórno ci accade di prestare ascólto alla vóce
déi nòstri còrpi, di interrogare le nòstre mèmbra, la rispó-
sta è una: le fòrze nón ci basteranno.
Imp. 100 monologhi 29-01-2008 15:49 Pagina 216

216 100 monologhi ben pronunciati

Alberto Savinio
Alcesti di Samuele (1948)

Alberto Savinio (il suo vero nome era Andrea De Chirico, Ate-
ne, 1891 – Roma, 1952) fu pittore – così come il fratello Gior-
gio –, scenografo, compositore, regista teatrale e lirico, scritto-
re. Dopo aver vissuto a Parigi (e aver dato prova di abilità
compositive con la partitura di apprezzatissimi balletti), Savi-
nio si trasferì in Italia laddove cominciò a scrivere testi dram-
maturgici di grande originalità, messi in scena, tra gli altri,
da Giorgio Strehler. Il suo stile – “metafisico” e “surreale” – lo
portò a prediligere temi mitologici e archetipici, risolti con
senso del distacco e dell’ironia, in una dimensione quotidia-
na e talora volutamente banale.

Alcesti di Samuele (Samuele era il padre della mitica eroina)


è attualizzata in Teresa, una donna che non esita a suicidar-
si quando apprende che suo marito è obbligato – perché
sposato con una ebrea – a smettere di svolgere qualsivoglia
professione. Nel testo – chiamato dall’Autore, che interagi-
sce col pubblico – compare allora il presidente statunitense
Roosevelt (novello Ercole, scudiero della democrazia), che
cerca di riportare in vita la donna. In effetti, Roosevelt si av-
via verso l’Ade e riesce nella sua impresa, ma la donna –
delusa ancor di più dai familiari e dal contesto terreno – de-
cide di uccidere il marito per potersi ricongiungere con lui
nell’aldilà.

G oerz: Mi serviva una via d’uscita. Ho scélto il fiume.


Quale via miglióre? Quando eravamo fidanzati, tante
vòlte nélle nòstre passeggiate siamo andati a guardare assiè-
me quésto nòstro fiume, di séra, dal parapètto dél pónte
Massimiliano.
Pòi ci siamo sposati, sóno nati i figli, e il fiume, di séra,
nón siamo più andati a guardarlo. Che peccato! che peccato
quésto invadènte burocratismo dél matrimònio! Io però,
Imp. 100 monologhi 29-01-2008 15:49 Pagina 217

Alcesti di Samuele 217


qualche vòlta, sóno tornata da sóla a guardare il fiume. Nón
te ne ho mai parlato. Mi avrésti détto che sóno bambinate.
Nói dònne siamo conservatrici. Più di vói uòmini. Méno di
vói accaparrate all’avvenire. Ci piace conservare gli oggètti, i
ricòrdi, i luòghi implicati in qualche nòstro moménto di feli-
cità. E nón amiamo il mutaménto. Che impressióne strana –
nón avértene a male – che impressióne di “pèrdita” al ritór-
no da quélle mie visite solitarie al fiume, ritrovare qui a casa
il “tè” di óra, dópo il “te” di allóra lasciato pòco prima sul
parapètto dél pónte Massimiliano.
Ci sóno alcune sottili varianti dél tradiménto che la légge
sull’adultèrio nón contèmpla, ma alle quali il nòstro animo
nón rimane indifferènte. Da qualche tèmpo in qua, le mie
visite al fiume èrano più frequènti. Tu hai già capito. Nón
pér rievocare una felicità perduta, ma pér cercare un amico,
un alleato. Il suo moviménto instancabile m’ispirava fiducia.
Rispondéva a un mio desidèrio sèmpre più urgènte.
Quésta città nélla quale nói viviamo è soffocata dalla tèr-
ra. Guarda una carta. Stiamo nél cuòre dell’Euròpa. Tèrra da
ógni parte. Tèrra, tèrra. E la tèrra stròzza l’uòmo, lo istupidi-
sce, lo pòrta alla disperazióne. Quéste crisi che periodica-
ménte squassano la Germania, che altro sóno se nón i movi-
ménti convulsi di un sepólto vivo? (…)
I fiumi li chiamano strade che camminano. Che immagi-
ne indovinata! È la sóla strada che mi rimane apèrta. Cón
quale altro mèzzo andarmene da qui? Perché andarmene
bisógna. Se nò è la morte pér mé; e anche pér té, mio pòve-
ro Paul – mio pòvero “innocènte”! cóme traversare quésto
enórme cérchio di terra, pièno di Gauleiter, di Gestapo, di
SS? La ferrovia nò, perché le stazióni sóno guardate. L’auto-
mòbile nò, perché le strade sóno guardate. L’aeroplano nò,
perché gli aeropòrti sóno guardati. Nón rimane che il fiume.
Sul fiume nessuno ricercherà, nessuno mi fermerà. E il fiume
va, cammina, travèrsa il cérchio di tèrra, si lascia indiètro
Gauleiter, Gestapo, SS. Passa in altri paési, arriva al mare,
éntra nél mare… Paul! Mio caro Paul!
Quando tu avrai finito di lèggere quésta lèttera, io avrò
raggiunto finalménte quéllo che hò sèmpre desiderato, e
che finché stavo in quésta tèrra soffocata dalla tèrra nón po-
tévo avére: la… libertà!
Imp. 100 monologhi 29-01-2008 15:49 Pagina 218

218 100 monologhi ben pronunciati

Corrado Alvaro
La lunga notte di Medea (1949)

Corrado Alvaro (San Luca, 1895 – Roma, 1956) fu roman-


ziere, novelliere (celeberrima è la sua raccolta Gente
d’Aspromonte), sceneggiatore cinematografico e autore di
testi teatrali. Inizialmente attento alle contraddizioni inter-
ne al rapporto tra modernità e arcaicità, città e campagna
(laddove quest’ultima era proposta come più pura e uma-
na), Alvaro rese più ampi e complessi i propri temi. In que-
sta direzione, toccò ambiti mitologici trasponendoli – arric-
chiti da implicazioni sociali – nella contemporaneità.

A Corinto, dove vive da un anno, Medea è considerata una


strega ed è anche – in quanto straniera – malvista e rifiuta-
ta. Un giorno vede il suo amato Giasone tradirla con Creu-
sa. Giasone confida di sposare Creusa, ma solo per interes-
se. Medea, atterrita, fa comunque portare dai suoi figli al-
cuni doni alla sposa. Creonte – padre di Creusa, re di Co-
rinto –, temendo siano avvelenati, li rifiuta e fa inseguire i
ragazzini, per catturarli. È Medea a questo punto a uccide-
re i suo figli (ritenendo ormai segnato il loro destino),
mentre anche Creusa – Creonte aveva intuito bene – muo-
re avvelenata.

Siamo nella seconda parte della tragedia e Medea tira fuori


la sua femminilità più istintiva e primaria. Sembra quasi
fiutare e odorare l’arrivo della nemica – a bassa voce, obli-
qua, ambigua –, in un crescendo di sensualità e odio di
grande sintesi espressiva.
Imp. 100 monologhi 29-01-2008 15:49 Pagina 219

La lunga notte di Medea 219

M edea (nel rapimento, veggente, implorante): Divina


omicida, guarda Giasóne cói tuòi òcchi di gèlo. Ag-
ghiaccialo. Che nón rida. Che nón piaccia (…).
Ècco il Ré déi Ré. E bèn dispósto. Giasóne cérca di
riuscirgli gradito. Lui sa piacére. Métte a profitto la giovi-
nézza che gli rimane. Ma io sò: una ruga gli ségna profón-
da una guancia. E i suòi òcchi nón sóno più quélli di una
vòlta. Sóno gli òcchi férmi di chi sa. Ma può ancóra finge-
re lo slancio délla giovinézza. E in cuòr suo aspètta di co-
nóscere da vicino la figlia del Ré. Aspètta che élla arrivi. E,
sèmpre mèglio, cérca di riuscire gradito al Ré.
Ré di Corinto, nón lo védi che Giasóne finge! Che sta
calcolando tutto. Che cónta i minuti. Che il suo orécchio è
téso e prónto al più liève rumóre, se òda il passo di tua fi-
glia. Perché nón c’è rumóre al móndo che l’uòmo avvèrta
mèglio dél passo di una dònna.
Èccola. È Crèusa. (Convulsa) Cérca l’uòmo. Lo véde.
Ed éntra cón la sua espressióne più indifferènte e anzi più
ostile. Ma finge: la dònna! Sémbra che nessuno pòssa acco-
starla, che un uòmo nón le pòssa toccare neppure il lèmbo
délla vèste sènza offènderla. E intanto le sue viscere frè-
mono.
Si sciòglie il suo grèmbo. Élla sènte il suo còrpo inar-
carsi e gonfiarsi sulle cosce. Pesante e stupida, si trascina
vèrso di lui. Óra ha il passo leggèro e trepidante. Si attar-
da. Vuòle farsi notare. Ed égli sta cón l’orécchio téso al
suo passo. La sènte arrivare. Vanéggia. Nón sa che dire.
(Come parlandole, furibonda) Dóve vai, Crèusa? Dóve vai!
Aspètta! Crèusa! Puttanèlla, che fai!
Imp. 100 monologhi 29-01-2008 15:49 Pagina 220

220 100 monologhi ben pronunciati

Vitaliano Brancati
La governante (1952)

Vitaliano Brancati (Pachino, 1907 – Torino, 1954) fu


scrittore, sceneggiatore cinematografico e drammaturgo.
Dopo alcune prove giovanili, cominciò a riscuotere un for-
te successo a partire dal secondo dopoguerra. Fecero segui-
to altre commedie, tra cui La governante che, trattando –
anche se in modo leggero e tangenziale – l’omosessualità
femminile, fu bocciata dalla censura. Brancati rispose con
un lucido e vigoroso pamphlet, che mostrò ancor più netta
la sua modernità intellettuale e politica, felicemente corri-
spondente a uno stile drammaturgico corrosivo e beffardo.

Dramma di denuncia di una tradizione ambigua e maschili-


sta, La governante ha come protagonisti Leopoldo e Cateri-
na. Il primo è un padre-padrone deluso dal comportamen-
to disordinato del figlio Enrico e della nuora Laura; la se-
conda, Caterina, è la governante di Leopoldo: dapprima
apprezzata dal capofamiglia, poi addirittura – per il suo ri-
gore – delegata nel governo della casa, e infine deprecata
per le sue scelte omosessuali. Sullo sfondo, seduzioni
annoiate e fini a se stesse, legami vuoti e torbidi e conclu-
sivo suicidio di Caterina alla notizia della morte della do-
mestica Jana, cacciata di casa per la sua relazione con la
governante.

Vari registri si intrecciano in questo monologo – autorita-


rio, retorico, malinconico, disperato – che, quanto più ten-
ta di difendere un codice (quello arcaico e patriarcale),
tanto più ne mostra l’avvenuto superamento.
Imp. 100 monologhi 29-01-2008 15:49 Pagina 221

La governante 221

L eopoldo (alla governante, Caterina): E chi sóno io, un


modernista, un futurista, un esistenzialista, un naturista?
Còsa créde, che mi piace vedére i primi arrivati méttere le
mani sul séno di mia nuòra con la scusa di guardarle la
spilla? ovvéro infilarle il braccio sótto il braccio nudo, addi-
rittura déntro l’ascèlla, pér accompagnarla da una stanza
all’altra? ovvéro sentirle dare dél tu a Gigétto, a Franz, a
Enrichétto, gènte che ha conosciuto il giórno avanti e di
cui nón ricòrda nemméno il cognóme? (…)
Lèi dève sapére che a Caltanissétta èro conosciuto pér
la mia severità e pér la mia, perché nn dirlo?, gelosia. I
giovanotti, quando si avvicinavano alla mia casa, facévano
il giro largo, cóme i colómbi – li ha visti mai? – quando sul
cornicióne di una chièsa védono un altro colómbo mòr-
to…
(Con grande tristezza) Una séra di vént’anni fa… du-
rante un ballo sulla terrazza di Saro Musumarra… perdètti
il lume dégli occhi e gridai a mia figlia Agatina di ballare
più scostata… Mia figlia avéva quindici anni e si avvelenò.
Ma io nón volévo gridare a lèi; volévo gridarlo a quel ma-
scalzóne che le ballava incollato cóme se volésse succhiar-
le il sangue, tutto addòsso cóme una mignatta… Che di-
sgrazia!…
Pòi vénni a Róma cón mio figlio e mia nuòra… E só-
no cambiato… cioè, mi compòrto cóme se fóssi cambiato,
e mi sfòrzo di pensare che sóno cambiato… Ma il mio
cuòre è sèmpre là, a Caltanissétta, nélla casa cón le persia-
ne vérdi, perché le case dèvono avére le persiane e nón
quésta porcheria di saracinésche…
In quélla casa sgridavo tutti, e li facévo tremare, ma
tutti quélli che sgridavo, li adoravo, ed éssi adoravano mé.
A Jana, l’altra mia figlia, a quell’idiòta, le vòglio bène per-
ché si lava i capélli cól petròlio cóme mia madre, e quan-
do mi passa vicino, quasi la picchierèi, perché nón vòglio
ricordarmi che sóno vècchio e nón sóno più cóme avrèi
voluto èssere… Ma lèi, quélla pòvera idiòta, mi ha dato
aria... l’aria che mi mancava.
Imp. 100 monologhi 29-01-2008 15:49 Pagina 222

222 100 monologhi ben pronunciati

Luigi Squarzina
Tre quarti di luna (1953)

Luigi Squarzina (Livorno, 1922), docente universitario, re-


gista e drammaturgo, ha orientato la sua produzione con
un occhio lucidissimo nei confronti dell’attualità storica e
politica. È, il suo, un teatro dell’impegno e del dibattito, che
non ha evitato – soprattutto nelle stagioni più recenti e ta-
lora con accenti comici e sarcastici – i temi più controversi
della contemporaneità: il consumismo, l’incomunicabilità,
il burocratismo.

In una cittadina della Romagna, nel 1922, a ridosso della


Marcia su Roma, Enrico sta preparando la tesi e coronando
il suo lavoro di studente brillante e impegnato. A sostener-
lo, tra l’altro, è Germanico Piana: suo ex professore, ora
preside del locale liceo, stretto collaboratore del prestigio-
so filosofo Giovanni Gentile, e forse esiliato in provincia
proprio a causa di questa relazione. Enrico all’improvviso
muore e la sorella Elisa, con l’amico Mauro, scoprirà che il
fratello si è suicidato, ferito dalle critiche di Piana verso i
contenuti politici della sua tesi. Ma quando – ormai le ca-
micie nere stanno trionfando – il preside (conscio della
propria impunità) dichiara di voler riabilitare il lavoro di
Enrico, Mauro, comprendendo la sua ambiguità, lo uccide.

Elisa, sorella del protagonista, lo ricorda qui con la voce


della tristezza e della nostalgia: ma questa tensione si lega
con quella – dura, fremente, rivendicativa – rivolta contro
il preside e il suo mediocre burocratismo.
Imp. 100 monologhi 29-01-2008 15:49 Pagina 223

Tre quarti di luna 223

E lisa (al preside Piana, subito dopo la morte di Enrico):


Che còsa ha capito!? Diméntichi ormai che Enrico èra
pòvero; nón sarèi venuta pér quésto.
Nessuno ha mai fatto niènte pér lui. Era cóme mio pa-
dre, nón sapéva chièdere. Ascólti. Nélla nòstra città, c’è il
fiume. C’è mai andato? L’estate prima di Caporétto, mio
fratèllo andò al fiume cón i compagni. Mia madre nón
avrèbbe voluto, avéva paura déi górghi, ma io la persuasi.
Dève farsi dégli amici, le dissi, dève diventare cóme gli al-
tri: sèmpre sólo, sèmpre sui libri, nón è naturale.
Andò. Gli avevamo mésso la merènda nélla cartèlla di
scuòla. Pensai a lui tutto il giórno, che si divertiva. Sul tar-
di, dalla terrazza, vedémmo i ragazzi tornare. Ragazzi: èra-
no quasi bambini. Chi corréva, chi giocava a palla, gli altri
si tenévano sottobraccio occupando tutta la strada e canta-
vano in còro; ma Enrico nón usciva da nessuno déi grup-
pi, e si facéva nòtte. Arrivò pér ultimo, distante, a tèsta
bassa, cón un sandalo in mano e la cartèlla a pèzzi. Cóme
lo scrollava mia madre: che ti hanno fatto? chi è stato? Nón
vòlle raccontarci. Era sólo.
Quando pènso a lui, è così che lo védo: dall’alto, cón
il sandalo in mano e la cartèlla pendènte, sólo in mèzzo al-
la strada – e risènto le vóci déi bambini che potévano gio-
care e ridere e dimenticare dópo avérlo fatto soffrire. Nes-
suno sentiva la sua mancanza. Nessuno la sentirà. A parte
un amico, e nói. Chi gli ha dato giòia? Chi ne ha avuta da
lui? Nón èra nato pér soddisfarsi dégli affètti di famiglia. Le
nòstre premure quasi lo irritavano.
E adèsso nói sóli attórno a lui nón siamo niènte: niènte
che lo ripaghi, che lo consóli, che lo faccia addormentare
in pace. Mi ascólti. Cos’è uno scolaro pér lèi, ne ha avuti
tanti, ne avrà di più bravi, ma pér nessuno la scuòla sarà
quéllo che è stata pér lui. Dovéte ricambiarlo… Faccia
che, alméno una vòlta, i suòi compagni…
Imp. 100 monologhi 29-01-2008 15:49 Pagina 224

224 100 monologhi ben pronunciati

Dino Buzzati
Un caso clinico (1953)

Dino Buzzati (Belluno, 1906 – Milano, 1972) fu scrittore,


giornalista, critico musicale e librettista. Dopo il travolgente
successo del suo romanzo Il deserto dei Tartari, si dedicò
anche al teatro, in cui riuscì a sottolineare in modo anco-
ra più diretto la sua personale concezione dell’esistenza:
realistica e allo stesso tempo alterata e densa di fantasmi.
Anche il linguaggio tiene insieme registri stilistici quotidia-
ni e – contemporaneamente – sperimentali.

Un caso clinico è un’opera allucinata e deformata che ha


come protagonista l’industriale Giovanni Corte. Da un po’
di tempo Giovanni avverte un disturbo (sente la voce di
una donna che lo chiama) e, su sollecitazione della madre,
viene ricoverato in una clinica divisa per piani. Quelli più
bassi sono occupati dai pazienti più gravi, e Giovanni (ov-
viamente suo malgrado) comincia a scendere nella clinica,
in un’atmosfera angosciante e artificiosamente normale.
Forse la voce che sentiva era quella della morte, o della
madre…

Siamo nella parte centrale dell’opera, e la pagina qui ripor-


tata può essere vista come una specie di “intermezzo” (la
donna malata è un personaggio secondario) che, nella sua
inquietudine e allucinazione – apparentemente calma e de-
scrittiva – accresce il senso di incubo e visionarietà dell’in-
tero lavoro.
Imp. 100 monologhi 29-01-2008 15:49 Pagina 225

Un caso clinico 225

D onna malata: Mi dicévano respiri a fóndo più che


può… io respiravo e a un tratto mi sóno accòrta che
nón potévo più muovere le mani, allóra ho cercato di par-
lare ma anche la lingua nón si muovéva più, e intanto sen-
tivo il chirurgo e gli altri che mi parlavano e mi dicévo: io
sènto tutto e nón pòsso più fiatare, quésti qui mi potrèb-
bero squartare e io nón potrèi neanche avvertirli… Nón è
piacévole… Ma quésto, lo sò, riéntra nél previsto, quésto è
normale. (…)
Pòi nón ho più sentito niènte e mi sóno trovata in un
tunnel grigio… grigio… che si stringéva sèmpre più rotón-
do… un tubo grigio… (con forza) e una fòrza irresistibile
mi trascinava déntro, sèmpre più déntro e il tubo si strin-
géva a imbuto, io soffocavo, e a quésto punto un èssere
diabòlico (…) (tutta infervorata nel suo racconto)… diabò-
lico, che io nón vedévo, cóme uno spirito diffuso intór-
no… quésto èssere si è mésso a parlarmi… gentile èra,
complimentóso, cón un fóndo però gelido e beffardo…
Èra il demònio!... Dicéva: Ah tu crédi che sia una operazió-
ne? Brava, brava! Crédi che tra mezz’óra ti risveglierai? Che
idiòta, ma nón hai capito… nón hai capito ancóra che qué-
sta è la mòrte?
E sogghignava sènza far rumóre, e io venivo sèmpre
più trascinata déntro e nón c’èra più spazio, èra l’annien-
taménto, la riduzione a zèro… cercavo di svincolarmi, di
resistere… ma èra una fòrza immensa, miliardi di tonnella-
te su di mé e sèmpre quélla vóce che ridacchiava esultan-
do pér la mia disperazióne …
Oh, pér quanto atróce, la mòrte nón potrà essere più
orrènda (…) e finalmente io sóno mòrta e al di là dóve fi-
niva il tubo mi sóno trovata in uno spazio sènza fine, vuò-
to, grigio, illuminato uniformeménte da una tètra luce e
déntro a quésto spazio che èra la mòrte stéssa, déntro a
quésto spazio c’èra un lènto battito; cóme délle colónne di
suòno che nón si riusciva a distinguere dóve terminassero,
e scandivano la vuòta eternità pér sèmpre… sèmpre…
Imp. 100 monologhi 29-01-2008 15:49 Pagina 226

226 100 monologhi ben pronunciati

Alberto Moravia
Beatrice Cenci (1955)

Alberto Moravia (il suo vero cognome era Pincherle, Roma,


1907-1990) ottenne sin da giovanissimo uno straordinario
successo con il suo primo romanzo, moderno e anticonfor-
mista: Gli indifferenti. Le caratteristiche del testo si sviluppe-
ranno nella produzione successiva, portandolo a svelare le
contraddizioni umane nei rapporti economici, sociali, ses-
suali, con un’attenzione particolare alle vicende femminili.
All’interno di una vita spesa per la letteratura – con un im-
pegno di forte laicità politica –, Moravia fu anche acuto
giornalista, critico, sceneggiatore, animatore culturale.
Quasi tutte le sue commedie – forse per il bisogno di un ul-
teriore codice espressivo – sono interne al periodo 1955-70:
tra queste, segnaliamo La mascherata e Il dio Kurt.

Beatrice e la matrigna Lucrezia sono duramente maltrattate


dal padre di Beatrice – il conte Francesco – che ha dilapi-
dato l’intero patrimonio famigliare e costringe le due in
una misera e segregata condizione. Beatrice decide di ac-
cettare l’amore di Olimpio purché questi uccida il padre.
Ciò avviene, mutando però il rapporto tra i due. Dapprima
Beatrice è bramosa di vivere il suo amore con Olimpio; sú-
bito dopo è disgustata dalla normalità con cui l’uomo vive
l’omicidio. Alla fine la legge punirà con la morte Beatrice.

Siamo nella parte finale dell’opera e quella di Beatrice è


una sintesi di nausea, odio, istanza di vendetta e liberazio-
ne dall’universo maschile. Sullo sfondo, la presa d’atto di
un mondo adulto attraversato dalla violenza e dalla preva-
ricazione.
Imp. 100 monologhi 29-01-2008 15:49 Pagina 227

Beatrice Cenci 227

B eatrice (a Olimpio): E tu pòi entrasti cóme un ladro, e


strisciasti sino al mio lètto e io tremavo déntro di mé
nón tanto pér quéllo che stavo pér fare quanto pér quéllo
che ne sarèbbe seguìto.
Tu ti spogliasti al buio e pòi entrasti nél lètto al mio
fianco e sùbito mi mettésti una mano sul pètto, cóme pér
rassicurarti che ormai èro tua. Allóra io ti prési la mano e
dissi: «Se tu mi vuòi bène, dèvi aiutarmi a far pentire mio
padre di quéllo che òggi mi ha fatto». E tu dicésti: «Ti pro-
métto tutto quéllo che vuòi» (…) e pòi mi baciasti fòrte có-
me pér suggellarmi la bócca dópo che ci avévi gettato
déntro il giuraménto. E io allóra mi abbandonai a te sol-
tanto perché avévi giurato e io avévo fiducia in té. (…)
Che crédi: che io vòglio vendicarmi sólo di quésto sog-
giórno? Io vòglio vendicarmi soprattutto dell’innocènza
che mio padre mi ha rubato, tanti anni ór sóno. E sappi: io
a nòve anni èro una bambina innocènte, e nón sapévo
nulla dél male.
Nélla nòstra casa allóra c’èra una sèrva (…): una dònna
grande, alta, brutta, bestiale. Óra, un giórno che io stavo
cón quésta sèrva in cucina, mio padre entrò di cólpo e
avéva una faccia infuocata e stravòlta e sènza dir paròla
l’afferrò pér i capélli e la trascinò in uno stanzino attiguo
dóve lèi avéva il suo giaciglio e ve la rovesciò. Io li avévo
seguìti, atterrita, pensando che égli volésse farle dél male;
e cominciai a tempestargli di pugni la schièna, pregandolo
che la lasciasse. Ma lui nón mi dava rètta e lèi cón vóce
languènte disse: «Beatrice, nón mi fa male, nón spaventar-
ti». E pòi la vidi chiudere gli òcchi e abbandonarsi. Allóra
io cominciai a piangere in un angolo, nón più di paura,
bensì pér nón sapévo che vergógna.
E lui stètte sópra quélla dònna finché gli piacque e poi
si rialzò e sènza guardarmi disse: «Nón piangere, sciocca,
un giórno anche tu lo farai e nón piangerai di cèrto». E co-
sì io perdètti l’innocènza pér cólpa di quélla béstia, nón
pér amóre, all’età giusta, ma ancóra bambina in mòdo
sconveniènte e ingiusto.
Imp. 100 monologhi 29-01-2008 15:49 Pagina 228

228 100 monologhi ben pronunciati

Peppino De Filippo
Metamorfosi di un suonatore ambulante
(1956)

Peppino De Filippo (Napoli, 1903 – Roma, 1980) cominciò


la sua attività artistica già a sei anni, come attore, con la
celebre compagnia di Edoardo Scarpetta. Le sue interpreta-
zioni si moltiplicarono e se, per larga parte, esse sono ri-
conducibili alla tradizione napoletana, per altra lo vedono
impegnato con testi di Pirandello, Plauto, Molière, Machia-
velli. Accanto alle straordinarie qualità di attore, Peppino
De Filippo perfezionò la sua capacità di scrittura teatrale,
mettendo in scena commedie – soprattutto “farse”, termine
del quale era orgoglioso – che, pur puntando a una piena
comicità, approfondivano con originalità le contraddizio-
ni umane e psicologiche.

