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lingua e nella
cultura italiana:
analisi, interpretazioni, prospettive
Parte I. Lingua............................................................................................... 11
Elżbieta Jamrozik
Tra emozione e stereotipo: la tragedia politica vista attraverso la lingua
de L’Unità ............................................................................................................ 13
Roman Sosnowski
Conflitto e oltre. Autore–volgarizzatore–copista nel manoscritto
medievale............................................................................................................. 33
Sylwia Skuza
Gli aggettivi al servizio delle relazioni nei mass media di oggi sui
conflitti interni ed internazionali..................................................................... 43
Magadalena Bartkowiak-Lerch
Una lotta per l’autoconservazione: la dimensione linguistica....................... 53
Anna Grochowska–Reiter
La percezione dell’altro nella commedia all’italiana...................................... 61
Maciej Durkiewicz
Autori di diari on–line di fronte alla norma: scriventi incompetenti,
recalcitranti o conservatori?.............................................................................. 71
Beata Katarzyna Szpingier
Il conflitto tra sano e malato nelle metafore militari del campo medico
italiano................................................................................................................. 83
Alicja Paleta
Multimediale e interattivo... Un’esigenza del metodo o del mercato? ......... 121
Karolina Wolff
Il fattore ludico nell’insegnamento come soluzione al conflitto tra
i vecchi e i nuovi metodi didattici.................................................................... 131
Joanna Jarczyńska, Katarzyna Święcicka
Il conflitto nella didattica dell’italiano ovvero la didattica dell’italiano
tra vari conflitti................................................................................................... 141
La prima sezione, dedicata agli studi linguistici, si apre con l’intervento di Elżb-
ieta Jamrozik, che si occupa della riflessione linguistica, osservabile nella stampa
italiana, dei conflitti politici e ideologici relativi allo sviluppo del movimento co-
munista nell’Italia e nella Polonia del dopoguerra e offre un’ampia disamina dell’e-
voluzione della lingua de L’Unità (organo del Partito Comunista Italiano) tra l’au-
tenticità e la fossilizzazione tipica per la propaganda comunista.
Roman Sosnowski, invece, si concentra sui testi medievali manoscritti, so-
prattutto i volgarizzamenti, e le relazioni conflittuali che si presentano nell’uso del
latino e del volgare, come code–switching o contrasto fra strati dialettali del mano-
scritto. Un altro volto del conflitto viene presentato da Sylwia Skuza, che prende
in esame l’uso, a volte esagerato, degli aggettivi nei testi giornalistici riguardanti
i conflitti. Nel testo di Magdalena Bartkowiak–Lerch si analizza la hegeliana ‘lotta
per il riconoscimento’ tra la lingua di prima e di seconda socializzazione che pren-
de la forma di una continua tensione ai fini identitari. Un simile approccio, rela-
tivo all’identità, appare nel contributo di Anna Grochowska–Ritter, che si occupa
dell’ambito cinematografico e mette in risalto le divergenze regionali e il modo
in cui vengono rappresentate al livello linguistico e comportamentale nei film della
commedia all’italiana. Maciej Durkiewicz, invece, propone uno studio sulle rela-
zioni conflittuali tra la norma e gli usi linguistici riscontrabili nei blog diaristici che
si possono inquadrare alla luce del ridimensionamento dello standard dell’odierno
italiano medio. Questa parte si chiude con la ricerca di Beata Szpingier, che esa-
mina le metafore militari del campo medico italiano, in particolare la contrappo-
sizione tra sano e malato.
Nella parte dedicata alla tematica glottodidattica ritroviamo cinque studi
che affrontano i problemi dell’insegnamento della lingua italiana. Anna Godzich
si concentra sulle controversie nel trattamento della subordinata oggettiva e delle
proposizioni circostanziali finali e causali nelle grammatiche descrittive italiane.
Aleksandra Kostecka–Szewc mette in rilievo il ruolo delle nuove tecnologie nell’in-
segnamento di lingue straniere e i problemi (ma innanzitutto le nuove opportuni-
tà) ad esse legati. Anche Alicja Paleta nota il potenziale conflitto sull’asse appren-
dente – insegnante – teoria della glottodidattica – materiali didattici ai tempi delle
nuove tecnologie, specialmente per quanto riguarda la multimedialità: idealizzata
a volte dagli utenti e da alcuni studiosi, nonché ignorata talvolta dagli insegnanti
che negano la sua utilità. In simil modo Karolina Wolff si sofferma sull’impiego
degli strumenti digitali nell’insegnamento di lingue straniere e sulla loro efficacia
rispetto ai metodi tradizionali, puntando sul fattore ludico come soluzione al con-
flitto tra vecchio e moderno nel processo didattico. Concludendo la parte inerente
all’insegnamento, Joanna Jarczyńska e Katarzyna Święcicka individuano nel loro
articolo ancora più strati conflittuali (quello legale, organizzativo, metodologico
e ideologico) a cui devono far fronte le persone coinvolte nella didattica, offrendo
eventuali soluzioni ai problemi che sorgono.
Premessa 9
La sezione dedicata alla letteratura italiana raggruppa gli articoli che trattano
opere molto diverse tra di loro, anche diacronicamente, tuttavia è proprio il leit-
motiv del conflitto che permette una loro interessante rilettura. Fabio Boni prende
in esame i testi di Lucrezia Marinelli e Moderata Fonte, due scrittrici vissute a Ve-
nezia a cavallo tra XVI e XVII secolo, che criticano il sistema sociale e la cultura
italiana loro contemporanee e cercano di opporsi alla prepotenza maschile attra-
verso la letteratura. Raoul Bruni offre un’analisi dell’opuscolo politico di Curzio
Malaparte, Tecnica del colpo di Stato, in cui tratta principalmente il rapporto tra
la meccanizzazione (la tecnica del titolo) e i conflitti politici, come i golpe che
avevano caratterizzato l’Europa dei primi decenni del Novecento, sottolineando
l’attualità della riflessione dell’autore. Nel contributo di Luca Palmarini il conflitto
si manifesta, attraverso tre opere letterarie (di Claudio Magris, di Carlo Sgorlon
e di Józef Mackiewicz), nella tragedia cosacca avvenuta durante la seconda guerra
mondiale: il dramma di un popolo alla ricerca di una Patria perduta. Małgorzata
Puto, invece, analizza nei termini del conflitto la narrativa di Giuseppe Culicchia,
dimostrando come questo scrittore, ribelle e critico verso la società postmoderna,
biasima i cambiamenti avvenuti nella città nell’epoca della globalizzazione, soprat-
tutto quelli fondati sul contrasto tra vecchio e nuovo, moderno e tradizionale, pas-
sato e presente, illusione e realtà, globale e locale. Nello studio di Stefano Redaelli,
basato sui testi di autori come Primo Levi, Italo Calvino, Carlo Emilio Gadda,
Daniele Del Giudice, Piergiorgio Odifreddi, Bruno Arpaia, viene esaminato il rap-
porto tra letteratura e scienza come espressione di dialogo e/o conflitto tra due
culture. L’ultimo articolo del tomo è dedicato a Michele Mari e il suo Verderame,
dove Katarzyna Skórska espone il rapporto conflittuale dell’autore con la realtà,
delineato attraverso la figura del protagonista adolescente e i suoi problemi con
il mondo circostante.
Indubbiamente, il volume, pur tenendo conto della sua complessità e eteroge-
neità, non esaurisce le potenzialità del conflitto come chiave di lettura dei fenome-
ni di natura linguistica, glottodidattica o letteraria, tuttavia, l’insieme delle ricerche
presentate riesce a confermare la produttività di un’analisi che ruota attorno a un
asse comune. I vari approcci al fenomeno del conflitto proposti dagli Autori dimo-
strano i suoi diversi risvolti: i vari contesti in cui può avere luogo, i rapporti che
riguarda, i fattori che ci intervengono, il conflitto non è, quindi, esclusivamente
una forza distruttrice, ma può essere percepito in termini più positivi, come op-
portunità per nuove interpretazioni e riflessioni.
Parte I. Lingua
Tra emozione e stereotipo: la tragedia politica vista
attraverso la lingua de L’Unità
Elżbieta Jamrozik
Uniwersytet Warszawski, Warszawa
Introduzione
1
Gli studi sulla stampa italiana e polacca per l’arco temporale che qui consideriamo, ossia
gli anni 1953–1981, mettono in evidenza, per ovvie ragioni politiche, caratteristiche ben
diverse: se la stampa italiana del dopoguerra si libera dalla pesante retorica del venten-
nio e cerca la propria fisionomia linguistica, la stampa in Polonia, sottomessa al potere
dell’Unione Sovietica, si vede obbligata ad adoperare una lingua che per molti tratti appare
totalitaria. In conseguenza, allorché gli studiosi italiani (Maurizio Dardano, Il linguaggio
dei giornali Italiani, Bari, Laterza, 1973, Ilaria Bonomi, L’italiano giornalistico. Dall’inizio
del ‘900 ai quotidiani on–line, Firenze, Franco Cesati, 2002) sottolineano la diminuzione
degli usi aulici e letterari della lingua, quelli polacchi (ci limitiamo a citare Jerzy Bral-
czyk, O języku polskiej propagandy politycznej lat siedemdziesiątych – On the Language
of Polish Political propaganda of the 70s, Uppsala, Almqvist&Wiksell International, 1987,
Michał Głowiński, Nowomowa po polsku, Warszawa, OPEN, 1990, (traduzione italiana:
L. Gebert, Neolingua alla polacca, PLIT 2007, pp. 192–204), tra i primi a descrivere i mec-
canismi di propaganda politica in Polonia) denunciano una lingua messa al servizio della
propaganda, vuota di contenuti, altamente ideologizzata e palesemente persuasiva, pregna
di scelte assiologiche imposte al lettore (bene: male; giusto: errato, amico: nemico) che
si riflettono a livello lessicale specie nelle scelte di termini altamente prevedibili e concate-
nazioni di parole che diventano quasi fisse e ripetitive.
14 Elżbieta Jamrozik
Lo scopo della disamina che qui proponiamo è seguire l’evoluzione della lingua
dell’organo del PCI, L’Unità, prendendo come punti di riferimento quattro avve-
nimenti svoltisi nell’arco di quasi trent’anni: i primi sono la morte di due dirigenti
comunisti – Josef Stalin (5 marzo 1953) e Palmiro Togliatti (22 agosto 1964) – che
verranno ricordati e compianti come due eminenti politici, benché, come si vedrà,
in modo diverso. Gli altri due fatti riguardano la Polonia, quindi rientrano nella
categoria ‘notizie dall’estero’. Sono eventi in un certo senso scomodi per il partito
comunista, in quanto vanno all’incontro dell’immagine idealizzata delle relazioni
tra stato socialista e popolo di cui quest’ultimo si considera l’emanazione: infatti
sia la protesta operaia di Poznań del giugno 1956, sia il colpo di stato del generale
Jaruzelski che il 13 dicembre 1981 mise brutalmente fine alla vasta opposizione
del popolo polacco incarnata dal sindacato Solidarność costituiscono l’immagine
di un conflitto esploso tra il popolo ed i dirigenti che si dicevano “figli” del medesi-
mo. Dal materiale linguistico raccolto da L’Unità si profila l’evoluzione della lingua
tra gli anni dello stalinismo e i decenni successivi; ciò non stupisce, dato che l’Ita-
lia rimane un paese democratico, seppur travagliato in quegli anni da altrettanto
gravi problemi interni ed esterni2. In questo contesto alquanto complesso si pone
la domanda se, e in quale misura, la lingua dell’organo del PCI abbia subito gli stes-
si influssi ideologici che rendevano pressappoco illeggibile la stampa quotidiana
nei paesi del blocco dell’Est. Infatti i quotidiani polacchi, specie l’organo del partito
Trybuna Ludu, hanno messo in atto un complesso meccanismo di persuasione re-
alizzata attraverso un ventaglio di procedimenti retorici: esaltazione smisurata dei
valori e della qualità della vita, in ovvio contrasto con la realtà dei paesi del socia-
lismo reale; glorificazione dell’onniscienza dell’apparato dirigente del partito, che
per definizione segue sempre la via giusta e non sbaglia mai; elogio dell’amicizia
solida e incondizionata tra paesi e partiti fratelli saldamente uniti contro il nemi-
co comune. A questo scopo propagandistico è stata asservita la lingua che, lungi
dall’essere l’espressione flessibile del pensiero che vola, è diventata veicolo di ste-
reotipi e clichés, di formule consacrate che ricreano un mondo altrettanto utopico
che fossilizzato nella sua irrealtà. Queste caratteristiche, considerate comuni per
i linguaggi totalitari3 e studiate in Italia nel contesto della lingua del periodo mus-
2
Si consideri che l’arco temporale qui considerato abbraccia sia la guerra del Vietnam
e il movimento di protesta del 1968 che il successivo periodo degli anni di piombo.
3
Oltre alle opere ormai classiche di Victor Klemperer, Lingua Tertii Imperii. Notizbuch eines
Philologen, Leipzig, Reclam–Verlag 1972 (traduzione polacca con commenti di M. Stroińska,
Toronto, Polski Fundusz Wydawniczy w Kanadzie, 1992) e Jean–Pierre Faye, Langages
totalitaires, Paris, Hermann 1972, ambedue basate sul totalitarismo in Germania, occorre
citare anche Cecylia Jarmuła, Die Indoktronation durch Sprache am Beispiel der Lehrwer-
ke der Nazi– und der DDR–Zeit, Dresden–Wrocław, Neisse Verlag, 2009 nonché lo studio
di Françoise Thom, La langue de bois, Paris, Juillard, 1987 sulla langue de bois.
Tra emozione e stereotipo: la tragedia politica vista attraverso la lingua de L’Unità 15
soliniano, in Polonia sono state indagate e descritte appieno all’inizio degli anni
’90, dopo i cambiamenti politici del 1989.
Ci siamo proposti di verificare se la lingua de L’Unità fosse in qualche misura
contaminata da questa caratteristica; nel dubbio – proprio perché il quotidiano
veniva pubblicato in un paese democratico dove i membri del partito non erano
sottoposti a un permanente lavaggio del cervello e avevano la possibilità di espri-
mersi liberamente – abbiamo pensato mettere a confronto le relazioni successive
alla scomparsa di Stalin, eroe lontano e astratto di un paese altrettanto distante,
con quelle che hanno seguito dieci anni dopo la morte del figlio del popolo italiano
Palmiro Togliatti. Un intento analogo ha dettato la scelta di altri due eventi sotto-
posti all’esame: il primo, la protesta operaia polacca repressa nel sangue nel giugno
1956, ha avuto luogo a soli tre anni dopo la scomparsa di Stalin. In quest’epoca
di guerra fredda, nell’ottica comunista le proteste operaie erano indirizzate contro
le sanguisughe del capitalismo: abbiamo voluto esaminare in quale modo l’organo
ufficiale del partito comunista di un paese democratico ha relazionato la repres-
sione di scioperi operai rivolti contro un governo tutt’altro che capitalista, anzi
emanato dal partito che si diceva operaio. L’espediente ideologico è tuttavia preve-
dibile e sfocia nella soluzione propagandistica che pone alla base del sollevamento
operaio le macchinazioni dei nemici del popolo. L’ultimo avvenimento qui studia-
to riguarda avvenimenti storici troppo noti e di un rilievo internazionale troppo
importante per essere alterati secondo una prospettiva ideologica semplicistica:
sarebbe infatti difficile credere che un sindacato di 10 milioni di aderenti fosse
manipolato dai nemici del popolo polacco. Inoltre Solidarność e il suo leader go-
devano sin dall’inizio di grande simpatia e appoggio presso la sinistra italiana, che
si è immediatamente schierata contro le autorità di repressione militare.
4
Cfr. i testi classici citati sopra: per la Polonia Bralczyk, O języku polskiej propagandy, cit.; Je-
rzy Bralczyk, O języku propagandy i polityki, Warszawa, Trio, 2007; Głowiński, Nowomowa
po polsku, cit.; Michał Głowiński, Mowa i zło, Lublin KUL, 1992; Michał Głowiński,
Mowa w stanie oblężenia, Warszawa, OPEN, 1996; anche Janusz Barański, Socjotechnika
między magią a analogią, Kraków, Wydawnictwo Uniwersytetu Jagiellońskiego, 2001, per l’I-
talia Sergio Raffaelli, Le parole proibite. Purismo di Stato e regolamentazione della pubbli-
cità in Italia, Bologna, Il Mulino, 1983 e Francesca Santulli, Le parole del potere, il potere
delle parole. Retorica e discorso politico, Pavia, Franco Angeli, 2005.
16 Elżbieta Jamrozik
La neolingua è la lingua comune del blocco comunista, le sue regole di-
pendono in minima parte dalle peculiarità di una data lingua etnica e dalle
concrete circostanze storiche in cui si trova a funzionare. La versione sovietica
della neolingua gioca il ruolo di pioniera, è il modello e la fornitrice di innu-
merevoli cliché, stereotipi, formule obbligatorie o addirittura consacrate, che
vengono in un modo o nell’altro assimilate e imitate. Nelle neolingue locali
molti elementi sono d’importazione, tuttavia solo nel periodo staliniano non
si differenziavano quasi per niente dalla forma canonica. Negli ultimi decen-
ni subiscono delle differenziazioni caratteristiche, sebbene nessuna delle ver-
sioni metta in discussione ciò che per la neolingua è la cosa più importante:
la totale sottomissione alla lingua del potere monopartitico. (…) Le differen-
ziazioni sono però importanti e interessanti, poiché permettono di rivolgere
l’attenzione a meccanismi e a proprietà del fenomeno che potrebbero restare
inosservati se si prendesse in considerazione soltanto la versione sovietica.
La neolingua non si limita a ciò che è di sua diretta competenza, ma in-
vade altre maniere di parlare, altri stili sociali, mira alla loro eliminazione (...)
Il suo funzionamento è quindi duplice: non è solo ciò che è, ma deve costi-
tuire per il parlante una griglia di base che delimita la sfera delle sue attività
linguistiche (p. 189).
Si potrebbe presumere, seguendo l’autore, che questo tipo di codice sia comu-
ne per l’insieme della comunicazione dei partiti comunisti. Tuttavia, considerando
che nell’arco temporale considerato in Italia il PCI era un partito tra altri, così
come L’Unità un quotidiano tra altri, ci siamo proposti di verificare se, e in quale
misura, il concetto di neolingua si potesse applicare alla lingua della stampa di un
paese democratico. Studiando i procedimenti linguistici messi in opera negli ar-
ticoli de L’Unità dedicati agli avvenimenti citati, ne abbiamo rilevato gli aspetti
d’importazione sovietica, ma abbiamo cercato più che altro di evidenziare i mo-
5
La traduzione italiana Neolingua alla polacca ad opera di L. Gebert è stata pubblicata nella
rivista PLIT 2007, pp. 192–204.
Tra emozione e stereotipo: la tragedia politica vista attraverso la lingua de L’Unità 17
menti in cui la relazione del quotidiano italiano si allontana da questo modello per
staccarsene finalmente in modo totale.
La metodologia
6
Si vedano Marco Baroni – Alessandro Lenci, Distributional Memory: A General
Framework for Corpus–Based Semantics, in «Computational Linguistics», vol. 36:4, 2010,
pp. 673–721; Marco Baroni – Alessandro Lenci, How we BLESSed distributional se-
mantic evaluation, Proceedings of the GEMS 2011 Workshop on Geometrical Models of Natu-
ral Language Semantics, EMNLP 2011, Edinburgh, Scotland, pp. 1–10; Alessandro Lenci,
Modelli distribuzionali del lessico. Modelli computazionali per l’analisi semantica, in «Infor-
matica Umanistica», 3: 2010, pp. 57–69.
7
Si vedano le analisi logometriche proposte da Damon Mayaffre, Analyse du discours poli-
tique et Logométrie: point de vue pratique et théorique, in «Langage et Société», Maison des
Sciences de l’Homme, 2005: 114, pp. 91–121 per i discorsi di Sarkozy.
8
Zellig Harris, Mathematical Structure of Language, New York, John Wiley, 1968.
9
John Rupert Firth, Papers in Linguistics, London, Oxford University Press, 1957.
10
John Sinclair, Corpus, Concordance, Collocation, Oxford, Oxford University Press, 1991.
11
Firth, Papers in Linguistics, cit., pp. 11–12: «The habitual collocations in which words un-
der study appear are quite simply the mere word accompaniment, the other word material
in which they are most commonly or most characteristically embedded (…) The colloca-
tion of a word or a ‘piece’ is not to be regarded as mere juxtaposition, it is an order of mu-
tual expectancy. The words are mutually expectant and mutually prehended».
18 Elżbieta Jamrozik
metodologia fu, ed è tuttora, ampiamente sfruttata nel corso dell’analisi dei corpo-
ra12: In Italia, sono frutto dell’approccio distribuzionale al lessico le recenti opere
lessicografiche dedicate alla combinatoria lessicale13. Varie ricerche svolte nel qua-
dro della semantica distribuzionale si avvalgono dei metodi di analisi computazio-
nale per stabilire le distribuzioni delle parole estratte da corpora lessicali14. L’ana-
lisi delle co–occorrenze lessicali costituisce una base solida, poiché documentata
da materiale linguistico tratto dai corpora, per le riflessioni semantiche riguardanti
le relazioni lessicali, l’accettabilità dei costrutti, nonché la rappresentazione del si-
gnificato del lessema di cui si studiano le concordanze. In questa ottica, la chiave
fondamentale per l’analisi semantica viene data dalla ricostruzione dei rapporti
sintagmatici che intercorrono tra i lessemi usati in praesentia in un dato contesto.
Un’ulteriore fonte metodologica di cui ci si avvale è la teoria dell’immagine lin-
guistica del mondo nella versione sviluppata in Polonia da J. Bartmiński15, proprio
a scopo di analisi dei testi assiologicizzati della fine del Novecento. Attribuendo
alla lingua un ruolo attivo nel processo cognitivo, gli autori che rappresentano
questa corrente di pensiero stabiliscono una relazione tra scelte lessicali e perce-
zione dell’oggetto denotato.
Avvalendoci degli approcci citati cercheremo di mostrare, sul corpus del ma-
teriale lessicale fornito da L’Unità, le concatenazioni di forme lessicali proprie per
i testi considerati che diventano caratteristiche, per la loro ripetitività, del modo
di presentare gli avvenimenti trattati. Ne consegue inoltre un effetto collaterale
a livello della percezione linguistica da parte dell’utente–lettore: più alta è la fre-
quenza di co–occorrenze tra medesime unità lessicali, più fossilizzata e stereoti-
pata appare la lingua, percepita non più come un codice comunicativo vivo, bensì
come langue de bois, neolingua.
12
Occorre segnalare il contributo di J. Sinclair al progetto Cobuild (Collins Birmingham
University International Language Database) che riguardava la costituzione di un largo
corpus di dati e di cui frutto è il The Colllins COBUILD English Language Dictionary.
13
Paola Tiberii, Dizionario delle collocazioni, Bologna, Zanichelli, 2012; Vincenzo Lo Ca-
scio, Dizionario combinatorio compatto italiano, John Benjamins Publishing Company,
Amsterdam/Philadelphia, 2012.
14
Si vedano Marco Baroni – Alessandro Lenci, Distributional Memory, cit.; Marco
Baroni – Alessandro Lenci, How we BLESSed distributional semantic evaluation, cit.;
Alessandro Lenci, Modelli distribuzionali del lessico, cit.
15
Ci limitiamo a ricordare i volumi: Podstawy metodologiczne semantyki współczesnej, a cura
di Iwona Nowakowska–Kempna, Język a Kultura, vol. 8, Wrocław, 1992 e Jerzy Bart-
miński, Językowe podstawy obrazu świata, Wydawnictwo UMCS, Lublin, 20016, in cui
il lettore troverà riferimento ad altri testi rappresentativi per questo indirizzo linguistico.
Tra emozione e stereotipo: la tragedia politica vista attraverso la lingua de L’Unità 19
Il corpus
STALIN
Una funzione semantica particolare, come risulta dai frammenti citati, spetta
anche all’espressione linguistica della quantificazione generale: tutto/tutti, ogni.
L’aggettivo in funzione elativa accompagna regolarmente non solo il nome del
protagonista Stalin, ma anche qualifica le sue opere, ponendosi alla base di espres-
sioni ad alta frequenza che, nella retorica del partito, si fossilizzano, in modo che
il nome non riesca più a funzionare senza tale determinante: si possono citare
come esempio le seguenti concatenazioni: piano grandioso, esempio luminoso, svi-
luppo incessante/costante, marcia gloriosa, eroico cammino, strada giusta, via sicu-
ra, benessere umano, causa comunista, libertà democratiche. Riferendosi alle opere
16
Anche le figure retoriche, come quelle contenute in questo breve frammento, sono rivela-
trici dello stile del partito: personificazione (l’opera illumina), l’antitesi (illuminare vs oscu-
rantismo).
Tra emozione e stereotipo: la tragedia politica vista attraverso la lingua de L’Unità 21
e progetti di Stalin esse funzionano come qualificazioni di secondo grado, con-
tribuendo a creare l’immagine del dirigente che non si stanca di dare all’umanità
intera pace e benessere crescente, come risulta dagli esempi citati:
Stalin interveniva con tre scritti che permettevano di rimettere sulla giu-
sta strada gli scienziati sovietici,
... indica all’umanità la via sicura per intervenire nella realtà a costruire
una società libera dallo sfruttamento, aperta a tutte le strade del benessere
umano, della pace e del progresso scientifico,
...ha guidato il popolo sovietico ad una vittoria del Socialismo,
...ha guidato il Popolo alla vittoria sul fascismo,
...ha armato il Partito e tutto il popolo di un grande e luminoso program-
ma per l‘edificazione del comunismo,
...ha dedicato tutta la sua vita a servire disinteressatamente la causa co-
munista.
Di conseguenza, la notizia della morte del dirigente sovietico viene accolta
con dolore che il quotidiano relaziona in passaggi in cui non riesce ad allontanarsi
dalla retorica del partito:
... era continuato per tutta la giornata il plebiscito di affetto e di devozio-
ne verso il più grande assertore della pace e dell’amicizia fra i popoli,
Grande plebiscito di affetto che ha circondato la vita del compagno Stalin,
... sono pervenuti da ogni parte i messaggi che testimoniano quanto va-
sta e quanto profonda sia stata l’ondata di emozione che ha investito il nostro
Paese all’annuncio della grave malattia che ha colpito il compagno Giuseppe
Stalin e quanto grande sia stata la speranza, viva nel nostro popolo, che egli
fosse stato ancora a lungo conservato alla causa, cui la Sua vita prodigiosa
è stata dedicata La speranza, purtroppo, non è stata confortata.
Tuttavia, vengono citate anche autentiche manifestazioni del lutto, con imma-
gini che vanno al cuore dei compagni italiani e testimonianze dirette delle loro
reazioni:
E siccome in un paese democratico sono lecite anche altre opinioni che quelle
dettate del partito, in segno di lutto persino gli esercenti cinematografici hanno riti-
rato la programmazione di film antisovietici.
I frammenti riportati sopra, redatti in una lingua priva delle caratteristiche
della langue de bois del partito, coesistono con quelli in cui riappaiono le strutture
lessicali fisse, che riprendono i soliti aggettivi e avverbi combinandoli in sintagmi
altamente prevedibili:
Infatti, come risulta dai sopracitati studi di M. Głowiński17, è l’aggettivo che
contribuisce in gran parte alla formazione della neolingua della stampa dei pa-
esi del blocco, dato che esso costituisce l’elemento più prevedibile, più generico
e quindi meno carico di significato, contribuendo a creare espressioni che si fissa-
no in veri e propri clichés lessicali:
Anche gli avverbi, specie derivati dagli aggettivi di cui sopra, entrano in strut-
ture altrettanto fisse:
TOGLIATTI
Tale ritratto del capo di partito italiano si riafferma negli articoli successivi alla
sua morte:
Dai frammenti citati si profila un’immagine diversa dei due capi del partito:
la grandezza di Stalin viene presentata come lontana e astratta, mentre Togliatti
è figlio del popolo italiano, vicino al popolo che amò, dal quale fu amato e viene
24 Elżbieta Jamrozik
compianto (il concetto di amore, così frequente del contesto di Togliatti, è pratica-
mente assente nei testi dedicati a Stalin).
L’opera di Togliatti, pur contenendo il riferimento alle azioni di lottare, vince-
re (generalmente nel contesto del sostantivo fascismo), viene presentata in modo
meno aggressivo rispetto a quella di Stalin, attraverso scelte lessicali più ponderate
sia a livello dei verbi (sapere, dare, sancire, garantire, insegnare) che a livello dei
sostantivi: i concetti astratti (libertà, uguaglianza) vengono sostituiti da riferimenti
a persone (società di liberi e eguali):
La commozione è generale,
Ovunque sono esposte le bandiere abbrunate. Centinaia e migliaia di cit-
tadini appongono la loro firma sui registri esposti presso le sedi del PCI,
Sui muri campeggiano grandi giornali murali con l’effige di Togliatti li-
stata a lutto,
Una folla di cittadini sosta davanti alla sede del PCI,
Subito dopo l’annuncio della morte di Togliatti alcuni piccoli imprendi-
tori hanno chiuso le fabbriche in segno di lutto.
Tra emozione e stereotipo: la tragedia politica vista attraverso la lingua de L’Unità 25
Molti hanno pianto. È un grande dolore, come se avessimo perso uno
della nostra famiglia... (...) Togliatti non era più con noi, hanno ripetuto
in molti — soprattutto donne, operaie, casalinghe, persone semplici, di quei
quartieri popolari che circondano la città.
In pochi minuti migliaia di persone, comunisti, simpatizzanti, apoliti-
ci, avversari anche, hanno firmato i registri delle condoglianze: molti di essi
hanno voluto esprimere, con poche parole, tutti i loro sentimenti: Togliatti,
ci mancherai, ma rimane la tua opera.., Grazie ai tuoi insegnamenti, il partito
andrà ancora e sempre più avanti...
Era affabile, profondamente umano: non metteva per niente soggezione,
racconta un ragazzo ad un gruppetto di amici.
POZNAŃ ’56
La rivolta operaia che ebbe luogo a Poznań in giugno del 1956, così come i tra-
gici avvenimenti in Ungheria gettarono nello sgomento i partiti comunisti dell’Eu-
ropa occidentale. Difatti né i dirigenti, né a maggior ragione i semplici membri
del partito riuscivano a capire che l’apparato del partito comunista polacco abbia
potuto lanciare contro gli operai le forze militari del regime, che abbia represso
nel sangue le proteste del popolo. Nelle relazioni che L’Unità dà di queste giornate
si possono delimitare tre periodi ai quali corrispondono tre tipi di relazioni.
In un primo tempo, in assenza di altre notizie o relazioni dei propri corrispon-
denti, il quotidiano riporta testualmente il comunicato diffuso dalle autorità po-
lacche. Il governo di uno stato che si denominava Repubblica Popolare di Polonia,
formato dai membri del Partito Operaio Polacco, colto di sprovvista dagli avveni-
menti, è ricorso all’unica soluzione possibile nella sua ottica, quella di chiamare
in causa il “nemico esterno”: agenti imperialisti, provocatori e nemici del popolo
che hanno trascinato il popolo suo malgrado. E così il 29 giugno L’Unità informa:
26 Elżbieta Jamrozik
La repressione armata alla quale ricorre il governo viene riportata in modo
eufemistico, senza che vengano nominate le forze armate o la milizia (che diventa
la parte responsabile della classe lavoratrice) né venga riportata la brutalità della
repressione:
18
Il frammento successivo è una citazione testuale del comunicato emesso dal governo polac-
co. L’Unità si toglie in questo modo la responsabilità sia per la forma che per il contenuto
di questo passaggio.
19
Si preannuncia in questo modo al lettore l’interpretazione immediata dei fatti.
Tra emozione e stereotipo: la tragedia politica vista attraverso la lingua de L’Unità 27
L’accostamento delle tre relazioni dimostra che L’Unità, pur mantenendo la ri-
gidità linguistica nelle citazioni dell’agenzia di stampa o dell’organo ufficiale del
partito polacco, se ne distanzia atraverso la relazione del suo inviato, conferendo
28 Elżbieta Jamrozik
un volto umano alla prima grande tragica rivolta operaia nella Polonia del sociali-
smo reale. Questo meccanismo (citazione di fonti ufficiali in neolingua vs relazio-
ne propria del quotidiano) viene ripreso in occasione di altre proteste operaie che
scuotono il paese a distanza di pochi anni in dicembre 1970, giugno 1976, in ago-
sto 1980 quando nasce il grande movimento sindacale Solidarność messo a tacere
il 13 dicembre dell’anno successivo dal colpo di Stato del generale Jaruzelski.
13 DICEMBRE 1981
All’indomani del 13 dicembre 1981 lo sgomento è totale, sia in Polonia che
all’estero: le comunicazioni telefoniche interrotte, i media riproducono invaria-
bilmente il discorso del generale Jaruzelski e comunicati ufficiali. Mancano altre
informazioni.
Comunque i protagonisti non sono più alcune centinaia di operai scontenti:
il sindacato Solidarność conta quasi 10 milioni di membri (su una popolazione
di 38 milioni) che si possono domare con le armi, ma non più nascondere. L’U-
nità, che sin dalla nascita del sindacato gli aveva apertamente manifestato simpa-
tia e sostegno, questa volta non si limita a riprodurre i comunicati ufficiali, ma li
commenta e se ne distanzia, dimostrando che ormai, a scapito della retorica dei
partiti–fratelli e degli stati–fratelli, la fratellanza vera esiste non tra governi, ma tra
popoli. Il 14 dicembre il quotidiano esce con la prima pagina interamente dedicata
agli avvenimenti in Polonia, esprimendo la sua posizione sin dalle prime parole del
titolo: la presa del potere del comitato militare “di salvezza nazionale” (occorre no-
tare le virgolette) viene chiamata una drammatica svolta per la quale la direzione
del PCI esprime la sua condanna:
Non vi è più esitazione da parte del quotidiano italiano che riproduce – sempre
in prima pagina – il comunicato della Direzione del PCI:
Eloquente è sia l’ampiezza dello spazio che il quotidiano dedica agli avveni-
menti in Polonia (5 pagine intere) che i titoli dei singoli articoli: “Il drammatico
discorso di Jaruzelski all’alba di ieri”. “Le drastiche misure decise dal Consiglio
militare”, “Estremo appello Di Giovanni Paolo II «Non si versi altro sangue polac-
co»”. Questa volta gli aggettivi, lungi da entrare in freddi e vuoti clichés linguistici,
esprimono emozioni di fronte a una situazione drammatica e inquietante. Altret-
tanto spontanee sono le reazioni che le notizie dalla Polonia provocano in Italia,
che si leggono nei titoli del quotidiano: “Cgil, Cisl, Uil convocano manifestazioni
e assemblee in fabbrica”, “I commenti in Italia. Oggi la Camera”, “Sedute straordi-
narie dei consigli comunali. Appello FGCI per la difesa delle libertà”, “Oggi assem-
blee. Domani manifestano i sindacati a Roma”, “Manifestazione unitaria stasera
a Roma”, “Attivo del PCI a Roma”. A pagina 4 viene riportata l’interrogazione rivol-
ta dai dirigenti del PCI al presidente del Consiglio e al ministro degli affari esteri;
la riportiamo per esteso in quanto esprime l’inquietudine e la posizione del partito
comunista italiano di fronte ad avvenimenti che si sono verificati in un paese so-
cialista. Ormai siamo ben lontani dalle caute posizioni espresse nei confronti della
rivolta operaia di Poznań:
Per illustrare al lettore italiano le origini degli avvenimenti del 13 dicembre
il quotidiano presenta in sintesi, mese per mese, lo svolgimento cronologico del-
la situazione sin dalle prime manifestazioni di protesta e scioperi del luglio 1980
nell’ampio articolo “Il POUP, Solidarnosc, la Chiesa (e l’URSS) da Danzica ad oggi”
(p. 4): la panoramica riflette l’accrescersi della tensione interna ed esterna tramite
il mero accostamento dei fatti (ci limitiamo a riportarne due mesi consecutivi):
DICEMBRE 1980
5 – improvvisa riunione a Mosca dei rappresentati del Patto di Varsavia...
17 – a Danzica si svolge una solenne commemorazione degli operai uc-
cisi dalla polizia nel dicembre 1970...
30 – il congresso degli scrittori (...) condanna la censura e gli interventi
dello Stato nella vita culturale...
GENNAIO 1981
10: sciopero generale di Solidarnosc per ottenere, in conformità con gli
accordi di Danzica, il sabato libero
12 – a Nowi Sacz la polizia sgombra il municipio occupato
13–19 – viaggio di Walesa a Roma e incontro col Papa
24 – secondo sciopero generale per ottenere il sabato libero.
Attraverso le relazioni di una sola giornata si può vedere l’atteggiamento
de L’Unità nei confronti degli avvenimenti in Polonia: le convinzioni del quoti-
diano, rappresentative sia delle opinioni del PCI che della sinistra italiana, sono
espresse in modo diretto, come testimonia il titolo in prima pagina: Il PCI esprime
la sua condanna e chiede il ripristino delle libertà civili e sindacali, nonché i con-
tenuti dei singoli articoli; testimonianza indiretta ne sono peraltro il numero dei
servizi e lo spazio dedicato alla problematica polacca. La lingua adoperata per rela-
zionare i fatti avvenuti il 13 dicembre in Polonia ne riflette pienamente sia la dram-
maticità che l’apprensione della sinistra democratica europea.
Conclusioni
Introduzione
Il conflitto nel lavoro filologico e linguistico sul testo medievale può essere inter-
pretato in diversi modi. Nel presente lavoro si andranno a ricercare tracce del con-
flitto che è inteso nell’accezione figurativa: contrasto forte, opposizione. L’attenzione
sarà rivolta alle situazioni in cui nel testo medievale si crea tensione, ma si cercherà
anche di capire quando nell’unione di parti contrastanti prevale il conflitto e quan-
do, invece, si crea uno stato di equilibrio e la convivenza di componenti diversi non
è conflittuale. Non è difficile intravedere che vari elementi del testo medievale mano-
scritto, soprattutto nel caso dei volgarizzamenti, sono in uno stato di continua ten-
sione interna o simbiosi conflittuale. Il conflitto con opposizioni più marcate è quello
legato all’uso del latino e del volgare che si manifesta in almeno due modalità:
1) code–switching, cioè il conflitto oppure la convivenza a volte pacifica, a volte
conflittuale tra il latino e il volgare;
2) tensione tra diversi strati dialettali dello stesso manoscritto.
