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Sezione Teatro
diretta da Giuseppe Manfridi
Imp. 100 monologhi 29-01-2008 15:48 Pagina 3
Corrado Veneziano
100 MONOLOGHI
BEN PRONUNCIATI
Estratti di
teatro, poesia, letteratura e cinema italiani
per la dizione e la recitazione
Imp. 100 monologhi 29-01-2008 15:48 Pagina 4
Copyright GREMESE
2008 © E.G.E. s.r.l. – Roma
www.gremese.com
ISBN 978-88-8440-513-5
Imp. 100 monologhi 29-01-2008 15:49 Pagina 5
INDICE
INTRODUZIONE Pag. 13
PRIMA PARTE
2. LA PRONUNCIA » 29
2.1 Le vocali » 29
2.2 Le semivocali e le semiconsonanti » 34
2.3 Le consonanti » 37
2.4 I digrammi infedeli » 41
2.5 Suoni dolci e suoni aspri » 43
2.6 Il fonosimbolismo » 47
2.7 I raddoppiamenti fonosintattici » 52
2.8 La trasmissione delle parole dotte » 56
3. L’INTONAZIONE » 60
3.1 La prosodia » 60
3.2 Gli andamenti intonativi » 61
3.3 Prosodia e sintassi » 64
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4. I DIFETTI DI PRONUNCIA » 75
4.1 Le motivazioni » 75
4.2 Gli errori “regionali” » 78
4.3 Gli errori regionali nel Nord Italia » 78
4.4 Gli errori regionali nel Centro Italia » 82
4.5 Gli errori regionali nel Centro-Sud Italia » 87
4.6 La macchina fonatoria » 92
SECONDA PARTE
Avvertenza » 98
Indice 9
14. Pietro Aretino, Dialogo della Nanna e della
Pippa Pag. 126
15. Accademici Intronati di Siena, Gli ingannati » 128
16. Annibal Caro, Gli straccioni » 130
17. Giovan Maria Cecchi, L’assiuolo » 132
18. Anton Francesco Grazzini detto Il Lasca,
La gelosia » 134
19. Torquato Tasso, Aminta » 136
20. Giordano Bruno, Il candelaio » 138
21. Battista Guarini, Il pastor fido » 140
22. Giambattista Della Porta, La fantesca » 142
23. Antonio Ongaro, Alceo » 144
24. Federico Della Valle, Judit » 146
25. Michelangelo Buonarroti il giovane, La Tancia » 148
26. Metastasio, Attilio Regolo » 150
27. Carlo Goldoni, Il teatro comico » 152
28. Pietro Chiari, Il filosofo viniziano » 154
29. Carlo Gozzi, L’amore delle tre melarance » 156
30. Vittorio Alfieri, Mirra » 158
31. Ugo Foscolo, Tieste » 160
32. Vincenzo Monti, Caio Gracco » 162
33. Silvio Pellico, Francesca da Rimini » 164
34. Alessandro Manzoni, Il conte di Carmagnola » 166
35. Giacomo Leopardi, Lettera al padre » 168
36. Paolo Ferrari, Goldoni e le sue sedici commedie
nuove » 170
37. Paolo Giacometti, La morte civile » 172
38. Giovanni Verga, Cavalleria rusticana » 174
39. Marco Praga, La moglie ideale » 176
40. Gabriele D’Annunzio, La città morta » 178
41. Carlo Bertolazzi, Il matrimonio della Lena » 180
42. Giuseppe Giacosa, Come le foglie » 182
43. Roberto Bracco, Il piccolo santo » 184
44. Sem Benelli, La cena delle beffe » 186
45. Filippo Tommaso Marinetti, Il re Baldoria » 188
46. Luigi Chiarelli, La maschera e il volto » 190
47. Ettore Petrolini, Nerone » 192
48. Pier Maria Rosso di San Secondo, Marionette,
che passione! » 194
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Indice 11
84. Giuseppe Manfridi, Ti amo, Maria! » 266
85. Vittorio Franceschi, Scacco pazzo Pag. 268
86. Patrizia Valduga, Donna di dolori » 270
87. Lella Costa, Magoni (e forse miracoli) » 272
88. Alda Merini, Delirio amoroso » 274
89. Biancamaria Frabotta, Il mulo sardo lo inganni
una volta sola » 276
90. Emilio Tadini, La deposizione » 278
91. Gregorio Scalise, Boite à conduire » 280
92. Elio Testoni, È mai possibile? » 282
93. Giovanni Raboni, Rappresentazione della croce » 284
94. Alessandro D’Alatri, Anna Pavignano, Casomai » 286
95. Ferzan Ozpetek, Gianni Romoli, La finestra di
fronte » 288
96. Maria Luisa Spaziani, La vedova Goldoni » 290
97. Roberto Faenza, Alla luce del sole » 292
98. Marco Bellocchio, Il regista di matrimoni » 294
99. Giulia Gatti, A passo di danza » 296
100. Anonimo, L’amore oltre l’amore » 298
APPENDICE
INTRODUZIONE
Introduzione 15
E il libro, che ribadisce le ragioni del dialetto e mette in
guardia da forme “bastarde” e “omologanti” di lingua italia-
na, descrive ed elenca (per ogni area geografica) i difetti e
le incongruenze più marcate e fastidiose.
Parlare (comunicare, recitare) è un’operazione antichis-
sima e allo stesso tempo attuale. È collettiva e personale. È
“naturale” ed è “appresa”. E il presente volume si impegna
a offrire strumenti utili per relazionarsi in modo produttivo
con questa competenza-condizione dell’essere umano: con-
sapevole che ognuno, sùbito dopo, facendo uso della pro-
pria (personalissima e irripetibile) sensibilità, offrirà inter-
pretazioni inedite e originalissime di ogni monologo e di
ogni sua parola.
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PRIMA PARTE
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La pronuncia 29
munità tedesche, nell’alta Carnia.
Fino all’inizio del Novecento, anche in Veneto erano dif-
fusi alcuni dialetti tedeschi. Col tempo essi sono scomparsi,
a eccezione di alcune comunità ladine e tedesche, entrambe
residenti in provincia di Belluno.
Saltando i territori liguri, lombardi, emiliano-romagnoli e
marchigiani (privi di significativi innesti extranazionali), bi-
sogna raggiungere l’Abruzzo per ritrovare alcune interessan-
ti minoranze linguistiche albanesi, e il Molise, laddove è in-
vece possibile rintracciare piccole comunità provenienti dal-
la Dalmazia. Un piccolissimo centro in cui sopravvive la lin-
gua albanese è anche in Campania, in provincia di Avellino.
Sensibilmente più marcata è la presenza albanese in Ba-
silicata (sia in provincia di Matera, sia in quella di Potenza)
e in Puglia. In quest’ultima regione, vanno segnalati inoltre
– nel Salento – una orgogliosa comunità di lingua greca (la
cosiddetta “Grecìa salentina”) e, di minore entità, un dialetto
provenzale in provincia di Foggia.
In Calabria, accanto alla lingua albanese, è parlata in al-
cuni comuni una particolare variante della lingua greca e
(nella provincia di Cosenza) un dialetto provenzale.
Per quanto riguarda le nostre due isole (accanto alla sot-
tolineatura della loro particolarità fonetica generale), è utile
segnalare la presenza in Sicilia di alcune comunità albanesi
e provenzali, e ad Alghero, in Sardegna – regione dotata di
una lingua neolatina sensibilmente diversa dai dialetti italici
– vale la pena invece ricordare il persistere di una antica e
solida comunità catalana.
2. LA PRONUNCIA
2.1 Le vocali
La pronuncia 31
Tutti noi ci serviamo di cinque vocali scritte, ma ogni
italiano (anche quando parla il suo “italiano-regionale”) ne
pronuncia quasi sempre di più. E allora, per essere precisi,
bisognerà riconoscere che disponiamo di ben undici diffe-
renti vocali. Se infatti noi usiamo una sola “a”, disponiamo
invece di tre diversi tipi di “e” e di “o”, così come pronun-
ciamo due diverse forme di “i” e di “u”: le undici vocali del-
la fonetica italiana potremmo scriverle in questo modo: a, è,
é, E, i, j, ò, ó, O, u, w.
Descriviamo quelle aperte e chiuse. Sia le “e” sia le “o”
possono essere pronunciate in modo aperto (la mandibola è
distanziata dalla mascella, la lingua è più rilassata e garanti-
sce maggiore spazio all’aria che esce dalla gola), oppure
chiuso: in tal caso la bocca e la lingua tendono a imporre
una lieve chiusura all’aria che viene fuori dalla gola.
Per le leggi che regolamentano la chiusura o l’apertura
di queste vocali, rimandiamo all’appendice finale del volu-
me. Per ora è solo necessario sottolineare che tali vocali
possono aprirsi o chiudersi esclusivamente in posizione to-
nica, cioè sotto accento.
Ogni parola ha una sua vocale tonica, e questo è il suo-
no su cui poggiano tutte le sillabe che compongono quella
parola.
Un vocabolo può essere tronco (quando l’accento cade
sull’ultima sillaba: per esempio “ragù”, “libertà”, “mercoledì”,
“giù”), piano (quando l’accento cade sulla penultima sillaba:
“lìbro”, “gelàto”, “violoncèllo”, “rapidaménte”), sdrucciolo
(quando l’accento cade sulla terzultima sillaba: “àlbero”,
“doménica”, “ritornàrono”), bisdrucciolo (quando l’accento
cade sulla quartultima sillaba: “càntamelo”, “prendiàmoce-
lo”, “rispàrmiatelo”); eccezionalmente possiamo incontrare
anche parole trisdrucciole (órdinaglielo).
Ora: se l’accento cade proprio su una “e” o su una “o”,
queste due vocali dovranno “sbilanciarsi”, aprendosi o chiu-
dendosi. Un italiano che si esprime correttamente, dirà “cèr-
to, un poèma lètto mólto bène è spésso uno struménto di
créscita déi valóri”; un italiano impreciso potrà dire “cérto,
un poéma létto mòlto béne…”, ma entrambe le pronunce,
come si può notare, poggiano proprio sulle “e” e “o” toni-
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La pronuncia 33
normale e colloquiale, mi impegno a dire “tremèndo” e “tre-
méndo”, a ben pensarci, come ho pronunciato la “e” della
prima sillaba? Né aperta né chiusa ma, automaticamente,
corretta. In fonetica, come già anticipato, queste vocali, ato-
ne, si scrivono in maiuscolo: “E” e “O”.
Un’ultima, importante informazione di natura “fonoacu-
stica” è legata alla (a prima vista inaspettata) vicinanza tra le
vocali “e” e “o” chiuse con le vocali “i” e “u”. Per quanto
possa sembrare strano, a un attento esame acustico si può
tranquillamente notare come la distanza tra la “è” e la “é”
sia più forte che tra la “é” e la “i”; allo stesso modo, la “ó” è
più simile alla “u” che non alla “ò”.
Questa particolare prossimità ci può far riflettere sul for-
zato (alterante) condizionamento che la forma scritta ha
operato su quella orale. Infatti, è forse solo per questo moti-
vo che una eventuale rima – strutturata sull’assonanza “è-é”
o “ò-ó” – viene tradizionalmente ben accettata da qualun-
que lettore o ascoltatore; mentre eventuali altre rime, gioca-
te sulle assonanze “é-i” o “ó-u”, producono un (ingiustifica-
to) senso di errore e stonatura.
Una strofa del tipo “eppure mai ti ho détto, quel che per
te ho scritto e lètto”, sarebbe interpretata come corretta e
normale; un’altra che suoni “eppure mai ti ho détto, che mi
sento uno sconfitto”, verrebbe percepita invece come (al di
là del contenuto) più infelice e sgraziata. Allo stesso modo,
ci sembrerebbe del tutto legittima una rima “dòlo-vólo” (per
me il più grande dòlo, è saper che hai preso il vólo), ma
stupirebbe invece non poco la proposta di due versi come
“e per me il più grande vólo non lo compie certo un mulo”.
Sappiamo bene che quanto stiamo dicendo creerà per-
plessità, così come siamo consapevoli che per secoli (da Pe-
trarca ai giorni nostri) ci siamo abituati a sentire solo ed
esclusivamente un certo tipo di rime, fortemente segnato
dalla ripetitività vocalica grafica: a-a, e-e, etc.; eppure un
qualsiasi strumento meccanico o elettronico (anche un sem-
plice computer con discriminazione acustica), interrogato su
queste vicinanze e distanze, confermerà in modo netto que-
sta nostra indicazione: la “i” è più simile alla “é” di quanto
non lo sia la “è”; sono più vicini “u” e “ó” che non “ó” e “ò”.
