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Appunti Sociolinguistica

Italiana
Sociolinguistica
Università degli Studi di Firenze
16 pag.

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APPUNTI SOCIOLINGUISTICA ITALIANA (Neri BINAZZI)
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Manuale: M. D’Agostino, “Sociolinguistica dell’Italia contemporanea”. Capitoli I-VII
Esame: Scritto sulle lezioni frontali + orale sul manuale e moodle

Comunicare significa trasmettere informazioni e creare una comunità.
Primo postulato della sociolinguistica: quello che noi possiamo osservare direttamente sono attività
linguistiche (parole/performance) non il sistema linguistico (competence), che esiste come astrazione
ottenuta a partire dagli usi effettivi.
Si deve cercare il significato linguistico del messaggio.
Dalla forma del messaggio si ricavano altre informazioni, come il basso grado di scolarizzazione, dato dagli
errori grammaticali, e dallo scritto che deriva dal parlato e dall’interattività (es. Rosario “di giù”).
L’informazione in questo caso è che il parlante è poco scolarizzato, manca quasi totalmente di punteggiatura.
Possiamo anche ricavarne i tratti della personalità, come la spontaneità e la vicinanza.
Dai messaggi ci si deve fare un’idea della persona che parla: è simpatica? Ci si può fidare? Che idea ha di
sé? Potrebbe essere un tuo amico/compagno/un vicino, etc.? Che grado di istruzione ha? La sua situazione
economica? Si impegna sul lavoro? Il comportamento linguistico può dare queste informazioni.
27/02
“Sono andato a vedere la casa (di cui ti ho parlato), quella che ha la terrazza grande” (dialetto siciliano)
Rapporto informazione e comunicazione. In che modo si può ricavare informazioni dai comportamenti
linguistici effettivi. Si ricavano informazioni sulla sfera della personalità e la sfera socio-economica. La frase
in dialetto siciliano mi dice che siamo in presenza di un parlante proveniente dalla Sicilia. Dopo di che si può
trovare informazioni riguardo le sfere personali e socio-economiche (informazioni diastratiche). Queste
informazioni possono passare con il passaggio comunicativo. Si capisce che era una persona simpatica,
confidenziale, di cui ci si può fidare (auto-considerazione +/-); si può dire anche che non è particolarmente
istruita, guadagnava poco, faceva un lavoro manuale (impegno sul lavoro +/-). La frase in italiano corretto,
cambiano completamente le informazioni che se ne ricavano. Il dialetto legato alla vicinanza, simpatia, si
rivede anche nel manifesto della campagna elettorale di un sindaco napoletano (“Gerardo Bevilacqua”). La
ricostruzione delle caratteristiche del parlante vengono messe al servizio di un determinato progetto
comunicativo. Così l’informazione diventa comunicazione.
“Biglietto di Rosario di giù”: “Gia dalle sette sendo i rumori delle zoccolette”

Le caratteristiche manifestate sono involontarie, ad esempio il fatto che sia una persona poco scolarizzata,
per gli errori grammaticali o per l’aggiunta di elementi del parlato. Anche la scrittura in maiuscolo fa capire
la sua scolarizzazione. Lo scrivere come parla è involontario. L’informazione sociolinguistica è di tipo
diastratico.
Cartello di Bergamo.
Viene riprodotto anche attraverso il dialetto. Se ne ricava la presenza di un progetto, per far capire che loro
sono bergamaschi, cercando di creare un senso di identità. In precedenza si pensava fosse legato al
secessionismo leghista. Se ne ricava un’informazione quando manca la volontà, mentre quando c’è
volontarietà e siamo in presenza di un progetto allora c’è comunicazione.
Elemento di variazione. “La gente”; la ‘dʒƐnte (italiano standard); la ‘ʒƐnte (toscano); la ‘dʒƐ:nte (centro-
meridionale); la ‘dʒente (emiliano-romagnolo).

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In toscano si ha la presenza di un’affricata, cioè quando si ha un fono occlusivo, seguito da uno fricativo,
cioè quando non c’è occlusione. In toscano in questi casi si perde la affricata. In area centro meridionale si
rafforza la fricativa. In area emiliana romagnola l’affricata è seguita da una sibilante sonora, quindi non è una
sibilante palatale ma dentale. La vocale tonica qui non è semi-aperta, ma semi-chiusa. Queste variazioni si
trovano sia nel parlato quotidiano che in quello controllato, perché non si può controllare gli esempi dialettali
sono “varianti” che trasmettono informazioni.
“La malattia che ti gonfia tutto dietro gli orecchi” / “flogosi marcato della ghiandola parotide”
Il concetto di parotide si può trovare in questi due modi. Nel primo caso si ha un caso di comunicazione più
familiare, mentre nel secondo si ha una comunicazione tra pari in senso lavorativo e scientifico. Si capisce
anche perché il “che” è molto colloquiale e di familiarità. Nel secondo caso si cercano informazioni dirette
tra medici con un linguaggio tecnico-scientifico. La differenza dunque è la familiarità e colloquialità del
primo a differenza della formalità tra gli addetti al lavoro, ma non si sa se sono in confidenza tra i due. In
entrambi i casi c’è un progetto: nel primo la familiarità; nel secondo, è esprimere in termini scientifici
l’informazione con una condivisione di termini e di conoscenza. Il primo è un “registro” linguistico; il
secondo è un “sottocodice”.
“Dunque il nostro prossimo incontro è previsto tra breve in piazza Santa Croce” / “Bella raga, cisi in Santa”
Nel primo caso c’è una particolare confidenza tra i parlanti. Nel secondo caso c’è un linguaggio giovanile tra
i lettori e consolidare l’appartenenza di un gruppo. Il “gergo” è una varietà che tende a sottolineare
l’appartenenza ad un gruppo, mentre il primo è un “day code”.
“La ‘ʒƐnte la va askol’ta
A 7 4a/askor’taha”.
A

Parlato fiorentino nel primo caso neutro che si trova in tutti i livelli di parlato, mentre il secondo si trova nel
fiorentino meno colto o più veloce. La frase ci dà un’informazione diatopica, perché si capisce che viene da
Firenze.
Caso di Rosario di giù. Si capisce che è un parlante poco istruito e poco colto. L’informazione è quindi di
tipo diastratico.
Caso parotide e dell’appuntamento a Santa Croce. Se ne ricava un progetto dietro al messaggio. Dimensione
diafasica, ciò che riguarda l’informazione dietro ad una frase e ha a che fare con la progettualità.
4/03
1965, Fishman è un sociologo che scrive “Who speaks what language to whom and when”, che riassume la
sociolinguistica. Se si scompone la frase, si forma un triangolo che parte da “what” e poi chiedermi cosa c’è
dietro la comunicazione e ricavarne informazioni, o cosa ha portato il parlante e quale è la situazione e
ricavarne comunicazione.
Primo obiettivo: rispetto a questa varietà, quali sono le correlazioni che definiscono la variazione linguistica
rilevante socialmente che consentono di identificare univocamente caratteristiche di parlanti (who) e delle
situazioni comunicative (to whom/when).
Questa operazione consente di individuare tratti linguistici che identificano specifiche varietà linguistiche.