Oltre a quanto elencato, nel volgarizzamento medievale si possono scorgere
opposizioni di carattere filologico e traduttivo come l’opposizione tra la conserva-
zione degli elementi dell’originale da una parte e l’innovazione che di solito ha ca-
rattere divulgativo dall’altra. A ciò si aggiungono sovrapposizioni tra gli elementi
che sono dovuti all’intervento del volgarizzatore e all’intervento successivo dei
copisti. Nel caso dei testi della medicina l’intervento del copista poteva essere so-
stanziale, soprattutto quando di trattava del copista–medico, quindi una persona
consapevole della sua competenza nella materia che andava descrivendo. L’apporto
dell’autore, del volgarizzatore e del copista nel volgarizzamento medievale forma
un asse che può essere interpretato sia in termini di conflitto sia in termini di in-
tegrazione. Sarà conflittuale quando negli strati successivi viene cancellato e in
34 Roman Sosnowski
20
Päivi Pahta, Code–Switching in Medieval Medical Writing, in Medical and scientific writing
in late medieval English a cura di Irma Taavitsainen, Päivi Pahta, Cambridge, England;
New York, Cambridge University Press, 2004, pp. 73–99; Tony Hunt, Code–switching
in Medical Texts, in Multilingualism in later medieval Britain a cura di David Andrew
Trotter, Woodbridge, D.S. Brewer, 2000, pp. 134–148.
21
In totale sono 46 testi (o brani) più l’indice analitico. Cfr. Roman Sosnowski, Translation and
Popularization: Sources for the History of Italian Medicine of the Middle Ages in the Berlin Col-
lection of the Jagiellonian Library in Krakow, in «Manuscripta», vol. 58, fasc. 1, 2014: 30–39.
22
Infatti, p.es. a f. 109r troviamo il titolo in latino e il testo della ricetta in volgare: Ad do-
lore(m) oculi. Ad uno ch(e) avess(e) mal ale ochi ouero rossi.)... Lo stesso schema si ripete
in altre parti del ricettario.
Conflitto e oltre. Autore–volgarizzatore–copista nel manoscritto medievale 35
ma non mancano casi dove all’interno dello stesso ricettario cambia la lingua e una
ricetta (anche per combattere la stessa malattia) è in latino e un’altra in volgare23.
Alle commistioni latino–volgari (l’uso del latino contro l’uso del volgare) si af-
fiancano tutte quelle situazioni dove il copista o il volgarizzatore espressamente ri-
corda la scelta fatta da lui tra il latino e il volgare, a volte con intenti polemici. Inol-
tre, a una situazione generalmente condivisa in cui il latino viene visto come lingua
alta e di grande prestigio (al volgare spetterebbe il ruolo subalterno) si aggiungo-
no situazioni in cui il volgare è percepito come mezzo divulgativo. Quest’ultima
risulta evidente analizzando diversi elementi; in primo luogo testi che sono con
più frequenza volgarizzati hanno proprio carattere divulgativo, in secondo luogo
la struttura dell’originale latino viene semplificata proprio con l’intento divulgativo
e, infine, i traduttori non di rado esprimono a chiare lettere le proprie intenzioni24.
I casi presentati sopra, tuttavia, sebbene improntati al confronto, non sono
particolarmente conflittuali. Si tratta piuttosto di pacifica convivenza o di mutua
esclusione, ma la polemica, se esiste, è ben nascosta e mai accentuata. Nella lunga
storia della convivenza latino–volgare situazioni di conflittualità aperta sono, ov-
viamente, presenti. Non si scorgono nei volgarizzamenti di medicina, dove prevale
l’alternanza del codice linguistico, per così dire, pacifica, ma sono presenti in altre
realtà. Capita che nel medioevo e nel rinascimento vengano ribaltate le usuali ge-
rarchie che vedevano il latino in cima alle varie tipologie comunicative. Quando
si tratta di opposizione ‘lingua sincera’ verso ‘lingua non sincera’ il primato, istinti-
vamente e, demagogicamente, viene assegnato spesso al volgare. Viene chiaramen-
te il sospetto che si potesse trattare del grado di conoscenza dei due codici lingui-
stici, con il latino più articolato e più difficile a utenti di media cultura, ma il rifiuto
del latino non può essere ridotto solo alla rivalsa di chi non conoscesse tale lingua.
L’opposizione è di tipo culturale e l’abbandono del latino va letto come antielitaria
anche quando viene praticato da chi apparteneva alle élites. L’inaffidalità del latino
giuridico viene, per esempio, sostenuta da un famoso matematico rinascimentale,
Luca Pacioli che, nel suo testamento (in latino!) scrive:
E perché noi crediam che sia utilissimo a voi e a noi dichiarare bene
e apertamente senza punto di simulazione ovvero dissimulazione qual sia
la vera intenzione e il puro e sincero proposito di ciascuno di noi, abbiamo
deliberato di farvi questa risposta più tosto in volgare che in latino, sì per
soddisfar meglio e più agli animi nostri, sì etiamdio perché la S.V. non abbia
di bisogno nell’intendere di questo nostro così sincero proposito d’altra inter-
pretazione che della nostra propria, né in altro sentimento si possa intendere
che in quello che è il naturale e il vero intelletto delle parole volgari26.
Alla lingua latina, che sarebbe ambigua per natura, i fiorentini, come fa Pacioli
nel suo testamento, contrappongono il volgare schietto e diretto. In questo caso
il conflitto tra la sincerità e la dissimulazione è un conflitto aperto e dichiarato.
Considerando tali casi dobbiamo tuttavia mantenere le proporzioni e non dimen-
ticare che la situazione tra il medioevo e il rinascimento era molto complicata e che
nella lingua scientifica il più delle volte abbiamo a che fare con una convivenza tra
il latino agli strati alti (teorici) e il volgare agli strati bassi (divulgativi e pratici).
Autore–volgarizzatore–copista
L’eventuale conflitto tra il latino e il volgare con la divisione delle competenze
tra i due codici non è l’unico che si può leggere studiando i manoscritti medie-
vali. Forse più significativo è quello che contrappone l’autore o il volgarizzatore
ai copisti del manoscritto che sono originari di luoghi diversi da quelli dell’autore.
Il più noto conflitto di questo tipo nella storia della lingua italiana riguarda la po-
esia siciliana. I poeti di corte di Federico II sono stati trascritti da copisti toscani
e le conseguenze della trascrizione sono state addirittura imprevedibili – siccome
quasi tutti i manoscritti siciliani si sono persi conosciamo la poesia siciliana solo
filtrata attraverso la mano toscana.
Nel medioevo, ad ogni copia del manoscritto che avveniva fuori dall’area
originaria del testo si creava un forte stato di tensione tra il sistema linguistico
del manoscritto–sorgente e il sistema del copista. La situazione poteva avere esi-
ti molto diversi che dipendevano dal periodo, dalla lontananza geografica, dalla
26
Riprendo questo passo da Bruno Migliorini, Storia della lingua italiana, Firenze, Sansoni
(edizione Bompiani 1995), 1960, p. 234.
Conflitto e oltre. Autore–volgarizzatore–copista nel manoscritto medievale 37
personalità del copista. Il concetto del diasistema del copista (proposto da Cesare
Segre27) come un’importante variabile linguistica della copia dei testi medievali
sintetizza bene le situazioni di questo tipo. Tuttavia, anche qui bisogna fare un’av-
vertenza: sebbene all’origine ci sia un conflitto tra due codici linguistici perché
il copista cancella i tratti del codice linguistico dell’originale sovrascrivendoli con
il proprio sistema linguistico, il risultato finale può essere un insieme armonioso
che non dà l’idea di un conflitto di fondo. In particolare, le varie koinè formatesi
nel Quattrocento sulla base toscana, nella loro forma matura, sono un’espressione
linguistica di grande equilibrio, dove gli elementi di diversi sistemi linguistici non
si combattono tra di loro, ma piuttosto si completano a vicenda.
Analizzando i manoscritti dei volgarizzamenti di medicina, senza sforzo tro-
viamo casi di presenza di elementi linguistici misti; ciò avviene p.es. nella descri-
zione dei manoscritti spesso definiti come scritti in koinè oppure richiamati at-
traverso la formula della patina linguistica. Si tratta quindi dei casi, dove il codice
linguistico del volgarizzamento è diverso dal codice linguistico del copista per cui
la lingua risultante è mista. La seguente tabella dimostra bene quanto fossero dif-
fuse le situazioni di questo tipo.
27
Cesare Segre, «Critica testuale, teoria degli insiemi e diasistema», Semiotica filologica,
Torino, Einaudi, 1979, pp. 53–64.
38 Roman Sosnowski
Per capire meglio l’intervento che il copista poteva operare su un testo, è op-
portuno guardare più da vicino uno dei manoscritti. Per esempio il codice Ital. Qu.
52 è il volgarizzamento del Tesoro dei poveri con ogni probabilità toscano. Il testo
contenuto nel manoscritto possiede anche caratteristiche settentrionali, riconduci-
bili forse a una copia fatta in Veneto. Molte delle forme sono doppie; in alcuni casi
toscane e in altri settentrionali o venete. Le varianti alternate riguardano tra l’altro:
a) presenza delle geminate; troviamo siamo forme tipo quele che quelle, neta
e netta ecc.;
b) presenza della sonorizzazione; sono presenti sia appellato e figato sia appel-
lado e figado;
c) presenza delle forme con l’anafonesi: lingua e ungi accanto a onzi (con l’affri-
cata dentale al posto dell’affricata palatale, quindi marcatamente veneto), toscano
ucider;
d) alternanza delle forme non dittongate e dittongate;
e) compresenza del futuro del tipo fiorentino ritornerà (passaggio di –ar in –
er) e del futuro zovarà;
In genere le caratteristiche della lingua del manoscritto Ital. Qu. 52 riconducibili
al Veneto sono inequivocabili se consideriamo le forme come cossa, zenzive, zova,
coçere, zovarà, azonzeli ecc. Lo sguardo d’insieme sulla lingua del manoscritto per-
mette di vedere l’intervento del copista veneto su un testo che era all’origine toscano.
Non è molto diversa la situazione dei codici in volgare della Chirurgia parva
di Lanfranco da Milano; hanno tutti la veste linguistica mista. Come già sottoline-
ato, la lingua mista dei volgarizzamenti medievali è espressione di una situazione
di tensione tra le diverse componenti dialettali, ma il risultato spesso non sembra
conflittuale, generando una lingua armoniosamente composita.
Un’altra faccia del possibile conflitto insito nel volgarizzamento riguarda
la struttura del testo. Questa caratteristica è dovuta a una particolare trasmissione
dei testi medici (attraverso le miscellanee) e al sovrapporsi di contributi ad ogni
elaborazione del testo. Come già nel caso della lingua, anche nel caso dei contenuti
si possono identificare diversi strati: l’autore che scriveva in latino, il volgarizzatore
che partiva dalla versione latina e eseguiva il primo adattamento e, infine, anche
il copista che a volte adattava il testo all’ambiente in cui il testo doveva circolare. In
ogni fase dell’elaborazione del testo potevano apparire interpolazioni più o meno
vistose. Si poteva trattare di una semplice conferma della validità della ricetta in-
trodotta attraverso la formula che in latino era experimentatur in volgare è provato
o simile. In questo modo il volgarizzatore o il copista ribadiva di aver sperimentato
la formula descritta e ne comprovava l’efficacia. Chiaramente, questo tipo di inter-
vento non è particolarmente conflittuale, ma l’intervento strutturale poteva anche
essere più profondo e cancellare le descrizioni terapeutiche precedenti oppure ag-
giungerne altri, non coerenti con quelli già contenuti nel testo di partenza. Tale si-
tuazione si presenta spesso in volgarizzamenti che sono fortemente rielaborati. È il
Conflitto e oltre. Autore–volgarizzatore–copista nel manoscritto medievale 39
caso del testo della Chirurgia parva di Lanfranco da Milano contenuto nel mano-
scritto Ital. Quart. 6728. Molti elementi presenti nell’originale latino sono omessi29,
a volte ci sono inserti originali30, qualche volta avviene la sostituzione del rimedio
dovuta alla particolare esperienza del volgarizzatore, che “corregge” l’autore.
Per esempio, nella descrizone del vulnus apostematum, il volgarizzatore enu-
mera le cause per cui si genera apostema (“quia medicus non scivit defendere, vel
quia tenta est nimis grossa, vel unguentum calidum fuit semper positum, vel alte-
ratio aeris, vel debilitas membri recipientis”) e fornisce una cura differente da quel-
la proposta da Lanfranco.
Anchora è bono mo(n)difychattivo de fistole, ale quale si à levada via
la dureza e de piague che àno chroste e quasy d’ogni piague vechie: l’ongentto
apostolorum. (f. 66r)
28
Di recente il testo è stato pubblicato in Roman Sosnowski, Volgarizzamento della Chirur-
gia parva di Lanfranco da Milano nel manoscritto Ital. quart. 67 della collezione berlinese,
conservato nella Biblioteca Jagellonica di Cracovia, Kraków, Wydział Filologiczny Uniwer-
sytetu Jagiellońskiego, 2014.
29
Le omissioni sono numerose, da quelle più consistenti a quelle piccole. Manca l’intero epi-
sodio autobiografico presente nell’originale latino (il cosiddetto episodio milanese), manca
la parte del trattato dedicata alla cura degli occhi, in alcune malattie mancano singoli pro-
cedimenti terapeutici (p.es. nella descrizione postimazione fixa aquosa a f. 36r).
30
Dove nell’originale ci sono i rimedi contro il morso del cane rabbioso, aggiunge i rimedi
contro i morsi di animalio velenosi.
31
Ecco l’intero passo latino: Quando autem cum vulnere est apostema, quod est, quia medi-
cus non scivit defendere vel quia tenta est nimis grossa, vel unguentum calidum fuit sem-
per positum, vel alteratio aeris, vel debilitas membri recipientis. Quod quidem, si accidit
non obstantibus remediis appositis, erit pravum signum, scilicet signum magne debilitatis
membri lesi. Tamen si tale apostema fuerit in membro nervoso, iam dicta est cura. Si vero
fuerit in membro carnoso, facies pultes de IV partibus aque et I olei olivarum maturarum
et farina tritici.
32
Testo latino: Unguentum apostolorum mundificativum fistularum mortificatarum et ulce-
rum habentium crustas, et fere omnium ulcerum antiquorum.
40 Roman Sosnowski
Non mancano casi di leggere divergenze nella descrizione dei procedimenti
terapeutici. Probabilmente il volgarizzatore trasferisce la propria esperienza deri-
vante anche da altre fonti sul testo in questione. L’esempio riportato sotto in due
versioni, latina e volgare, è molto significativo:
Aliud: recipe resine albe, bulliat in aceto acerrimo et proiiciatur cum ace-
to in bacino aque frigide colando cum stamegna. Postea sumatur inter manus
inunctas oleo rosato et diu manibus malaxetur et servetur usui. Sed in estate
admisce cum resina, quantum est medietas cere.
Itten p(er) incharnare e generare charne e fare pele, i(n) la fin, è ongentto
di polvere che se fai chosy. Ttuol ttrementtina (libre) i, zera biancha (libre) 5,
vernixe da schrivere, sarchachola molifichada i(n) latte di asena an(a) (onza)
j, mastichy (onze) ij, rasa di pino (onza) j. Lava p(ri)ma la ttrementtina cho(n)
axedo, e deschola la zera e raxa al fuogo legiero, e puoi zonzy la polvere dile
alttre chose senpre menando cho(n) la spattola, e puo ttuolo dal fuogo e zon-
zy la ttrementtina e cholale i(n) axedo biancho i(n)pastando cho(n) le mane
p(er)fina ch’el vigneray fredo. (f. 67v)
Anche nel passo seguente la versione volgare è semplificata rispetto al testo
latino. Vengono forniti i rimedi senza spiegare la loro azione e le loro proprietà,
come, invece, avviene nella versione latina.
Conclusioni
33
Va qui ricordato che l’equilibrio si raggiungeva anche grazie alla prudenza di volgarizza-
tori e di copisti che spesso omettevano i tratti linguistici più locali per garantire una “uni-
formità linguistica interregionale e intervernacolare”. Cfr. Guida ai dialetti veneti, a cura
di Manlio Cortelazzo, Cleup, 1979, p. 135.
Gli aggettivi al servizio delle relazioni nei mass media
di oggi sui conflitti interni ed internazionali
Sylwia Skuza
Uniwersytet Mikołaja Kopernika w Toruniu
I mass media, decisivi per la diffusione nazionale della lingua italiana, oggi
fanno parte integrante della vita della nazione trasmettendo ogni tipo di annuncio:
informativo, culturale, politico ecc. I media più diffusi – i quotidiani, la radio, la te-
levisione, Internet – ogni giorno divulgano decine di informazioni tra cui anche
quelle focalizzate sui diversi conflitti nazionali e internazionali.
Obiettivo dell’intervento è mostrare e analizzare l’uso degli aggettivi nei te-
sti riguardanti diversi conflitti trasmessi dai mass–media di oggi. Utilizzo che,
pare non di rado, sembra essere esagerato e ingiustificato, propenso allo scalpo-
re e per colpa del quale il vero significato di parecchi aggettivi va perduto. Da
un lato un giornalista cerca di animare la narrazione con un tipico procedimento
di «drammatizzazione», ma dall’altro cerca di presentare la notizia in modo imper-
sonale ed equilibrato. In più per un giornalista è più difficile spiegare il «come» del
«perché», anche se al pari dello storico, dovrebbe spiegare il «perché» e descrivere
il «come» certi eventi si sono svolti34.
Aggettivo (arc. adiettivo e addiettivo), dal lat. tardo adiectivum (nomen), der.
di adicĕre «aggiungere». L’aggettivo ha due funzioni fondamentali: funzione attri-
butiva quando è collegato al nome in modo diretto per es.: Ricordo con acuta no-
stalgia le nostre stupende vacanze estive. La seconda funzione, cioè la funzione pre-
dicativa, avviene quando l’aggettivo è collegato al nome tramite un verbo, per es.:
Il cielo sembra azzurro e tranquillo, ma può diventare velocemente grigio e cupo.
Secondo il tipo di informazione che aggiungono al nome, gli aggettivi si dividono
in due categorie fondamentali: aggettivi qualificativi, che si aggiungono al nome
per segnalarne una qualità, e aggettivi determinativi, che si aggiungono al nome
34
Philip Meyer, Giornalismo e metodo scientifico. Ovvero il giornalismo di precisione, Roma,
Armando Editore, 2006, p. 10.
44 Sylwia Skuza
35
Marcello Sensini, La dimensione linguistica. La riflessione sulla lingua. Torino, Arnoldo
Mondadori Scuola, 2001, p. 203.
36
Le modalità della scrittura giornalistica: analisi di caso, http://www.edscuola.it/archivio/
esami/giornale.html, data di accesso: 15.10.2017.
Gli aggettivi al servizio delle relazioni nei mass media di oggi sui conflitti… 45
37
Cfr. http://www.treccani.it/scuola/maturita/prima_prova/articolo_di_giornale/bartocci.htlm,
Il testo è di Matteo Bartocci (Roma, 1975), caporedattore del quotidiano «Il Manifesto», data
di accesso: 10.10.2017.
46 Sylwia Skuza
I nomi come tragedia, guerra, scontro o conflitto già di per sé evocano aggettivi
come pericoloso, inquetante, atroce, difficile, tragico, orribile, ecc.
Il nome conflitto (dal latino conflictus, –us «urto, scontro») va unito soprat-
tutto agli aggettivi mondiale, lungo, sanguinoso, immane, ecc38. In più i conflitti
si distinguono in conflitti interni, che sorgono tra organi del medesimo potere
o nell’ambito della stessa società o etnia, e conflitti esterni, che sorgono tra autorità
diverse tra paesi diversi. Il nome conflitto ha quindi una portata molto estesa che
riguarda molti campi della vita mondiale e sociale, per questo motivo appare mol-
to spesso sulle pagine dei quotidiani, di solito in compagnia degli stessi aggettivi.
Guardiamo gli esempi:
aperto orribile grande sicuro
spietato lungo intenso
sanguinoso CONFLITTO inquietante
atroce terribile
crudele nuovo drammatico39
tragico mondiale dimenticato
38
http://www.treccani.it/vocabolario/conflitto, data di acesso: 20.10.2017.
39
Cesare Garelli notava già nel 1974 che aggettivo «drammatico – assieme allo squallido
è uno degli aggettivi più ricorrenti nella prosa giornalistica italiana. Tale abuso non è ca-
suale (...) », Cesare Garelli, Lessico prefabbricato: Gli schemi del linguaggio giornalistico,
Ravenna, Longo, 1974, p. 124.
Gli aggettivi al servizio delle relazioni nei mass media di oggi sui conflitti… 47
Come abbiamo visto, i nomi cruciali che si riferiscono ai conflitti e alle tra-
gedie umane, immancabili poi nel mondo contemporaneo, sono accompagnati
spesso non da uno, ma da due o tre aggettivi che rafforzano il messaggio e la de-
scrizione degli eventi.
Guardiamo ora gli stessi esempi, appena citati, da cui elimineremo solo gli
aggettivi:
Tabella 1
dovrebbe limitarsi all’uso di una moderata aggettivazione, senza mai ricorrervi per ampli-
ficare l’effetto delle immagini».
50 Sylwia Skuza
La tabella 1 ci indica certe varianti tendenti ad accentuare l’effetto di dram-
matizzazione e quale è la scelta degli aggettivi più forti e più frequenti nel campo
semantico legato ai conflitti.
Capita non di rado che gli aggettivi di cui abbiamo parlato non descrivano
i nomi che ci si potrebbe aspettare che descrivessero in modo convenzionale e at-
teso, e suonano perciò un po’ inconsueti o strani alle nostre orecchie. Essi vengono
usati inadeguatamente soprattutto per provocare una certa dissonanza in modo
da suscitare l’interesse del lettore.
Lo possiamo osservare su un esempio nel seguente titolo di un articolo:
Si chiude con la più dolce delle sconfitte la stagione del Siena Calcio
femminile; www.sienasport.it/siena–femminile–dolce–sconfitta–a–carrara,
28 aprile 2015.
Il nome sconfitta che indica esito sfavorevole, per uno dei contendenti di una
battaglia o di una guerra o semplicemente, come nell’esempio nominato, di un gio-
co, è di solito accompagnato da aggettivi come grave o disastrosa, ecc. Nell’esempio
presentato, invece, viene unito all’aggettivo dolce, che ha una connotazione piutto-
sto positiva, gentile.
Ancora un altro esempio:
Al nome terrorista viene unito l’aggettivo bravo. Notiamo però subito che l’au-
tore dell’articolo mette le virgolette per sottolineare l’ironia dell’aggettivo di con-
notazione positiva, unita al nome terrorista.
Altro esempio:
1918. L’orribile anno della vittoria. Corriere della sera, 12 dicembre 2009.
La dottrina della guerra giusta è un campo di riflessione della teologia mora-
le cristiana che stabilisce a quali condizioni dichiarare una guerra, e combattere
per vincerla. Dal punto di vista logico il confronto del nome guerra con l’aggettivo
giusta provoca un immediato conflitto sul piano semantico.
Le analisi dei testi giornalistici riguardanti diversi conflitti che scoppiano nei
paesi e fra i paesi mostrano che oggi si fa forte la tendenza ad un ampio uso di ag-
gettivi qualificativi. Essi, anche se non è necessario, appaiono abbondantemente
non solo all’interno dei testi, ma fanno anche parte integrante dei titoli che, come
sappiamo, sono «il biglietto da visita nell’occhio del lettore». Sono gli aggettivi
che attirano l’attenzione del lettore perché, messi già nei titoli, informano sugli
eventi tragici o sanguinosi, sui conflitti atroci o inquietanti, sulla violenza inaudita
o immane. Per questi motivi bisognerebbe adoperare sapientemente gli aggettivi
per non svalutarli, per non abituare il lettore a parole che dovrebbero essere usate
esclusivamente nelle descrizioni di eventi davvero gravi.
Una lotta per l’autoconservazione:
la dimensione linguistica
Magadalena Bartkowiak-Lerch
Uniwersytet Jagielloński, Kraków
Introduzione
Il conflitto può essere inteso come forma di interazione tra gli uomini che pro-
vano a definire le dimensioni della propria identità. Il mondo globalizzato di oggi
è diventato un contesto troppo ampio per poter radicarvisi in modo sicuro. Così
l’individuo cerca un gruppo più ristretto, un’identità più definita, per inserirvisi
e ritrovare la sicurezza ontologica di cui parla Anthony Giddens41.
Il proposito del presente articolo è di analizzare come tale identificazione si re-
alizzi a livello sociolinguistico, attraverso il mantenimento e la difesa dei cerchi
identitari delle piccole culture, giacché la definizione della propria identità collet-
tiva avviene a volte anche in modo conflittuale.
Identità
41
Anthony Giddens, Nowoczesność i tożsamość. „Ja” i społeczeństwo w epoce późnej nowo-
czesności (titolo originale: Modernity and Self–Identity: Self and Society in the Late Modern
Age), Warszawa, Wydawnictwo Naukowe PWN, 2010.
42
Francesco Remotti, Identità, noi, noialtri, in Che cosa ne pensa oggi Chiaffredo Roux?
Percorsi della dialettologia percezionale all’alba del nuovo millennio. Atti del Convegno In-
ternazionale Bardonecchia 25, 26, 27 maggio 2000, a cura di Monica Cini – Riccardo
Regis, Torino, Edizioni dell’Orso, 2002, pp. 315–328.
54 Magadalena Bartkowiak-Lerch
sociale, appare molto rigorosa e addirittura xenofoba. Benché superata da altre te-
orie di identità più moderne, essa sembra “risvegliarsi” in momenti conflittuali. Per
Hegel43 l’identità non è più immobile e non esclude l’alterità. Ma l’interazione fra
questi fenomeni opposti viene in qualche modo guidata dallo Spirito del Mondo44.
Invece nell’ambito delle scienze sociali e umane l’interesse per l’identità emerge
quando tramontano le idee universalistiche, ovvero negli anni ’60 del secolo scor-
so, con lo psicanalista Erik Erikson, che introdusse il termine identità individuale
nelle scienze sociali, e il sociologo Erving Goffman, il quale pose l’accento sull’a-
spetto creativo dell’identità: tutti siamo attori che insceniamo le rappresentazioni
di noi stessi45. In mancanza di idee universalistiche si fanno spazio rivendicazioni
di identità particolari, individuali e collettive. Nel villaggio globalizzato, ma non
unito da un’idea comune, l’individuo si sente abbandonato, privo del sostegno psi-
chico e del senso di sicurezza offertagli da ordini sociali più tradizionali46. Di qui
nasce anche la diffusione di moti che promuovono identità regionali.
Nelle scienze sociali del Novecento il concetto di identità si richiama all’idea
di soggetto, individuale o collettivo. I soggetti funzionano sempre nel contesto so-
ciale e non hanno quella consistenza interna che gli era attribuita nella teoria ari-
stotelica. La loro esistenza dipende allora fortemente dal fatto se gli altri soggetti
sociali li “riconoscano”.
L’identità, nell’impostazione teorica moderna, ha dunque due dimensioni prin-
cipali: individuale, che vede «la pluralità nel singolare»47, e collettiva, per la quale
essa, secondo Gleason, «è un costrutto, un “artefatto” che scaturisce dall’“inte-
razione tra individuo e società” ed è quindi “qualcosa di ascritto dall’esterno che
muta secondo le circostanze”»48. Considerando questa flessibilità, nella riflessione
sulla società moderna si parla addirittura di più identità collettive in riferimento
alla stessa persona49.
43
Le idee di Hegel sono da ritrovare nella sua Encyklopädie der philosophischen Wissenschaf-
ten im Grundrisse, qui tratte da Francesco Remotti, ivi.
44
L’universalità dei processi storici e del destino di trasformazione storica viene poi ripresa
da Marx.
45
Remotti, Identità, noi, noialtri, cit., p. 318.
46
Giddens, Nowoczesność i tożsamość, cit., p. 54.
47
Remotti, ivi, p. 323.
48
Philip Gleason ne parla nel saggio Identifying Identity: A Semantic History, in: «Journal
of American History», LXIX/4 (1983), pp. 910–931. Qui citato da Francesco Remotti,
ivi, p. 318.
49
Questo argomento è sviluppato da: Francesco Remotti, ivi, Pietro Trifone nella Lin-
gua e identità. Una storia sociale dell’italiano, a cura di Pietro Trifone Roma, Carocci,
2006; inoltre da Mari D’Agostino, Sociolinguistica dell’Italia contemporanea, Bologna,
Il Mulino, 2007 e da Giddens, Nowoczesność i tożsamość, cit.
Una lotta per l’autoconservazione: la dimensione linguistica 55
Conflitto
50
Ellen B. Ryan, Why do Low–prestige Language Varietes Persist?, in «Language and Social
Psychology», a cura di Howard Giles – Robert StClair, Oxford, Basil Blackwell, 1979,
pp. 145–157, qui citata la p. 147.
51
La lingua infatti si situa tra la sfera della cosiddetta coscienza pratica (azioni abitudinarie
non percepite da chi le compie) e quella della coscienza riflessiva (azioni coscienti e inten-
zionali).
52
Giddens, Nowoczesność i tożsamość, cit.
53
Cesare Tulli, L’identità personale: definizione e primi studi sul concetto di identità, Ne-
onauta (online), disponibile su: http://www.neonauta.it/cms/index.php?option=com_
content&task=view&id=165&Itemid=57&menuid=45 (consultato il 06 febbraio 2013),
pp. 1–5, qui citata la p. 3.
54
Federico Montanari, Conflitto/conflitti. Le forme delle dispute e le loro molteplici strate-
gie, in «Studi culturali. Temi e prospettive a confronto», a cura di Cristina Demaria – Siri
Nergaard, Milano, McGraw–Hill, 2008, pp. 121–145.
55
Alessandro Dal Lago, Il conflitto della modernità. Il pensiero di Georg Simmel, Bologna,
Il Mulino, 1994.
56
Montanari, Conflitto/conflitti, cit., p. 137.
57
Montanari, ivi, p. 122.
56 Magadalena Bartkowiak-Lerch
Avendo in mente che la relazione conflittuale va vista e interpretata in un
momento concreto e all’interno di un clima sociale concreto, passiamo adesso
a introdurre i casi che dovrebbero illustrare le considerazioni fatte sopra. Come
preannunciato, nell’interpretazione degli esempi ci serviamo della teoria dell’ac-
comodamento di Howard Giles, nella quale si osservano le strategie della conver-
58
Howard Giles, Accommodation in communication, in «The Encyclopaedia of Language
and Linguistics», a cura di Dwight L. Bolinger et al., I, Aberdeen, Pergamon Press &
University of Aberdeen Press, 1994, pp. 12–15.
59
Richard Y. Bourhis – Howard Giles – Jacques P. Leyens – Henry Tajfel, Psycholingui-
stic Distinctiveness: Language Divergence in Belgium, in «Language and Social Psychology»,
a cura di Howard Giles – Robert StClair, Oxford, Basil Blackwell, 1979, pp. 158–185.
60
D’Agostino, Sociolinguistica, cit.
Una lotta per l’autoconservazione: la dimensione linguistica 57
Bourhis e altri62 hanno proposto una una serie di indagini sperimentali di tipo
psicolinguistico in cui verificano i comportamenti linguistici dei rappresentan-
ti di gruppi etnici in situazione di conflitto. La prima ricerca, condotta in Galles,
ha provato che anche le persone che non possiedono la competenza attiva della loro
lingua etnica (i gallesi sottoposti all’esperimento imparavano il gallese come secon-
da lingua63), tendono a rafforzare l’accento regionale o a intromettere parole gallesi
quando si sentono minacciate nella loro identità: il ricercatore che parlava un ingle-
se senza alcun accento regionale interrogava loro sulle tecniche dell’apprendimento
della seconda lingua. Ad un certo punto ha fatto un’osservazione spregiativa intorno
all’utilità dello studio di una «lingua che sta morendo, con un futuro miserabile». La
reazione è stata immediata. Gli studiosi hanno constatato che «when ingroup mem-
bers are ethnically threatened by an outgroup speaker they will make themselves
psycho–linguistically distinct from him by accent divergence»64.
61
Bourhis, Psycholinguistic Distinctiveness, cit., p. 159.
62
Bourhis, ivi.
63
Dopo la conquista normanna, e specialmente con la legge conosciuta come “Union Act”,
del 1535, che imponeva l’uso ufficiale della lingua inglese, iniziò il processo di graduale
perdita della specificità culturale e linguistica della regione. La svolta verso il gallese, ormai
quasi estinto, fu segnata di nuovo da una legge: “Welsh Language Act”, del 1967. Adesso
il gallese è riconosciuto a livello dell’Unione Europea come una delle lingue semiufficiali,
insieme al catalano, al basco, al galiziano e al gaelico scozzese (cfr. Meirion Prys Jones,
Lingue a rischio di estinzione e diversità linguistica nell’Unione Europea, Unione Europea:
Dipartimento tematico B: Politiche strutturali e di coesione, Parlamento Europeo (online).
Disponibile su:
http://www.europarl.europa.eu/RegData/etudes/note/join/2013/495851/IPOL–CULT_
NT(2013)495851(SUM01)_IT.pdf (consultato il 28 aprile 2015), pp. 1–8). La realtà pre-
sente del Galles è bilingue, ma molti gallesi imparano la loro lingua etnica come lingua
seconda.
64
Bourhis, Psycholinguistic Distinctiveness, cit., p. 160.
58 Magadalena Bartkowiak-Lerch
In Polonia
In Italia
storica della Galizia, per la quale invece il periodo della spartizione significava la grande
“miseria della Galizia”.
67
Remotti, Identità, noi, noialtri, cit., p. 326.
68
D’Agostino, Sociolinguistica, cit., pp. 140–142.
60 Magadalena Bartkowiak-Lerch
anche loro siciliani. Il fattore determinante la scelta della varietà è qui il contesto
comunicativo: il parametro del potere impone l’uso della lingua standard, consi-
derata come la varietà più prestigiosa. Nel caso analizzato si ha a che fare con una
doppia identità dei parlanti: etnico–linguistica (siciliana) da una parte – e questa
è comune agli attori dell’interazione – e sociale non linguistica dall’altra – e qui
ciascuna delle parti rappresenta un gruppo diverso, contrapposto o addirittura
nemico dell’altro. I poliziotti, rappresentanti del potere, adottano le regole lingui-
stico–comportamentali che impongono l’uso della lingua standard e allo stesso
tempo sottolineano la distanza sociale che li separa dall’interlocutore. Il ragazzo,
trovatosi in situazione di conflitto con i rappresentanti delle autorità, adotta le stra-
tegie di divergenza linguistica. Scegliendo il dialetto viola il parametro del potere
e tenta di smascherare i poliziotti sottolineando la loro parità nei suoi confronti.
Nella coscienza del ragazzo, come risulta dalla sua spiegazione fatta al ricercatore,
la rinuncia all’adattamento linguistico costituisce l’atto di ribellione alle circostan-
ze della situazione in cui si è trovato.
Conclusioni
Negli esempi presentati la lingua si prefigura come un’arma con cui difendere
la propria identità e autonomia dagli altri gruppi, con la quale si può ferire l’avver-
sario. È anche capace di opporsi alla dominazione altrui e a smascherarne la vera
identità. Attraverso la lingua si rivendica inoltre il riconoscimento della realtà (il
gruppo sociale o etnico) a cui appartiene il parlante.
In questa occasione abbiamo visto solo situazioni conflittuali in cui sono state
adottate le strategie linguistiche di divergenza. Bisogna ovviamente tener presente
che la lingua ha due facce: quella più bella si fa veicolo di emozioni positive e di
apertura verso l’interlocutore, anche se egli fosse esponente di un gruppo identi-
tario diverso.
La percezione dell’altro nella commedia all’italiana
Anna Grochowska–Reiter
Uniwersytet Adama Mickiewicza w Poznaniu
Introduzione
L’economia dello sforzo nella conoscenza del mondo circostante, la difesa della
posizione nella società, la giustificazione psicologica del nostro comportamento
nei confronti di un altro gruppo si rivelano le principali funzioni dello stereoti-
po69, una delle espressioni della nostra percezione del mondo esterno. Si tratta
delle immagini nella nostra testa70, come definiva lo stereotipo Lippmann, quan-
do introduceva la nozione nelle scienze sociali; di un’opinione esagerata associata
a una categoria71, precisava trent’anni più tardi lo psicologo americano Allport. Gli
stereotipi assumono una considerevole importanza nell’espressione del pregiudi-
zio etnico. Nonostante le differenze tra i membri di una nazione possano essere
notevoli, il carattere nazionale implica che i membri della stessa nazione si asso-
miglino sotto alcuni, fondamentali aspetti, i quali, in seguito, prendono la forma
di un’etichetta classificatrice sia a livello mentale che lessicale. Secondo le puntua-
lizzazioni di Allport, ogniqualvolta a una categoria neutra, ad esempio italiano,
riferita alla pura appartenenza nazionale, vengano affibbiati giudizi o immagini,
abbiamo a che fare con uno stereotipo72. Non abbiamo modo qui di trattare estesa-
mente il concetto dello stereotipo, ma occorre tener presenti gli studi che lo tratta-
no in chiave linguistica, come quello di Putnam e la collocazione dello stereotipo
all’interno dell’intensione del lessema73 o come quello di Quasthoff, in cui la con-
69
Vedi Walter Lippmann, Public opinion, New York, Harcourt, Brace and Company, 1922,
p. 83; Gordon W. Allport, 1954 (31a ed., 2003), The nature of prejudice, Cambridge, Per-
seus Books, p. 191.
70
Lippmann, Public opinion, cit., p. 6.
71
Allport, The nature of prejudice, cit., p. 191.
72
Allport, The nature of prejudice, cit., p. 192.
73
Vedi Hilary Putnam, The meaning of “meaning”, in «Language, Mind and Knowledge»,
vol. 7: Minnesota Studies in Philosophy of Science, Keith Gunderson Edition, 1975.
62 Anna Grochowska–Reiter
74
Vedi Uta M. Quasthoff, Soziales Vorurteil und Kommunikation – eine sprachwissenschaft-
liche Analyse des Stereotyps: ein interdisziplinärer Versuch im Bereich von Linguistik, Sozial-
wissenschaft und Psychologie, Frankfurt am Main, Athenäum–Fischer–Taschenbuch–Ver-
lag, 1973.
75
Vedi Jerzy Bartmiński, Stereotypy mieszkają w języku. Studia etnolingwistyczne, Lublin,
Wydawnictwo Uniwersytetu Marii Curie–Skłodowskiej, 2009; Jerzy Bartmiński, Języko-
we podstawy obrazu świata. Wydanie czwarte, Lublin, Wydawnictwo Uniwersytetu Marii
Curie–Skłodowskiej, 2012.
76
Masolino D’Amico, La commedia all’italiana, Milano, Il Saggiatore, 2008, p. 63.
77
Enrico Giacovelli, Enrico Lancia, I film di Peppino de Filippo, Roma, Gremese, 1992,
p. 54.