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Per quanto riguarda la differenza tra “i” e “j”, “u” e “w”, bi-
sognerà necessariamente chiarire lo scarto che separa le vo-
cali dalle consonanti. Chiesto in modo più elementare:
quando un suono può dirsi pienamente “vocale” e quando
no?
I segni distintivi di una “vera” vocale sono due: a) il po-
ter prolungare il proprio suono (poter dire “aaa…”, “eee…”,
“iii…”); b) il non incontrare, nell’uscita dell’aria dalla bocca,
nessun ostacolo.
Al contrario, una “autentica” consonante sarà caratteriz-
zata da un suono breve (una “p” allungata è impossibile da
produrre) e dalla presenza dell’interferenza e dell’ostacolo
di un organo fonatorio durante l’uscita dell’aria dalla bocca:
la lingua per la “l” e la “n”, le labbra per “b”, “p”, “m”, i
denti per “t” e “d”, e così via.
Ora, a ben pensarci, mentre se dico “mio” o “tuo” posso
allungare a mio piacimento le due vocali toniche (miiio,
tuuuo), non riuscirò a compiere la stessa operazione nella
“i” e nella “u” di “piedi” e “scuola”: dire “vado a piiiedi a
scuuuola” è pressoché impossibile o comunque stravagante.
Queste due vocali – “i” e “u” – sono quindi, in alcuni casi e
contesti, pienamente vocali (mio, cibo, via, mira, vino, tuo,
muro, bua, tubo, etc.); in altre parole invece si comporte-
ranno come false, incompiute vocali (ciao, piede, chiedo,
miele, scuola, buono, quello, sguardo, etc.).
A ulteriore riprova della loro differenza, mentre è possi-
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La pronuncia 35
bile dividere sillabicamente (e, quando scrivo, andare a ca-
po) le parole “pi-no”, “ci-bo”, “gu-fo”, “tu-bo”, un’analoga
operazione mi sarà impedita in termini come “gi-allo”, “gi-
oco”, “cu-ore”, “nu-ovo” (andare a capo cioè dopo “gi”,
“cu”, “nu”…).
La pronuncia 37
do di pronunciare questi suoni nell’antichità classica. In re-
altà, queste ultime due lettere sono, a nostro parere, delle
semplici consonanti. In nessun modo ne sarà possibile pro-
lungare l’emissione.
La differenza tra vocali e consonanti ha una conseguen-
za straordinaria nella recitazione e più in generale nell’inter-
pretazione delle (nel dare cioè “colore” alle) nostre frasi.
Possiamo infatti intonare le nostre parole soprattutto pog-
giando sulle vocali, e in particolar modo sulle vocali toni-
che. E, proprio grazie all’allungamento che ci garantiscono
le vocali, potremo inserire le nostre intenzioni ironiche,
amorevoli, violente, seducenti, e così via.
Nella pronuncia delle consonanti, tale possibilità espres-
siva è invece oggettivamente più ridotta. E se non potremo
intonare in alcun modo le “i” e le “u” semivocaliche, e avre-
mo difficoltà a intonare le consonanti, molto più spazio sarà
praticabile con le semiconsonanti (le più vicine alle vocali
per via della loro allungabilità) e ovviamente – lo abbiamo
già detto: regine della intonazione – con le vocali.
2.3 Le consonanti
La pronuncia 39
“k”, da un punto di vista della pronuncia non ci accorge-
remmo di alcuna differenza “acqua-akkua-accua”, “quadro-
cuadro-kuadro”, “questo-cuesto-kuesto”, etc. (Ovviamente
questa puntualizzazione non va fraintesa. Non va infat-
ti confusa la regolamentazione fonetica con quella grafica,
e non speriamo in alcun modo che le lettere “h” e “q” spa-
riscano dalla lingua nazionale. Al limite si potrebbe comin-
ciare a includere altri suoni: per esempio i già noti “k”, “j”,
“w”.)
Tenuto conto della complessità che caratterizza il nostro
alfabeto, è possibile anche descriverne le lettere da un altro
punto di vista: dal loro “modo” di articolazione.
In tal caso chiameremo occlusive le consonanti che
comportano la chiusura (ovviamente temporanea) dell’uscita
dell’aria dalla bocca: si tratta di tutti e tre i suoni bilabiali (b,
m, p), dei due suoni dentali (d, t), dell’alveolare “n” e dei
due velari (gh, ch).
Sono denominate invece costrittive (ma anche fricative o
continue) quelle consonanti che prevedono il restringimen-
to del canale dell’aria: ci riferiamo alle due labiodentali “f” e
“v”, alle alveolari “s” e “s”, alle alveopalatali “r”, “n” e “l”,
nonché alla “sc(i)” e alla palatale “gl(i)”.
Registreremo infine come affricate quattro consonanti,
un po’ a metà (una sorta di fusione) tra occlusive e fricative:
le alveodentali “z” e “z”, e le alveopalatali “c(i)” e “g(i)”.
Un ultimo modo di appellare le consonanti è legato, in-
fine, alla loro nasalità (o “buccalità”) e dolcezza (o asprez-
za). E, tra tutte le consonanti della lingua italiana, solo tre
(m, n, gn) prevedono l’uscita dell’aria (di una larga parte
dell’aria) dal naso anziché dalla bocca.
Tutte le altre consonanti – che per l’appunto vedono
l’aria uscire chiaramente dalla bocca – vengono chiamate
buccali.
Sono invece dolci (tra un po’ chiariremo il perché) le
consonanti “b”, “d”, “gh”, “g(i)”, “gl(i)”, “gn(i), “l”, “m”, “n”,
“r”, “s”, “v”, “z”. E sono infine da considerare aspre le se-
guenti consonanti: “ch”, “c(i)”, “f”, “p”, “s”, “sc(i)”, “t”, “z”.
Diremo quindi – per essere completi e precisissimi –
che la consonante “b” è un suono buccale, bilabiale, occlu-
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La pronuncia 41
Approfondiremo in séguito la differenza fra trasmissione
dotta e volgare (legata anche alla difficoltà di fonazione del-
le parole dotte); ma ora qui, in questo paragrafo, vale la pe-
na sottolineare che parole come “abdicare” e “abside”, “ec-
zema” ed “ectoplasma”, “Edgardo” ed “Edvige”, “nafta” e
“oftalmico”, “segmento” e “pigmento”, e così via, abbisogna-
no di un maggiore impegno fonoarticolatorio: la loro pro-
nuncia è infatti oggettivamente più faticosa, atipica e mac-
chinosa. Queste parole (e altre, analoghe) vanno quindi sor-
vegliate per evitare fastidiose semplificazioni e riduzioni.
La pronuncia 43
quindi la permanente intensità della “z” intervocalica. In
pratica, nonostante scriviamo (sempre con una “z”) “azio-
ne”, “nazione”, “razione”, “organizzazione”, dovremo pro-
nunciare (sempre con due “z”) “azzione”, “nazzione”, “raz-
zione”, “organizzazzione”, “privatizzazzione”.
Alcuni autorevoli fonetisti – richiamandosi ai principi di
assonanza dapprima citati – inseriscono tra questi suoni (da
rendere doppi, intensi) anche la “z” dolce. Dichiarano cioè
la correttezza della pronuncia accentuata di parole come
“azoto”, “Gaza”, “mesozoico”, “azimut”, “schizofrenia”: di-
ventando quindi “azzoto”, “Gazza”, “mesozzoico”, “azzimut”,
“schizzofrenia” (o, peggio, com’è purtroppo ora pronuncia-
to, “schizzofrenia” – con le due “z” aspre). Noi sconsigliamo
questa indicazione. Tali termini appartengono infatti alla tra-
dizione dotta (quasi sempre greca); si tratta di parole “parti-
colari”, eleganti, “nobili”, e l’omologazione al comportamen-
to della “z” aspra intervocalica non può che appiattire e im-
poverire la melodia complessiva della frase in cui la parola
è inserita.
L’unico raddoppiamento auspicabile per le “z” dolci, a
nostro parere, va prodotto laddove questo suono sia iniziale
di parola e preceduta da articoli o particelle nominali:
“unoZZaino”, “loZZero”, “quegliZZigomi”, “laZZona”, etc.
Diremo quindi, correttamente, “Gaza fa parte di una na-
Zione il cui azimuth ha un’aZione ricca di raZionalità. In
questa Zona non c’è schizofrenia ma organizzaZione socia-
le”.
La pronuncia 45
e distanti tra di loro, l’aria non incontrerà alcun ostacolo.
L’aria (trasformata in suono) uscirà forte e piena, priva di
freni o vibrazioni. Infatti, se avvicino la mano alla bocca e
dico “p”, sentirò una forte uscita di aria; se invece pronun-
cio “b”, questa percezione sarà molto più attenuata. E anco-
ra: se provo a mettere la mia mano all’altezza del pomo
d’Adamo e pronuncio ad alta voce i suoni dolci (e sonori),
sentirò una interna vibrazione (o un rimbombo); se dico in-
vece con uguale forza i suoni aspri (e sordi) questa perce-
zione di vibrazione e rimbombo non ci sarà. (Per un princi-
pio fisico molto elementare di propagazione, il rimbombo
dei suoni dolci sarà avvertito anche se posiziono le mani a
coprirmi le orecchie o la nuca.)
Accanto ai suoni aspri già elencati (c(i), ch, f, p, s, t, z)
ne va aggiunto un altro: “sc(i)”. Unitamente a quelli dolci
(b, d, g(i), gh, s, v, z) dovremo anche ricordare le conso-
nanti “l”, “m”, “n”, “r”, nonché i suoni “gn(i)” e “gl(i)”.
Come si può notare, il gruppo dei suoni dolci è senz’al-
tro più numeroso di quello aspro. La distanza si fa ancora
più netta (a vantaggio della dolcezza) se consideriamo
quanto anche tutte le vocali (a, è, é, E, i, j…) coinvolgano le
corde vocali e siano da ritenersi a tutti gli effetti “dolci”.
Questa superiorità ha una diretta conseguenza nella no-
stra fonazione e può portare (talora) a fastidiose alterazioni
di pronuncia. Proviamo ad analizzarla. Se io pronuncio la
frase “ho un’idea buona, bella e regolare; e domani ne vor-
rei dialogare a lungo nel bar di Mario”, controllando il pre-
cedente elenco aspro-dolce, noto che tutti i suoni qui com-
presi sono dolci. In pratica, mentre pronuncio questa frase,
dopo aver preso fiato, avvicino tra di loro le corde vocali e
– mantenendole nella stessa posizione – parlo e dico per in-
tero le parole sopra riportate. La mia fonazione ne risulta al-
leviata: diciamo che è più comoda.
Se invece dico “la mia idea è un buon regolamento”,
succede che – in un unico punto, coincidente in questo ca-
so con la pronuncia del suono aspro “t” – le corde vocali
dovranno tra di loro distanziarsi. La frase è infatti sempre
dolce; interrompe la sua sonorità con la “t” per poi ripren-
derla con la “o” finale di “regolamento”. La tentazione – un
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La pronuncia 47
espiratoria tipica del suono aspro. E se in Italia il verbo “ca-
care” (che viene dalla ripetizione infantile “ca-ca”) è spesso
pronunciato anche “cagare”, è pressoché impossibile sentir-
lo alterato invertendo la prima sillaba in “gacare” (E così ca-
piterà di sentire qualcuno che, sbagliando, dica “Giangarlo”,
ma non “Ciancarlo”, “pardire” e mai “bartire”, “calzoni” e
mai “galzoni”, e così via.)
2.6 Il fonosimbolismo
La pronuncia 49
evocazioni elementari (gnam-gnam, gnum-gnum, slam), di
ripetizione di suoni animali (bru, gra-gri), etc.
Ne faranno le spese parole come “cetriolo”, “cruento”,
“grugno”, “grattare”, “grumo”, “gnomone”, “sgravare”,
“sbronzo”, “sbruffone”, “screanzato”, “strutto”, “trullo”.
Un ultimo gruppo di parole, di cui è più facile cogliere
un uso più basso e ordinario, è – tendenzialmente – forma-
to da termini che vedono la ripetizione e la ricorrenza della
medesima vocale o sillaba. Ed è per questo che parole co-
me “lasagna”, “patata”, “castagna”, “cucùlo” oppure “chiac-
chiera”, “cocchio”, “mummia”, “pappagallo”, sono per lo più
vituperate e sgradite dalla lingua nazionale: e non è un caso
che, ad esempio, la parola “cocomero” sia più piacevolmen-
te sostituita con (la meno corretta, ma percepita come meno
goffa) “anguria”.