La Metamorfosi è una farsa ambientata nella Roma del


1840, in cui il protagonista – Peppino Sarachino, un suona-
tore ambulante – aiuta il nipote Enrico a conquistare Giu-
lia, nipote di Don Guglielmo. Peppino ha evidentemente
una grande facilità e versatilità epressive: e così dapprima
diventerà la statua di Giulio Cesare, poi prenderà le sem-
bianze di un poppante, e infine della mummia del genera-
le Alì O Bo. Il tutto per penetrare nella casa di Don Gu-
glielmo e rapire l’ambita Giulia.

Leggero, allegro, ironico e autoironico, il monologo di


Peppino punta sull’alternanza dei ritmi, delle pause e so-
prattutto sulla gestione dei tempi comici. Il suo interlocuto-
re è Enrico, ma di fatto l’intero monologo cerca – in modo
esplicito e dichiarato – la continua complicità con il pub-
blico.
Imp. 100 monologhi 29-01-2008 15:49 Pagina 229

Metamorfosi di un suonatore ambulante 229

P eppino (a Enrico): Sóno figlio d’arte. Mio padre, buo-


n’anima, è stato uno dégli attóri più apprezzati dél
Régno délle due Sicilie. Sarachino, Aristide Sarachino. Nón
Amilcare. Amilcare èra suo padre, mio nònno, bravo attóre
ma privo di personalità.
Mio padre invéce… nón lo avéte mai sentito recitare?
(…) Peccato. Nón avéte ascoltato uno dei più grandi attóri
dél móndo. Ógni recita di mio padre, signór cónte, segna-
va una data memorabile nélla stòria dél teatro, e memora-
bile fu la séra dél 2 di novèmbre 1838 a Napoli, al Teatro
Sebèro: lo arrestarono.
Perché quando papà recitava, in sala si creava una
grande atmosfèra di entusiasmo e Angelino lo sa, perché
stava sèmpre in sala a cercare di sentire i comménti dél
pubblico.
Alla fine délla recita, quando gliéla facévano terminare
eh? perché spésso accadéva che la rappresentazione dové-
va èssere interrótta tanto èra l’entusiasmo dél pubblico, alla
fine délla recita, chi voléva portarlo in triónfo da una par-
te, chi dall’altra, e allóra: tafferugli, sommòsse, feriti… una
vòlta ci scapparono due mòrti… così, le autorità decisero
di nón farlo recitare più.
Signór cónte, io ho avuto il piacére di vedére l’effige di
mio padre disegnata su manifèsti affissi su tutti i muri délla
città e délle campagne. Di faccia (ne assume l’atteggia-
mento) e di profilo… (si mette di profilo) e, sótto, il prèzzo
délla taglia pér chi lo catturava. Un grande attóre!
Imp. 100 monologhi 29-01-2008 15:49 Pagina 230

230 100 monologhi ben pronunciati

Giuseppe Patroni Griffi


D’amore si muore (1958)

Giuseppe Patroni Griffi (Napoli, 1921 – Roma, 2005) fu


scrittore, regista, sceneggiatore cinematografico. Dopo aver
trascorso la giovinezza a Napoli, si trasferì a Roma. E nella
capitale, spesso d’intesa con altri intellettuali e artisti cam-
pani, volle comunque tenere in piedi i sentimenti tipici –
veraci, violenti, poetici – della cultura partenopea. La sua
ricerca stilistica – fatta di realismo, ironia, attenzione al-
l’attualità – trovò un felice riscontro in apprezzatissimi te-
sti, tra i quali vale la pena segnalare il famoso Metti una
sera a cena.

Edoardo e Renato sono due giovani benestanti e – nella lo-


ro abitazione romana – tentano di entrare come sceneggia-
tori nel mondo del cinema. E da quest’ultimo sono assorbi-
ti tra incontri torbidi, tradimenti, inaspettate sincerità. E
l’unico amore profondo di Edoardo (per l’inappagata Ele-
na, soprannominata “motocicletta”, perché “la dà a tutti”),
lo porterà a un tentativo di suicidio e poi alla morte. In
una realtà (quella del cinema? della vita?) spesso ipocrita-
mente luccicante e interessante.

È uno dei momenti più intensi del dramma ed Elena, par-


lando con Renato, sembra invece rivolgersi a David: cer-
candolo, dichiarandosi, implorando. L’indecisione della
donna (innamorata di entrambi gli uomini?) si poggia su
sentimenti di debolezza e precarietà affettiva, sollecitando
ancora di più, in chi l’ascolta, l’urgenza della protezione e
dell’amore.
Imp. 100 monologhi 29-01-2008 15:49 Pagina 231

D’amore si muore 231

E lena (esasperata) a Renato: (Nò, nón è un pòrco, e


nón mi costringe…) Nón mi costringe … sóno io! Per-
ché è l’unico uòmo che avrèi voluto amare nélla mia vita!
(Renato ammutolisce)
Io hò sposato David che m’amava e credévo di inna-
morarmi di lui; gli volévo mólto bène ma nón ci sóno riu-
scita. Ècco la mia disgrazia. Quando l’ho lasciato, e mi so-
no méssa a lavorare – perché David che mi adorava s’è vi-
sto rifiutare tutto quéllo che m’offriva, ancóra òggi – hò di-
strutto tutta una còsa che lui avéva costruito su di mé. Me-
ravigliósa! È stato un disastro. Le sue convinzióni sóno an-
date a gambe all’aria. Ma nón èra possibile continuare. E
nón m’ha comprésa quando me ne sóno andata, e nón mi
comprènde tutto sommato.
“Che còsa è succèsso? nón stavamo bène insième?” Nò,
mi sentivo in cólpa, lo trovavo umiliante, pér lui. Tré anni;
hò provato cón tutte le mie fòrze a far diventare sincèro
ciò che nón èra. Pér un’altra dònna fórse quésto è amóre,
pér mé nò; cóme il fatto che nélla mia vita ci siano altri
uòmini nón ha nulla a che vedére cón l’amóre. Nón hò
mai amato nessuno, Renato, quésto è tutto.
Eppure io sò, pènsa, che a vivere ho cominciato sótto
lo sguardo tènero di David. Perciò il ricòrdo délla sua te-
nerézza, anche lontano, riémpie le mie giornate cón tanta
costanza che alla fine – lo vuòi sapére? – pròvo la necessi-
tà fisica, di sentirmelo accanto. Hò ancóra bisógno di lui.
David nón mi ha mai costrétta… Purtròppo così sò vivere.
Sènza impegnarmi.
Tu fai scenate, insulti; crédi che ti torménti solo tu.
Che io, pér esèmpio, abbia da combattere cón mé stéssa
pér trovare una spècie di sincerità, nón lo sospètti nean-
che. (Mi chiedi se è l’unico uòmo che vorrèi amare? Sì)
Pènso che sarèbbe giusto. Quésto nón significa che nón
potrèbbe piacèrmi – anche di più, fórse – amare té: se
avéssimo il potére di deciderle nói quéste còse. (La luce
incomincia a dissolvere) S’è fatto buio. Ho fréddo.
Imp. 100 monologhi 29-01-2008 15:49 Pagina 232

232 100 monologhi ben pronunciati

Tommaso Landolfi
Landolfo VI di Benevento (1959)

Tommaso Landolfi (Pico, 1908 – Roma, 1979) fu tradutto-


re dal russo, ma soprattutto scrittore poliedrico capace di
spaziare, con i suoi testi, dal gioco verbale privo di senso
alla più profonda e disperata introspezione esistenziale.
Per quanto la sua prosa sia nel tempo cambiata, forte ri-
mane il gusto per la mistificazione, il paradosso e la defor-
mazione di ogni meccanismo logico e lineare del discorso.
Landolfo VI di Benevento è la sua unica opera teatrale.

La storia è ambientata a Montecassino, nel 1071. In essa si


narrano le vicende di Ildebrando di Soana (il futuro papa
Gregorio VII), di Desiderio di Montecassino (in séguito,
Papa Vittore III) e soprattutto del triste, malinconicamente
dubbioso Landolfo VI di Benevento, conscio della finitezza
e della relatività di ogni ambizione e progetto umano (reli-
gioso e metafisico).

Una pagina ritmata da dubbi dolorosi, in una condizione


segnata dalla debolezza – irricucibile – dell’uomo.

L andolfo VI: Ci dà la mòrte pace, o nón piuttòsto ci pre-


para un’eternità di lutti e di sciagure? E cèrto è tròppo
dire lutti e sciagure. Io già pensai, morèndo, di rinascere
bèllo déll’antica mia fòrza e féde, cinto délla prima obbe-
diènza alle léggi dél Signóre, e di trovare infine compi-
ménto, appagaménto alle confuse brame, e le etèrne incer-
tézze avér placate.
Óra témo (…). E cóme infatti potrèbbe mai la mòrte
èssermi lièta? La mòrte è perfezióne délla vita. In un gurgi-
Imp. 100 monologhi 29-01-2008 15:49 Pagina 233

Landolfo VI di Benevento 233


te buio traversato da róssi, fóschi lampi, sènza fine, la stés-
sa angòscia e il cièco agognaménto e la vana inquietudine
(più cièco, più vana) e il consultare sènza oggètto, nón
tanto io fiacco ancóra o tanto chiuso che l’impotènza nón
mi sia molèsta e che nón la patisca cóme cólpa; e dattórno
un oscuro brulicare, uno schifóso e viscido subbuglio di
lènte larve, d’èsseri nón nati, di creature ingenerate e quasi
nón create, di tenebrósi oggètti incèrti, sènza nóme e sèn-
za sòrte, di mòlli sordidézze, di mucóse fórme che un lène
palpito sollèva; e un sórdo mormorare, un basso ronzio,
fiòchi laménti, gemiti indistinti, e tutte e tutti cièchi (e in-
véro gli òcchi che varrèbbero qui?) cón néro grifo tèntano
l’aria cóme talpe o vèrmi; e dovunque nón sò che d’im-
preciso, di sospéso, di débole e defórme, di tristo, ignomi-
nióso, ed una lunga attésa, lacerante, quanto inane (oh,
délla luce fórse, eternaménte lór vietata?) … Nón è tale
l’infèrno? Tale alméno sarà quésta mia mòrte, od è, ché già
mi tiène. (…)
Ah, cóme ómbra di nuvola, passata la mia vita sarà;
gran privilègio ancóra, se sarà dimenticata! Che còsa ho
fatto? Che détto alméno? In paròle infecónde, tórve e fó-
sche ho sperduto, consunto il córto nèrvo. Dóve l’atto che
incide e che è proficuo. A sé, se nón ad altri, dóve, ancó-
ra, la paròla che illumina e che guida? Nò: confuse paròle,
a quégli stésso, a quél me stésso che le pronunciava… Ah,
“perdóno” e “castigo”! E quando nulla vi sia da perdonare
o da punire, e il volére sia mòlle, nón formato, il proposito
dubbio e la paròla medésima nón giunga a fiór dél món-
do? Ma quésto appunto v’è da perdonare: Trarmi alla luce
fórse nón volévo? – O da punire? Lo volévo cèrto, eppure
nélla luce nón credévo! Ché in ógni mia paròla, in ógni
gèsto nón compiuto, reprèsso, differito, ógni attimo offen-
dévo il Creatóre, bestemmiavo, ferivo, sputacchiavo!
Fui tristo nélla dólce aria che il sóle fa lièta, avèndo
déntro pigro fumo: peccato abominóso più che tutti. Ho
amato veraménte qualche còsa? Mi sóno a qualche còsa al-
méno appréso? Mio Fattóre, quale ti vèngo innanzi! avrai
pietà?
Imp. 100 monologhi 29-01-2008 15:49 Pagina 234

234 100 monologhi ben pronunciati

Eduardo De Filippo
Il sindaco del rione Sanità (1960)

Eduardo De Filippo (Napoli, 1900 – Roma, 1984), avviato


sin da bambino alla carriera di attore, fu anche dramma-
turgo e regista teatrale (in un paio di casi anche cinemato-
grafico). Cresciuto alla scuola di Eduardo Scarpetta (e, an-
che se idealmente, a quella di Raffaele Viviani), De Filippo
seppe raccontare le ansie, le paure, i sentimenti di una
nuova società, soprattutto a cavallo del secondo dopoguer-
ra: il tutto con uno stile segnato da grande realismo e pro-
fonda umanità. Per quanto sia rimasto sempre fedele a un
contesto e a un linguaggio tipicamente napoletani, tutte le
sue commedie hanno conquistato un – apprezzatissimo –
respiro nazionale e internazionale.

Don Antonio Barracano, che governa in modo personalisti-


co (talora paterno) il rione Sanità, è impegnato a ricompor-
re lo scontro tra Refiluccio e suo padre Arturo, ma viene
ferito da quest’ultimo. Per evitare che ci siano strascichi
giudiziari (e soprattutto per evitare faide tra le famiglie) tie-
ne nascosto il ferimento e si fa curare dal suo medico per-
sonale, e amico, Fabio Della Ragione. Sopraggiunge però
un infarto e il “sindaco” Barracano muore. Fabio – da tem-
po insofferente per la scomoda posizione di complice in
attività illecite, e già pronto per emigrare – decide di non
partire più, e di far emergere l’omertà, la grettezza e l’ille-
galità diffusa che attraversa il rione.

Siamo al termine dell’opera, e Fabio ha deciso finalmente


di dare sfogo ai suoi dubbi etici più profondi: in un mono-
logo – ad alta voce – che è riscatto e liberazione.
Imp. 100 monologhi 29-01-2008 15:49 Pagina 235

Il sindaco del rione Sanità 235

F abio: Avéva un cuòre enórme, cón una pòrta che si


apriva puntualménte quando c’èra qualcuno che ci an-
dava a bussare. (…) Gli sóno stato vicino per trentacinque
anni, gli hò voluto bène, l’ho stimato… e lo sò io che còsa
pròvo di dolóre in quésto moménto.
E adèsso parlate vói (…) E perché nón parlate adèsso?
(…) Vói nemméno sapéte niènte? Qua abbiamo préso
l’abitudine di mandare continuaménte la cosciènza in la-
vanderia. Ma nón soltanto nói: tutti, sènza salvare la faccia
di nessuno, dal pèzzo gròsso fino all’ultima ruòta dél carro.
E io dovrèi eseguire scrupolosaménte la volontà di dòn
Antònio pér salvare chi? Due carógne che hanno paura di
dire la verità, due schifósi che preferiscono la bugia, l’ipo-
crisia, la minaccia, il ricatto… Fa còmodo a tutti un Antò-
nio Barracano che se ne va all’altro móndo pér collasso
cardiaco dópo avére spéso una vita intéra pér limitare la
caténa déi reati e déi delitti.
Avrèbbe dovuto spènderla pér allargarla. Cóme spen-
derò i mièi ultimi anni. Io nón parto, rèsto qua. (…) Qué-
sto asségno lo daréte alla védova, se sentiréte il bisógno di
fare il vòstro dovére. E voialtri racconteréte quéllo che
avéte visto e sentito staséra, se lo voléte raccontare. Io fac-
cio il refèrto mèdico cóme mi détta la cosciènza. Usciran-
no i figli di dòn Antònio, i parènti di dòn Arturo, i compa-
ri, i comparièlli, gli amici, i protettóri: una carneficina, una
guèrra fino alla distruzióne totale. Mèglio così. Può darsi
che da quésta distruzióne viène fuòri un móndo cóme lo
sognava il pòvero dòn Antònio, “méno rotóndo ma un pò-
co più quadrato”.
E comincio io cól firmare il véro refèrto cól mio nóme
e cognóme: Fabio Délla Ragióne. Scannatemi, uccidétemi,
ma avrò la giòia di scriverci sótto “in féde”!
Imp. 100 monologhi 29-01-2008 15:49 Pagina 236

236 100 monologhi ben pronunciati

Giovanni Testori
L’Arialda (1960)

Giovanni Testori (Novate Milanese, 1923 – Milano, 1993)


sin dagli anni giovanili mostrò una fervida curiosità per
codici artistici differenti, a partire dall’arte figurativa. Nei
suoi testi teatrali (forse sotto l’influenza di Artaud e Gro-
towski), chiese un coinvolgimento della corporeità dell’atto-
re, una fisicità che è segno espressivo e, allo stesso tempo,
politico. Milanese di nascita, fortemente legato al suo hin-
terland (con le sue miserie, contraddizioni, passioni), Te-
stori fu tra i fondatori della Compagnia degli Incamminati,
di cui (nel 1989) assunse anche la direzione artistica.

Nella periferia milanese, negli anni Cinquanta, Arialda vive


nel ricordo lacerato del suo fidanzato, morto di tubercolo-
si. E questo la frena nella nascita di un possibile nuovo
amore, verso un agricoltore benestante. Il fratello di Arial-
da, Eros, è invece attratto (per amore? semplice desiderio
di profonda amicizia?) da Lino. Sullo sfondo, un mondo
volgare e tragico, nel quale ogni speranza di riscatto è de-
stinata al fallimento. Lo spettacolo, per la sua crudezza (e
modernità) venne censurato dalla questura di Milano; Te-
stori fu denunciato per oscenità.

Siamo nella seconda parte del dramma, e Arialda mostra


senza alcun freno il suo temperamento più duro e rivendi-
cativo: e ciononostante, nella ricerca della liberazione e
dell’autonomia, Arialda lascia emergere una fragilità dolcis-
sima e umanissima.
Imp. 100 monologhi 29-01-2008 15:49 Pagina 237

L’Arialda 237

A rialda (a Eros): T’hò mai domandato qualcòsa io, pér


mé? Rispóndi. Te l’ho mai domandato? Ma se adèsso
són qui, a domandàrtelo, cóme una disperata che nón
mangia, nón dòrme, nón véde, nón pènsa e nón ragióna,
è perché nón ne pòsso più, Eros! Più!
Quél maiale là, io, bisógna che me lo tiri via dalla tè-
sta, dalle spalle, dagli òcchi, dal vèntre, dal lètto, da tutto!
Bisógna che lo riduca in niènte! Bisógna che lo bruci!
Bisógna che nón ci sia più e che nón ci sia più da nessu-
na parte, neanche qui, nélla cosciènza! Se nò, un giórno o
l’altro, ma prèsto, mólto prèsto… (…) mi troveréte qui,
cón la cannétta nélla bócca.
Guardami, Eros! Nón avér paura! Guardami. Guarda
qui! Qui, dóve quél marcióne continua a toccarmi, perché
dice che c’è restato il ségno déi baci déll’Amilcare! C’è re-
stato? Védi qualcòsa tu? Nò? E allóra gridagli che nón è vé-
ro! Gridagli che nón c’è! Grìdaglielo, Èros! Perché se nón ti
métti a gridare tu, si rimétte lui! Ecco! Lo sènti? Ricomincia!
Ricomincia! Continua a ridere, a ridere così! Mi ride in fac-
cia, sulle spalle, dappertutto! Mi punta il dito cóntro e ride,
ride! “Tu, che credévi di farmela, hai visto?”
Mi dice così, Èros! Mi dice che dal suo patronato nón
potrò mai uscire! Perché le promésse fatte ai mòrti són più
délle promésse fatte ai vivi. Ma allóra, se pròprio vuòi, gri-
da più fòrte, o marcióne! Grida in manièra che ti sèntano
anche gli altri, perché se continuo a sentirti sólo io, pòsso
sèmpre rispónderti che nón è véro! Di ségni, qui, come
sulle spalle e in mèzzo alle gambe, nón ce n’è! Li vedi tu!
Tu e basta! L’Amilcare mi ha baciata, sì!
E allóra? Il tuo patronato è finito. E anche la proméssa.
Cón te è finito tutto. Tutto, marcióne!
Imp. 100 monologhi 29-01-2008 15:49 Pagina 238

238 100 monologhi ben pronunciati

Ennio Flaiano
Un marziano a Roma (1960)

Ennio Flaiano (Pescara, 1910 – Roma, 1972), critico tea-


trale, cinematografico, scrittore e giornalista, è stato a lun-
go collaboratore di Federico Fellini e sceneggiatore di im-
portanti film. Autore del disincanto e dell’ironia, dichiara-
va di trovare in Jonathan Swift, Catullo, Marziale e Giove-
nale i suoi maestri più fecondi: capaci di suscitargli com-
prensione ma anche indignazione verso i modi più ciechi e
confusi (frettolosi, ansiosi, banali) di vivere l’esistenza.

Un marziano arriva a Roma nei primi anni Sessanta, crean-


do grande turbamento. L’ordine pubblico e le istituzioni
non sanno bene quale accoglienza riservargli, ma la gente
è consapevole che la propria routine grigia e prevedibile
sarà finalmente scalfita. Tutti gli scrivono lettere, tutti si
aspettano da lui qualcosa. Ma pian piano – nonostante il
suo amore per una donna, Anna – lo scetticismo e la vol-
garità della gente lo coinvolgono. Preso da una lucida con-
sapevolezza decide di andar via, portando con sé Anna.
Ma ormai è troppo tardi. Anna rifiuta l’invito; la gente lo ri-
dicolizza e, ormai indifferente, lo allontana.

Siamo nella prima parte dell’opera, e il tono complessivo


del monologo è estatico e straniato. Il marziano è uno
spettatore affettuoso e partecipe che non ha ancora preso
atto delle nostre bassezze. E nella sua affettuosa, incuriosi-
ta conquista del paesaggio umano, non c’è – per ora – al-
cuna traccia di scherno, ambiguità, infantilismo.
Imp. 100 monologhi 29-01-2008 15:49 Pagina 239

Un marziano a Roma 239

I l marziano: Se quésto viaggio nón avésse altri scòpi, o


altre prospettive, basterèbbe a nón rènderlo vano la
certézza che néll’univèrso valgono dappertutto gli stéssi
sentiménti. Lo stésso amóre vale dovunque.
Io vi ringrazio, signóri, di avérmi tòlto alla fòlla e di ès-
sere cón vói in incògnito. È un moménto che nón dimenti-
cherò. Sémbra che tutto dèbba cominciare pér mé, anche il
giórno. Guardate laggiù, cóme il cièlo comincia a tingersi
di ròsa… è sèmpre così? … da nói il passaggio è più rapi-
do e nón conósce quéste sfumature. Il rósso succède al
néro, il bianco al rósso… Nón sóno stanco, cérco di capi-
re. (…)
Ógni nuòva città, arrivandoci pér la prima vòlta, na-
scónde una proméssa. Che còsa può nascóndere un món-
do nuòvo? C’è da tremare. Le acclamazióni nón mi hanno
sorpréso, ma fino all’ultimo moménto, prima di posarmi su
quél prato, ho avuto paura. La gènte fuggiva. Nón sapévo
che sòrte mi riserbava quésto pianéta, che nói, nélle nòtti
délla nòstra lunga estate, guardiamo in un misto di ansia e
di nostalgia… Cóme adèsso io guardo quél puntino rósso,
là, esattaménte sópra quél còlle, quél puntino rósso che è
il mio pianéta. (…)
Il nòstro pianéta nón è grande cóme il vòstro. Vói lo
chiamate Marte; nói cón una paròla che significa: fratèllo.
Fratèllo di chi? Ma di quésto pianéta! Nói vi amiamo. Te-
mévo una gèlida accogliènza, anche la mòrte (…) anche la
mòrte, che è l’estrèma risórsa dél sospètto vèrso lo straniè-
ro. Ciò che nón si capisce, lo si uccide. È più còmodo, nò?
Ma i vòstri poèti mi confortavano. Il lóro amóre pér le còse
che nón conóscono è così grande!
Qui ho trovato una nuòva vita. Anzi, ho ritrovato una
vita di cui sapévo l’esistènza, ma che s’èra pèrsa nélle nò-
stre leggènde. Io nón sóno il primo a venire quaggiù.
Imp. 100 monologhi 29-01-2008 15:49 Pagina 240

240 100 monologhi ben pronunciati

Carmelo Bene
Pinocchio (1961)

Carmelo Bene (Campi Salentina, 1937 – Roma, 2002), ol-


tre che autore e saggista, si è imposto nella seconda metà
del Novecento con la sua forza originale ed eversiva di at-
tore. Raffinato sperimentatore di materiale tecnologico e
drammaturgico (si pensi all’uso personalissimo del micro-
fono e della voce), grande contaminatore e dissacrante ri-
scrittore di opere già note al grande pubblico, fu anche au-
tore di particolarissimi lungometraggi.

Molto fedele alla storia inventata e scritta da Carlo Collodi,


nel suo Pinocchio Bene procede per sottrazione: eliminan-
do undici capitoli del testo originario e rendendo i dialoghi
un po’ più asciutti e diretti. Vale la pena ricordare – nella
versione di Bene – la battuta di addio della mascherina, in
cui Bene-Pinocchio si strappa il suo lungo naso, a suggello
del suo ingresso nel regno umano (e adulto).

Quella presentata è una delle pagine più note del Pinoc-


chio collodiano, ma anche della rivisitazione operata da
Carmelo Bene. La voce della Volpe è intrigante, ammiccan-
te, ricca di lusinghe; è svenevole, melensa, tentatrice; è
una voce da maestro degenerato e fuorviante. Nella sintesi
di queste tensioni espressive riesce a rendere ancora più
centrale il personaggio di Pinocchio, abbagliato e incantato
dalle sirene (sonore e visive) che gli offre l’infida Volpe.
Imp. 100 monologhi 29-01-2008 15:49 Pagina 241

Pinocchio 241

L a Volpe, a Pinocchio: Dunque, vuòi andare pròprio a


casa tua? Allóra vai pure, e tanto pèggio pér té… Pèn-
saci, Pinòcchio, perché tu dài un calcio alla fortuna… I
tuòi cinque Zecchini, dall’òggi al domani, sarèbbero diven-
tati duemila…
Ti spiègo sùbito cóme: bisógna sapére che nél paése
déi Barbagianni c’è un campo benedétto, chiamato da tutti
“il campo déi miracoli”. Tu fai in quésto campo una picco-
la buca e ci métti déntro pér esèmpio uno Zecchino d’òro.
Pòi ricòpri la buca cón un po’ di tèrra: l’annaffi cón
due sécchi d’acqua di fontana, ci gètti sópra una présa di
sale, e la séra te ne vai tranquillaménte a lètto. Intanto, du-
rante la nòtte, lo Zecchino germòglia e fiorisce, e la matti-
na dópo, di levata, ritornando nél campo, che còsa tròvi?
Tròvi un bèll’albero carico di tanti Zecchini d’òro, quanti
chicchi di grano può avére una bèlla spiga nél mése di
giugno. (…)
È un cónto facilissimo, un cónto che puòi farlo sulla
punta délle dita. Póni che ógni Zecchino ti faccia un grap-
polo di cinquecènto Zecchini: moltiplica il cinquecènto pér
cinque, e la mattina dópo ti tròvi in tasca duemilacinque-
cènto Zecchini lampanti e sonanti…
Nói nón lavoriamo pér il vile interèsse: nói lavoriamo
unicaménte pér arricchire gli altri.
Imp. 100 monologhi 29-01-2008 15:49 Pagina 242

242 100 monologhi ben pronunciati

Franco Brusati
La fastidiosa (1963)

Franco Brusati (Milano, 1922 – Roma, 1993) fu regista ci-


nematografico e commediografo sensibile e profondo. Af-
frontando temi apparentemente “normali” (il tradimento
coniugale, l’ansia di riscatto civile, la frustrazione per la
propria condizione sociale o psicologica), seppe affermare
un modello epico e politico di grande spessore e passione.
Tra i suoi film più riusciti, segnaliamo Dimenticare Venezia
e Lo zio indegno.