La percezione dell’altro nella commedia all’italiana 63
dei costumi, dalle nuove forme di socializzazione. L’immagine, quindi, che raccon-
ta le nuove vicende, solo i protagonisti rimangono quelli vecchi, perché nonostante
i cent’anni passati dall’unità e i profondi cambiamenti del tessuto economico e so-
ciale, il senso di appartenenza, così come l’angolo di percezione, rimasero anco-
rati alle città e regioni native. Le storie raccontate dalla commedia all’italiana non
avevano come protagonisti gli italiani, bensì i romani, i napoletani, i veneti e i mi-
lanesi, ecc. Il corpus esaminato è stato ristretto a tre appellativi di provenienza:
milanese, romano e siciliano. Occorre ancora una volta ribadire che essi, accanto
al loro significato primario, di valenza neutra (indicazione del luogo di origine),
nascondono anche un significato secondario, connotato emotivamente, stereoti-
pico. Inoltre, l’analisi verrà completata dagli elementi lessicali diversi dagli appel-
lativi di provenienza, ma dotati di un valore sinonimico o comunque riferiti agli
abitanti di una determinata regione.
Milanese
Il significato connotato del lemma milanese viene pienamente incarnato dai pro-
tagonisti delle commedie appartenenti al corpus. Il sostantivo serve da nomignolo
a Virgilio, protagonista di ACSI78 in cerca di collaboratori per una rapina alla mac-
china che trasporta l’incasso delle giocate del Totocalcio. Virgilio, da vero milanese,
è vestito all’ultima moda (abito e borsalino bianchi, mocassini di Varese). L’eleganza
è plausibile anche presso gli altri protagonisti milanesi, o chi vuole sembrare tale:
Nino (M79), Alberto (V80). Anche le figure femminili milanesi, sia quelle appartenen-
ti all’alta società (Anna in IOD81; Elvira e le sue amiche in V), sia le milanesi medie
(Marta in M) si vestono con gusto e raffinatezza, che spiccano ancor di più se con-
frontati con lo stile delle protagoniste provenienti dalle altre regioni.
Milanese indica anche una persona puntuale e precisa: Virgilio è scocciato
quando Peppe arriva in ritardo (ACSI); Nino progetta ogni minuto del viaggio
per la Sicilia con estrema precisione (M)), per cui il lavoro e l’operosità godono
di estrema importanza (Alberto (V): «Sono le nove e due minuti! Cosa si fa, non
si lavora qui oggi?»; «Battiamo la fiacca? Sono le nove!»; «Andate cari! Andate
a lavurà!»; «Andiamo! Scattare signorina! Si riprende il lavoro!»; Nino (M) «Per
molti anni ho convertito le mie vacanze in giornate lavorative»). Milanese è anche
un po’ snob, pronto sempre a porsi con raffinatezza agli altri (Peppe in SI82, quando
78
Audace colpo dei soliti ignoti, N. Loy, 1959.
79
Mafioso, A. Lattuada, 1961.
80
Il vedovo, D. Risi, 1959.
81
Ieri, oggi, domani, V. de Sica, 1963.
82
I soliti ignoti, M. Monicelli, 1958.
64 Anna Grochowska–Reiter
si finge lombardo, ammette di praticare tennis, golf e polo) e a sfoggiare la sua su-
periorità (Giovanni in GG83): «Ue, ma avete mai letto il Bakunin? Al primo nome
difficile manca la musica»), soprattutto nei confronti delle persone provenienti
dalle regioni ritenute svantaggiate (Giovanni (GG) a ogni occasione deride Rosa-
rio, soldato di origini siciliane).
A livello lessicale il sostantivo milanese, come già menzionato, appare in quan-
to nomignolo di Virgilio (ACSI), e si incontra anche nella forma alterata milaneso-
ne (M), affiancata a nordico, pronunciata con l’assimilazione totale regressiva della
dentale, tipica delle parlate siciliane: «Arrivato sei, milanesone! / Ue, noddico!». In
questo saluto rivolto a Nino dai suoi amici si percepisce chiaramente la conno-
tazione positiva emanata dagli elementi lessicali: gli amici sono contenti che lui
ce l’abbia fatta, ma nel contempo, è quasi palpabile che avrebbero voluto essere loro
al suo posto: andarsene dall’isola piuttosto che restarvi impantanati, come appunto
ribadisce, senza neanche accorgersene, Nino: «Picciotti! (…) Noto che come vi la-
sciai otto anni fa, così vi rritrovo».
Il milanese, anche se d’adozione come Nino (M), è orgoglioso di esserlo e ama
la sua nuova patria «Don Vincenzo: E lassù come ti trovi? – Nino: Ah, ottima-
mente. Sotto ogni punto di vista: lavoro, casa, soddisfazioni», va fiero di viverci
e di averci messo su famiglia. La milanesità e tutto quello che vi si cela a livello
connotativo sembra scoppiettare quando Nino presenta le sue figlie: «Ecco le mie
bambine. Cinzia e Caterina. Questa è Cinzia. Saluta gli amici. Brava. E questa è l’al-
tra, la più piccola, Caterina. Milanesine sono».
Nei film analizzati milanese, a prescindere dal lato satirico portato dalla com-
media, ha una forte connotazione positiva, soprattutto negli ambienti considerati,
per motivi sociali, economici, o altri ancora, subalterni a quello che rappresenta
Milano insieme ai suoi abitanti. Per indicare delle qualità negative occorre quindi
ricorrere agli elementi lessicali nuovi. È così Rosario (GG), soldato siciliano, stu-
fo di essere lo zimbello di Giovanni, commilitone milanese, ricorre al sostantivo
composto mangiapolenta che, come si suppone, sia apparso proprio nelle caserme
«attribuito dai soldati meridionali a quelli settentrionali, che ricambiavano con
il nomignolo di terroni»84. («Uh, che scassamento de peperoni. Voialtri mangiapo-
lenta sempre le stesse cose sapete dire»).
83
La grande guerra, M. Monicelli, 1959.
84
Panzini (1905: 924) citato in Pietro Trifone, Storia linguistica dell’Italia disunita, Bolo-
gna, Il Mulino, 2010, p. 48.
La percezione dell’altro nella commedia all’italiana 65
Romano
Oreste: Io? Io sono un po’ miope. Hai visto mai che non lo becco.
Giovanni: Sei un pelandrone sei, altro che miope. Come tutti i romani.
(GG)
Commendatore: Eh sì, è inütil con voi. Con voialtri romani si può fare
tutto meno che impiantare degli affari. (SO)
Borelli: Mariani? No, non conosco nessun Mariano. Romani, vero? Io
a Roma ci vado sempre malvolentieri. È triste, umida e antilavorativa. Scusi-
no eh, ma io la penso così. Si può andare in qualunque città e ognuno resta
chi è. Genovese è un genovese, fiorentino è un fiorentino. A Roma invece
dopo tre giorni si diventa tutti romani. (SO)
Amedeo: Ma sti romanaschi, che gente l’è? Io dei romani mi sono sempre
fidato poco. Sono buoni solo a far pagare le tasse a noi che li manteniamo!
Per fortuna che c’è quel tuo cugino Virgilio! Quelli sì che l’è in gamba! È mica
vero? (ACSI).
Romano significa anche ‘ritardatario’, il che assume perfino le sembianze
di un’espressione idiomatica fare i romani quindi ‘arrivare in ritardo’, come possia-
mo notare in una delle scene di ACSI:
Virgilio: Ue, cominciamo mica a fare i romani eh? Regola prima l’è
la puntualità. Chiaro?
Peppe: Mi si è fermato l’orologio. “Boy”!
Virgilio: Ma se non ce l’hai l’orologio!
Peppe: L’orologio der tram. (ACSI).
Siciliano
aspetti di costume che si prestano sia al dramma che alla farsa»86. La realtà siciliana
viene presentata in modo attendibile da Pier Paolo Pasolini, nel suo documen-
tario Comizi d’amore (1965). Dalle interviste emerge una Sicilia arretrata, arida,
gelosa, sessualmente oppressa, ma, a ogni costo, rispettosa e onorevole. In seguito,
quest’immagine riempì la connotazione secondaria del sostantivo siciliano.
Siciliano rievoca un’immagine precisa, definita perfino a livello dell’aspetto
esteriore: bassa statura, baffi, sguardo profondo, portamento rigido. Gelosia, ono-
re, orgoglio sono invece i tratti che dominano la loro personalità e diventano eti-
chette che i siciliani finora, almeno in molte pellicole comiche, non sono riusciti
a scrollarsi di dosso.
Mario: Aò! E fatti gli affari tuoi, fatti!. Mandaci il siciliano! L’amico
di Cosimo
Capannelle: Ma quale siciliano?
Mario: Quello piccolo, magro, quello che c’ha sorella che la tiene sempre
chiusa in casa come un oracolo!
Capannelle: Ferribotte87? (SI)
Siciliano: Noi non possiamo sapere se se deve fare o non se deve fare.
Giovanni: Stai zitto africa! Sono secoli che la gente si scanna con le gue-
re, non è mai servito a niente. (GG)
86
leonardo Autera, I film: Sedotta e abbandonata, in «Bianco e Nero», Anno XXV, nume-
ro 2, 1964, p. 52.
87
Il nomignolo Ferrybotte è una storpiatura di ferry boat, il traghetto che unisce la Sicilia
al continente.
68 Anna Grochowska–Reiter
o incutere paura, come si nota nella conversazione telefonica tra Nino (M)
e suo suocero – lombardo – alla vigilia della partenza per l’isola.
(3) Nino: Pronto, papa! Sì! Siamo sul piede di partenza, come si dice. No,
non vi preoccupate. Che? La vaccinazione antitifica? Papa! Che credete che
andiamo in mezzo ai mau mau. A casa mia li potto.
I Mau Mau (anche mao mao), propriamente detti, sono i seguaci di un movi-
mento indipendentista ribellatosi, negli anni cinquanta, contro il dominio colo-
niale del Regno Unito. Come riporta Trifone89, nell’Italia settentrionale l’espres-
sione mau mau (mao mao), che in dialetto torinese significa straccione, vagabondo
e indica uno che sta ai margini, veniva usata, con connotazione spregiativa, nei
confronti degli immigrati meridionali.
In effetti, i siciliani destano paura e disagio. Chi non proviene dal loro mondo
e non condivide le loro tradizioni, non solo li considera insoliti, ma perfino barba-
ri, selvaggi, come detto da Tom a Assunta in RP90, quando questa cercava di levare
l’offesa volendo uccidere chi l’aveva disonorata «Sei indegna di vivere fra gente
civile!», «Tu stai bene in una caverna!».
Nella commedia degli anni sessanta vi sono ancora esigui riferimenti al sici-
liano come mafioso. In GG Giovanni chiama camorristi tutti quelli che vivono
88
Trifone, Storia linguistica, cit., p. 36.
89
Trifone, Storia linguistica, cit., p. 46.
90
La ragazza con la pistola, M. Monicelli, 1968.
La percezione dell’altro nella commedia all’italiana 69
da Roma in giù, senza distinzioni, mentre Nino ribadisce che i settentrionali non
si immagino neanche che significato abbia la parola mafioso: «E poi con chi dovrei
parlare? Con quelli del nord? Che parlano sempre degli amici d’onore in un modo
carognoso? Che conoscono solo la parola mafioso, senza sapere quello che signi-
fica (M)».
Conclusioni
Nel presente lavoro si è cercato di riflettere sulla doppia natura dei sostantivi
(e per analogia degli aggettivi) che indicano la provenienza regionale, quali milanese,
romano e siciliano. Sulla scia della definizione dello stereotipo, coniata da Pisarkowa,
che lo definisce in termini di connotazione semantica del nome della nazione, in cui
il significato primario del vocabolo viene accompagnato dal significato connotato,
carico di emotività91, si è cercato di documentare che tale teoria è applicabile anche
ai vocaboli riguardanti gli abitanti di determinate regioni italiane.
Mettendo da parte i fini comici della tipizzazione del personaggio, si è potuto
constatare che gli appellativi di provenienza analizzati acquisiscono, nel loro signi-
ficato connotato, o una valenza positiva, o quella negativa, saldamente legata allo
stereotipo regionale presente nella comunità italiana. Tra i primi troviamo l’appel-
lativo milanese, tra i secondi romano e siciliano. In quanto a milanese e romano,
sono state riscontrate anche le forme alterate, fenomeno che è invece assente nel
caso del siciliano.
Gli appellativi di valore negativo diversi dai sostantivi che richiamano la pro-
venienza geografica sono stati riscontrati per milanese (mangiapolenta) e, numero-
si, per siciliano (nano, africa, negrus, mau mau), permeati dall’uso linguistico reale
e non di pura invenzione cinematografica. Gli appellativi in questione richiamano
i tratti caratteristici delle determinate regioni (mangiare la polenta) o i tratti che
hanno origine sociale, ma sono stati ulteriormente (stereo)tipizzati e gonfiati as-
sumendo un forte valore spregiativo a sfondo razzista (africa, negrus, mau mau).
Infine, occorre ribadire che il significato connotato degli appellativi di prove-
nienza è il risultato della realtà extralinguistica condivisa dalla collettività italiana,
basato sullo stereotipo vigente presso la società e non schedato nei vocabolari. Non
è intuibile, ovvero per essere decifrato, il parlante deve esserne a conoscenza. Al
contrario, la valenza negativa degli appellativi che non richiamano il luogo di pro-
venienza, come mangiapolenta, africa, negrus, mau mau, riemersi nella nostra ana-
lisi, è, nella maggior parte dei casi, più facilmente intuibile facendo sì che essi, già
a prima vista, appaiano come offensivi.
91
Pisarkowa Krystyna, Konotacja semantyczna nazw narodowości, in «Zeszyty Prasoznaw-
cze», 1(67), Kraków, 1976, p. 5–6.
Autori di diari on–line di fronte alla norma:
scriventi incompetenti, recalcitranti o conservatori?
Maciej Durkiewicz
Uniwersytet Warszawski, Warszawa
Considerazioni introduttive
Come è ben noto, la pluralità e la versatilità dei nuovi mezzi di comunicazione
ha portato alla nascita di tutta una serie di nuove pratiche discorsive, le quali – ca-
ratterizzate dal connubio inedito tra il medium scritto e i ritmi di fruizione estre-
mamente veloci, nel mondo ante–Internet esclusivi dell’oralità – hanno ridefinito
il contesto di realizzazione e pratica della lingua scritta con presumibili ricadute
sulla norma linguistica dell’italiano. Che quest’ultima sia interessata oggi da un
movimento appare palese almeno da una trentina di anni, il che non toglie però
che meno evidente rimane il giudizio da dare al peso e al ruolo dei media digitali
nella trasformazione dei comportamenti linguistici degli italiani. Come lucida-
mente fa notare Fiorentino92, accanto al coro degli apocalittici, vi sono anche voci
secondo le quali «Internet non crea deficit linguistici ma si limita a rispecchiare
ed evidenziare le capacità e abitudini linguistiche dei suoi utenti e il loro livello
di istruzione». Vi sono infine studi americani, sintetizzati in Fiorentino93, secondo
i quali vi sarebbero da ravvisare alcune ricadute positive dei nuovi media sui com-
portamenti scrittori degli utenti che ne fanno uso. A tutto ciò si aggiunge il fattore
tempo, non trascurabile nelle considerazioni dell’incidenza a medio e a lungo ter-
mine della CMC (comunicazione mediata dal computer) sulla norma linguistica.
Di conseguenza, oltre agli sguardi d’insieme, si ha sempre bisogno di ricerche em-
piriche che forniscano dati conoscitivi su particolari frazioni dell’universo verba-
le della CMC colte in un preciso momento storico. Il presente contributo vuole
92
Giuliana Fiorentino, “Ti auguro tanta fortuna, ma non dov’esse esser così…”. Norma li-
quida tra Internet e scrittura accademica, in Lezioni d’italiano. Riflessioni sulla lingua del
nuovo millennio, a cura di Sergio Lubello, Bologna, Il Mulino, 2014, pp. 181–204, p. 186.
93
Ivi, p. 183–185.
72 Maciej Durkiewicz
Corpus
Il corpus (d’ora in poi Corpus Splinder, o anche Corpus) è costituito da un cen-
tinaio di post di blog per un totale di 20000 parole grafiche. provenienti da cento
blog diversi della piattaforma Splinder, aggiornati almeno una volta nell’ultima
decade del mese di maggio 2008.
Per quanto concerne la selezione del materiale, occorre ricordare che Splinder
è stata la prima piattaforma per il blogging italiana sia in termini cronologici che
per il numero di blog ospitati. Aperta nel 2001 da Tipic Inc (Gruppo Dada dal
2006), nel 2008 raggiunge l’apice della sua estensione con i 400 mila blog aperti
e più di 600 mila utenti iscritti, per chiudere i battenti il 31 gennaio 2012. Il perio-
do al quale risale il campionamento, maggio 2008, risulta, quindi, un momento
cruciale nell’evoluzione del blogging in Italia nella sua declinazione diaristica. E da
quella cesura in poi che il genere ‘diario on–line’ diventa una fetta del blogging de-
cisamente meno importante di quanto non fosse prima dell’avvento dei cosiddetti
social network. Questi ultimi, Facebook in primis, fruibili agilmente anche attra-
verso il cellulare e perciò più adatti all’utente orientato non a creare veri e propri
post, bensì a stare in contatto con gli altri sono i principali responsabili del deflusso
di quei blogger senza vocazione a scrivere – a quanto pare maggioritari – che una
volta aprivano il blog solo perché andava di moda. Il conseguente ridimensiona-
mento della blogosfera ha portato all’avverarsi del pronostico del 2003 secondo
il quale la blogosfera sarebbe stata caratterizzata da una scrematura “fisiologica”
dei diversi tipi di blog, il che avrebbe «eliminato la fuffa e premiato i weblog più
utili, quelli di servizio, consolidandoli su livelli su livelli di alta professionalità»94.
Se rimaniamo nel settore della “fuffa”, documentazione del quotidiano di gente co-
mune, è legittimo attingere al più grande bacino di blog diaristici italiano proprio
al momento della sua massima fioritura e al tempo stesso alla viglia del suo declino.
94
Francesca Reboli, Dieci, cento, mille blog in L’Espresso, 10 gennaio 2003, citato in Giu-
seppe Granieri, Blog generation, Roma–Bari, Laterza, 2014, p. 72.
Autori di diari on–line di fronte alla norma: scriventi incompetenti… 73
Il concetto di norma appare l’indispensabile punto di riferimento per tutte
le ricerche che, come la presente, di fronte a un testo o a un corpus di testi, si pon-
gono finalità descrittive. I risultati di tali ricerche sono infatti riconducibili in ulti-
ma analisi a un commento sul più o meno accentuato distacco di tali testi da una
norma. Sta poi allo studioso precisare di quale norma si tratta.
Per norma linguistica tradizionalmente si intende l’«insieme delle regole gram-
maticali, sintattiche e semantiche, per le quali una lingua si definisce come una realtà
omogenea»95 e «accettata da una comunità di parlanti e scriventi (o per lo meno dalla
stragrande maggioranza) in un determinato periodo e contesto storico–culturale»96.
Il concetto di norma così definito si profila come formale, ovvero legato alla forma
materiale della lingua intesa come sistema (è infatti possibile individuare sottoinsie-
mi di regole in corrispondenza, al che si aggiungono le periferie del ‘sistema lingua’:
ortografia e ortoepia) e prescrittivo. Quest’ultima caratteristica è strettamente legata
al carattere sociale della norma linguistica che si identifica con l’autorità espressa dal-
le grammatiche e dai vocabolari. In altri termini essa è frutto dell’operazione di stan-
dardizzazione che in base a criteri extralinguistici, autorità ed esteticità in primis,
connota «positivamente solo una della varietà sociali e negativamente tutte le altre,
marcate all’origine solo da fattori oggettivi e non di valore»97.
Accanto alla norma a monte della quale sta il sistema lingua vi è infine una
pluralità di norme discorsive legate al differenziarsi dell’universo delle produzioni
verbali in diversi generi testuali. Questi ultimi – essendo dispositivi di comunica-
zione apparsi in precise condizioni socio–storiche – sono anche “norme” di fru-
izione per i lettori e di produzione per il parlante/scrivente: «questi riconosce,
in base alla sua esperienza di innumerevoli atti comunicativi, le situazioni tipo
in cui è adatta l’una o l’altra forma testuale»98. Se ci poniamo quindi in una pro-
spettiva procedurale della comunicazione e della elaborazione del linguaggio, ogni
genere testuale impone una serie di filtri legati ai diversi fattori extralinguistici
pertinenti per il funzionamento dei generi nelle concrete condizioni socio–stori-
che (partecipanti all’evento comunicativo, canale, scopi da raggiungere, ecc.). Tali
filtri vincolano più o meno rigidamente il parlante o lo scrivente nella produzione
del proprio messaggio nel duplice senso: lo guidano sia nella scelta delle forme
95
Dizionario di retorica e stilistica, a cura di Barberi Squarotti et al., Torino, Einaudi,
1995, p. 278.
96
Claudio Giovanardi, L’italiano da scrivere. Strutture, risposte, proposte, Napoli, Liguori,
p. 17.
97
Maria Catricalà, Forme, parole e norme. Lineamenti sociolinguistici dell’italiano contem-
poraneo, Milano, Francoangeli, p. 60.
98
Raimund Wilhelm, Diskurstraditionen, in «La linguistica italiana», I (2005), Pisa,
pp. 157–161, p. 157.
74 Maciej Durkiewicz
e delle loro combinazioni, potenzialmente infinite, offerte dal sistema lingua sia
nelle scelte delle soluzioni che si collocano a livello della testualità. In virtù del-
le scelte del primo tipo, la sua produzione linguistica risulterà qualificabile come
concepita in una varietà più o meno in linea o con la norma prescrittiva o con
la norma statistica di una delle varietà del diasistema, mentre le scelte del secondo
tipo incideranno sulla veste del testo prodotto che lo qualificherà come esemplare
più o meno tipico della testualità prevista dal genere testuale in questione.
99
Alberto Mioni, Italiano tendenziale: osservazioni su alcuni aspetti della standardizzazio-
ne, in AA.VV., Scritti in onore di Giovan Battista Pellegrini, Pisa, Pacini, 1983, pp. 495–517.
100
Francesco Sabatini, L’italiano dell’uso medio: una realtà tra le varietà linguistiche italia-
ne, in Gesprochenes Italienisch in Geschichte und Gegenwart, a cura di Günter Holtus –
Edgar Radtke, Tübingen, Narr, 1985, pp. 154–184.
Autori di diari on–line di fronte alla norma: scriventi incompetenti… 75
101
Gaetano Berruto, Sociolinguistica dell’italiano contemporaneo, Roma, Carocci, 1987.
102
Ivi, p. 23.
103
Mirko Tavoni, Padroneggiare i registri, in Marco Santagata – Laura Carotti – Al-
berto Casadei – Mirko Tavoni, Il filo rosso. Guida alla scrittura. Roma–Bari, Laterza,
2006, pp. 108–131.
76 Maciej Durkiewicz
Grafico 1. Peso percentuale delle tre categorie di tratti (NS, NS–SS e SS) sull’elenco dei tratti
di Tavoni e sul Corpus Splinder (tipi e occorrenze).
Si badi che i tratti neo–standard, che coprono oltre il 40% dell’intera lista dei
tratti, sono da soli responsabili di oltre il 50% del totale delle occorrenze. Invece
i tratti SS, potenzialmente ben rappresentati dato il loro peso sulla lista dei tratti,
scarseggiano: se ne contano solo quattro tipi per un totale di 16 occorrenze. Il loro
potere diagnostico, ovvero quello che indurrebbe a qualificare la veste linguistica
dei post di blog moderatamente aperta a eventuali slittamenti verso il basso, viene
ulteriormente sminuito se confrontiamo le 11 occorrenze di ’st–o/a/i/e in luogo
di quest–o/a/i/e (tratto n. 9) con le 72 occorrenze standard, ovvero non afereti-
che. La concorrenza delle forme standard vale anche in più di un caso per i trat-
ti NS. Così ad esempio, per il tratto n. 22 (risalita del clitico con verbi modali)
si hanno 14 occorrenze di proclisi contro 34 di enclisi. Per quanto riguarda invece
il congiuntivo, c’è da notare che nel Corpus si registrano 30 casi dell’indicativo pro
congiuntivo. Sono però tutti casi in cui l’indicativo e il congiuntivo sono varianti
libere (relazione VEL), casi quindi in cui anche l’indicativo è ammesso dalla nor-
ma, mentre nei contesti obbligatori (relazione AUT) il congiuntivo c’è sempre con
un sola eccezione. Nel complesso, quindi, la tenuta della morfosintassi è buona
e la superficie linguistica dei post del Corpus appare poco penetrata dalle forme
sub–standard.
Autori di diari on–line di fronte alla norma: scriventi incompetenti… 77
Alla costruzione di qualunque testo, oltre agli ovvi aspetti linguistici di superfi-
cie, concorrono inoltre i fatti tipografici, a cominciare da quelli di livello alto, relativi
ad esempio all’allestimento generale dello spazio scrittorio, fino ai singoli segni inter-
puntivi. Di conseguenza, ai fini della descrizione della testualità dei post del Corpus,
risulta più che legittimo dedicare attenzione alla loro organizzazione in capoversi.
I risultati di un’analisi quantitativa del numero di capoversi per testo sono
esposti nella tabella sotto.
Tabella 1.
Numero di paragrafi Numero di post
1. 19
2. 10
3. 13
4. 8
5. 7
6. 5
7. 8
8. 4
9. 4
10. 3
11. 4
12. 0
13. 1
14. 2
15. 3
16. 0
17. 1
18. 0
19. 0
20. 2
23. 1
23. 1
32. 1
36. 1
37. 1
39. 1
69. 1
78 Maciej Durkiewicz
Al di là della notevole variabilità del numero di capoversi per post, va fatta
subito notare una forte presenza di quelle che potremmo definire come le due stra-
tegie estreme del paragrafare: si badi che 19 post, quindi quasi un post su cinque,
sono costituiti da un solo capoverso, invece 23 post contengono 10 e più di 10 ca-
poversi. A titolo di illustrazione di tali strategie basti citare due post del Corpus,
entrambi di pari dimensioni (di 549 e di 531 parole grafiche), ma costituiti rispet-
tivamente da 20 paragrafi e da un solo paragrafo.
L’adesione alle due strategie estreme di parcellizzare il testo va interpretata
come spia di quello che Simone104 etichetta «grafismo», o anche «scrittura super-
ficiale», in opposizione a «testo/testualità scritta», o anche «scrittura profonda».
Si tratta in altri termini della rinuncia dello scrivente a strutturare accuratamente
il testo scritto in unità che vadano oltre la dimensione della frase a favore dell’e-
sercizio delle competenze relative alla gestione del discorso a livello locale. L’inter-
pretazione appena proposta si legittima ulteriormente sulla base dell’esame della
segmentazione dei post del Corpus in periodi tipografici.
Nel Corpus abbiamo individuato in totale 1317 periodi tipografici contro
le 1689 frasi sintattiche. Se ne evince che non di rado si ha la giustapposizione
all’interno di un unico periodo tipografico di più frasi sintattiche, come in:
(1) (post_041)
I bravi son divisi dagli incapaci da semplici fogli di carta, tra poco isti-
tuiranno un patentino per lo scopare e se non lo farai sarai considerato una
sega a letto e non potrai spiegare come nascono i bambini, e ancora di più che
da attestati e fogli di carta bianca, siam divisi da piccoli pezzi di carta chiama-
ti soldi e dalla levatura sociale della nostra famiglia (che ci si creda o no, la fa-
miglia d’origine conta ancora molto, sopratutto quando si deve emergere).
Ad una redazione più attenta all’uso canonico della punteggiatura il testo
in questione risulterebbe suddivisibile almeno in tre periodi tipografici.
I bravi son divisi dagli incapaci da semplici fogli di carta. Tra poco isti-
tuiranno un patentino per lo scopare e se non lo farai sarai considerato una
sega a letto e non potrai spiegare come nascono i bambini. E ancora di più che
da attestati e fogli di carta bianca, siam divisi da piccoli pezzi di carta chia-
mati soldi e dalla levatura sociale della nostra famiglia (che ci si creda o no,
la famiglia d’origine conta ancora molto, sopratutto quando si deve emerge-
re). (...)
104
Raffaele Simone, Scrivere, leggere e capire, in «Quaderni storici», vol. 13, No 38 (2), Alfabe-
tismo e cultura scritta (maggio / agosto 1978), pp. 666–682.
Autori di diari on–line di fronte alla norma: scriventi incompetenti… 79
complesse, che «non si prestano ad essere collegate con segnali formali, né di coor-
dinazione né di subordinazione»105.
Il fenomeno della dilatazione del periodo tipografico si colloca all’estremo op-
posto rispetto alla “frammentazione sintattica”, fenomeno studiato a più riprese
da Ferrari106 consistente nello spezzare una sequenza sintatticamente legata trami-
te un segno di interpunzione con importanti ricadute informativo–testuali, e co-
stituisce una tendenza stilistica notevolmente presente nella prosa giornalistica
e letteraria a partire degli anni ’80 e ’90. In virtù della frammentazione sintattica
i costituenti isolati acquisiscono un’importanza testuale e informativa particolare.
Ne è un esempio il frammento riportato sotto, in cui grazie allo stacco interpunti-
vo si crea l’effetto di ajout après coup che dà alla sequenza «e di sicuro, a pensare»
una maggiore salienza comunicativa:
(2) (post_090) (neretto mio)
E domani si sposano Paolo e Marica... Una giornata intera a non fare
nulla. E di sicuro, a pensare. Ma mi impegnerò a non farlo!:)
Gli esami, la fine di un capitolo importante della mia vita, gli amici
di sempre che non sono più quello che sono sempre stati o semplicemente
non lo sono mai stati e solo ora me ne accorgo, la dieta per le intolleranze
a cose che ho tranquillamente mangiato per 20 anni e nonostante la quale per
ora continuo a stare poco bene, lo studio, la mancata crociera nei Fiordi quasi
regalata a causa dei miei esami e di lei che non può prendersi ferie, le cose
di tutti i giorni, sempre lei, che è stravolta e momenti per me non ne ha mai,
il tempo che scorre troppo in fretta, tutto che mi scivola dalle mani e corre via
davanti al mio sguardo attonito...
Fra le due tendenze del periodare in antiorientamento alla sintassi nel Corpus
prevale nettamente la prima, ovvero quella alla giustapposizione assoluta. Come
risulta dalla lettura del grafico riportato sotto, la percentuale dei post con il nume-
ro di periodi tipografici superiore al numero di frasi sintattiche sfiora il 60%.
105
Luca Serianni, Grammatica italiana. Italiano comune e lingua letteraria, Torino, UTET,
2006, p. 532 (1a ed., 1989).
106
Cfr. ad es. Angela Ferrari, La frammentazione nominale della sintassi, in «Vox Romani-
ca», 60, 2001, pp. 51–68.
80 Maciej Durkiewicz
Grafico 2. Ripartizione percentuale dei post del Corpus Splinder a seconda della proporzione
di frasi sintattiche e periodi tipografici
Conclusioni
Alla luce dei dati sulla presenza dei tratti NS, SS e NS–SS nel Corpus, il com-
portamento scrittorio dei blogger risulta essere non eccessivamente distante dalle
convenzioni praticate nella scrittura funzionale competente: una sostanziale ade-
sione alla norma nella sua declinazione neo–standard, una relativa resistenza delle
forme dell’italiano standard e poca apertura verso le soluzioni sub–standard. Nel
complesso, quindi, la tenuta della morfosintassi è buona.
107
Angela Ferrari, La virgola e il punto nello scritto–scritto e nello scritto mediato dalla rete. De-
scrizione e spiegazione, in Varietà e varianti linguistiche e testuali. Atti dell’XI Congresso SILFI,
Napoli, 5–7 ottobre 2010, a cura di Patricia Bianchi – Nicola De Blasi – Chiara De Ca-
prio – Francesco Montuori, Firenze, Franco Cesati Editore, 2012, vol. II, pp. 413–427.
108
Adriano Colombo, La coordinazione, Roma, Carocci, pp. 20–21.
Autori di diari on–line di fronte alla norma: scriventi incompetenti… 81
109
Max Black, Metaphor, in «Models and Metaphors: studies in language and Philosophy»,
Ithaca, Cornell University Press, 1962.
110
George Lakoff – Mark Johnson, Metafora e vita quotidiana, Milano, Bompiani, 1980.
111
Richard Boyd – Thomas S. Kuhn, La metafora nella scienza, Milano, Fertinelli, 1983.
112
Alessandro Pascolini, Metafora e comunicazione scientifica, in «Conferenze e seminari
1999–2000» , a cura di E.Gallo – L.Giaccardi – S.Romero, Torino, Associazione Subal-
pina Matheris, 2000, pp. 128–141.
113
Susan Sontag, Malattia come metafora. Cancro e Aids, Milano, Mondadori, 2002.
114
melinda wenner, The war agains war metaphors, in «The Scientist» n.1/2007.
115
abraham fuks, The Military Metaphors of Moderne Medicine, https://pdfs.semanticscho-
lar.org/25ad/756a62f8acc29ac5273cae365b0f387b58ca.pdf, data di accesso: 17.05.2018.
116
Sontag, Malattia come metafora, cit., pp. 89–91.
Il conflitto tra sano e malato nelle metafore militari del campo medico italiano 85
opportuno, proprio quello militare. A detta di Sontag117, che discute la terapia nei
termini delle strategie adeguate, «la guerra è definita come un’emergenza in cui
nessun sacrificio risulta eccessivo», il suo costo non conosce i limiti, poiché punta
al risultato senza valutarne l’impiego e il sacrificio. Attenendosi a tale ragionamen-
to, si procede quindi per specificare il conflitto nel campo medico italiano attraver-
so l’uso delle metafore che si servono del lessico militare.
Comunicazione scientifica
Prima o poi, ognuno di noi deve affrontare i problemi di salute. In simili cir-
costanze le attività volte a curare le malattie e i malati non sono soltanto l’obiettivo,
ma anzi un bisogno collettivo e spontaneo dell’uomo. Facendo ancora un passo in-
dietro si ammette che in realtà la medicina inizi con il genere umano. Praticata però
oggi dai professionisti medici e assistenti sanitari, esercitata in ospedali e ambulatori,
a contatto con vari gruppi sociali, sostenuta anche da farmaci, necessita di una gam-
ma di modi e di mezzi che permettano e agevolino la comunicazione. Attualmente,
la medicina ufficiale (a differenza di quella alternativa) tende a utilizzare il linguag-
gio scientifico, specifico e astratto (ad alto tasso teorico). Le osservazioni portano
tuttavia alla constatazione che la comunicazione nel campo medico coinvolge non
solo gli specialisti,: di conseguenza la presenza del professionista non garantisce che
venga utilizzato solo tale tipo di lingua118. Si distinguono almeno tre situazioni in cui
lo specialista può intervenire su questioni di tipo professionale: 1) quando si rivolge
agli altri specialisti per dibattere problematiche della disciplina come per esempio
comunicare progetti di ricerca, i risultati oppure l’uso di attrezzature, ecc., davanti
al pubblico di alto grado di conoscenze condivise, il relatore fa ampio uso di termini
specialistici limitandosi a spiegare soltanto le voci (parole o espressioni) coniate e ri-
definite da lui stesso; 2) quando si rivolge ai non–specialisti per comunicare fatti ine-
renti alla propria disciplina: esempi caratteristici di questo tipo di divulgazione sono
i libri raccomandati agli studenti universitari e i manuali di istruzioni, con finalità
esplicative mediante l’uso del lessico speciale; 3) quando propone una comunicazio-
ne su argomenti specialistici, indirizzata al lettore profano, introducendo i concetti
del campo professionale per mezzo del lessico comune, con l’intento divulgativo;
è un campione di informazioni trovate negli articoli di giornali e riviste di carattere
non–specialistico che discutono problemi propri di un’attività particolare119; la ten-
117
Ibid.
118
maurizio gotti, I linguaggi specialistici. Caratteristiche linguistiche e criteri pragmatici,
Firenze, La Nuova Italia, 1991.
119
Alteri Biagi (Aspetti e tendenze nei linguaggi della scienza, oggi, in Italiano d’oggi. Lingua
non letteraria e lingue speciali, Trieste, Lint, 1974, p. 90) distingue anche il quarto livello
di massima complessità nella gerarchia, quello della formulazione e condensazione di for-
86 Beata Katarzyna Szpingier
denza ad applicare modi di dire comuni i cui elementi sono altamente denotativi
(dato che il codice verbale risulta per sua natura polisemico), imposta dall’esigenza
di sinteticità, porta lo specialista a usare simboli, formule, grafici, diagrammi e altri
elementi non verbali, anche con finalità esplicative, adoperando la lingua comune
dove possibile120. Si possono individuare altre modalità di usi linguistici nell’ambito
della comunicazione sanitaria, però tale studio riguarderebbe i gruppi particolari
che nel campo della medicina sono realmente molteplici. In riferimento a un largo
complesso situazionale si vuole quindi sottolineare il fatto che gli usi figurati spetta-
no a ogni livello accennato.
Come sostiene Cabré, il linguaggio specialistico in generale (quello della me-
dicina non si discosta dal canone), dimostrando criteri comuni a tutti gli ambiti
della comunicazione scientifica, non rispetta un’applicazione uniforme delle regole
nei diversi settori e livelli di specialità121. Come in ogni altra scienza, anche nel-
la medicina si affermano le regole pragmatiche e le modalità semantiche operate
dall’autore e determinate dalle esigenze comunicative riguardo allo specialista e al
settore specialistico122. Praticamente l’italiano medico non risulta omogeneo, re-
gistrando varietà molteplici. Così, accanto alle caratteristiche e regole comuni del
settore, si notano certi usi che differenziano gli uni dagli altri. Occorrerebbe anco-
ra sottolineare che esiste una differenza tra la cosiddetta comunicazione scientifi-
ca, che concerne la divulgazione e l’esposizione dei dati, e l’elaborazione scientifica
dei concetti, come la genesi delle idee e l’attività scientifica.
mule, il livello non verbale, ma non nega l’esistenza del piano formalizzato dei testi specia-
listici. Gotti (ibid.) sostiene che «esiste la tendenza comune a tutte le branche della scien-
za alla formulazione simbolica, liberatrice estrema dagli impacci connotativi della lingua
comune». Dalle osservazioni dell’autore risulta che esistono altri livelli di comunicazione
in cui si applica il lessico speciale, però in misura notevolmente limitata: quando i pazienti
discutono dei propri casi o quando i pazienti riferiscono i fatti propri ai famigliari oppure
ai medici stessi.
120
Ivi, pp. 9–11.
121
maria térèsa Cabré, La terminologie. Théorie, méthodes et applications, Ottava, Les Pres-
ses de l’Université d’Ottava, 1998, pp. 138–139.
122
La specialità dei modi di dire viene esaminata lungo la dimensione concreta in relazione
a tre punti fondamentali: l’argomento, il pubblico e il contesto comunicativo (ibid.).