Tra le vocali, sono generalmente considerate più elegan-
ti quelle aperte, soprattutto “è” ed “ò”. E infatti, in ragione
di questa tendenza, nelle letture cattoliche in latino, i vertici
ecclesiastici sollecitano i prelati ad accentare in forma aperta
le vocali “e” e “o” toniche incontrate, così come non è irrile-
vante il fatto che, a partire dall’Umanesimo, quando i nostri
intellettuali si sono imbattuti in parole dotte straniere (so-
prattutto greche o arabe) con la “e” o la “o” tonica, abbiano
preferito attestarle con la pronuncia aperta.
E così anche noi, inconsapevoli odierni continuatori di
questa consuetudine, se prendiamo parole come “yogurt”,
“yoga”, “sport”, oppure come “sexy”, “jolly”, “stress”, “caffè”,
“dessert”, “matrioska” (di origine varia: turca, indiana, ingle-
se, francese, russa), ci siamo abituati a pronunciarle in for-
ma aperta: quasi una sorta di “cortese ospitalità” fonetica ri-
servata a termini stranieri, di cui spesso ignoriamo la pro-
nuncia adoperata nel loro paese di origine. (Anche le sigle, i
nomi inventati, gli acronimi hanno goduto di questo diritto
di elegante apertura fonetica: “l’ònu”, “il còni”, “l’unèsco”; le
lettere sono “èffe”, “èlle”, “èmme”, “ènne”; le note musicali
sono “dò”, “rè”, “sòl”.)
Un evidente esempio – tutto italiano – di questa diffe-
renza tra l’eleganza delle “e” e “o” aperte e la ordinarietà di
quelle chiuse (nonché di quella già nota tra consonanti dol-
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La pronuncia 51
(che apre in maniera costante e ricorrente le “e” e “o” toni-
che: “la vèrde tèla dèl dolòre, nèl piacère dèl mòlto amò-
re”), faccia prevalere, eventualmente, un senso di monoto-
nia e non di gentilezza ed eleganza fonetica.
Una sorta di “schizofrenia” appartiene invece alla vocale
“u”: la quale – cupa e chiusa per definizione – si lega tanto
a parole nobili ed eleganti, quanto, al contrario, a termini e
locuzioni di opposta natura.
Da un punto di vista strettamente fonetico, la “u” è infat-
ti il suono vocalico più antico e ancorato alla vecchia dizio-
ne latina: una pronuncia che ha resistito e che non è stata
scalfita da “masticazioni” e “maccheronismi”. Ne percepiamo
la sonora nobiltà in parole come “autunno”, “augusteo”,
“puro”, “lutto”, “culto”, così come nel suo inserimento – così
tanto raro e particolare – nella formazione di alcuni aggettivi
in “óso”: “luttuóso” (e non “luttóso”), “sinuóso”, “sontuóso”,
“delittuóso”.
Al contrario, la troviamo – con evidente negativa perce-
zione – in termini più rozzi e popolari, come “buco”, “rut-
to”, “muco”. In alcuni di questi (mulo, ululato, mugugno,
grugno, etc.) è evidente la sua funzione onomatopeica, lad-
dove il suono “u” è proposto soprattutto nella sua variante
più primitiva e animale (vedi parole come “mucca”, “muto”,
“gufo”…).
Per quanto riguarda le due ultime vocali toniche della
lingua italiana – “a” e “i” –, c’è da segnalare la forte conno-
tazione squillante del suono “i” (il più acuto e “alto” da un
punto di vista acustico) e la solidità e ricorrenza della “a”.
Questa è l’unica vocale, come abbiamo visto, che ha som-
mato le vecchie lunghezze e brevità delle “a” latine (mentre
le vocali “e”, “i”, “o”, “u” brevi si sono modificate, la “a” bre-
ve è rimasta per l’appunto sempre “a”).
L’altezza fonica della “i” (il poterla percepire più netta-
mente e distintamente) le ha permesso di guadagnarsi l’im-
portante funzione di discriminare il singolare maschile dal
plurale, un compito che la “e” (per quanto riguarda il genere
femminile) non riesce sufficientemente a garantire. È la vo-
cale del “sì” (distante ovviamente dal più – acusticamente –
basso “no”) e di molte lallazioni e parole infantili: la sua al-
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La pronuncia 53
Per quanto riguarda questo ultimo gruppo di parole, bi-
sogna necessariamente affidarsi alla dimensione acustica, di-
stinguendo monosillabi deboli da monosillabi forti. I quali,
in sostanza, pur non richiedendo (per abitudine ortografica)
la presenza di alcun segno scritto, sono ugualmente “pesan-
ti” (e addirittura in molti casi abbiamo la tentazione di scri-
verne l’accento).
Facciamo due esempi e riflettiamo sulla intensità della
vocale “e” in locuzioni e frasi come “me ne vado!” e “me po-
vero!”, e ancora “la cosa che desidero…” e “che voglio?”.
Confrontando i due diversi tipi di “me” nel primo esempio,
noteremo – lo speriamo – una forte differenza di accenta-
zione – di “peso intonativo” – tra i due: il primo “me” (in
“me ne vado”) sembrerà smorzato e quasi atono; al contra-
rio, nel secondo avvertiremo – ci si augura – un grado più
sostenuto di intensità: come se in “me povero” ci fosse un
vero e proprio accento sulla “e” (mePPovero).
Allo stesso modo, per il successivo esempio, dovremmo
cogliere una differenza accentuativa tra le due frasi. Se,
cioè, non avvertiremo (non dovremmo avvertire) nessun bi-
sogno di calcare la consonante iniziale di “desidero” (la co-
sa che desidero…), al contrario sentiremo (dovremmo senti-
re) l’urgenza di insistere sulla “v” di “che voglio?” (cheVVo-
glio?).
È la stessa differenza che incontriamo tra l’articolo deter-
minativo “la” e il pronome “li”, e gli avverbi di luogo “là” o
“lì”. Anche in questo caso, le vocali del secondo gruppo pe-
sano maggiormente e sono più intense (e, in tale occorren-
za, l’ortografia si preoccupa di accentarle). E, così come di-
remo “làSSotto” e “lìSSopra” (ma non “laVVoglio” e “liCCer-
co”), allo stesso modo, nell’espressione “me povero” andrà
previsto il raddoppiamento della lettera “p”, com’è richiesto
dalla fonosintassi: “mePPovero”, e non “meNNevado!”
In Italia, soprattutto nelle regioni settentrionali, questa
differenza (e questa percezione o bisogno) di accentazione
non è avvertita. In altri territori si riscontra una inversione di
raddoppiamenti (la “r” e la “d” siciliana), o anche una omo-
logazione fonosintattica (è il caso del Centro Italia che non
distingue i due precedenti tipi di “che”), etc. Vale la pena,
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La pronuncia 55
TrePPiani, ed èSStato gustoso: cosìBBello che chiDDomani
lo rifarà, mangeràPPiùDDi me eTTe messi assieme”.
I raddoppiamenti fonosintattici trovano origine – e ra-
gione – nella caduta (avvenuta nel latino tardo) della conso-
nante finale delle parole. “Est” si trasformò nella forma ver-
bale “è” (Paulus est romanus: Paolo e(st) romano, Paolo èR-
Romano), “ad” in “a” (vago ad Roma, vago a(d) Roma, vago
aRRoma) , “et” in “e” (Paulus et Petrus, Paolo e(t) Pietro,
Paolo ePPietro), “quid” in “chi”, e così via. Questi suoni “ca-
duti” (un po’ fantasmi di una pronuncia negata) hanno ne-
cessariamente lasciato una traccia: le attuali parole “tronche”
godono (come orfane orgogliose) di un particolare diritto di
accentuazione, in assenza del quale esse si mimetizzerebbe-
ro e perderebbero nella fluenza della catena verbale, dive-
nendo ambigue sillabe aggregate alle parole.
Tali consonanti finali di parole, ormai scomparse e cen-
surate sul terreno della scrittura, reclamano in qualche mo-
do una loro necessità verbale e una loro funzione. E, con il
raddoppiamento della consonante della parola successiva,
sembrano ricordarci la loro vecchia, consolidata presenza.
Proprio in virtù di questa radice latina (e della caduta
delle consonanti in finale di parola), dobbiamo preoccupar-
ci di considerare anche “qualche” e “ogni” alla stregua di
parole tronche. La prima proviene infatti da “quale che
(sia)”, mentre la seconda è erede della latina “omnes”, ed
entrambe esigono il trattamento fonosintattico. Diremo
quindi “qualcheCCosa”, “in qualcheMModo”, “qualcheVVol-
ta”; “ogniSSanti”, “ogniTTanto”, “ogniVVolta”.
Per ragioni puramente espressive, tendiamo invece a
raddoppiare la consonante iniziale della madre di Gesù
(aveMMaria) e quella di Dio (mioDDio). (Anche se, in que-
st’ultimo caso, gioca il vecchio plurale di Dei: “gli Iddei”, da
cui “Iddio” e – l’altrimenti inspiegabile – “gli Dei”.)
Discutibile è la raccomandazione di alcuni manuali che
assimilano al comportamento fonosintattico anche la prepo-
sizione “da” (che ha radici esclusivamente toscane: “vengo
daFFirenze”). Tale raddoppiamento non è giustificabile da
un punto di vista etimologico (non vi è alcuna caduta di
consonante finale latina) e in alcuni casi determina ambigui-
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La pronuncia 57
re e omologare ciò che maneggiamo. E così anche le parole
– nel corso del millennio che intercorre tra il periodo “clas-
sico” (l’età imperiale latina) e il Basso Medioevo – sono sta-
te accorciate, elementarizzate, ammorbidite, semplificate.
All’improvviso, questi testi ci mostrano invece la compo-
sizione di alcune parole prima dell’intervento trasformativo
operato dal tempo. In tali documenti, per esempio, trovia-
mo la parola “duplice” che tutti ormai dicono “doppio”;
“lauro” che invece viene pronunciato “alloro”; “clarare”, che
ormai la gente pronuncia “chiarire”, e così via. Le pergame-
ne riportano “amplio”, “vigilia”, “tegola”, “nitido”, “questua”,
che le bocche e le lingue degli uomini hanno semplificato
in “ampio”, “veglia”, “teglia”, “netto”, “richiesta”, etc.
Di fronte a queste novità, gli intellettuali del Trecento e
quelli successivi (gli umanisti) agiscono nel modo più pro-
duttivo: valorizzano i nuovi innesti, con un aumento fruttuo-
so e prorompente del nostro lessico. Ci siamo ritrovati così,
più o meno velocemente, di fronte a una doppia possibilità
di nominare le cose, di segnare gli oggetti, le idee, i senti-
menti. In realtà, poiché nessun termine è perfettamente so-
stituibile con un altro, questa doppia possibilità ha determi-
nato un allargamento semantico: “duplice” e “doppio” signi-
ficano grosso modo la stessa cosa, ma ognuno offre una
sfumatura e un colore al concetto in una forma leggermente
diversa. E così il “conto” di qualcosa è diverso dal suo
“computo”, la “forma” dalla sua “formula”, “lavorare” da
“elaborare”, “allevare” da “alleviare”, “esplicare” da “spiega-
re”, “clausura” da “chiusura”.
Molte parole “ritrovate” erano facilmente ricollegabili al-
le loro forme più antiche e classiche; altre invece sembrava-
no del tutto nuove: il tempo non le aveva modificate ma
semplicemente cancellate. E queste nuove – “vecchie” – pa-
role ora tornavano col carico della loro antica fonetica: più
aulica, complicata, atipica. E tale riconoscibilità risiedeva
proprio nella loro particolare condotta vocalica: fatta di suo-
ni che il tempo non aveva smussato e semplificato.
Le caratteristiche distintive di tale “identità”, cólta e no-
bile, erano spesso le seguenti: a) il numero alto di vocali; b)
la vicinanza di consonanti foneticamente ostili; c) la pronun-
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La pronuncia 59
ciare, ci possono portare a “mangiamenti sillabici”, semplifi-
cazioni fonetiche, dimezzamenti vocalici. Esse vanno proba-
bilmente pronunciate con maggiore impegno articolatorio
(come se stessimo dicendo una parola “tra virgolette”), ma
vanno soprattutto seguìte – nella maggior parte dei casi –
nella loro concatenazione sillabica. In assenza di queste at-
tenzioni, parole come “tecnica” o “geometria” si semplifiche-
ranno in “tennica” (o, peggio, “tenica”) e “giometria”. “Ae-
reo” diventerà “ereo” o “erio”, “ectoplasma” e “obsoleto” si
banalizzeranno in improbabili e preoccupanti (o “proccu-
panti”) “ettoplasma” e “ossoleto”.