Stella, ex fidanzata di Tommaso, aspetta un figlio da un


uomo sposato e vistosamente più grande di lei, Rudi. La
moglie di quest’ultimo, Lidia, per il dolore si è trasferita in
un convento. Marco, figlio di Rudi, propone a Stella di se-
durre Tommaso, per tentare così di attribuirgli la paternità.
Ma Tommaso comprende ogni cosa; riconosce anche in
Marco un suo vecchio (disprezzato) compagno di scuola, e
tutto ciò paradossalmente lo fa riavvicinare a Stella, ora
non più idealizzata. La ragazza decide di abortire; il loro
rapporto si spegne; Rudi lascia la moglie e questa, consa-
pevole del suo fallimento di donna e di madre, muore.

Siamo nella seconda parte del dramma, e Tommaso ha


modo finalmente di parlare in modo schietto a Marco. È
lucido, duro, severo; tocca con semplicità e passione temi
etici e sociali, ma pur in un’atmosfera contrapposta e op-
positiva, riesce a manifestare un fondo di dolcezza e uma-
nità che lo rendono ancora più profondo e complesso nel-
lo sviluppo della storia.
Imp. 100 monologhi 29-01-2008 15:49 Pagina 243

La fastidiosa 243

T ommaso (a Marco): Anch’io vòglio darti crédito. Fórse


è véro che cercavi di assomigliarmi. Sènza un sòldo,
méno intelligènte di té, avévo però una qualità che nón ti
dava pace: èro un altro.
Da quél ladro che sèi, vorrésti rubar tutto al pròssimo,
perfino le sue virtù. Lo dico sènza astio, sai. Anzi, cón una
cèrta tenerézza. Poiché una dòte véra ce l’hai, e mi fa pé-
na: tu nón ti piaci. Di autèntico, in té, nón c’è che l’òdio
pér té stésso. È mólto, eh, in un móndo pièno di soddisfat-
ti!
Ma la gènte diffida di chi nón si ama. Pér quésto nón
avrai amici, e nessuno ti vorrà realménte bène, tranne tua
madre, che però ti rómpe le scatole cóme un rimórso.
Gli altri, uòmini e dònne, potranno cascarci, èssere
affascinati da té, innamorarsi di té, ma una vòlta spènta la
passióne, se ne vergogneranno e te ne serberanno rancó-
re. Così, di succèsso in succèsso, finirai sólo. E sènza nem-
méno la pietà altrui, poiché crederanno che l’hai voluto tu.
Se ti metterai a piangere, penseranno a una truffa. Se ti
suicidi, a un erróre.
Imp. 100 monologhi 29-01-2008 15:49 Pagina 244

244 100 monologhi ben pronunciati

Edoardo Sanguineti
K (1964)

Edoardo Sanguineti (Genova, 1930), docente universitario,


scrittore, critico letterario e poeta, ha dedicato un’attenzio-
ne costante e propositiva al mondo teatrale. Collaboratore
del «Verri» e fondatore del movimento di avanguardia
Gruppo 63, ha legato l’impegno drammaturgico a opere ri-
maste memorabili nel panorama artistico italiano, a parti-
re dal ronconiano Orlando furioso. Così come testimonia
l’intenso lavoro svolto con Luciano Berio, la scrittura di
Sanguineti è polisemantica (plurilinguistica, contaminata,
plurale) e allo stesso tempo “desemantizzata”, sensibile al
valore fonico e simbolico delle parole.

A Praga si incontrano di notte, nella sala di un caffè, due


uomini. Si tratta del signor K. (un “arbitrario”, come lo de-
finisce l’Autore, Franz Kafka) e del signor Gustav J. (l’auto-
re chiarisce che non si tratta di Jung, ma di Gustav Ja-
nouch, storico amico di Kafka). Ne nasce uno scontro ver-
bale grottesco e profondo, in cui K. ribadisce la sua visio-
ne per – e la sua incomprensione verso – l’ambiguo e con-
traddittorio ciclo dell’esistenza umana.

Le parole del testo disegnano un labirinto in cui ogni into-


nazione può (deve) cambiare nella stessa proposizione o
frase. Il registro generale del monologo è dialogico e collo-
quiale, ma brusche virate e continue digressioni ne rendo-
no volutamente contorto lo sviluppo: con compiacimento
espressivo ma anche con la consapevolezza della difficoltà
(impossibilità?) di addivenire a una pur qualche soluzione
(del dialogo qui riportato, del rapporto tra i personaggi,
della trama della storia, della vita). (“Ein Gleichnis” sta per
“una parabola”, “una similitudine”.)
Imp. 100 monologhi 29-01-2008 15:49 Pagina 245

K 245

K : Una maledizione! Nutrire, dico, allevare: a quésto! A


esternare – a eternare – una coazióne. Ad altro, fórse?
Un contégno, innanzi tutto. Un chiaro, onèsto (badi, Gu-
stav, badi bène) onèsto contégno. Perché – perché pòssa-
no onestaménte, o-ne-sta-mén-te, i figli, sentire, nélle vi-
scere, créscere, il disgusto – la ripugnanza – lo schifo! –
pér il nòstro vólto, pér il nòstro móndo, pér le viscere dél
nòstro móndo – nélle viscere. Pér i nòstri gèsti, Gustav.
Pér le nòstre mani. Ah, sì, Gustav, è orribilménte còmico:
per il nòstro culo!…
(Ma nón è pér quésto che nón vòglio…) Ah, nò! Nón
pér quésto! Ah, Gustav, se così fósse, che redenzióne! Ma
nón redenzióne, cóme le ho spiegato, nón redenzióne!
Coazióne, anzi! Ripetizióne! Dópo l’immènsa, talvòlta, tal-
vòlta immènsa fatica di una rivòlta, di – di un rovescia-
ménto radicale, viscerale, viscerale pròprio, lèi véde, pér
la distanza che córre tra quélla nòtte (òh, Gustav, nón pòs-
so, pròprio nón pòsso dimenticare), tra quélla nòtte, e
quésta, lèi véde: quésto ritornare al vòmito. Nón dico, Gu-
stav, cóme – cóme assunzióne cosciente, cóme – cóme as-
sunzione critica – cóme – cóme anamnesi liberatrice (hò
détto: liberatrice, Gustav!). Ma pròprio, ah, repellènte!, prò-
prio succhiare là dóve giace il sudicio, pròprio tornare ad
alimentarsi dél pròprio escreménto, póppare, Gustav, le
pròprie orine: è quésto. E: rivivere!
(Piange) Sì, piango, poiché… mi sfòrza… a parlare,
Gustav – ah, mi lasci ridere: dico, nón rievocare, dico: rivi-
vere, ah ah rivivere, in sé stéssi, Gustav, Erlebnis (ah, Gu-
stav, ein Gleichnis!), dico – a pièni polmóni – dico: ri-vi-
ve-re. E sorprèndersi, ècco, coatti ai medésimi gèsti, alla
pròpria mano… cóme a una mano… patèrna… che ti ac-
carézza… bruciata… dolènte… che ti accarézza, ardènte…
che ti tócca… amorosaménte…
Imp. 100 monologhi 29-01-2008 15:49 Pagina 246

246 100 monologhi ben pronunciati

Natalìa Ginzburg
Ti ho sposato per allegria (1966)

Natalìa Ginzburg (il suo vero cognome era Levi, Palermo,


1916 – Roma, 1991) visse la sua fanciullezza a Torino,
guidata dal padre Giuseppe Levi, famoso scienziato del
tempo. Sposata con un autorevole letterato antifascista di
origine russa condannato al confino (Leone Ginzburg), lo
seguì nelle sue peripezie per vederlo poi morire nel 1944.
Nell’anno successivo Natalia ritornò a Torino e cominciò a
collaborare stabilmente con la casa editrice Einaudi, ac-
centuando la sua produzione letteraria, teatrale e saggisti-
ca.

Pietro e Giuliana si conoscono a una festa. Lei è sbronza;


lui l’accompagna a casa e lì – per gioco? per attrazione? –
Pietro si ferma, convivendo con Giuliana per un mese. Sù-
bito dopo si sposano. Lui è un avvocato, e proviene da
un’austera famiglia borghese; lei è invece una donna indo-
lente e spiantata, ex commessa di negozio. L’arrivo della
suocera e della cognata – dopo il veloce matrimonio –
mette in agitazione la coppia. Ma Giuliana, per il suo carat-
tere leggero e spensierato, riesce comunque a superare
l’insidiosa prova famigliare...

G iuliana: E pòi è cominciato un perìodo bruttissimo,


perché Topazia nón c’èra più, nón avévo lavóro, e la
Elena cól suo naso lungo a piangere su di mé, e a dirmi
che fórse facévo bène a tornare a Piève di Montesécco,
sennò cascavo in un altro brutto pasticcio cón qualche ti-
po di depravato, e io a girare le strade e ad aspettare che
Imp. 100 monologhi 29-01-2008 15:49 Pagina 247

Ti ho sposato per allegria 247


mi succedésse qualcòsa. Topazia m’avéva lasciato un po’
di sòldi, e anche una lèttera pér un suo amico antiquario,
ma, quésto qui, nón mi ha présa nél suo negòzio perché
avéva già una comméssa, e Paoluccio al suo negòzio di di-
schi anche lui adèsso avéva un’altra.
E io intanto a pòco a pòco mi disinnamoravo di Manò-
lo ma disinnamorarsi è bruttissimo, tutti gli uòmini ti sém-
brano scémi, nón sai dove si sóno ficcati quélli che ti pos-
sano amare. Allóra un giórno ho incontrato un amico di
Topazia, un fotògrafo, e mi ha portato in via Margutta, una
casa pièna di scale e scalétte, e cói soffitti a mansarda.
C’èra un mucchio di gènte, tutti seduti su quélle scalét-
te, e si mangiava il cotechino cón le lenticchie, e si bevéva
vino rósso, e si ballava. E io èro un po’ sperduta, perché,
salvo quél fotògrafo, nón conoscévo nessuno. Però, dópo
che ho bevuto un po’ di vino, nón mi sóno più sentita
sperduta, e sono diventata allégra. E lì, a quélla fèsta, ho
incontrato Piètro. Era seduto sul primo scalino e chiacchie-
rava cón una ragazza cón déi calzóni arancióne, che hò
poi saputo che èra sua cugina. E alla fine io èro completa-
ménte ubriaca, nón trovavo più il fotògrafo, e ballavo sóla
cón le scarpe in mano.
E mi girava la tèsta, e sóno caduta pròprio vicino a
quéi calzóni arancióne. E hò détto: Si ricòrdi che cói calzó-
ni, nón si pòrtano i tacchi alti! E si ricòrdi che farsi fare
quéi calzóni di quél colóre, è stata pròprio una cattivissima
idèa! Lèi nón ha nessuno stile! E quélla lì ridéva, ridéva…
io sóno svenuta (…), insómma nón ho capito più niènte,
èra il vino. E mi sóno ritrovata su un lètto, nélla stanza déi
padróni di casa, un pittóre mólto gentile, cón sua móglie.
E Piètro mi tenéva la tèsta, e mi facéva bére dél caffè.
Ho chièsto sùbito se avévo vomitato. Mi sarèbbe di-
spiaciuto d’avére vomitato davanti a quélle persone così
gentili. Mi hanno détto di nò. La ragazza cói calzóni aran-
cióne mi facéva vènto cón un giornale. E pòi Piètro mi ha
riaccompagnato a casa. Nón èro più niènte ubriaca, èro
un po’ mortificata, e triste. Lui è salito su cón mé.
Imp. 100 monologhi 29-01-2008 15:49 Pagina 248

248 100 monologhi ben pronunciati

Pier Paolo Pasolini


Affabulazione (1966)

Pier Paolo Pasolini (Bologna, 1922 – Roma, 1975) fu poe-


ta, scrittore, regista cinematografico e teatrale. Tra le sue
molte opere ricordiamo la raccolta poetica Le ceneri di
Gramsci, il romanzo Una vita violenta e il film Accattone,
ma vale la pena citare anche, del 1967, il Manifesto per un
nuovo teatro. Estremamente interessante, in questa figura
di intellettuale “impegnato politicamente”, originalissimo e
scevro da ogni schieramento, è la sua ricerca linguistica:
dalla valorizzazione del dialetto come “lingua madre e
dell’inconscio”, alla necessità di una poesia e di una prosa
attente alle ragioni del parlato e dell’ascolto.

Affabulazione è la storia tragica di un industriale lombardo.


Suo figlio è in quella fase della vita (fatta di bellezza, sen-
sualità, proiezione verso il futuro) per lui ormai distante. Il
padre tenterà con invadenza – anche carnale – di avvicinar-
si al figlio, costringendolo a scappare. Dopo averlo però ri-
trovato (e aver spiato il suo accoppiamento con la fidanza-
ta), lo ucciderà. Uscitto dal carcere dopo vent’anni, ormai
mendicante, è ancora nel suo pensiero quel luogo puro – il
figlio, la fanciullezza – così dolorosamente ricercato.

Si tratta di un monologo totalmente interiore: in cui la ge-


losia per la giovane età del figlio si fonde con il terrore del
suo allontanamento (per colpa di una donna, un’estranea,
un altro corpo). Apparentemente pacato nell’argomentazio-
ne; duro mentre considera le “migliaia di figli uccisi…”; ri-
vendicativo nella domanda per lui più lacerante (“come av-
viene invece…”), il testo tradisce una fragilità e un senso
di insoddisfazione costante verso le involuzioni – anche fi-
siche – a cui la vita ci costringe: il tutto, sempre, con un
registro che fonde dolcezza e dolore.
Imp. 100 monologhi 29-01-2008 15:49 Pagina 249

Affabulazione 249

P adre: Prendiamo il caso in cui il padre òdia il figlio:


quésto padre la sua impotènza l’ha scritta
cóme sul cartèllo délla gógna.
Cartèllo che nón si véde – diètro la tòga
déll’avvocato o il doppiopètto déll’industriale
o la tuta déll’operaio: è naturale.
Ma le ragióni délla sua disapprovazióne
délla condótta sociale dél figlio, són sèmpre valide!
È la presènza stéssa dél figlio, infatti,
che métte in scompiglio la società.
Il mèmbro frésco, umile, assetato,
scandalizza pér sé stésso, se mésso a confrónto
cón quéllo, sènza alcuna novità, che è dél genitóre.
Migliaia di figli sóno uccisi dai padri: méntre,
ógni tanto, un padre è ucciso dal figlio – ciò è nòto.
Ma cóme avviène l’assassinio déi figli da parte
déi padri? Pér mèzzo di prigióni, trincèe, di campi
di concentraménto, di città bombardate.
Cóme avviène invéce l’assassinio déi padri da parte déi
figli?
Pér mèzzo délla créscita di un còrpo innocènte,
che è lì, nuòvo venuto nélla vècchia città, e, in fóndo,
nón chiederèbbe altro che d’essérvi ammésso.
Égli, il figlio, gètta nélla lòtta cóntro il padre
– ché è sèmpre il padre a cominciare –
il suo còrpo, niènt’altro che il suo còrpo.
Lo fa cón un òdio pièno di purézza, oppure
cón la stéssa distaccata e irònica dolcézza
cón cui óra tu avanzi, cón quésta dònna, i tuòi diritti.
Imp. 100 monologhi 29-01-2008 15:49 Pagina 250

250 100 monologhi ben pronunciati

Amelia Rosselli
Diario ottuso (1968)

Amelia Rosselli (Parigi, 1930 – Roma, 1996) fu musicista,


traduttrice, saggista e soprattutto poetessa (il primo a soste-
nerla e a incoraggiarla fu Pier Paolo Pasolini). E qui, nella
sua produzione testuale, emerge forte il bisogno di legare
codici e tradizioni differenti: classiche e modernissime, dal
simbolismo alla neoavanguardia. Il tutto, sempre, con
un’attenzione particolare verso il valore fonico, ritmico e
melodico della parola.

Diario ottuso è un monologo (meglio: un dialogo con se


stessi) ambientato in un luogo disabitato e impossibile: da
disconoscere e da cui scappare. C’è violenza, fuga, ango-
scia negli spostamenti e nelle vicende (forse ambientate a
Roma, a Fiumicino), che qui sono vaghe, astratte. L’unico
vero filo conduttore è quello di una ricerca interiore che
trova (finalmente?) la sua dimensione vitale nella consape-
volezza del “non sapere, non vedere, non capire”.

Il monologo sembra apparentemente descrittivo, mentre in


realtà è consapevole dell’assenza di ogni ascoltatore e in-
terlocutore: quasi come se le parole fossero attutite, ridotte
di volume, appena emesse. La terza persona – che dovreb-
be garantire oggettività al racconto – è qui un artificio tal-
mente scoperto (è evidente che la protagonista parli di se
stessa) da rendere ancora più profondo il senso di doloro-
so vuoto che avvolge l’intera pagina.
Imp. 100 monologhi 29-01-2008 15:49 Pagina 251

Diario ottuso 251

P artì senza dire a nessuno perché partiva: partiva ed èra


obbediènte agli altri nél partire, éssi che preferivano
che lèi partisse. Partì, e fu cóme tògliersi la giacca, tutta in-
daffarata nél partire, e pensare: perché sóno partita? per-
ché mi hanno fatto partire?
Nón sò perché sóno partita, si disse, e nemméno vò-
glio sapére perché hanno voluto ch’io partissi, si disse, e
óra nón ho nemméno vòglia di partire, pensò partèndo.
E sedèndosi sul mòrto sedile, féce un pulito, stancante
viaggio, sèmpre pensando fra sé: perché partire, perché
hanno desiderato ch’io partissi? Vénne: perché si castrò da
sóla? Perché èra sola, e indesiderabile? Perché era cònscia
délla sua scélta? o perché èra nuòva all’ingranaggio? Fu
cóme se una fièra di interrogativi la colpissero nél punto
giusto: la tèsta: l’ombelico: il sapér tutto: il nón sapér nulla:
il preferirsi mòrta.
Montò sul trèno: féce il viaggio e riscòsse dal biglietta-
io la proméssa di arrivare in tèmpo pér èssere distrutta in
quésto nuòvo luògo dóve avrèbbe, finalménte, imparato a
vivere. Volèndo cocènte sapér vivere e cògliere dalla vita
sólo quéllo che gli èra dovuto!
Ma nón gli èra dovuto nulla, e cón orróre se ne accòr-
se dópo pòchi mési nélla nuòva città, che da prima le sem-
brò mólto triste e inutile. Seguiva urgenteménte le sue in-
tenzióni, e obbediva alle intenzióni dégli altri: lavorava fi-
no a stancarsi tròppo pér potér seguire le pròprie istruzió-
ni. Sènza istruzióni si accòrse d’èssere, ma insistéva nél ri-
conóscere soltanto le istruzióni dégli altri, in pièna obbe-
diènza, in fierézza nell’umiliazióne, in semplicità matemati-
ca nél calcolare i suòi dovéri presènti dimenticando le tor-
ture nón comprése nél passato.
Nón pensava di morire, o di morirne, o di dovér accet-
tare la pietà altrui; anzi: così dura e sémplice e pura èra la
sua intenzionalità che ne fu distrutta, quasi, in quanto nón
ammettéva che potésse èssere duro, pernicióso, inumano,
quésto suo sorteggiare la sua persóna, elencandola tra gli
oggètti inutili.
Imp. 100 monologhi 29-01-2008 15:49 Pagina 252

252 100 monologhi ben pronunciati

Dacia Maraini
Ricatto a teatro (1968)

Dacia Maraini (Fiesole, 1936) è scrittrice, poetessa, saggi-


sta. Avvicinatasi al romanzo con esiti felicissimi sin dalla
giovinezza, ha affrontato temi dalla forte tensione civile e
politica, caratterizzati da una esplicita matrice femmini-
sta. Nel teatro di fine anni Sessanta, vale la pena segnalare
la novità rappresentata – sul piano dell’intreccio e del-
l’azione scenica – da testi come Ricatto a teatro e Recitare.
La successiva, ricca produzione teatrale ha confermato e
rafforzato questa vocazione all’impegno civile, formale e
contenutistico della sua opera artistica.

Ricatto a teatro vede una compagnia di attori impegnata


nell’allestimento di uno spettacolo: un industriale e la sua
amante che ospitano una ragazza ma la sfruttano per torbi-
de pratiche sessuali; una denuncia (minacciata a fini di ri-
catto) per corruzione di minori; il suicidio di uno dei ricat-
tatori; i problemi dell’industriale con i suoi operai. La mes-
sinscena diventa pian piano l’occasione per riflettere sul la-
voro dell’attore, per criticare il testo che stanno provando e
per impegnarsi a favore di un nuovo modo di intendere e
progettare il teatro.

Siamo a metà del dramma e le parole – a partire dalla ripe-


tizione di “figlio” – si fanno più dure, strabordanti, aggres-
sive.

C armelo: [Mio padre] dice, se vuòi risparmiare, vièni a


vivere a casa. A casa dóve? A casa cóme? A casa cón
chi? Se lo védo uscire in corridóio di nòtte cón la sua
vestaglia scolorita, io vòmito. Pòi viène mia madre strasci-
Imp. 100 monologhi 29-01-2008 15:49 Pagina 253

Ricatto a teatro 253


cando i pièdi che mi sorride in manièra còmplice, e io rivò-
mito. Ma diètro c’è anche lui, il mio fratellino, il piccolo gè-
nio, a ventitré anni già laureato, già impiegato, già pièno di
sòldi, già fidanzato, che mi dice Carmèlo, ma che hai? E io
rivòmito. Nón pòsso passare il tèmpo a vomitare.
Spògliati tesòro. E la madre che allunga le mani. Po-
trèbbe spogliare un figlio da dièci mètri di distanza. Le sue
braccia si allungano quanto vuòi. Il figlio è magro, sciupa-
to, il figlio è stato fuòri tanti giórni, il figlio vòmita appéna
la véde, il figlio sta sèmpre appiccicato a un altro figlio di
un’altra madre, il figlio è esangue, il figlio nón ha vòglia di
mangiare, il figlio nón ha vòglia di dormire, il figlio nón ha
vòglia di guardare la televisione, il figlio si alza ógni mo-
ménto pér andare a telefonare, il figlio non rispónde alle
domande dél padre, il figlio rifiuta il bacio délla madre, che
lo adóra, che lo spòglia, che lo cura, che lo imbócca, che
lo carézza e gli prème il pètto cóntro le tèmpie; il figlio ri-
fiuta la carne marinata, il figlio rifiuta i dólci cón la ricòtta,
il figlio rifiuta il pésce al fórno, il figlio rifiuta il pandòro di
Natale, il figlio rifiuta il cappòtto nuòvo di pélo di cammèl-
lo, il figlio piange, il figlio pòrta déi pantalóni néri, lugubri,
così strétti sul sedére che sémbra si dèbbano spaccare, il fi-
glio sbadiglia a céna, sbadiglia a colazióne, il figlio guarda
la madre cón òdio, il figlio guarda il fratèllo cón furóre, il
figlio guarda il padre cón disgusto, il figlio si métte davanti
allo spècchio, a gambe larghe, nudo e si pòrta le mani al
sèsso; il figlio tappa i buchi délla serratura cón la mollica di
pane, il figlio fa cigolare il lètto, da sólo, méntre gli altri
dòrmono, il figlio méscola il vino cól limóne, il figlio man-
gia le arancine di riso sulla copèrta, il figlio dòrme quando
tutti si alzano, il figlio èsce quando tutti rientrano, il figlio
si tòrce nél gabinétto e nón apre, nón apre neanche mòrto,
il figlio incóntra il padre che lègge il giornale e comincia a
gridare, il figlio véde la madre che pòrta in tavola la pasta
e comincia a bestemmiare, il figlio che incóntra il fratèllo
cón la cravatta nuòva e comincia a sputare.
Il figlio guarda il padre che guarda la madre che guarda
il fratèllo che guarda la fidanzata che guarda se stessa néllo
spècchio, e ricomincia a vomitare.
Imp. 100 monologhi 29-01-2008 15:49 Pagina 254

254 100 monologhi ben pronunciati

Maurizio Costanzo
Un amore impossibile (1970)

Maurizio Costanzo (Pescara, 1938) è giornalista, sceneg-


giatore, scrittore, esperto di comunicazione e conduttore te-
levisivo. Autore di molteplici programmi radiofonici e tele-
visivi, si è dedicato al teatro soprattutto negli anni Sessanta
e Settanta, sia attraverso allestimenti cabarettistici, sia con
la produzione di fortunatissime commedie. In esse, parten-
do da situazioni borghesi e convenzionali, Costanzo de-
nuncia le contraddizioni della socialità contemporanea,
ingrigita in norme a cui il “corpo” umano – il suo senso di
libertà e anarchia – non riesce a dare senso.

Paolo è un avvocato famoso e Giovanna, sua moglie (inap-


pagata, bellissima) lo tradisce continuamente. Decidono di
separarsi ma lui, dopo un po’, la va a cercare. E la trova in
uno squallido residence, dove ha fatto amicizia con una
prostituta, un ex galeotto, un trentenne prestante e vuoto.
Dopo il vano tentativo di Paolo di riappacificarsi, Giovan-
na torna nel suo misero mondo, consapevole di star con-
sumando – inutilmente e senza illusioni – la sua esistenza.

È il monologo – situato a ridosso della conclusione – più


intenso dell’opera, in cui vari registri intonativi (dolci, iro-
nici, affettuosi, distaccati, malinconici) disegnano un perso-
naggio tanto potente quanto inappagato.