Il conflitto tra sano e malato nelle metafore militari del campo medico italiano 87
L’uso dei traslati come strumento conoscitivo, cioè uno dei mezzi dei
quali la lingua dei medici si serve (e soprattutto si serviva nel passato) in vista
di una più articolata e precisa realtà. In epoche in cui non esisteva la diagno-
stica per immagini, il ricorso alla metafora ha rappresentato il metodo più
economico per comunicare nuove acquisizioni descrittive124.
123
carla bazzanella, Metafora e categorizzazione. Alcune riflessioni, in «Paradigmi. Rivista
di critica filosofica», 2009, 1, pp. 69–82.
124
Luca Serianni, Un treno di sintomi. I medici e le parole: percorsi linguistici nel passato e nel
presente, Milano, Garzanti, 2005, p. 265.
125
L’autore si sofferma in particolare sulle similitudini concettuali, valorizzando il rapporto
tra figurato e figurante e trascurando le modalità formali di applicazione. I riferimenti alle
epoche precedenti fanno capire che alcuni paragoni hanno anzi un carattere didascalico:
dedicati ai laici per scopi divulgativi, con l’immagine semplificata ma evidente, nozioni più
o meno complesse. Alcuni paragoni sono ricorrenti, corrispondenti per analogia ai fatti,
altri invece sono i risultati della fertile immaginazione, a un certo punto quasi letteraria,
dei medici (ivi, 266–272).
126
Pascolini, Metafora e comunicazione scientifica, cit.
88 Beata Katarzyna Szpingier
pito dell’accomodamento del linguaggio alla struttura causale del mondo». Kuhn aggiunge
che: «le metafore genuine (...) sono fondamentali per la scienza, fornendo in determina-
te occasioni ‘una parte insostituibile del meccanismo linguistico di una teoria scientifica’,
svolgendo un ruolo che è costitutivo della teoria che esprimono» (in Anna Cazzullo, La
verità della parola, cit., pp. 16–17). Cfr. anche Umberto Galimberti, Psyche e tecne. L’uo-
mo nell’età della tecnica, Milano, Fertinelli, 1999, pp. 157–158 nonché Geraldine W. Van
Rijn–Van Tongeren, Metaphors in Medicaltexts, Amsterdam–Atlanta, 1997, pp. 24–38.
Sull’uso delle metafore nell’ambito sanitario si veda anche Edoardo Giusti – Assunta
Ciotta, Metafore nella relazione d’aiuto e nei settori formativi, Roma, Sovera, 2005.
136
Cfr. Melinda Wenner, cit. Inoltre, particolarmente interessanti per approfondimento
sono due saggi di Susan Sontag (“Illness as Metaphor” 1978 e “Aids and its Metaphors”
1988 riuniti in edizione italiana nel 2002) che danno un grande contributo al discorso
sull’immunità e illustrano il repertorio delle mitologie elaborate nel tempo riguardanti
le malattie temute (il cancro e l’AIDS) con un linguaggio metaforico incaricato di veicolare
le nozioni.
137
navarini, Etica della metafora, cit., pp. 142–143; cazzullo, La verità della parola, cit., p. 23.
90 Beata Katarzyna Szpingier
Contesti d’uso
Wenner139 precisa che «militaristic language pops up in almost every scientific
domain: conservation biology (“invasive species,” “biosecurity”); global warming
(“global war on global warming”); and biomedicine (“killer cells,” “hitting multiple
targets”)». Fuks140 aggiunge: «The language of medicine, both lay and professio-
nal, is thoroughly infused with the language of war (…) The war metaphor is so
familiar and common place in our medical rhetoric that we easily lose sight of its
militaristic origins and significance»141. Le formulazioni belliche si riscontrano
praticamente in ogni livello di comunicazione della medicina; le esemplificazioni
si possono suddividere in tre categorie:
1) Formulazioni belliche (il contesto preferito sembra quello divulgativo quan-
do gli specialisti si rivolgono ai laici):
arma: la prevenzione rimane un’arma fondamentale, antiossidanti–una po-
tente ~, vaccinazioni–un’eccezionale ~, idratazione– ~ segreta a portata di ogni
donna; attacco: ~ cardiaco, ~ ischemico–transitorio, ~ di panico; battaglia: ~ fra
uomo e microbi, ~ contro le infezioni; bersaglio: gli antidepressivi sono il nuovo
~ della retorica, le patologie e i fattori di rischio costituiscono il bersaglio di molte
strategie; bomba: le ~ caloriche da evitare, cellule–bomba piene di una molecola–
dinamite chiamata istamina, una ~ di ormoni, terapia sperimentale che dovrebbe
distruggere il tumore attraverso la reazione di tante piccole bombe atomiche che
eliminano le cellule…; bombardare: ~ la formazione ovalare del fegato, ~ il si-
stema immunitario, l’organismo di medicinali; conflitto: il disturbo è “conflitto”;
guerra: ~ preventiva all’ipertensione, ~ dei pollini – tanti soldatini biancastri
e grassocci armati di tutto, ~ alle rughe, ~ agli acidi grassi; invasione: estensio-
ne dell’~vascolare, ~angiolinfatica, ~ perineurale; lotta: donne in perenne ~ con
138
Sontag, Malattia come metafora, cit., pp. 89–91.
139
Wenner, The war agains war metaphors, cit.
140
fuks, The Military Metaphors, cit.
141
Ibid.
Il conflitto tra sano e malato nelle metafore militari del campo medico italiano 91
la bilancia, Aids – la ~ continua, ~ al dolore, ai tumori, al mal di testa, contro l’Aids;
nemico: il sale ~ pubblico, malaria e parassiti nemici combattuti, colesterolo ~
da non trascurare; resistenza: al dolore, a farmaci, al cancro, agli antibiotici, ~
insulinica; strategia: ~ diagnostica, ~terapeutica corretta, ~ contro il cancro, ~
di implementazione; tattica: terapia con modalità e ~ caratteristica, ~ terapeutica,
~ diagnostica, ~ chirurgica;
2) Campi di applicazione (settori e specializzazioni della medicina):
a) cardiologia: crisi cardiache – come si sfugge alla depressione; attacco car-
diaco, le 6 regole salva–cuore; anticorpi contro il colesterolo; mettere il “turbo” alla
lotta al tabagismo; interventi chirurgici per ridurre l’obesità; chirurgia: migliorare
la sopravvivenza dei pazienti operati; quando operare le vene varicose; rivoluzione
delle protesi sempre più umane; medicina, sala operatoria; dermatologia: rosacea
– attenzione ai fattori scatenanti; neutralizzare il sudore; alterare la barriera epider-
mica; melanoma – il gene che fa aumentare il rischio; il pro e il contro del servizio
per la dermatite atopica; rischio cancro e invecchiamento della pelle; dietetica/nu-
trizione: aglio e cipolla ci difendono dai tumori; pillole killer per dimagrire; alimenti
con doppia virtù; immunologia/epidemiologia: difesa del sistema immunitario;
gli alimenti contro la carenza di iodio; allarme Fluad (il falso allarme sul vaccino);
batterio/patogeno/virus killer; farmacologia: medicinali che abbassano la capacità
di difesa dell’organismo; pain killer; il percorso per combattere il dolore; un allea-
to contro le zanzare; psichiatria/psicologia: supporto degli psicologi per affrontare
la diagnosi; episodi di aggressione; il livello di violenza occupazionale; radiologia:
bomba al cobalto; aggressivo chimico; mezzo di contrasto; terapia/diagnosi: neuro-
blastoma – cure e sopravvivenza; potenziare l’assistenza sanitaria; tumore ovarico–
un killer silenzioso; tumore al polmone–un nuovo killer delle donne; vittime della
“diagnosi violenza”;
b) si usano anche denominazioni generiche come medicina difensiva, missione
sanitaria, trattamento diagnostico, rafforzamento del sistema, punti di forza del re-
parto, mezzo di contrasto, rischio d’infezione ecc.;
3) Usi scientifici (alto livello di specializzazione):
(1) cellule tumorali vs cellule killer;
(2) ictus, urto vs colpo, attacco;
(3) forze contro l’epidemia; rafforzare il sistema nervoso;
(4) mobilitazione di bioenergia; distruggere la corazza muscolare;
(5) patogen killer; Cancer No1 Killer by 2010; Activated Killer Cells; Attack of the
Killer; New Killer Virus; To Battle Deadly Infections; Battle plain for HIV/AIDS;
carrier.
92 Beata Katarzyna Szpingier
Osservazioni finali
Nel contesto dell’eterno conflitto tra psiche e soma, si originano e si sviluppano
i modi per padroneggiare le cause e gli effetti di esso. La metafora bellica aiuta
a capire il meccanismo della malattia (fasi, corso, esito). Si può osservare una di-
cotomia in varie realizzazioni del linguaggio, poiché, per comunicare, la scienza
adopera un lessico e uno stile notevolmente più figurato di quello che è in uso nel
fare scienza.
Si registra poi che il meccanismo metaforico riguarda anche il campo della
rappresentazione visiva mediante segni, figure, simboli. Infatti, la metafora è usci-
ta ormai dalla convenzione retorica per essere più spesso impiegata nel campo
visivo, perché alcune immagini si basano su un processo metaforico di similarità
e di paragone oppure dipendono dal fatto che i semi comuni (basi dello scambio
metaforico) sono di varia natura. Le immagini (come sceneggiature, esperienze
e definizioni concettuali) contribuiscono a identificare il significato:
142
Umberto Eco, Semiotica e filosofia del linguaggio, Torino, Einaudi, 1984, p. 143.
143
Pascolini, Metafora e comunicazione scientifica, cit.
144
giuseppe sergio, La salute in vendita. Un sondaggio lessicale sulla lingua medico–pubblici-
taria, http://www.torinomedica.com/allegati/2010/(76)%20la%20salute%20in%20vendita.
pdf, data di accesso: 17.05.2016.
Il conflitto tra sano e malato nelle metafore militari del campo medico italiano 93
scorso specialistico, l’italiano medico non si caratterizza per scelte lessicali povere
e rigorose. Ricco di termini monosemici, non ambigui e indipendenti dal conte-
sto, esso non esclude l’apporto delle parole polisemiche e legate al contesto. L’ap-
porto delle formulazioni belliche segue la via determinata e non cambiabile della
persuasione sia nell’elaborazione di nuovi concetti che per facilitare la riflessione,
la modalità cui si ricorre per far impressione. In conclusione e attenendosi alle
considerazioni riportate, ci si potrebbe quindi augurare tattiche e strategie oppor-
tune in caso di malattie.
Parte II. Insegnamento
La subordinata oggettiva e le due circostanziali:
la finale e la causale nelle grammatiche descrittive
italiane. Alcune considerazioni
Anna Godzich
Uniwersytet Adama Mickiewicza w Poznaniu
Premessa
Come già evidenziato dal titolo del contributo, nel presente studio si vuole in-
dagare la subordinata oggettiva ed alcune difficoltà in cui si imbattono gli studen-
ti di madrelingua polacca analizzando il periodo italiano e dovendo rintracciare
tale dipendente. Il nostro intento scaturisce soprattutto dai problemi pratici che
riscontrano gli studenti polacchi (o slavi in genere, dal momento che non di rado
vi sono anche alcuni ucraini) di italianistica iscritti al corso di sintassi del periodo
presso l’Università Adam Mickiewicz di Poznań e perciò di dar loro degli strumen-
ti di ricerca validi, che permettano di tracciare una netta distinzione tra la oggetti-
va e le due circostanziali: finale e causale.
Le ulteriori difficoltà riguardano la differenza tra la subordinata oggettiva im-
plicita e quella relativa implicita nonché la distinzione tra le quattro frasi com-
pletive, ovvero subordinata oggettiva, soggettiva e dichiarativa, nonché quella in-
terrogativa indiretta, tuttavia di questo, visto lo spazio concessoci per la presente
riflessione, abbiamo discusso in un’altra sede147.
Inoltre, risulta anche di difficile comprensione la differenza tra un unico pre-
dicato verbale e due predicati diversi, tuttavia la questione richiede un approfon-
dimento a parte che miri a evidenziare i tipi di verbi che possono formare una
perifrasi verbale in italiano (p.es. i verbi fraseologici), nonché dia almeno delle
Si veda Anna Godzich, Le subordinate completive e la relativa implicita al corso accademi-
147
co di sintassi dell’italiano LS. Atti del Convegno Internazionale La Polonia e l’Italia nel dia-
logo delle culture. 11–12 giugno 2015, a cura di Ewa Nicewicz–Staszowska–Leonardo
Masi, Warszawa, Wydawnictwo Uniwersytetu im. Kardynała Stefana Wyszyńskiego, 2016.
98 Anna Godzich
principali linee guida circa l’approccio alla questione del predicato dei grammatici
italiani e polacchi.
Va anche precisato che il corpus dell’indagine si basa su alcuni manuali di sin-
tassi d’italiano destinati ai discenti di madrelingua italiana, a cominciare dagli anni
Cinquanta del Novecento:
1. Ernesta Paniate, Analisi logica per la scuola media, Torino, S. Lattes & C.
Editori, 1953.
2. Il libro Garzanti della lingua italiana per le scuole medie superiori, a cura
di Donata Schiannini – Pier Luciano Guardigli – Franco Bastianello –
Paola Castellini, Milano, Garzanti, 1974 (1969).
3. Umberto Panozzo – Nedda Sacerdoti, Dalla parola al linguaggio. Strut-
ture, origini, evoluzione della lingua italiana per la scuola media, Firenze, Le Mon-
nier, 1979.
4. L’italiano parlato e scritto. Grammatica di riferimento e manuale delle abilità
testuali con Schede di autoverifica, a cura di Luca Serianni – Valeria Della
Valle – Giuseppe Patota, Milano, Mondadori, 2003.
5. Marcello Sensini, La lingua e i testi. La riflessione sulla lingua, Milano,
Mondadori, 2005.
Inoltre, per completare la nostra analisi ci siamo appoggiati ad una gramma-
tica di riferimento, e cioè al capitolo Sintassi del periodo in: Italiano. Grammatica
italiana. Ortografia e morfologia. Analisi logica e grammaticale. Sintassi della pro-
posizione e del periodo a cura di L. Serianni con la collaborazione di A. Castelvec-
chi. Glossario di G. Patota, Milano, Garzanti, 2015 (1997), pp. 368–440, nonché
su uno studio di G. Fiorentino, Le frasi oggettive, in: Treccani. Enciclopedia dell’i-
taliano, 2011, http://www.treccani.it/enciclopedia/frasi–oggettive_(Enciclopedia_
dell’Italiano)/ (accesso:15/10/2015). Siamo dell’opinione che l’analisi di tale corpus
ci permetta di dare allo studente delle linee guida circa la subordinata oggettiva
in italiano.
In questa sede ci preme sottolineare che in genere le grammatiche italiane
omettono l’argomento delle problematicità della subordinata oggettiva (forse affi-
dandosi all’intuito dei discenti italiani). Benché l’argomento di cui trattiamo possa
sembrare del tutto facile e sulle prime potrebbe addirittura essere preso un po’
sottogamba dagli stessi studenti (dal momento che apparentemente la subordinata
oggettiva è una proposizione che risponde alla domanda che cosa?), le difficoltà
legate alla subordinata oggettiva a nostro parere risultano tra l’altro:
La subordinata oggettiva e le due circostanziali: la finale e la causale… 99
148
L’argomento è stato trattato da Luisa Amenta – Erling Strudsholm, “Andare a + infi-
nito” in italiano. Parametri di variazione sincronici e diacronici, in «Cuadernos de filología
italiana», IX (2002), pp. 11–29 e da Hanne Jansen, I verbi fraseologici, in Treccani, Enci-
clopedia dell’italiano, 2002, http://www.treccani.it/enciclopedia/verbi–fraseologici_(Enci-
clopedia_dell’Italiano)/ (accesso: 15/10/2015) nonché da Massimo Cerruti, Strutture pe-
rifrastiche in Treccani, Enciclopedia dell’italiano, 2011, http://www.treccani.it/enciclopedia/
strutture–perifrastiche_(Enciclopedia_dell’Italiano)/ (accesso: 15/10/2015).
149
Pensiamo qui alla monografia di Katarina Klimová, Questioni di aspetto verbale. Un
confronto tra italiano e slovacco, Roma, Aracne, 2012, dedicata alla questione dell’aspet-
to, studiato dalla prospettiva slava ed agli studi di Stanisław Karolak, Od semantyki
do gramatyki, Warszawa, Slawistyczny Ośrodek Wydawniczy, 2001 nonché al contributo
di Anna Karlova, L’aspetto come categoria grammaticale nell’italiano moderno. La forma
e il significato, in La lingua e letteratura italiana dentro e fuori la Penisola. Atti del Terzo
Convegno degli Italianisti Europei, 11–13 ottobre 2001, a cura di Stanisław Widłak con
la collaborazione di Maria Maślanka–Soro e Roman Sosnowski, Kraków, Wydawni-
ctwo Uniwersytetu Jagiellońskiego, 2003, pp. 395–399.
100 Anna Godzich
verbi ausiliari propriamente detti: (10) Marco è partito, verbi servili (volere, po-
tere, dovere) vs. verbi di volontà (desiderare, preferire): (11) Marco è dovuto partire vs.
(12) Marco ha desiderato partire nonché (13) Marco ha preferito partire.
– dall’uso del verbo sapere in quanto servile:
Inoltre, l’analisi della subordinata oggettiva risulta difficile anche per il fatto
che essa regge la stessa domanda che la dipendente soggettiva (che cosa?), tuttavia
le soggettive vengono rette da verbi ed espressioni impersonali a struttura È+Agg,
È+N e simili, che siano impersonali però, come in (17) – (19):
– ci sia una confusione nei manuali d’italiano (destinati sempre al discente
di madrelingua italiana), risultante dal graduale cambiare della norma: alcune di-
pendenti, classificate come subordinate oggettive negli anni Cinquanta–Sessanta
del secolo scorso, possono essere considerate piuttosto finali o causali nel Duemila
(si tratta di subordinate rette da una proposizione con un verbo detto di volontà,
di comando (i cosiddetti verbi volitivi e iussivi): vietare, ordinare:
avremo un unico predicato verbale con il verbo ”volere” che funge da supporto
del verbo che esprime l’azione cui si accinge Marco (partire).
Nonostante questa mancanza di spiegazioni ulteriori e di approfondimenti
da parte degli autori che non forniscono che un elenco di verbi, un’informazio-
ne utile viene data da Serianni–Della Valle–Patota154 (quindi in una grammatica
di pubblicazione piuttosto recente) i quali sottolineano che la oggettiva può anche
essere introdotta da come seguito dal congiuntivo:
L’informazione data dagli autori suddetti risulta davvero preziosa per gli stu-
denti. Tuttavia andrebbe anche precisato che nel caso di proposizioni come (28)
e (29) non si tratta di subordinate modali e risulta incisiva la presenza del con-
giuntivo (cfr. con la subordinata modale: (30) Mi sono comportata come mi hai
consigliato tu).
Anche in un recente studio di Giuliana Fiorentino155 si sostiene che sia i verbi
fraseologici (definiti dall’autrice «verbi che indicano tentativo o inizio e conclusio-
ne» e che «si costruiscono solo con l’infinitiva», tra i quali: cercare, provare, tentare,
inziare, cominciare, finire, terminare, sforzarsi, impegnarsi), che i verbi «di stato
d’animo, denotanti emozioni e sentimenti», quali rallegrarsi, rammaricarsi, vergo-
gnarsi, gioire, dolersi, spaventarsi, temere, desiderare, augurarsi, meravigliarsi, pre-
occuparsi, reggano le oggettive:
154
L’italiano parlato e scritto, a cura di Serianni – Della Valle – Patota cit., p. 261.
155
http://www.treccani.it/enciclopedia/frasi–oggettive_(Enciclopedia_dell’Italiano)/ (acces-
so: 15/10/2015).
La subordinata oggettiva e le due circostanziali: la finale e la causale… 103
Per quanto riguarda i verbi fraseologici (31), dal punto di vista formale si può
dare ragione alla linguista, tuttavia viene da interrogarsi sul perché di una tale
analisi e suddivisione. Ciononostante, alcuni autori italiani preferiscono le analisi
formali e meticolose, basti pensare al loro approccio alle polirematiche nominali
del tipo ferro da stiro o barca a vela156 al cui interno taluni autori italiani indivi-
duano i rispettivi complementi: c. di fine (scopo) (da stiro) e quello di strumento
(a vela). Tali considerazioni, basate sullo svisceramento delle unità che formano
un insieme sintattico, rientrano nella tradizione linguistica italiana.
Quanto invece a (32), ovvero ai verbi che dentotano emozioni, si potrebbe an-
che trattare di predicati reggenti le proposizioni causali e non oggettive. Tuttavia,
tale sfumatura andrebbe segnalata trattando di questo tipo di sovraordinate.
Stando alla Fiorentino, anche le sovraordinate il cui predicato è formato da un
verbo di volontà e comando come volere, comandare, ordinare, proibire, esigere,
concedere, consentire, vietare, permettere, imporre, ingiungere, suggerire, intimare,
ecc. reggerebbero una oggettiva:
Come vedremo nel paragrafo 5, tali subordinate vengono anche considerate fi-
nali. Il problema della classificazione concerne i predicati non neutri, che rivelano
una carica emotiva o un approccio del soggetto o del parlante all’azione espressa
della dipendente. Ne Il libro Garzanti della lingua italiana per le scuole medie supe-
riori, a cura di Schiannini – Guardigli – Bastianello – Castellini157 possiamo anche
leggere che «L’oggettiva implicita (…) ha il verbo all’infinito ma senza di, quando
il soggetto è diverso (vedo scorrere l’acqua; sento il bambino piangere) (…)». Nel
nostro contributo uscito nel 2016 trattiamo dell’ambiguità nell’interpretare le rela-
zioni logiche soggiacenti alle proposizioni implicite come le suddette.
Riassumendo, la oggettiva è una subordinata:
1) che funge soprattutto da complemento oggetto per la reggente: (34) Dico che
Marco sta vedendo la partita (stando a Serianni–Castelvecchi–Patota una oggettiva
può anche essere retta da un nome (35) od aggettivo (36):
156
E così per esempio ne L’italiano parlato e scritto, a cura di Serianni, Della Valle, Patota,
cit., pp. 224–225 od in Sensini, La lingua e i testi, cit. p. 389.
157
Il libro Garzanti della lingua italiana per le scuole medie superiori, a cura di Donata
Schiannini – Pier Luciano Guardigli – Franco Bastianello – Paola Castellini,
Milano, Garzanti, 1974 (1969), p. 327.
158
Sintassi del periodo, in Italiano a cura di Luca Serianni, cit., 2015 (1997), p. 382.
104 Anna Godzich
Secondo noi, nel caso della proposizione (35) si potrebbe anche trattare di una
subordinata dichiarativa, dal momento che essa dipende da un sostantivo che in-
dica impressione, presentimento, convinzione, pur non essendo separata dalla so-
vraordinata dai due punti o da una virgola;
2) il cui predicato il più delle volte è costituito da un verbo transitivo attivo:
(37) Promette che verranno, tuttavia non si dimentichino i casi in cui si ha la reggenza
verbale con verbi intransitivi: (38) Mi rendo conto che siamo in ritardo.
o in cui si ha la reggenza col verbo transitivo ma con l’oggetto espresso, come
notano Serianni–Castelvecchi–Patota159: (39) Ti avverto che i soldi sono finiti);
3) il cui predicato ha la forma personale: (40) Marco ha costatato che avrebbe avuto
ragione Paolo.
Nei paragrafi successivi cercheremo di illustrare le principali difficoltà legate
alla subordinata oggettiva in italiano.
In questa sede va soprattutto segnalato che, se la causa viene espressa dal predi-
cato della reggente, questo tipo di subordinata di solito non viene segnalato come
causale: in effetti gli indizi sintattici della causale esplicita, non solo nelle vecchie
grammatiche descrittive (come quella di Paniate), ma anche in quelle di pubbli-
cazione recente, restano le congiunzioni o locuzioni congiuntive causali: perché,
poiché, giacché, siccome, come, per il fatto che, per il motivo che, dal momento che,
dato che, visto che, considerato che e simili.
La formalità della grammatica italiana si nota anche dalla seguente costatazio-
ne che «le causali implicite possono essere costruite
con per + infinito, passato: Si sentì poco bene per aver bevuto troppo.
con il gerundio, presente o passato: Conoscendo Carlo, so che se la prenderà
a male.
con il participio passato: Svegliato dai rumori della strada, non riuscì a ripren-
dere sonno»160.
Notiamo quindi che con la causale implicita si ammette la mancanza di con-
giunzione / locuzione congiuntiva subordinativa, tuttavia si resta attaccati alle tre
forme implicite del verbo, che esprimono nettamente la causa.
Uno dei problemi riguardanti la distinzione tra la oggettiva e le circostanziali
concerne i predicati espressi dai «verbi ed espressioni di sentimento: godere, ral-
legrarsi, compiacersi, lamentarsi, meravigliarsi, dispiacersi, dolersi, rammaricarsi;
159
Sintassi del periodo, in Italiano a cura di Luca Serianni, cit., p. 382.
160
L’italiano parlato e scritto, a cura di Serianni – Della Valle – Patota, cit., p. 264.
La subordinata oggettiva e le due circostanziali: la finale e la causale… 105
provare meraviglia, essere compiaciuto ecc.»161 dal momento che le subordinate
rette da essi vengono spesso classificate come oggettive. E così gli autori suddetti
ne danno gli esempi seguenti:
In effetti, stando agli autori, se l’accento viene posto sulla causa dell’azione,
ovvero del meravigliarsi, del godere ecc., le subordinate siffatte «si possono consi-
derare causali». Se invece si mette l’accento sul sentimento che viene espresso dai
verbi suddetti, le dipendenti «sono oggetive»163.
Ciononostante, notiamo che, malgrado questa esplicita messa in evidenza del-
la causa o del sentimento espressi dal predicato della sovraordinata nei due esempi
soprastanti, risulta sempre vincolante la saturazione della congiunzione: un che
in quanto congiunzione subordinante sarà in ogni caso meno saturo di una con-
giunzione più monovalente come perché o affinché. Nulla cambia quindi nell’ap-
proccio dei linguisti italiani, che restano sempre attaccati alla forma.
Riteniamo rilevante sottolineare anche che, mentre le subordinate rette da un
verbo personale, che abbia cioè un soggetto, che esprime emozioni o approccio
dell’utente della lingua, quali per es.
161
L’italiano parlato e scritto, a cura di Serianni – Della Valle – Patota, cit., p. 262.
162
Panozzo – Sacerdoti, Dalla parola al linguaggio, cit., p. 437.
163
Ibid.
106 Anna Godzich
e non tanto: di che cosa?), quelle rette dagli stessi verbi alla forma impersonale
però:
sono da considerarsi solo soggettive, mai causali. Risulta quindi incisiva la for-
ma impersonale del predicato della reggente. Dal punto di vista didattico è parec-
chio utile farlo notare agli studenti a scanso di equivoci e dubbi.
Gli unici cenni che, nel caso di subordinate rette da verbi come meravigliarsi,
stupirsi, godere ecc., vada presa in considerazione la non neutralità del predicato
della sovraordinata, si trovano in Sensini164 il quale definisce le subordinate rette
da questi predicati «più causali che oggettive»:
cente fra i manuali analizzati, ovvero il libro redatto da Paniate168, i verbi di volontà
quali volere, non volere, preferire, sperare, promettere, comandare, vietare reggereb-
bero una oggettiva. Si noti che andrebbe sempre precisato che volere e non vole-
re nel caso di due soggetti diversi reggono effettivamente una oggettiva, mentre
in altri casi avremo un unico predicato verbale, il modale, non avendo autonomia,
da solo non costituirà predicato autonomo (come in (27)).
Sulla stessa scia di Paniate troviamo nel libro Garzanti169 le informazioni che
anche i verbi che indicano «preghiera» o «comando» introducono e reggono
un’oggettiva. Gli autori elencano i verbi seguenti: pregare, ordinare. Cionondime-
no, nei casi in cui la congiunzione subordinante che è sostituibile con una meno
polivalente come perché o ché, comunque sempre dal valore finale, oppure con una
monovalente affinché – sarebbe da considerarsi finale:
Tuttavia va notato che allo stesso tempo l’uso della subordinata finale risulta
parecchio ristretto e limitato dalla struttura superficiale il che si vede p. es. nello
stesso Paniate170:
(53) I cittadini son soggetti alle leggi affinché possano essere liberi,
(54) Scriverò a Carlo perché (affinché) ci venga a trovare,
(55) Ti dico ciò affinché tu mi dia un consiglio;
168
Paniate, Analisi logica, cit., p. 154.
169
Il libro Garzanti della lingua italiana, a cura di Schiannini – Guardigli – Bastianello –
Castellini, cit., p. 327.
170
Paniate, Analisi logica, cit., p. 192.
171
Panozzo – Sacerdoti, Dalla parola al linguaggio, cit., p. 438.
172
Ibid.
108 Anna Godzich
(56) Il tiranno Dionigi, per non affidare il collo al barbiere, invitò le figlie
a fargli la barba,
(57) L’ho esortato ad accettare,
(58) Siamo venuti qui con lo scopo di far del bene.
Ne consegue che per parlare di una finale si dovrebbe avere in struttura su-
perficiale una congiunzione o locuzione congiuntiva dal valore finale (o comun-
que sostituibile con affinché), perché quando questo segno di finalità viene meno,
la frase viene piuttosto considerata oggettiva:
Osserviamo che il segno della finalità nella esplicita è il modo congiuntivo,
il quale rafforza il collegamento subordinativo e la gerarchia tra le proposizioni175.
Inoltre vediamo una gradazione della forza del collegamento: dal collegamento
debole realizzato dalla congiunzione polivalente che, passando attraverso il colle-
gamento più forte, espresso dalla congiunzione subordinante che, al collegamento
sintatticamente più vincolante, ossia la congiunzione affinché o locuzioni congiun-
tive subordinative con lo scopo di, al fine di, allo scopo di176.
173
Paniate, Analisi logica, cit., p. 155.
174
Ivi, p. 159.
175
Cfr. Elżbieta Jamrozik, Collegamento transfrastico in italiano moderno, in Lingua e let-
teratura italiana dentro e fuori la Penisola. Atti del Terzo Convegno degli Italianisti Eu-
ropei, 11–13 ottobre 2001, a cura di Stanisław Widłak con la collaborazione di Maria
Maślanka–Soro e Roman Sosnowski, Kraków, Wydawnictwo Uniwersytetu Jagiel-
lońskiego, 2003, p. 372.
176
A proposito del collegamento transfrastico in italiano contemporaneo si vedano i contri-
buti di Jamrozik, Collegamento transfrastico in italiano moderno, cit., p. 371–380 non-
ché Elżbieta Jamrozik, Collegamento transfrastico in italiano, Warszawa, Wydawnictwo
Uniwersytetu Warszawskiego, 2005.
La subordinata oggettiva e le due circostanziali: la finale e la causale… 109
177
Sensini, La lingua e i testi, cit., p. 449.
178
L’italiano parlato e scritto, a cura di Serianni – Della Valle – Patota, cit., p. 262.
179
Sensini, La lingua e i testi, cit., p. 449.
180
Katarzyna Kwapisz–Osadnik, Zdanie złożone, in: Eadem, Podstawowe wiadomości
z gramatyki polskiej i włoskiej. Szkic porównawczy, Katowice, Wydawnictwo Uniwersytetu
Śląskiego, 2012, p. 125.
181
Cfr. Il verbo, in Italiano. Grammatica italiana. Ortografia e morfologia. Analisi logica e gram-
maticale. Sintassi della proposizione e del periodo a cura di Luca Serianni con la collabora-
zione di Alberto Castelvecchi. Glossario di Giuseppe Patota, Milano, Garzanti, 2015
(1997), p. 280.
110 Anna Godzich
mentre il tutto, ovvero “Ho imparato a parlare” non è che un verbo fraseologi-
co + verbo lessicale che forma un unico predicato, una perifrasi verbale nei termini
di Jansen o Cerruti182.
Vediamo gli altri esempi addotti dall’autrice polacca, come:
Considerazioni finali
L’oggetto di questo studio, ossia la subordinata oggettiva, sembra essere una
proposizione facile da rintracciare nel periodo e altrettanto facile da distinguere
dalle altre subordinate, che siano completive o circostanziali, mentre alla suddetta
subordinata sono legate numerose questioni difficili che riguardano: la distinzione
di un unico predicato verbale da due predicati verbali, la distinzione dell’oggettiva
dalle altre completive, quali soggettiva, dichiarativa ed interrogativa indiretta, non-
ché dalla relativa, dalla finale e dalla causale. Alla questione va quindi dedicato pa-
recchio tempo sia durante la lezione frontale di sintassi sia durante le esercitazioni.
Come possiamo vedere, avendo passato in rassegna le varie proposte di de-
finizioni dell’oggettiva, essa si situerà in un continuum sintattico nel cui centro
troveremo le oggettive modello, rette da verba putandi, dicendi, in periferia invece
le subordinate rette dalla frase matrice costituita da un verbo non neutro come
in (45) e (46).
Le divergenze di vedute tra gli studiosi italiani non facilitano il compito del do-
cente di sintassi non italiano. Visto e considerato quanto sopra è parecchio difficile
districarsi tra le opinioni e le tipologie diverse proposte dagli studiosi italiani. Inol-
tre mancano esercizi finalizzati alla distinzione di due o tre subordinate facilmente
confondibili tra loro e che possono essere difficili da riconoscere dagli studenti.
182
I verbi fraseologici, in Treccani, Enciclopedia dell’italiano, 2002, http://www.treccani.it/en-
ciclopedia/verbi–fraseologici_(Enciclopedia_dell’Italiano)/ (accesso: 15/10/2015) nonché
Massimo Cerruti, Strutture perifrastiche in Treccani, Enciclopedia dell’italiano, 2011,
http://www.treccani.it/enciclopedia/strutture–perifrastiche_(Enciclopedia_dell’Italiano)/
(accesso: 15/10/2015).
La subordinata oggettiva e le due circostanziali: la finale e la causale… 111
Pertanto il manuale più amichevole, con numerose segnalazioni „Per non sbaglia-
re” è senza dubbio quello di Sensini183, in cui tuttavia tali osservazioni non sono
sempre presenti. Comunque è un manuale dall’approccio didattico–descrittivo.
Per concludere possiamo osservare per analogia che «l’antichissimo cancro
della retorica», tanto biasimato e condannato a più riprese da Ascoli184, in un certo
qual modo persiste o i suoi orpelli perdurano sotto forma dell’eccessiva formalità,
del badare troppo alla forma e trascurare la semantica e la grammatica semantica.
Riassumendo quanto detto sopra, le conclusioni e le raccomandazioni posso-
no essere le seguenti:
1. i manuali degli anni Cinquanta–Sessanta del Novecento sono più formali,
la congiunzione è un indizio di circostanzialità (la subordinata oggettiva vs. finale
o causale);
2. è un tema valido ed attuale visto il costante bisogno di insegnare la sintassi
dell’italiano allo studente straniero;
3. è osservabile un lieve spostamento sull’asse oggettiva–finale–causale;
4. vigono sempre requisiti piuttosto formali che non formali–semantici nel
caso di subordinate circostanziali (finale, causale);
5. si nota una certa apertura di alcune subordinate all’apporto di nuove propo-
sizioni al loro gruppo (causali);
6. in alcuni casi risulta palese la mancanza del focus sul concetto di predicato
(e la mancanza di esercizi in merito);
7. talvolta alcune subordinate sfumano una nell’altra (oggettiva–causale, og-
gettiva–finale).
Il nostro intento era di delineare le difficoltà che si possono riscontrare nel
corso di sintassi del periodo e di proporre come discernere i tipi di subordinate più
confuse dal discente polacco. Per spiegare e soprattutto far capire i suddetti feno-
meni e le differenze tra di essi allo studente al corso di sintassi del periodo a nostro
parere occorre anche mettere in rilievo l’alto grado di formalità dell’italiano.
Va ribadito che in qualche caso risulta superfluo o addirittura discutibile
o talvolta persino arbitrario decidere in modo netto la loro appartenenza ad uno
o all’altro gruppo di proposizioni subordinate.
In questa sede ci preme sottolineare che il presente contributo non vuole essere
una critica dei manuali di sintassi italiani: in effetti con esso vogliamo dare agli stu-
denti degli strumenti validi per potersi destreggiare nella selva delle proposizioni
italiane, nonché far sì che si rendano conto della molteplicità di punti di vista e di
approcci degli studiosi italiani.
Marcello Sensini, La lingua e i testi. La riflessione sulla lingua, Milano, Mondadori, 2005.
183
tecaitaliana.it/xtf/view?docId=bibit000730/bibit000730.xml&chunk.id=d4819e132&toc.
depth=1&toc.id=&brand=newlook (accesso: 15/10/2015).
Considerazioni sull’e–conflitto nell’insegnamento
delle lingue
Aleksandra Kostecka–Szewc
SWPS Uniwersytet Humanistycznospołeczny, Warszawa
«Ma non mi dire che stai studiando!». È una frase molto spesso usata dai ge-
nitori che non credono che il bambino che sta davanti allo schermo del computer,
con la musica accesa e il telefonino a portata di mano, stia proprio studiando.
Invece il multitasking è molto comune, soprattutto tra le nuove generazioni. Ovvia-
mente in questo caso l’efficacia e la concentrazione risultano cruciali per il pieno
svolgimento del processo di apprendimento. Comunque non è detto che perché
al genitore questo modo di apprendere sembri impossibile, lo sia anche per il bam-
bino. Dei diversi cervelli e, allora, dei diversi modi di apprendere dei nativi e im-
migrati digitali si è parlato già tante volte. Quello che era adeguato e stimolante per
le generazioni precedenti non deve affascinare i giovani, anzi è molto più probabile
che li annoierà.
Il presente articolo si propone di presentare alcune soluzioni che possono es-
sere adottate per risolvere questa specie di e–conflitto.
E–conflitto
Infatti è stato usato il prefisso «e–» perché riguarda la sfera multimediale, elet-
tronica, tecnologica. Con questo prefisso si indicano anche le cose che riguardano
l’uso dell’elettronica digitale e delle nuove tecnologie. E–mail, e–book, ma adesso
anche e–scuola, ed e–insegnante. La realtà delle nuove tecnologie è onnipresente.
Devono allora per forza esserci pure dei problemi, delle critiche e proprio anche
dei conflitti riguardanti la materia. Il detto conflitto sorge non solo tra i giovani
e i loro genitori, ma anche tra gli insegnanti e in più nell’intero sistema scolatico
di oggi.