Se la qualità dell’accento (aperto o chiuso) delle parole
dotte è stata in molti casi ricostruita dalle fonti e dai vecchi
accenti latini (la “u” breve e la “o” lunga che si attestano in
“o” chiusa, la “o” breve che diventa “o” aperta, etc.), in altri
casi questo riferimento era del tutto assente. Non sempre,
infatti, dalle vecchie, logorate pergamene era possibile rica-
vare segni di quantità e di accenti: le parole e le frasi (poe-
sie, saggi, epigrafi) corrose e appena leggibili non fornivano
una precisa indicazione accentuativa. E quindi, in assenza di
tali segni grafici – di lunghezza o brevità delle vocali –, co-
me bisognava comportarsi?
È in questo periodo che si comincia a suggellare l’aper-
tura delle “e” e delle “o” in relazione alla nobiltà del termi-
ne. E nella maggior parte dei casi di fronte a questo tipo di
parole, nel dubbio, si preferiva adottare e suggerire la pro-
nuncia aperta del dotto vocabolo. È così che abbiamo ac-
centazioni come “dittòngo”, “còmputo”, “còmplice”, “còn-
scio”, “cònsole”, “fòrmula”, “arèna”, “Elisabètta”, “Agnèse”.
Allo stesso modo, sempre in questi decenni, la pronun-
cia delle “s” e delle “z” si addolcisce laddove il termine è
consuetudine di un linguaggio colto: perché religioso (para-
diso, cresima, battesimo, chiesa, Gesù), oppure letterario
(musica, poesia, prosa, rosa, teoresi) o altrimenti scientifico
(fisica, filosofia, nevrosi, cifosi). I nomi di persona – sempre
– cominciano a fregiarsi di questo addolcimento: per esem-
pio Cesare, Giuseppe, Teresa, Tommaso.
L’antica pronuncia latina della “s” intervocalica, sempre
aspra (riprenderemo ancora questo argomento), si arricchi-
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3. L’INTONAZIONE
3.1 La prosodia
L’intonazione 61
È altresì un bene inestimabile che ogni soggetto abbia i suoi
ritmi fonetici e rallenti e acceleri le parole in modo sempre
originale e (in parte) imprevedibile.
È vero però che una totale assenza di riferimenti e la più
insensata gestione prosodica possono produrre confusione
nella comunicazione e noia o disinteresse nell’ascoltatore.
Insomma: ognuno potrà intonare una domanda – o un’affer-
mazione, una richiesta – nel modo più personale, ma in
ogni caso la frase pronunciata dovrà testimoniare il suo es-
sere domanda, pena l’assenza di risposte e l’interruzione del
flusso della comunicazione. E – nel caso di una domanda:
qualunque essa sia, in qualsiasi modo venga formulata –
questa dovrà seguire alcuni generali andamenti intonativi:
una “curva” sinuosa a forma di onda (o di accento circon-
flesso) che ne accompagnerà l’esecuzione.
Cercheremo quindi, pur ribadendo le ragioni della liber-
tà prosodica individuale, di schematizzarne comportamenti
e direzioni generali: utili per evitare eventuali “cadute” into-
native, per ri-ascoltare in modo più attento i nostri anda-
menti melodici, per verificarne e accrescerne la ricchezza (o
denunciarne la povertà) in termini espressivi e relazionali.
L’intonazione 63
forma di messaggio orale: per lo meno nelle sue caratteristi-
che basiche. Prendiamo la frase “Giovanni ama Teresa”. La
lingua italiana (quella latina, molto meno) si è abituata a or-
ganizzare le sue proposizioni partendo dal soggetto, per poi
arrivare all’eventuale complemento: se qualcuno non ci
spiega il contrario, dalla lettura della frase precedente rica-
viamo che “Giovanni” ama Teresa (e anche se non è detto
che quest’ultima ricambi).
Non sempre la sequenza “soggetto-predicato-comple-
mento” è confermata mentre parliamo. Talora ci càpita di in-
vertire quest’ordine (“complemento-predicato-soggetto”) e –
pur mantenendo la stessa sequenza di parole – comunichia-
mo allora un altro messaggio, completamente diverso dal
primo: “Giovanni (proprio lui!) è amato da Teresa”, come se
alla domanda “chi ama, di chi è innamorata Teresa?” repli-
cassimo con la risposta “è innamorata di Giovanni” (e, quin-
di, con la virgola dopo il complemento: “Giovanni, ama Te-
resa”).
Se dunque ripetiamo l’informazione con questa intenzio-
ne – “è Giovanni che Teresa ama” – la composizione delle
altezze intonative e degli andamenti prosodici delle due di-
verse frasi sarà necessariamente diversa. Nel primo caso (in
cui il soggetto è Giovanni: “Giovanni ama Teresa”), ci “in-
nalzeremo” con il timbro mentre diciamo il soggetto. Nel se-
condo, differente caso (in cui il complemento oggetto è
Giovanni: “Giovanni, ama Teresa”), durante la pronuncia di
Giovanni, saremo costretti a una discesa del timbro. Infine,
probabilmente faremo una pausa appena più lunga, come
se mentalmente pronunciassimo qualcosa tipo “sì, proprio
lui”: “Giovanni (sì, non altri), ama Teresa”.
Insomma, una identica sequenza di parole può assume-
re, nell’atto del parlare, sfumature, colori, ma anche signifi-
cati e contenuti completamente diversi. E tutto questo è de-
terminato solo grazie agli andamenti prosodici utilizzati nel-
la nostra produzione verbale.
Se, attraverso lo strumento librario (quello di cui qui di-
sponiamo), è oggettivamente complicato descrivere l’anda-
mento “medio” della frase (più comodo sarebbe una audio-
cassetta o un pentagramma, o anche un quaderno a qua-
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L’intonazione 65
espressiva potrà produrre aggregazioni differenti da quanto
noi stiamo indicando; se le nostre puntualizzazioni fossero
però del tutto ribaltate, la percezione di “stonatura” torne-
rebbe riaccresciuta. Di più: non si capirebbe il senso di
quello che vogliamo esprimere.
Stiamo parlando di contenuto e di sintassi, e questo ci
porta a evidenziare quelle che sono le parti costitutive del
discorso: i suoi snodi narrativi. Proporremo quindi una ver-
sione, più semplice e funzionale al nostro discorso, di “ana-
lisi del periodo”. Conosciamo, evidentemente, la differenza
tra analisi logica e analisi grammaticale, e le canoniche “par-
ti del discorso”: nome, articolo, aggettivo, pronome… Qui
però, ora, vogliamo riprendere solo quelle categorie più im-
plicate nella dimensione fonetica, operando una sovrapposi-
zione e una semplificazione molto nette (non ce ne vorran-
no grammatisti e italianisti) di tali procedimenti.
Privilegeremo quattro categorie – quella del soggetto, del
predicato verbale, del complemento e dell’avverbio –, inten-
dendole nella loro accezione più estesa. Suggeriamo di ri-
flettere sull’utilità di questo procedimento, portatore, a no-
stro avviso, di una maggiore comprensione e di una effica-
cia comunicativa del testo da recitare (o di una qualsiasi no-
stra frase da pronunciare).
Facciamo un esempio: pronunciamo la frase “quel gior-
no di ottobre, gli amici del generale Anselmi decisero di
non rifiutare una grandiosa cena offerta in loro onore”. Da
un punto di vista canonico, l’analisi, se fosse grammaticale,
ci porterebbe a stabilire che “quel” è un aggettivo dimostra-
tivo, “giorno” è il nome, “di” è una preposizione semplice,
etc. Se l’analisi fosse logica, troveremmo un complemento
di tempo, un soggetto, il suo complemento di specificazio-
ne, etc.
Noi chiediamo invece in modo meno raffinato e più ge-
nerale di pensare a “quel giorno di ottobre” come a un av-
verbio; “gli amici del generale Anselmi” rappresenta per noi
il soggetto; “decisero di non rifiutare” è invece il predicato
verbale; mentre “una grandiosa cena offerta in loro onore” è
il complemento oggetto dell’intera frase.
Nel nostro oggetto di indagine, rivendichiamo l’utilità
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L’intonazione 67
se pronunciamo la frase in modo descrittivo, senza enfasi su
alcuni suoi aspetti interni (cioè sul fatto che sia proprio “An-
selmi” e non un altro; che “mangi” la mela, e non la rifiuti),
rispetteremo grosso modo il disegno del trapezio appena
presentato.
Le pause – in questa frase solo accennate – sono natu-
ralmente tese a evidenziare questi pilastri rappresentati dal
soggetto, dal predicato e dal complemento oggetto. Col sog-
getto tenderemo a far salire la nostra intonazione, mentre
con il complemento la faremo scendere. Se seguiremo que-
ste semplici attenzioni prosodiche, chiunque ci ascolta capi-
rà che con “unamela” abbiamo terminato la nostra frase;
mentre, se altereremo tali indicazioni, qualcuno potrebbe
fraintenderne il significato: “Anselmi” potrebbe essere un
vocativo; “unamela” potrebbe essere seguìta da qualcos’altro
(O, Anselmi, mangia una mela… e una pera!).
Se siamo d’accordo che la prima intonazione (Anselmi
mangia una mela) è completamente diversa dalla seconda,
nella quale pure queste parole sono inscritte (O, Anselmi,
mangia una mela… e una pera!), passiamo a confrontarci
con la frase – più complessa – iniziale. Notando sùbito che
tra “gli amici del generale Anselmi” (soggetto della prima
proposizione) e “Anselmi” (soggetto della seconda) non c’è
differenza intonativa. Entrambi sono attraversati da curve e
movimenti, ma questi sono tra loro sostanzialmente coeren-
ti: un po’ come se “in scala” i due soggetti assecondassero
le medesime istanze, come se “al microscopio” potessimo
cogliere nei movimenti intonativi di “Anselmi” gli stessi, più
evidenti, di “gli amici del generale Anselmi”.
Anche le altre porzioni di frasi sono tra loro commensu-
rabili – si muovono seguendo le stesse direzioni –, e se ci
impegniamo a sostituire il primo “decisero di non rifiutare”
con il secondo “mangia”, ci rendiamo sùbito conto che le
due proposizioni seguono un’analoga altezza intonativa e
una identica tensione prosodica. Lo stesso vale per “una
grandiosa cena in loro onore” e “una mela”, i due comple-
menti oggetti delle differenti frasi.
E, ancora una volta, così come non è ipotizzabile alcuna
pausa tra “una” e “mela” (unamela), allo stesso modo sarà
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L’intonazione 69
sivamente, pena la confusione nel mio ascoltatore (e in me,
narratore).
Sto parlando di Anselmi e del fatto che ieri ha mangiato
una mela, e voglio anche aggiungere altri elementi: “ieri, o
forse l’altroieri, non mi ricordo bene, Anselmi ha mangiato –
anzi, ha letteralmente sbranato, che poi non fa parte del suo
carattere – una mela”.
Già questi parziali inserimenti corrono il rischio di pre-
giudicare la comprensione della mia frase (e chi mi sente
avrà un po’ di difficoltà a collegare il complemento oggetto
– “una mela” – con il soggetto iniziale: “Anselmi”). Se men-
tre parlo opero altri due o tre inserimenti di questo tipo,
l’incomprensione sarà totale: “ieri, o forse l’altroieri, non mi
ricordo bene, eppure sto prendendo pillole per la memoria,
Anselmi ha mangiato, anzi ha sbranato, che poi non fa parte
del suo carattere, e comunque gliel’ha consigliato un medi-
co, una mela”.
La frase è lunga, contorta e disordinata, ma riprende un
modello più o meno usuale e quotidiano di relazionarci (ed
è così che i nostri autori più recenti scrivono i propri testi
teatrali, cinematografici e poetici). Spesso, durante le nostre
conversazioni, ci aiutiamo con gesti e con ripetizioni, men-
tre altre volte ci blocchiamo, e riprendiamo dall’inizio. L’aiu-
to più alto però, ancora una volta, è offerto da un (anche
inconsapevole) sostegno prosodico e intonativo: dalla capa-
cità di accompagnare le singole porzioni del nostro pensiero
con appropriati ritmi e altezze timbriche.
Per precisare ancor meglio quest’ultima affermazione,
concentriamo la nostra attenzione su altri due aspetti: a) sul-
la particolare intonazione delle parentetiche nel loro attacco
iniziale e nel loro termine; b) sulla differenza di velocità che
caratterizza una frase “normale” (per esempio una principa-
le) dagli inserimenti parentetici e incidentali che operiamo
nella stessa frase. Ci sembra tutto uguale?