G iovanna (a Paolo): Adèsso te lo dico io quéllo che bisó-


gna dire… bisógna dire che il nòstro matrimònio va
male, è andato male a prescindere da quéllo che le persone
pér bène chiamano “le mie stranézze”… ècco, le mie stranéz-
Imp. 100 monologhi 29-01-2008 15:49 Pagina 255

Um amore impossibile 255


ze sóno da una parte, e pòi dall’altra c’è il matrimònio.
Quésto glorióso istituto che richiède innanzitutto intelli-
gènza da parte di chi ne è protagonista, e quindi cultura e
quindi dialogo e quindi comprensióne e quindi mutuo soc-
córso e quindi ancóra complicità… caro Paolo, in tutte
quéste còse siamo un po’ deficitari… aspètta… formalmén-
te, nò, formalménte siamo perfètti… potrémmo èssere in-
tervistati dagli esponènti di un’associazióne cóntro il divòr-
zio… nói siamo “la” famiglia… nón “una” famiglia… la fa-
miglia… nél sènso più ignobile délla paròla… a nói, il dól-
ce la doménica e la prima teatrale e la fèsta dell’ultimo del-
l’anno nón ce la lèva nessuno… però ho il sospètto che
nón sia sufficiènte… che nón basti… chissà, fórse sèrve
qualcòsa d’altro… pòi ci sóno le mie stranézze, d’accòr-
do… ma quélle mettiamole via… mica si può èssere perfèt-
ti, véro, véro, avvocato? (…)
Sai, amóre, tu nón hai nessuna cólpa. Da un cèrto mo-
ménto, quando è stato? Nón sò, nón ricòrdo… l’uòmo m’è
apparso un profóndo ignòto da esplorare. Tanti uòmini,
tanti segréti… Ti vedévo sorridere, rabbrividire, godére,
dormire e nón èri mai sólo. Cóme sorridéva, rabbrividiva,
godéva e dormiva il tuo compagno di studio? l’amico cón
cui avévo ballato o eravamo andati al cinema? lo scono-
sciuto che m’avéva guardato a lungo e sorriso?
Ecco, quésto fórse è stato l’inizio… E pòi (…) e poi
quél tuo cliènte, quéllo che avéva appéna ammazzato la
móglie e si è venuto a costituire da té… ma sì, méntre tu
sèi córso dal presidènte dél tribunale… lui aspettava… una
curiosità, mica altro… e ancóra… adèsso nón mi ricòrdo
bène… l’unica fregatura è che pòi si innamórano, dicono di
innamorarsi e allóra divènta una nòia… soltanto il carcerato
nón mi ha dato fastidio… be’, è ancóra déntro… gli altri,
altriménti, petulanti… nón riéscono a capire, e quindi insi-
stono… e avéte tutti la vocazióne al fidanzaménto… anche
patètici, són lì che dicono: dillo che cón mé ti sèi trovata
cóme con nessun altro!… L’aspirazióne alla maglia gialla, al
primo prèmio, all’insuperabilità… véro niènte, tutti uguali,
cóme bufali… tòri… quanto siète schifósi.
Imp. 100 monologhi 29-01-2008 15:49 Pagina 256

256 100 monologhi ben pronunciati

Bernardo Bertolucci (e Franco Arcalli)


Ultimo tango a Parigi (1972)

Bernardo Bertolucci (Parma, 1941) è uno dei registi cine-


matografici più noti e interessanti degli ultimi decenni.
Aiuto regista di Pasolini già negli anni Sessanta, si impose
giovanissimo per la direzione di due film innovativi e ori-
ginali – La strategia del ragno, Il conformista –, anticipato-
ri in parte (dal punto di vista estetico e contenutistico, non-
ché politico) del celeberrimo Ultimo tango a Parigi, che in
Italia fu accompagnato da polemiche e censure. Con L’ulti-
mo imperatore, del 1987, Bertolucci ha visto consacrata la
sua fama a livello mondiale vincendo nove premi Oscar.

Paul è uno statunitense a cui è da pochissimo morta (suici-


da) la moglie, con la quale aveva intessuto un rapporto
forse troppo libero, sicuramente doloroso. E a Parigi, dove
si trova, conosce Jeanne, una giovane borghese e spregiu-
dicata. Con lei stabilisce una relazione esclusivamente ses-
suale che esclude ogni coinvolgimento, emotivo e raziona-
le. I due non vogliono (non devono) conoscersi. Ma qual-
che spiraglio talora traspare. E con lei che sta per sposarsi,
con lui che le chiede un rapporto più vero, la storia termi-
na con l’assassinio di Paul da parte di Jeanne. La quale alla
polizia racconterà (falsamente) che Paul aveva tentato di
violentarla e che (correttamente) non sapeva chi fosse: era
“uno sconosciuto”.

P aul (alla moglie Rosa, morta suicida in una camera


d’albergo): Nón ti hò mai vista così truccata. Amóre
mio, sémbri la caricatura di una puttana. Tua madre? Ti ha
truccato lèi. E quésto vestito?… è ridicolo, da finta bambi-
na, pòvera Ofèlia annullata in una vasca da bagno… ac-
Imp. 100 monologhi 29-01-2008 15:49 Pagina 257

Ultimo tango a Parigi 257


qua calda a tutte le óre… amóre mio dovrésti vedérti, sèi il
capolavóro di tua madre. Ci sóno tròppi fióri, scusami, nón
si respira. (…)
In camera nòstra, sópra l’armadio, hò trovato una sca-
tola di cartóne. Déntro c’èrano pénne stilografiche, mazzi
di chiavi, piegabaffi, monéte stranière, preservativi, c’èra di
tutto déntro, persino un collétto duro déll’órdine délla Sal-
le. Nón sapévo che collezionassi le còse dimenticate in al-
bèrgo. Anche il rasóio… Quél rasóio veniva di là. Un mari-
to, anche se vivésse duecènto anni, nón riuscirà a capire
nulla sull’esistènza véra di sua móglie. Conoscerò il món-
do, l’univèrso, ma nón scoprirò mai la verità su di té.
Mia móglie chi èra? I primi tèmpi ti dicévo: parto do-
mani, mi prepari il cónto. Invéce restavo. Èra un mòdo có-
me un altro pér farti la córte. Sóno rimasto cinque anni.
Hò visto tutti quéi còrpi putrefatti dal sónno, quélle góle
sudate, quéi vèntri gónfi… Cliènti. Ospiti, dicévi tu. An-
ch’io pér cinque anni più che un marito sóno stato un
cliènte déll’hotel, un òspite, niènte di più. Un òspite privi-
legiato. È quésto il matrimònio? E l’adultèrio? Un’altra
istituzióne: Marcel. Pér farmi capire mi hai lasciato in ere-
dità Marcel. Un amante che è il dóppio di tuo marito, in
una camera che è il dóppio délla nostra camera, abitudini
uguali alle nòstre… Nón ho avuto il coraggio di chièdergli
se anche i vòstri vizi èrano il dóppio déi nòstri…
Il matrimònio. Una tana. È bastato un rasóio, una vasca
pièna d’acqua… (Giunge le mani, sembra che stia pregan-
do) Tu, pòvera puttana disgraziata, strónza schifósa, sèi
pèggio délla peggióre tròia che sia mai esistita. E sai per-
ché? Perché hai mentito. Hai mentito cón mé… avanti!
dimmi che nón hai mentito, parla, sorridi pòvera stupida!
Coraggio, dimmi qualcòsa di dólce, sorridimi e dimmi che
sóno io che mi sbaglio, maledétta tròia, bugiarda vigliacca,
cagna. (Con delicatezza prende un asciugamano, ne inu-
midisce un lembo con la saliva e lo porta sulle labbra della
morta). Nón pòsso vedérti così truccata, l’hai sèmpre odia-
to il rossétto…
Imp. 100 monologhi 29-01-2008 15:49 Pagina 258

258 100 monologhi ben pronunciati

Umberto Eco
Stelle e stellette (1976)

Umberto Eco (Alessandria, 1932), docente universitario,


saggista e giornalista, si è occupato di filosofia, storia e
analisi del linguaggio, con uno stile sempre brillante e ori-
ginalissimo. Accanto alla sua carriera scientifica, Eco ha
curato un forte interesse per il mondo del teatro e del cine-
ma: frequentando – e scrivendo – per i primi, alternativi
cabaret milanesi degli anni Sessanta (con la produzione di
un famoso testo, Tanto di cappello) e curando – tra gli al-
tri – la sceneggiatura del celeberrimo film Il nome della ro-
sa, tratto dal suo omonimo romanzo.

Stelle e stellette (con il sottotitolo “La via Lattea mormorò”)


è, per stessa ammissione dell’autore, un “divertimento fan-
tamilitare”. In esso, si immaginano guerre sempre più este-
se (interplanetarie, interstellari) segnate – purtroppo, co-
munque – dalle caratteristiche più tipiche di ogni guerra,
dal maschilismo alla retorica, alla più sciatta (talora comi-
ca) ignoranza.

Siamo nella parte iniziale del testo, e il fono (con voce


gracchiante? Neutra? Militaresca?) assume il ritmo della pa-
rata e della banda musicale. La voce si dispiega come se
un enorme cortile possa recepirla, e tenta di comunicare
sicurezza, forza, robustezza, in una (al contrario, evidente)
dimostrazione di insulsa e pacchiana organicità.
Imp. 100 monologhi 29-01-2008 15:49 Pagina 259

Stelle e stellette 259

F ONO (da Comando Stato Maggiore Intergalattico – si-


no a tutte le Unità Operative dell’Universo): Ufficiali,
sottufficiali, soldati! L’óra dél destino batte alle pòrte délle
Galassie Federate! Dalla nòstra prontézza, dalla nòstra ab-
negazióne, dalla nòstra efficiènza tattica e stratègica dipèn-
de il destino délla nòstra Patria! Soldati! Ciascuno al suo
pósto, e un pósto pér ciascuno!
Assumèndo direttaménte il comando délle operazióni,
órdino: tutte le unità mòbili dél sistèma solare si attèstino
sull’Isónzo; il IV Còrpo d’Armata di sède a Boòte òccupi
gli appostaménti déi Lagazuoi, sasso di Stria, Raganèlla, La-
go di Carézza e Pordòi; il V Còrpo d’Armata di stanza nélle
Plèiadi e i reparti scélti di Octopòdi di Ofiuco si attèstino
sul Tagliaménto e sul Piave; i reparti corazzati dégli Arditi
Liquidi di Auriga mantèngano la posizione Mónte Grappa
(provvedére camere decompressióne e campane solidi-
ficazióne a quòta 118); i Persèidi délla Mòrte di Ago si attè-
stino sulla riva sinistra déll’Adige e appróntino pónti di
barche; i Carotièri di Plutóne raggiungano immediataménte
Ortisèi e appróntino trincèe.
Gli altri reparti rèstino in attésa di órdini nél quadrato
di Peschièra. I nòstri pètti faranno barrièra al nemico
invasóre che dovrà risalire in disórdine quéi vòrtici del-
l’iperspazio che ha disceso cón tanta orgogliósa sicurézza.
Nón vèngano méno le grandi tradizióni militari dél nò-
stro glorióso Esèrcito! Rispondiamo in mòdo appropriato,
efficiènte, deciso ed eròico a quésta grande occasióne che
la Stòria ci òffre.
Soldati! Viva Trénto e Trièste, territòri galattici! Vinceré-
mo!
Imp. 100 monologhi 29-01-2008 15:49 Pagina 260

260 100 monologhi ben pronunciati

Dario Fo, Franca Rame


Io, Ulrike Meinhof, grido… (1977)

Dario Fo (San Giano, 1926) e Franca Rame (Parabiago,


1929) hanno caratterizzato la propria attività in chiave
anticapitalistica e anticlericale. Dario Fo, in particolare
(scrittore, pittore, sceneggiatore cinematografico, Nobel per
la letteratura nel 1997), partendo dalle tecniche d’improv-
visazione della Commedia dell’arte ha elaborato un model-
lo recitativo affabulatorio e sapiente nell’uso linguistico,
spesso declinato con grammelot e contaminazioni dialetta-
li. Franca Rame, attrice di prosa e di rivista, ha dedicato
un’attenzione particolare alla condizione carceraria e so-
prattutto – con un grande successo europeo – a quella fem-
minile.

Nella Germania degli anni Settanta – coinvolta, così come


l’Italia, da una ventata di ribellione radicale degenerata poi
nella violenza terroristica – agiva un’organizzazione politi-
ca denominata Raf, nelle cui fila militava la terrorista Ulrike
Meinhof. Arrestata e rinchiusa in carcere, la Meinhof fu tro-
vata morta in circostanze che lasciarono immaginare un di-
retto coinvolgimento delle guardie carcerarie e della poli-
zia tedesca.

La protagonista è chiusa in una gabbia: urla (come se qual-


cuno al di fuori la potesse sentire) e allo stesso tempo si
gode un silenzio surreale, consapevole del silenzio totale a
cui è votata.

N ón vògliono che mi salti in ménte di suicidarmi. Spètta


a lóro decidere. Quando sarà il moménto giusto ci
penseranno di persóna, mi daranno “l’órdine” di suicidarmi
Imp. 100 monologhi 29-01-2008 15:49 Pagina 261

Io, Ulrike Meinhof, grido... 261


e dal moménto che in quésta cèlla nón ci sóno sbarre alla
finèstra pér potére appèndere un lenzuolo tòrto e una cin-
ghia e quindi impiccarmi, mi daranno una mano lóro… o
anche più di una mano.
Un lavorétto pulito. Cóme tutta pulita è quésta social-
democrazia, che si prepara ad uccidermi… in buòn órdine.
Nessuno sentirà un mio grido, né un laménto… tutto in si-
lènzio, cón discrezióne, pér nón turbare i sónni seréni déi
cittadini felici di quésta nazione pulita… e ordinata.
Dormite, dormite, gènte pasciuta e attonita délla mia
Germania e anche vói dell’Euròpa, gènte benpensante,
dormite seréni… cóme mòrti! Il mio grido nón vi può sve-
gliare… Nón si svégliano gli abitatóri di un cimitèro. Gli
unici ai quali crescerà l’òdio e la rabbia, lo sò, saranno
quélli che stanno giù a sudare e crepare nélla sala-macchi-
ne délla vòstra grande nave: gli immigrati turchi, spagnòli,
italiani, grèci, arabi e i fottuti, sfottuti da tutta Euròpa, e le
dònne, tutte le dònne che hanno capìto la loro condizióne
di sottomésse, umiliate e sfruttate, lóro capiranno anche
perché mi tròvo qui e perché quésto Stato ha deciso di
ammazzarmi… pròprio come una stréga al tèmpo délle
stréghe. E si convinceranno, o lo sóno già, che anche òggi
è sèmpre “tèmpo di stréghe” pér il potére.
E le stréghe dèvono stare ai telai, alle macchine, alle
prèsse, alla caténa, al rumóre, al fracasso, agli stridii…
plaff… tritritrì… vlam hahaha! Tritritrì, vhoom vhoom…
Prèssa! Fluuttss… il maglio! Blamm! Il trapano frufrufru-
fru… il motóre popopò... le caldaie plòch plòch plòch…
(…) Basta! Basta! Fermate le macchine, silènzio!…
Che bèllo il silènzio, grazie carcerièri che mi date qué-
sto straordinario piacére dél silènzio… Oh, cóme stò assa-
porando, godèndo… ascoltate com’è dólce, ristoratóre…
sóno in Paradiso!… Carcerièri, giudici, poliziòtti, politicanti
vi hò fregati… nón riusciréte mai a farmi uscire pazza, do-
véte ammazzarmi da sana… in perfètta salute di ménte e
di spirito… e tutti capiranno, sapranno cón certézza che
siète dégli assassini: un govèrno, uno Stato di assassini.
Imp. 100 monologhi 29-01-2008 15:49 Pagina 262

262 100 monologhi ben pronunciati

Luigi Lunari
Il senatore Fox (1979)

Luigi Lunari (Milano, 1934) è sceneggiatore televisivo,


drammaturgo, storico del teatro e autore di fortunati testi
rappresentati in molteplici lingue e nazioni. Collaboratore
storico del Piccolo Teatro di Milano (all’epoca della guida
di Giorgio Strehler), ha curato alcune tra le più importanti
edizioni delle opere di Goldoni e Molière e ha pubblicato,
nel 2001, una stimolante antologia dei “più grandi mono-
loghi teatrali di tutti i tempi”.

Il senatore Fox si ispira molto liberamente al Volpone di


Ben Jonson, e narra il tentativo di Giacomo di sposare la
figlia del Senatore. Ambientato a ridosso del conflitto mon-
diale – con temi legati alla patria, alla sensibilità religiosa,
al desiderio di emancipazione e libertà –, Giacomo riuscirà
a sposare la sua amata solo quando verrà svelata (inaspet-
tata) la vera paternità dei due ragazzi.

Siamo nella seconda parte dell’opera, e la protagonista –


con una voce che è innocente e pudica – riesce a esprime-
re comunque la sua intensa sensualità, ricca di pulsione e
desiderio.

B ianca Maria (a Giacomo): Quél giórno, un venerdì,


èra stata una giornata tranquilla. E io, lontana dal mio
spòso, cóme da tèmpo ormai accadéva, l’avévo impiegata
leggèndo un libro di vita di sante, dóno dél mio confessó-
re. Erano innanzitutto sante délla preghièra e délla contem-
plazióne; e io nón sò, nón sò cóme, ma le descrizióni di
Imp. 100 monologhi 29-01-2008 15:49 Pagina 263

Il senatore Fox 263


quélle èstasi, di quélle lunghe óre che Santa Rita da Cascia
o Santa Terèsa d’Ayala passavano inginocchiate nélla lóro
cèlla, a contemplare il còrpo di Cristo, bianco, nudo, san-
guinante, appéso alla cróce… invéce di instillarmi pensièri
devòti e di muòvermi alla preghièra, avévano provocato in
mé nón sò quale turbaménto déi sènsi.
Mi sentivo stranaménte eccitata, titillata, tésa. Sognavo
il ritórno dél mio spòso; ma un ritórno divèrso dal sòlito.
(…) Mi immaginavo un ritórno travolgènte, cóme quélli
che si védono al cinema o di cui si lègge néi romanzi! (…)
Malgrado la frédda giornata e la tènda mal riscaldata, senti-
vo addòsso strane vampate di calóre. Mi affacciai sulla
soglia. Nél cièlo, gròsse nubi nére si accavallavano (…)
In quél moménto una piccola carovana di profughi, pa-
triòti ungherési sfuggiti al martirio, raggiunse l’accampa-
ménto. Laceri, stanchi, affannati, tormentati dal pensièro
délla patria lontana, uno di éssi – soprattutto – attrasse la
mia attenzióne. Il vólto esangue di chi avéva sofferto (…),
gli òcchi ardènti di chi avéva conservato la féde nélla liber-
tà, i capélli róssi e fluènti di un irriducibile cavalière délla
“puzsta”. Nón avéva nulla di mio marito, eppure lo guar-
dai. Egli còlse il mio sguardo, e cón uno strano sorriso la-
sciò bruscaménte il gruppo déi suòi, e si dirèsse vèrso la
mia tènda, méntre i compagni festosaménte lo salutavano.
Timorósa, indietreggiai, quasi nascondèndomi all’interno.
Ma la tènda si aprì; lasciando cadére lo zaino, égli var-
cò la soglia; esangue, fluènte, mi vénne vicino, méntre io
indietreggiando vénni a trovarmi vicino al lettuccio. Gli
pòrsi una piccola immagine di Santo Stéfano d’Ungheria,
ma égli neppure la vide. Gridò qualcòsa, in ungherése,
che còsa, nón sò; fórse un saluto alla libertà, o una mite
offèrta d’amicizia. Io nón potéi che dirgli quéllo che il cuò-
re mi suggerì in quél moménto. Ecce ancilla dòmini! Fui il
suo primo incóntro nél móndo libero. E quando se ne an-
dò, a nòtte fónda, quando scomparve pér mai più riappa-
rire, il suo vólto irradiava una nuòva fiducia néll’uòmo.
Imp. 100 monologhi 29-01-2008 15:49 Pagina 264

264 100 monologhi ben pronunciati

Diego Fabbri
Al Dio ignoto (1980)

Diego Fabbri (Forlì, 1911 – Riccione, 1980) fu saggista,


scrittore, sceneggiatore cinematografico e televisivo. Di soli-
da esperienza intellettuale, rielaborò in modo personalissi-
mo l’insegnamento di Pirandello e Brecht: per una dram-
maturgia fortemente declinata verso gli spettatori; per un
teatro proteso a “cambiare” i suoi spettatori. Questa forte
tensione morale lo portò ad avvicinarsi sempre più – anche
nei contenuti delle sue opere – al cristianesimo: unico mo-
do per avere qualche risposta alle irrisolte domande della
fede.

Un gruppo di teatranti è in pausa; chiacchiera del proprio


mestiere e si interroga sul senso di verità che le parole
possono trasmettere al pubblico. Tra i vari drammaturghi e
i testi citati – e recitati: da Shakespeare a Eliot, a Blok –
l’attenzione cade proprio sul Vangelo: è vero? è attuale? ha
senso trasmetterlo? Nella speranza di una risposta profonda
sui propri dubbi – di fede, ma anche di professione – gli
attori decidono di interpretare alcuni stralci della vita di
Cristo, e lo fanno utilizzando la figura di Paolo, quella di
un Inquisitore (impegnato a “organizzare” la fede, irritato
per il “ritorno” in vita di Cristo) e quella, tragica – finale –,
del Cristo in croce.

Il monologo dell’Inquisitore (a ridosso della conclusione


del dramma) tuona e penetra nel Cristo che ha di fronte e
nello spazio ampio che lo contiene. È una voce roboante e
imperiosa – che tenta di ammonire ed educare – e che
proprio nella sua ostentata sicurezza mostra un vuoto forse
terribilmente consapevole.
Imp. 100 monologhi 29-01-2008 15:49 Pagina 265

Al Dio ignoto 265

I nquisitore (al prigioniero: cioè a Cristo appena ritornato


sulla terra): Parla. Perché mi guardi in silènzio? Va’ in
còllera, ma parla! Io nón vòglio il tuo amóre, perché io
stésso nón ti amo! Guarda, giudica tu stésso: sóno passati
tanti secoli, e che còsa ha innalzato fino a Te? Niènte,
quasi niènte, pòchi elètti. Ti giuro: l’uòmo è stato creato
più débole e vile che tu nón credéssi… Riconósci alméno
di èsserti ingannato su di lui?
Tu sèi fièro déi tuòi pòchi elètti, ècco! (Rabbioso, pro-
fetico) Ma ricòrdati… ricòrdati che nón passerà tanto tèm-
po… che mólti di éssi diserteranno la tua bandièra e porte-
ranno su altri campi le fòrze déi lóro spiriti e la fiamma déi
lóro cuòri… e si scatenerà una nuòva tórre di Babèle… E
la libertà senza limite dell’azione… e il libero pensièro… e
le magìe délla sciènza… li spingeranno in tali labirinti, li
metteranno al cèntro di tali portènti e di tali mistèri… che
cominceranno a odiarsi e a combattere gli uni cóntro gli
altri… e diventeranno ribelli furiósi… e si distruggeranno
tra lóro… (poi facendo un passo avanti, accorato, strazia-
to, con struggente nostalgia, quasi piangendo)
Sappi che anch’io mi èro preparato a entrare nél nume-
ro déi fòrti cón la brama di far parte dél numero déi tuòi
elètti… ma mi ricredètti e nón vòlli servire la causa délla
follia: tornai indiètro e mi unii a quélli che hanno “corrètto
l’òpera tua”.
Lasciai gli orgogliósi e tornai dai déboli, pér la lóro fe-
licità; mi distaccai dai pòchi e mi misi a servire la causa
délle moltitudini. E ti dico che domani Tu vedrai quésto
dòcile grégge gettarsi ad un mio cénno ad attizzare i car-
bóni ardènti dél rógo sul quale ti brucerò per èssere venu-
to a disturbarci. Perché se qualcuno più di tutti merita il
nòstro rógo, quéllo sèi TU. E domani io ti arderò. Dixi.
Imp. 100 monologhi 29-01-2008 15:49 Pagina 266

266 100 monologhi ben pronunciati

Giuseppe Manfridi
Ti amo, Maria! (1989)

Giuseppe Manfridi (Roma, 1956), scrittore, traduttore e


giornalista, è un autore prolifico e originale: attento alla
lingua (e ai temi) della contemporaneità, alle sue pieghe
più nascoste e controverse. Vincitore di importanti premi
drammaturgici, Manfridi giunge alla notorietà internazio-
nale con il testo Teppisti, nel 1985. Nell’ultimo periodo si è
fatto più intenso il suo lavoro di sceneggiatore cinemato-
grafico, con la scrittura di importanti e apprezzati film.

Un uomo – Sandro – torna dalla sua donna dopo dieci an-


ni di assenza. Lei lo respinge e lui decide di fermarsi sul
pianerottolo del suo appartamento, convinto che prima o
poi lei debba uscire. Nell’attesa, unitamente ai liquori con-
sumati, un fiume di parole che spaziano dalla durezza alla
dolcezza più sincera. Sullo sfondo, un’estate assolata e
vuota.

È una delle pagine più intense del dramma, giocata conti-


nuamente tra interiorità ed esteriorità, con una voce che
cerca di andare oltre il pianerottolo e l’abitazione, e che al-
lo stesso tempo fatica a uscire dalla bocca e a farsi suono
articolato. Il protagonista è forse sbronzo – e può permet-
tersi digressioni e cedimenti volgari – ma è anche dolcissi-
mo nella ricerca di parole che – al di là della sua volontà –
disegnano il suo unico, insopprimibile amore.
Imp. 100 monologhi 29-01-2008 15:49 Pagina 267

Ti amo, Maria! 267

S andro: E andiamo, fammi entrare, tanto lo sò che stai lì


sóla soletta! Solissima stai. Véro o no?… (più forte) Vé-
ro o no?…
Nón c’è un’anima in quésto palazzo schifóso. Tutti al
mare pér godére e pér amare. Lo sò io mèglio di té. – Sia-
mo sóli, Maria, e pòsso fare tutto quéllo che mi pare e pia-
ce. Anche urlare, se mi va – perciò aprimi o davvéro, guar-
da, dò fuòco a tutto! Lo dico e lo faccio, e vorrèi pròprio
vedérli, qui déntro – pagherèi pér vedérli, qui déntro –
quando si accorgeranno di quanto cazzo picchiava il sole
quest’estate!… Cól cucchiaino pér tirarci via. A me, e a te.
Due mucchiétti e una porta incenerita in mèzzo. Chiusa. –
Io lo faccio! puòi giurarci che lo faccio.
Ti amo, Maria. – Mi sènti? – Mi ascólti?… – quésta gran
bèlla frase nón è una frase. Sémbra, ma nón lo è. Mica è
fatta di paròle, nò. Sai còs’è? È un vèrso. È il verso di una
béstia. È il mio vèrso. Di mé sottoscritto. Nessuna paròla in
quésta pòrca frase. Cóme ragliare, ululare, muggire… Nón
c’è quantità, niènte, in una frase così. O sillabe. Nix! –
Tu… ècco: tu ci sèi. Cón tutte le tue tétte… cón tutto quél-
lo che mi hai fatto. Che abbiamo fatto… cón quélle mani-
ne bèlle. Quélle labbruzze; quélle guanciòtte calde che io
nón mi sóno mai azzardato, mai e pòi mai…
Lo sai a che pènso. Mai e pòi mai. Si può scrivere una
frase così – e io l’ho scritta. Ovunque sóno stato. Pronun-
ciata. Cón il punto esclamativo, sènza il punto esclamativo,
ovunque sóno stato. Sènza di te. Sèmpre. Nón un giórno
c’è stato, nélla mia vita, in cui mi sia trovato a dirlo – ma a
dirlo: cón vóce véra, paròle vére che èscono dalla bócca e
che, se uno sta là, te le sente dire!… O magari sólo a pen-
sarlo, ma ógni giórno, ógni giórno e sènza che tu, mai, lo
sentissi – e lo ripeterò più di quanto mi batta il cuòre nél
pètto.
Potrò scordarmi di respirare, di muòvere le dita délle
manì, di battere le ciglia – di èssere dóve sóno e dove sa-
rò… nón lo sò, ma nón quésto. Sino a morire.
Imp. 100 monologhi 29-01-2008 15:49 Pagina 268

268 100 monologhi ben pronunciati

Vittorio Franceschi
Scacco pazzo (1991)

Vittorio Franceschi (Bologna, 1936) ha dato inizio alla sua


carriera professionale – tutta dedicata al teatro – con espe-
rienze di cabaret negli anni Sessanta. Sùbito dopo, è stato
attore protagonista in importantissimi allestimenti scenici,
e fondatore – con Dario Fo e Franca Rame – dell’associa-
zione Nuova Scena. Di pari passo, è diventato egli stesso
autore delle sue opere, ottenendo premi e riconoscimenti
lusinghieri: per la novità dei contenuti espressi e per una
sensibilità artistica di grande tensione sociale e politica.