1. [la ‘dʒ’ak:a ‘sta sul ‘lƐt:o] (brano parlato)


Ci si chiede chi è il parlante. Se ne ricava che è un parlante dell’area centro-meridionale, perché è un
elemento che hanno tutti i parlanti indipendentemente dal livello di istruzione o del ceto sociale
(diatopia). La varietà di lingua che se ne ricava è l’italiano regionale.

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2. “Signiora la domenica vollio dormire fino alluna e gia dalle sette sendo i rumori delle
zoccolette…” (brano scritto)
Se ne ricavano errori grammaticali e elementi di variazione che si ritrovano nella scrittura che fanno
capire il suo basso grado di istruzione (diastratia). La varietà di lingua è l’italiano popolare o dei
semicolti.
La situazione comunicativa.
1. “Ha beccato il morbillo” / “Si è ammalato di morbillo”
La differenza è dire come ha preso la malattia. La diversa realizzazione ci porta a pensare che nel
primo caso c’è più familiarità/confidenza del secondo (“registri”. Differenza di tipo diafasica, ma al
suo interno se ne ricava una distinzione di confidenza e allora si parla di “varietà di registri”). La
varietà di lingua è tra italiano informale/formale.
2. “Ho contratto un’infezione di morbillivirus”

Se ne ricava che gli interlocutori sono medici che parlano di un paziente. Siamo all’interno della
diafasia con una focalizzazione sull’argomento quindi siamo in presenza di italiano tecnico-
scientifico e in presenza di un “sottocodice”.
5/03
Punto di vista linguistico.
“mese”:
• Analisi lessicale (semantica)
• Analisi morfologica (mes-e/mes-i)
• Analisi fonologica (m-/t-/r-;-s-/-l-)

Punto di vista sociolinguistico.


“rosa” -> ‘rɔza (nord); ‘rɔsa (sud)
Al far vibrare le corde vocali in modo maggiore o minore, si hanno informazioni sociolingistiche.

La relazione tra età e parametro sociale è che un giovane che è più portato a dire ‘meze, mentre un parlante
anziano a dire ‘mese. Il cambiamento è dovuto all’età. Sono generazioni diverse, non si è portati a cambiare
con l’avanzare dell’età.
Quando vedo comportamenti polarizzati tra due generazioni opposte ho una visione orientativa futura. Si ha
una misura sulla diacronia all’interno della sincronia, perché si vede quale sarà il linguaggio e i mutamenti
futuri. “Visione apparente”. Le donne tendono sempre a promuovere atteggiamenti innovativi dal punto di
vista linguistico. Questo elemento progressivo avviene per un’imitazione dal parlare settentrionale.

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L’atteggiamento dei parlanti ci porta a cambiare la nostra visione di lingua prestigiosa, che si ha nella realtà
settentrionale. La dimensione involontaria che ci porta informazione.
‘mese -> who: diatopia (fuori da Firenze, per provenienza meridionale); diastratia (a Firenze, per l’età)
‘meze -> who: diatopia (fuori da Firenze, per provenienza settentrionale); diastratia (a Firenze, per l’età)
Variabile sociolinguistica, le varie forme che può prendere una parola dal punto di vista sociolinguistico,
come la variazione della “s” sorda e sonora.

Variante del sistema, le diverse realizzazioni delle variabili sociolinguistica.


Varietà di lingua, insieme complessivo delle varianti che correlano un parametro di variazione.
La dimensione diatopica: l’italiano parlato è sempre “regionale”. Pellegrini: “il sottofondo dialettale, sempre
latente, ha reagito ovunque determinando una varia coloritura dell’italiano che possiamo definire regionale”.
6/03
Italiano regionale e sostrato dialettale. “Il sottofondo dialettale, sempre latente – anche se il dialetto è ormai
fortemente insidiato, specie nella pratica quotidiana delle grandi città – ha reagito ovunque determinando una
varia coloritura dell’italiano che potremo definire “regionale” e che corrisponde sostanzialmente alle aree
dell’Italia dialettale.” (Pellegrini, 1962)
Geo-sinonimia. Indagini Ruegg 1956 (Tendenza di fondo: estrema proliferazione lessicale) e Nesi-Poggi
Salani 2013.
Manzoni, “lingua comune” e “dialetti”. “Supponete che tutti questi che chiamate dialetti cessassero tutt’a un
tratto d’esistere; che dimenticassimo ognuno il nostro, e ci trovassimo ridotti a quella che chiamate la lingua
comune.” Il problema è che in Italia l’unica “lingua comune” è la lingua scritta, e la lingua scritta è morta
perché non è vera lingua. Ciò che costituisce una lingua, non è appartenere a una estensione maggiore o
minore di paese, ma l’essere una quantità di vocaboli adeguata agli usi d’una società effettiva e intera. Come
s’andrebbe avanti? Quante cose e modificazioni e relazioni di cose, quanti accidenti giornalieri, quante
operazioni abituali, quanti sentimenti comuni, inevitabili, quanti oggetti materiali rimarrebbero senza nome.
11/03
La dimensione diatopica.
L’impronta del dialetto nell’Italia linguistica postunitaria. “L’italiano parlato è sempre
regionale” (caratterizzazione diatopica, come informazione involontaria). Usi consapevoli del
“dialetto” (dalla diatopia alla diafasia: dall’“informazione” alla “comunicazione” intesa come “progetto”).
La formazione della “lingua comune” nell’Italia del 1500: un processo di standardizzazione linguistica. La
funzione era di selezione, descrizione e accettazione. Lo standard come lingua, in Italia non corrisponde a
nessuna lingua effettivamente parlata. La formazione dello standard in Italia produce condizioni di diglossia
(Ferguson, 1959).