114 Aleksandra Kostecka–Szewc
Una delle soluzioni sarebbe magari di non farne per forza una battaglia. Né
tra le generazioni, né tra i genitori e figli, né tra gli studenti e gli insegnanti. Che
le tecnologie siano indispensabili non lo possiamo negare, però l’eccesso della loro
applicazione oppure l’uso sbagliato possono provocare diversi danni, sia dal pun-
to di vista educativo, che da quello psicologico. La risposta sta dunque nel come
sfruttare in modo saggio le possibilità che ci offrono le tecnologie e condividere
questo sapere con gli studenti, seguendo e rispettando le importantissime scoperte
della neurodidattica.
Alcuni limitano l’uso degli strumenti tecnologici soprattutto al gioco che, se-
condo loro, non costituisce uno scopo educativo vero e proprio. Infatti molti geni-
tori e insegnanti collegano il gioco solo con il divertimento e il piacere di passare
il tempo libero in modo spensierato. Ovviamente la connotazione è giusta, però
chi ha detto che lo studio non può essere piacevole, divertente, interessante e sti-
molante? È già ben chiaro che il fattore ludico è indispensabile non solo nell’inse-
gnamento dei più piccoli, ma di tutti i discenti.
Per lo più, dal punto di vista neurobiologico, il gioco è uno dei più intensi
processi dell’apprendimento che non può essere sostituito con nessun altro sti-
molo. Marzena Żylińska185, nel suo libro, menziona gli esempi dei bambini che
proprio attraverso il gioco imparano cose indispensabili per la loro vita futura,
traendo da ciò la conclusione che il gioco sia un metodo valido. Invece il bambino
che si annoia, cioè che non trova delle condizioni adeguate per lo sviluppo così
tanto desiderato e richiesto dal suo cervello, farà di tutto per essere attivo in un
altro modo. Lo sanno benissimo tutti i genitori. Nell’ambiente di apprendimento
a scuola valgono le stesse regole. Gli studenti devono avere le condizioni adeguate
al loro sviluppo e al mantenimento di un alto livello di motivazione, altrimenti
si annoiano, fanno altre cose, non sanno più concentrarsi.
La ricerca europea sulle competenze linguistiche (ESLC European Survey on Lan-
guage Competences) fatta in Polonia nel 2012 dimostra che uno studente su quattro
dopo sei anni di studio di una lingua straniera non raggiunge nemmeno il livello più
basso (il 24% degli studenti d’inglese, alla fine del ginnasio186 ha un livello inferiore
ad A1). Questi dati non devono sorprendere. Quante volte si sentono affermazioni
come: «dopo anni di studio non so costruire nemmeno una frase corretta in una
lingua straniera», oppure «studio la lingua da tanti anni, ma non oserei mai usarla
in pubblico». Ecco il risultato dello studio sbagliato. Anche se gli studenti sanno per-
fettamente completare gli esercizi, abbinare le colonne e inserire le forme giuste, non
sanno usare la lingua187. La situazione deve per forza cambiare.
185
Marzena Żylińska, Neurodydaktyka. Nauczanie i uczenie się przyjazne mózgowi, Toruń,
Wydawnictwo UMK, 2013, p. 156.
186
Il ginnasio polacco corrisponde alla scuola media italiana.
187
Marzena Żylińska, Neurodydaktyka, cit., p. 97.
Considerazioni sull’e–conflitto nell’insegnamento delle lingue 115
188
Ivi, p. 164.
189
Ivi, p. 99.
190
Marek Kaczmarzyk, Sama technologia niczego nie zmieni, in «IT w edukacji», 3 (2015),
p. 65.
116 Aleksandra Kostecka–Szewc
Competenza mediale
Il mondo della scuola è cambiato. Oggi nello zaino di uno studente, oltre
a libri e quaderni ci sono anche tablet e smartphone. Strumenti che possono
avere un utilizzo esclusivamente ludico ed essere motivo di distrazione sia
in classe che a casa, ma anche essere preziosi “alleati” nel percorso didattico
e formativo. La sfida della società moderna è proprio questa: aiutare i ragazzi,
ma anche i genitori e i docenti, a rendere queste apparecchiature utili nello
191
Educazione ai media, in Wikipedia, https://it.wikipedia.org/wiki/Educazione_ai_media,
consultato il 29/5/2015.
192
Ibid.
Considerazioni sull’e–conflitto nell’insegnamento delle lingue 117
studio, nello svolgimento dei compiti, nel fare le ricerche e, più in generale,
nel complesso e articolato processo di conoscenza che ognuno di noi affronta
prima a scuola e poi nel mondo lavorativo193.
Multitasking
Al modo di saper o anzi di non saper sfruttare bene le risorse e gli strumenti
tecnologici è collegata ancora un’altra caratteristica importante dei nativi digitali,
e nello stesso tempo una di quelle il cui funzionamento è il più difficile da capire
– il multitasking. I giovani sono capaci di svolgere più attività nello stesso tempo.
È possibile supporre che sia così grazie alla realtà che gli offre così tanti stimoli.
Da bambini sono abituati ad agire in questo modo. Non sanno più concentrarsi
su una cosa e se già lo fanno si annoiano subito. Sempre più spesso il problema
193
Consorzio Unison, http://www.consorziounison.it, consultato il 29/5/2018.
194
Edukacja medialna, http://edukacjamedialna.edu.pl, consultato il 29/5/2015.
195
Jacek Ścibor, Coś drgnęło, in «IT w edukacji», 2 (2015), p. 3.
118 Aleksandra Kostecka–Szewc
tocca anche gli adulti, che non sono nemmeno consapevoli di svolgere diverse
attività nello stesso tempo. Guidano la macchina ascoltando la radio e parlando
al telefono. Guardano la TV stirando e preparando il pranzo o controllando la po-
sta elettronica. Oppure semplicemente leggono le notizie che il canale trasmette
sulle strisce in fondo allo schermo196.
Si torna dunque all’esempio presentato all’inizio dell’articolo a proposito dello
svolgimento dei compiti a casa con l’uso di tanti strumenti tecnologici. Infatti è un
metodo molto comune. Perché? Se alle cose che bisogna fare si aggiungono quelle
che ci interessano il piacere accresce la motivazione. La dopamina, un ormone che
funziona tra l’altro aumentando la frequenza cardiaca e la pressione del sangue,
è responsabile anche dell’assegnazione dei premi. Se viene attivata, spinge ad agire.
Per lo più in questo modo si risparmia il tempo, così prezioso nei tempi di oggi. Le
ricerche condotte da Spitzer confermano che il tempo dedicato al compito a casa
con l’aiuto del computer solo in un terzo dei casi è dedicato allo studio vero e pro-
prio197. Succede così probabilmente perché gli studenti proprio non sanno come
farlo in modo adeguato.
È chiaro però che non tutte le azioni possono essere svolte contemporane-
amente oppure che il loro risultato non è soddisfacente. Pensiamo per esempio
al pranzo bruciato o al messaggio mandato a un destinatario sbagliato. È vero che
il multitasking funziona fino a quando non intervenga lo stress, la stanchezza o la
mancanza di concentrazione. In quelle condizioni l’effettività diminuisce, il lavoro
è svolto in modo trascurato e caotico.
Qual è, allora, la soluzione? Come accontentare i giovani che vogliono essere
multiattivi e nello stesso tempo fare in modo che apprendano il materiale?
Prima di tutto serve una buona competenza mediale. Bisogna sapere come
fare, perché gli scarsi risultati dei lavori sono estremamente demotivanti. In più
molti specialisti di didattica, tra cui Żylińska, consigliano i metodi attivi, basati
sui giochi, progetti, sondaggi, lavori di gruppo, simulazioni, discussioni, dibattiti
e ricerche in cui gli studenti da soli trovano le regole, le soluzioni e le definizioni.
Più informazioni devono scoprire da soli, più a lungo rimangono motivati. La que-
stione sta dunque nella scelta giusta dei materiali. L’impegno attivo da parte degli
studenti è sottolineato da moltissimi studiosi (anche dai costruttivisti). Si tratta
soprattutto dell’impegno realizzato tramite le attività in collaborazione con gli altri
studenti e sempre in un dato contesto. In questo modo anche gli alunni iperattivi,
che fanno mille cose nello stesso tempo potranno avere il loro spazio.
196
Marzena Żylińska, Neurodydaktyka, cit., p. 186.
197
Manfred Spitzer, Demenza digitale. Come la nova technologia ci rende stupidi, Milano,
Corbaccio, 2013, p. 225.
Considerazioni sull’e–conflitto nell’insegnamento delle lingue 119
Esempi pratici
Gli esempi pratici del materiale preparato proprio in modo che possa soddi-
sfare i bisogni degli studenti di oggi si trovano in una serie di manuali per le scuo-
le medie polacche preparata da Aleksandra Kostecka–Szewc e Marta Kaliska, Va
bene!. La maggioranza degli esercizi ha appunto come scopo l’attivazione degli stu-
denti, ai quali offre la possibilità di sfruttare le innovazioni tecnologiche e permet-
te di apprendere in una maniera più adatta e attraente per loro, visto che si tratta
di una fascia d’età particolarmente esigente.
In una delle unità del secondo volume198, a proposito del tema riguardante
il caffè si descrive anche una visita a Venezia. Si comincia dall’ascolto dei nomi dei
tipi di caffè che poi vengono presentati attraverso le immagini. Gli studenti indovi-
nano i nomi, cercano di spiegarne il significato, compararli con il mercato polacco.
Poi si pone la domanda: sapete dove è nata la prima caffetteria? Gli alunni cercano
le informazioni su Internet. «Ovviamente in Italia! Andiamo dunque a Venezia!».
Così si propone di fare una passaggiata virtuale al Caffè Florian, che è disponi-
bile sul sito internet del locale (http://www.caffeflorian.com). Si visita la pagina,
cercando le informazioni concrete (l’anno in cui è stato fondato, il prezzo del cap-
puccino, ecc.), lavorando in gruppi oppure proponendo una forma del progetto.
Poi si legge un testo su Venezia e sulle prime caffetterie italiane, in cui bisogna
inserire le preposizioni (il lavoro individuale, poi la verfica a coppie). Quindi si fa
un gioco sui simboli veneziani, chi ne nomina di più – vince (il gioco di classe).
Alla fine si lascia un po’ di spazio per proposte, dubbi, suggerimenti e racconti
degli studenti.
Un altro esempio è costituito dalle ricette video facilmente reperibili, per
esempio sul sito: http://ricette.giallozafferano.it. Qui le tecniche dell’uso sono tan-
tissime: progetto, lavoro individale, concorso top chef per la migliore ricetta, ecc.
Conclusioni
200
Manfred Spitzer, Dopamina i sernik, Warszawa, PWN, 2014, p. 65.
201
Marc Prensky, Il ruolo della tecnologia nell’insegnamento e nelle classi, in «Educational
Tecnology», Novembre–Dicembre 2008.
Multimediale e interattivo...
Un’esigenza del metodo o del mercato?
Alicja Paleta
Uniwersytet Jagielloński, Kraków
Introduzione
L’idea dell’articolo è nata dalla presunzione di chi scrive che esista una sorta
di conflitto sull’asse apprendente – insegnante – teoria della glottodidattica – ma-
teriali didattici (come corsi di lingua) che riguarda la multimedialità ma le cui
cause non si possono facilmente ricondurre alla costatazione che da una parte
ci sono gli apprendenti, soprattutto quelli giovani, che rivendicano l’uso delle tec-
nologie aiutati da eccitati scienziati, i quali a loro volta riempiono i materiali didat-
tici di elementi multimediali considerati l’unica fonte della motivazione basata sul
piacere attualmente accessibile; dall’altra parte si troverebbero i ‘cattivi’ insegnanti
che ignorano la multimedialità e ne negano qualsiasi utilità e vantaggio.
Per esaminare la questione più da vicino siamo partiti dall’esame di alcuni sag-
gi e articoli dedicati all’argomento e scritti da autori polacchi e italiani per vedere
se l’entusiasmo incondizionato di alcuni anni fa ha resistito alla prova del tem-
po oppure la percezione del ruolo della multimedialità nella didattica delle lingue
straniere ha subito dei cambiamenti. Come si può vedere da alcune citazioni ripor-
tate sotto, sembra che l’euforia sia accompagnata da una riflessione critica mirante
a un bilanciamento degli indubbi vantaggi e altrettanto indubbi svantaggi che gli
strumenti digitali offrono alla glottodidattica.
Il computer non può sostituire l’insegnante, «per chi apprende le lingue a qual-
siasi livello è importante la guida di un docente, per quanto sofisticate possano
essere le apparecchiature e il software di cui si serve»202.
Non sembrano esservi dubbi sulla capacità delle tecnologie di allargare il cam-
po delle esperienze ben al di là dei limiti dell’insegnante come modello di lingua
e narratore di civiltà203.
203
Ivi, p. 169.
204
Katerin Katerinov, L’acquisizione di una lingua seconda nell’era digitale. La multimedia-
lità applicata al progetto Socrates. Atti del Convegno «Italiano e italiani nel Mondo», a cura
di Maria Arici, Gabriele Pallotti, Leila Ziglio, Perugia, Università per Stranieri
di Perugia, 2001, p. 2.
205
Marco Mezzadri, I ferri del mestiere. (Auto)formazione per l’insegnante di lingue, Perugia,
Guerra Edizioni, 2003, p. 340.
206
Dorota Tomczuk, Metody audiowizualne i media w nauczaniu języków obcych, in «Języki
obce w szkole», III (2012), p. 32.
Multimediale e interattivo...Un’esigenza del metodo o del mercato? 123
Non si può negare che l’avvento dell’epoca digitale ha influito in modo radi-
cale sulla generazione degli apprendenti moderni. Un adolescente di oggi possie-
de delle caratteristiche neuropsicologiche diverse da un adolescente di vent’anni
fa; ne consegue una diversa struttura neuronale del cervello dei giovani e questo
implica la necessità di adattare i processi di insegnamento alla nuova situazione,
ma è giusto rifiutare le modalità di apprendimento tradizionali e accettare acritica-
mente tutte le tecniche privilegiate da esse? Ne potrebbe essere un esempio il mul-
titasking che consiste nell’esecuzione contemporanea di più compiti che riguarda-
no i media digitali210. Infatti tantissimi giovani sono abituati a preparare i compiti
per casa ascoltando la musica, controllando la posta elettronica e chattando con
207
Aleksandra Kostecka–Szewc, Innovazione e tecnologia nell’insegnamento e nell’appren-
dimento dell’italiano, in Percorsi linguistici tra Italia e Polonia, a cura di Elżbieta Jamro-
zik, Roman Sosnowski, Firenze, Franco Cesati Editore, 2014, p. 126.
208
Allo scopo della presente relazione si è adottata la definizione di Vaughan secondo il qua-
le la «multimedialità è qualunque combinazione di testo, grafica, suono, animazioni e vi-
deo distribuita da un computer. Quando si permette all’utente (…) di controllare quali
e quando sono distribuiti questi elementi, si ha multimedialità interattiva» (Tay Vaughan,
Multimedia: Making it work, McGraw–Hill, New York, 1996 (citato in: Gianfranco Por-
celli, Roberto Dolci, Multimedialità e insegnamenti linguistici, Torino, UTET Libreria,
1999, p. 49). Nel presente testo, per semplificare il discorso, non si fa distinzione teorica tra
la multimedialità e l’ipermedialità, dove la differenza sta nel ruolo rispettivamente passivo
e attivo dell’utente e di conseguenza con il termine «multimedialità» ci si riferisce ad am-
bedue i casi. La multimedialità non sarà neanche vista come un metodo didattico indipen-
dente, ma solo come una forma di organizzazione e predisposizione del materiale didattico.
209
Marzena Żylińska, Neurodydaktyka, Toruń, Wydawnictwo Naukowe UMK, 2013, p. 167.
210
Sul multitasking vedi Manfred Spitzer, Demenza digitale, traduzione di Alessandra Pe-
trelli, Milano, Garzanti/Corbaccio, 2013, pp. 194–204 e Żylińska, Neurodydaktyka, cit.,
pp. 186–189.
124 Alicja Paleta
gli amici. Gli studi confermano invece che chi utilizza contemporaneamente di-
versi media digitali presenta problemi rispetto al controllo della propria mente.
In relazione a tutte le attività mentali necessarie per il multitasking, i multitasker
ottengono risultati peggiori dei non multitasker. Persino nel passaggio da un’atti-
vità all’altra, che è lo standard del multitasking, sono decisamente più lenti dei non
multitasker211.
La stessa cosa si potrebbe dire a proposito della capacità di selezione delle in-
formazioni su Internet. Visto il numero di ore che i giovani passano navigando
in rete, si potrebbe supporre che la loro competenza digitale sia alta. Invece le ri-
cerche dimostrano che i giovani non sanno utilizzare Internet in modo efficace,
non sanno da dove provengono le informazioni disponibili e non sanno citare
le fonti consultate212; succede così perché ci vuole una riflessione autonoma e la
capacità di selezione e valutazione del contenuto delle pagine web. Da questa pro-
spettiva si potrebbe definire il ruolo dell’insegnante moderno, che dovrebbe consi-
stere nell’applicare in prassi didattica tutta la tradizione teorica e unirla alle scoper-
te tecnologiche per creare tecniche didattiche capaci di catturare l’interesse degli
apprendenti e anche fruttuose in funzione dell’apprendimento delle lingue stra-
niere. L’insegnante dovrebbe inoltre indirizzare i discenti verso l’uso consapevole
e valido della multimedialità con tutte le sue risorse213. Il cervello sa adattarsi alle
circostanze in cui viene immerso e ciò che si acquisisce nell’adolescenza costituirà
in futuro il patrimonio mentale dell’apprendente. In quest’ottica la multimedialità
acquista un’importanza particolare, perché da una parte viene considerata il do-
211
Spitzer, Demenza, cit., p. 204.
212
Żylińska, Neurodydaktyka, cit., p. 192.
213
Tra gli indiscutibili vantaggi che la multimedialità offre a chi si trova davanti alla prepara-
zione di un corso di lingua straniera si possono elencare: l’accesso immediato a materiali
autentici che permettono di avvicinare agli apprendenti la cultura del dato paese e della
sua lingua, il contatto diretto con gli abitanti del paese la cui lingua si studia, la possibilità
di reimpiegare immediatamente la lingua e le informazioni apprese in aula, lo spostamento
dell’attenzione dall’insegnante al discente che lo porta all’autonomia nell’apprendimento,
ecc. Come tutti i metodi, le tecniche e i supporti didattici, anche la multimedialità pre-
senta potenziali svantaggi che, alla luce di quanto si vedrà in seguito, vanno sempre presi
in considerazione programmando il lavoro di classe. Infatti, da una parte per un insegnan-
te è difficile e dispendioso in termini di tempo navigare nel mare delle informazioni per
trovare del materiale che sia valido e interessante allo stesso tempo e dall’altra non è detto
che le proposte dei libri di corso che fanno uso della multimedialità soddisfino i principali
concetti dell’attuale didattica delle lingue straniere. Il discente, invece, se l’input non sarà
impostato correttamente, non si stimolerà all’apprendimento indipendente e autonomo e si
demotiverà per il mancato successo nella realizzazione di un dato compito, il che non sarà
dovuto tanto alla sua mancata competenza comunicativa quanto alla mancata competenza
digitale oppure all’esposizione a un input tecnologico e linguistico incomprensibile o trop-
po articolato.
Multimediale e interattivo...Un’esigenza del metodo o del mercato? 125
minio dei nativi digitali214, ovvero degli adolescenti, e dall’altra può essere sfruttata
dagli insegnanti per accedere al mondo dei loro studenti. A questo punto però
si arriva alla questione che fa nascere alcuni dubbi. Il conflitto non sarebbe tanto
da cercare nel famoso divario generazionale e nella mancata comunicazione tra
i vecchi e i giovani, quanto nella discrepanza tra le capacità metodologiche e tec-
nologiche degli insegnanti e le aspettative che il mondo nutre verso questo gruppo
professionale, il che si vede particolarmente bene nel caso delle lingue straniere.
Infatti molti presuppongono che nel XXI secolo chi si decide a diventare inse-
gnante abbia una competenza digitale alta essendo già nato nativo digitale, ma allo
stesso tempo si dimentica spesso che l’istruzione non prevede ancora una forma-
zione digitale efficace e quindi queste persone si portano sulle spalle i problemi
di cui si è appena parlato. In più i datori di lavoro, ovvero le scuole di tutti i tipi
e gradi, non garantiscono corsi di abilitazione in questo campo e la soluzione più
sicura sembra quella di basarsi sul materiale offerto dal mercato. Nasce quindi
la domanda: ci si può fidare della multimedialità inclusa nei corsi dell’italiano
come lingua straniera?
Materiali didattici
214
Termini coniati da Mark Prensky, Digital Natives, Digital Immigrants, http://www.mar-
cprensky.com/writing/Prensky%20–%20Digital%20Natives,%20Digital%20Immigran-
ts%20–%20Part1.pdf (ultimo accesso del 26.05.2015).
215
Porcelli, Principi, cit., pp. 165–166.
126 Alicja Paleta
216
Per esempio: «Cerca data e luogo di nascita; il titolo di un’opera oltre quella citata nella
lezione; altre due informazioni a scelta sulla sua vita» (Universitalia), «Con l’aiuto di Inter-
net cerca le informazioni necessarie per completare le schede di questi personaggi famosi
di origine italiana» (Bravissimo).
Multimediale e interattivo...Un’esigenza del metodo o del mercato? 127
in contatto con altri utenti. Un dubbio sorge, però, se si analizzano queste attività
(sia quelle incluse nel libro stesso sia quelle che fanno parte dei materiali aggiunti-
vi) dal punto di vista dell’autonomia dell’apprendente, dato che spesso le istruzioni
sono molto generiche e non limitano in modo sufficiente la ricerca da svolgere.
Inoltre solo a volte gli autori suggeriscono i siti dove si possono cercare le infor-
mazioni richieste. Se il discente, ancora a livello elementare, viene messo di fronte
al compito «Cerca delle informazioni su questi stilisti italiani (Dolce&Gabbana,
Krizia, Diesel, Versace) e scrivi dei brevi testi per descrivere il loro stile e le caratte-
ristiche principali» (Bravissimo 1); oppure «Andate in biblioteca a Roma, almeno
virtualmente, e iscrivetevi» (Universitalia), è facile che si demotivi il discente, dato
che la difficoltà dell’esercizio non riguarda solo il compito della scrittura, ma anche
il fatto che chi deve svolgerlo viene lasciato davanti a una fonte di informazioni im-
mensa, senza avere a disposizione alcuno strumento per consentire una selezione
delle informazioni, per esempio attraverso le domande che precisino esattamente
quali informazioni si dovrebbero cercare.
Sono pochi, ma vi sono e questo fatto va apprezzato, i momenti in cui l’inse-
gnante può affidarsi al materiale didattico proposto e non deve intervenire per
renderlo adatto al livello linguistico e tecnologico dell’apprendente. Tra le proposte
più interessanti sembrano i materiali che accompagnano i corsi Domani e Nuovo
Espresso pubblicato da Alma Edizioni di Firenze e che includono un dvd con brani
audio per l’autoapprendimento, cortometraggio/videocorso con attività didattiche
(disponibile anche sul sito web), radiodramma della storia a fumetti inclusa nel
volume (con attività didattiche) (Domani), canzoni, glossari e chiavi degli esercizi.
Sul sito web invece si possono trovare alcuni esercizi interattivi, divisi per unità
e predisposti per il lavoro autonomo, dato che si svolgono online e le soluzioni
si verificano automaticamente cliccando il tasto INVIA. La tipologia di esercizi
è quella tradizionale e varia da un semplice abbinamento, sequenza o tabelle gram-
maticali a più difficili cloze, scelta multipla, dettati o cruciverba. Gli esercizi soddi-
sfano pienamente i requisiti di pertinenza, accettabilità, complementarietà ed eco-
nomicità, in quanto si basano sul materiale incluso nel volume, sono accompagnati
da una brevissima guida che può servire sia all’insegnante sia all’apprendente stes-
so e per il loro svolgimento si necessita solo di un computer o di un telefonino con
connessione Internet. Inoltre uniscono in sé l’aspetto digitale con le tecniche tradi-
zionali, attirando l’attenzione dell’apprendente e indirizzandolo verso una tecnica
che altrimenti potrebbe rifiutare considerandola poco attraente.
Merita attenzione anche la piattaforma idee.it (italiano–digitale–edizioni–edi-
lingua) creata dalla casa editrice Edilingua, che non solo contiene la versione di-
gitale di alcuni contenuti dei volumi ma permette anche un lavoro multimediale
e interattivo più complesso e creativo. L’insegnante può formarvi classi di utenti,
introdurre le proprie idee preparando test e giochi interattivi, personalizzare le le-
zioni, ecc. L’apprendente invece può lavorarci come membro di un gruppo, ma an-
128 Alicja Paleta
Conclusioni
Non vi è nessun dubbio che la multimedialità con i suoi canali e strumenti è un
elemento utile e importante della didattica delle lingue straniere, ma allo stesso
tempo di per sé, senza alcuna riflessione metodologica e adattamento, non costi-
tuisce ancora un supporto né per l’insegnante né per l’apprendente perché, come
si è visto, è facile perdersi e di conseguenza demotivarsi di fronte a una fonte così
ricca di informazioni e di stimoli. L’utilizzo della rete necessita di una forte capaci-
tà di selezionamento dei dati e si è visto che è proprio quello che manca spesso agli
apprendenti. Importante è ciò che dice a proposito Porcelli:
La soluzione non può essere che analizzare attentamente qualsiasi proposta nei
termini della sua conformità con i principi glottodidattici e, in caso di difformità,
adattare il materiale ai propri bisogni. Così la multimedialità diventa un’esigenza
sia del metodo sia del mercato e il conflitto cui si è accennato prima in realtà non
esiste, in quanto non si tratta di un vero e proprio conflitto, ma di una mancanza
di coerenza e corrispondenza tra la teoria e la pratica. Per questo motivo occorre
ancor più che mai puntare sull’efficienza e sulla complessità della formazione degli
insegnanti in vista della loro autonomia, anche quella «digitale», perché sappia-
no prima valutare e poi eventualmente adattare l’input e il canale tramite il qua-
le questo input andrebbe proposto agli apprendenti per soddisfare i loro bisogni
e i requisiti del corso. Un fattore altrettanto importante sembra la necessità di una
profonda consapevolezza delle caratteristiche neuropsicologiche, cognitive ed af-
fettive degli apprendenti e la capacità di elaborare il materiale proposto dal mer-
cato, senza soffermarsi sulla convinzione che tra gli insegnanti e i discenti esiste
un divario generazionale insuperabile che rende impossibile qualsiasi tipo di co-
municazione.
217
Gianfranco Porcelli, Principi, cit. p. 167.
Multimediale e interattivo...Un’esigenza del metodo o del mercato? 129
Corpus Analitico
Maria Balì, Giovanna Rizzo, Espresso 2, Firenze, Alma Edizioni, 2014.
Elena Ballarin, Barbara D’Annunzio, Bellissimo 1, Recanati, ELI, 2014.
Marilisa Birello, Albert Vilagrasa, Bravissimo 1, Firenze, Bulgarini, 2012.
Elena Carrara, UniversItalia. Esercizi, Firenze, Alma Edizioni, 2007.
Federica Colombo, Cinzia Faraci, Pierpaolo De Luca, Arrivederci 1 e 2, Perugia,
Edilingua, 2011.
Barbara D’Annunzio, Marisa Pedrana, Bellissimo 2, Recanati, ELI, 2014.
Carlo Guastalla, Massimo Naddeo Ciro, Domani 1 e 2, Firenze, Alma Edizioni,
2011.
Matteo La Grassa, Italiano all’università 1, Perugia, Edilingua, 2011.
Teli Marin, Sandro Magnelli, Nuovo Progetto Italiano 1, Perugia, Edilingua, 2007.
Marco Mezzadri, Paolo E. Balboni, Italiano: pronti, via! 1, Perugia, Guerra Edi-
zioni, 2008.
Danila Piotti, Giulia de Savorgnani, UniversItalia, Firenze, Alma Edizioni, 2007
Maurizio Trifone, Antonella Filippone, Andreina Sgaglione, Affresco italiano
A1 e A2, Firenze, Le Monnier, 2008.
Linda Toffolo, Nadia Nuti, Renate Merklinghaus, Allegro 1, Perugia, Edilingua,
2005.
Linda Toffolo, Allegro 2, Perugia, Edilingua, 2005.
Luciana Ziglio, Giovanna Rizzo, Espresso 1, Firenze, Alma Edizioni, 2014.
Il fattore ludico nell’insegnamento come soluzione
al conflitto tra i vecchi e i nuovi metodi didattici
Karolina Wolff
Uniwersytet Warszawski, Warszawa
Qualora si parli nel presente articolo dell’approccio si intende la filosofia di fondo, quando
218
invece ci si riferisce al metodo si parla della traduzione dell’approccio in procedure operative.
132 Karolina Wolff
La voce ludolinguistica finora non ha registrato una grande fortuna nella lette-
ratura del campo. Non è sempre trovabile nei dizionari e non tutti sono d’accordo
sul suo uso, o vogliono addirittura essere chiamati ludolinguisti preferendo gli ap-
pellativi come saggista o enigmista219 o addirittura giocologo.
Alcuni ritengono che il padre fondatore della ludolinguistica come discipli-
na idonea sia Anthony Mollica, il quale ha recentemente pubblicato una raccolta
di esercizi ludici accumulati nei decenni della sua attività lavorativa220. Tuttavia
è stato Giuseppe Aldo Rossi, un grande enigmista, a coniare la parola ludolingui-
stica, che è stata poi inserita nel vocabolario Zingarelli nel 1998221, ed a usare questa
voce come titolo del suo Dizionario Enciclopedico di Enigmistica e Ludolinguistica.
Giovanni Freddi, professore di Didattica delle lingue moderne presso l’Univer-
sità Ca’ Foscari di Venezia, ha elaborato invece un elenco dei principi su cui deve
basarsi la didattica ludica, tra i quali troviamo ad esempio: ludicità, motoricità,
sensorialità, bimodalità neurologica, espressività.
Che cosa è dunque la ludolinguistica? Citando da Mollica, che a sua volta cita
da Giampaolo Dossena, la più diffusa risposta è quella «che è una branca della
linguistica che si occupa di giochi di parole e combinazioni lessicali»222. Come ve-
dremo sono stati soprattutto gli studiosi di glottodidattica a usare questa voce nel
contesto didattico. Nel Dizionario di Glottodidattica di Paolo Balboni sotto il ter-
mine glottodidattica ludica leggiamo:
219
Rimando all’intervista rilasciata da Stefano Bartezzaghi a Maurizio Codogno e citata
da Anthony Mollica nel suo libro Ludolinguistica e Glottodidattica.
220
Anthony Mollica, Ludolinguistica e Glottodidattica, Perugia, Guerra Edizioni, 2010.
221
Rimando all’intervista lanciata dal professor Rossi a Anthony Mollica in occasione del suo
centesimo compleanno inclusa nella rubrica di Mollica del Corriere Canadese: https://italia-
no–nsk.ru/downloads/061–080%20–%20Pagine%20singole.pdf, data di accesso: 20.09.2018.
222
Anthony Mollica, Ludolinguistica e Glottodidattica, Perugia, Guerra Edizioni 2010, p. XVI.
223
Paolo Balboni, Dizionario di Glottodidattica, Perugia, Guerra Edizioni, 1999, p. 62.
Il fattore ludico nell’insegnamento come soluzione al conflitto tra i vecchi… 133
226
Paolo Balboni, Didattica dell’italiano come lingua seconda e straniera, Torino, Loescher
Editore, 2014, p. 37.
227
Marcel Danesi, Bimodalità e insegnamento delle lingue oggi, in Linguistica e Glottodidat-
tica Studi in onore a Katerin Katerinov, a cura di Anthony Mollica – Roberto Dolci
– Mauro Pichiassi, Perugia, Guerra Edizioni, 2008, p. 128.
Il fattore ludico nell’insegnamento come soluzione al conflitto tra i vecchi… 135
ne d’ipotesi del futuro semplice può essere tanto noiosa quanto faticosa, se la si fa
in base solo ad un manuale e agli esercizi da svolgere. Nella mia prassi didattica
ho notato che questa struttura grammaticale viene appresa dagli studenti con uno
sforzo minimo, se preceduta dall’ascolto delle canzoni tipo Sarà perché ti amo dei
Ricchi e Poveri oppure Sarà la nostalgia di Sandro Giacobbe; in più gli studenti
si sono mostrati molto predisposti a tradurre tali canzoni e a fare ipotesi riguar-
danti i messaggi trasmessi dagli autori dei testi.
L’approccio strutturalistico, realizzato soprattutto nella variante audio–orale
ed elaborato in America in base al behaviorismo degli anni Trenta, vedeva l’inse-
gnamento nell’ottica del botta e risposta, in modo da poter memorizzare gli elementi
minimi della comunicazione e questi pattern drill sono rimasti nell’insegnamento
attraverso il fattore ludico soprattuttto al livello del principiante, in cui giova anche
una certa automatizzazione. Paolo Balboni spiega questo fatto in modo seguente:
«così come non si impara a suonare la chitarra senza automatizzare gli accordi,(...)
allo stesso modo non si impara una lingua se non si automatizzano alcuni processi,
e l’automatizzazione richiede la ripetizione»228.
Per quanto riguarda invece gli approcci umanistici, l’insegnamento attraverso
il fattore ludico sembra essere in una certa sintonia con la suggestopedia di Loza-
nov, che metteva in rilievo l’atmosfera di totale rilassamento come punto cardine
e il ruolo della musica nel sostenere la memorizzazione del materiale. Entrambi
i metodi affidano un ruolo primario all’insegnante.
a catena, in modo che da una ne nasca un’altra. Spesso la LIM, in quanto provoca
una scrittura un po’ rallentata rispetto a quella normale, distrae l’attenzione dello
studente invece di focalizzarla.
Gli studenti più pignoli si lamentano anche che guardare un film durante la le-
zione è per loro uno spreco di tempo, se ne consuma tanto, mentre gli effetti sono
quasi inesistenti. Non credo che sia del tutto così, dato che durante la visione di un
film vengono esercitate sia le capacità uditive sia quelle sociopragmatiche, nono-
stante occorra che tale visione prosegua e si completi negli esercizi. E questi po-
trebbero essere di diversi tipi: a partire dal riassumere la trama, tramite il riscrivere
l’ultima scena, finendo con il mettere le parole utili da apprendere riscontrabili nel
film in una scatola magica da cui verranno tirate fuori alla lezione successiva per
la ripetizione.
Nei tempi moderni, in cui le scuole private di lingue fanno sempre più vasto
uso nell’insegnamento delle nuove tecnologie ricorrendo sia ai multimedia sia alla
LIM, l’insegnante universitario spesso è felice quando riesce a prenotare un proiet-
tore per una data lezione o quando il lettore audio legge il CD. Ed è proprio lì che
nasce la necessità di servirsi di mezzi che, pur sembrando modesti al confronto,
possono portare agli stessi o anche a migliori risultati.
Avendo già fatto riferimento alla figura dell’insegnante mi pare opportuno
sottolineare l’importanza del suo ruolo nell’apprendimento attraverso il fattore
giocoso. Tra i compiti che Anthony Mollica assegna all’insegnante troviamo «la
responsabilità di creare un’atmosfera di successo i cui obiettivi principali sono:
motivare, divertire, insegnare»233.
L’insegnamento ludico, come ogni approccio, ma ancor più degli altri, mette
la chiave del successo dell’acquisizione nelle mani del docente. Il docente incapace
può essere più nocivo di qualunque manuale noioso e può incidere negativamente
sull’atteggiamento dello studente circa la lingua insegnata. Per cui è essenziale che
gli insegnanti si decidano a svolgere solo le attività di cui sono convinti, di cui ve-
dono il senso e le possibili applicazioni. In sintesi: solo quando sanno dove e come
vogliono arrivare all’obiettivo. Un altro fattore da non dimenticare è la mancan-
za di esercizi universali adatti per tutti i gruppi dello stesso livello. Ogni gruppo
ha una sua dinamicità e un modo proprio di lavorare, per cui un esercizio ludico
riuscito molto bene in un gruppo, può fallire completamente in un altro.
L’insegnante che introduce il fattore ludico nell’insegnamento deve essere con-
vinto dei vantaggi dell’insegnamento attraverso tale metodo. In più deve essere
ben cosciente degli scopi didattici che vuole realizzare tramite un esercizio ludico
in modo che tale esercizio non diventi un semplice tappabuco234. E infine deve
essere aperto ai cambiamenti (non siamo in grado di prevedere tutto) e incline
all’improvvisazione.
234
Ivi, p. XIX.
235
Begotti – Pavan, Insegnare/apprendere il lessico, cit., p. 89.
Il fattore ludico nell’insegnamento come soluzione al conflitto tra i vecchi… 139
bile di questo approccio. L’insegnante che gioca in classe lavora con tutto il corpo.
Ed anche il movimento del corpo può servire ad attivare la mnemotecnica.
Un altro fattore da prendere in considerazione per quanto riguarda il coinvol-
gimento degli studenti è la competizione. La rivalità è una spinta motivazionale
molto efficace.
Ritengo anche che all’inizio dell’apprendimento le semplici frasi fatte usate
durante le situazioni comunicative del tipo role–play, cioè diversi tipi di dialoghi
situazionali siano molto utili, perché non solo permettono di portare avanti la co-
municazione senza troppe complicazioni o esitazioni, ma liberano anche dallo
stress iniziale che ci accompagna sempre quando dobbiamo cominciare ad espri-
merci in una nuova lingua.
Per concludere voglio citare un’opinione del grande studioso di didattica ita-
liano Paolo Balboni:
Paolo Balboni, Didattica dell’italiano a stranieri, Roma, Carocci Editore, 1994, p. 62.
236
Il conflitto nella didattica dell’italiano ovvero
la didattica dell’italiano tra vari conflitti
Joanna Jarczyńska, Katarzyna Święcicka
SWPS Uniwersytet Humanistycznospołeczny, Warszawa
possono essere analizzati da una sola prospettiva. La comprensione della loro vera
natura dipende proprio dalla capacità di guardare da più punti di vista, di modo tale
da ottenere un quadro possibilmente più completo.
Partendo dal presupposto che le lingue dovrebbero servire per comunicare,
ovvero – dal punto di vista etimologico – mettere in comune237 e non per dividere,
il conflitto più infelice pare essere quello sentito sul piano sociale, proprio perché
invece di contribuire alla co–costruzione delle relazioni sociali e la condivisione
delle esperienze tende a dividere le persone.
All’inizio del processo didattico i conflitti di sfondo sociale coinvolgono di re-
gola tre parti: l’insegnante, l’apprendente e il genitore, la figura del quale col passar
del tempo sparisce (anche se non sempre) dal “campo di battaglia”. Quali sono
i problemi più frequenti in questo campo? Ovviamente il contrasto qui presen-
te riguarda principalmente i metodi e/o le tecniche usate dall’insegnante contro
i presupposti fondati dai genitori o dagli allievi stessi in base alle proprie espe-
rienze e aspettative. Non di rado i conflitti nati su questo piano riguardano anche
l’approccio che l’insegnante assume con gli studenti e viceversa: l’atteggiamento
di ogni singolo studente verso l’insegnante.
Invero, nei gruppi complessi gli allievi hanno diverse configurazioni di prefe-
renze sensoriali e di stili cognitivi e – soprattutto – diversi tempi da rispettare. Nes-
sun metodo e nessuna tecnica possono essere ritenuti validi per tutti, né considerati
universali. Nella prassi quotidiana risulta estremamente difficile, se non impossibile,
accontentare i bisogni e le preferenze cognitive di tutti gli apprendenti. Ma a prescin-
dere dal postulato di trovare un metodo o delle singole tecniche adeguate ai bisogni
e alle possibilità reali di tutti gli apprendenti, bisogna ammettere che molti insegnan-
ti tendono a realizzare ciecamente i contenuti impersonali dei materiali didattici
e/o scegliere i metodi e le tecniche con cui hanno studiato di persona, trascurando
proprio la diversità dei bisogni e delle possibilità congitive degli apprendenti. Con-
formemente a quanto già menzionato, la detta tendenza a imporre le tecniche speri-
mentate di persona, che d’altronde è un processo naturale in quanto si è sempre più
fiduciosi verso le tecniche adoperate nel passato con successo, anziché verso le tecni-
che nuove, più spesso basate sui rislutati degli studi scientifici, caratterizza però non
solo l’approccio dell’insegnante, ma anche del genitore e/o dello studente che non
di rado avanzano pretese riguardo le scelte didattiche del docente.
I conflitti che sorgono lungo l’asse delle aspettative e delle pretese verso le scel-
te didattiche non sono quindi quasi mai unidirezionali.
Un problema analogo riguarda le esigenze reciproche circa l’apporto del lavoro
dell’insegnante e dell’apprendente. Se da un lato l’insegnante propende a esigere
237
Il nuovo etimologico, DELI. Dizionario Etimologico della Lingua Italiana, a cura di Manlio
Cortelazzo – Paolo Zolli, 2° ed., 1999: communicare, mettere in comune, derivato
di commune, propriamente, che compie il suo dovere con gli altri, composto di cum insieme
e munis ufficio, incarico, dovere, funzione.
Il conflitto nella didattica dell’italiano ovvero la didattica dell’italiano… 143
dagli allievi più lavoro a casa, dall’altro lato sia gli apprendenti che i genitori sono
spesso convinti che i loro risultati ed il loro progresso nello studio dipendano so-
prattutto dalle competenze del docente.
Malgrado possa sembrare assurdo e contraddittorio, anche l’approccio umanisti-
co–affettivo attualmente in voga porta molto spesso a fraintendimenti da parte degli
studenti e dei genitori, che tendono a perdere la percezione dei limiti della disponibilità
e delle possibilità reali dell’insegnante e del sistema scolastico, pretendendo diverse for-
me di lavoro più personalizzato e la realizzazione di quasi tutte le loro richieste.
Il tasto dolente di tutti i contrasti citati sopra è la questione della gestione dei
ruoli sociali dei partecipanti al processo didattico, vale a dire la questione del rispetto
degli obblighi e dei diritti propri e altrui, senza intaccare l’autorità né del genitore,
né dell’insegnante e senza ledere l’autostima dell’apprendente. In questo contesto ap-
pare molto evidente l’importanza dell’educazione all’uso di ogni lingua, vista come
uno strumento di regolazione sociale dotato di tutto il potenziale indispensabile per
mitigare i contrasti, che invece, se usata inadeguatamente, può fomentare i conflitti.
Per prevenire i problemi di cui sopra sembra indispensabile sensibilizzare gli in-
segnanti all’uso di quello strumento didattico che purtroppo molto spesso viene con-
siderato una perdità di tempo: il “patto formativo”. Esso, stipulato tra l’insegnante e gli
studenti adulti, e, nel caso degli studenti minorenni, anche con i loro genitori, permette
infatti di precisare e di mettere in chiaro non solo gli obiettivi da raggiungere e le scelte
didattiche, ma anche le anzidette questioni riguardanti le responsabilità, le aspettative
reciproche e le possibilità reali di tutte le parti. In effetti, l’importanza del patto forma-
tivo viene attualmente sottolineata in tutti gli approcci di stampo umanistico–affettivo,
non solo perché costituisce un efficace strumento per evitare i fraintendimenti e i con-
flitti sul piano della gestione del proprio spazio sociale nel processo didattico, ma anche
perché contribuisce allo sviluppo della motivazione intrinseca a lungo termine. Come
spiega Clotilde Pontecorvo, «la conoscenza degli obiettivi permette a colui che studia
di dirigere meglio la sua attività e il suo interesse, ed è provato che gli studenti impara-
no prima e meglio se conoscono (e capiscono) gli obiettivi del loro lavoro»238. Proprio
per questo motivo il “patto formativo” è uno strumento prezioso anche dal punto di vi-
sta più strettamente glottodidattico, anche esso – come verrà presentato nel paragrafo
successivo – permeato da conflitti di varia natura.
In primo luogo vengono elencati i conflitti tra i presupposti ideologici della
didattica delle lingue e le condizioni reali dell’insegnamento/apprendimento che
riguardano il tempo a disposizione. Tenendo in considerazione che l’italiano è una
seconda o terza lingua straniera insegnata in Polonia nelle scuole pubbliche e che
gli studenti cominciano a studiarla per lo più solo al liceo239, il programma da re-
238
Cfr. Clotilde Pontecorvo – Maurizio Pontecorvo, Psicologia dell’educazione: cono-
scere a scuola, Bologna, il Mulino, 1985.
239
Cfr. Podstawa programowa z komentarzami, Tom 3, Języki obce w szkole podstawowej,
gimnazjum i liceum.
144 Joanna Jarczyńska, Katarzyna Święcicka
zione (gli interlocutori di solito hanno le stesse competenze, insieme gestiscono l’atto
di comunicare e hanno gli stessi diritti nella conversazione: possono iniziarla, rifiutare
di rispondere alla domanda, cambiare argomento), durante la comunicazione in clas-
se l’insegnante non solo è più competente, ma è anche l’unico autorizzato a organizza-
re, iniziare, impostare, gestire e porre fine a ogni atto comunicativo. Lo studente non
ha il diritto di rifiutare di rispondere o di cambiare argomento e se tace, non vuole
o non sa rispondere alla domanda viene punito. Mentre bisogna ricordare che «il bi-
sogno e il desiderio di comunicare nascono in una precisa situazione e la forma della
comunicazione, allo stesso tempo del contenuto, corrispondono a tale situazione»243.
La stessa disparità riguarda anche le modalità di formulare le domande e di
dare le risposte. Nella comunicazione spontanea le domande si pongono per col-
mare le lacune informative e ogni interlocutore ha lo stesso diritto di fare una do-
manda per chiedere informazioni. Invece in classe l’insegnante conosce le risposte
alle domande che pone: le sue domande non colmano quindi lacune informative,
ma servono esclusivamente a controllare la correttezza linguistica. Le uniche do-
mande che assomigliano di più a quelle della comunicazione reale vengono for-
mulate dagli studenti per ottenere ulteriori spiegazioni da parte dell’insegnante,
ma anch’esse sono sottoposte al potere organizzativo dell’insegnante, che decide
in quale momento gli studenti possono rivolgerle.
Una situazione analoga riguarda le risposte che nelle condizioni naturali ven-
gono scelte liberamente, in base alla situazione e alle relazioni tra gli interlocutori,
mentre in classe il numero di risposte accettabili è molto limitato e di solito l’inse-
gnante aspetta ed accetta una risposta ben determinata.
Inoltre, l’unico stile o registro ammesso in classe è neutrale, raramente con una
sfumatura affettiva, poco diversificato o adeguato al linguaggio dei coetanei italo-
foni degli apprendenti, molto spesso segnato invece dalla cosiddetta correttezza
politica, giustificata spesso dagli obiettivi educativi e dal contesto scolastico in cui
usare solo ed esclusivamente il lessico neutrale, strettamente indispensabile.
Anche lo sviluppo delle competenze extralinguistiche in classe è molto limi-
tato. La comunicazione non verbale e l’uso delle interiezioni che nella comunica-
zione naturale svolge un ruolo molto importante e permea tutta la conversazione
tra gli italofoni, in classe quasi non esiste e, se gli studenti provano a comunicare
non verbalmente, vengono subito richiesti di dare una forma linguistica alla loro
comunicazione, reazione contradditoria alla realtà linguistica vera.
Nonostante i problemi riguardanti la disparità organizzativa all’interno dell’at-
to comunicativo, la varietà di registri, lo spazio e il tempo a disposizione durante
la lezione trovino ormai valide soluzioni attingendo ai presupposti dell’approccio
cooperativo e all’impiego delle tecniche di lavoro in gruppo244, resta da notare che
243
Cfr. Council Of Europe, Quadro comune europeo di riferimento per le lingue: apprendimen-
to, insegnamento, valutazione, Milano, La Nuova Italia, 2004.
244
Cfr. Mezzadri, I ferri del mestiere, cit.
146 Joanna Jarczyńska, Katarzyna Święcicka
la maggior parte delle tecniche di questo stampo impiega più tempo, per cui il loro
uso, pur riuscendo a porre rimedio al conflitto dovuto alle diverse disparità comu-
nicative, riapre il circolo vizioso attorno al conflitto tra la quantità del materiale
da realizzare e il tempo a disposizione durante il ciclo didattico. Inoltre, le tecniche
di lavoro in coppia e/o in gruppo comportano la necessità di preparare i materiali
didattici in grado sia di stimolare la produzione orale, sia di dare il feedback sulla
correttezza delle frasi, affinché gli studenti possano sfruttare contemporaneamen-
te, in modo attivo, il tempo dedicato a conversazioni, con la possibilità di correg-
gersi a vicenda.
Come risulta da tutti gli esempi forniti finora, diversi tipi di conflitti nella didat-
tica si sovrappongono e/o collegano tra di loro, non di rado creando circoli vizio-
si. Il conflitto di sfondo organizzativo, descritto nei paragrafi precedenti, presenta
molti punti in comune non solo con i conflitti di tipo sociale (disparità comunica-
tiva) o metodologico (i contenuti e gli obiettivi della didattica delle lingue straniere
e le possibilità reali), ma anche con i conflitti dovuti ai vincoli istituzionali. Infatti,
il problema della realizzazione del programma, che non sempre può essere esegui-
to nei tempi previsti per le determinate tappe d’istruzione (quali le scuole medie
inferiori o superiori), viene ulteriormente aggravato dalle divergenze tra di esso
e il lavoro di preparazione dell’alunno per l’esame di maturità245. Un altro problema
è costituito dai materiali didattici di base a disposizione degli insegnanti d’italiano
operanti in Polonia: al momento non esiste un manuale completo pensato per gli
apprendenti polacchi ed elaborato in base ai contenuti precisi indicati nei due do-
cumenti regolatori che copra tutte le tappe di un intero ciclo didattico (sia quello
delle medie inferiori, sia delle medie superiori), per non parlare di un’ulteriore
coordinazione dei manuali tra i due cicli. Malgrado attualmente si stiano usando
due manuali246 preparati conformemente ai requisiti specificati in CKE (la com-
missione centrale per gli esami statali) e in Podstawa Programowa247, vale a dire
nelle Indicazioni Nazionali, va osservato che anche tali lavori costituiscono una
sorta di compromesso tra i presupposti metodologici (quali ad esempio le tecni-
che induttive e la stimolazione di tutti i sensi nell’assimilazione dell’input nuovo)
e i vincoli imposti dalla legge del 7 luglio 2014248, che vieta esplicitamente l’uso
nelle scuole pubbliche dei materiali con gli spazi vuoti da completare.
245
Council Of Europe, Quadro comune europeo, cit.
246
Marta Kaliska – Aleksandra Kostecka–Szewc, Va bene, Poznań, Nowela, 2015, Jo-
anna Jarczyńska – Katarzyna Święcicka, Perfettamente, Poznań, Nowela, 2015.
247
Podstawa programowa z komentarzami, Tom 3, Języki obce w szkole podstawowej, gim-
nazjum i liceum.
248
Legge del 30 maggio 2014 r. „O zmianie ustawy o systemie oświaty oraz niektórych innych
ustaw (Dz. U. z 2014 r., poz. 811). Specificamente: Rozporządzenie Ministra Edukacji Na-
rodowej z dnia 7 lipca 2014 r. w sprawie udzielania dotacji celowej na wyposażenie szkół
w podręczniki, materiały edukacyjne i materiały ćwiczeniowe.
Il conflitto nella didattica dell’italiano ovvero la didattica dell’italiano… 147
so: 10.09.2018.
Ad 4: I dati riguardanti l’insegnamento dell’italiano nell’anno scolastico 2013 / 2014250.
148
lingua straniera
In totale
inglese francese spagnolo latino tedesco russo italiano altre tutte
00003 Szkoła podstawowa 2 018 591 4 791 3 786 0 133 004 6 443 350 715 2 167 680
00004 Gimnazjum 1 093 652 39 830 21 533 498 773 767 85 156 4 182 876 2 019 494
00013 Zasadnicza szkoła zawodowa 104 619 619 0 0 57 960 10 966 69 29 174 262
00014 Liceum ogólnokształcące 705 299 60 687 30 954 11 260 349 428 62 264 12 142 495 1 232 529
00015 Liceum profilowane 7 027 270 55 0 4 230 1 021 16 27 12 646
00016 Technikum 504 154 17 696 3 550 0 400 965 51 944 921 1 124 980 354
00017 Liceum ogólnokształcące uzupełniające dla absolwentów zasadni- 5 244 0 0 0 313 636 0 0 6 193
czych szkół zawodowych
00018 Technikum uzupełniające dla absolwentów zasadniczych szkół 12 181 77 0 0 5 006 1 649 2 0 18 915
zawodowych
00019 Szkoła policealna (ponadgimnazjalna) 144 910 71 24 252 8 717 1 385 45 2 415 157 819
00021 Sześcioletnia ogólnokształcąca szkoła muzyczna I stopnia 8 798 60 4 0 536 0 0 0 9 398
Joanna Jarczyńska, Katarzyna Święcicka
00024 Sześcioletnia ogólnokształcąca szkoła muzyczna II stopnia 3 962 130 0 0 2 977 164 173 0 7 406
00025 Sześcioletnia szkoła muzyczna II stopnia 0 0 0 0 0 0 0 0 0
00026 Sześcioletnia ogólnokształcąca szkoła sztuk pięknych 2 590 1 487 63 0 660 151 0 0 4 951
00027 Czteroletnie liceum plastyczne 4 906 1 738 36 0 2 091 279 89 0 9 139
00029 Dziewięcioletnia ogólnokształcąca szkoła baletowa 832 464 0 0 0 65 0 0 1 361
00032 Policealna szkoła artystyczna 1 058 0 0 0 90 0 41 7 1 196
00034 Kolegium nauczycielskie 1 077 21 0 9 193 0 0 0 1 300
00035 Nauczycielskie Kolegium Języków Obcych 2 067 216 148 0 1 084 82 27 0 3 624
00065 Kolegium Pracowników Służb Społecznych 672 20 0 0 99 0 0 0 791
00066 Szkoła pomaturalna animatorów kultury 195 0 0 5 175 0 0 0 375
00069 Czteroletnia szkoła muzyczna II stopnia 39 18 0 0 21 0 20 0 98
00070 Dziewięcioletnia szkoła sztuki tańca 0 0 0 0 0 0 0 0 0
00082 Poznańska szkoła chóralna 180 0 0 0 106 0 0 0 286
222
Razem 4 622 053 128 195 60 153 12 024 1 741 422 18 077 5 688 6 809 817
205
250
Informazioni tratte dal portavoce ufficiale del Ministerstwo Edukacji Narodowej.
Il conflitto nella didattica dell’italiano ovvero la didattica dell’italiano… 149
Il numero di persone che nell’anno 2012 hanno sostenuto l’esame di italiano all’esame dopo
il gimnazjum e a quello di maturità in confronto alle altre lingue:
język włoski
esame dopo il gimnazjum esame di maturità
livello elementare livello avanzato livello elementare livello avanzato
68 13 560 219
In totale in tutto il paese hanno sostenuto In totale in tutto il paese hanno sostenuto
l’esame di una lingua straniera: l’esame di una lingua straniera:
403 179 339 457 360925 83139
l’italiano consiste dunque: per cento
0,0017 0,0004 0,015 0,026
Parte III. Letteratura
Due modi diversi di intendere il conflitto uomo–donna:
Lucrezia Marinelli e Moderata Fonte (sec. XVI–XVII)
Fabio Boni
Uniwersytet Pedagogiczny w Krakowie
Nel 1599, a Venezia, per l’editore Vincenzo Somasco, usciva un ponderoso vo-
lume il cui titolo, I donneschi difetti, non lasciava molti dubbi sul suo contenuto.
Scopo dell’autore – l’erudito ravennate Giuseppe Passi – era infatti quello di di-
mostrare l’inferiorità fisica, morale e mentale della donna, essere per natura insta-
bile, imprevedibile, inaffidabile, nonché portato naturalmente al male operare251.
L’opera di Passi inaugurava un tipo di trattatistica dedicata alla denigrazione della
donna e alla messa in luce delle sue tare252. La fioritura di questa produzione non
era del resto casuale, ma rispecchiava la non facile condizione della donna nella
vita culturale e sociale della fine del Cinquecento e del Seicento in Italia. A testi-
monianza di questo si possono portare alcuni fatti storici e sociali. Conti Odorisio
fa notare che «per quanto riguarda la situazione delle donne, non si può modifi-
care una valutazione negativa» e con lo storico Natali individua le cause di questo
peggioramento in due fatti storici ben precisi, la Controriforma e la dominazione
spagnola253. Anche Visconti, a inizio Novecento, avanzava analoghe motivazioni,
sostenendo che «la tendenza religiosa del Seicento ha dichiarato guerra alle donne,
definendole cagione prima dell’umana dannazione, fonti di vizi e corruttela»254.
Recentemente, è stato poi notato come a partire dalla Controriforma si assista
in effetti ad una recrudescenza nella promozione della castità e del pudore in molti
251
Giuseppe Passi nacque a Ravenna nel 1569 e morì a Venezia nel 1620 circa. I donneschi
difetti si compone di 35 Discorsi, ciascuno dei quali dedicato ad un difetto femminile.
252
Diversi furono gli scritti dedicati a questo argomento. In generale si tende a criticare la don-
na intesa soprattutto come corpo che attrae, seduce e colpisce il maschio, come si può nota-
re da questi altri titoli: Giovanni Antonio Massinoni, Il flagello delle meretrici (Venezia,
1599); Giovanni Battista Barbo, L’Oracolo, ovvero invettiva contro le donne; Bonaven-
tura Tondi, La femina origine di ogni male. Overo Frine rimproverata (Venezia, 1687).
253
Cfr. Ginevra Conti Odorisio, Donna e società nel Seicento, Roma, Bulzoni, 1979, p. 36.
254
Filippo Visconti, Lo spirito misogino del Seicento, Avellino, Pergola, 1905, p. 77.
154 Fabio Boni
aspetti della vita sociale255. A fare le spese di questa impostazione della società sono
le donne, verso le quali si acuisce il pregiudizio sessuale. Esse vengono così viste
come potenziali tentatrici e veicoli di peccato. La loro condizione è inoltre di totale
subalternità al maschio, sia questi fratello, padre o marito. Il compito della donna
all’interno della società è limitato quindi alla vita domestica, nella fattispecie alla
procreazione e all’allevamento dei figli. Tutto quanto vada al di là di questi due
compiti essenziali, incluso quindi anche l’esercizio e la formazione intellettuale,
viene visto dalla società con occhio ostile e viene condannato come una distorsio-
ne ed un pericolo per la società stessa256.
Questa minima introduzione al contesto socio–culturale è parsa necessaria
per avvicinarsi all’argomento principale dell’articolo, ossia la reazione che due
intellettuali donne, invero una rarità per l’epoca, ebbero di fronte alla degrada-
ta situazione delle loro simili, attraverso la stesura di due trattati in cui emerge
la consapevolezza della propria contingente inferiorità sociale, ma allo stesso tem-
po la volontà di affermare il proprio valore e la propria dignità nei confronti della
prepotenza maschile.
Sarà in particolare interessante osservare come esse intendano il rapporto
uomo–donna e su quali assi si muovano nell’affrontare il problema della condizio-
ne sociale della donna, alla luce del conflitto con l’uomo.
Entrambe le intellettuali hanno origine veneziana, entrambe fin dalla giovane
età versate negli studi e fortunate nell’essere cresciute in famiglie, se così si può dire,
illuminate. Lucrezia Marinelli (1571–1653) fu educata dal padre medico e poté
sviluppare la sua passione per la letteratura e la filosofia, in particolare studiando
Platone ed il neoplatonismo, sposandosi in età avanzata, oltre i quarant’anni; Mo-
derata Fonte (pseudonimo di Modesta Pozzo, 1555–1592), educata da un parente
che ne conobbe e apprezzò le doti intellettuali, poté coltivare la scrittura, senza
però tralasciare le incombenze familiari, andò infatti sposa all’avvocato Filippo
Zorzi, da cui ebbe quattro figli, partorendo l’ultimo dei quali morì.
Vedremo come la vicenda biografica di queste due donne (la prima intellettua-
le, libera e maritata soltanto in età matura, la seconda maggiormente legata all’am-
biente domestico, madre e moglie) in un certo senso influenzerà le loro riflessioni
sulla condizione femminile ed il loro modo di porsi nel rapporto con l’uomo.
Della nobiltà et eccellenza delle donne co’ diffetti et mancamenti degli huomini
fu composto da Lucrezia Marinelli nel 1600 ed edito nello stesso anno, a Venezia,
per l’editore Ciotti257. Con questo trattato Marinelli intendeva, da un lato, rispon-
255
Cfr. George Duby – Michelle Perrot, Storia delle donne. Dal Rinascimento all’età mo-
derna, a cura di Natalie Zemon Davis e Arlette Farge, Bari, Laterza, 2009, p. 73.
256
Cfr. Duby – Perrot, Storia delle donne, cit.; sulla condizione della donna nell’età moderna
si può anche vedere: Merry E. Wiesner, Le donne nell’Europa moderna 1500–1750, Tori-
no, Einaudi, 1994.
257
Edizione di riferimento per le citazioni.
Due modi diversi di intendere il conflitto uomo–donna… 155
258
Cfr. Anna Romagnoli, La donna del Cortegiano nel contesto della tradizione, Barcelona,
Universitat de Barcelona, 2007, p. 306.
259
Interessante a questo proposito un aneddoto riportato da Passi, che riflette abbastanza bene
l’ossessione corporea e sessuale che l’uomo proiettava sulla donna. Riferendo dei costumi
dell’isola di Dalica, loda in particolare quello che imponeva alle donne di portare «la natura
cucita fino al tempo di maritarsi, lasciando però un poco d’adito, per il quale l’urina potesse
uscire» (Passi, I donneschi difetti, cit., p. 199).
260
Cfr. Laura Lazzari, Forme di libertà nelle opere di Lucrezia Marinelli. Atti del Convegno
Internazionale Donne a Venezia tra ‘500 e ‘700. Spazi di libertà e forme di potere, Venezia,
8–10 maggio 2008.
Due modi diversi di intendere il conflitto uomo–donna… 157
del confronto di genere sull’asse bello/brutto. Quanto la donna si distacca dalla
corporeità terrena e si proietta nel mondo del bello e del buono, tanto l’uomo spro-
fonda nella mondanità e da questa non sa sollevarsi, condannato dalla sordidezza
del suo animo, che traspare dalla bruttezza del suo corpo:
Il Discorso uscì a Venezia nel 1582. Oggi si può leggere in edizione moderna con un’intro-
262
duzione di Maria Luisa Doglio – Torquato Tasso, Discorso della virtù feminile e don-
nesca, Palermo, Sellerio, 1997.
158 Fabio Boni
dico dunque, che varie furono le cagioni che spinsero et che sforzarono
alcuni huomini sapienti, et dotti a biasimar et vituperar le donne, fra le quali
è lo sdegno, l’amor di se stessi, l’invidia, et la scusa del poco ingegno loro.
Onde si potrebbe dire, che quando Aristotile, o alcuno altro biasimò le don-
ne, che o sdegno, o invidia, o troppo amor di lor medesimi ne fosse cagione
(p. 108, corsivo nostro).
In quel “alcuno altro” pare scorgersi un neanche troppo velato riferimento
all’autore dei Donneschi difetti, il quale sarebbe quindi accusato di invidia e poco
ingegno. Passi (definito tra l’altro “crudelissimo nemico nostro”) viene, infatti,
chiamato in causa poco dopo, quando si ipotizza che alla base dell’astio del raven-
nate contro il sesso femminile ci possa essere stato un qualche trauma nel rapporto
con una donna. Ad ogni modo, Marinelli, dall’alto della sua superiorità intellettua-
le, liquida così il suo livoroso collega: «non si conosce apertamente, quale sdegno,
ch’egli avea contra alcuna, lo abbia mosso. Si certo, se li perdoni adunque; perché
si emenderà del commesso fallo, et conoscerà la nobiltà delle Donne» (p. 116).
Infine, l’affondo finale: Passi non è un fine erudito, ma soltanto un “maleducato”
da non prendere ulteriormente in considerazione: «queste sono le risposte, che
si danno a persone, che sono della ragione capaci: percioché alle opinioni degli
huomini volgari, et ignoranti, non accade faticarsi a rispondere, i quali senza fon-
damento, et ragione parlano ostinatamente (p. 116)».
La seconda parte del trattato dedicata ai difetti degli uomini, si diceva, è spe-
culare a tutto I donneschi difetti, di cui si propone un controcanto ironico, una
sorta di eco. Qui Lucrezia fa mostra delle sue capacità letterarie e abbandonando
263
Cfr. Tasso, cit., p. 61 (edizione moderna).
Due modi diversi di intendere il conflitto uomo–donna… 159
perfette de gli huomini264. Sette donne, unite da un vincolo di nobile amicizia, si ri-
trovano nel giardino della villa che una di queste, la giovane Leonora, ha ereditato
dopo la prematura scomparsa del marito. Ognuna di esse rappresenta una tappa
della vita di una donna nella società del tempo: Leonora è una giovane vedova,
Corinna è una giovane intellettuale che fugge la compagnia di qualsiasi uomo,
Cornelia è una donna sposata, Adriana è ormai una vedova anziana che deve prov-
vedere a maritare la figlia Virginia ed, infine, Elena è una fresca sposa. Tutte sono
gentildonne dell’alta borghesia veneziana che possono permettersi di trascorrere
due giornate, tale è la durata temporale del dialogo, a discutere sul tema che la più
anziana di loro ha proposto, ovvero i rapporti tra i due sessi. L’autrice può così tes-
sere la sua riflessione sulla condizione femminile, mascherandosi ora dietro l’una,
ora dietro l’altra delle sue protagoniste. Ognuna di queste contribuisce, alla fine,
a fornire il pensiero dell’autrice sulla donna e sul suo rapporto con l’uomo.
La prima giornata ha un andamento piuttosto vivace; partendo dalla pro-
pria esperienza personale e dalla vita femminile del tempo, le amiche procedono
ad una rivalutazione della donna e alla messa in luce della prepotenza maschile. Lo
sguardo dell’autrice si dimostra quanto mai lucido e ben consapevole della realtà
in cui si vive. A differenza di Lucrezia Marinelli, qui non si procede ad un catalogo
di uomini viziosi o ad uno sfoggio di erudizione filosofica per ingaggiare un duello
con i rappresentanti maschili della cultura. È da notare come l’attenzione dell’au-
trice si rivolga in particolare all’ambiente domestico; non si vuole costruire un’ar-
chitettura argomentativa che proietti la donna in una sfera di idealità, ma piuttosto
si vuole partire da ciò che è più semplice: dall’esperienza e dalla realtà quotidiana.
Si può affermare che l’approccio di Moderata Fonte è quindi più pragmatico e con-
creto di quello della Marinelli. L’attenzione al quotidiano è testimoniata da alcuni
argomenti che vengono affrontati nella prima giornata del dialogo e che riguar-
dano proprio gli aspetti che maggiormente condizionano la vita di una donna.
Innanzitutto, il matrimonio e la vita familiare. Ecco come viene sintetizzato da Co-
rinna il matrimonio dal punto di vista della donna: «mirate che bella ventura è ma-
ritarsi: perder la robba, perder se stessa, e non acquistar nulla se non gli figliuoli,
che le danno travaglio, e l’imperio d’un uomo che la domini a sua voglia» (p. 60). Si
alza qui il sincero lamento per la condizione della vita coniugale e si esprime tutta
la propria amara delusione. Se si pensa che la vita matrimoniale di Modesta Pozzo
non era poi così disagiata (sappiamo, infatti, che il marito le consentiva di coltivare
i propri interessi culturali ed aveva una mentalità aperta, insomma Modesta non
viveva certo da reclusa, né tantomeno era una moglie–schiava), questa analisi delle
condizioni matrimoniali testimonia ancora di più della sua capacità di analisi so-
ciale e della consapevolezza di come le sue simili vivessero nel matrimonio l’espe-
264
Moderata Fonte terminò il dialogo il giorno prima della morte, nel 1592. L’opera fu pubbli-
cata postuma, a Venezia, per Imberti, nel 1600. Le citazioni si riferiscono a questa edizione.
Due modi diversi di intendere il conflitto uomo–donna… 161
265
Cfr. Duby – Perrot, Storia delle donne, cit., pp 93 sgg. Sulla questione si può inoltrevedere
l’articolo di Keith Thomas, The double standard, in «Journal of the History of Ideas» n. 20,
aprile 1959, pp. 195–216. Qui Thomas affronta proprio la questione del diverso trattamento
– the double standard – tra uomo e donna in caso di adulterio.
266
In Passi, ma anche in altri testi come ad esempio quelli citati all’inizio, la figura della pro-
stituta tende a sovrapporsi a quella della donna in generale: la donna è per natura sfacciata,
lussuriosa e quindi tende a concedersi e ad attirare verso di sé l’uomo per appagare le sue
voglie (vedi ad es. il capitolo dei Donneschi difetti dedicato alle Delle donne da partito, me-
retrici, puttane e sfacciate, discorso XIV).
162 Fabio Boni
propria e la cagione sono stati essi uomini, i quali prima hanno insidiato, tentato,
molestato e speronato le misere donne quando erano da bene, tanto che hanno
indotte le più semplici e facili a rovinarsi ed a scavezzarsi il collo» (p. 43). In questa
prima giornata, quindi, attraverso il gioco della piacevole conversazione tra ami-
che, sono stati toccati, con acuta consapevolezza, i punti attorno a cui ruota la vita
di una donna nella società: vita in famiglia, matrimonio e relazione tra i sessi.
Dopo l’analisi e la critica sociale della prima giornata, nella seconda parte
si procede ad una rivalutazione dello spazio riservato dalla società alla donna, os-
sia quello domestico. Si potrebbe dire che Moderata Fonte voglia riconquistare
questa dimensione ed affermare il merito della donna attraverso un sapere tipica-
mente femminile. La donna è depositaria di una sapienza particolare, la chiave del
cui scrigno è suo esclusivo possesso. Si tratta della sapienza culinario–officinale,
che le permette di decifrare il libro della natura e di conoscerne i segreti. Non
è semplicemente la conoscenza della casalinga che sa cucinare ed usare le erbe.
Come, infatti, è stato notato, alla base di questo piccolo erbolario della seconda
giornata vi è l’intenzione di proporre una chiave per la conoscenza del cosmo,
la cui cifra è l’armonia tra gli esseri viventi267. Anche l’uomo, quindi, dovrebbe vi-
vere in armonia con l’altro sesso, in quanto uomo e donna fanno parte della stessa
specie. Tuttavia, dall’uomo arriva una stonatura che incrina l’armonia cosmica.
Uomo e donna, nell’armonia della natura, sono uguali ed occupano la posizione
più nobile. Perché, allora, ci si chiede, l’uomo non vuole riconoscere questo dato
naturale e vi si oppone? Ecco quindi che bisogna trovare un modo per convincere
il maschio a riconoscerlo e considerare la donna come sua compagna di vita, con
pari dignità. Questa via è quella della parola, nella cui forza persuasiva l’autrice
ripone grande fiducia. La decisione di affidarsi alla parola costituisce uno snodo
all’interno dell’opera e testimonia ancora una volta della maturità dell’autrice. Co-
struire un’immagine di donna che non si “sporca” con le cose di questo mondo,
non serve a nulla. La donna vive nel mondo ed una fuga nell’idealità, nella spe-
culazione filosofica (così come accade in Lucrezia Marinelli) non porta ad alcun
risultato. È vero, l’uomo ha molti difetti, considera la donna un essere inferiore
ed è più forte, socialmente e fisicamente. Ma quali vantaggi potrebbero portare
un continuo lamento per la propria condizione e la deplorazione dei vizi dell’uo-
mo? Bisogna invece agire sulla e nella realtà. Per questo le sette amiche decidono
di confrontarsi direttamente con l’uomo, rivolgendosi a lui con un’orazione, of-
frendo una possibilità di mediazione, per convincerlo a riconoscere la bontà e la
dignità, il merito delle donne. È Leonora l’incaricata di questo compito. L’apertura
267
Secondo A. Chemello, la seconda parte del dialogo è un volgarizzamento in miniatura della
Naturalis Historia di Plinio il Vecchio, di cui l’autrice riprende anche la concezione del si-
stema binario simpatia/antipatia, principio governatore dell’armonia cosmica, per cui ogni
cosa ama il suo simile (cfr. Adriana Chemello, introduzione a Moderata Fonte, Il
merito delle donne, Venezia, Eidos, 1988, p. XL sgg.).
Due modi diversi di intendere il conflitto uomo–donna… 163
dell’orazione segna già la sua cifra stilistica, ossia una insistita, costante, captatio
benevolentiae: «Carissimi e amatissimi uomini, voi siete così prudenti e amorevoli,
che son certa, che voi tutti ascolterete me» (p. 113). Ci si rivolge all’uomo non con
una volontà polemica o sarcastica come in Marinelli, ma con la più totale dispo-
nibilità a trattare, a mediare, senza contrapposizioni e con pacatezza. Leggiamo
l’appello finale di questa orazione, che ben ne sintetizza il significato:
L’orazione, quindi, condensa il senso dell’opera: non si cerca uno scontro con
l’altro sesso; se lo si critica è solo per cercare di mettere in luce ciò che si presenta
in disaccordo con un’armonia ed una concordia che sono naturali e vanno conser-
vate, evitando qualsiasi turbamento. Non si vuole neppure scardinare l’ordine so-
ciale; se lo spazio che la società riserva alla donna è quello domestico, così sia. Ciò
che è importante è il riconoscimento della dignità dell’essere femminile, unita alla
considerazione del rapporto uomo–donna su un piano di eguaglianza sentimenta-
le e naturale, prima ancora che politica e sociale. È legittimo chiedersi, però, se die-
tro questo buon senso, dietro l’accettazione della realtà, non si nasconda un pes-
simismo che blocca ogni possibilità di cambiamento. Moderata Fonte ha fin qui
dimostrato di conoscere perfettamente la realtà sociale. Se propone una soluzione
di compromesso, una sostanziale accettazione delle regole, non lo fa perché spinta
da pessimismo. Il buon senso, la mediazione, la disponibilità a trattare, non vanno
letti come una resa, perché dietro questa scelta, comportamentale prima e argo-
mentativa poi, vi è la fiducia nella possibilità di farsi ascoltare e capire. L’autrice,
inoltre, crede nella ricostruzione di quell’armonia naturale, alla base della quale
sta la concordia e l’amore tra i simili, e uomo e donna simili lo sono. Così, quello
che poteva sembrare pessimismo o rassegnazione si trasforma in fiducia nell’essere
umano. E l’uomo non fa più paura perché, in quanto essere umano e in quanto
simile della donna, può essere persuaso all’amore e alla concordia. Il merito delle
donne sta proprio in questa fiducia nell’uomo (da intendersi come specie), pur ri-
conoscendo che si vive in tempi bui di violenza e prevaricazione. Il merito di Mo-
derata Fonte, invece, sta nell’invito a questa fiducia senza distogliere lo sguardo
dalla realtà e senza fuggire nell’idealismo o nell’astrazione erudita e filosofica; non
vi deve essere opposizione (buone le donne, cattivi gli uomini, come nel manichei-
smo della Marinelli), ma confronto.
164 Fabio Boni
«Se Napoleone disse “La politica è il destino”, oggi si può dire: “La tecnica
è il destino”»268, ha scritto Hans Jonas; come corollario possiamo aggiungere che
il destino della politica è stato quello di essere assorbita dalla tecnica. Si potrebbe
quindi parlare (mi si perdoni il termine poco eufonico) di un processo di tecni-
cizzazione della politica, che è ancora in atto ai nostri giorni (basti pensare ai vari
governi «tecnici» che si sono susseguiti nella storia italiana recente).
Nella cultura novecentesca il tema della tecnica è diventato centrale nel dibat-
tito filosofico europeo soprattutto a partire dal periodo compreso tra le due guer-
re mondiali, in cui apparvero scritti fondamentali su questo argomento di autori
come Heidegger, Jünger, Spengler, Carl Schmitt269.
Nello stesso periodo in Italia, pochi sono i pensatori che si siano mostrati sen-
sibili al tema dell’espansione del dominio della tecnica, e in particolare al rapporto
tra politica e tecnica. Tra questi, un rilievo del tutto speciale va senz’altro attribuito
a Curzio Malaparte, e al suo saggio più controverso Tecnica del colpo di Stato270.
Uscito dapprima in Francia, nella traduzione di Juliette Bertrand presso l’editore
268
Hans Jonas, Tecnica, medicina ed etica, a cura di Paolo Becchi, Torino, Einaudi, 1997, p. 12.
269
Per un’introduzione al dibattito filosofico novecentesco sulla tecnica, cfr. Michela Nacci,
Pensare la tecnica. Un secolo di incomprensioni, Roma–Bari, Laterza, 1999. Gianni Vattimo
nella prefazione a questo libro scrive che «il problema della tecnica non è un problema tra
altri, sia pure importante delle riflessioni del Novecento, ma è il tema dominante, per lo più
esplicito, ma presente anche là dove non appare, di tutta la riflessione e della cultura del
secolo» (Gianni Vattimo, Presentazione, ivi, p. IX).
270
Nonostante il notevole clamore suscitato dal libro, tradotto anche in vari Paesi, l’importan-
te contributo di Malaparte al dibattito filosofico sulla tecnica è invece, in genere, ignorato
dalla storiografia filosofica (nel pur utile studio sopra citato di Michela Nacci, ad esempio,
Malaparte non è mai menzionato).