Per colpa di un tragico incidente stradale, due fratelli, An-


tonio e Valerio, sono costretti a convivere da soli. Poiché
l’involontario responsabile è Valerio, si instaura una strana
relazione tra i due: fatta di (apparente?) regressione per
Antonio, e di grande senso di colpa per Valerio. Antonio
costringe il fratello a una serie di fantasticherie e deforma-
zioni del reale – simulazioni, giochi di ruolo – fino a che
Valerio non conosce Marianna, e se ne innamora. Ma la
donna, proprio grazie alla allucinata inventiva di Antonio,
avrà una maturazione spirituale che la porterà a lasciare
Valerio, alla ricerca di altri rapporti e situazioni.

Il protagonista (siamo nella seconda parte del dramma)


gioca a fare il – e approfitta del suo essere considerato –
pazzo: la sua voce può permettersi di essere infantile e
saggia, le sue frasi sono meditate e allo stesso tempo “but-
tate là”, in modo immediato e talora sciatto. Eppure emer-
ge una complessità a cui è difficile opporsi.
Imp. 100 monologhi 29-01-2008 15:49 Pagina 269

Scacco pazzo 269

A ntonio (a Marianna): Nò, nón hai capito. Sapéssi che


infèrno è l’infanzia pér nói grandi! Dalla mia nicchia
ho osservato il móndo.
Ho catalogato migliaia di sguardi pér ógni esigènza dél
giórno e délla nòtte. Nón bastavano mai e nél mio oriz-
zónte c’èrano sólo òcchi. Dópo vénnero i sorrisi e pòi i
nasi. E, così, la mia vita prendeva una sua fisionomia. Fi-
nalménte! In attesa di quél benedétto diluvio che nón si
decide mai a venire. E pòi i dottóri, in fila pér tré, che mio
fratèllo mi facéva incontrare, soprattutto i primi anni, pòi
com’è naturale si rassegnò, cón un bacio, cóme le madri
fanno cón i figli pér consolarli di quéll’amarézza indicibile
che fa tremare le montagne e brontolare il cièlo.
Dicèmbre… gennaio… febbraio… e sentivo le tempè-
ste, la piòggia che batte sulle lamière… che rimbómbo
nélla capanna! E vedévo i comignoli volare e in basso mio
padre rincórrere il cappèllo perché qualche volta spunta-
vano i ricòrdi… “Tonino, aiuto! Siamo nói, siamo i ricòr-
di!”… Erano lì aggrappati al cornicióne e io gli pestavo le
dita pér farli precipitare, cóme néi film! Ma nón èra ancóra
il diluvio e allóra tórna alla finèstra e guarda giù, èccole là,
le dònne cói capélli al vènto! Mi ségui? Ohè, biondina, stò
parlando di mé, scéndi nélle mie segréte!
Ne ho viste tante passare e le ho desiderate. Mi si è an-
che affinato l’udito, sì, odo gli elastici sfregare cóntro la
pèlle e cèrte mutandine che vanno su e giù cón ritmo sus-
sultòrio producono un rumóre simile a quéllo dél lucheri-
no quando spulcia la sua compagna, ci sóno mólti lucheri-
ni sull’albero dél condominio.
Védi se dico bugie? Védi se dico bugie? Nói lo sappia-
mo che sètte pér sètte fa quarantanòve ma ci sóno giórni in
cui tutto ci sémbra così imperfètto, soprattutto vèrso le sèi-
sèi e mèzza… Io vòglio fare all’amóre cón te, Marianna.
Cón calór, cón languór e anche cón tremór, evviva! Mi sèn-
ti? Còsa vuòi che sia, un piccolo furtarèllo, nón te ne accor-
gerai nemméno e dópo ti farò domande bellissime, te ne
faccio già una, sta’ attènta: secóndo te, Dio ha l’ombelico?
Imp. 100 monologhi 29-01-2008 15:49 Pagina 270

270 100 monologhi ben pronunciati

Patrizia Valduga
Donna di dolori (1991)

Patrizia Valduga (Castelfranco Veneto, 1953), poetessa e


traduttrice, ha visto trasporre in teatro i suoi intensi poemi
dai più importanti registi italiani contemporanei. E proba-
bilmente è proprio la messinscena l’esito (e la vocazione?)
più naturale dell’autrice e della sua opera: giacché, in un
mondo segnato dalla manipolazione e dalla mistificazione,
l’unica risposta praticabile è forse quella del riscatto del
corpo e della sensorialità, fisica e umana.

Donna di dolori (il suo emblematico sottotitolo è “Monolo-


go pensato per essere messo in voce”) segue il percorso
dello sfaldamento di una donna: una percezione di abban-
dono e assenza che denuncia in modo ancora più forte la
separazione (tutta concettuale) tra mente e corpo, senti-
mento e razionalità. Di grande stimolo è inoltre il valore
fonico del testo, ricco di allitterazioni e onomatopee.

La “donna di dolori” parla a se stessa, continuamente stu-


pendosi della propria involuzione. Sorveglia il suo corpo
in modo lacerato e allo stesso tempo rassegnato, quasi in-
fantilmente curiosa di assistere a una decomposizione che
la coinvolge. Fa domande; risponde; il tutto in una dimen-
sione elementare eppure più alta: “superiore” alla mera fi-
sicità.
Imp. 100 monologhi 29-01-2008 15:49 Pagina 271

Donna di dolori 271

O h nón così! io qui uno sgocciolio?


una lumaca che si squaglia… io?
cól cuòre che si sciòglie, che mi sciacqua
le viscere, le còsce… tutta in acqua…
E se continua, cóme dubitarne?,
a pòco a pòco anche quésta carne
si scava la sua via, se ne va via.
Oh, nón ancóra, nò nò, nón la mia,
nón ancóra, hò tèmpo, dicévo, hò tèmpo.
ma quale tèmpo, òsso affamato, il tèmpo
dél cane! Ècco, tutto mi è trascórso,
in anni e anni e anni a dar di mòrso,
in ródermi il cervèllo a scòrza a scòrza.
A fòrza férma, sènza un po’ di fòrza,
délle viscere mie le gambe vèsto.
Ma nón è quésto, nón è neanche quésto,
fórse nón hò più gambe, nón hò braccia…
allóra sènza tèsta? sènza faccia?
e che mi rèsta? nón mi rèsta niènte?
Mi rèsta la ménte. Insperataménte
la ménte rèsta. E nón la ménte sóla.
E quell’altro rigagnolo che scóla
è di me anche quéllo? è già il cervèllo?
Io qui cóme una béstia da macèllo
scuoiata, squartata, appésa a scolare,
cóme potrèi ancóra camminare
se la pòrta è inchiodata? Ah pér pietà
perché nón mi si véda, che chissà,
può venir un collasso a chi mi guarda.
Nón ne sò niènte io, nón mi riguarda,
ma i mièi òcchi, oh i mièi òcchi, le còse
che hanno visto i mièi occhi, oh se pauróse!
Pòi il buio, e la pòrta s’interpóse.
Imp. 100 monologhi 29-01-2008 15:49 Pagina 272

272 100 monologhi ben pronunciati

Lella Costa
Magoni (e forse miracoli) (1994)

Lella Costa (Milano, 1952), accanto a una salda prepara-


zione letteraria, esprime la sua versatilità di attrice misu-
randosi con differenti tipi di produzione, dal teatro al ca-
baret, dal cinema alla televisione. Dopo aver recitato mo-
nologhi di altri autori, ha caratterizzato la sua più recente
attività interpretando quasi esclusivamente testi da lei stes-
sa elaborati, raggiungendo una notevole attenzione (e suc-
cesso) anche in campo editoriale.

Magoni (e forse miracoli) – che fu firmato nella messinsce-


na anche da Massimo Cirri, Sergio Fermentino, Piergiorgio
Paterlini e Bruno Agostani – si rifà a un termine milanese
che sta per “nostalgia”, “malinconia”, “incazzatura”. Ma qui,
nel testo della Costa, diventa un’occasione – spesso diver-
tentissima, sempre acuta e irriverente – per parlare del pre-
sente e delle sue contraddizioni, richiamare personaggi po-
litici, storie di costume, vicende nazionali e internazionali
irrisolte: per una liberatoria distanza dal magone e (forse)
un avvento del “miracolo”.

È una voce che chiede e che implora – quella della prota-


gonista del testo –, e che pur nella apparente elementari-
tà delle sue domande denuncia e contesta un model-
lo convenzionale e superficiale di dipingere la bellezza
e l’attrazione fisica. Le parole si inseguono, le aggettivazio-
ni si moltiplicano – affannose e affannate – fino alla sem-
plicità (inarrivabile?) della sua costitutiva (sillabata?) richie-
sta finale.
Imp. 100 monologhi 29-01-2008 15:49 Pagina 273

Magoni (e forse miracoli) 273

E pér una vòlta nélla vita, pér una sóla vòlta nélla vita
potér èssere bèlla. Ma bèlla e basta, bèlla da nón do-
vér fare niènt’altro: sólo stare lì, sfolgorare. Cóme dicéva il
ragazzino di Stand by Me, “brutto da fermare un orològio”?
Be’, bèlla da far fermare un trèno in córsa.
Bèlla, bellissima, perfètta, una dèa, bèlla tutta, néi par-
ticolari, néi dettagli: la bócca, il naso, la pèlle, gli òcchi, i
capélli – miliardi e miliardi di capélli, però neanche un pé-
lo, niènte, liscia. Bèlle le unghie, le nòcche, i tèndini del
collo, bèlle le òssa, i polmóni, il fégato, le analisi dél san-
gue, ròba che quando vai a fare una radiografia pòi il me-
dico se ne fa fare una còpia pér potérsi masturbare in se-
gréto di nascósto dalle infermière. Talménte bèlla da fre-
gartene di èssere anche simpatica o intelligènte, nò, a te
chièdono soltanto che tu esista, si accontèntano di potérti
osservare da lontano, ógni tanto, sènza neanche avvicinar-
si tròppo.
Bèlla, bellissima, sublime, talménte bèlla da èssere an-
che al di sópra, al di là déi meccanismi dél sèsso, délla se-
duzióne, dél possèsso: nò, bèlla e intoccabile, irraggiungi-
bile, intangibile, siderale, una dèa, una véra dèa. (…)
Avvèngono i miracoli? Allóra, pér una vòlta nélla vita,
una sóla vòlta e nón pér tanto tèmpo, mi basta pòco, giu-
sto il tèmpo di riposare, più che altro, nò?, pér cercare di
recuperare alméno in minima parte tutte le energie che in
tutta la mia vita hò dovuto sprecare pér cercare di èssere
carina divertènte seducènte sèxy spiritósa simpatica divèrsa
imprevedibile adorabile fòrte coraggiósa disponibile unica
allégra intelligènte còmplice matèrna comprensiva prepara-
ta informata consapévole brava competènte responsabile
sportiva sensata sensibile autònoma fedéle insostituibile li-
bera onèsta affidabile ecònoma sicura catalitica e sessual-
ménte e politicaménte corrètta. Basta, nón ce la faccio più.
Pér una vòlta nélla vita
vorrèi
èssere
sólo
bèlla.
Imp. 100 monologhi 29-01-2008 15:49 Pagina 274

274 100 monologhi ben pronunciati

Alda Merini
Delirio amoroso (1995)

Alda Merini (Milano, 1931), scrittrice e soprattutto poetes-


sa, ha caratterizzato le sue liriche con una esaltante visio-
narietà, accompagnata da un linguaggio moderno, crudo,
immediato. La lunga esperienza – vissuta con dolore – di
internamento psichiatrico non le ha impedito di essere ap-
prezzata dalla critica poetica contemporanea, né le ha
spento una vitalità espressiva continua e avvolgente.

Il Delirio amoroso qui proposto, reso drammaturgicamente


in forma di monologo dall’attrice Licia Maglietta, è una del-
le sue (per ora) rare scritture per il teatro. L’evidente vena
autobiografica del testo non intacca il valore delle parole:
la denuncia sprezzante di una condizione (quella del “ma-
lato di mente”) che non spegne la ricerca – comunque – di
una libertà profonda e gioiosa.

Com’è normale per qualsiasi testo poetico, anche in questo


caso le parole (una dopo l’altra, una più dell’altra) sono
aggiustamenti progressivi – raffinati e lancinanti – di signi-
ficato. Il tono è evocativo (soprattutto nella parte iniziale)
e poi di denuncia e dopo ancora di sfogo infantile e pri-
mario (“vogliamo giocare!”): tutto, sempre, con un riferi-
mento visionario ricco di potenza espressiva.
Imp. 100 monologhi 29-01-2008 15:49 Pagina 275

Delirio amoroso 275

Q uando ci mettévano il cappio al còllo


e ci buttavano sulle brandine nude
insième a còcci immóndi di bottiglie
pér favorire l’autoannientaménto,
allóra sulle frónti madide
compariva il sudóre dégli òrti sacri,
dégli òrti maledétti dégli ulivi.
Quando gli infermièri bastardi
ci sollevavano le gónne putride
e ghignavano, ghignavano vérde,
èra in quél moménto preciso
che volevamo la lapidazióne.
Quando venivamo inchiodati in un cèsso
pér èssere sottopósti alla Cerlétti,
èra in quél moménto che la Gestapo vincéva
e i nòstri maledettissimi còrpi
nón osavano sferrare pugni a dèstra e a manca
pér la resurrezióne dégli uòmini.
Ma la Gestapo nói adèsso vogliamo colpirla
e vogliamo instaurare la ghigliottina
ed anche la rivoluzione francése,
pròprio sul patio óve sorgéva l’oggètto infame
délle nòstre vicissitudini di uòmini,
la ghigliottina sórda dal vorticóso silènzio
pér le tèste dégli psichiatri adunchi.
Nói vogliamo vedérle rotolare pér tèrra
cóme délle palle da ping pòng.
A lungo fummo calati nélle racchétte dél giòco,
a lungo fummo palle vólo, giòchi di baseball.
Adèsso basta, vogliamo giocare anche nói
e io che amo zappare la tèrra
costruirò quésto campo pér i ludi gioiósi déi pazzi.
Imp. 100 monologhi 29-01-2008 15:49 Pagina 276

276 100 monologhi ben pronunciati

Biancamaria Frabotta
Il mulo sardo lo inganni una volta sola (1996)

Biancamaria Frabotta (Roma, 1946) è docente universitaria,


saggista, poetessa e anche autrice teatrale originale e moderna.
Non secondaria è poi la sua attenzione nei confronti delle arti
figurative e del cinema, soprattutto contemporaneo. Nei suoi te-
sti, accanto a una grande sapienza letteraria e una profonda
delicatezza e misura lessicale, traspare il senso della memoria e
dell’appartenenza: dimensioni quotidiane che diventano evo-
cazioni profonde e coinvolgenti.

A tarda sera, poco prima della chiusura, una donna si infila in-
vadente nello studio di una psicoanalista. Vuole essere visitata,
ma già dall’inizio – a partire dall’assonanza dei nomi: Alda, la
psicoanalista; Alba, la “paziente” – il sospetto è che le due sia-
no anime (differenti?) della medesima persona. E quando i ruo-
li si ribaltano – con la dottoressa che chiede alla paziente di
farle compagnia in attesa di un’importante telefonata (di amo-
re? di salute?) – il dubbio diventerà corposo. Alla fine, la telefo-
nata arriva, ma la dottoressa non risponderà...

A lda (ad Alba): Di che dèvo parlare? Nón sò che dire.


Sóno così abituata ad ascoltare. E così sicura che se
anche voléssi, lì sulla mia poltróna, nessuno… Potrèi rac-
contarti di quélla scalfittura sul muro. Sì, quélla, in alto,
pròprio lì davanti a nói. C’è sèmpre stata, sai? Da quando
sóno entrata qui pér la prima vòlta. Un graffio sul muro
nón vuol dire nulla. Può èsserci o nón èsserci e nessuno
se ne accorgerèbbe. Ma io invéce me ne sóno accòrta sùbi-
to. E ógni vòlta che tornavo, dicévo, ècco è sèmpre lì, è
più profóndo, è più scuro. Pensavo, potrèi far ripulire la
stanza. Ma nón mi decidévo mai. E quél graffio alla fine
Imp. 100 monologhi 29-01-2008 15:49 Pagina 277

Il mulo sardo lo inganni una volta sola 277


èra cóme se ce l’avéssi inciso nél cervèllo.
È cominciato tutto da lì. Da quélla scalfittura nell’intò-
naco. Prima mi si è abbassata la vista. Pòi l’udito. Nón riu-
scivo nemméno più a sentire i mièi paziènti. Mi veniva
vòglia di zittirli. Ma còsa state dicèndo? Io nón vi capisco
più. E pòi capire, capire, sèmpre capire! Ma còs’altro c’è
da capire ancóra! Mi vuòi far diventare sentimentale, eh,
testarda di un mulo…
Còsa vuòi estòrcermi? Che io nón hò vissuto la mia vita
e che adèsso che quél telèfono sta per suonare nón ho da
oppórgli altro che fantasmi? E nemméno i mièi fantasmi.
Quésto vuòi farmi confessare? Ma quésto nón è pane pér
gli angeli. Quésto è intimismo da quattro sòldi. Vuòi farmi
dire che qua déntro, fra quéste paréti, nón c’è nemméno
l’ómbra déll’uòmo che nón ho saputo trattenére vicino a
mé in anni lontani? Còsa vuòi! Mi sembravano così lènti,
noiósi i riti délla vita quotidiana. Una giornata paga dél
suo pigro dolóre di béstia soddisfatta.
Sì, va bène. Nón ne ho mai voluto sapére. E allóra?
Qualcòsa da ridire? Ridire! Cóme sóno stupide le paròle.
Qualcòsa da ridere, magari. O da dirimere. O da diradare.
O da radere… Un uòmo che si rade la barba, una vòlta al
giórno. O due vòlte al giórno. Che si diméntica di tagliarla.
Dio, che orróre! Nón lo sènti subito il tanfo déi buòni sen-
timénti? Orróri crepuscolari. Erróri déi presuntuósi che
danno importanza anche al rimbómbo déi lóro rutti.
Di’ un po’, nón ti basta? Guarda che io continuo. Ma sì,
una vòlta che si comincia… Sólo che dópo un po’ nón è
venuto più nessuno da quéllo strano luògo dóve la vita
nón vissuta va a incancrenirsi. Avranno avuto paura délla
mia distrazióne. Anzi nò, délla mia concentrazióne. Tròppa
concentrazióne, si sa, èvoca sùbito i campi di concentra-
ménto. Nón sarò un poèta cóme té, ma sui giòchi di paròle
ho anch’io il mio pedigree… Radici sèrvono, pér nón cè-
dere alla tentazióne di dominare il móndo cón le paròle…
E invéce intórno a mé sólo piante caduche, effimere,
stagionali…
Imp. 100 monologhi 29-01-2008 15:49 Pagina 278

278 100 monologhi ben pronunciati

Emilio Tadini
La deposizione (1997)

Emilio Tadini (Milano, 1927-2002) fu pittore, critico d’ar-


te, drammaturgo e scrittore. Direttore, tra l’altro, dell’Acca-
demia di Brera, si dedicò al teatro in modo più saltuario,
ma non per questo meno denso e originale. Di questa sua
produzione, vale la pena segnalare una modernissima ri-
scrittura della Tempesta scespiriana, unitamente a una sa-
piente traduzione del Re Lear.

La deposizione è l’atto di difesa di una donna accusata di


aver commesso sette efferati omicidi. È sincera ora che si
professa innocente? È reale questo processo oppure è frut-
to della fantasia di una donna alterata ed esibizionista? E,
nel caso: il suo è un atto di seduzione verso un ipotetico
pubblico, o non è altro che l’ultimo, disperato tentativo di
comunicare, esserci, liberarsi? Il doppio finale (una dichia-
razione in caso di assoluzione, un’altra in caso di condan-
na) aumenta questa urgenza insopprimibile di verità (an-
che interiore).

Siamo nella prima parte dell’opera, e la “donna” (senza no-


me, senza storia, senza futuro?) è di fronte a un uditorio.
Deve convincerlo, persuaderlo, coinvolgerlo; deve lusin-
garlo, intrigarlo, ammansirlo, e anche le improvvise perdite
di senso delle frasi (“abbiate pazienza”, “voglio dire…”)
possono sembrare interne a una precisa strategia difensiva.
Ma l’impressione generale è quella di una rassegnazione
così profonda e personale che non sottintende nessun
ascolto e nessuna interlocuzione.
Imp. 100 monologhi 29-01-2008 15:49 Pagina 279

La deposizione 279

D onna: Ah, cóme sarèbbe prónto a darsi a chiunque


volésse prènderselo, al primo vènuto, pòvero còrpo
mio, a chi nón lo vuòle neanche in liquidazióne, neanche
gratis, pòvero corpaccióne, corpicino, sballottolata tra nani
e giganti, sèmpre fuòri misura, pòvero còrpo, pòvero… E
lui, sèmpre “Ehi, sóno qui!”.
Sapéte quéi cani, quéi cani abbandonati, che si guarda-
no intórno, sala d’aspètto délla solitudine, sala mondiale,
attènti, tési, impegnatissimi, cóme se stéssero cercando
qualcuno che lóro sanno, qualcuno che dève arrivare, e in-
véce nessuno mai li ha cercati, nessuno li cercherà mai…
Ma tési, lóro, prési, e disperataménte, e intanto, a
chiunque passi: “Portami a casa!” cón quégli occhi straziati
– ma nón dal terróre, straziati dall’amóre, drogati da quél-
l’overdose di amóre a vuòto – Ti prègo!”… Che cércano
lóro? lunghi sguardi, terrorizzati di nascósto, voltandosi di
scatto? cércano un padróne, un padróne qualsiasi, da
sógno o da incubo è uguale, cércano un padróne comun-
que, lóro, anche cón mani gròsse, anche ré di bastóni, ré
di bisturi… Stò delirando un filo… divago…
Abbiate paziènza. Venìtemi diètro. Compatìtemi. Qué-
sta qui hò l’idea che sia la mia ultima corsettina, sapéte.
Prima della paralisi, e addio. Una montagna, mi è caduta
addòsso. Vòglio dire…
Io. Sóno io che mi sto schiacciando. Io che mi pé-
so addòsso. E una di nói due dève èssere già morta, ho
paura.
Una dònna mòrta legata a una dònna viva, bócca a
bócca, una bócca che respira e l’altra no, una bócca che
parla, si apre, si chiude, e l’altra che rèsta apèrta, spalanca-
ta, cóme se gridasse ahhh, così, e ancóra, ahhh…
Ma è l’èco. Una bócca vuòta che risuòna di paròle nón
sue, di suòni altrui, umidi… una cistèrna spòrca…
Imp. 100 monologhi 29-01-2008 15:49 Pagina 280

280 100 monologhi ben pronunciati

Gregorio Scalise
Boite à conduire (1998)

Gregorio Scalise (Catanzaro, 1939) è scrittore, poeta e docente


all’Accademia delle Belle Arti di Bologna (e sempre a Bologna
ha ricoperto anche ruoli di responsabilità nella Galleria d’arte
contemporanea). Autore dal forte taglio visionario e magico,
spesso irridente e sarcastico, ha toccato anche temi di spiccata
valenza politica (con un lavoro sulle foibe) e di critica nei con-
fronti del sistema massmediale contemporaneo.

Boite à conduire (cioè una scatola – forse di pomodori – per


guidare) attraversa la vita quotidiana di tre ragazze, studentesse
fuorisede a Bologna. Di fronte al loro balcone vive un uomo, e
questo è il pretesto per quotidiane conversazioni (e proiezioni,
fantasie, divertimenti) fra le studentesse, ma è anche l’occasio-
ne per una riflessione più profonda sul loro presente e – ancor
di più – sul loro incerto, sconosciuto (inconoscibile?) futuro.