Vediamo (anzi: sentiamo). La frase iniziale era la descrit-
tiva “Anselmi mangia una mela”, e questa sarà prodotta con
le già chiarite salite e discese intonative (ci rifacciamo per
comodità al trapezio precedente). Se però inserisco una
proposizione incidentale (Anselmi, che è un mio amico di
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L’intonazione 71
È evidente che in una qualsiasi interpretazione (attoriale
e non) potremo decidere di valorizzare appieno la presenza
prosodica della frase che stiamo pronunciando, ma potremo
anche attenuarla, spegnerla, ribaltarla. Se recito la parte di
uno stupido o di una persona noiosa o annoiata, se il mio
personaggio ha turbe psichiche e sbalzi d’umore sarò atten-
to a produrre in maniera irregolare il mio andamento proso-
dico. È altresì evidente che solo una consapevolezza della
ricchezza e della generale logica e architettura che caratte-
rizza i parametri intonativi mi può permettere una loro con-
traddizione e neutralizzazione.
L’intonazione 73
Nella proposizione “Anselmi mangia una mela”, ogni
segmento vedrà salire e scendere l’intonazione: “Anselmi”
forse salirà ad “an” e scenderà a “selmi” (o il timbro si im-
pennerà dicendo “anse” per poi cadere nel successivo
“lmi”), così come il picco di “una mela” potrà essere diffe-
rentemente pronunciato dalle diverse cantilene, ma sempre
saranno evidenti cadute e cedimenti intonativi. Detto con
un’altra approssimazione: mentre nella frase “corretta” avre-
mo un unico trapezio (o, se si vuole, un unico semicerchio)
nel quale inscrivere l’intera frase, in quella cantilenata i tra-
pezi si realizzeranno “durante” e “dentro” tutti gli snodi co-
stitutivi della frase (nel soggetto, nel verbo, nel complemen-
to, nell’avverbio).
Secondo questa logica, è da considerarsi cantilena anche
quella particolare forma di intonazione che tiene costante-
mente aperta ogni porzione della frase, come se essa fosse
sempre seguìta da puntini di sospensione. È, questa, una
forma espressiva molto presente in una qualsiasi fonazione
“nervosa” ma, ancora di più, nelle abitudini dei nostri spea-
ker radiofonici e televisivi, e più in generale delle persone
impegnate a leggere testi dando continuamente l’impressio-
ne di una “non conclusione” degli stessi: “ehm… ora…,
ehm… passiamo…, ehm… al nostro, ehm… servizio,
ehm… dall’estero!”.
Ogni singola parola in questo caso si innalza e, pur non
arrivando al punto intonativo di partenza (rimanendo un po’
più su), fa registrare una sua parziale discesa al termine del-
la stessa parola. Ancora una volta, quelle che sono le carat-
teristiche corrette di un buon andamento prosodico – la sua
“aria”: la frase che nasce, si innalza, staziona, si impenna e
poi, solo nella sua conclusione, riportata al suo timbro più
basso – vengono alterate e, nella continua ripetitività di sali-
te e discese dell’intonazione delle singole parole, contrad-
dette e banalizzate.
Un esercizio utilissimo nel tentare di fermare l’eventuale
cantilena è quello della scansione: sillabica e terminologica.
Si tratta semplicemente di impegnarsi, per qualche minuto,
a leggere un testo dividendolo in sillabe e, dopo, in parole:
mantenendo però una intonazione astratta, neutra, come se
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I difetti di pronuncia 75
chiede la gestione di un armonico sostegno: prosodico e in-
tonativo.
4. I DIFETTI DI PRONUNCIA
4.1 Le motivazioni
I difetti di pronuncia 77
un maggiore impegno fonoarticolatorio – la tentazione di
saltarne una parte, semplificando o “mangiando” la sillaba
ripetuta. “Proprio” diventa “propio” (e “proprietà” si assotti-
glia in “propietà”), “avevàmo” si semplifica in “avàmo”, e la
sequenza tra “sessanta e settanta” si prosciuga in ‘santa,
‘santuno, ‘santadue… (così come la pronuncia legata dei
numeri sedici-diciassette con le sillabe “dici-dici” ripetute
sempre più si altera in “se-diciassette”).
Allo stesso modo vanno interpretate – e, nell’atto della
recitazione, pronunciate con maggiore attenzione – le paro-
le che vedono la ripetizione di sillabe equivalenti da un
punto di vista fonatorio. Ci riferiamo alla classificazione la-
biali, alveolari, dentali, dapprima esplicitata, ritrovando
analoghi “ostacoli” nei blocchi “r-l-n”, “k-gh”, “t-d”, etc. La
difficoltà che incontro nel dire “capire realmente…” o “capi-
vo volentieri” (laddove troviamo la ripetizione delle sillabe
“re-re” e “vo-vo”) è infatti analoga a quella che provo nel
pronunciare “mangiare legumi” o “cercavo fotografie”: an-
che in questo caso, chiedo alla lingua di battere due volte,
consecutivamente, nello stesso luogo di articolazione. E il
nostro inconsapevole rifiuto, per pigrizia e disimpegno, può
diventare una dannosa abitudine nel quotidiano esercizio
del parlare.
Del primo ordine di problema (che abbiamo definito fi-
siologico: dentatura disallineata, alterazione mascella-mandi-
bola, etc.) non possiamo purtroppo offrire rimedi compiuti
(raccomandiamo però esercizi fonarticolatori e di sillabazio-
ne) mentre, per le altre due tentazioni (cedere alle abitudini
territoriali, impigrire la nostra fonazione), forniremo indica-
zioni più puntuali e specifiche.
Consigliamo comunque – a tutti i lettori del presente te-
sto – di seguire per intero ogni successivo paragrafo. È in-
fatti molto probabile che alcune indicazioni rivolte soprattut-
to alle abitudini di pronuncia “settentrionali” siano riscontra-
bili in aree geograficamente distanti, e viceversa. È altresì si-
curo che solo una attenta valutazione delle differenti pro-
nunce regionali e cittadine possa determinare una padro-
nanza completa del proprio repertorio fonetico.
Imp. 100 monologhi 29-01-2008 15:49 Pagina 78
I difetti di pronuncia 79
quello a sud di Rimini: La Spezia-Ancona o La Spezia-Mace-
rata) è significativa per due fenomeni precisi: la riduzione
dei suoni doppi (o scempiamento) e il permanente addolci-
mento della “s” intervocalica.
Fortemente legati alle abitudini fonetiche europee (fran-
cesi, tedesche, inglesi in primo luogo), gli abitanti al nord
del Rubicone pronunciano con la “s” in forma dolce tanto le
parole dotte (per esempio “fantasia”, “poesia”, “paradiso”,
“musica”) quanto quelle “volgari” (casa, naso, cosa, asino),
sia i suffissi “nobili” (òsi, èsimo, ésimo: nevròsi, osteoporòsi;
il novantèsimo incantésimo, l’ennèsimo protestantésimo) sia
quelli più usuali (ése e óso: catanése, torinése, famóso, stu-
dióso), nonché tutte le parole “composte” (ri-serva, di-se-
gno, de-siderio).
A fronte del preponderante addolcimento della “s” in
posizione intervocalica, va ricordata anche un’altra deforma-
zione nella quale è coinvolto soprattutto il lato orientale del
settentrione italiano: la sostituzione – quando è preceduta
dalla consonante “n” – della “s” aspra. Troviamo quindi
“tranzazione”, “conzonante”, “intranzigente” in luogo delle
corrette “transazione”, “consonante”, “intransigente”.
Il secondo “difetto” – diffuso e trasversale – è però sen-
z’altro più grave, sempre riconducibile a un’abitudine “nor-
dica” (francese, tedesca, inglese, etc.): la lingua settentriona-
le – da Sanremo a Trieste, da Sondrio a Forlì – percepisce
come poco significativa l’intensità di alcuni suoni consonan-
tici (quelli che scriviamo come doppi) nelle parole e nelle
frasi. “Gennaro balla benissimo” corre il rischio di diventare
“Genaro bala benisimo”, “Giovanni legge troppo” si indebo-
lisce in “Giovàni lege tropo”, e così via.
Questa regressione è ancora più evidente e ripetuta lad-
dove in realtà la forma scritta non indica l’intensità del suo-
no (e che invece, nel resto d’Italia, si dà più o meno per ac-
quisita): e questo succede nei raddoppiamenti fonosintattici
e nel dimezzamento dei quattro suoni dapprima segnalati
come “intervocalicamente” doppi: “gn”, “gl(i)”, “sc(i)”,
“z(z)”.
Domande o frasi come “che figlia sogni?”, “è tornato lu-
nedì mattina!” (che andrebbero pronunciati “cheFFiGLiaso-
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I difetti di pronuncia 81
nato nel “‘santaquattro” (o, addirittura, nel “‘san’quatro”),
noi capiamo comunque che intendeva dire “sessantaquat-
tro”. Questa “percezione accomodante” è per certi versi un
bene (se fossimo esigentissimi, saremmo sempre costretti a
far ripetere la frase al nostro interlocutore). Finisce però con
l’essere un grave danno se ripetuta nel corso di dialoghi e
comunicazioni verbali: finisce col produrre ambiguità, incer-
tezze, incongruenze nella nostra comprensione. L’invito è
quindi quello di cogliere bene la differenza tra gruppi doppi
e non: magari (l’esercizio è elementare, ma può essere utile)
ripetendo con correttezza (e forza) ad alta voce – e autoa-
scoltandosi – le sequenze numeriche da sessanta a settanta,
da settanta a ottanta e da ottanta a novanta (e, anche, da
settecentosettanta a settecentonovanta, e così via).
I difetti di pronuncia 83
“gorgia”: un termine che significa esattamente “gola” e che
vede la “spirantizzazione” (una specie di eliminazione e di
“soffio”) della “c” gutturale (anche “gutturale” proviene, tra
l’altro, dalla parola “gola”). Il tutto, ancora una volta, princi-
palmente in posizione intervocalica: “sono comuni cose di
casa” diventa così “sono ‘homuni ‘hose di ‘hasa”.
Un’ultima, piccola alterazione fonetica fiorentina è legata
all’uso della preposizione “da”, pronunciata sempre (erro-
neamente) alla stregua di un raddoppiamento fonosintattico.
“Vado da Firenze ad Aosta” e “da Michele e da Tommaso
non mi aspetto granché” vengono infatti pronunciati in que-
sto modo: “vado daFFirenze ad Aosta” e “daMMichele e
daTTommaso non mi aspetto granché”.
I difetti di pronuncia 85
li: “r”, “n”, “l”. Il primo suono (quello più evidente) è allen-
tato in parole come “erore”, “guera”, “orore”, “tera” (anziché
“errore”, “guerra”, “orrore”, “terra”). Anche la doppia “l” e la
doppia “n” seguono però questo percorso di indebolimento:
nel primo caso (soprattutto nelle preposizioni articolate) fa-
cendo pronunciare “nela casa dela signora”, “nele sere dela
primavera”; nel secondo portando a dire, talora, “(h)ano fat-
to male, (h)ano sbagliato” o, più “coerente” e più errato,
“(h)ano sbaijato”.
Per quanto riguarda l’uso delle “e” e delle “o” a Roma,
va fatta una ulteriore puntualizzazione, dichiarando la larga
correttezza della pronuncia di queste due vocali. (Si tratta di
una correttezza circoscritta a Roma, quasi un’isola all’interno
della regione laziale, nella quale la capitale d’Italia è collo-
cata. E, per rendersene conto, è sufficiente ascoltare una
pronuncia reatina e frusinate, molto più distante da Roma –
e da Firenze – piuttosto che da Napoli o Salerno.)
Va quindi chiarito che tale specifica e circoscritta “diver-
sità” romana si sostanzia a partire dal XVI secolo. Durante il
periodo rinascimentale, furono eletti molti papi di prove-
nienza fiorentina. E questo comportò l’arrivo, a Roma, di
“cancellerie” – intellettuali, scrittori, giuristi – della stessa cit-
tà di Firenze. È evidente, quindi, che tra la pronuncia roma-
na e quella “petrarchesca” in auge nel Cinquecento – e
quella che si è sviluppata fino ai nostri giorni – ci siano nu-
merosissime affinità e convergenze. Sono rimasti – ribadia-
molo – gli scempiamenti tipici dell’area (ci, gl(i), r, l, n); si
sono mantenuti i raddoppiamenti errati di “b”, “g” e “m”, ma
le aperture e chiusure delle due vocali “e” e “o” sono so-
stanzialmente corrette.
Per rendere ancora più completa questa porzione “ro-
mana” del paragrafo, segnaliamo comunque alcune infedel-
tà o incongruenze di pronuncia: parole che, evidentemente,
tradiscono altre, errate derivazioni. Ci sembra utile segnalare
tali alterazioni di pronuncia soprattutto in relazione all’alto
potere di condizionamento che le abitudini fonetiche roma-
ne hanno nei confronti dell’intera pronuncia nazionale.