Diglossia è una situazione linguistica relativamente stabile in cui, in aggiunta al dialetto primario della
lingua, c’è una divergenza, codificata come varietà alta (HV), mezzo di una grande e rispettato corpo di
letterati, contraddistinti da una larga istruzione e formale istruzione, ed è usata perlopiù in scrittura e discorsi
formali ma non è usata in nessuna sezione della comunità per conversazioni ordinarie.
Caratteristiche correlate: HV (high variety) vs LV (low variety) in termini di prestigio/gerarchizzazione
(anche percepita)/patrimonio lessicale.
La differenza funzionale delle varietà discrepanti nella diglossia è fondamentale, e questo la distingue dal
bilinguismo. Bilinguismo: due possibili riferimenti:

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• Funzioni della varietà, in riferimento alla comunità. Bilinguismo è l’assenza di gerarchizzazione
dislivello di prestigio;
• Competenza delle varietà, in riferimento agli individui. Diglossia senza/con bilinguismo (Italia pre/
post-unitaria).
Bilinguismo e diglossia in Italia.
1. Dalla codificazione dell’italiano come lingua letteraria fino all’Italia postunitaria, si parla di
diglossia “senza” bilinguismo, con funzioni distinte e competenza limitata alla high variety;
2. Dal Novecento inoltrato agli anni Settanta, si parla di diglossia “con” bilinguismo, con funzioni
distinte e diffusione della competenza della high variety.
Conseguenze alle condizioni di diglossia. Ci si chiede quale sia allora per Ferguson il codice di riferimento
per le “conversazioni ordinarie”. Lui risponde dicendo che la low variety è la prima varietà che si impara; è
la lingua madre, il linguaggio casalingo. La high variety si acquisisce con la scolarizzazione. Nella diglossia,
nessuno parla di high variety come lingua madre, ma solo di low variety. Perciò senza scolarizzazione si ha
competenza solo di LV.
Prolungate condizioni di diglossia.
• Dal punto di vista degli usi parlati, si ha vitalità del dialetto e un’impronta regionale dell’italiano;
• Una percezione di italiano e di dialetto, con forte gerarchizzazione e l’italiano come “lingua lontana”
mentre il dialetto come “lingua vicina” (Baroni 1983).
12/03
Impronta regionale del parlato in Italia: geo-sinonimia.
(…)
Schema Berruto 1987. Ha un errore perché si dice che l’italiano parlato è sempre regionale.
Meneghello e l’italiano appreso a scuola. La prima volta che entra in classe fa la conoscenza dell’“uccellino”
e non “oseleto” come lo conosceva lui, che restava “fuori dall’aula” e si diceva in paese.
Venendo dal Veneto, si arriva a fare un’analisi fonetica.
Si chiede intanto come si scrive “uccellino”” e trova 11 varianti. Successivamente si chiede se l’“uccellino”
è o meno l’“oseleto”. Scrivendo ci si andava ad inserire in un diverso criterio di realtà e prendeva
caratteristiche diverse (italiano lingua di lontananza).
La varietà bassa sembra più volgare, corrotta, a differenza di quella alta.
Il dialetto ha i connotati di: parlato, concretezza, subalternità, vicinanza emotiva. L’italiano ha connotati di:
scrittura, irrealtà, prestigio, lontananza emotiva.
Modello Weinreich (1956) quando all’interno di una comunità si confrontano due varietà linguistiche, gli
abitanti sviluppano l’idea delle due varietà usando 6 parametri:
1. La scrittura;
2. Ordine dell’apprendimento;
3. Valutazione letteraria e culturale;
4. Utilità;
5. Avanzamento sociale;
6. Coinvolgimento emotivo.

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Se lo riportiamo in Italia:
• la scrittura è l’italiano;
• per l’apprendimento è il dialetto;
• per utilità, dignità e avanzamento sociale è l’italiano;
• per coinvolgimento emotivo è il dialetto.
Indagine Baroni (1983): il dialetto dà simpatia, fiducia e vicinanza, mentre come status socioculturale passa
la bassa scolarità e il lavoro manuale; mentre l’italiano crea lontananza e uno status socioculturale alto e di
prestigio.
In Italia il dialetto da lingua “necessaria” diventa una lingua quasi “simbolica” (Manzoni).
13/03
L’italiano standard non è quella lingua che apprendiamo da subito, ma la insegnano a scuola. Ciò che
apprendiamo è il dialetto, che è anche quella varietà che crea più coinvolgimento emotivo e vicinanza.
L’italiano è rimasto una lingua lontana affettivamente anche quanto ha messo insieme un vocabolario delle
cose di tutti i giorni.
Da dialetto come varietà che informa a livello diatopico, a varietà che crea vicinanza e coinvolgimento
emotivo (senso diafasico).

Esempio della campagna “Be stupid”, Diesel. Dialetto come lingua dello stupido e incolto, ma più concreto,
vero ed autentico.
Esempio della campagna elettorale di Gerardo Bevilacqua (manifesto). Dialetto come lingua di vicinanza
(noi vs. loro).
“Nostr lait a parla piemonteis”. “Il latte parla piemontese”, quindi ti devi fidare di me, creando un senso di
vicinanza. Averlo creato in dialetto porta il latte ad essere autentico e vero, perché parla come i “vecchi” e i
“nonni”, ed è un prodotto artigianale e non industriale.
“I’ trippaio di Firenze”. Tradizionalità della lingua legata alla tradizione del prodotto. Crea una situazione di
confidenza e familiarità.
Trattoria “La grotta Parri”.
Campagna promozionale di una compagnia telefonica in dialetto.
Bevanda Spritz e la campagna pubblicitaria in dialetto. Modo di socializzare, celebrando un rito comunitario,
perché il dialetto è la lingua di un luogo aperto, come la piazza.
I connotati di lingua e dialetto in Italia continuano ad essere legati alle (pregresse) tradizionali condizioni di
diglossia.
In particolare la rappresentazione del dialetto come varietà di primo apprendimento che esprime intimità, etc.
e che ha come controparte un italiano che ha per correlato la distanza, mancanza di coinvolgimento, etc.
18/03
Fuori dalla rappresentazione “simbolica”, quali sono i valori sociali?
Pasticceria torinese: il commesso prepara un vassoio di biscotteria per il cliente. “Non vi imbroglio, eh! A
sun tant bun!” il passaggio del dialetto avviene al confine di una frase da un’altra (“code-switching”), si ha il
passaggio interfrasale e vuol dire che è intenzionale.
In Sicilia, parlando di evasori fiscali: “Kiddi, kiddi ka, pigghia, amu setti kasi, wottu casi e non pavum
nenti?” Ne volum truvali. Non li vogliono trovare.” La frase in dialetto viene ripetuta in italiano per