E lena (verso il balcone di fronte alla sua finestra): Adès-


so nón ci sèi; la tua stanza è buia e vuòta. Pòi rientre-
rai a nòtte alta – qualche vòlta anche tu riéntri a nòtte alta
– e la prima còsa che farai quando sarai néllo studio, sarà
quélla di guardare vèrso le finèstre. Ma pòco prima di
guardare, appéna un attimo prima, un attimo leggèro cóme
il pónte che io stò lanciando, avrai un attimo di inquietudi-
ne e uno di giòia. Sarà cóme èsserti liberato e cóme èssere
privi di qualcòsa. Nón saprai cos’è, eppure sentirai quéste
due còse assième. E guarderai le finèstre. E sùbito avverti-
rai che c’è qualcòsa che nón va. Le altre volte, quando ci
siamo, qualche finestra rèsta apèrta, qualche tapparèlla
nón è abbassata dél tutto; ma quésta vòlta avvertirai il mu-
ro (…).
Parlo così, un po’ a vanvera e un po’ in trance. Sèi tu
che me le hai raccontate (queste còse) nélle tue visite not-
turne. La nòtte, quando tutti dòrmono, tu apri la pòrta dél-
Imp. 100 monologhi 29-01-2008 15:49 Pagina 281

Boite à conduire 281


la terrazza, ti guardi attórno pér nón èssere scopèrto, e
spicchi un balzo. Cinquanta mètri. Trénta mètri e sèi qui.
Ti siedi sulle spónde dél lètto, mi guardi e parli. Parli dol-
ceménte, ma sènza sorriso. Raccónti la tua vita, ma sènza
amóre. Le còse che nón dici a nessuno e che tu stésso
nón sai, le raccónti allóra cón leggerézza, cón facilità. Io
continuo a dormire. (…)
Io, sì, Elena, studentéssa in medicina, che lègge pòco,
véde qualche film ógni tanto, io che nón pènso, che stu-
dio sólo metacarpi e òssa, fégato e mallèoli, ho capito e
sentito cóme se fóssi una figlia dél tuo stésso cièlo, fórse,
chi lo sa, déllo stésso mare, che tu èri un èssere che balza
nél cuòre délla nòtte e lì raccòglie le còse miglióri, la sa-
piènza délla nòtte e il suo profumo, il pianto délle stélle e
délle èrbe bagnate dalla rugiada, io conósco la tua strana
maledizióne misteriósa, e allóra mi sóno détta, che còsa mi
sóno détta… mi sóno détta… addio!
Mi sóno détta che le valigie èrano prónte, che la mia
vita potéva cominciare e che avrèi ricordato tutto, il corti-
le, la séra, i libri di medicina… e che tu sarésti rimasto có-
me diètro una paréte, il muro che ritroverai rientrando;
déntro una paréte délla ménte, persuasóre invisibile, maè-
stro délla stòria e délla vita, in quélla piccola, stupida, inu-
tile centrale che ógni giórno attraversi da un muro all’altro
sul battito déi tasti délla macchina da scrivere… crédo che
nón siano brutte quéste nòzze in assènza… nón lascerò
stracci, nón lascerò fióri, sólo quésti pensièri, quésti ac-
cénni di pensièro.. e quando avrai bèn guardato quésto
muro e quéste saracinésche chiuse, e come sóno chiuse!…
sóno sicuro che qualcòsa raggiungerà i tuòi òcchi e la tua
ménte… prima una sillaba, prima una paròla, fórse mèzza,
e pòi a pòco a pòco, cóme un decodificatóre militare rico-
struirai il messaggio… nón òggi, nón domani, nón sò
quando, tanto hai tanto tèmpo tu, uòmo dél balcóne, vèc-
chio dagli stivali che salta soltanto nél cuòre délla nòtte…
sentinèlla piazzata sulla marmitta di un balcóne, a scrutare
il cièlo, a guardare gli anni, a guardare le stélle, a guarda-
re… il nulla.
Imp. 100 monologhi 29-01-2008 15:49 Pagina 282

282 100 monologhi ben pronunciati

Elio Testoni
È mai possibile? (2000)

Elio Testoni (Brindisi, 1947) è grande conoscitore del mon-


do teatrale: per aver prodotto una larga serie di testi (so-
prattutto a sfondo comico e surreale), per averne analizza-
to aspetti giuridici e politici (con numerosi saggi e pubbli-
cazioni) e per aver curato importanti convegni e monogra-
fie (tra le altre, quelle recentissime su Visconti e De Filippo).
Il tutto, sostenuto – sempre con leggerezza e ironia – da
una forte sensibilità storica e politica.

Una compagnia di guitti sta allestendo la sua nuova com-


media, incentrata sulla figura del diavolo e sulla sua inesi-
stenza. E lì, mentre il lavoro finalmente sta prendendo for-
ma, si presenta da loro un “vero” diavolo. Che, ovviamen-
te, si impegna a contraddire il contenuto della messinsce-
na, per poi sfogarsi sui mille problemi che lo angustiano, a
partire da una realtà – quella del mondo circostante – sem-
pre più simile alla sua penosa, abituale dimora.

Il diavolo protagonista della commedia è un guitto, un im-


bonitore, un rappresentante di commercio. Gioca con le
intonazioni (deve vendere, persuadere, corrompere) e con
i ritmi (e le pause, i volumi); è fine, lucido, argomentativo;
pone domande (non aspetta le risposte) e così facendo ca-
talizza l’attenzione generale dell’uditorio. Salvo mostrare,
nelle pieghe del suo monologo, un senso di consapevole,
mediocre inadeguatezza.
Imp. 100 monologhi 29-01-2008 15:49 Pagina 283

È mai possibile? 283

D iavolo (ai guitti): Odiare, uccidere, oggidì, nón è più


un miraggio. Cón la società pér azióni “Odia e ucci-
di”, di cui sóno amministratóre unico, potréte coronare fi-
nalménte i vòstri sógni.
Quante vòlte, nélla progettazióne déi vòstri delitti, vi
siète trovati di frónte a un bivio: uccidere il vòstro nemico
a sangue fréddo o tramortirlo dópo un brève e violènto li-
tigio in cui avéte potuto finalménte manifestare tutto il vò-
stro òdio pér lui? In quésti casi, nón sèmpre è facile scé-
gliere una strada anziché un’altra.
Pér esèmpio, se òggi vi proponéssero l’alternativa tra
una tortura puraménte fisica, e una tortura eminenteménte
morale, sapréste decidere a cólpo sicuro? Fórse nò, perché
entrambe le torture òffrono opportunità interessanti.
Bène, pròprio da quésta riflessióne è nata l’idèa délla
società “Odia e uccidi” che vi assicura i vantaggi di una
tortura fisica e quélli di una tortura morale. Il funziona-
ménto è mólto sémplice: vói vi assicurate alla nòstra socie-
tà e decidéte vói il mòdo di odiare e di uccidere che fa al
caso vòstro tra tutti quélli che nói vi proponiamo.
Nón sólo potréte diversificare ed ottimizzare i vòstri
mètodi delittuósi, ma cón una polizza integrativa ridurréte
al minimo ógni rischio e beneficeréte déi vantaggi fiscali
previsti dalla légge. Stupri, rapine, delitti perché subirli, fà-
teli da vói cón l’aiuto délla società “Odia e uccidi”. Millènni
di esperiènza internazionale. Cón il mio marchio. Una ga-
ranzia!”
Imp. 100 monologhi 29-01-2008 15:49 Pagina 284

284 100 monologhi ben pronunciati

Giovanni Raboni
Rappresentazione della croce (2000)

Giovanni Raboni (Milano, 1932-2004) è stato poeta, critico


cinematografico, letterario e teatrale (sua è una delle tra-
duzioni più prestigiose dell’intera Recherche proustiana).
Sempre, nelle sue opere – segnate da grande versatilità e
capacità di controllo di differenti registri stilistici, collo-
quiali e dotti –, emergono una coinvolta tensione morale e
una raffinata ricerca stilistica. Il poema teatrale che qui
proponiamo è la sua unica opera esplicitamente destinata
alla messinscena.

Com’è facile intuire, Rappresentazione della croce riprende


e mette in scena una delle pagine più note della vita di
Cristo e del Nuovo Testamento. Ma qui, nell’interpretazio-
ne di Raboni, i personaggi acquisiscono un significato più
problematico e sfumato. Ogni situazione si presta a inter-
pretazioni difformi e spesso opposte: a conferma di una vi-
cenda troppo viva per essere relegata nella condizione del-
l’oggettività narrativa, ma ancora stimolante per chi ricerchi
dubbi e verità sulla propria scelta di fede.

Il protagonista ha di fronte a sé una piazza rumorosa: deve


rispondere di un delitto gravissimo e non si perde d’animo.
Fino al termine del suo monologo – fino “a ridosso” della
fine – esprime sicurezza e forza, convinzione e persuasio-
ne. Ma in questo crescendo (che è fatto di volume della
voce, di impeto, rabbia) lui stesso forse comprende – pro-
prio alla fine – il senso più profondo di ciò che ha com-
piuto: l’appartenere a un disegno più complesso di ogni
tattica e giustificazione.
Imp. 100 monologhi 29-01-2008 15:49 Pagina 285

Rappresentazione della croce 285

T eneteli a ménte, quésti tré numeri:


uno, dódici, trénta.
Potréste giocarli al lòtto: è un bèl tèrno
pér tutte le ruòte, comprésa quélla
dél supplizio. L’unico inconveniènte
è che io nón sóno un sógno, sóno uno
déi dódici (uno e dódici, appunto)
che hanno lasciato tutto pér seguire
il più dólce e terribile dégli uòmini
e il mio nóme, prima, èra sólo un nóme:
Giuda. Sì, Giuda, còsa c’è di strano?
Io mi chiamo Giuda cóme gli altri
si chiamano Piètro, Giacomo, Andrèa,
Bartolomèo, Giovanni… Prima quando?
Domanda legittima. E vi rispóndo:
prima che il summit déi gran sacerdòti
mi versasse i denari pattuiti
(trénta: ècco il numero dél tèrno)
pér il più inspiegabile e necessario
déi crimini. Óra li ho qui, in quésta bórsa
oscenaménte gónfia e tintinnante,
e aspètto fra le quinte, cón il cuòre in tumulto,
di recitare la mia parte – quélla
che mi sóno assegnato. Nón chiedétemi,
vi prègo, perché l’ho fatto
perché m’andava di farlo. L’hò fatto
pér comprare un campo vicino a casa
che da un bèl pèzzo mi facéva góla
l’hò fatto pér vedére se ne èro capace.
L’hò fatto… mah, così, tanto pér fare.
L’hò fatto perché fórse, chi può escluderlo?
Hò móglie e figli a carico. L’hò fatto
perché qualcuno dovéva pur farlo,
e il mio nóme è Giuda. Tròppe rispóste,
lo sò, perché una sia anche véra. E allóra,
se pròprio ci tenéte, èccone un’altra.
L’ultima, la più buffa: l’hò fatto pér amóre.
Imp. 100 monologhi 29-01-2008 15:49 Pagina 286

286 100 monologhi ben pronunciati

Alessandro D’Alatri, Anna Pavignano


Casomai (2002)

Alessandro D’Alatri (Roma, 1955) è regista e sceneggiatore


di consolidata esperienza. Ha debuttato con film più duri e
aspri (Senza pelle, I giardini dell’Eden) per poi declinare la
sua sensibilità estetica in storie attraversate da ironia e di-
sincanto: leggere e divertenti. Anna Pavignano è autrice di
numerosi film, sempre premiati dalla critica e dal pubblico.
Spesso realizzati con Troisi (Ricomincio da tre, Speravo
fosse amore e invece era un calesse, Il postino), è dotata
di un linguaggio capace – sempre – di coniugare profondi-
tà e semplicità.

Tommaso e Stefania stanno per sposarsi. Invitano amici e


parenti, e scelgono (perché celebri la funzione religiosa)
un prete giovane e diretto: il provocatore e profondo don
Lindo. Il quale, in una chiesetta solitaria, parla dell’amore
coniugale e della sua “relativa” indissolubilità, mettendo in
guardia la coppia soprattutto dai rischi della routine, della
quotidianità e, in particolare, delle relazioni sociali: così
necessarie e allo stesso tempo portatrici di ambiguità, con-
formismo, falsità.

Siamo all’inizio del film e don Lindo celebra la funzione re-


ligiosa. Si rivolge alla coppia di sposi e contemporanea-
mente alla folla di amici presenti; li riempie di domande
fragorose; pone loro una serie di dubbi e divaricazioni re-
toriche (in un crescendo che è espressivo e dialettico). E
tutto questo per arrivare alla sua richiesta più forte e origi-
nale (rivolta anche a se stesso?): lasciarlo solo con la cop-
pia di sposi; nella speranza di un dialogo che finalmente
sia davvero sincero e fruttuoso.
Imp. 100 monologhi 29-01-2008 15:49 Pagina 287

Casomai 287

D on Lindo: Com’è possibile, com’è possibile che l’amó-


re pòssa dissòlversi così? Che pòssa scomparire dél
tutto? Dóve sóno finiti i baci, le carézze, le promésse…
l’amóre! Nò, nón ci crédo. Io crédo che sia sólo rimasto se-
pólto. Soffocato da una gran quantità di interferènze, intru-
sióni, pressióni di ógni gènere che nulla hanno a che ve-
dére cón l’amóre.
Io crédo che sia pròprio così. Ma nón sarà che due che
si amano fanno paura? A chi? All’infelicità. E l’infelicità,
purtròppo, sémbra èssere diventata il motóre dél móndo:
dicono rènda parécchio… Due uniti spèndono di méno di
due divisi. Due dentifrici, due case, due televisóri, due la-
vatrici, due di tutto! Tutto dóppio. Anche l’infelicità! Ma at-
tenzióne: gli infelici spèndono mólto di più perché hanno
bisógno di premiarsi. Nò, nò, così nón va. Nón va.
Óra io mi tròvo in un cèrto imbarazzo: dovrèi celebrare
quésto matrimònio. Ma cón quale consapevolézza? Quélla
déi lóro sì? Ma io mi domando: quanti saranno adèsso a ri-
spóndermi? Quante vóci, comportaménti, esperiènze ci só-
no déntro a quésti due? Due e basta? Oppure quattro, sèi,
òtto, dièci, cènto, mille? Io purtròppo, déi lóro “sì” nón me
ne faccio più niènte.
A méno che… a méno che òggi a darmi un sì nón sia-
te pròprio vói, èh? Da sóli, cóme potrèbbero farcela? Cóme
potrèbbero resistere? Ècco, pér mé sarèbbe tutto divèrso se
òggi fòste vói a sposarvi cón lóro! Che fòste anche vói a
condividere quésto impégno. Allóra sì che sarèbbe un ma-
trimònio speciale… quando due si amano, amano il món-
do, e il móndo dovrèbbe ricambiarli. O nò? (…)
Cóme dite?! È un fatto privato? Riguarda sólo lóro due,
e fórse anche mé, ma io sóno un’altra còsa. Allóra dèvo
chièdervi un grande favóre. Uscite, lasciate lóro l’intimità di
quésto moménto. Che nón ci sia neanche una fòto, nean-
che una immagine di quésta parte délla cerimònia. Che
l’unica memòria sia soltanto lóro… È il lóro matrimònio. E
sólo il lóro dève èssere. E nón prendéte quésta cóme
un’accusa vèrso di vói… Òggi gli altri siète vói… domani
saranno lóro due gli altri pér vói. Ma adèsso lasciateli sóli!
Imp. 100 monologhi 29-01-2008 15:49 Pagina 288

288 100 monologhi ben pronunciati

Ferzan Ozpetek, Gianni Romoli


La finestra di fronte (2003)

Ferzan Ozpetek (Istanbul, 1959) risiede in Italia dal 1977.


Dotato di una cultura ampia e versatile, ha svolto a lungo
il lavoro di aiuto regista, soprattutto con Maurizio Ponzi.
Oltre a La finestra di fronte è autore di altri film di enorme
successo, come Le fate ignoranti e Saturno contro. Gianni
Romoli (Roma, 1949), fondatore di uno dei club romani
più interessanti degli anni Settanta, ha collaborato come
sceneggiatore con i più importanti registi (anche stranieri,
come Amos Gitai). Da qualche anno svolge anche il lavoro
di produttore, con un taglio innovativo e rigoroso.

Giovanna è costretta – più o meno casualmente, forse vo-


lontariamente – a occuparsi di uno sconosciuto: un anzia-
no che ha perso la sua memoria e dai cui tatuaggi si imma-
gina abbia subìto una persecuzione razzista, forse nel ghet-
to di Roma. Ma il rapporto con lo sconosciuto e la sua am-
nesia diventano l’occasione per Giovanna per fare un bi-
lancio della propria condizione, soprattutto affettiva: tra
smarrimenti di amore e di sentimenti, tra sconosciuti guar-
dati nel cortile e di cui si immaginano contorni e sfumature
ovviamente diversi dalla più cinica e complessa realtà.

Siamo alla fine del film e la voce di Giovanna (che legge la


lettera di Davide) è forse lenta, flebile, bassa. Mentre parla
(e avanza nella lettura) prende atto di contesti e verità, det-
tagli e spiegazioni. E la lettura diventa motivo di disvela-
mento personale: nella storia di Davide e Simone, ma an-
che della propria.
Imp. 100 monologhi 29-01-2008 15:49 Pagina 289

La finestra di fronte 289

V oce Giovanna (legge la lettera che Simone ha ricevuto


da Davide): Mio caro Simóne, dópo di té il rósso nón
è più rósso… l’azzurro dél cièlo nón è più azzurro, gli al-
beri nón sóno più vérdi. Dópo di té, dèvo cercare i colóri
déntro la nostalgia che hò di nói… Dópo di té, rimpiango
persino il dolóre che ci facéva timidi e clandestini…
Rimpiango le attése, le rinunce, i messaggi cifrati, i nò-
stri sguardi rubati in mèzzo a un móndo di cièchi che nón
volévano vedére perché, se avéssero visto, sarémmo stati
la lóro vergógna, il lóro òdio, la lóro crudeltà… rimpiango
di nón avére avuto ancóra il coraggio di chièderti perdó-
no…
Pér quésto nón pòsso più nemméno guardare déntro
la tua finèstra. Èra lì che ti vedévo sèmpre, quando ancóra
nón sapévo il tuo nóme. E tu sognavi un móndo miglióre,
in cui nón si può proibire a un albero di èssere albero e
all’azzurro di diventare cièlo…
Nón sò se quésto è un móndo miglióre… óra che nes-
suno mi chiama più Davide… óra che al massimo mi sènto
chiamare signór Vèroli, cóme pòsso dire che quésto è un
móndo miglióre? Cóme pòsso dirlo sènza di té?
Imp. 100 monologhi 29-01-2008 15:49 Pagina 290

290 100 monologhi ben pronunciati

Maria Luisa Spaziani


La vedova Goldoni (2004)

Maria Luisa Spaziani (Torino, 1924) è docente universita-


ria, traduttrice, critico letterario e soprattutto poetessa di
grande raffinatezza e complessità. Nelle sue opere teatrali
sembra voler declinare queste sue caratteristiche “cólte” in
una tensione più giocosa e libera, attenta a elementi talora
più minuti e quotidiani, resi con elegante senso della collo-
quialità. Emerge comunque – al di là degli intrecci narrati
– un controllo lessicale ricco e sempre coerente con i perso-
naggi e le situazioni disegnate.

Siamo a Parigi, nel periodo immediatamente successivo al-


la rivoluzione. E a casa della moglie, ormai vedova, di Car-
lo Goldoni, bussa una “prostituta illuminista” – Cunegonde
– che chiede due uova in prestito. Le due donne – così di-
verse: per età anagrafica, cultura, classe sociale – comincia-
no a parlare di amore, e la prostituta sembra molto più
esperta della signora Goldoni, per ciò che concerne la sfe-
ra sessuale e sentimentale. Ma la situazione, alla fine, pare
capovolgersi, in una visione della percezione erotica ina-
spettata e ugualmente sensualissima.

È il monologo conclusivo della commedia e la vedova par-


la a Cunegonde in modo paritario: due donne che – al di
là delle mille differenze – sono accomunate da una femmi-
nilità diretta e intensa. E mentre il monologo si sviluppa, la
vedova sembra ritrovare nelle parole, nella forza del rac-
conto, ancora una vota un senso di elegantissimo godi-
mento: corporeo e intellettuale.
Imp. 100 monologhi 29-01-2008 15:49 Pagina 291

La vedova Goldoni 291

V edova (a Cunegonde): La tèrza vòlta è stato ancóra più


misterióso, e nón pòsso dire che il pòvero Carlo nón
c’entrasse, anzi. Ma lui dormiva méntre mi succedéva. Dor-
miva in una locanda di Faènza e io che avévo dimenticato
i nòstri passaporti in teatro, vèrso mezzanotte dovètti ritor-
narci.
Ah, il palcoscènico che avévo visto mille vòlte, in mille
fórme divèrse, tutto scintillante di luci e di colóri, pièno di
costumi e di vóci e di spirito, quél palcoscenico e quél
teatro io li sentivo pér la prima vòlta, li sentivo immèrsi nél
silènzio, vuòti cóme una conchiglia, a luci spènte. Ho vi-
sto il cuòre segréto délla mòrte restando viva, capite? Una
mòrte che non è assènza, ma la risonanza intèrna di tutte
le còse prima còlte sólo in superficie.
Il lucignolo che tenévo in mano proiettava pòchi ba-
glióri sui velluti, sui palchi, su un fóndale dipinto di forè-
ste tempestóse. Mi parve di precipitare dall’alto di una tór-
re altissima, quél vuòto mi prése, mi risucchiò. Una straor-
dinaria energia mi investì, sembrava scaturire da mé, èro
nélle spire di un sortilègio che mi facéva girare la testa. Mi
stringévano, sì, cóme assènze impalpabili tutte le Colombi-
ne e le Mirandoline e i pescatóri e gli innamorati che Carlo
avéva inventato o sognato, una fòlla immènsa sènza vóce
e sènza òcchi, un concentrato di tutte le favole e di tutte le
sue possibili fantasie.
E il flusso caldo salì e mi avviluppò là, dópo tanti anni,
e un piacére immènso scaturì da quél mistèro, da quél se-
gréto che pér mé sóla óra si manifestava. Capii l’anima dél
teatro, dell’amóre. La pèlle dél mio vèntre emettéva luce
cóme un alabastro cóntro il fuòco. Ècco, se mai hò fatto
l’amóre cón Carlo, se mai hò fatto l’amóre, se mai l’hò fat-
to in mòdo da concepire un figlio, è stato là sulla scèna
vuòta di quél teatro vuòto.
Imp. 100 monologhi 29-01-2008 15:49 Pagina 292

292 100 monologhi ben pronunciati

Roberto Faenza
Alla luce del sole (2005)

Roberto Faenza (Torino, 1943) è regista cinematografico


raffinato e impegnato. Accanto alla direzione di importan-
ti film, si è misurato – in maniera pionieristica – con nuovi
codici comunicativi, a partire dall’utilizzazione delle radio
libere. Vincitore di prestigiosi premi nazionali e interna-
zionali, ha svolto anche attività di docente in università
italiane e statunitensi.

Alla luce del sole riprende le appassionanti – ma anche,


purtroppo, drammatiche – vicende legate alla figura del
parroco Pino Puglisi. A questi viene affidato il quartiere pa-
lermitano “a rischio” di Brancaccio, e qui don Puglisi coin-
volge numerosi bambini, sottraendoli alla marginalità e alla
delinquenza: con ciò mettendo in crisi un modello di per-
petuazione dell’illegalità e della subalternità. Di fronte a
questo straordinario lavoro – educativo, religioso, ma an-
che politico e sociale – la mafia reagì uccidendolo, il 15
settembre del 1993.

È il monologo più intenso del film, in cui Gregorio sprona


l’uditorio a una presa di coscienza, un moto di ribellione,
un cambiamento che significhi superamento di mafia, as-
soggettamento, illegalità. Il tono della voce è energico e
trascinatore; ha il peso della verità e della giustizia; è orgo-
glioso e fiero. Eppure, forse, alla fine – proprio quando
parla dell’elemento apparentemente più marginale (il sorri-
so di un bambino) – la voce lascia emergere il senso di
sgomento e il vuoto per l’incerto futuro: del suo quartiere
e della sua condizione antagonista.
Imp. 100 monologhi 29-01-2008 15:49 Pagina 293

Alla luce del sole 293

G regorio: Lo sapéte còsa dicono i giornali? Dicono che


Brancaccio è un quartière ad alta densità mafiósa e i
recènti episodi effettivaménte lo dimostrano. Ma mi viène
da chièdere una còsa. Qualcuno di vói lo sa cóme si fa a
calcolare quésta densità mafiósa?
Perché nói ci chiediamo cóme sia possibile che in qué-
sto quartière avvèngano cèrte còse veraménte barbare có-
me incendiare un luògo sacro o colpire a sangue un mini-
stro di Dio.
Nói òggi vogliamo che Brancaccio viva una giornata di
giòia, ma c’è una còsa che vorrémmo capire, e la mia do-
manda è rivòlta a tutti colóro che remano in sènso contra-
rio: ma quali sóno i motivi che vi spingono a ostacolare
chi sta lavorando pér realizzare qui a Brancaccio una so-
cietà miglióre pér i vòstri stéssi figli? E pòi sènto il solito
ritornèllo: “Parrì nón cambierà mai niènte!”. Ma è mai pos-
sibile che nón vogliate vedére che qualcòsa invéce sta
cambiando. Nón vi accorgéte déi vòstri bambini che córro-
no sèmpre più numerósi al Cèntro d’accogliènza?
Ma è quésto che vi fa paura? Il lóro sorriso? Cóme può
fare paura il sorriso di un bambino?
Imp. 100 monologhi 29-01-2008 15:49 Pagina 294

294 100 monologhi ben pronunciati

Marco Bellocchio
Il regista di matrimoni (2006)

Marco Bellocchio (Piacenza, 1939) è regista cinematogra-


fico di grande fama, italiana e internazionale. Sin dal suo
esordio (con un film sùbito celebre e discusso: Sbatti il mo-
stro in prima pagina), ha caratterizzato la sua produzione
con un mirato impegno politico ed etico. Tra i vari temi
toccati – sempre con una forte istanza critica, spesso aspra
e rigorosissima – citiamo quelli dell’invadenza dell’educa-
zione cattolica e del cinismo dell’istituzione militare.

La figlia del regista Franco Elica si sta sposando. Franco


non ne è particolarmente felice, così come sembra in crisi
nel progetto di produzione di un nuovo film sui Promessi
sposi. In una crisi che è affettiva, famigliare, ma anche sto-
rica e artistica, finisce con l’accettare un invito stravagante:
diventare il regista del matrimonio della figlia di un bene-
stante siciliano. Qui troverà (tra incontri e situazioni spesso
allucinate) un vecchio amico attore – Smamma –, che tutti
credevano morto.

Siamo nel centro della trama del film e in un contesto ma-


gico e allucinato; Smamma racconta il suo artificio che l’ha
consacrato alla fama. È divertito per la riuscita della strate-
gia; è ironico e autoironico sull’attenzione che finalmente
la critica gli riserva, ma allo stesso tempo – (a bassa voce?)
tra sé e sé: senza alcun interlocutore – prende atto della
insensatezza del mondo al quale appartiene (appartene-
va?).
Imp. 100 monologhi 29-01-2008 15:49 Pagina 295

Il regista di matrimoni 295

S mamma (a Franco): Nói siamo finiti perché siamo in-


capaci di vivere, e perciò di trasformare in immagini il
móndo di òggi; e dél nòstro vècchio móndo nón gliéne
fréga più niènte a nessuno, a nói pér primi. (…)
Vuòi la crònaca, il raccontino, i fatterèlli? (…) Avanti: i
produttóri mi avevano assicurato che, dópo tante ingiusti-
zie subìte, quésto èra il mio anno, che sicuraménte avrèi
vinto, che finalménte mi avrèbbero riconosciuto… Ma?
(…) Bravo, esplòde De Gasperi; è il cinquantèsimo délla
mòrte e io mi accòrgo che le grandi famiglie di sinistra, e
anche di cèntro, la dèstra al cinema nón cónta un cazzo,
incominciano a cercarsi, partono le telefonate (fa un gesto,
come a rappresentare delle forze, degli spiriti che si diffon-
dono nell’aria) e capisco sùbito che anche quest’anno nón
vincerò…
Mi accèco, ma nón pòsso uccidere nessuno, tutto sta
avvenèndo nélla più perfètta legalità, i regolaménti sóno
rispettati, le bande si telefonano, si accòrdano, si scambia-
no i vóti, nón fanno niènte di criminale, è la democrazia…
Un mio compaesano, io sóno di qui, ex frate, amico
d’infanzia, temèndo che potéssi ammazzarmi o fare una
strage o tutte e due le còse, mi fa una propósta: se vuòi
vincere il David dèvi morire, i mòrti in Italia comandano,
ma non è necessario che tu muòia veraménte, l’importante
è che tutti lo crédano, pér cóme fare pènso a tutto io…
Ho accettato cón entusiasmo e appéna sóno mòrto (in-
cidènte o suicidio), operazióne perfètta, tutti i necrològi
immediataménte hanno parlato di ingiustizia e di risarci-
ménto, grandi intellettuali hanno fatto l’autocritica in pub-
blico e i professóri di cinema nelle università, che mi avé-
vano sèmpre considerato uno zèro, óra impóngono ai pò-
veri studènti di laurearsi su di mé. Venèzia prepara la re-
trospettiva complèta…
Imp. 100 monologhi 29-01-2008 15:49 Pagina 296

296 100 monologhi ben pronunciati

Giulia Gatti
A passo di danza (2007)

Giulia Gatti (al secolo Rossana Gatteschi, Roma, 1924) è


scrittrice e traduttrice, soprattutto dal tedesco e dall’inglese.
La sua alta competenza su temi linguistici e filosofici del-
l’estremo Oriente – unita a una particolare sensibilità an-
tropologica – l’ha portata alla direzione, per numerosi an-
ni, della rivista «India». Come drammaturga, accanto al ri-
conoscimento di molteplici premi, ha visto alcuni suoi testi
interpretati da attori come Giorgio Albertazzi, Anna Pro-
clemer, Elsa Merlini, Renzo Ricci.