I termini più ricorrenti – e travisati – sono i seguenti
(qui proporremo l’accentazione corretta): ahimè, atróce,
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I difetti di pronuncia 87
tudine a sostituire la “ch” con la “gh”, la “ci” con la “gi”, la
“p” con la “b”, la “z” dolce a quella aspra nonché alla “s”
aspra (“penzo”, “inzomma”, “menzola”).
Tale errore, lo si ricorderà, è già stato segnalato. Esso af-
fonda le sue ragioni in una maggiore comodità del movi-
mento delle corde vocali (è più faticoso dire “neanche un
momento” piuttosto che “neanghe un momendo”); ma esso
è forse rafforzato dal tipo di pronuncia osca (una popolazio-
ne contemporanea a quella etrusca, con forte preponderan-
za consonantica dolce), che proprio in queste zone aveva
alcuni dei suoi massimi epicentri.
Di fronte a questa alterante abitudine, consigliamo un
esercizio di ripetizione di tali coppie di consonanti, facen-
dole precedere dal suono “n” (e “m” per la “b”). Suggeria-
mo cioè di dire – ad alta voce e con forza – “mp-mb, mp-
mb, mp-mb…”, “nch-ngh, nch-ngh, nch-ngh…”, “nci-ngi,
nci-ngi, nci-ngi…”. Suggeriamo, parallelamente, di ripete-
re la sequenza alternando ritmi lenti con ritmi più veloci e
serrati.
Dopo questa sorta di “ginnastica consonantica”, meglio
se differenziata nei ritmi e nelle velocità, è ovviamente ne-
cessario inserire i suoni cui facciamo riferimento in parole e
frasi compiute (del tipo “un’ombra in campo”, “ti compro
un rombo”, “ti mangio la pancia”, “ti compiango sempre”,
etc.), sì da verificarne la corretta pronuncia.
La semplice, specifica ripetizione e diversificazione di ta-
li suoni, unitamente a un costante autocontrollo, non può
che rivelarsi benefico e, dopo un po’, risolutivo.
I difetti di pronuncia 89
tori centromeridionali dapprima elencati si è invece attestato
un adeguamento alla fonetica fiorentina-italiana (per ciò che
concerne le “e” e le “o” toniche), dettato da un unico ele-
mento, ossia il numero delle consonanti che segue le due
vocali.
Questa regola è presto detta: se la “e” o la “o” tonica so-
no presenti in parole piane – e sono seguite da una sola
consonante – le due vocali vengono pronunciate in forma
chiusa; in tutti gli altri casi alle vocali viene assegnato il suo-
no aperto.
In virtù di questa legge, abbiamo la pronuncia di parole
come “candéla”, “méla”, “mése”, “néro”, “pianéta”, “sóle”,
“sólo”, “téla”, “véla” (vocaboli piani con le “e” e le “o” se-
guìti da una sola consonante); e di vocaboli tipo “cèdola”,
“caffè”, “dèstra”, “fòrte”, “govèrno”, “pènso”, “nò”, “pèrdo”,
“tèmpo”, “thè” (che rappresentano altri tipi di parole: tron-
che, sdrucciole, oppure con le due vocali seguìte da due o
più consonanti).
Tutti gli esempi finora riportati sono in linea con la pre-
scrizione della pronuncia latina-fiorentina-italiana. Questo
però è determinato da una semplice e fortuita coincidenza,
giacché questo modello – sempre legato alla regola del nu-
mero delle consonanti che segue la vocale – produce invece
l’errata pronuncia di parole come “avèvano”, “béne”, “ciélo”,
“cósa”, “diéci”, “domènica”, oppure “agòsto”, “bòmba”,
“concòrso”, “permèsso”, “pòsto”, “vètro”, e numerosissimi
altri vocaboli. E sarà facile sentire locuzioni e frasi come
“cóvo le uóva”, “un tònno insònne”, “tòrno con un fòrno”
(anziché le corrette “cóvo le uòva”, “un tónno insònne”,
“tórno cón un fórno”).
Per quanto riguarda la presenza di parole tronche,
sdrucciole o bisdrucciole, avremo la pronuncia (casualmen-
te corretta) di “cèrnita”, “còmico”, “còstola”, “mètrico”, “mò-
dulo”; così come di “bignè”, “caffè”, “spòrt”, “strèss”, “tèst”;
ma anche (erronee) di “crédito”, “débole”, “fégato”, “fémmi-
na”, “onorévole”; e, ancora erronee, di “mé”, “né… né..”,
“perché”, “tra sé e sé”, “tré” (dette, in questi territori, in mo-
do aperto).
In tale breve partizione, fanno eccezione (sembrerebbe)
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I difetti di pronuncia 91
mento dei suoni che seguono le consonanti “n” e “m” e, in-
fine, alla palatalizzazione della “s” seguìta dalle consonanti
“t” e “d”.
In ogni circostanza (sillabe libere o implicate, vocali se-
guite da nasali o buccali, seguite da una o più consonanti,
etc.), sarà facile sentire le “e” e le “o” dette in forma aperta:
“l’amòre avèva in sè ògni fòrma di calòre e di sapòre, e sè
la naziòne avèsse dètto lòro ‘cèrcalo’, i rè e le mògli, princi-
pèsse torinèsi e catanèsi avrèbbero dato sèguito a èsso:
l’amòre”. Così proposte, le parole e le frasi faranno inevita-
bilmente registrare una ulteriore penalizzazione della loro
varietà e ricchezza accentuativa: l’orchestrazione vocalica ri-
sulterà ancora più piatta e ripetitiva.
A ciò va aggiunto infine l’addolcimento, ancora più net-
to che nei territori meridionali abruzzesi, pugliesi e lucani,
del suono “z”: in ogni posizione, intervocalica e non. Avre-
mo quindi “fazzoletto”, “alzare”, “nazione”, “organizzazio-
ne”, “polizia”, “letizia”, etc.
Salento, Calabria e Sicilia, pur avendo molte caratteristi-
che fonetiche tra loro accomunabili, lasciano emergere an-
che, evidentemente, distanze e differenze.
Una particolare rilevanza assume, in Calabria, la pronun-
cia “cacuminale” dei suoni alveolari e (in minor misura)
dentali. Si tratta dell’innalzamento forzato della punta della
lingua nella pronuncia di “l”, “r”, “n”, “d” e “t”: un innalza-
mento che ne modifica il suono rendendolo quasi “aspirato”
ed enfatizzato.
Un altro elemento di differenza – che caratterizza la zo-
na più a sud della Calabria e larga parte della Sicilia – è il
raddoppiamento fonosintattico riservato alla lettera “r”. Tale
consonante, se preceduta sia da suoni accentati (come sa-
rebbe giusto), sia da vocali non accentate (come invece non
è consigliato), viene raddoppiata e rafforzata: producendo
pronunce del tipo “santa (r)Rosalia”, “la (r)resa dei conti
(r)riserverà sorprese”, etc.
L’addolcimento consonantico, invece, fa sì che risulti più
facile dire – fenomeno comune, come già visto, ad altri ter-
ritori – “neanghe un momendo ho imbarato il frangese”, e
comportamenti fonetici similari: “son gingue giorni che”, etc.
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I difetti di pronuncia 93
china”. E le macchine vanno curate, mantenute, aggiornate,
usate.
Gli esercizi che abbiamo consigliato, e altri che qui illu-
streremo, possono sembrare artificiosi (taluni anche un po’
bizzarri), ma vale il principio di una serena abitudine all’au-
tocontrollo: come se ogni tanto, mentre parliamo, ci ascol-
tassimo, sorvegliassimo, rettificassimo. E vale la consapevo-
lezza che la nostra macchina fonatoria è dotata di un’impal-
catura e un’architettura ampia, plurale, multiforme.
Parliamo muovendo le labbra, ma anche distanziando
mascella e mandibola; parliamo respirando, ma contempo-
raneamente facendo danzare in continuazione la nostra lin-
gua: un balletto in cui punta, corona, dorso, radice sono in
coerente movimento; piccoli avanzamenti e spostamenti mi-
nuti (talora pochi millimetri) producono un suono anziché
un altro, e così via. E allo stesso tempo la paziente elasticità
delle corde vocali – il loro avvicinarsi, tendersi o distendersi
– ci regala la giusta alternanza di suoni dolci e aspri di cui si
nutre la lingua italiana. E infine il naso, che serve per inspi-
rare l’aria ma che, grazie all’aiuto della radice della lingua
che si inarca, risulta necessario anche alla formazione dei
suoni nasali che compongono il nostro alfabeto.
Gli esercizi – già presentati nel paragrafo sulla prosodia
(la cantilena) – sono sicuramente utili per abituarci a una
scansione e a una maggiore e più elastica fonoarticolazione.
Ugualmente efficaci si riveleranno gli esercizi di opposizio-
ne e discriminazione, suggeriti a proposito della debolezza
di pronuncia settentrionale dei suoni doppi: pronunciare
coppie come “ala-alla” (belo-bello, casa-cassa, etc.) impri-
mendo alle seconde una maggiore potenza di fiato e di
emissione.
Analoghi esercizi di contrapposizione sono consigliati in
ogni tipo di alterazione e confusione fonetica. Così, se ad
esempio noto una macchinosità (o una sostituzione) tra i
suoni “nch-ngh”, varrà la pena proprio insistere sulla pro-
nuncia di questa coppia: dicendo, ad alta voce, “ngh-nch,
nghngh-nchnch, nghnghngh-nchnchnch”. Poi si potrà passa-
re alla medesima pronuncia con ritmi differenti (lento, nor-
male, veloce, velocissimo); e, sùbito dopo, converrà inserire
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questi suoni in vere e proprie parole o frasi (del tipo “il san-
gue anche”, “pingui fianchi”, “lunghe panche”, etc.).
Se, allo stesso modo, ho difficoltà nel percepire –
e quindi nel produrre – le differenze tra “sc(i)” o “z” inter-
vocalici (che, come si ricorderà, vanno pronunciati in mo-
do intenso, come fossero “doppi”), comincerò dicendo
più volte “sc-SC, sc-SC”; “gn-GN, gn-GN”, per poi pronun-
ciare – con determinazione e impegno – “scena-laSCena”,
“sciroppo-loSCiroppo”; “gnocchi-gliGNocchi”, “gnomo-lo-
GNomo”, etc.
Ugualmente utile si rivelerà l’allenamento della lingua e
dei muscoli del viso: i già ricordati muscoli orbicolari, zigo-
mali, buccinatori, risori, canini. Se abbiamo difficoltà a pro-
nunciare in modo perfetto suoni come la “r” (o la “gl(i)”, la
“ci”, la “gi”), bisognerà orientare la lingua in modo più deci-
so e preciso verso il suo relativo luogo di articolazione: il
dorso verso il palato per la “gl(i)”, la corona verso gli alveoli
per la “c(i)” e la “g(i)”. (Esercizi più mirati sono stati illustra-
ti nel capitolo 4, par. 4, relativo al centrosud tirrenico, e a
essi si rimanda per un ulteriore controllo e verifica.)
Per quanto riguarda la “r”, bisognerà impegnarsi a smor-
zare il coinvolgimento della radice della lingua, interessando
esclusivamente la punta della stessa: nel medesimo luogo di
articolazione di “l”, “n”, un po’ più su di quando normal-
mente diciamo “d” oppure “t”. Se mi concentro su questi
due aspetti – radice rilassata, punta della lingua che spinge
verso gli alveoli – la mia pronuncia migliorerà sicuramente.
Un ulteriore progresso potrà derivare dalla pronuncia con-
giunta della “r” con altre consonanti “prossime” (T-R, D-R,
L-R, N-R), nonché, successivamente, dalla “r” in posizione
intervocalica, e poi doppia (ara, ère, ére, iri, òro…; arra, èr-
re, érre, irri, òrro…).
Sempre – comunque – è opportuno sciogliere e tenere
elastici i muscoli del viso, con distanziamenti della mandi-
bola dalla mascella e con movimenti di apertura e chiusura
della bocca: meglio se ampi, esagerati, estremi. Consiglia-
mo, ad esempio, una finta masticazione che veda dapprima
le labbra (superiori e inferiori) rientrare nella bocca, per poi
uscirne una volta spalancata la stessa; e quindi, dopo aver
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I difetti di pronuncia 95
portato avanti le labbra (come dessimo un vistoso bacetto),
riportarle all’interno della bocca, circolarmente.