166 Raoul Bruni
Grasset, nel 1931, Tecnica del colpo di Stato dovette attendere ben diciassette anni
prima di poter approdare alla pubblicazione anche in Italia (presso Bompiani, nel
1948)271, in primo luogo a causa del suo contenuto, non certamente in linea con
i dettami del regime fascista272.
Il tema centrale del volume è la modalità di attuazione dei colpi di Stato mo-
derni. La tesi di Malaparte è che il conflitto tra chi attenta allo Stato – cioè quelli
che lui chiama «catilinari», non importa se di destra o di sinistra – e chi lo difende,
non è un conflitto sociale o politico, come normalmente si credeva e si crede tut-
tora, bensì strettamente tecnico. Per sottoporre la sua intuizione alla prova dei fatti
storici, Malaparte prende in considerazione vari colpi di Stato della storia contem-
poranea europea: la Rivoluzione Russa, la marcia fascista su Roma, la conquista del
potere da parte di Piłsudski in Polonia, il golpe di Primo de Rivera in Spagna, senza
trascurare l’importante precedente del 18 Brumaio di Napoleone Bonaparte; pa-
gine precocemente critiche, a tratti ferocemente sarcastiche, sono dedicate anche
a Hitler e al nascente movimento nazista, che, come si sa, al momento dell’uscita
del libro, non era ancora approdato al potere (tant’è che, dopo l’ascesa di Hitler
al potere, Tecnica del colpo di Stato, nel frattempo tradotto in tedesco, fu proibito
in Germania, se non addirittura bruciato pubblicamente, come dichiara fieramen-
te Malaparte nella prefazione all’edizione italiana273).
I fenomeni politici su cui Malaparte concentra maggiormente la sua attenzione
sono la Rivoluzione d’Ottobre e il fascismo mussoliniano, che considera anche, per
molti versi, i colpi di Stato più paradigmatici. Nella sua analisi della Rivoluzione
bolscevica Malaparte dà particolare rilievo all’operato di Trockij274 («Se lo stratega
della rivoluzione bolscevica è Lenin275, il tattico del colpo di Stato dell’ottobre 1917
271
Per la storia e la ricezione dell’opera, cfr. Maurizio Serra, Malaparte. Vita e leggende,
Venezia, Marsilio, 2012, in particolare, pp. 171–194.
272
Su questo argomento, cfr. Francesco Perfetti, Postfazione, in Curzio Malaparte, Tec-
nica del colpo di Stato, Milano, Mondadori, 2002, pp. 199–234.
273
«Non è perciò da meravigliarsi se Hitler, appena salito al potere, si affrettò a far condannare
il mio libro, con decreto del Gauleiter della Sassonia, a essere bruciato sulla pubblica piazza
di Lipsia, per mano del boia, secondo il rito nazista. La mia Tecnica del colpo di Stato fu get-
tata alle fiamme sullo stesso rogo che tanti libri, condannati per ragioni politiche o razziali,
ha ridotto in cenere» (Curzio Malaparte, Tecnica del colpo di Stato, Nota al testo di Gior-
gio Pinotti, Milano, Adelphi, 2011, p. 14; da ora in poi, questa edizione sarà indicata con
la sigla T, seguita dalla numerazione di pagina).
274
Da parte sua, Trockij non dimostrò affatto apprezzamento per Tecnica del colpo di Stato
(cfr. Lev Trockij, Scritti sull’Italia, a cura di Antonella Marazzi, Roma, Controcorren-
te, 1979, pp. 237–239).
275
Si ricordi che a Lenin Malaparte aveva già dedicato il pamphlet politico Intelligenza di Le-
nin (Milano, Treves, 1930), a cui, per alcuni aspetti, la Tecnica del colpo di Stato va ricolle-
gata. Successivamente Malaparte pubblicò un altro opuscolo dedicato al leader bolscevico,
Le bonhomme Lenin (Paris, Grasset, 1932, uscito in italiano soltanto molti anni più tardi
Il conflitto rivoluzionario nell’età della tecnica… 167
è Trotzki» (T, p. 123)), il quale, a differenza di Lenin, non subordina l’esito della
rivoluzione al contesto storico o sociale, ma ritiene che la riuscita dipenda soltanto
dall’efficacia dell’applicazione di principi tecnici: «La novità introdotta da Trotzki
nella tattica insurrezionale era l’assoluta noncuranza della situazione generale del
paese (…). La tattica di Trotzki sarebbe stata la stessa, anche se le condizioni della
Russia fossero state diverse» (T, p. 77). Inoltre, secondo la tesi di Malaparte, non
è necessaria la partecipazione delle masse popolari affinché una rivoluzione riesca:
è sufficiente una piccola «truppa d’assalto», composta non solo da soldati ma an-
che, per l’appunto, da tecnici in senso stretto. Né è necessario l’aiuto dei sindacati
o lo sciopero generale giacché, come afferma il Trockij di Malaparte: «“L’insurre-
zione non è un’arte” egli dice “è una macchina. Occorrono dei tecnici per metterla
in movimento: nulla potrebbe arrestarla, nemmeno delle obbiezioni. Soltanto dei
tecnici potrebbero arrestarla”» (T, p. 137).
Le azioni dei rivoluzionari guidati da Trockij saranno quindi volte ad occupare
i punti tecnicamente vitali delle aree che si vogliono espugnare:
quei piccoli gruppi di operai senza armi, di soldati, di marinai, (…) s’in-
filano nei corridoi delle Centrali telefoniche e telegrafiche, del Palazzo del-
la Posta, dei Ministeri, della sede dello Stato Maggior Generale, osservando
la disposizione degli uffici, gli impiantì della luce elettrica e dei telefoni, fis-
sandosi negli occhi e nella memoria il piano degli edifìci, studiando la ma-
niera di potervi penetrare di sorpresa al momento opportuno, calcolando
le probabilità, misurando gli ostacoli, cercando nell’organizzazione difensiva
della macchina tecnica, burocratica e militare dello Stato, i luoghi di minor
resistenza, i lati deboli, i punti più sensibili (T, p. 147).
con il titolo Lenin buonanima (Firenze, Vallecchi, 1962)), dove riprende alcuni temi già
affrontati nella Tecnica.
168 Raoul Bruni
Malaparte aveva letto Carl Schmitt? Anche in questo caso è difficile da stabili-
re. Del resto, Marx era una fonte comune ad entrambi, e Malaparte, nel suo esor-
dio letterario Viva Caporetto! (1921), chiama in causa il filosofo di Treviri proprio
a proposito del trionfo della macchina, e quindi della tecnica:
aveva veduto sorgere la nuova civiltà dei nostri tempi e osservati per pri-
mo, negli uomini, i segni della nuova malattia. Aveva capito che la macchina
avrebbe ucciso l’anima, la religione, la tradizione. Aveva capito che la macchi-
na avrebbe ucciso lo stato280.
da tempo, la forza vincente di cui può disporre un gruppo politico
(e un qualsiasi gruppo di potere, come l’impresa capitalistica) per realizzare
i propri scopi, è un prodotto della tecnica guidata dalla scienza moderna. La
tecnica è il mezzo di cui intende oggi servirsi ogni gruppo politico, dunque
anche le società democratiche del nostro tempo, per realizzare il proprio sco-
po281.
280
Curzio Malaparte, Viva Caporetto! La rivolta dei santi maledetti, a cura di Marino
Biondi, Firenze, Vallecchi, 1995, p. 54.
281
Emanuele Severino, Il destino della tecnica, Milano, Rizzoli, 2009, p. 87.
170 Raoul Bruni
282
Cfr. T, pp. 206–207.
283
Iosif Brodskij, Fuga da Bisanzio, traduzione di Gilberto Forti, Milano, Adelphi, 1987,
pp. 63–64. Le consonanze con la tesi di Malaparte sono sorprendenti. Si ricordi che Ma-
laparte aveva ribadito il carattere golpistico e non cruento del momento di innesco della
Rivoluzione d’Ottobre anche in Lenin buonanima: «Trotzki non si è preoccupato di rove-
sciare il Governo: si è impadronito dello Stato. In quella situazione paradossale è il segreto
della tecnica insurrezionale di Trotzki. Le operazioni si sono svolte con una rapidità e una
regolarità sorprendenti. Nessun avvenimento sanguinoso marca la prima giornata dell’in-
surrezione: alcuni colpi di fucile soltanto, nel sobborgo di Putilov» (Curzio Malaparte,
Lenin buonanima, Firenze, Vallecchi, 1962, p. 318).
284
«La tattica seguita da Mussolini per impadronirsi dello Stato non poteva essere concepita
e attuata che da un marxista. Non bisogna mai dimenticare che l’educazione di Mussolini
è un’educazione marxista» (T, p. 227).
Il conflitto rivoluzionario nell’età della tecnica… 171
da Hitler, che sta organizzando a Monaco una scuola del genere, per l’istru-
zione delle sue truppe d’assalto (T, p. 180).
Benché Malaparte prenda le distanze dall’ingombrante modello del Principe, fin dall’incipit
285
del suo pamphlet («non si può dire che questo libro voglia essere un’imitazione del Principe
di Machiavelli, sia pure un’imitazione moderna», (T, p. 35)), è impossibile negare l’inciden-
za della scrittura politica di Machiavelli sulla Tecnica. Come ha scritto Laura Mitarotondo:
«Nell’intenzione di indagare la natura del colpo di Stato, inteso come azione rivoluzionaria,
ma anche come tecnica per la difesa dello Stato è ravvisabile l’intento classificatorio proprio
di Machiavelli, perseguito attravero un’analoga trattazione scientifica» (Laura Mitaro-
tondo, «Il Principe» fra il «Preludio» di Mussolini e le letture del “ventennio”, in Machiavelli
nella storiografia e nel pensiero politico del XX secolo, Atti del Convegno di Milano, 16 e 17
maggio 2003, a cura di Luigi Marco Bassani e Corrado Vivanti, Milano, Giuffré, 2006,
p. 74; al di là del cenno presente in questo e in altri contributi, l’influsso di Machiavelli
su Malaparte meriterebbe un approfondimento più specifico).
172 Raoul Bruni
prio la fredda e “scientifica” neutralità da cronista che distanzia l’autore dalle parti
in conflitto a garantire l’attendibilità delle sue riflessioni.
Troppo spesso Malaparte è stato ridotto, come scrittore politico, a una parte,
a una fazione, o, ancor più banalmente, a un’etichetta. Non che l’autore pratese
non fosse stato direttamente coinvolto nelle contese politiche del suo tempo (anzi,
come si sa, ne fu coinvolto, e più clamorosamente di altri), ma, nel rileggerlo e nel
ristudiarlo oggi, varrebbe forse la pena di riconsiderare il suo pensiero al di là dei
coinvolgimenti personali nelle varie contingenze storiche. Letto in questo modo,
l’autore mostra ancora una notevole attualità, anche e soprattutto come scrittore
politico. Basti pensare all’allarme lanciato a proposito della estrema labilità del-
le democrazie: «L’errore delle democrazie parlamentari è l’eccessiva fiducia nelle
conquiste della libertà, di cui niente è più fragile nell’Europa moderna» (T, p. 115).
Malaparte ritiene addirittura che il prograssivo diffondersi della democrazia non
solo non allontani la minaccia di colpi di Stato, ma addirittura ne aumento le pos-
sibilità di insorgenza: «L’importanza raggiunta dal parlamentarismo nelle demo-
crazie favorisce, senza dubbio, le possibilità di un colpo di Stato bonapartista: con
la progressiva parlamentarizzazione della vita moderna, il terreno particolarmen-
te favorevole all’applicazione della tattica del 18 brumaio si è venuto allargando»
(T, p. 113). La storia contemporanea sembra confermare questa tesi.
Il conflitto dentro il conflitto,
la tragedia cosacca durante la Seconda Guerra mondiale
in un confronto letterario italo–polacco
Luca Palmarini
Uniwersytet Jagielloński, Kraków
Nella Storia ci sono tragedie che restano nella viva memoria, e altre che invece
cadono nell’oblio, che vengono, forse volutamente, dimenticate. È questo il caso
della triste storia dell’armata cosacca che decise, non senza qualche riluttanza,
di combattere al fianco dei nazisti, credendo in un’anacronistica Russia bianca.
Un episodio semisconosciuto, riportato in letteratura da Claudio Magris e Carlo
Sgorlon in Italia e da Józef Mackiewicz in Polonia. In questi romanzi si ha la con-
ferma che, come spesso accade, la letteratura non è in conflitto con la storia, bensì
le viene incontro, ricoprendo il ruolo di memoria genetica del genere umano.
Nel 1944, pochi mesi dopo la caduta di Mussolini e del fascismo, la Carnia,
regione del Friuli settentrionale, vive un breve periodo con lo status di ‘zona li-
bera della Carnia’286, per poi venire occupata dai nazisti che a loro volta decido-
no di mandarvi i cosacchi loro alleati, rimasti legati al sistema zarista e in fuga
dall’Unione Sovietica, contro cui vogliono combattere. Si tratta di uno spostamen-
to di massa a cui partecipa un intero popolo, il quale si trasferì con famiglie, carri
e bestiame. I cosacchi rappresentano in quel momento un conflitto interiore di un
popolo alla ricerca di una patria dopo aver perso la propria, proprio mentre l’inte-
ra Europa è sconvolta dal conflitto mondiale. Proprio in seguito a questa decisione
di non accettare il nuovo ordine, essi in Carnia si abbandonano a scorrerie e vio-
lenze di ogni tipo per poi finire loro stessi ingannati e sterminati. Su questa vicenda
per molti anni è stato scritto poco. Proprio i romanzi di Claudio Magris e Carlo
Sgorlon, messi qui a confronto, stimoleranno in Italia alcune ricerche in ambi-
to storico. Proprio in conseguenza di ciò, negli anni successivi usciranno alcune
opere a riguardo287. Il destino dei cosacchi alla ricerca della patria si concluderà
in modo tragico: dopo la liberazione del Friuli scapperanno verso l’Austria, dove
si arrenderanno agli inglesi con la promessa di non venire consegnati ai sovietici.
Questa promessa non verrà mantenuta e i cosacchi verrano portati in Unione So-
vietica, dove verranno giustiziati come traditori.
Il triste destino dei cosacchi viene qui visto in un breve confornto da tra opere
letterarie, due italiane e una polacca. La prima delle opere in questione è firmata
da Claudio Magris288, e costituisce il romanzo di esordio dell’autore triestino. Il ro-
manzo è basato sulla figura del generale Krasnov che sarebbe arrivato in Carnia
nel febbraio dello stesso 1944289. Una figura che avrebbe galvanizzato il morale dei
cosacchi impegnati nella lotta contro i partigiani. L’opera di Magris comunque,
non racconta nulla di ciò: ci si trova già dopo la guerra, ma non si riportano molti
fatti storici, bensì racconti, e per giunta non sempre nitidi.
Il tema classico del ricordo, della memoria attraversa l’intera rievocazione,
all’inizio si presenta come una sorta di gioco che coinvolge il narratore, il qua-
le graduatamente si appassiona ai fatti, successivamente vi entra dentro, decide
di compiere ricerche per approfondire, incontrare personaggi e testimoni, fino
ad affermare che quella vicenda è lo specchio della sua esistenza. Memoria di un
uomo anziano, memoria annebbiata, vicina alla leggenda, dove quest’ultima
si pone in conflitto alla Storia non fornendo nessuna certezza. “Illazioni”, appunto,
quelle di chi racconta che non può far altro che immaginare. A queste congetture
conflittuali accenna Pireddu:
Here the notion of ‘illazioni’ (arbitrary suppositions) applies not only
to the multiple and conflicting conjectures about the half–buried sabre next
to the alleged body of the Cossack leader Krasnov, but also more extensive-
ly to the speculative conceptualization of individual and collective identity
287
Oltre a Vuga, si possono citare: Pier Arrigo Carnier, L’Armata cosacca in Italia, Milano,
Mursia, 1990,
Gregorio Venir, Cosacchi in Carnia, Comune di Pasian di Prato (UD), 1999, Leonardo
Zanier, Carnia Kosakenland – Kazackaja Zemlja (Racconti di ragazzi in guerra), Udine,
Ed. Mittelcultura, 1996.
288
Claudio Magris, Illazioni su una sciabola, Pordenone, Garzanti–Studio tesi, 1984.
289
Pier Arrigo Carnier, L’Armata cosacca in Italia, Milano, Mursia, 1990, p. 95.
Il conflitto dentro il conflitto, la tragedia cosacca durante… 175
alike, from a private home to a people’s national homeland or nationalis-
tic Heimat290.
L’opera di Magris gioca quindi su un conflitto tra i fatti avvenuti realmente,
di cui non si ha assoluta certezza, e le supposizioni, “le illazioni” appunto, del sa-
cerdote che le racconta. Magris convince sé stesso e il lettore che non ci sono ricer-
che da fare per cercare la verità, resta solo l’invenzione, le illazioni. Magris sembra
non rimanere indifferente alla lezione di Borges. Tutto ha comunque inizio dalla
sciabola ritrovata, non è quella di Krasnov ma assurge a esserlo, deve esserlo:
Non si tratta di una menzogna nascosta, bensì visibile e in netto contrasto con
la realtà, ma Magris e il lettore stesso vogliono credere alla menzogna, nonostante
essa sia visibilmente in conflitto con i fatti veritieri: «La menzogna è altrettanto
reale quanto la verità, agisce sul mondo, lo trasforma, è davanti a noi, la possiamo
vedere e toccare, fungo velenoso che non è perciò meno reale di quelli mangerec-
ci…»292.
Il racconto si focalizza sulla figura del generale Krasnov, sulla sua presenza
in quell’illusoria patria, sulla sua figura di uomo sconfitto due volte: prima dai
bolscevichi e poi dal nuovo corso degli eventi. Un altro conflitto, dunque; un uomo
vinto dalla storia assurge a voler essere vincitore. Una situazione di un’enorme
complessità morale, in quanto da una parte si pone il desiderio fondamentalmente
legittimo di avere una patria, dall’altro l’alleanza con il diavolo nazista. Tutto si ca-
povolge in un conflitto tra verità e falso: i cosacchi hanno il diritto a una patria
ma finiscono per rubarla. Non vi è tra l’atro nulla di più artificioso di una pa-
tria cosacca nelle Dolomiti orientali. I cosacchi contraddicono anche il loro ideale
di popolo nomade: “The pre–dominance of transience − the homeland constantly
displaced on the map − finds its ultimate material correlative in the tent, described
as Krasnov’s most authentic homeland and state because, as a temporary dwel-
290
Nicoletta Pireddu, On the threshold, always homeward bound: Claudio Magris’s Europe-
an, in «Journal of European Studies», 42/4 (2012), p. 335.
291
Magris, Illazioni, cit., p. 22.
292
Ivi, p. 39.
176 Luca Palmarini
I suoi cosacchi sono parte di un passato nebuloso, reso lontano dal nuovo or-
dine, pur essendone consapevoli non riescono ad accettarlo e preferiscono morire.
Molti personaggi nell’opera intervengono a definire la figura di Krasnov, ormai
simbolo del nulla, e il popolo che lo segue, un popolo di vittime, non innocenti,
ma pur sempre vittime, raggirate dalla Storia: «Tutta quest’avventura è una mar-
cia all’indietro, verso il niente, e attraverso le quinte di cartapesta che coprono
293
Pireddu, On the threshold, cit., p. 336.
294
Magris, Illazioni, cit., p. 43.
295
Ivi, pp. 83–84.
Il conflitto dentro il conflitto, la tragedia cosacca durante… 177
condo invece deve lottare per conservarla. Lo scrittore si pone subito in contrasto
rispetto agli scrittori dello stesso periodo: «Sgorlon intraprende un percorso che
Benussi ha definito ‘di tipo epico–contadino’, in vista di un ritorno alla terra dietro
cui si cela (...), metaforicamente, il desiderio di una reimmersione nelle origini
e in una dimensione premoderna della società friulana, di cui egli si sente can-
tore.»302. Si tratta di una sorta di rimitizzazione del territorio che darà ad alcune
opere di Sgorlon l’appellativo di «ciclo epico friuliano»303.
Un punto di contrasto rispetto al classico romanzo di guerra è la rappresen-
tazione dei partigiani. Coloro che la storia ha fatto protagonisti ed eroi, nell’opera
di Sgorlon costituiscono invece un elemento estraneo alla vita popolare, gli abitan-
ti dei villaggi carnici conoscono da lontano questa realtà sommersa, «come se si
trattasse di un misterioso oggetto lontano e segreto»304. L’unica a saperne qualcosa
è Marta, uno dei personaggi principali della storia. La trasfigurazione dei partigia-
ni pone queste figure in contrasto con i villaggi in cui avvengono i fatti. I partigia-
ni sono identificati con la foresta, sono quindi indefiniti, inafferrabili, non hanno
quasi una forma. Il contrasto tra la resistenza e i normali abitanti del villaggio avrà
termine solo alla fine della guerra, quando la frattura tra essere combattente e ci-
vile verrà ricomposta305. Solo allora i partigiani abbandoneranno i loro nomi vaghi
e mostreranno il loro volto, tornando a essere delle persone normali.
Il romanzo si pone in conflitto con la tradizione, in quanto la figura centrale
dell’opera sono invece i cosacchi, la narrazione si sviluppa infatti secondo il loro
punto di vista. Essi sono rappresentati da Sgorlon come una figura, quasi estrapo-
lata dal mito letterario russo:
302
Ilaria Puggioni, La riscoperta dell’epica: mito e confine nella narrativa di CarloSgorlon, in:
La letteratura degli italiani, rotte, confini, passaggi, Associazione degli italianisti, XIV con-
gresso nazionale, Genova, 15–18 settembre 2012 http://www.italianisti.it/upload/userfiles/
files/Puggioni%20Ilaria_1.pdf, p. 2.
303
Bruno Maier, Carlo Sgorlon, Firenze, La Nuova Italia, 1984, p. 13.
304
Magni, Carlo Sgorlon, cit., p. 235–251, citato p. 236.
305
Ivi, p. 238.
306
Ibid.
Il conflitto dentro il conflitto, la tragedia cosacca durante… 179
Nella sua voce entrò qualcosa di cupo e di sordo, come se d’un tratto
gli fosse caduta addosso la sua condizione di uomo solo, con la famiglia di-
strutta, che si trovava alla testa del presidio di un popolo senza speranza. Nei
momenti liberi si aggirava attorno a Marta come un cane sperduto attorno
a un casolare. Una volta le disse: – Il Friuli e la Steppa si somigliano almeno
in una cosa. – Ossia?– Nei nostri cimiteri sono seppelliti molti italiani, e nei
vostri molti cosacchi. Una specie di gemellaggio nella morte307.
Sgorlon sembra, in questo come in altri romanzi, non riuscire facilmente
a rendere l’introspezione del personaggio maschile, ma invece rivela una grande
abilità nel proporre complesse figure femminili. Nel romanzo di Sgorlon infatti,
la figura centrale non è un cosacco, ma Marta. La figura femminile è sempre pre-
sente in Sgorlon e si ripresenta in ogni romanzo, con lievi cambiamenti, facendo
intuire che si tratti dello stesso personaggio, ovvero lo scrittore stesso trasfigurato
in un’anima femminile. Marta rappresenta una gran madre, una figura in grado
di creare convivenza in questo conflitto di culture:
Era una donna semplice, perfino elementare, che attorno a sé, come sem-
pre, non riusciva a vedere se non uomini, soltanto uomini, tutti simili tra loro,
che parlavano lingue diverse, che avevano in mente cose differenti, ma erano
tutti tartassati dalla guerra e dalle sventure, tutti dispersi nel disordine e nel
buio del mondo308.
Spesso Sgorlon incentra tutta la visione del popolo cosacco in Ghirei che viene
divorato dal conflitto interiore di uomo consapevole del prorpio destino, ma che
non vuole comunque rinuciare ai vecchi anacronistici ideali. Magni309 paragona
Ghieri a un novello Giovanni Drogo che si trova di fronte al deserto dei tartari, che
aspetta un nemico invisibile e una battaglia che non arriverà mai.
307
Sgorlon, L’armata, cit., p. 103.
308
Ivi, p. 121.
309
Magni, Carlo Sgorlon, cit., p. 237.
180 Luca Palmarini
Il terzo dei tre romanzi proposti in cui si cerca di analizzare il conflitto nel
conflitto si intitola Kontra311 ed è opera di Józef Mackiewicz312, uno dei più con-
troversi autori polacchi del XX secolo. La tragedia cosacca viene qui vista in modo
differente, tramite la storia di una famiglia che rappresenta il destino di un popolo
intero, dal periodo zarista allo sterminio messo in atto dai sovietici. L’opera attra-
versa due guerre mondali e mette a confronto due totalitarismi, narrando quindi
in scala più ampia le vicende dei cosacchi, e non limitandosi a un episodio av-
venuto solo in una regione, ma compiendo un excursus del loro cammino verso
la tragedia finale.
Nello scrittore polacco appare netto il conflitto tra il vecchio e il nuovo ordine,
dove la Russia zarista viene fortemente idealizzata, e che, sebbene lungi dall’es-
sere un mondo ideale, è di sicuro migliore della sua erede, l’Unione Sovietica.
Mackiewicz accentua il contrasto tra la situazione iniziale di calma del villaggio
cosacco e i successivi eventi catastrofici, descrivendo accuratamente la prima per
preparare il lettore alla seconda. Tutto il romanzo si basa sulla concezione delle due
interpretazioni della verità, fatto introdotto proprio dalla frase di esordio: «Są dwie
310
Puggioni, La riscoperta dell’epica, cit., p. 3.
311
Józef Mackiewicz, Kontra, Londra, Nina Karsow, anni 80.
312
Józef Mackiewicz fu uno scrittore fortemente anticomunista costretto all’emigrazione. Fu,
tra l’altro, autore del primo reportage sul massacro di Katyń, invitato sul posto dai tedeschi
dopo che questi ultimi avevano scoperto una fossa comune con i corpi degli ufficiali polac-
chi trucidati dai sovietici.
Il conflitto dentro il conflitto, la tragedia cosacca durante… 181
prawdy na Świecie»313 e che porta il cittadino (allora) sovietico a una sorta di con-
flitto interiore. Da una parte si trova la verità obiettiva e dall’altra quella ufficiale.
Spesso la problematica sociale in grande scala viene resa da Mackiewicz attra-
verso un singolo protagonista314. La vita di una persona è nello stesso tempo cosmo
e storia315. Nel giovane Mitja, personaggio centrale della famiglia polacca, vengono
presentati dall’autore i cambiamenti psichici che il sistema sovietico ha realizzato,
inculcando a forza la dottrina comunista nei singoli individui. Il mostruoso siste-
ma sovietico ha, secondo Mackiewicz, creato un “Homo Sovieticus” che sembra
diventare indifferente a tutto:
L’indifferenza resa dalla ripetizione del termine stesso, ma anche dallo stile
delle risposte, si pone in conflitto con l’aggressività del sistema sovietico, ma essa
è in realtà il risultato dell’applicazione dell’indottrinamento. Essa è dettata dall’e-
sigenza stessa della sopravvivenza che si pone in conflitto con il sistema sovieti-
co: la menzogna. Bisogna mentire, spesso anche con i propri cari, bisogna trovare
una ‘seconda verità’ da presentare al mostro sovietico e con la quale si garantisce
la continuazione della propria singola esistenza.
Mitia resta comunque uno strano protagonista per tutta l’opera: nonostante
la situazione, egli non è rinunciatario e passivo, non accetta pienamente l’annul-
lamento della singola esistenza che impone il sistema sovietico, ma cova invece
un desiderio di indipendenza, comune allo spirito cosacco. Si tratta quindi di un
personaggio dotato di una grande forza di spirito. La sua figura si pone in conflitto
a quella sbiadita di Krasnov, riflesso sbiadito di un mondo che non esiste più e in
313
«Ci sono due verità al mondo» (Trad. Mia). Mackiewicz, Kontra, cit., p. 1.
314
Waldemar Jakubowski, Kontra Józefa Mackiewicza. O postaciach i technikach
powieściowych, in «Archiwum emigracji», quaderni 5/6, 2002/2003, p. 233.
315
Wojciech Chudy, Józefa Mackiewicza filozofia człowieka in «Archiwum emigracji», qua-
derni 5/6, 2002/2003, p. 171.
316
Mackiewicz, Kontra, cit., p. 37. «Mitia uscì in luglio con una giacca di tipo classico sulle
spalle, con una scatolina in legno tra le mani,come quelle con cui si recano al servizio militare
le reclute della campagna. In quel momento dallo sportello della cassa della stazione passò
l’addetto del GPU che chiese: ‘E tu, dove vai?” . Egli rispose: “a Bobryki. – Mostrami i docu-
menti. Li mostrò con indifferenza. –Perché ci vai? Mi mandano a fare il servizio militare –
rispose ancor più indifferente. – E allora va’! Scosse la testa con un che di indifferente. Sapeva
che bisognava fare così, che questo era l’ordine delle cose.» (Trad. Mia).
182 Luca Palmarini
un certo qual modo simbolo della vittoria del sistema sovietico. Mitia invece di-
mostra che la partita non è ancora chiusa che l’annichilimento dell’essere umano
non è stato ancora portato completamente a termine. C’è ancora una flebile spe-
ranza. L’autore, al contrario di Sgorlon, non vede i cosacchi come delle figure mi-
tiche, ma, caratteristica della sua opera, tende a farli entrare nella sua concezione
di demitizzazione dei Kresy317.
Quello che appare inconsueto da parte di Mackiewicz in questo romanzo
è proprio l’essere uscito dal suo mondo letterario, ovvero i Kresy, che in certo qual
modo possono ricordare una terra di confine, una “marca”, come il Friuli vissuto
da Sgorlon e quello visto da Magris. Mackiewicz non vuole limitare la tragedia co-
sacca al singolo episodio dell’occupazione del Friuli, ma al contrario dei precedenti
autori analizza le cause degli eventi partendo dai cambiamenti radicali apportati
dall’apparato politico–burocratico–militare sovietico. Il trasferimento dei cosacchi
in Friuli resta assai marginale nella sua opera.
Conclusioni
Il triste epilogo della storia dei cosacchi, tragedia di un intero popolo, un con-
flitto dentro un altro conflitto, nasconde altri contrasti all’interno delle singole
storie. Tutti e tre gli autori si pongono in contrasto rispetto al cliché classico del
romanzo. Probabilmente non è merito solo di queste singole opere, bensì si tratta
di caratteristiche di tutta la produzione dei tre autori, ma ciò non toglie che il rac-
conto di questi fatti tramite il romanzo abbia invogliato altri alla ricerca di fatti sto-
rici e abbia portato alla luce accadimenti forse volutamente tralasciati dalla Storia
che, come spesso accade, viene scritta dai solo dai vincitori. Tutto ciò che muove
l’azione è sempre e comunque il conflitto interiore dei protagonisti verso i continui
cambiamenti in atto. Un conflitto che, quando gli uomini conoscono altri uomini
in modo introspettivo, spesso cessa di esistere.
317
I Kresy (tradotto liberamente sarebbe una sorta di “marca orientale”) sono i territori polac-
chi orientali perduti per sempre dalla Polonia dopo l’invasione sovietica del 1939. I polacchi
in cambio ricevettero i territori sottratti ai tedeschi. Di queste terre rimane la storia e il mito.
Sistema globale come conflitto nella narrativa
di Giuseppe Culicchia
Małgorzata Puto
Uniwersytet Śląski w Katowicach
Parlare del sistema globale, significa parlare del mondo senza frontiere, del
mondo che è caratterizzato da una mobilità eccessiva, surmoderna319, da una co-
municazione istantanea e da una circolazione di prodotti, immagini ed informa-
zioni320. La suddivisione dello spazio, così evidente nel passato321, sembra cancellata
a favore di una continuità rappresentata da una globalità che dovrebbe permette-
re a esseri umani, beni, messaggi di circolare senza limiti322. Le apparenze della
mondializzazione di cui fa parte il sistema globale323 nascondono però le nuove
frontiere in cui si addensano le problematiche culturali sottoposte all’indagine an-
318
Marc Augé, Per una antropologia della mobilità, Milano, Jaca Book, 2015, copertina.
319
Augé usa il termine surmoderno in cui il prefisso sur viene inteso nel senso dell’inglese over,
ossia quello che indica la sovrabbondanza di cause che complica l’analisi degli effetti.
320
Ivi, p. 9.
321
La concezione antica della città prevedeva una disciplinata organizzazione dello spazio,
il confine che separava il centro che rimaneva sempre simbolico e rifletteva un’identità
sociale, e la periferia, distante dal centro, erano in rapporto conflittuale il che spingeva
alla vitalità. La suddivisione dello spazio persiste anche nella fase pre–moderna ed è basata
sulla separazione delle funzioni del centro e della periferia. Per l’approfondimento si rinvia
a Davide Bazzini–Matteo Puttilli, Il senso delle periferie. Un approccio relazionale alla
rigenerazione urbana, Milano, Elèuthera, 2008, p. 23.
322
Queste caratteristiche rinviano all’immagine di una meta–città virtuale descritta in Paul
Virilio, Bomba informatica, Milano, Cortina, 2000.
323
Augé definisce ed approfondisce il concetto di mondializzazione: Marc Augé, Per una
antropologia…, cit., pp. 17–18.
184 Małgorzata Puto
324
Paul Virilio descrive il sistema globale, allacciando la sua ricerca all’analisi della strategia
del Pentagono americano, Marc Augé ribadisce la concezione di Virilio in Marc Augé,
Che fine ha fatto il futuro? Dai non luoghi al nontempo, Milano, Elèuthera, 2009, p. 34.
325
Giuseppe Culicchia, Venere in metrò, Milano, Mondadori, 2012, pp. 23–33.
326
Ivi, p. 44.
327
Ivi, p. 192.
Sistema globale come conflitto nella narrativa di Giuseppe Culicchia 185
della mobilità di cui parlano gli antropologi328, essa permette loro di spostarsi non
muovendosi di un centimetro da casa, o dalla propria città.
Nonostante che sia Gaia che Iaio non si spostino dalle loro città Torino e Mi-
lano, macinano i chilometri in un click, si fermano, tornano indietro, passano per,
si dirigono, attraversando lo spazio che intercorre tra loro e qualsiasi punto sulla
mappa del mondo, aspirando in effetti all’ubiquità che infatti toglie allo spazio
il valore che aveva nella vita quotidiana, lo neutralizza330, così alla mitologia della
velocità si sostituisce la mitologia dell’ubiquità. Visto che lo spostamento è consi-
derato una perdita di tempo si va verso un concetto in cui lo spazio è indipendente
dal tempo, l’idea di altrove viene eliminata, giacché tutto è immediato, il tempo
di percorrenza è azzerato, i limiti del tempo che separa lo spazio sono infranti.
Il locale comincia al di fuori di questa rete frenetica del mondo a portata
di mano. «Succede sull’aereo. Siamo in volo sopra il Mediterraneo, da qualche par-
te tra Roma e Palermo, (…) guardo il mare fuori dal finestrino, quel mare che
di qui a pochi decenni avrà inghiottito chissà quante isole in tutto il mondo e mi-
lioni di chilometri di costa»331. I protagonisti di Un’estate al mare, il romanzo che
racconta un’estate del 2006, sono in viaggio di nozze in Sicilia dalla parte di Marsa-
la. Per loro il concetto di frontiera ha un significato molto chiaro e materiale e la di-
stanza viene attraversata misurando il tempo e i chilometri. «Le spiagge, a Marsala,
si stendono per chilometri e chilometri lungo la costa profumata d’Africa dove
comincia l’Italia» (p. 23). Il modo in cui Culicchia racconta lo spazio colpisce per
una chiara delimitazione di esso, indicando dove inizia «la zona dello Stagnone,
con le saline e i mulini» (p. 26), dove «oltre Mozia, l’Isola Lunga si srotola nel mare
come la lingua di un drago assettato» (p. 26), dove da un determinato punto della
spiaggia «si vedono più lontane, ma all’apparenza più vicine, le Egadi» (p. 26). La
vita dei ragazzi che ci abitavano nel passato si concentrava su una delle piccole
isole, Levanzo, poco distante da Favignana e Marittimo. Quando l’aspetto globale
328
Augé spiega il doppio paradosso della mobilità, da una parte un’ideale a cui si ispira, dall’al-
tra una mobilità forzata in forma dell’esilio, delle migrazioni, dei campi profughi.
329
Giuseppe Culicchia, Brucia la città, Milano, Mondadori, 2009, p. 59.
330
Franco La Cecla, Mente locale. Milano, Elèuthera, 1993, p. 12.
331
Giuseppe Culicchia, Un’estate al mare, Milano, Garzanti, 2007, p. 11.
186 Małgorzata Puto
delle metropoli di Torino e di Milano rinvia all’effettività, all’utilità e al consumo,
il locale della provincia di Marsala fa ricorso ad una narrazione che diventa una
città, la narrazione che in verità rappresenta uno spazio amalgamato con alcune
persone che ci vivono. Nell’introduzione al romanzo Culicchia cita Goethe, di-
cendo che «L’Italia senza la Sicilia, non lascia alcuna immagine nell’anima» (p. 9),
e la parola anima diventa la parola chiave nel modo di raccontarla sia in questo
romanzo sia in un altro dedicato all’isola, Sicilia, o cara. Un viaggio sentimentale332.
Facendo ricorso al concetto della mente locale proposto da Franco La Cecla333, no-
tiamo subito il modo in cui lo spazio si allaccia all’anima, al ricordo, all’emozione
fortissima.
332
Giuseppe Culicchia, Sicilia, o cara. Milano, Feltrinelli, 2010.
333
La Cecla dedica al concetto di mente locale il saggio Mente locale, Milano, Elèuthera, 1993.
334
Franco La Cecla, Perdersi. L’uomo senza ambiente, Bari, Laterza, 2007, pp. 44–45.
Sistema globale come conflitto nella narrativa di Giuseppe Culicchia 187
rientamento nello spazio è un precesso attivo, e rinvia alla capacità di organizzare
il proprio spazio nel modo in cui esso diventi un riferimento al quale una persona
possa «agganciare la propria coscienza»335. Paragonando lo spazio globale e quello
locale, in Culicchia possiamo ribadire che nel locale troviamo un tipo di spazio
definito da Hallpike come lo spazio topologico336, ossia quello che è determinato
dai rilievi topografici, dove orientarsi significa seguire una mappa. L’impossibilità
di raggiungere un posto, o il modo in cui uno si muove nel locale seguendo le in-
dicazioni come su, giù, andare incontro a qualcuno, o non poterlo incontrare per
motivi relativi alla geografia dello spazio, si possono verificare nel globale. Dunque
anche questa caratteristica sembra sottolineare la differenza tra locale e globale.
Così i Docks Dora, descritti in Torino, casa mia337, sono
l’area oltre il corso del fiume Dora, a nord del centro storico, quella dove
prima ancora della Fiat a Torino è nata l’industria. Fabbriche, magazzini, in-
frastrutture. (…) Nei Docks si entra da un cancello di ferro che si apre su uno
spiazzo che si apre su due corridori paralleli su cui si aprono innumerevoli
locali, un tempo adibiti solo ed esclusivamente a magazzini, ora adibiti sia
a locali, intesi non come semplici locali ma come locali notturni. Qui, a metà
degli anni Novanta, l’epicentro del clubbing a Torino. Un posto chiamato
Reddocks. I migliori dj in circolazione. House a palla. Installazioni di giova-
ni artisti. Party sui tetti dei capannoni. E nelle vecchie fabbriche sparse per
la città, o appena oltre i suoi confini, la trance e la techno e il drum’n’bass
dei primi rave illegali. Dove arrivavi solo se conoscevi le piste giuste. Oggi
ai Docks ci sono studi di registrazione (…). Ma tutto intorno è distruzione
ed eruzione. Prima le ruspe hanno distrutto i perimetri dell’antica area in-
dustriale e raso al suolo il resto. Poi, anche qui come in Via Bologna angolo
corso Novara, un’eruzione di condomini (pp. 21–22).
Notiamo subito che alle caratteristiche riscontrate nel globale, ossia defisiciz-
zazione e delocalizzazione, si contrappone una descrizione molto precisa della to-
pografia di un tratto della città di Torino, che prosegue attraverso elementi dello
spazio, edifici, che hanno una struttura, e una funzione. Lo spazio è delimitato
da un confine che separa lo spazio funzionale da quello distrutto in disuso. È evi-
dente non solo una disciplina spaziale, ma anche l’aspetto temporale, che fa riferi-
mento al passato, indicando il varco temporale tra il passato e il presente.
«Sempre al triplo livello di percezione, definizione ed uso, la mente locale ope-
ra distinguendo nello spazio differenti densità»338. Infatti la densità spaziale sa-
rebbe un’altra caratteristica che focalizza l’opposizione all’interno del discorso sul
globale e il locale. Come sostiene La Cecla, lo spazio è gestito da varie forze che
335
Ivi, p. 43.
336
Ivi, p. 46.
337
Giuseppe Culicchia, Torino è casa mia, Roma, Laterza, 2005.
338
Franco La Cecla, Perdersi. L’uomo senza ambiente, Bari, Laterza, 2007, p. 97.
188 Małgorzata Puto
La città è una città. Solida. Liquida. Gassosa. Sopra arterie d’asfalto se-
zionano pietra, vetro, cemento, acciaio. Sotto vene di plastica pulsano acqua,
feci, energia, informazioni. Intorno aria: condizionata dentro, addizionata
fuori. Dappertutto un continuo viavai di corpi. Lungo strade a attraverso
stanze su e giù per corridoi, ascensori e scale mobili. Seguendo queste sino
in fondo ci si inoltra nel buio. Nel buio rotto dagli squarci al neon delle sta-
zioni. Nel buio dove treni corrono veloci. All’interno di una pausa luminosa,
in ventuno aspettano il prossimo convoglio. Nessuno conosce nessuno e per-
ciò nessuno parla (p. 11).
Le persone si orientano bene negli spazi che hanno a disposizione, e la gente
sconosciuta «evita di invadere il territorio degli altri» (p. 61). Gli individui cono-
scono bene lo spazio così come conoscono bene i propri corpi che vi si trovano,
corpi che hanno gli occhi, le orecchie, gli zigomi, le bocche, le barbe, le scapole,
i gomiti, i corpi che «non hanno fatto al doccia da 36 mesi» (p. 25), «si ascoltano
respirare» (p. 19), «sono pettinati, profumati, eleganti» (p. 106).
La città è uno spazio denso, la sua potenza però è minacciata dall’enigma dello
sconosciuto che invade lo spazio delle persone materialmente ma allo stesso tem-
po incute paura.
Nella stazione è sceso per ultimo, pochi secondi dopo gli altri. Ora
se ne sta all’ingresso del marciapiede, alle spalle di tutti. (…) Scommetto che
vi sembra tutto normale, qua sotto: niente che non vi aspettaste di trovare,
non è vero? Le luci artificiali che piovono dall’alto. Le scritte pubblicitarie
alle pareti. Il budello nero nel quale contate di infilarvi sotto la città. Donne
e uomini. Giovani e vecchi. Attenti a non invadere un millimetro di troppo
dello spazio circostante. (…) Ve ne state con le mani in tasca o seduti sui vo-
stri sedili o appoggiati alle pareti, abulici, pallidi, silenziosi, come se l’antica
vitalità vi avesse abbandonati per far posto alla paura. La paura. La vostra
paura (p. 133).
339
Ibid.
340
Giuseppe Culicchia, Ambarabà, Garzanti, 2000.
Sistema globale come conflitto nella narrativa di Giuseppe Culicchia 189
La densità dello spazio muta, nei momenti in cui viene percepito dai suoi abi-
tanti è denso, pieno di dettagli e corpi, ma essi sono anche molto sensibili a tutto
ciò che è sconosciuto, vuoto e mette paura.
Il locale è finalmente legato all’identità, giacché lo spazio conosciuto si esprime
attraverso il ‘noi’, che esige una densità maggiore. Quello che permette alla men-
te locale di rincasare sono i confini sentiti materialmente, determinati dalle linee
al di fuori delle quali uno sente la propria diversità. Il confine quindi definisce
l’identità. La località può essere dunque definita per mezzo del’ noi’ che persiste
e regge fino ad un certo punto lo spostamento, fino al quale si può parlare della
località. La globalità evidenzia molto meno i confini, così le persone riconoscono
sempre meno i margini territoriali. La mente locale, anche se possiede delle risorse
infinite, è confusa, ma non priva della capacità di reagire. Così si può parlare delle
vertigini, ma mai di incapacità di reagire341. Nel globale la mente locale scivola nel-
la presenza di una spazio fluttuante, privo di centri e di confini, in cui l’angoscia
territoriale cresce.
Conclusione
Globale Locale
Mobilità surmoderna, determinata dal para- viaggio che realmente percorre
dosso della mobilità, spostamento la distanza, per piacere, o per co-
fatto senza un reale percorrere noscere la terra di origine
della distanza, che sfugge alla ca-
tegoria del tempo, ha un ruolo
di fatalità e di necessità
Ubiquità la conseguenza della mobilità, non presente
in cui essa sfocia
Orientamento spazio a carattere relativistico Sspazio topologico
Densità spaziale minore maggiore
Confine meno evidente, il che influenza chiaramente delineato
la densità spaziale
341
Franco La Cecla, Perdersi. L’uomo senza ambiente, Bari, Laterza, 2007, p. 101.
190 Małgorzata Puto
Introduzione
Il problema delle “due culture”, della diversità e lontananza tra cultura lette-
rario–umanistica e scientifico–tecnica non solo è rimasto aperto – dalla famosa
polemica sollevata da Charles Snow negli anni ’60 ad oggi –, ma è diventato sem-
pre più attuale, assumendo, a seconda dei contesti culturali, connotazioni specifi-
che342. La letteratura italiana, da Dante a Galileo, ha mostrato nel corso dei secoli
una vocazione al dialogo tra le due culture. Pensiamo ad alcuni grandi autori del
Novecento che hanno creato il canone: Italo Calvino, il chimico Primo Levi, l’inge-
gnere Carlo Emilio Gadda, ma anche ad autori contemporanei come Daniele Del
Giudice343, Bruno Arpaia344, Giuseppe Longo345; ai saggi a quattro mani di Pier-
342
Vedi: Aldous Huxely, Letteratura e scienza, Milano, Il Saggiatore, 1963; Frederick
Amrine , Literature and science as modes of expression, Boston, Kluwer, 1989; Katheri-
ne Hayles, Chaos and Order: Complex Dynamics in Literature and Science, Chicago, The
University of Chicago Press, 1991; Mario Petrucciani, Scienza e letteratura nel secondo
novecento: la ricerca letteraria in Italia tra algebra e metafora, Milano, Mursia, 1978; Ezio
Raimondi, Scienza e letteratura, Torino, Einaudi, 1978; Andrea Battistini, Letteratu-
ra e Scienza, Bologna, Zanichelli, 1977; Carlo Bernardini–Tullio De Mauro, Contare
e raccontare. Dialogo sulle due culture, Bari–Roma, Laterza, 2003; Pierpaolo Antonel-
lo, Contro il materialismo. Le «due culture» in Italia: bilancio di un secolo, Torino, Nino
Aragno, 2012; Pierpaolo Antonello, Il menage a quattro. Scienza, filosofia, tecnica nelle
letteratura italiana del Novecento, Firenze, Le Monnier, 2005; Mario Porro, Letteratura
come filosofia naturale, Napoli, Medusa, 2005; Giovanna Ioli, Cavalcare la luce. Scienza
e letteratura, Novara, Interlinea, 2009.
343
Daniele Del Giudice, Atlante occidentale, Torino, Einaudi, 1985.
344
Bruno Arpaia, L’energia del vuoto, Milano, Guanda, 2011.
345
Giuseppe O. Longo, L’acrobata, Torino, Einaudi, 1994; Giuseppe O. Longo, Il nuovo
Golem: come il computer cambia la nostra cultura, Bari–Roma, Laterza, 1998; Giuseppe
O. Longo, Homo Technologicus, Roma, Meltemi, 2001.
192 Stefano Redaelli
Un po’ di storia
Partiamo dalla polemica di Charles Snow, sollevata in Inghilterra a metà del se-
colo scorso351, per arrivare al contesto culturale italiano dell’inizio del secolo e ve-
dere quale sia attualmente lo “stato di salute dei rapporti” tra letteratura e scienza.
Nella memorabile conferenza tenuta a Cambridge nel 1959, intitolata The
Two Cultures, Charles P. Snow, fisico e romanziere inglese, denunciava l’esistenza
e l’incomunicabilità di «due gruppi antitetici», che si autodefinivano intellettuali:
«Letterati a un polo e scienziati all’altro, i più rappresentativi dei quali i fisici. Tra
i due gruppi, un abisso di reciproca incomprensione»352. Per Snow all’origine del
conflitto c’è una visione del mondo antitetica: mentre i secondi «hanno per natura
il futuro nel sangue»353, i primi guardano ad esso con scetticismo e sfiducia. Ne
consegue, tra l’altro, un atteggiamento critico da parte dei letterati verso la rivo-
luzione industriale e scientifica: «Gli umanisti non si sono mai sforzati, né hanno
mai desiderato, o non sono mai stati in grado di capire la rivoluzione industriale,
e ancor meno di accettarla»354. L’incomunicabilità (in quanto assenza di comuni-
346
Odifreddi è autore di numerosi saggi sul rapporto tra scienza e religione; tra i più impor-
tanti: Piergiorgio Odifreddi, Il Vangelo secondo la Scienza. Le religioni alla prova del
nove, Torino, Einaudi, 1999; Piergiorgio Odifreddi, Perché non possiamo essere cristiani
(e meno che mai cattolici), Milano, Longanesi, 2007; Piergiorgio Odifreddi, Hai vinto,
Galileo! La vita, il pensiero, il dibattito su scienza e fede, Milano, Mondadori, 2009.
347
Piergiorgio Odifreddi – Sergio Valzania, La Via Lattea. (Un ateo impenitente e un
cattolico dubbioso in cammino verso Santiago de Compostela), Milano, Longanesi, 2008.
348
Carlo Bernardini – Tullio De Mauro, Contare e raccontare. Dialogo sulle due culture,
Bari–Roma, Laterza, 2003.
349
Erri de Luca – Paolo Sassone Corsi, Ti sembra il caso? Schermaglia fra un narratore e un
biologo, Milano, Feltrinelli, 2013.
350
Questo lavoro è finanziato dal Centro Nazionale delle Scienze della Polonia, attraverso
il Grant nr DEC–2012/07/D/HS2/03673.
351
Cfr. Stefano Redaelli, A che servono gli Studia humanitatis (in una società tecnologico–
scientifica)?, Atti del Convegno Chernarus (in stampa), Banja Luka, 2015.
352
Charles P. Snow, Le due culture, Venezia, Marsilio, 2005, pp. 18–20.
353
Ivi, p. 25.
354
Ivi, p. 34.
Letteratura e scienza: un conflitto di culture 193
il punto di scontro tra due soggetti, due discipline, due culture – due
galassie, finché va così – dovrebbe produrre occasioni creative. (…) Le oc-
casioni ora ci sono. Ma sono, per così dire, sospese nel vuoto, per il fatto che
i membri delle due culture non riescono a parlarsi. È strano che sia stato as-
similato dall’arte del ventesimo secolo così poco della scienza del ventesimo
secolo355.
355
Ivi, p. 30.
356
Carlo Emilio Gadda, Per favore, mi lasci nell’ombra. Interviste 1950–1072, a cura di Clau-
dio Vela, Milano, Adelphi, 1993, pp. 147–152.
357
Raimondi, Scienza e letteratura, cit., p. 50.
358
Ivi, p. 29.
359
Petrucciani, Scienza e letteratura, cit., p. 13.
360
Ibid.
194 Stefano Redaelli
giamenti, in particolare nei confronti della verità: intersoggettiva per gli scienzia-
ti, che difendono una cultura teoretica (basata sulla conoscenza), soggettiva per
gli umanisti, che difendono una cultura assiologica (basata sui valori). Dal punto
di vista di Preti, il contributo della scienza alle lettere è fondativo per il discorso
etico: «E così l’ascesi scientifica è strumento di riadattamento dell’ethos alle esigen-
ze della vita: restituisce al mondo dei valori la sua fondazione, la condizione stessa
della sua efficacia – mantiene aperte le vie della sua stessa autotrascendenza»361.
Fino alla ristampa nel 2005 delle Due culture, il numero di pubblicazioni è ridotto
e sporadico. Antonello e Porro362 riaprono la questione, concentrandosi su Cal-
vino, Gadda, Levi, Sinisgalli. Tali studi identificano come elementi centrali della
cultura scientifica degli autori studiati (rappresentanti di una “filosofia naturale”)
il materialismo e la centralità della natura, a dispetto dell’antropocentrismo e ide-
alismo tipici della cultura umanistica363.
361
Ivi, p. 242.
362
Antonello, Il menage a quattro, cit.; Porro, Letteratura come filosofia naturale, cit.
363
Si pensi all’anti–antropocentrismo di Palomar: “Dato che c’è mondo di qua e mondo di là
dalla finestra, forse l’io non è altro che la finestra attraverso la quale il mondo guarda
il mondo” (Italo Calvino, Palomar, Mondadori, Milano, 2011, p. 101).
364
Il titolo è un omaggio al film di Luis Buñuel del 1969, che narra le avventure di due pel-
legrini in cammino verso la tomba dell’apostolo Giacomo. In Spagna e in Portogallo Via
Lattea era anche il nome del Cammino di Santiago, perché indicava la via da est a ovest che
portava al luogo della supposta sepoltura dell’apostolo.
365
Bernardini – De Mauro, Contare e raccontare, cit., p. 7
Letteratura e scienza: un conflitto di culture 195
366
Ivi, p. 10.
367
Cfr. Stefano Redaelli, Tradurre la scienza: il Sistema periodico di Primo Levi, in «Kwar-
talnik Neofilologiczny», LXII, 2/2015, pp. 211–220.
368
Secondo Carlo Bernardini il linguaggio di comunicazione serve per “la formulazione di re-
gistrazioni memorizzabili di informazioni (fatti, opinioni, idee), nell’impiego soggettivo;
e per lo scambio di quelle informazioni, nell’impiego intersoggettivo”, mentre il “linguaggio
di elaborazione (…) usa le informazioni, particolarmente quelle della realtà circostante,
per elaborarle secondo procedure concepite e collaudate al fine di conseguire risultati non
contenuti già nelle informazioni di partenza” (Carlo Bernardini, Prima lezione di fisica,
Laterza, Roma, 2007, p. 18).
369
Bernardini – De Mauro, Contare e raccontare, cit., p. 6.
370
Ivi, p. 7.
371
Ivi, p. 10.
372
Ivi, p. 78.
373
Ivi, p. 116.
374
Ivi, p. 121.
196 Stefano Redaelli
al parlare ideologico) che riguarda, come vedremo, non solo gli umanisti, ma an-
che gli scienziati.
Ne troviamo un esempio nel libro: La Via Lattea. Qui il matematico Odifred-
di pratica una sorta di retorica basata sulla logica, al fine non tanto di difendere
l’autonomia dello scienziato, quanto, di fatto, di affermarne la superiorità, scredi-
tando il pensiero umanistico e le questioni di valore che esso affronta. Abilmente,
Odifreddi premette al suo discorso un’affermazione di limitatezza intrinseca nel
sapere, citando il teorema di Gödel375 e il principio di indeterminazione di Hei-
senberg376: «dobbiamo accettare questa condizione di limitatezza della conoscen-
za e della ricerca come una delle caratteristiche intrinseche della nostra umanità:
si arriva a un certo punto, ma oltre non si può andare»377.
Parafrasando il teorema di Gödel afferma, poi, che «non tutte le domande sen-
sate ammettono una risposta» e, spingendo il ragionamento oltre, che «non tutte
le domande sono sensate», in particolare le domande sul senso della vita, anzi
«le domande di senso sono le più insensate». Conclude, quindi, affermando che:
La cosa divertente è che le domande che spesso si pongono i ‘filosofi
da cane’378 sono appunto di quel genere. Il miglior esempio è proprio costitu-
ito dalla domanda sul ‘senso della vita’: il che dimostra che ha più buonsenso
Bonolis, che nel titolo del suo programma le fa il verso, che Severino o Cac-
ciari, che invece se le pongono per davvero379.
Secondo Odifreddi, l’uomo comune «non ha nemmeno idea che si possa per-
dere tempo con domande di un certo genere e, se gli dicessero che c’è gente che
è pagata per farsele e osannata perché non sa da loro risposta, la farebbe giusta-
mente sbranare dal proprio cane»380.
Se le domande di senso e dunque sui valori – la sfera assiologica, direbbe Preti
–, tipiche della cultura umanistica, non hanno senso, a cosa si ridurrebbe, di fatto,
la sua competenza e il suo campo di azione? Secondo Odifreddi ai discorsi «non
dichiarativi», che sono:
375
Il teorema di Gödel afferma che qualunque sistema matematico è incompleto, per quante
verità un sistema sia in grado di dimostrare, ne rimarranno sempre alcune che sono precluse.
376
Secondo il principio Heisenberg ci sono limitazioni intrinseche al livello delle particelle
elementari, che impediscono di misurarne con precisione arbitraria sia la posizione che
la velocità in uno stesso istante.
377
Odifreddi – Valzania, La Via Lattea, cit., p. 43
378
Qui Odifreddi si riferisce a Darwin che, nella sua Autobiografia, racconta del cane che ab-
baiava furiosamente quando vedeva un bandiera mossa dal vento, convinto della presenza
di qualcuno, definendo questo atteggiamento «teologia da cani».
379
Odifreddi – Valzania, La Via Lattea, cit., p. 99.
380
Ibid.
Letteratura e scienza: un conflitto di culture 197
tipici dell’umanesimo, che non vogliono dire come stanno le cose
al mondo e parlare di verità, ma piuttosto suggerire e stimolare sensazioni
e sentimenti. Lì le contraddizioni vanno benissimo, e nessun razionalista ri-
fiuterebbe di leggere una poesia o un romanzo sulla base del fatto che con-
tengono contraddizioni. E lo stesso discorso vale per i libri sacri, purché li si
prendano come letteratura, e non come testi filosofici o storici381.
In realtà, anche questa conclusione a cui Odifreddi giunge non è affatto di me-
diazione e riappacificazione, ma di esclusione, come si evince dal seguente brano:
381
Ibid.
382
Odifreddi – Valzania, La Via Lattea, cit., p. 184.
383
Odifreddi, Il Vangelo secondo la Scienza, cit., p. 211.
384
Odifreddi – Valzania, La Via Lattea, cit., p. 184.
385
Cfr. Piergiorgio Odifreddi, La guerra dei due mondi, in Charles P. Snow, Le due cultu-
re, Venezia, Marsilio, 2005, p 135.
386
Ivi, p. 132.
198 Stefano Redaelli
L’unica letteratura possibile sarebbe quella di un Gadda o Levi, in grado di de-
scrivere scientificamente il mondo; oppure, in extremis, dobbiamo attendere i ro-
manzi Odifreddi!
Conclusione
Ricordiamo la critica di Bernardini: «Non voglio alcun conflitto tra le due
culture, voglio solo che quei testoni dei letterati e dei filosofi smettano di parlare
come funzionari di una “cultura dominante” », di parlare in modo «banalmente
ideologico». Il discorso di Odifreddi – testone matematico e non letterato – è un
esempio speculare del medesimo atteggiamento nell’ambito della cultura scientifi-
ca; atteggiamento che ha anche un nome: “terza cultura”. Promossa da John Brock-
man alla fine degli anni ’80 in America, la “terza cultura” è rappresentata da un’élite
di scienziati e abili divulgatori che si è assunta il ruolo di rispondere alle domande
fondamentali sull’uomo, la vita, il cosmo, escludendo del tutto le materie umanisti-
che (filosofia, letteratura, religione), ritenute semplicemente superflue e finanche
dannose387. Questi autori (scienziati) fanno un uso della letteratura, in particolare
della saggistica, puramente utilitaristico (retorico, come abbiamo visto nel caso
di Odifreddi) all’interno di un progetto che però la svaluta, esclude, asservisce
a pura divulgazione (a volte ideologica).
Per “la terza cultura” il conflitto è superato, non esiste più, perché, in realtà,
la cultura umanistica è definitivamente sconfitta e fagocitata.
Per superare i conflitti tra le due culture occorre innanzitutto riconoscerne
le differenze e gli ambiti (come fa Giulio Preti in Retorica e logica), rispettarli; non
pretendere di inverare il discorso altrui – sui valori o sulla verità intersoggettiva) –
e soprattutto di prenderne il posto.
387
Cfr. Redaelli, Tradurre la scienza, cit., pp. 211–220.
Conflitto, rimozione. Verderame di Michele Mari
Katarzyna Skórska
Uniwersytet Warszawski, Warszawa
Nel giugno del 2008, alla sua ventisettesima e ultima edizione, il Premio Grin-
zane–Cavour è andato a due scrittori: Bernardo Atxaga per Il libro di mio fratello
e all’autore milanese Michele Mari per il suo Verderame pubblicato nel 2007. Se-
condo le parole dell’allora presidente del premio, Giuliano Soria, quella ventisette-
sima era stata un’edizione destinata a «declinare un periodo dominato dal conflit-
to»388. Il filone principale del romanzo di Mari racconta di un’amicizia inconsueta
allacciata nell’estate del 1969 fra Michelino, un ragazzo di 13 anni, alter ego dell’au-
tore – in effetti il romanzo è segnato da un’impronta fortemente autobiografica389
– e il factotum della casa dei nonni del protagonista, Felice, un anziano contadino
semi–analfabeta. Il loro «rapporto colma un vuoto di dialogo tra genitori e figli»
– commentava Mari nel ricevere il premio – «un vuoto che spesso si verifica in fa-
miglia. (…) Sono sorpreso che i ragazzi mi abbiano così amato da farmi vincere.
È piaciuto loro probabilmente il senso dell’avventura che ha trasmesso quest’uo-
mo così avulso dalla normalità. Conosco bene questa sensazione perché è stata
la mia»390. Nel motivare il premio, Mari puntava così sul conflitto generaziona-
le, l’elemento portante del racconto, sebbene il libro nel suo insieme presenti una
vasta gamma di conflitti con i loro esiti che, col passare del tempo, si è cercato
di celare, o anzi di rimuovere. È attraverso la figura del ragazzino protagonista che
Michele Mari tenta di svelarli, offrendo un romanzo che attinge ai tratti del giallo
388
Italia: premi, Grinzane Cavour, vincono Mari e Atxaga, http://www.tio.ch/News/Este-
ro/401161/Italia–premi–Grinzane–Cavour–vincono–Mari–e–Atxaga, visitato il 23.05.2015.
389
In un’intervista lo scrittore stesso ammette: «Sicuramente è autobiografica tutta la prima
parte del romanzo (...), fino a quando la storia non prende una strada fantastica». Vedi:
Marco Negri, A Nasca, tra russi, nazisti e lumache, la terra si tinge di Verderame, www.
varesenews.it, visitato il 15.05.2015.
390
Italia: premi, Grinzane Cavour, vincono Mari e Atxaga, http://www.tio.ch/News/Este-
ro/401161/Italia–premi–Grinzane–Cavour–vincono–Mari–e–Atxag, visitato il 23.05.2015.
200 Katarzyna Skórska
391
Carlo Mazza Galanti, Michele Mari, Fiesole, Cadmo, 2011, p. 111.
392
Michele Mari, Verderame, Torino, Einaudi, 2007, p. 145.
393
Si veda il racconto Otto scrittori in cui vengono nominati i sommi maestri di Michele
Mari, tra cui (a parte i già menzionati) sono: Jules Verne, Daniel Defoe, Jack London, Ed-
gar Allan Poe, Emilio Salgari e Joseph Conrad (Michele Mari, Tu, sanguinosa infanzia,
Torino, Einaudi, 2009).
394
Sul piano narrativo il conflitto si traduce in contrasto fra una storia romanzesca e un’am-
bientazione, la zona del varesotto, per eccellenza non romanzesca. Vedi: Marco Negri,
A Nasca, cit.
395
Mari, Verderame, cit., p. 97.
396
Ibid.
397
Ibid.
398
Anche in questo caso l’ispirazione è di estro autobiografico: le estati trascorse da Mari
nell’infanzia a casa dei nonni sul Lago Maggiore, «essendo state un’infanzia e un’adolescen-
za tristi», nella sua percezione rendono quel luogo intriso «di malinconia e di angoscia»,
Marco Negri, A Nasca, cit.
399
Mari, Verderame, cit., p. 4.
400
Ivi, p. 97.
Conflitto, rimozione. Verderame di Michele Mari 201
parlando che il dialetto di Varese. Proprio lui diventerà l’unico interlocutore del
ragazzo durante le lunghe giornate estive nella casa dei nonni. Nonostante la sua
menomazione mentale, Felice è al tempo stesso una figura conciliatrice che, come
presto si verificherà, fa coesistere i due mondi, quello del presente e del passato,
quello sensibile e quello sovrasensibile. Con il suo tratto quasi animalesco egli as-
sume il ruolo di uno psicopompo paradossale che introduce il piccolo Michele
nell’inferno della Storia, di una vicenda di francesi, di partigiani, di nazisti e di
russi fuoriusciti dopo la rivoluzione che durante la guerra avevano collaborato con
i tedeschi; una storia di operazioni losche compiute dalla Resistenza italiana nella
lotta al nemico, per anni tenute segrete. Questa scelta di usare la Storia come sfon-
do del romanzo, che tra l’altro compare nella produzione di Mari per la prima vol-
ta, come afferma l’autore stesso, «è probabilmente dovuta a un’inconscia polemica
nei confronti del filisteismo varesotto»401, che egli aveva sempre percepito come
assai opprimente.
Di Felice non si sa niente: completamente staccato dalla realtà, sembra appar-
tenere al tempo mitico, così come l’anziana di nome Flora, amica di Michelino
nell’omonimo racconto della raccolta Euridice aveva un cane402. Ispirandosi a una
persona realmente esistita403, Mari vi aggiunge una sfumatura sovrannaturale fa-
cendone appunto un personaggio privo di origine, di qualsivoglia punto di riferi-
mento, insistendo anche sullo stato di leggera ebrezza alcolica in cui perennemente
si trova il contadino:
Quand’era nato, e dove? Cos’aveva fatto prima di lavorare per noi? Se
aveva parenti? Qualcuno era mai entrato in casa sua, se casa era l’incognito
spazio chiuso da un portoncino di legno grigiastro? Qualcuno l’aveva mai
visto in un abito che non fosse quella tuta, identica nei decenni? Qualcuno
poteva dire di averlo visto fare la spesa, o ricevere derrate a domicilio? E di
cosa si nutriva? Beveva molto, evidentemente, ma c’era in tutto il paese una
sola persona che potesse testimoniare dell’ingresso di una bottiglia attraverso
quel portoncino?404.
la memoria, ed è in questa operazione di recupero salvifico che egli verrà a sco-
prire i segreti celati nella casa di Nasca e che ricostruirà il passato del luogo. Per
aiutare il contadino, il ragazzo crea una mnemoteca precaria costituita da indizi,
associazioni, analogie, assonanze echeggianti. Fra i tanti esempi di questa costru-
zione si può citare quello di quando Michelino per far ricordare il proprio nome
a Felice gli raccomanda di tenere una foglia di felce accanto al letto; intorno alla
casa invece distribuisce una serie di frecce indicatrici. Tra gli indizi appare anche
il disegno di un coniglio appeso – un omaggio–feticcio dell’autore milanese che
attraverso l’impiccagione degli animali richiama uno dei libri da lui più stimati,
Cosmo di Witold Gombrowicz, nel quale, come osserva Giuseppe Antonelli, è con-
tenuta una soluzione possibile alla dualità fra cosmo e caos che interessa Mari sin
dal suo debutto406. Questa dualità anche in Verderame si manifesta su diversi piani
fra loro divergenti e conflittuali: «di nomi e di cose, di letteratura e vita, di lin-
gua e dialetto»407. Quell’intervento di Michelino di porre Felice davanti a una serie
di indicazioni inconfondibili, dei «memento materiali o mentali»408, che attraver-
so associazioni varie devono fargli tornare i ricordi, in maniera metaforica ripor-
ta il presente al passato conservatosi nella mente del contadino. E in questa rete
di immagini del presente sovrapposte a quelle del passato, in questa ricerca di se-
gni congeniali, si compie quell’atto di «ricondurre l’impronta propria di ciascuno
alla sua visione, accogliendola (...) e adattandola alla propria orma»409 descritto
da Platone nel Teeteto, esso stesso metafora fondamentale, come rileva Paul Rico-
eur, per illustrare l’atto mnemonico del riconoscimento, «questo piccolo miracolo
della memoria felice»410.
La memoria fallace di Felice con i suoi vuoti diventa un equivalente della cen-
surata memoria collettiva nel microcosmo del paesino lombardo (al contempo
estensibile a quella del macrocosmo italiano post–bellico), nonché della memoria
selettiva dei fatti storici serbata dalla famiglia di Michelino. Mari delinea l’aspetto
spaziale della mente già nelle parti iniziali del romanzo: «una casa è come una
testa, con le sue ambage e le sue oscure circonvoluzioni, le sue ambiguità e le sue
ossessioni»411, per poi passare direttamente al mneme stesso di Felice, paragonato
alla casa dei nonni del protagonista:
406
Michele Mari, Di bestia in bestia, Milano, Longanesi, 1989. (Cfr. I nomi ad anagramma
dei protagonisti Osmoc e Osac).
407
Giuseppe Antonelli, Nomi e cose, in «L’Indice dei Libri del Mese», dicembre 2007.
408
Mari, Verderame, cit., p. 16.
409
Platone, Teeteto o Sulla Scienza, Milano, Feltrinelli, 2000, p. 181.
410
Paul Ricoeur, La memoria, la storia, l’oblio, Milano, Raffaello Cortina Editore, 2003,
p. 610.
411
Mari, Verderame, cit., p. 47.
Conflitto, rimozione. Verderame di Michele Mari 203
Guardavo la nostra casa e mi sembrava di vedere la memoria di Feli-
ce, non solo perché un tempo favoloso era stata sua, ma perché era piena
di buchi e di crepe, con il tetto che faceva acqua da tutte le parti e macchie
di umido che annerivano e riempivano di bolle l’intonaco, i mobili bucherel-
lati dai tarli e le maniglie che ti restavano in mano, le persiane con i listelli
che uscivano dal telaio e rimanevano di sbieco, la vernice di serramenti che
si scrostava, il muro di cinta che andava in pezzi per la spinta delle radici dei
rampicanti, le vecchie stampe che si incurvavano sotto il vetro e ospitavano
negli angolini i bozzoli di larve che non si sarebbero mai evolute, il ferro delle
ringhiere ridotto a una massa di ruggine tenuta insieme solo dai ripetuti strati
di cromo e vernice verdina, zone sempre più ampie del frutteto invase dalla
robinia e dal bambù, alberi con i rami più alti che nessuno potava da anni...412.
Questa sempre più profonda interiorizzazione dello spazio abitato slega il pro-
tagonista dalla realtà, fa quasi svanire il mondo circostante. E nonostante la casa
esista realmente, essa assume sempre più le sembianze della bachelardiana casa
onirica (con le sue contaminazioni con la grotta e il labirinto)413, facendola diven-
tare quasi un luogo immaginario. Nella casa estiva di Nasca, come in Bachelard,
tutto l’universo «si anima al limite dei temi astratti e delle immagini superstiti,
in quella zona in cui le metafore acquistano il sangue della vita per poi cancellarsi
nella linfa dei ricordi»414. Quando ad un certo punto Felice consegnerà al ragazzo
la chiave dello stanzino segreto della casa dei nonni, nel quale sono nascosti gli
scheletri dei tre presunti soldati tedeschi che si riveleranno essere i russi ex–padro-
ni di casa, i Kropoff uccisi dai partigiani italiani, egli gli aprirà le porte di un aldilà,
di un passaggio dal presente al passato, dalla realtà di oggi all’inferno di ieri con
i suoi spettri, il che porterà Michelino a una delle sue constatazioni finali:
c’era un’altra analogia fra la testa di quel poveretto e la nostra casa: la pre-
senza di certi ricordi corrispondenti a certi fatti avvenuti in certi luoghi, luo-
ghi come uno sgabuzzino nascosto dietro un letto smontato in una stanza
di fianco al fienile, luoghi come la terra grassa sotto a un prato... In entrambi
i casi c’erano di mezzo dei cadaveri: possibile che il passato consegnasse solo
quello, o morti o fantasmi? O gente giustiziata o gente scomparsa?415.
Il tredicenne Michelino svolge quindi una solitaria indagine sul passato di Na-
sca. La sua ispezione della memoria di Felice provoca al contempo uno sposta-
mento nella Storia. Il carattere spaziale della memoria su cui si insiste nel romanzo
rievoca il concetto agostiniano presentato nelle Confessioni, l’opera che, come sot-
412
Ivi, p. 134.
413
Cfr. Gaston Bachelard, La terra e il riposo, Milano, Red Edizioni, 2007, pp. 83–86.
414
Ivi, p. 84.
415
Mari, Verderame, cit., p. 135.
204 Katarzyna Skórska
dove si accumulano tesori di innumerevoli immagini, per ogni sorta
di oggetti della percezione. Lì è custodito tutto ciò che ci avviene di pensare,
amplificando o riducendo o comunque variando i dati dei sensi, e quant’altro
vi sia stato riposto in consegna, purché l’oblio non l’abbia ancora inghiottito
o sepolto417.
416
Ricoeur, cit., p. 139.
417
Agostino (sant’), Confessioni, Milano, Garzanti, 1990, p. 355.
418
Si veda per esempio il romanzo di Mari dedicato a Giacomo Leopardi, Io venìa pien d’an-
goscia a rimirarti (Longanesi, Milano, 1990), oppure i racconti dalle raccolte già nominate
ma anche quelli dalla più recente Fantasmagonia (Einaudi, Torino, 2012).
419
Essendo l’angoscia nella narrativa di Mari legata frequentemente «al sottosuolo, a quel-
le profondità terrestri o marine sconosciute e invisibili che la fantasia infantile non tarda
a popolare di mostri terrificanti». Vedi: Luca Tassinari, Michele Mari – Verderame, http://
letturalenta.net/2008/01/michele–mari–verderame, visitato il 15.05.2015.
420
Negri, A Nasca, cit.
421
Mari, Verderame, cit., p. 3.
Conflitto, rimozione. Verderame di Michele Mari 205
422
Ivi, p. 4.
423
René Girard, La violenza e il sacro, Milano, Adelphi, 1992, p. 59.
424
Ibid.
425
Ivi, p. 30.
426
Mari, Verderame, cit., p. 4.
427
Per la dottrina della sostituzione del sacrificio umano con quello animale si veda: Joseph
De Maistre, Les soirées de Saint–Pétersbourg, ou Entretiens sur le gouvernement temporel
de la providence; suivis d’un Traité sur les sacrifices. Tome 2, Paris–Lyon, Rusand, 1822.
428
Cfr. Mari, Verderame, cit., pp. 144, 157.
429
Ivi, p. 129.
206 Katarzyna Skórska
serie430. Come afferma Mazza Galanti, per lo scrittore milanese «la letteratura è un
artificio sovrano», e quindi «il fascismo, la guerra, la rivoluzione russa, sulla pagina
di Mari non possono che parlare, ancora e sempre, la lingua fantastica e visionaria
del romanziere»431. Questa tesi trova conferma nelle parole dello stesso autore: «la
vicenda storica che coinvolge la Seconda guerra mondiale, i partigiani, il fasci-
smo, il nazismo, è entrata (nel romanzo) come ingrediente fantastico»432. Questo
intervento narrativo è stato garantito non solo da quel filtro che offre lo sguardo
di un tredicenne nutritosi di romanzi fantastici e di libri dell’orrore, ma anche dalla
visione leggendaria e mitica che Mari stesso, come afferma, aveva acquisito da ra-
gazzino avendo conosciuto le vicende dei partigiani attraverso le rappresentazioni
mitiche che di loro avevano offerto i libri di Beppe Fenoglio, Italo Calvino, Cesare
Pavese433. Nella narrativa di Mari si tende a esprimere il conflitto tra letteratura
e vita, e invero l’autore stesso considera la sua vocazione di scrittore in termini «di
lotta, di conflitto, di opposizione», essendo forse l’ultimo erede dei grandi letterati
italiani novecenteschi, quali Gadda, Consolo, Landolfi, Manganelli, essendo pro-
babilmente, come scrive Mazza Galanti, «l’ultima incarnazione, in ordine di tem-
po, di una risposta ostinatamente letteraria alla fine della letterarietà»434.
430
Cfr. Mazza Galanti, Michele Mari, cit., p. 13.
431
Ivi, p. 111.
432
Mazza Galanti, Conversazione con Michele Mari, cit., p. 175.
433
Ivi, p. 176.
434
Mazza Galanti, Michele Mari, cit., p. 17.
I l volume che presentiamo ai lettori tiene
conto della complessità del fenomeno del
conflitto e, nonostante le sfumature negative
presenti nell’accezione comune del termine,
mira a dimostrare la sua utilità come chiave
di lettura di fenomeni di varia natura, come
strumento per scoprire le variegate dicoto-
mie della contemporaneità: il vecchio e il
nuovo, il digitale e l’analogico, la tradizio-
ne e l’innovazione. La presente monografia
dà spazio alle analisi del fenomeno in ottica
interdisciplinare, raggruppate intorno a tre
argomenti dominanti: la lingua, l’insegna-
mento e la letteratura, in cui il conflitto non
viene percepito esclusivamente come una
forza distruttrice, ma piuttosto come oppor-
tunità per nuove interpretazioni e riflessioni.
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