A passo di danza è la storia – ambientata in India – di due


coppie: da una parte l’indiana Tillai e l’italiano Lelio (lei
danzatrice templare, lui pittore costretto a fare il mercante);
dall’altra parte l’italiana Sara e il tedesco Friedhelm: lei an-
tropologa, lui indologo. Le vicende della prima coppia so-
no ambientate nel XVIII secolo, le seconde, ai giorni no-
stri. Eppure, nell’alternanza delle due epoche, dell’ansia di
viaggiare e di rimanere – tra Oriente e Occidente – i quat-
tro personaggi si riducono a un’unica coppia: in una cicli-
cità accompagnata dalla danza e dall’astrologia.

Le parole dell’astrologo sono eleganti, sobrie e profonde.


Parla in modo diretto e affettuoso ma comunque, allo stes-
so tempo, è consapevole di riportare frasi e pensieri in altri
luoghi meditati e proposti. L’offerta di un disvelamento e
di una verità non assume mai intenzione dogmatica e asso-
luta; è una voce di comprensione e pacificazione: l’unico
modo per rendersi conto del ruolo relativo – ma unico –
che ogni atto e ogni gesto comporta nell’equilibrio del-
l’umanità.
Imp. 100 monologhi 29-01-2008 15:49 Pagina 297

A passo di danza 297

L’ Astrologo Krishnaswami (a Tillai): Védi, nélla carta dél


cièlo si sta delineando un aspètto di grande importan-
za. È legato al transito di alcuni pianéti ed avrà luògo in
marzo… néi giórni in cui si cèlebra la Grande Nòtte di Shi-
va. Urano e Giòve si troveranno nélla tua casa, il Leóne; Sa-
turno e Vènere entreranno in quélla déi Pésci, formando
un trìgono perfètto cón la Luna: un moménto decisivo, di
buòni auspici… ma anche di cambiaménti e contrasti.
Védi, un oròscopo nón pretènde di spiegare tutto quél-
lo che accade… o dève accadere: è una ricérca di fili con-
duttóri pér farsi strada déntro un univèrso magico. E qui
bisógna intèndersi: io mi riferisco al magico che è nélla na-
tura, cóm’è appunto il moviménto dégli astri… un’armonia
di numeri che pòrta a un órdine perfètto ma sèmpre in bili-
co sull’imprevisto, cóme ógni esistenza.
Ècco, diciamo che ógni vita può èssere paragonata a
un ruscèllo: scórre e si arricchisce, accoglièndo in sé altri
rivoli, che purificano acque più antiche. Nél tuo caso, c’è…
una sòrta di ostacolo che sta in mèzzo all’àlveo. Potrèbbe
èssere qualcòsa che ha già avuto inizio ma nón ha ancóra
trovato la sua fine… o il suo fine. In una situazióne cóme
quésta, sarai costrétta a fare délle scélte, e magari anche a
batterti.
Pér té, la stòria è una linea diritta, che va avanti nél
tèmpo cóme una fréccia bèn scoccata: io crédo invéce che
sia un arazzo immènso, formato dai milióni e milióni di fili
délle vicènde personali. Sóno lóro a compórre il diségno, a
dare sfumature… ma anche a fare sbavature o strappi. La
vita è partecipazióne e decisióne: siamo costrétti ad affron-
tarla vòlta a vòlta attravèrso una scélta. Se il filo è consapé-
vole che la sua cosciènza può aiutarlo a eseguire il disé-
gno, tanto mèglio; (…) però, sappi che in nói – sèmpre –
c’è una consapevolézza profónda, cóme… una vóce inte-
rióre: così obiettiva e onèsta che a vòlte ci spavènta.
La presènza di Saturno e di Vènere nélla casa déi Pésci
può métterti a confrónto cón il tuo filo, in un moménto in
cui si annòda o… si snoda (…): la scélta rèsta tua.
Imp. 100 monologhi 29-01-2008 15:49 Pagina 298

298 100 monologhi ben pronunciati

Anonimo
L’amore oltre l’amore (2007)

L’autore del presente monologo è un docente universitario


(facoltà di Filosofia della Sapienza di Roma) che – nono-
stante la sua alta frequentazione in àmbito teatrale e cine-
matografico – ha voluto mantenere l’anonimato. Abbiamo
comunque deciso di inserire il suo testo perché ci è sembra-
to (a mo’ di conclusone) capace di tenere insieme registri
stilistici e linguistici molteplici e differenti: sempre – augu-
ralmente? – giocosi e propositivi.

Il monologo è inframmezzato da una ritmica e divertita ri-


petizione lessicale. Il tono è volutamente arrendevole e
rassegnato; le frasi delineano un carattere patetico e fragi-
le; la costruzione sintattica è semplice ed elementare; ep-
pure la percezione finale è quella di una sapiente costru-
zione drammaturgica. Che, nella totale sincerità dell’abban-
dono, realizza una dolcezza elegantissima e originale.

C aro amóre-amóre, ti chièdo perdóno-perdóno ma è inu-


tile menare il can pér l’aria éd è mèglio dirtelo una vòl-
ta tantum sènza mèzzi fini. Hò alquanto bisógno di chiaréz-
za-chiarézza e di sapérti buòna-buòna cón mé. Nón vòglio
più vivere di allusioni. Basta cón l’intorpidire continuamén-
te le acque. Basta cón le paròle cattive-cattive. Perdonami
quindi se, in tal caso, avéssi peccato di esagerata superficia-
lità-superficialità. E perdonami anche se, quélla vòlta, ti ho
ceffonata-ceffonata e quell’altra vòlta mi è scappato di darti
un bòtto cón la chiave a stélla di pappagallo. Ma nón me la
sènto di accettare la separazióne consensuale da me, né di
allontanarmi da te pér credulità mentale e pér incompara-
bilità di carattere.
È difficilissimo lasciarti andare fuòri-fuòri da déntro-
Imp. 100 monologhi 29-01-2008 15:49 Pagina 299

L’amore oltre l’amore 299


déntro di mé, dóve stò male-malissimo, sènza di té. Se ri-
còrdi, quando stavamo insième-insième, io èro una persóna
viva e vègeta, che sprizzava energia da tutti i fóri-fóri.
Adèsso, quell’infame di avvocato che dice di difènderti,
vuòle accavallarmi la cólpa di tutto e chiède sòldi-sòldi di
beneuscita óltre il limite dell’indicènza. Va bène-va bène.
Tuttavia, pér i sòldi che nón potrò, ti chiedo di conce-
dermi una dilatazione-dilatazione del pagamento e di ritira-
re l’accusa di ubriacone, proprio a me, che sono del tutto
analcolico-analcolico. Io non metterò nessun avvocato, an-
che se il giudice mi ha détto che dèbbo provvedére alla
anònima di qualcuno che mi difènde-difènde. Nón pér mét-
termi il carro sópra i buòi: però non è di un avvocato, ma
di un mèdico, che ho bisógno, perché è l’acqua che mi
manca sótto i pièdi… E ièri mattina sóno scivolato sul pavi-
ménto e mi sóno spezzato il polluce dél piède, così è prò-
prio un piediatra-piediatra che ci vorrèbbe… Però, a parte
un’infezióne all’apparato dirigènte, è il cuòre e il cervèllo
che vanno male-male, così che a curarmi dovrèbbe èssere
pròprio un luminario-luminario. Ècco perché, amóre mio-
mio, mi sènto néll’òcchio dél ciclòpe. Però ti prométto che
appéna mi alzo da quésto abbasso sarò un’altra persóna.
Cón la tua lontananza-lontananza, óltre ógni aspettati-
va, il mio stato di salute subisce giórno pér giórno un gra-
duato peggioraménto. Mi sènto un cèsso occupato-occupa-
to, cón il vècchio conclave che si guasta continuaménte-
continuaménte. L’altro giórno hò chiesto un ricóvero al
prónto soccórso, ma quéi fetènti-fetènti dell’ospedale mi
hanno rispósto che prima mi dovévo ammalare davvéro-
davvéro. Se nò, niènte da fare. Così me ne stò sólo-solétto
in casa, cón il mio cibo pèssimo, la pasta scaduta e la carne
variata. I giórni sóno tutti uguali-uguali e mi sènto frustato-
frustato e, ógni vòlta che ti pènso, avvèrto un groppóne al-
la góla. E siccóme io ti penso sèmpre-sèmpre, il mio è
quasi un suicidio dolóso-dolóso.
Mi guardo allo spècchio e la mia faccia mi sèrve da mò-
nitor, pér raggiungere finalménte cón té la mèta tanto
agonizzata-agonizzata.
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APPENDICE
REGOLE GENERALI DI DIZIONE

SUFFISSI TONICI DI PAROLE COMPOSTE

I seguenti suffissi vanno pronunciati con la “e” tonica aperta:

Èa, èo: suffisso sostantivale (talora aggettivale) dotto; tradisce


ascendenze e derivazioni greche o classiche.
Es.: assemblèa, atenèo, canèa, contèa, cortèo, etnèo, marèa,
piagnistèo, tornèo.
Utilizzano questo suffisso numerosi toponimi dell’Italia meri-
dionale: Amantèa, etnèo, Maratèa, Scalèa, Tropèa, etc.
Possono rientrare in questo suffisso anche parole come ebrèo
(dal greco “hebraios”: colui che viene dalla regione di là), ca-
mèo, trofèo (da “trophen”: rivolgimento – oggetto che ricorda
un rivolgimento).
Per assonanza, anche altre parole terminanti in “ea” ed “eo”
hanno acquisito la pronuncia aperta della vocale tonica: bab-
bèo (dalla ripetizione infantile “ba-ba”), ghinèa (dal territorio
della Guinea), rèo (e il suo derivato “corrèo”: “con reo”).

Èla: suffisso sostantivale che caratterizza termini astratti e im-


materiali, spesso legati a rapporti e relazioni.
Es.: cautèla, clientèla, parentèla, sequèla, tutèla.
Anche il termine miscela (da “mescere-mischiare-mescolare”) e
il nome Carmela (da “carmen”: canto) risentono di “ela”.
Questo suffisso non ha particolarmente influenzato parole as-
sonanti, che terminano in “ela-ele”, come candéla, méla, téla e
come fedéle (che va pronunciato in forma chiusa).

Ello: suffisso sostantivale con funzione diminutiva o vezzeggia-


tiva.
Es.: anèllo, cannèlla, cappèllo, carrèllo, cartèllo, duèllo, fuscèllo
(da “fustello”), mantèllo, ombrèllo, pastèllo, pannèllo, pennèl-
lo, vascèllo (da “vasculum”, vaso).
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Le parole fratèllo e sorèlla usufruiscono anch’esse del suffisso
“ello”, derivando, rispettivamente, da “frate” e “suora”. Anche
balzello (da “balzo”: tassa che si paga in modo saltuario, a bal-
zo), caramella (da “calamus”: canna) e castello (da “castrum”)
utilizzano questo importante suffisso.
Spesso, trasformandosi in “icello” o “arello-erello”, “ello” diven-
ta suffisso verbale e aggettivale.
Es.: campicèllo, canterèllo, fraticèllo, giocherèllo, trotterèllo,
venticèllo.
La fortuna di questo suffisso è testimoniata dall’analoga pro-
nuncia – con accentazione aperta – di parole assonanti e con
terminazione in “ello-ella”: bidèllo, bretèlla, cammèllo, fardèllo,
fringuèllo, Leporello, Sganarello, sentinèlla.

Ema: suffisso sostantivale, prevalentemente legato a termini di


derivazione dotta.
Es.: lessèma, morfèma, patèma, stilèma, teorèma. Risentono di
questo suffisso anche parole come edèma, problèma, sistèma.
L’assonanza prodotta dal suffisso “èma” è forse alla base del
diffuso uso – improprio – della pronuncia aperta dei derivati
del verbo “temere”: da pronunciare sempre in forma chiusa (io
témo, tu témi… che io téma, etc.).

Endo: suffisso sostantivale (in alcuni casi aggettivale), deriva


chiaramente dalla formazione verbale del gerundio, anch’esso
da pronunciarsi in forma aperta.
Es.: dividèndo, faccènda (e anche la sua variante spagnola “fa-
zenda”), leggènda, merènda (dal verbo “meritare”), orrèndo,
reprimènda, reverèndo, stupèndo, tremèndo.
Altri termini che terminano in “endo-enda”, per assonanza,
hanno maturato la forma aperta.
Es.: ammènda (da “emendare”). Non così i pur contigui scen-
dere e vendere, da pronunciarsi in forma chiusa (io scéndo, tu
véndi, egli scénde, essi véndono…).

Enne: suffisso aggettivale con funzione numerale. Del tutto


corrispondente (in senso sostantivale) è la variante “ennio”,
anch’esso da pronunciare in forma aperta.
Es.: decènne-decènnio, undicènne, dodicènne, tredicènne, ven-
tènne-ventènnio.
Il suffisso riprende, com’è intuibile, la lettera “n” (enne), che si-
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Appendice 303
gnifica per l’appunto “numero indeterminato”.
Il suffisso ha probabilmente influenzato anche il termine “pe-
renne” che letteralmente significa “per anno”: per tutto l’anno.

Eno: suffisso geografico e talora (in forma femminile: “èna”)


medico o religioso.
Es.: armèno, cilèno, irakèno, madrilèno, slovèno; cancrèna, no-
vèna, quarantèna.
Il nome Maddalena, derivante per l’esattezza da “Magdahahli-
na”, va pronunciato in forma chiusa: Maddaléna.

Ente: suffisso con funzione aggettivale che prende corpo dalla


desinenza del participio presente dei verbi della seconda co-
niugazione, in “ere”. Del tutto corrispondente (e da pronuncia-
re in forma aperta) è la variante – sostantivale – “enza”.
Es.: avvenènte-avvenènza, diligènte-diligènza, dirigènte-dirigèn-
za, eminènte-eminènza, evidènte-evidènza, indulgènte-indul-
gènza.
Da notare la parola “tenènte” (che riutilizza il suffisso in fun-
zione sostantivale) e, soprattutto, coppie come clemènte-cle-
mènza, demènte-demènza, compiutamente influenzate dalla
coppia “ente-enza”: da pronunciarsi quindi sempre in modo
aperto.

Erno: suffisso con funzione aggettivale e sostantivale, spesso


di tipo astratto e immateriale.
Es.: cavèrna, cistèrna (da “cesta”), estèrno (da “extra”: fuori),
etèrno, fratèrno, invèrno (da “hiber: da cui ibernato), matèrno,
patèrno, quadèrno.
Anche la parola infèrno (da “infero”), nonché i nomi geografici
(e storici) di Atèrno e soprattutto Avèrno, risentono chiaramen-
te di questo suffisso.

Ero: suffisso con funzione sostantivale, si lega soprattutto a


luoghi.
Es.: battistèro (in greco era una fonte – o “piscina” – in cui bat-
tere-battezzare i fedeli), cimitèro (da “koiman”: luogo per ad-
dormentarsi), dicastèro (da “dicastes”, giudice), ministèro, mo-
nastèro.
“Ero”, con la medesima accentazione, è altresì utilizzato per la
formazione di parole di derivazione e influsso spagnolo.
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304 100 monologhi ben pronunciati


Es.: caballèro, pistolèro, sombrèro, torèro.
La fortuna di questo suffisso aperto (e della variante antica con
dittongo – “intiero”) è forse alla base del diffuso – ma errato –
uso di intèro al posto del corretto intéro.

Errimo: è suffisso con evidente funzione superlativa e sostitui-


sce – anche se in rari casi – il più diffuso e squillante “issimo”.
Es.: acèrrimo, aspèrrimo, celebèrrimo, misèrrimo.

Esimo: da pronunciarsi con la “s” intervocalica dolce, ha fun-


zione numerale ordinale. Sostituisce il più macchinoso (soprav-
vissuto fino all’età moderna) legame di due ordinali: decimo-
quarto, decimo-quinto, etc. Ovviamente non va fatta confusio-
ne con “ésimo”, suffisso sostantivale, che va pronunciato in
forma chiusa.
Es.: centèsimo, ennèsimo, millèsimo, milionèsimo, novantèsimo.

Estre: suffisso con esclusiva funzione aggettivale.


Es.: alpèstre, campèstre, equèstre, pedèstre, rupèstre, silvèstre,
terrèstre (e, ovviamente, extraterrèstre).
Anche altri vocaboli terminanti in “estra”, per assonanza, hanno
maturato una analoga forma aperta: dèstra, finèstra, ginèstra,
minèstra, palèstra.

Eta: suffisso sostantivale, si lega soprattutto con parole dotte.


Es.: ascèta, atlèta, estèta, profèta, teorèta.
Ugualmente aperta risulta la conseguente suffissazione in “èti-
co”: ascètico, atlètico, estètico, profètico, teorètico.

Iera: suffisso sostantivale connesso soprattutto alla funzione di


contenitore.
Es.: caffettièra, fruttièra, ginocchièra, giarrettièra (dal francese
“jarret”: incavo del ginocchio), guantièra (da “guanto”), teièra,
zuppièra.
Anche parole come bandièra (da “banda”, “striscia”) e preghiè-
ra sono costruite grazie al suffisso “iera”.

Iere: suffisso con funzione chiaramente professionale. Importa-


to dalla Francia nel XIII secolo, ha sostituito in molti casi il
vecchio, equivalente, latino “aio” (e infatti ancor oggi sopravvi-
vono coppie tipo salumaio-salumière, carrozzaio-carrozzière).
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Appendice 305
Es.: bersaglière, brigadière, camerière, carabinière, cocchière,
ingegnère (da “ingegno”), parolière, pasticcière (o, meglio, pa-
sticcère), portière.
Anche parole come biscazzière e fattucchièra (il primo derivan-
te da “bisca”, il secondo da “fato”) risentono in modo esplicito
di questo suffisso.

Iero: suffisso aggettivale (spesso con funzione professionale)


e, talora, sostantivale.
Es.: battaglièro, ciarlièro, guerrièro, mattinièro, vacanzièro; pen-
sièro, velièro.
Anche parole come forièro, sentièro e sparvièro risentono in
parte di questo suffisso, e anch’essi vanno pronunciati in forma
aperta.

I seguenti suffissi vanno pronunciati con la “e” tonica chiusa:

Ecchio: suffisso con funzione prevalentemente diminutiva,


spesso associato anche a nomi di città.
Es.: Casalécchio, Fucécchio, Montécchio; orécchio (da “aurem”,
auricola: da cui l’italiano “auricolare”), parécchio (da “paris”:
“dello stesso genere”, cioè “pari”: più che sufficiente).
Anche la parola catapécchia risente sicuramente di questo suf-
fisso.

Eccio: suffisso con funzione soprattutto aggettivale, conferisce


una sfumatura di grossolanità e rusticità al termine che accom-
pagna.
Es.: caseréccio (o casaréccio), figlieréccio, pecoréccio, pesche-
réccio.
Forse anche il nome libéccio (da Libia?) è costruito con l’utiliz-
zo del suffisso “éccio”.

Efice: suffisso di natura soprattutto sostantivale, è legato alla


formazione di professioni o funzioni.
Es.: artéfice, carnéfice, oréfice, pontéfice.
Quest’ultimo termine, in particolare, utilizza il suffisso “efice”
riportandoci chiaramente a un’epoca in cui il controllo dell’ac-
qua (la gestione dei ponti) vedeva riconosciuto un valore col-
lettivo straordinario.
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306 100 monologhi ben pronunciati


Eggio: suffisso con funzione sostantivale e, parallelamente,
verbale.
Es.: campéggio (io campéggio, loro campéggiano), candéggio,
cartéggio, fraséggio, manéggio, parchéggio, solféggio (dalle no-
te musicali “sol, fa”), sortéggio, veléggio.

Esco: suffisso aggettivale, talora usato per la formazione di no-


mi e attributi.
Es.: clownésco, Francésco (da “Francia”: persona legata alla
Francia), grottésco (da “grotta”: per via di un ritrovamento di
immagini di satiri in una grotta), manésco, pazzésco, seicenté-
sco, settecentésco.

Ese: (con la “s” intervocalica aspra) suffisso con funzione – so-


prattutto aggettivale – geografica e logistica.
Es.: canadése, catanése, inglése, milanése, portoghése, puglié-
se, svedése, thailandése.
Anche le parole maggése e turchése utilizzano appieno il suf-
fisso “ese” nella sua funzione territoriale.
Con la “s” intervocalica dolce è da pronunciarsi il termine
“francese”, per una sorta di “riconoscenza” nei confronti della
lingua francese, che per molti secoli è stata utilizzata in Italia
come lingua sovraregionale. Ugualmente dolce è la “s” di
cortése e marchése (e “cortesia”, “marchesato” e anche “bor-
ghesia”, ma non “borghese”. Questi vocaboli infatti, pur deri-
vando chiaramente da “abitante della corte”, delle “marche”,
ossia zone di confine, hanno nobilitato il loro significato, e
l’addolcimento della “s” ne offre, fonosimbolicamente, una im-
mediata conferma.

Esimo: (con la “s” intervocalica dolce) suffisso sostantivale, le-


gato soprattutto alla formazione di dottrine, ordini religiosi e
termini di natura astratta.
Es.: cattolicésimo, cristianésimo, crocianésimo, feudalésimo, in-
cantésimo, protestantésimo.
Anche la parola medésimo (dal latino “me ipse”, “metispsi-
mum”), per assonanza, è da pronunciarsi in forma chiusa.

Essa: suffisso con funzione sostantivale, è usato nell’adatta-


mento – al femminile – di termini maschili, soprattutto per ruo-
li sociali e professionali.
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Appendice 307
Es.: contéssa, duchéssa, dottoréssa, leonéssa, principéssa, pro-
fessoréssa, vigiléssa.
Anche il sostantivo badessa utilizza appieno il suffisso “essa”,
con questo particolare tipo di percorso: abate, abatessa, aba-
dessa, badéssa.

Eto: suffisso sostantivale legato soprattutto alla formazione di


nomi di alberi, piante e frutti.
Es.: arancéto, cerréto (un sinonimo di querceto), faggéto, frut-
této, pinéta, quercéto, roséto, ulivéto, vignéto; sepolcréto.
Anche le città di Roveréto e Loréto (e probabilmente quella di
Spóleto) utilizzano questo suffisso, derivando da “rovere” e “al-
loro-lauro” (e, per Spóleto, da “nespole”).
Il termine acéto, infine, è probabilmente uno strano composto
di prefisso (“ac”: pungente) e suffisso: privo quindi di una pa-
rola di riferimento vera e propria.

Etto: suffisso (soprattutto sostantivale) con funzione diminutiva


e vezzeggiativa.
Es.: brunétta, calcétto, caminétto, casétta, dolcétto, duétto, mi-
nuétto (da “diminuire”, “meno”), ométto, piroétta (da “piros”:
fuoco), rossétto, sgambétto, visétto.
Anche parole come accétta (da “ascia”), bigliétto (da “bolla-bi-
glia”), fazzolétto (dalla pronuncia veneziana di “faccia” – “faz-
za” – con l’aggiunta di un altro suffisso: “olo”), gabinétto (da
“cabina”), utilizzano appieno questo importante e diffusissimo
suffisso.

Evole: suffisso con funzione aggettivale (raramente sostantiva-


le), si lega soprattutto con parole di tipo astratto e immateriale.
Es.: amorévole, commendévole (da “commendare”: approvare,
raccomandare), disdicévole, fuggévole, lodévole, mutévole,
onorévole, svenévole.

Ezza: suffisso di natura esclusivamente sostantivale, si lega so-


prattutto con aggettivi qualificativi. La vecchia eredità del suf-
fisso latino “itia-izia” (da cui “ezza” discende) è avvertibile in
parole come giustizia-giustézza o immondizia e il suo più vol-
gare equivalente monnézza.
Es.: accortézza, bellézza, certézza, durézza, ebbrézza, grandéz-
za, mollézza, sicurézza, tristézza.
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308 100 monologhi ben pronunciati


Ménte: suffisso con esclusiva funzione avverbiale, è l’esito del-
la vecchia locuzione “con … ménte”.
Es.: certaménte (prima era: “con certa mente”), dolceménte
(prima era “con dolce mente”), duraménte, freddaménte, natu-
ralménte, ovviaménte, ripetutaménte, sicuraménte.

Ménto: suffisso con funzione principalmente sostantivale.


Es.: ammoniménto, avveniménto, induménto (da “indossare”),
moménto (forma contratta di “moviménto”), monuménto (da
“monere”: ricordare), rudiménto, (da “rude”, rozzo, elementa-
re), struménto (da “instruire”, istruire).
La pronuncia chiusa di questi due ultimi suffissi – “mento” e
“mente” – ha condizionato la maggior parte dei termini che in-
tercetta il gruppo “ment”. Abbiamo infatti parole come com-
ménto, laménto e sgoménto (entrambi derivati da “mente”),
torménto (da “torcere”).
È bene ricordare che il verbo mentire – pur derivando anch’es-
so da “mente”, ma ritenuto più dotto – si è attestato in forma
aperta: io mènto, tu mènti, loro mèntono, così come la parola
demènte. Anche il sostantivo mentore (dal nome del vecchio
maestro di Telemaco, nonché amico di Ulisse) prevede la pro-
nuncia chiusa della vocale “e”.
Per vocaboli come clemènte e deprimènte, si rinvia al suffisso
“ente”.