Per indicazioni più schematiche e precise rinviamo al
nostro Manuale di dizione, voce e respirazione (corredato
da numerose fotografie) ma, per ora, basti riflettere sulla ne-
cessità di tenere vivi e in movimento i muscoli fonatori: pro-
ducendo “boccacce” e disegnando facce esagerate ed estre-
me, con il massimo vigore e coinvolgimento dei muscoli
che ci interessano.
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SECONDA PARTE
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Avvertenza
Avvertenza 99
tattici, abbiamo messo in atto quanto argomentato nel capi-
tolo 3, par. 2: relativo alla prosodia e alla nostra, particolare
proposta di dividere le frasi in soggetto, avverbio, predicato
verbale, complemento, o semplicemente di avere chiara la
distanza tra proposizioni principali e subordinate. Quindi,
mentre abbiamo segnato il raddoppiamento in frasi come
“tre corsari” (soggetto), o in “ho tolto” (predicato verbale),
non lo abbiamo indicato in “alle tre, corsari miei…” o
“quello che ho, tolto il mio onorario, è…”, laddove le paro-
le accentate concludono la porzione della frase e abbiso-
gnano di una relativa, successiva pausa.
Vale comunque – in ogni caso – il principio della legge-
rezza e sensibilità soggettiva nell’affrontare e rispettare tali
indicazioni: nell’evitare che la nostra dizione venga perce-
pita da chi ci ascolta come artificiosa e forzata e, infine, di
tener conto che – sempre – particolarissime condizioni (le-
gate al tipo di recitazione prescelto, alla personale volontà
interpretativa, o altro) potranno orientare la nostra esecu-
zione in modo più autonomo e personale.
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Francesco d’Assisi
Cantico di Frate Sole (1223)
Lotario Diacono
La vanità dei beni terreni (traduzione dal
latino de, 1280 circa)
Dante Alighieri
La Vita Nuova (1293)
Immanuel Romano
La frottola di “Bisbidis” (1320)
Francesco Petrarca
Voi ch’ascoltate in rime sparse il suono
(1350 circa)
Giovanni Boccaccio
Guiscardo e Ghismunda (1351 circa)
Luigi Pulci
Il Morgante (1478 circa)
Il Morgante 113
e se cón méco sarai accompagnato,
io ti farò a camin quél che è dovuto.
Dimmi più óltre: io nón t’ho domandato
se se’ cristiano o se se’ saracino
o se tu credi in Cristo o in Apollino –.
Rispóse allór Margutte: – A dirtel tòsto,
io nón crédo più al néro ch’a l’azzurro,
ma nel cappóne, o lésso o vuogli arròsto;
e crédo alcuna vòlta anco nél burro,
nélla cervògia e, quando io n’ho, nél mósto,
e mólto più nell’aspro che il mangurro;
ma sópra tutto nél buòn vino ho féde,
e crédo che sia salvo chi gli créde.
E crédo nélla tórta e nél tortèllo:
l’uno è la madre e l’altro è il suo figliuòlo;
e ‘l véro paternòstro è il fegatèllo,
e pòsson èsser tré, due éd un sólo,
e diriva dal fégato almén quéllo.
E perch’io vorrèi bér cón un ghiacciuòlo,
se Macométto il mósto vièta e biasima,
crédo che sia il sógno o la fantasima; (…)
S’tu mi vedéssi in chièsa sólo,
io són più vago di spogliar gli altari
che ‘l mésso di contado dél paiòlo;
pòi córro alla cassétta de’ denari;
ma sèmpre in sagrestia fo il primo vólo,
e se v’è cróce o calici, io gli ho cari,
e’ crocefissi scupro tutti quanti,
pòi vo spogliando le Nunziate e’ santi. (…)
Io t’ho lasciato indrièto un gran capitolo
di mille altri peccati in guazzabuglio;
ché s’i’ voléssi lèggerti ogni titolo,
e’ ti parrèbbe tròppo gran miscuglio;
e cominciando a sciòrre óra il gomitolo,
ci sarèbbe faccènda sino a luglio;
salvo che quésto, alla fine, udrai:
che tradiménto ignun nón féci mai –.
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Iacopo Sannazaro
L’Arcadia (1504)
L’Arcadia 119
Niccolò Machiavelli
La Mandragola (1518)
La Mandragola 121
Pietro Bembo
Prose della volgar lingua (1525)
Ludovico Ariosto
Il Negromante (1528 circa)
Il Negromante 125
Pietro Aretino
Dialogo della Nanna e della Pippa (1530 circa)
Annibal Caro
Gli straccioni (1543)
L’assiuolo 133
Gli uomini, avèndo a tòr dònna, tòlgono quasi sèmpre
chi éssi vògliono; a nói pér lo contrario ci convièn tòrre
chi ci è dato: e ci tócca talvòlta (misera a mé! e io ne pòs-
so far féde) ad avér uno, il quale (lasciamo stare che nél-
l’età égli sia così da nói differènte, che piuttòsto nòstro pa-
dre, che nòstro marito starèbbe bène) è così rózzo e inu-
mano, che piuttòsto una béstia di due gambe, che un uò-
mo chiamar si puòte.
Ma lasciamo andare il dolérse délla sòrte misera déll’al-
tre, e diciamo délla mia, di tutte le misere miserissima. Io
mi tròvo maritata a Messér Ambrògio, che potrèbbe èsser
mio avolo. Oh, gli è ricco! già nón mang’io pér quésto di
più un boccón di pane.
E al male déll’avére il marito vècchio, s’è accozzato
l’avérlo gelóso, gelóso a tòrto e d’una gelosia che io nón
crédo che la maggiore immaginare si pòssa: e così, pér la
gelosia, mi sóno (stati) tòlti gli spassi di fuòri, e pér la vec-
chiézza quélli di casa.
Né è bastato alla fortuna farmi tutti quésti mali, che él-
l’ha voluto, cón il farmi uno altro schérno, maggiorménte
pigliarsi giuòco di mé, facèndo innamorare quésto mio
vècchio pazzo, a chi mi pare che manchino a un tratto tut-
te le fòrze dell’ingégno cón quélle dél còrpo: e così (pòve-
ra Orétta, nón ti mancava altro!) stare in una prigióne a vi-
ta, avére il marito vècchio, gelóso, innamorato, e rimbam-
bito; acciocché i’ m’avéssi a condurre, pér riguidarlo a ca-
sa, ad avére in abito d’uòmo sulle quattro óre a scalar le
mura déll’òrto pér uscir di casa, andar pér Pisa travestita,
entrare pér le case altrui, e farmi fórse tenére quélla che io
nón fui mai, né mai èbbi intenzióne d’èssere.
E se nón ch’io crédo, che quésta abbia a èssere una òt-
tima medicina pér cavare chetaménte il pazzo dal capo a
quésto vecchiaccio, io la pigliavo altaménte. Ho io sentito
l’uscio di Madònna Anfrosina? Egli è ésso. Alò: la sèrva
m’accènna; via, che il tórdo è in gabbia: buòna séra, è ve-
nuto quésto valènt’uòmo!
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La gelosia 135
Torquato Tasso
Aminta (1573)
Aminta 137
che fórma un dólce riso in bèlla guancia;
e pur fa tanto grandi e sì mortali
e così immedicabili le piaghe.
Ohimè, che tutte piaga e tutte sangue
són le viscere mie; e mille spièdi
ha négli òcchi di Silvia il crudo Amóre.
Crudèl Amóre, Silvia crudèle ed émpia
Più che le sélve! Oh, cóme a te confassi
tal nóme, e quanto vide chi te ‘l pòse!
Cèlan le sélve angui, leóni ed órsi
déntro il lór vérde; e tu déntro al bèl pètto
nascóndi òdio, disdégno ed impiegate,
fére peggiór ch’angui, leóni ed órsi;
ché si placano quéi, quésti placarsi
nón pòssono pér prègo né pér dóno.
Ohimè, quando ti pòrto i fióri novèlli,
tu li ricusi, ritrosétta, fórse
perché fiór via più bèlli hai nél bèl vólto.
Ohimè, quando io ti pórgo i vaghi pòmi,
tu li rifiuti, disdegnósa, fórse
perché pòmi più vaghi hai nél bèl séno.
Lasso, quand’io t’offrisco il dólce mèle,
tu lo disprèzzi, dispettósa, fórse
perché mèl via più dólce hai ne le labbra.
Ma se mia povertà nón può donarti
còsa ch’in te nón sia più bèlla e dólce,
me medésimo ti dóno. Ór perché iniqua
schérni ed abbòrri il dóno? Nón són io
da disprezzar, se bèn me stésso vidi
nel liquido dél mar, quando l’altr’ièri
tacévano i vènti ed éi giacéa senz’ónda.
Quésta mia faccia di colór sanguigno,
quéste mie spalle larghe, e quéste braccia
toróse e nerborute, e quésto pètto
setóso, e quéste mie velate coscie
són di virilità, di robustézza
indicio; e se no ‘l crédi, fanne pròva.
Imp. 100 monologhi 29-01-2008 15:49 Pagina 138
Giordano Bruno
Il candelaio (1582 circa)
Il candelaio 139
Battista Guarini
Il pastor fido (1590)
La fantesca 143
Antonio Ongaro
Alceo (1592)
Alceo 145
va volontario a farsi prigionièro;
il sargo ama la capra,
la raia ama lo squadro,
la sépia ama la sépia,
la triglia ama la triglia,
il pèrsico l’occhiata;
e pér la cara amata
il velóce delfin gème e sospira. (…)
S’aman’ anco le piante;
aman le sièpi i flessuósi acanti;
e l’édere le viti
amano gli ólmi e i trónchi lór mariti;
la palma ama la palma in guisa tale
che nón sa viver sóla, o, se pur vive,
vive infecónda e mèsta:
amano i casti allòri;
l’alno rispónde sibilando a l’alno
e l’un pér l’altro platano sospira.
Amano i vérdi mirti
i purpurei granati:
e le pallide olive i vérdi mirti.
Ma che dico le piante e gli animali,
c(h)’hanno pur sènso e vita? Amano i sassi
c(h)’hanno l’èssere appéna.
Ne le rigide piètre
stanno le fiamme ascóse;
ama il iacinto il riso e l’allegria;
ama l’ambra la paglia;
ama l’asbèsto il fuòco;
altra piètra è ch’accésa
in mèzzo l’acque avvampa;
altra, che in mèzzo a l’acque anco s’accènde;
altra ch’eternaménte
lagrima pér amóre; ór tu da méno
èsser vuòi délle piètre?
Ah, dispietata Eurilla,
quésta tanta durézza ormai si spètre.
Imp. 100 monologhi 29-01-2008 15:49 Pagina 146
Judit 147
La Tancia 149
Metastasio
Attilio Regolo (1730) (?)
Carlo Goldoni
Il teatro comico (1750)
Pietro Chiari
Il filosofo viniziano (1753)
L auretta (a Valerio):
Se pochi ognór n’avéste, perché ne spèndi assai?
Perché quél tuo vestito ti còpra e ti riscalda
è superfluo quéll’òro, superflue quélle falde.
Tanta pólve sul crino ségno è di leggerézza,
se brami avérlo bianco, aspètta la vecchiézza.
Ah, móndo, móndo indégno! Un èstro in mé s’accènde
che m’agita, mi scalda, di me maggiór mi rènde.
Uòmini quanti siète, udite, io vi confóndo:
a tòrto vi doléte ch’è mal diviso il móndo.
I limiti ha distrutti un’avida paura:
tutto lo fè di tutti la pavida natura.
Comun l’aria agli uccèlli, a’ pésci l’oceàno,
la boscaglia alle fière, all’èrbe il mónte e il piano.
L’uòmo pér sé vuòl tutto; dall’uòmo sól s’udìo
délla natura a scòrno parlar dél tuo e dél mio.
Ecco pér sua difésa le sièpi e le muraglie,
ècco pér danno altrui le guèrre e le battaglie.
Si comincia co’ sassi, si crésce a pòco a pòco,
si dissottèrra il fèrro, si fa volar il fuòco.
Régni e città s’usurpano, s’usurpan mari e fiumi:
manca sól che si caccino anche dal cièlo i numi.
Se mal diviso è il móndo, cólpa dél Cièl nón è,
ognun vuòl tròppo, ognuno tutto lo vuòl pér sé.
Era già pòco il móndo all’alte sue domande
e brève fòssa ór chiude anche Alessandro il grande.