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sottolinearla, ed è intenzionale. Si parla quindi di “code-switching”. Traducendolo in italiano, do alla frase
autorevolezza e sentenza.
Esempio. “Come faccio per arrivare al cimitero?” Le risposte fanno riferimento a persone, luoghi della vita
in città. La domanda in dialetto mette in condizione chi risponde di appartenenza allo stesso micro-gruppo,
caratteristiche delle reti sociali.
Rete sociale chiusa. I nodi sono gli attori sociali. Diventa “chiusa” quando i nodi sono collegati a tutti gli
altri nodi della rete senza che ci siano collegamenti esterni. Queste reti portano a parlare in dialetto. Nel
momento in cui sento parlare in dialetto, l’attore entra in questa rete sociale.
Esempio di alunni di una scuola elementare parlano di una stessa cosa prima in dialetto, poi in italiano. Nel
passaggio all’italiano restaurano le doppie, ma non si limita a tradurre, ma dà un contesto con più riferimenti
in cui vive la dimensione dell’italiano come più esplicita, perché non si dà per scontato che lui conosca il
contesto e tantomeno il dialetto.
Il dialetto è quindi una relazione chiusa e molte cose sono implicite, mentre nell’italiano diventano esplicite.
I nodi della rete fanno parte di un reticolo, ma anche di un altro. Questo comportamento è tipico delle grandi
città con alta frequenza di relazioni anonime.
A: “t’ai pestà ‘l kutin!” B: “kive?” A: “Stai pestando la gonna!” (area piemontese). Quando si rende conto
della presenza di estranei, cambia il “pattern conversazionale”.
Anni Ottanta del Novecento. Alunni di una scuola elementare parlano di una stessa cosa.
Dialetto: “E allora ghe digo: - Ma questo no me piase perché la ga qualcosa.. la se masa salà, masa desivia
no la me piase, la se masa..”
Italiano parlato: “E dico sempre: - non mi piace”
Italiano scritto: “Dico sempre che non mi piace”
Tutto il resto lo reputa inutile nel passaggio all’italiano. È una lingua più economica ma più distante. Dal
passaggio dal discorso parlato allo scritto si passa anche al discorso indiretto.
Anni Settanta: studio su dei temi e la loro lingua. Emergono le correzioni.
• Chi non ha un titolo di studio deve “accontentarsi di fare i peggiori lavori, se non vuole essere
licenziato o non accolto dalle fabbriche”. Ciò che passa è che si può togliere in italiano perché è una
lingua elevata e non c’è bisogno del resto.
• Ora “è un pezzo che” non ci vado più.
Italiano e dialetto hanno vissuto per molto tempo nella diglossia.
Dati ISTAT. “Dilalia”.
19/03
In famiglia sono il 42% gli italofoni esclusivi. Aumentano fino al 2012 del 12%.
Chi dice di parlare il dialetto in famiglia passa dal 32% al 9%.
Non siamo più in un regime di diglossia, perché l’italiano viene appreso anche in casa e non più solo a
scuola.
Esempio sia italiano che dialetto. Italiano usato per parlare al bambino. Il cambio di codice interfrasale è
intenzionale e si ha il “code-switching”.
In occasioni di passaggio tra italiano e dialetto parlato non intenzione e interfrasale si ha il “code-switching”.

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Questi possono stare dietro a quei dati dell’ISTAT dove i parlanti dialogano sia italiano e dialetto in famiglia.
Italiano e dialetto sono diventati vicini nel parlato, e le due lingue dialogano tra loro.
L’italiano dunque è entrato in casa, e non fa parte più di un high variety. Per fare questo l’italiano ha dovuto
però adeguarsi, ed è diventata una lingua parlata. È un italiano “di uso medio”, ma Berruto lo chiama invece
“italiano neostandard”, perché è un nuovo standard e si lascia l’italiano nei libri. Dilalia, perché l’italiano ha
aumentato le proprie funzioni.
Diglossia senza bilinguismo, nasce con la lingua italiana come letteratura, dal 1525 (“Prose della volgar
lingua di Bembo).
Diglossia con bilinguismo inizia col secondo dopoguerra.
Diglossia con dilalia, dagli anni Ottanta.
Diglossia: high variety e low variety sono nettamente distinte. Qui l’interferenza tra la varietà è molto
limitata, e dove c’è una non c’è l’altra (es. “uccellino”/“oseleto”).
Dilalia: high variety come low variety. Si chiama “italiano neostandard”. C’è una grande interferenza tra
dialetto e italiano.
Italiano neostandard:
• Costrutti marcati (“il giornale lo compro io”) quando anticipo l’argomento, anticipando il tema e lo
fo diventare tale, con dislocazioni a sinistra e a destra;
• “che” polivalente, che viene usato nel parlato come congiunzione e viene sostituito al posto del
pronome relativo;
• La morfologia verbale con nuovi compiti dell’imperfetto, il presente pro futuro , il futuro con
modalità eventive;
• Nella morfologia pronominale con espressione del soggetto, espressione del dativo, fissazione/
estensione del “ci”.
Morfologia: espressione del pronome complemento indiretto. Varianti: “gli”, “le/loro” (italiano neostandard:
“Ho telefonato a Chiara: gli ho detto di venire alle 8” / italiano standard: “Ho telefonato a Chiara: le ho detto
di venire alle 8”).
Morfosintassi: costruzione del periodo ipotetico dell’irrealtà. Varianti: congiuntivo nella protasi/condizionale
dell’apodosi, imperfetto nella protasi e nell’apodosi (italiano standard: “Se fossi venuto l’avrei visto” /
italiano neostandard: “se venivi lo vedevi”).
Ogni lingua standard conosciuta ha delle caratteristiche che vengono prese a tavolino, ed è definita da
elementi invarianti. Viene usato e privilegiato nella scrittura. Vengono considerate varietà di prestigio, il cui
possesso è sinonimo di elevata scolarizzazione.
Le lingue neostandard non hanno una pianificazione a tavolino, e per questo portano alla poca uniformità.
20/03
La dilalia si differenzia dalla diglossia in quanto questa è la lingua parlata quotidiana “condizionata”. Ha una
varietà diafasica, di certificazione di appartenenza.
Esempio della “parotite”. “La malattia che ti gonfia tutto dietro gli orecchi”. Interlocutore, con
focalizzazione sul grado di familiarità tra i partecipanti: c’è più parlato e più vicinanza. È un
“registro” (italiano informale).
“Flogosi marcata della ghiandola parotide”. Argomento, con focalizzazione sul significato, in termini di
referenzialità e assenza di connotazione: c’è meno parlato e meno vicinanza. È un “sottocodice” (italiano
medicina).

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I sottocodici hanno le funzioni di fornire un inventario per comunicare entro determinati ambiti e attività in
modo che la comunicazione sia univoca, precisa, economica e dunque funzionale ai temi specifici trattati. Ha
come caratteristiche peculiari il lessico specifico, e l’assenza di connotazioni.
Lingue specialistiche e lingue settoriali. La distinzione è in base al raggio d’azione (classe di destinatari/
utenti più o meno ristretta).
Le lingue specialistiche sono le lingue tecnico-specialistiche, socio-professionali (come medicina, chimica,
linguistica, etc.). Più addetti ai lavori.
Le lingue settoriali sono le lingue della critica come cinematografia, letteraria, etc., lingua dello sport, della
politica, etc. Meno addetti ai lavori.
Ampiezza del raggio di azione con riferimento a dimensioni e grado di omogeneità dei contesti in cui viene
scambiata.
Le caratteristiche dei linguaggi tecnico-scientifici sono la monoreferenzialità e la neutralità espressiva.
Nel passaggio all’italiano neo-standard si perde la monoreferenzialità e la neutralità espressiva.
Esempio: Bypass, “innesto di un vaso, artificiale o prelevato da altri tessuti, su un’arteria occlusa in modo da
escludere dalla circolazione sanguigna il tratto deteriorato” / “evitare di confrontarsi; scavalcare, eludere
qualcosa”.
25/03
Caratteristiche linguaggio neo-scientifici:
• Monoreferenzialità, che deve dare uno e un solo concetto;
• Neutralità espressiva.

Neo-standard:
• Perde la monoreferenzialità;
• Acquista espressione.
Esempi.
1. “flogosi marcata della ghiandola parotide” (+monoreferenzialità; + neutralità);
2. “la malattia che gonfia tutto dietro agli orecchi” (-monoreferenzialità; -neutralità).
Il primo è un “sottocodice”, con un italiano tecnico-scientifico; il secondo è un registro, con un italiano
informale.
Affinità tra sottocodici e gerghi. Si parla di “gergo dei medici” quando è parlata da un gruppo ristretto di
parlanti (ambito d’uso). Inoltre queste varietà è fatta da una tipologia specifica di lessico.
Esempio. In chimica la “base” è un particolare composto che reagendo con un acido forma un sale. Oppure
in fisica la “forza” è ogni causa capace di modificare lo stato di quiete o di moto dei corpi. Vengono perciò
prese parole del lessico comune e ne assumono monoreferenzialità nel linguaggio tecnico.
I gerghi allora sono sottocodici? Vengono prese parole del lessico presso specifici gruppi sociali (linguaggio
della malavita, linguaggio giovanile, etc.).
Esempio. “Concetto di spirantizzazione” vs “messaggio SMS/MTV”. Il primo è uno scambio tra addetti ai
lavori, mentre il secondo tra giovani. Il primo ha una funzione di definire un fenomeno linguistico, con una

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concentrazione sul significato- il secondo vuole manifestare che io sono giovane e mi rivolgo ai giovani,
volendolo manifestare apertamente. È la funzione che differenzia il linguaggio specifico dai gerghi.
Quando un sottocodice diventa gergo.
Esempio. “Suo nipote è affetto da flogosi marcata della ghiandola parotide”. Si trova:
1. Apparente rispetto verso le regole definitorie del sottocodice, ma funzione assimilabile a quella del
gergo (usato da dottore a paziente con funzione di gergo, ma si vuole marcare la distanza tra i
parlanti);
2. Infrazione volontaria alle regole della “competenza linguistica”, capacità del parlante di modificare
il proprio linguaggio a seconda della situazione.
Esempio.
A1: “Suo nipote è affetto da flogosi marcata della ghiandola parotide”
B1: “Che?”
A2: “Ha preso la parotide, insomma gli orecchioni”
B2: “Ah gli orecchioni, che gonfia tutto dietro gli orecchi.
A1: uso gergale della lingua tecnico-scientifica
B1: conferma di A1
A2: ricorso alla “competenza comunicativa” (adeguamento)
B2: testimonianza di “tetto di competenza” (orecchioni)
Comunità linguistica: “Una comunità linguistica è composta da persone che usano una stessa lingua o uno
stesso dialetto” (Lyons), ma non basta perché io posso sapere l’inglese ma non farne parte. “Una comunità
linguistica è composta dalle persone che hanno in comune un determinato repertorio come lingua
materna” (Kloss). Competenza come parlante nativo: un repertorio si apprende allo stesso tempo in cui si
apprende il sistema dei valori culturali associati alle diverse varietà linguistiche.
“Una comunità linguistica non è definita a partire dalla condivisione di un sistema linguistico, ma da un
accordo sulle norme d’uso (competenza comunicativa) e sui valori che regolano quegli usi” (Labov).
Attenzione ai valori sociali dell’uso:
• La comunità linguistica in condizioni di diglossia (funzione/percezione di lingua e dialetto);
• La comunità linguistica in condizione di dilalia (funzioni/percezione di lingua e dialetto).
L’effettiva gestione delle varietà definisce i connotati di una comunità linguistica.
Si fa parte della comunità linguistica non solo per le modalità.
26/03
A: “Scusi mi potrebbe indicare la strada per Piazzale Michelangelo?”
B: “Oh, come fo di qui a andare a i’ piazzale?”
Da A si capisce che non c’è familiarità, mentre da B si capisce che lo ritiene uno del suo stesso schema/rete
per via dell’uso di “piazzale” e di parole tipiche del dialetto. Quando si trovano informazioni di relazione si
ha “registri” formale (A) e informale (B).
A: “Orson Wells era un maestro del piano-sequenza”
B: “Bisogna intervenire sul processo flogistico in corso”
Entrambe sono esecuzioni su un argomento specifico, il primo di un’area critica, quindi una lingua settoriale,
mentre nel secondo di una lingua specialistica. Entrambi sono addetti ai lavori, ed entrambi sono
“sottocodici” più ampio per diffusione (A), più specifico (B).

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A: “La pula ha sgamato il palo”
B: “Raga oggi bosco la cena dai nonni”
Entrambi sono addetti ai lavori, ma nel gruppo della malavita e dei giovani. Si vuole manifestare
appartenenza ad un gruppo, quindi siamo in presenza dei “gerghi”.
Le eventuali infrazioni di competenza comunicativa confermano la diversa connotazione diafasica dei diversi
enunciati.
Diamesia. Ruolo dirimente dell’interattività. L’elemento distintivo è l’aspetto dell’interattività.
Esempio. “*questo dove lo metto?”
L’asterisco sta a indicare che la dimensione è malformata perché “questo” non è definito. Nel parlato diventa
accettabile perché c’è interattività nel dialogo. Nello scritto lo posso scrivere, ma devo ricreare la situazione
relazionale, quindi scrivere “dice x indicando il libro z”.
Koch, Osterreicher (1985) hanno studiato le ricadute di scritto e parlato sulle impressioni e la percezione. Lo
scritto è percepito come più focalizzato sull’argomento e progettazione, mentre il parlato crea più
confidenza, coinvolgimento, legame con la situazione, focalizzazione con l’emittente, etc.
Esempio. “essere un acquaio”, tra dialogo e scritto”.
Nel primo caso si capisce che siamo in una sfera dialettale perché “buchi grossi così” non ha senso nello
scritto. Si vede un cambiamento di progettazione all’inizio del discorso. Tipico del parlato è la ripresa del
discorso diretto di altri, che serve per togliersi la responsabilità e aggiungere autorevolezza.
Esempio. “matta”.

Le esecuzioni nello spazio linguistico:


• Tutto ciò che porta alla luce le relazioni, è un registro;
• Tutto ciò che porta alla luce l’argomento, è un sottocodice.
Ridefinizione di un argomento in “campo”, il grado di distanza comunicativa come “tenore”, e la differenza
scritto-parlato come “modo”. Ma il tenore è legato al modo, cioè se un’esecuzione è scritta o parlata, produce
una diversa distanza comunicativa. Visto ciò si è suggerito di tenere insieme la diamesia e la diafasia,
facendone un asse unico. L’asse che si libera viene così occupato dall’asse diatopico.
Dal punto di vista della diastratia, esempio campo di concentramento.
Uso emotivo dell’ortografia e delle maiuscole. Il parlato che entra nella scrittura. Usa modalità avverbiali,
per far capire cioè cosa dice (“deittici”).
27/03
Diastratia e scrittura. La modalità di messa in rilievo degli argomenti nella scrittura come se fosse parlato,
avviene tramite:
• Dislocazioni a sinistra (es. “Poi questi carri di agonizzanti li conducevano in una baracca” oppure
“Queste cose le sapevo già”);
• “Tema sospeso (es. “La zuppa allora non se ne parla di che era fatta” oppure “Qualsiasi cosa, noi
siamo qui”).
L’impronta del parlato. Frase scissa.
Es. “Era dal giorno avanti che non si aveva acqua da bere” oppure “è da tanto tempo che te lo dico”.

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Può presentarsi anche un’apparente complicazione, come con il “c’è presentativo”: “c’è un cane che corre
nel giardino”.
Uso del “che”. Nella sintassi serve per la costruzione della frase relativa indiretta.
Varianti:
• Adozione del “che” polivalente;
• Adozione del relativo obliquo.
“Va da quelli a cui (/nei cui capelli) ha trovato pidocchi” (italiano colto)
“Va da quelli che ha trovato i pidocchi” (italiano semicolto)
Le caratteristiche linguistiche legate alla scarsa scolarizzazione sono l’ortografia e punteggiatura e il parlato.
Questo è accompagnato da parole del parlare comune come “prototipici” e parole locali del “dialetto”.
01/04
Come un basso livello di istruzione porta comunicazione e quali informazioni porta.
Avere un basso livello di istruzione porta ad un uso sbagliato di ortografia e punteggiatura. Oltre a ciò ci
sono elementi del parlato in scrittura (sintassi marcata) attraverso elementi dialettali ed elementi prototipici.
Esempio. “La bella vita di Vincenzo Rabito”. Passa dal 1968 al 1975 nella sua camera a Siracusa, e decide di
scrivere la sua “Bella vita”. Una parte del suo scritto fu pubblicato come “Terra matta” da Einaudi. Si
trovano elementi dialettali. Separa ogni parola con un “;”. Si presenta all’inizio (convenzione non standard).
La punteggiatura gli serve non per separare ogni parola, ma da un punto di vista dell’accento.
La varietà diastratica bassa viene descritta da Tullio de Mauro come l’italiano popolare (1970). Lo definisce
come “modo di esprimersi incolto che, sotto la spinta di comunicare e senza addestramento, maneggia quella
che, ottimisticamente, si chiama la lingua nazionale”. Viene da uno studio di lettere di una donna del Salento
affetta da tarantologia. De Mauro continua a ribadire che chi lo parla è incolto e non ha accesso
all’istruzione. Manlio Cortelazzo due anni dopo dice invece che è “tipo di italiano imperfettamente acquisito
da chi ha per lingua madre il dialetto”. Quindi è un tentativo di parlare utile per comunicare e per la volontà
di uscire dal dialetto. Imperfezione legata al fatto che queste persone hanno come lingua madre l’italiano.
Oggi si tende parlare di italiano dei “semi-colti”.
Tratti distintivi:
• Particolari convenzioni di scrittura, legato al parlato che porta a: sintassi marcata; modalità di
subordinazione (che); regionalità (dialetto).
• Ciò che rimanda a una scarsa familiarità con le convenzioni della scrittura (confini di parola;
ortografia «emotiva»; scarsa punteggiatura, eventualmente a-grammaticale: Io, non ci credo.);
• Ciò che rimanda a una competenza linguistica che, per la ridotta o assente alfabetizzazione
scolastica, è quasi solo “parlata” (dialogicità; pianificazione; “che polivalente”; sintassi marcata;
dialetto).
Il “che” polivalente. Si trova nell’italiano dei semi-colti che non si hanno nelle altre varietà. Il “che”
temporale è accettato anche nell’italiano neostandard, quello non temporale è dei semi-colti.
Alcuni elementi sono in comune. Per i soggetti poco scolarizzati il che polivalente, etc è il loro “tetto di
competenza. L’italiano popolare è il loro italiano comune, sia nel parlato che nello scritto, mentre per il
neostandard non è il suo tetto. Se una stessa esecuzione di una testimonianza di una persona poco
scolarizzata è nel parlato, non si riconosce il suo livello di istruzione, mentre nello scritto si riconosce subito.
Il “che” polivalente è in tutti i casi degli italiani semi-colti, mentre per i colti non sempre.

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Esempio. Dialetti, frasi relative. La costruzione della frase relativa ha bisogno del “che”, che va nel parlato
nei parlati poco scolarizzati.
Dialetto. DISC. È un idioma proprio di una determinata comunità di solito facente parte di una più ampia
realtà socio-politica.
Caratterizzato:
• Dall’ambito geografico relativamente ristretto;
• Dall’uso prevalentemente dell’orale;
• Da limitate funzioni comunicative.
Ma questo ci dice più cosa non è, e non cosa è. È come se ci fosse un paragone con la lingua standard.
Andrebbe bene per la dilalia, ma non per la diglossia.
I dialetti sono sistemi linguistici neolatini o romanzi, che hanno come lingua tetto l’italiano. Questi sistemi
linguistici hanno passato una revisione romana del neolatino. La lingua tetto è quella varietà che funziona e
viene riconosciuta come lo standard di riferimento. La lingua tetto come l’italiano nasce nel 1525 con la
“Prosa della volgar lingua di Bembo”. La lingua è autonoma, mentre il dialetto è eteronomo, differenza
concettuale.

03/04
L’italiano come lingua tetto, cioè una varietà ufficiale di riferimento. Non è una varietà da cui si originano i
dialetti come sistemi linguistici. Il dialetto si ha solo in presenza della lingua tetto, e in relazione alla
presenza di una lingua tetto si assiste a una specializzazione e gerarchizzazione delle funzioni del dialetto.
Romanizzazione. Dal “latino parlato” alle varietà italo-romanze.
Esempio. *QUANDO FILIU MEU. Nel milanese la varietà diventa “kuand me fjœ”. Per la varietà veneta
diventa “kuando me fjòlo”. Per quanto riguarda le varietà centrali, si ha a Firenze “kuand(o) i mmi figliòlo” e
a Roma “kuanno er fijo mio”. Nella zona meridionale si ha la varietà napoletana “kuannə fijjəmə” che a
Palermo diventa “kuannu me figghiu”.
Vocalismo. Dal latino al sistema panromanzo.
Esempi. “Filiu(m)” la Ī diventa i. In “pira” e “tela” la Ĭ e la Ē diventano e. In “ferru” invece la Ĕ diventa ɛ.
Per “caru” e “casa” la Ā, Ă diventa a. In “octu” la Ŏ diventa ᴐ. In “voce” e “cruce” la Ō, Ŭ diventano o.
Infine in “luce” la Ū diventa u.
Vocalismo. Il sistema panromanzo e il fiorentino.
Esempi. “Filu” la Ī diventa “filo”. Per “pila” e “tela” la Ĭ e la Ē mutano la parola in “pera” e “tela”. In
“ferru”, il vocalismo di Ĕ, muta la parola in “fɛr:o”. In “caru” e “casa”, il vocalismo di Ā, Ă mutano la parola
in “karo” e “kasa”. In “octu” il vocalismo di Ŏ muta la parola in “ᴐt:o”. Per “voce” e “cruce”, il vocalismo di
Ō, Ŭ, mutano le parole in “voʧe” e “kroʧe”. Mentre per “luce” il vocalismo di Ū muta la parola in “luʧe”.
Vocalismo. Latino e siciliano.
Esempi. (Guarda PowerPoint).
Vocalismo tonico. Particolarità vocaliche dell’area settentrionale.

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Area galloitalica. Una vocale arrotondata (“turbata”). “MŪRU” diventa nel parlato “*mur” che si scrive
“myr” dove [y] è uguale a ü. Oppure “LŪNA” diventa nel parlato “*luna” che si scrive “ ‘lyna” dove [y]è
sempre ü.
“FŎCU”, nel parlato si dice “*fɔg” o “*fɔg”, che si scrive rispettivamente “fœg” e “fœk”. Per quanto
riguarda “ŎCLU”, nel parlato si dice “*ɔʧ” che si scrive “œʧ”.
Area gallo-italica. Due palatalizzazione di à.
8/03
Se si prende il concetto di “figlio”, ci sono due forme:
1. Quella con la base “filiu” (Roma, Napoli, Sicilia);
2. Dalla Toscana in su la parola prende da “filiolo” (filiu+olo).
Si vede dalla vocale accentata che nel primo caso è la “i” della prima sillaba, mentre nel secondo è la “i”
della seconda sillaba. Idea che il latino parlato ha tipologie diverse.
Posizione del possessivo. In area centro-settentrionale precede la parola, mentre da Roma in giù il possessivo
segue la parola. In area meridionale estrema torna prima della parola.
Il sistema di riferimento non è quella a dieci del latino, ma a sette vocali, dove non è importante la durata
delle vocali, quanto gli accenti del sistema panromanzo che restano anche nel fiorentino. Questo sistema
entra in interferenza con quelle esistenti nel latino.
Napoli. ‘pƐrƏ -> “piede” / ‘pjƐrƏ -> “piedi”. L’informazione di numero non ce la dà la vocale finale, che è
indistinta. Altri esempi: ‘mɔrtƏ -> “morta” / ‘mwɔrtƏ -> “morti”. ‘solƏ -> “sola” / ‘sulƏ -> “solo”,“soli”.
Quando siamo in presenza di una “i” finale e una “u” finale, queste in area napoletana hanno il potere di
modificare la vocale di partenza. La “e” e le “o” sono soggette a questa distinzione, e si chiama
“metafonesi”, cioè una distinzione a distanza. La “o” e la “u” finali modificano la “e” e la “o” iniziali.
Quando le vocali sono aperte, restano aperte. Quando si ha una “o” o “i”, si ha un dittongo. La “e” e “u”
finale modificano la vocale tonica che la precede. Se è “e” o una “o”, si hanno dittonghi. Se si ha una “o”
chiusa, si chiude ancora di più. Le vocali toniche aperte dittongano, quelle chiuse si chiudono ancora di più.
A Napoli la “d” tra vocali va avanti ad un fenomeno di “rotacizzazione”.
Firenze. La “e” aperta e “o” aperta vanno di fronte ad un fenomeno di “dittongamento”. Il dittongamento del
fiorentino si ha in sillaba libera. Successivamente si ha un ulteriore accorciamento con “fuoco” (‘fwɔko e
‘fɔho).
Anafonesi, modificazione per adiacenza. FAMĬLIA -> *faméglia, si chiude ulteriormente diventando
fa’miλ:a. Si modifica quando la “e” chiusa è seguita da gruppi palatali o la presenza di n+consonante velare.
La Ĭ diventa “e” breve, la Ŭ diventa “u” breve. Si chiudono ancora di più solo in questi casi.
Le vocali atone finali: in area settentrionale (gallo-italica) tendono a cadere tranne la “a” e la “e” finale,
quindi i femminili; in Veneto e Liguria sono più stabili e tendono a rimanere; in area centrale si mantengono,
benché le vocali non sono sette, ma cinque e quattro quando si parla di vocali atone finali
(A, E, I, O); in area meridionale si tendono a ridurre le vocali atone finali e si sostituiscono con una Ə; in
area meridionale estrema (Sicilia, Salento e Calabria meridionale) non sono indistinte, ma diventano tre (A,
I, U); in Sardegna restano cinque.
L’area meridionale estrema è particolare, perché “meno meridionale” dell’area meridionale per via delle
vocali e per via dell’“avere” che in area meridionale è “tenere”, ma ritorna in area meridionale estrema.
Consonantismo. Esito di K/T/P, consonanti occlusive sorde. Vanno incontro a cambiamenti in posizione
intervocalica.

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Area veneta: or’tiga / ‘rɔda / ‘sovra (tra vocali si sono sonorizzate)
Firenze: or’tiha / ‘r(w)ɔƟa / ‘soɸra (si spirantizzano, e passaggio da occlusive sorde a fricative)
Area meridionale: ‘fraȠgƏ (Franco) / an’dɔ (Antonio) / ‘sƐmbrƏ (sempre)
(si sono sonorizzate, in posizione post-nasale)
“Nostr lait a parla piemonteis” (area gallo-italica). La vocale cade se finale, tranne la “a”.
“latte”:
• lat:e (Firenze), -CT- è diventata una “t” intensa e la “c” si assimila (assimilazione);
• lat
A B 4 D(Milano), si ha un’affricata palatale e cade la vocale finale;

• lait (Torino) si è formata una “i”, senza assimilazione in area gallo-italica, ma una palatizzazione;
• late (Venezia), la vocale finale non cade perché più stabile, e un’assimilazione come nel fiorentino e
le consonanti geminate “degeminano” e diventano scempie;
• lat:Ə (Napoli) / lat:i (Palermo), vocale finale indistinta a Napoli, ma si ha in area meridionale
estrema con le loro vocali, e il nesso -CT- va incontro ad assimilazione.
Si assimila ovunque tranne che in area gallo-italica. Le vocali finali restano a Firenze, Venezia e area
meridionale estrema.

9/04
“figlio”. Esiti da FĪLIU oppure FĪLIU+ŎLU. In entrambe la prima sillaba è uguale.
A Firenze non cambia. LJ va di fronte ad esiti diversi. A Bologna, Milano, Venezia si trasforma in j (iod),
mentre a Firenze diventa λ:, cioè da semplice ad aperta.
In area meridionale si ha j: quindi una iod intensa.
In area meridionale estrema diventa ɉ:, cioè un’occlusiva palatale intensa.
Al tipo FILIU rimanda anche Genova, dove diventa dʒ, cioè un’affricata palatale.
Nel caso di FĪLIU+ŎLU la vocale accentata è la Ŏ e non la Ī. Quindi a Bologna e Venezia la Ŏ diventa ɔ,
come anche a Firenze, che si mantiene. A Milano si “turba” (arrotonda) e diventa œ e si palatizza. Alla
sillaba finale a Bologna la vocale atona finale cade. Il milanese è diverso perché cade tutta la sillaba. A
Venezia la vocale finale si mantiene sempre. A Firenze si conservano le atone finali.
A Roma e Palermo si mantengono, mentre se a Roma resta la “o”, a Palermo diventa “u”. A Napoli e Bari
diventa indistinta la vocale finale.
A Genova c’è la particolarità che mantiene la vocale finale e diventa “u”.
L’Italia si articola in tre aree immaginarie. Ogni linea è un fenomeno linguistico. Le linee, o meglio i fasci
sono chiamate “isoglosse”, che significa “la stessa lingua”, ma in linguistica è sinonimo di “limite di
diffusione di un fenomeno” (visione tripartita di Rohlfs).
G.B. Pellegrini è stato il primo a definire la lingua-tetto. Ha definito cinque sistemi linguistici:
1. Dialetti settentrionali (isoglossa La Spezia-Rimini);
2. Diletto centro-meridionale (isoglossa Roma-Ancona);
3. E tre aree dove i confini linguistici sono sovrapponibili (friulano, toscano e sardo).

Il toscano è particolare perché è l’unico in area centrale ad aver determinati connotati linguistici.

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Fenomeni e aree dialettali:
• Area settentrionale (scempiamento delle doppie geminali; sonorizzazione di g, d, v, quindi
indebolimento; latino KL passa aAtB 4 Dcioè palatizzazione, e GL dà dʒ;AtB 4+e/i
D diventa s, cioè
assibilazione, e ts diventa s; l’espressione del pronome soggetto prima del verbo);
• Aree intermedie:
• Area gallo-italica vs area veneta (presenza/assenza di vocali turbate; diverso trattamento di -
KT-; palatalizzazione di “à”; diversa tenuta delle vocali atone);
• Liguria (PL e KL diventanoAtB 4;D BL e GL diventano dʒ);
• Area friulana (conservazione nessi consonante+L; palatalizzazione C,G+a);
• Area toscana (gruppo r+i+vocale, esempio -ARIU, diventa una iod, quindi -AIO; spirantizzazione;
-t
A B 4 -/-dʒ-
D ->A B 4/ʒ;
D raddoppiamento fonosintattico; vocalismo);

• Area meridionale (sonorizzazione occlusive post-nasali; assimilazione di consonanti doppie; -b- e -


g- raddoppiano; affricazione di s dopo consonante; betacismo; PL -> KL; oggetto preposizionale).

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