I seguenti suffissi vanno pronunciati con la “o” tonica aperta:

Occhio: suffisso aggettivale e sostantivale, con funzione dimi-


nutiva o vezzeggiativa.
Es.: finòcchio (dal latino “fenum”: fieno), ginòcchio (da “genu”,
poi “geniculum”), marmòcchio (forse di derivazione onomato-
peica), papòcchio (anche in questo caso, voce onomatopeica e
ludica), Pinòcchio, ranòcchio.

Occio: così come il precedente “occhio” (forse per assonanza),


“occio” è un suffisso aggettivale e sostantivale, con funzione
dichiaratamente scherzosa o riduttiva.
Es.: bellòccio, capòccia, cartòccio, fantòccio, figliòccio, grassòc-
cio.
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Appendice 309
Olo: suffisso diminutivo soprattutto sostantivale ma talora an-
che aggettivale, nonché geografico ed etnico.
Es.: cannòlo, capriòla (così come “capriòlo”, da “capra”), casta-
gnòla, civettuòlo, figliòlo, ghiacciòlo, lenzuòlo (così come “len-
za”, da “lino”); campagnòlo, romagnòlo, spagnòlo.
Risente sicuramente di questo suffisso anche il (non chiarito
etimologicamente) napoletano mariuòlo.

Orio: variante dotta del suffisso “oio” ne ripropone funzioni e


usi: soprattutto logistici e sostantivali.
Es.: conservatòrio, dormitòrio, oratòrio, parlatòrio, refettòrio,
sanatòrio; baldòria, littòrio (probabilmente dal verbo “legare”),
vittòria.

Osi: variante dotta del più popolare (con pronuncia chiusa e


aspra) “oso”, è un suffisso sostantivale di uso esclusivamente
medico e scientifico.
Es.: cifòsi (dal greco “kiphos”: gobba), nevròsi (da “patologia
dei neuri”, poi “neurosi”, quindi nevròsi), scoliòsi (dal greco
“sholios”: curva), turbercolòsi.

Otto: suffisso con funzione diminutiva o vezzeggiativa, soprat-


tutto sostantivale.
Es.: canòtto (da “canoa”), cappòtto, ceròtto; lupacchiòtto, or-
sacchiòtto, ragazzòtto.
Anche parole come cazzòtto e cruscòtto risentono chiaramente
della presenza di questo suffisso.
La parola panzaròtto (o panzerotto), pur essendo etimologica-
mente la fusione di “panza” e “rotto” – una pancia rotta –, si è
piegato per assonanza alla pronuncia aperta della vocale “o”,
come fosse un suffisso del sostantivo pancia-panza.

Ozzo: suffisso sostantivale con funzione diminutiva, spesso an-


che con una sfumatura popolare.
Es.: bacheròzzo (da “baco”), carròzza, litròzzo, scagnòzzo (da
“cagna”), tinòzza,
Anche il termine maritòzzo utilizza sicuramente questo suffisso:
per alcuni linguisti, deriverebbe dalla colazione che la donna
portava al marito in particolari giorni dell’anno; per altri, da un
visivo rimando sessuale, comunque legato al termine “marito”.
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310 100 monologhi ben pronunciati


I seguenti suffissi vanno pronunciati con la “o” tonica chiusa:

Forme: suffisso aggettivale, riprende appieno il suo significato


originario: “a forma di…”.
Es.: defórme, filifórme, multifórme, proteifórme (dal personag-
gio mitologico di Proteo: chi cambia rapidamente idee e opi-
nioni), vermifórme.
Da ricordare che la parola fòrmula, anch’essa derivante da “for-
ma”, va pronunciata in modo aperto.

Ogno: suffisso sostantivale legato soprattutto a parole astratte.


Es.: carógna (probabilmente da “caro-carnis”, carne), menzó-
gna (da “mentire).
Anche i termini cotógno (dal nome di una località greca: Kido-
nios), scalógna (forse da “calunnia”), e vergógna (forma con-
tratta e popolare di “verecondia”: timore, rispetto) risentono
quasi sicuramente del suffisso “ogno”.

Oio: variante popolare del più nobile “orio”, è suffisso soprat-


tutto sostantivale, usato spesso anche in funzione logistica.
Es.: accappatóio, innaffiatóio, rasóio; scorsóio; corridóio, fran-
tóio (da “frangere”, “frantumare”), mattatóio (da “mazza”: am-
mazzare-ammazzato-ammazzatóio).

Ondo: suffisso tendenzialmente dotto, con esclusiva funzione


aggettivale.
Es.: giocóndo, rotóndo, rubicóndo (da “rubeum”: rosso); vere-
cóndo (un derivato, più dotto, di “vergogna”, derivante dal ver-
bo “verere”: provare sentimenti di rispetto e timore).

One: suffisso sostantivale e aggettivale, con funzione accresciti-


va o esemplificativa.
Ricorrentissimo in lingua italiana, si lega con numerosi altri suf-
fissi, mantenendo comunque la sua originaria funzione.
Es.: borsóne, buffóne, cannóne, ciccióne, donnóne, giaccóne,
maglióne, milióne, palazzóne; desertificazióne, panificazióne,
santificazióne.
Anche parole come campióne (da “campo”), lezióne (da “lèg-
gere”), nazióne (da “nascere”), prigióne (da “prendere”), regió-
ne (da “reggere”), stagióne e stazióne (entrambi dal verbo “so-
stare”-“stato”), visióne (da “vedere”) e moltissimi altri, utilizza-
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Appendice 311
no chiaramente questo importante suffisso.
Il suo potere di condizionamento è molto forte; e numerosi ter-
mini, per assonanza, hanno ripreso l’accentazione chiusa della
vocale “o”: cafóne, coglióne, panettóne, persóna, etc.

Oni: suffisso con esclusiva funzione avverbiale. Indica soprat-


tutto situazioni dinamiche e di movimento.
Es.: boccóni (da “bocca”), carpóni (chi procede camminando
con le ginocchia e le mani per terra: da “carpere”, poi “carpi-
re”), ginocchióni, tastóni.

Onzolo: suffisso usato nella formazione di sostantivi e di for-


me verbali, con funzione riduttiva e – talora – ironica e spre-
giativa.
Es.: medicónzolo; io girónzolo, tu girónzoli, loro girónzolano.
Anche raperónzolo (il nome di taluni fiori violetti altrimenti
detti “campanulacee perenni” che risentono in qualche modo
del termine “rapa”) è, per assonanza, da pronunciare con la “o”
chiusa e la “z” dolce. “Frónzolo” (ornamento inutile) deriva in-
vece da “fronda”: ramoscelli, rami adorni di foglie.

Ore: suffisso aggettivale e sostantivale molto ricorrente in lin-


gua italiana, è caratterizzato da tre diverse, specifiche funzioni:
a) professionale e strumentale; b) sostantivale astratta; c) com-
parativa.
Es.: a) attóre, cantóre, dottóre, muratóre, pastóre (colui che va
al “pasco”), professóre, venditóre; cursóre, motóre, trattóre; b)
amóre, candóre, dolóre, pallóre, rancóre, squallóre; c) miglióre,
minóre, peggióre.
Anche parole come signóre e colóre utilizzano appieno questo
suffisso: etimologicamente, signore – in riga con la funzione
comparativa di “ore” – deriva da “senex-senior”: il “più anzia-
no” (e, così ricostruito, è chiaro il suo rapporto con “senato-
re”); colore è invece legato – nella sua valenza astratta e imma-
teriale – al verbo “celare” (un tempo pronunciato “kelare”): mi-
metizzarsi, colorarsi.
Infine, anche liquóre (contrariamente a quanto riportato da nu-
merosi linguisti) è aggregabile alla seconda funzione di “ore”,
legato a termini astratti o non concreti, solidi. Liquore deriva
dal verbo “liquere” (liquido, che non è solido) ed esige, conse-
quenzialmente, la pronuncia chiusa.
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312 100 monologhi ben pronunciati


Oso: suffisso aggettivale, è la variante “volgare” (cioè comune
e usuale) del più dotto “osi”. Proprio per tale ragione la pro-
nuncia di “oso” prevede la pronuncia aspra della consonante
“s”.
Es.: dannóso, famóso, fumóso, meraviglióso, spocchióso, stu-
dióso, velenóso.
Anche le parole gelóso e mimósa riutilizzano appieno questo
suffisso. Geloso deriva infatti – etimologicamente – dal vene-
ziano “zeloso” (che ha molto, troppo zelo); mimosa (si allude
però ad alcune specie, per esempio quella rosa) riutilizza il ter-
mine “mimo”, per il suo movimento retrattile: che sembra gio-
care con la mano che la tocca.
Non ha invece nulla a che fare col suffisso “oso” il termine
esòso (proveniente, etimologicamente, da “osus”: che “è odia-
to”, e in séguito: che è odiato per la sua avarizia), che va infatti
pronunciato con l’addolcimento di entrambe le “s”.

I seguenti suffissi vanno pronunciati con la “z” aspra:

Anza: suffisso sostantivale con funzione astratta.


Es.: baldanza, eleganza, esuberanza, ignoranza, tracotanza (da
“pensare” – coitare-cogitare – “oltre” – tra).

Azzo-azza: suffisso sostantivale (raramente aggettivale) con


funzione ordinaria e, talora, volgarizzante.
Es.: andazzo, codazzo, paonazzo (da “pavone”: rosso come un
pavone), schiamazzo, terrazzo-terrazza (da “terra”: superficie
all’aperto, sul livello del terreno).
Anche il termine ragazzo e l’organo sessuale maschile cazzo
quasi sicuramente riutilizzano questo suffisso: il primo derive-
rebbe dall’arabo “raqqas” (messaggero); il secondo da un ma-
schile di oca (“oco”), con l’aggiunta del suffisso “azzo”.

Izia: suffisso sostantivale, è utilizzato anche con l’accentazione


sulla ultima “i”.
Es.: furbizia, letizia (da “letum”, legato alla parola “letame”, il
cui possesso – in una realtà contadina e arcaica – rendeva evi-
dentemente “lieti”), sporcizia; idiozia, polizìa (da “polis”), puli-
zia, .
Liquirizia è invece la fusione di “riza” (radice) e “glykys” (dol-
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Appendice 313
ce). La pronuncia della sua “z”, per assonanza col suffisso
“izia”, è comunque aspra.
È bene ricordare che – sempre – la pronuncia di questa “z”, in-
tervocalica, è da rendere intensa, come fosse scritta in modo
doppio: furbiz(z)ia, poliz(z)ia.

Uzza: suffisso con funzione diminutiva e vezzeggiativa.


Es.: ideuzza, pagliuzza, viuzza.

Per quanto riguarda altri suffissi contenenti la “z” – ènza, éz-


za, òzzo – si rinvia alle pagine relative ai suffissi con “e” e “o”
in posizione tonica.

I seguenti suffissi vanno pronunciati con la “z” dolce:

Izzare: suffisso dotto, di esclusivo uso verbale.


Es.: demonizzare, familiarizzare, fiscalizzare, normativizzare, ot-
timizzare, valorizzare.

Per la pronuncia del suffisso “ ónzolo” si rinvia alle regole re-


lative ai suffissi da pronunciare con la “o” chiusa.

La pronuncia delle desinenze verbali – con “e” e “o” toniche


– è la seguente:

é: desinenza verbale della terza persona singolare del passato


remoto. Ormai considerata rara e desueta, tale forma è stata
spesso sostituita dalla desinenza “ette”.
Es.: dové, poté, ripeté, temé.

Ebbe: desinenza legata esclusivamente alla formazione del


condizionale. Riguarda tutte e tre le coniugazioni, tanto nella
forma singolare quanto in quella plurale.
Es.: avrèbbe-avrèbbero, canterèbbe-canterèbbero, mangerèbbe-
mangerèbbero, riderèbbe-riderèbbero, vincerèbbe-vincerèbbero.

Èi: desinenza utilizzata nella formazione della prima persona


del modo condizionale singolare, presente e passato.
Es.: io avrèi, io canterèi, io dirèi, io potrèi, io riderèi, io vincerèi.
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314 100 monologhi ben pronunciati


éi: desinenza legata alla formazione del passato remoto della
prima persona singolare. Usata in modo raro e desueto, tale
desinenza è spesso sostituita dalla desinenza “etti”.
Es.: io dovéi, io potéi, io ripetéi, io teméi.

Emo, emmo: desinenza – da pronunciarsi sempre con accen-


tazione chiusa – rintracciabile nei tre seguenti casi: al futuro in-
dicativo dei verbi di tutte e tre le coniugazioni; al passato re-
moto indicativo dei verbi della seconda coniugazione; al condi-
zionale dei verbi di tutte e tre le coniugazioni.
Es.: canterémo, giocherémo, dovrémo, capirémo, gioirémo;
avémmo, dicémmo, dovémmo, potémmo, ridémmo, volémmo;
canterémmo, giocherémmo, dovrémmo, potrémmo, capirém-
mo, gioirémmo.

Ere: desinenza dell’infinito dei verbi della seconda coniugazio-


ne.
Es.: avére, bére, cadére, dovére, potére, sedére.
Alcuni termini in “ere” (per esempio “il podére” o “il sedere”)
non sono altro che la trasformazione sostantivale dell’infinito
dei verbi potere e sedere, anch’essi da pronunciare in forma
chiusa.

Esse, este: desinenza verbale ricorrente in tre specifici casi: nei


congiuntivi (al presente e al passato); al passato remoto indica-
tivo; al condizionale, presente e futuro. I tre casi sono relativi
ai verbi della seconda e (in parte) della terza coniugazione.
Es.: se io avéssi, se tu avéssi, se egli avésse, se noi avéssimo,
se voi avéste, se essi avéssero; tu avésti, voi avéste, tu dovésti,
voi dovéste; tu avrésti, voi avréste, tu dovrésti, voi dovréste.

Ete: desinenza verbale utilizzata nel presente e nel futuro indi-


cativo dei verbi in “ere”.
Es.: avéte, dovéte, potéte, sapéte; avréte, dovréte, potréte, sa-
préte.
La seconda persona plurale del verbo “essere”, per assonanza
con l’apertura dei dittonghi, ha acquisito la pronuncia aperta:
voi siète.

Ette: desinenza verbale dei verbi della seconda coniugazione –


alla prima persona singolare, nonché alla terza persona singo-
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Appendice 315
lare e plurale –, ricorrente nel passato remoto indicativo. Que-
sto tipo di coniugazione è in realtà spesso sostituita con altre,
specifiche forme verbali.
Es.: io dovètti, lui dovètte, loro dovèttero; io potètti, egli potèt-
te; io ripetètti, loro ripetèttero.
C’è da notare che – per assonanza con il suffisso diminutivo
“étto” – in alcune regioni erroneamente la pronuncia viene af-
fermata in forma chiusa.

Ev(o): desinenza legata all’imperfetto singolare e plurale, indi-


cativo, dei verbi della seconda coniugazione.
Es.: io dicévo, tu dicévi, egli dicéva, essi dicévano; io ridévo, tu
ridévi, ella ridéva, loro ridévano.

Per quanto riguarda le desinenze “endo” ed “ente” (rispettiva-


mente correlate alla formazione del gerundio e del participio),
si rimanda agli analoghi, corrispondenti suffissi “endo” ed “en-
te”, presenti nelle regole dei suffissi tonici, e da pronunciare
con la “e” aperta.

Le tendenze fonetiche più rilevanti:

Una volta ribadita la priorità dei suffissi – elementi fondamen-


tali del lessico e, soprattutto, costanti nella loro accentazione –
è il momento di sottolineare quelle tendenze fonetiche più im-
plicate nell’annettere moltissimi termini e passaggi fonetici.
È evidente che tali tendenze saranno “subalterne” alle ac-
centazioni dei suffissi e potranno avere valore solo se non in-
terferiscono con gli stessi.
Se per esempio – come vedremo tra pochissimo – è note-
vole la presenza di dittonghi aperti nella lingua italiana, non
sarà certo il caso di pronunciare in forma aperta parole come
“ateniése”, “Mariétta”, “nazióne” (o, peggio, indicarle come “ec-
cezioni” di una legge di apertura dei dittonghi). “Ateniése” con-
tiene infatti il suffisso “ese” (così come “pugliése”), “étto” è il
suffisso portante di “Mariétta” (così come di “ariétta”, “magliét-
ta”); “nazióne” utilizza appieno l’importante suffisso accresciti-
vo – anch’esso chiuso – “one”: lo stesso di “dizióne”, “lezióne”,
“visióne”.
Un altro avvertimento è legato alla “parzialità” che sempre
Imp. 100 monologhi 29-01-2008 15:49 Pagina 316

316 100 monologhi ben pronunciati


accompagna le tendenze: queste sono infatti da intendere co-
me puro orientamento; del tutto falsata, ne consegue, risulterà
ogni tipo di generalizzazione.

I dittonghi e gli iati

Parole interne a questa tendenza fonetica sono, a esempio:


chièsa, (lei, lui) chièse, cièlo, ciliègia, dièci, mièle, piède, piè-
no, quèstua, (lui, lei) siède, tièni!, (lei, lui) viène; buòno, cuòio,
cuòre, (io) muòio, nuòvo, ruòta, (io) spiègo, suòla, scuòla,
suòra, uòvo; aèreo, idèa, pòi, rèo, sèi, (tu) sèi.
C’è, al riguardo, da segnalare che tale tendenza all’apertura
prevale soprattutto in presenza della vocale “e”.
Vocaboli che non si fanno piegare da questo tipo di aper-
tura sono (per quanto riguarda la “e”) “saétta”, il raro “chiérico”
e (per ciò che concerne la “o”) le ricorrenti “giórno”, “gióva-
ne”, “fióre”, “nói”, “vói”, ma anche i più rari “giógo”, “gióvo”
(io gióvo, che tu gióvi, se gli gióva, loro gióvano, etc.).
Per termini come “piómbo”, si rimanda alla tendenza (an-
cora più ricorrente per la “o”) del gruppo “ond”.

“Ond” e i suoi “derivati”

Abbiamo già incontrato (tra i suffissi con pronuncia chiusa) il


suffisso “ondo”: quello di “giocondo” e “rotondo”. Per ragioni
fonetiche (la derivazione dalla latina “u”, la presenza del suono
nasale “n”) si è rivelato più “naturale” adeguare le parole asso-
nanti alla pronuncia chiusa della “o”. E, tutto questo, sia per i
vocaboli che intercettano il gruppo “ond”, quanto per quelli –
ugualmente assonanti – che contengono il gruppo “ont” e i
gruppi “omb” e “omp”. Abbiamo infatti la costante e omoge-
nea chiusura di parole come, a esempio, bióndo, frónda, gón-
dola, ónda, rónda; cónto, frónte, mónte, ónta, pónte; bómba,
ómbra, rómbo, sgómbro, tómbola; cómpito, cómpro, rómpo,
zómpo.
Tale processo di progressiva chiusura della “o” ha fatto sì
che – nella maggior parte dei casi – il semplice gruppo “on” si
sia attestato in forma ricorrentemente chiusa, anche nei lega-
menti con altre consonanti.
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Appendice 317
Es.: bróncio, óncia, cóncio, mónco, trónco, gónfio, rónfo,
tónfo, trónfio, móngolo, póngo, tónno, sónno.
C’è da sottolineare però che alcune parole (in primo luogo
quelle più dotte) non si sono piegate a questo percorso e, pro-
prio nella differente pronuncia della “o”, manifestano la loro
autonomia e diversità.
Es.: còmplice, còmputo ma anche bòngo, Còngo, cònscio,
cònsole, cònvoco, dittòngo, insònne: tutti da pronunciare con
la “o” aperta.

I verbi “correre”, “mettere” e “porre”

Si tratta di tre verbi – tutti con pronuncia chiusa – di larghissi-


ma diffusione. Ed essi, grazie all’integrazione di prefissi o le-
gandosi con altri termini, moltiplicano i propri usi e funzioni.
“Córrere” diventa infatti accórrere, decórrere, incórrere,
scórrere, soccórrere, così come concórso, córso (strada), decór-
so, ricórso, soccórso, scórso, etc.
“Méttere” si trasforma in amméttere, comméttere, diméttere,
perméttere, riméttere, sméttere; e poi commésso, dismésso,
méssa, mésso, permésso, riméssa, scomméssa, etc.
“Pórre” è la base di appórre, compórre, depórre, impórre,
interpórre, ripórre; e, ancora, di compósta, depósto, pósto, ri-
spósta, scompósto. Il verso “spostare” e il sostantivo “impòsta”
– sia nel significato di “tassa”, sia in quello di “chiusura di fine-
stre” – sono da pronunciarsi in forma aperta (io spòsto, loro
spòstano, etc.).

Il verbo “cedere” e il sostantivo “specchio”

I due termini sono pronunciati in lingua italiana in forma aper-


ta: “cèdere”, “spècchio”. Con l’aggiunta di prefissi, entrambi de-
terminano una lunga serie di termini, tutti ugualmente da ac-
centare in forma aperta. Nel primo caso, avremo parole come
“concèdere”, “procèdere”, “recèdere” (con, ugualmente aperto,
il participio “cèsso”, con i derivati “concèsso”, “procèsso”, “re-
cèsso”, etc.); nel secondo caso, la parola “specchio” (antica-
mente “speculum”, poi contratta in “spectum-spetto”, fortemen-
te legata all’antico “specere” – spechere: guardare) produce vo-
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318 100 monologhi ben pronunciati


caboli come “aspètto”, “dispètto”, “cospètto”, “prospètto”, “ri-
spètto”, etc.

I monosillabi italiani, gli acronimi e le sigle

I monosillabi italiani non hanno una regolamentazione fonetica


omogenea: troppe e differenti sono le ricostruzioni e le deriva-
zioni con i quali sono connessi. Ciononostante, è possibile rav-
visare una tendenza alla chiusura che comprende particelle co-
me “me”, “ne”, “se”, “te” (sé té né vai da mé…), il pronome e
la congiunzione “che” (ché vuoi ché ti dica), in base alla cui
accentazione abbiamo gli avverbi “affinché”, “giacché”, “per-
ché”, “sicché”, etc. Ugualmente chiuse sono le preposizioni
semplici “cón” e “pér” (e tutte quelle articolate, derivate e non:
“cói”, “cógli”, “cóllo”, “pér”, “péi”, e anche “dél”, “délla”, “dé-
gli”, “néi”, “néllo”, etc.).
Si è preferito invece attribuire la pronuncia aperta a parti-
celle come “no” e “so” (nò, non lo so), a termini più astratti co-
me le lettere dell’alfabeto (èffe, èlle, èmme, ènne…) e alle note
musicali (dò, rè, sòl). Più in generale, per parole “inventate”,
sigle e acronimi, si è accettato, in modo convenzionale, di pro-
nunciarle in forma aperta.
Es.: còni, ècla, ònu, unèsco, vès, etc.
Il termine “ahimè” – letteralmente derivante dal pronome
“me” (ahi, mé) – è in realtà considerato una esclamazione e va
accentato in modo aperto: “ahimè: hai mé ma non…”.

Le parole straniere

Le parole straniere utilizzate nella nostra nazione (e che ormai


percepiamo quasi come “italiane”) sono numerosissime (bignè,
caffè, job, matrioska, sport, spot, stop, stress, top, yoga, yogurt,
web, etc.). Fino alla seconda metà del Novecento, l’Italia ha
avuto nella lingua francese un punto di riferimento da cui at-
tingere queste parole; subito dopo invece, dall’immediato se-
condo dopoguerra, questo ruolo è stato ricoperto in larga parte
dalla lingua inglese e statunitense (e molti termini stranieri at-
tualmente in uso sono infatti di derivazione anglosassone).
I termini sono però veramente tanti (di origine francese, in-
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Appendice 319
glese, ma anche indiana, turca, araba, tedesca, etc.) e difficile
sarebbe controllarne e riprenderne l’originaria accentazione o
pronuncia (e infatti nessuno di noi chiede “due sandwiches”,
con la “s” finale, così come sarebbe bizzarro ascoltare qualcu-
no che ci chieda informazioni – in italiano – su una fermata del
bus pronunciando quest’ultimo termine “bas”, come l’inglese
vorrebbe). È per tali ragioni che, per convenzione, nel corso
dei secoli si è attestata una pronuncia univoca – sempre aperta
– delle “e” e delle “o” toniche di questo tipo di parole. E quin-
di, al di là del fatto che in Inghilterra o negli Stati Uniti si possa
pronunciare in forma chiusa la parola “play boy”, in Italia dire-
mo (qui utilizziamo una approssimata trascrizione fonetica)
“bòi frènd”, “bòiler”, “giòin-vèntur”, “plèi-stèscion”, “uèb”, e an-
che “mokètte”, “monitor”, “perestròica”, etc.
In realtà, è bene evidenziarlo, alcuni vocabolari della lin-
gua italiana riportano – forse nel tentativo di essere più precisi
e fedeli – alcune accentazioni richiamandosi alla pronuncia del
paese di partenza. Questo avviene soprattutto per la lingua
francese e vede l’indicazione di pronuncia di “separé”, “caba-
rét”, “cabernét”, etc. Càpita anche di leggere la pronuncia chiu-
sa di “golpe”, a volte “gol (goal)”, e – molto più ricorrente nei
nostri dizionari – di “bistécca”, termine di derivazione inglese
(da “beef steak”) che, per influsso della parola “stécca” (che
ovviamente è estranea all’etimologia di “bistecca”), viene se-
gnalato in molti dizionari in forma chiusa.
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Riferimenti bibliografici 321

RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
Si riportano qui di séguito le indicazioni bibliografiche relative
ai 100 monologhi. Per i testi privi di pubblicazione, indichiamo
invece indirizzi di posta elettronica e siti web, nella speranza
che tutte le pagine qui proposte possano suscitare interesse, cu-
riosità e (auspicabilmente) interpretazioni e allestimenti.

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326 100 monologhi ben pronunciati


Elio Testoni, È mai possibile?, cfr. elio.testoni@senato.it 1999
Giovanni Raboni, Rappresentazione della croce, Garzanti, Mi-
lano 2000.
Alessandro D’Alatri, Anna Pavignano, Casomai, cfr. www.ki-
nematrix.net
Ferzan Ozpetek, Gianni Romoli, La finestra di fronte, Idea
Books, Milano 2003.
Maria Luisa Spaziani, La vedova Goldoni, in Teatro comico e
no, Bulzoni, Roma 2004.
Roberto Faenza, Alla luce del sole, Gremese, Roma 2005.
Marco Bellocchio, Il regista di matrimoni, Marsilio, Venezia
2006.
Giulia Gatti, A passo di danza, cfr. umferro@alice.it
Anonimo, L’amore oltre l’amore, cfr. www.matteosdc.com
Imp. 100 monologhi 29-01-2008 15:49 Pagina 327

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Imp. 100 monologhi 29-01-2008 15:49 Pagina 328

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