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Carlo Gozzi
L’amore delle tre melarance (1761)
Vittorio Alfieri
Mirra (1784)
Mirra 159
Ugo Foscolo
Tieste (1797)
Tieste 161
Vincenzo Monti
Caio Gracco (1799)
Silvio Pellico
Francesca da Rimini (1815)
Alessandro Manzoni
Il conte di Carmagnola (1819)
Giacomo Leopardi
Lettera al padre (1836)
Paolo Ferrari
Goldoni e le sue sedici commedie nuove
(1851)
Paolo Giacometti
La morte civile (1861)
Giovanni Verga
Cavalleria rusticana (1880)
Marco Praga
La moglie ideale (1890)
Gabriele D’Annunzio
La città morta (1898)
Carlo Bertolazzi
Il matrimonio della Lena (1900) (?)
Giuseppe Giacosa
Come le foglie (1900)
Roberto Bracco
Il piccolo santo (1909)
Sem Benelli
La cena delle beffe (1909)
Il re Baldoria 189
Luigi Chiarelli
La maschera e il volto (1916)
Ettore Petrolini
Nerone (1917)
Nerone 193
Luigi Antonelli
L’uomo che incontrò se stesso (1918)
Enrico Cavacchioli
L’uccello del paradiso (1919)
Luigi Pirandello
La vita che ti diedi (1923)
Achille Campanile
L’inventore del cavallo (1925)
Massimo Bontempelli
Minnie la candida (1927)
Sergio Tofano
Qui comincia la sventura del signor
Bonaventura (1927)
Italo Svevo
La rigenerazione (1928)
La rigenerazione 209
Cesare Zavattini
Totò il buono (1943)
Ugo Betti
Corruzione al Palazzo di Giustizia (1944)
Primo Levi
Se questo è un uomo (1947)
Alberto Savinio
Alcesti di Samuele (1948)
Alberto Savinio (il suo vero nome era Andrea De Chirico, Ate-
ne, 1891 – Roma, 1952) fu pittore – così come il fratello Gior-
gio –, scenografo, compositore, regista teatrale e lirico, scritto-
re. Dopo aver vissuto a Parigi (e aver dato prova di abilità
compositive con la partitura di apprezzatissimi balletti), Savi-
nio si trasferì in Italia laddove cominciò a scrivere testi dram-
maturgici di grande originalità, messi in scena, tra gli altri,
da Giorgio Strehler. Il suo stile – “metafisico” e “surreale” – lo
portò a prediligere temi mitologici e archetipici, risolti con
senso del distacco e dell’ironia, in una dimensione quotidia-
na e talora volutamente banale.
Corrado Alvaro
La lunga notte di Medea (1949)
Vitaliano Brancati
La governante (1952)
La governante 221
Luigi Squarzina
Tre quarti di luna (1953)
Dino Buzzati
Un caso clinico (1953)
Alberto Moravia
Beatrice Cenci (1955)
Peppino De Filippo
Metamorfosi di un suonatore ambulante
(1956)
Tommaso Landolfi
Landolfo VI di Benevento (1959)
Eduardo De Filippo
Il sindaco del rione Sanità (1960)
Giovanni Testori
L’Arialda (1960)
L’Arialda 237
Ennio Flaiano
Un marziano a Roma (1960)
Carmelo Bene
Pinocchio (1961)
Pinocchio 241
Franco Brusati
La fastidiosa (1963)
La fastidiosa 243
Edoardo Sanguineti
K (1964)
K 245
Natalìa Ginzburg
Ti ho sposato per allegria (1966)
Affabulazione 249
Amelia Rosselli
Diario ottuso (1968)
Dacia Maraini
Ricatto a teatro (1968)
Maurizio Costanzo
Un amore impossibile (1970)
Umberto Eco
Stelle e stellette (1976)
Luigi Lunari
Il senatore Fox (1979)
Diego Fabbri
Al Dio ignoto (1980)
Giuseppe Manfridi
Ti amo, Maria! (1989)
Vittorio Franceschi
Scacco pazzo (1991)
Patrizia Valduga
Donna di dolori (1991)
Lella Costa
Magoni (e forse miracoli) (1994)
E pér una vòlta nélla vita, pér una sóla vòlta nélla vita
potér èssere bèlla. Ma bèlla e basta, bèlla da nón do-
vér fare niènt’altro: sólo stare lì, sfolgorare. Cóme dicéva il
ragazzino di Stand by Me, “brutto da fermare un orològio”?
Be’, bèlla da far fermare un trèno in córsa.
Bèlla, bellissima, perfètta, una dèa, bèlla tutta, néi par-
ticolari, néi dettagli: la bócca, il naso, la pèlle, gli òcchi, i
capélli – miliardi e miliardi di capélli, però neanche un pé-
lo, niènte, liscia. Bèlle le unghie, le nòcche, i tèndini del
collo, bèlle le òssa, i polmóni, il fégato, le analisi dél san-
gue, ròba che quando vai a fare una radiografia pòi il me-
dico se ne fa fare una còpia pér potérsi masturbare in se-
gréto di nascósto dalle infermière. Talménte bèlla da fre-
gartene di èssere anche simpatica o intelligènte, nò, a te
chièdono soltanto che tu esista, si accontèntano di potérti
osservare da lontano, ógni tanto, sènza neanche avvicinar-
si tròppo.
Bèlla, bellissima, sublime, talménte bèlla da èssere an-
che al di sópra, al di là déi meccanismi dél sèsso, délla se-
duzióne, dél possèsso: nò, bèlla e intoccabile, irraggiungi-
bile, intangibile, siderale, una dèa, una véra dèa. (…)
Avvèngono i miracoli? Allóra, pér una vòlta nélla vita,
una sóla vòlta e nón pér tanto tèmpo, mi basta pòco, giu-
sto il tèmpo di riposare, più che altro, nò?, pér cercare di
recuperare alméno in minima parte tutte le energie che in
tutta la mia vita hò dovuto sprecare pér cercare di èssere
carina divertènte seducènte sèxy spiritósa simpatica divèrsa
imprevedibile adorabile fòrte coraggiósa disponibile unica
allégra intelligènte còmplice matèrna comprensiva prepara-
ta informata consapévole brava competènte responsabile
sportiva sensata sensibile autònoma fedéle insostituibile li-
bera onèsta affidabile ecònoma sicura catalitica e sessual-
ménte e politicaménte corrètta. Basta, nón ce la faccio più.
Pér una vòlta nélla vita
vorrèi
èssere
sólo
bèlla.
Imp. 100 monologhi 29-01-2008 15:49 Pagina 274
Alda Merini
Delirio amoroso (1995)
Biancamaria Frabotta
Il mulo sardo lo inganni una volta sola (1996)
A tarda sera, poco prima della chiusura, una donna si infila in-
vadente nello studio di una psicoanalista. Vuole essere visitata,
ma già dall’inizio – a partire dall’assonanza dei nomi: Alda, la
psicoanalista; Alba, la “paziente” – il sospetto è che le due sia-
no anime (differenti?) della medesima persona. E quando i ruo-
li si ribaltano – con la dottoressa che chiede alla paziente di
farle compagnia in attesa di un’importante telefonata (di amo-
re? di salute?) – il dubbio diventerà corposo. Alla fine, la telefo-
nata arriva, ma la dottoressa non risponderà...
Emilio Tadini
La deposizione (1997)
La deposizione 279
Gregorio Scalise
Boite à conduire (1998)
Elio Testoni
È mai possibile? (2000)
Giovanni Raboni
Rappresentazione della croce (2000)
Casomai 287
Roberto Faenza
Alla luce del sole (2005)
Marco Bellocchio
Il regista di matrimoni (2006)
Giulia Gatti
A passo di danza (2007)
Anonimo
L’amore oltre l’amore (2007)
APPENDICE
REGOLE GENERALI DI DIZIONE
Appendice 303
gnifica per l’appunto “numero indeterminato”.
Il suffisso ha probabilmente influenzato anche il termine “pe-
renne” che letteralmente significa “per anno”: per tutto l’anno.
Appendice 305
Es.: bersaglière, brigadière, camerière, carabinière, cocchière,
ingegnère (da “ingegno”), parolière, pasticcière (o, meglio, pa-
sticcère), portière.
Anche parole come biscazzière e fattucchièra (il primo derivan-
te da “bisca”, il secondo da “fato”) risentono in modo esplicito
di questo suffisso.
Appendice 307
Es.: contéssa, duchéssa, dottoréssa, leonéssa, principéssa, pro-
fessoréssa, vigiléssa.
Anche il sostantivo badessa utilizza appieno il suffisso “essa”,
con questo particolare tipo di percorso: abate, abatessa, aba-
dessa, badéssa.
Appendice 309
Olo: suffisso diminutivo soprattutto sostantivale ma talora an-
che aggettivale, nonché geografico ed etnico.
Es.: cannòlo, capriòla (così come “capriòlo”, da “capra”), casta-
gnòla, civettuòlo, figliòlo, ghiacciòlo, lenzuòlo (così come “len-
za”, da “lino”); campagnòlo, romagnòlo, spagnòlo.
Risente sicuramente di questo suffisso anche il (non chiarito
etimologicamente) napoletano mariuòlo.
Appendice 311
no chiaramente questo importante suffisso.
Il suo potere di condizionamento è molto forte; e numerosi ter-
mini, per assonanza, hanno ripreso l’accentazione chiusa della
vocale “o”: cafóne, coglióne, panettóne, persóna, etc.
Appendice 313
ce). La pronuncia della sua “z”, per assonanza col suffisso
“izia”, è comunque aspra.
È bene ricordare che – sempre – la pronuncia di questa “z”, in-
tervocalica, è da rendere intensa, come fosse scritta in modo
doppio: furbiz(z)ia, poliz(z)ia.
Appendice 315
lare e plurale –, ricorrente nel passato remoto indicativo. Que-
sto tipo di coniugazione è in realtà spesso sostituita con altre,
specifiche forme verbali.
Es.: io dovètti, lui dovètte, loro dovèttero; io potètti, egli potèt-
te; io ripetètti, loro ripetèttero.
C’è da notare che – per assonanza con il suffisso diminutivo
“étto” – in alcune regioni erroneamente la pronuncia viene af-
fermata in forma chiusa.
Appendice 317
Es.: bróncio, óncia, cóncio, mónco, trónco, gónfio, rónfo,
tónfo, trónfio, móngolo, póngo, tónno, sónno.
C’è da sottolineare però che alcune parole (in primo luogo
quelle più dotte) non si sono piegate a questo percorso e, pro-
prio nella differente pronuncia della “o”, manifestano la loro
autonomia e diversità.
Es.: còmplice, còmputo ma anche bòngo, Còngo, cònscio,
cònsole, cònvoco, dittòngo, insònne: tutti da pronunciare con
la “o” aperta.
Le parole straniere
Appendice 319
glese, ma anche indiana, turca, araba, tedesca, etc.) e difficile
sarebbe controllarne e riprenderne l’originaria accentazione o
pronuncia (e infatti nessuno di noi chiede “due sandwiches”,
con la “s” finale, così come sarebbe bizzarro ascoltare qualcu-
no che ci chieda informazioni – in italiano – su una fermata del
bus pronunciando quest’ultimo termine “bas”, come l’inglese
vorrebbe). È per tali ragioni che, per convenzione, nel corso
dei secoli si è attestata una pronuncia univoca – sempre aperta
– delle “e” e delle “o” toniche di questo tipo di parole. E quin-
di, al di là del fatto che in Inghilterra o negli Stati Uniti si possa
pronunciare in forma chiusa la parola “play boy”, in Italia dire-
mo (qui utilizziamo una approssimata trascrizione fonetica)
“bòi frènd”, “bòiler”, “giòin-vèntur”, “plèi-stèscion”, “uèb”, e an-
che “mokètte”, “monitor”, “perestròica”, etc.
In realtà, è bene evidenziarlo, alcuni vocabolari della lin-
gua italiana riportano – forse nel tentativo di essere più precisi
e fedeli – alcune accentazioni richiamandosi alla pronuncia del
paese di partenza. Questo avviene soprattutto per la lingua
francese e vede l’indicazione di pronuncia di “separé”, “caba-
rét”, “cabernét”, etc. Càpita anche di leggere la pronuncia chiu-
sa di “golpe”, a volte “gol (goal)”, e – molto più ricorrente nei
nostri dizionari – di “bistécca”, termine di derivazione inglese
(da “beef steak”) che, per influsso della parola “stécca” (che
ovviamente è estranea all’etimologia di “bistecca”), viene se-
gnalato in molti dizionari in forma chiusa.
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RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
Si riportano qui di séguito le indicazioni bibliografiche relative
ai 100 monologhi. Per i testi privi di pubblicazione, indichiamo
invece indirizzi di posta elettronica e siti web, nella speranza
che tutte le pagine qui proposte possano suscitare interesse, cu-
riosità e (auspicabilmente) interpretazioni e allestimenti.
Margo Annett
Guida dell’attore
Pagg. 128 € 14,00 Di prossima pubblicazione: