Sei sulla pagina 1di 209

Il conflitto nella

lingua e nella
cultura italiana:
analisi, interpretazioni, prospettive

a cura di Elżbieta Jamrozik,


Kamila Miłkowska-Samul
e Roman Sosnowski
Il conflitto nella lingua e nella cultura italiana:
analisi, interpretazioni, prospettive
Il conflitto nella lingua
e nella cultura italiana:
analisi, interpretazioni, prospettive

a cura di Elżbieta Jamrozik, Kamila Miłkowska–Samul


e Roman Sosnowski

Poznań – Warszawa 2018


Revisore scientifico – dr Dario Prola

© 2018 by Wydawnictwo Naukowe SILVA RERUM


All rights reserved

Volume pubblicato con i fondi dell’Università SWPS, Dipartimento di Scienze Umanistiche


e Sociali.

ISBN 978-83-65697-67-7 (publikacja elektroniczna)

Prima edizione: Wydawnictwo Naukowe SILVA RERUM


www.wydawnictwo-silvarerum.eu
Poznań 2018

Revisione linguistica – Luca Morlino


Redazione editoriale – Aleksandra Kostecka-Szewc

Progetto di copertina – Studio Graficzne SILVA RERUM


Foto in copertina – depositphotos.com, Famous @ AnnaNepaBO

Impaginazione – Studio StrefaDTP

Stampa – Perfekt Druk, ul. Świerzawska 1, 60-321 Poznań

Finito di stampare nel dicembre 2018


Indice
Kamila Miłkowska–Samul
Premessa.............................................................................................................. 7

Parte I. Lingua............................................................................................... 11
Elżbieta Jamrozik
Tra emozione e stereotipo: la tragedia politica vista attraverso la lingua
de L’Unità ............................................................................................................ 13
Roman Sosnowski
Conflitto e oltre. Autore–volgarizzatore–copista nel manoscritto
medievale............................................................................................................. 33
Sylwia Skuza
Gli aggettivi al servizio delle relazioni nei mass media di oggi sui
conflitti interni ed internazionali..................................................................... 43
Magadalena Bartkowiak-Lerch
Una lotta per l’autoconservazione: la dimensione linguistica....................... 53
Anna Grochowska–Reiter
La percezione dell’altro nella commedia all’italiana...................................... 61
Maciej Durkiewicz
Autori di diari on–line di fronte alla norma: scriventi incompetenti,
recalcitranti o conservatori?.............................................................................. 71
Beata Katarzyna Szpingier
Il conflitto tra sano e malato nelle metafore militari del campo medico
italiano................................................................................................................. 83

Parte II. Insegnamento.................................................................................. 95


Anna Godzich
La subordinata oggettiva e le due circostanziali: la finale e la causale
nelle grammatiche descrittive italiane. Alcune considerazioni.................... 97
Aleksandra Kostecka–Szewc
Considerazioni sull’e–conflitto nell’insegnamento delle lingue................... 113
6 Indice

Alicja Paleta
Multimediale e interattivo... Un’esigenza del metodo o del mercato? ......... 121
Karolina Wolff
Il fattore ludico nell’insegnamento come soluzione al conflitto tra
i vecchi e i nuovi metodi didattici.................................................................... 131
Joanna Jarczyńska, Katarzyna Święcicka
Il conflitto nella didattica dell’italiano ovvero la didattica dell’italiano
tra vari conflitti................................................................................................... 141

Parte III. Letteratura..................................................................................... 151


Fabio Boni
Due modi diversi di intendere il conflitto uomo–donna: Lucrezia
Marinelli e Moderata Fonte (sec. XVI–XVII)................................................. 153
Raoul Bruni
Il conflitto rivoluzionario nell’età della tecnica: considerazioni su Tecnica
del colpo di Stato di Curzio Malaparte............................................................. 165
Luca Palmarini
Il conflitto dentro il conflitto, la tragedia cosacca durante la Seconda
Guerra mondiale in un confronto letterario italo–polacco ......................... 173
Małgorzata Puto
Sistema globale come conflitto nella narrativa di Giuseppe Culicchia........ 183
Stefano Redaelli
Letteratura e scienza: un conflitto di culture?................................................. 191
Katarzyna Skórska
Conflitto, rimozione. Verderame di Michele Mari......................................... 199
Premessa
Kamila Miłkowska–Samul
SWPS Uniwersytet Humanistycznospołeczny, Warszawa

Nell’immaginario collettivo il conflitto ha quasi sempre connotazioni negative,


si associa automaticamente alla violenza, al sopruso del potere o dell’autorità e alla
distruzione, di cui è, nel contempo, la causa e l’effetto. In questa visione tradiziona-
le il conflitto si configura come un fenomeno disfunzionale, patologico.
D’altronde, è  indiscutibile il  suo carattere pervasivo, visto che penetra ogni
aspetto della vita umana: si osservano le sue manifestazioni al livello intra– e inter-
personale, tra e all’interno dei gruppi, tra gli Stati, in tutti i luoghi, insomma, dove
può nascere una divergenza di interessi. Non è da sottovalutare neanche la dimen-
sione più astratta del conflitto, che si  realizza a  livello ideologico come scontro
di opinioni e di posizioni.
Il volume che presentiamo ai lettori tiene conto, da una parte, di questa com-
plessità dell’argomento e delle sfumature negative presenti nell’accezione comune
del termine, dall’altra parte mira a rovesciare lo stereotipo, dimostrando l’utilità
del conflitto come chiave di lettura di fenomeni di varia natura. In quanto un con-
cetto eterogeneo, multiforme, il conflitto non può essere ricondotto semplicemen-
te alle tradizionali categorie di guerra e pace, è piuttosto uno strumento per sco-
prire le variegate dicotomie della contemporaneità: il vecchio e il nuovo, il digitale
e l’analogico, la tradizione e l’innovazione.
Il presente volume, quindi, dà spazio alle analisi del fenomeno del conflitto in ot-
tica interdisciplinare e allo stesso tempo lo concepisce in maniera più aperta, che
ci intravede una componente costruttiva: un incrocio di prospettive diverse. Il con-
flitto può essere considerato, dunque, un’opportunità in cui si incontra una pluralità
di punti di vista, attraverso la quale si può arrivare alla risoluzione di controversie.
Gli articoli compresi nella monografia che offriamo ai lettori sono frutto di ri-
cerche degli universitari polacchi e italiani che individuano e esaminano il conflit-
to a modo loro, negli ambiti ben diversi. Seguendo i principali indirizzi dell’analisi,
i testi sono stati raggruppati intorno a tre argomenti dominanti: la lingua, l’inse-
gnamento nonché la letteratura.
8 Kamila Miłkowska–Samul

La prima sezione, dedicata agli studi linguistici, si apre con l’intervento di Elżb-
ieta Jamrozik, che si occupa della riflessione linguistica, osservabile nella stampa
italiana, dei conflitti politici e ideologici relativi allo sviluppo del movimento co-
munista nell’Italia e nella Polonia del dopoguerra e offre un’ampia disamina dell’e-
voluzione della lingua de L’Unità (organo del Partito Comunista Italiano) tra l’au-
tenticità e la fossilizzazione tipica per la propaganda comunista.
Roman Sosnowski, invece, si  concentra sui testi medievali manoscritti, so-
prattutto i volgarizzamenti, e le relazioni conflittuali che si presentano nell’uso del
latino e del volgare, come code–switching o contrasto fra strati dialettali del mano-
scritto. Un altro volto del conflitto viene presentato da Sylwia Skuza, che prende
in esame l’uso, a volte esagerato, degli aggettivi nei testi giornalistici riguardanti
i conflitti. Nel testo di Magdalena Bartkowiak–Lerch si analizza la hegeliana ‘lotta
per il riconoscimento’ tra la lingua di prima e di seconda socializzazione che pren-
de la forma di una continua tensione ai fini identitari. Un simile approccio, rela-
tivo all’identità, appare nel contributo di Anna Grochowska–Ritter, che si occupa
dell’ambito cinematografico e  mette in  risalto le  divergenze regionali e  il modo
in cui vengono rappresentate al livello linguistico e comportamentale nei film della
commedia all’italiana. Maciej Durkiewicz, invece, propone uno studio sulle rela-
zioni conflittuali tra la norma e gli usi linguistici riscontrabili nei blog diaristici che
si possono inquadrare alla luce del ridimensionamento dello standard dell’odierno
italiano medio. Questa parte si chiude con la ricerca di Beata Szpingier, che esa-
mina le metafore militari del campo medico italiano, in particolare la contrappo-
sizione tra sano e malato.
Nella parte dedicata alla tematica glottodidattica ritroviamo cinque studi
che affrontano i problemi dell’insegnamento della lingua italiana. Anna Godzich
si concentra sulle controversie nel trattamento della subordinata oggettiva e delle
proposizioni circostanziali finali e causali nelle grammatiche descrittive italiane.
Aleksandra Kostecka–Szewc mette in rilievo il ruolo delle nuove tecnologie nell’in-
segnamento di lingue straniere e i problemi (ma innanzitutto le nuove opportuni-
tà) ad esse legati. Anche Alicja Paleta nota il potenziale conflitto sull’asse appren-
dente – insegnante – teoria della glottodidattica – materiali didattici ai tempi delle
nuove tecnologie, specialmente per quanto riguarda la multimedialità: idealizzata
a volte dagli utenti e da alcuni studiosi, nonché ignorata talvolta dagli insegnanti
che negano la sua utilità. In simil modo Karolina Wolff si sofferma sull’impiego
degli strumenti digitali nell’insegnamento di lingue straniere e sulla loro efficacia
rispetto ai metodi tradizionali, puntando sul fattore ludico come soluzione al con-
flitto tra vecchio e moderno nel processo didattico. Concludendo la parte inerente
all’insegnamento, Joanna Jarczyńska e Katarzyna Święcicka individuano nel loro
articolo ancora più strati conflittuali (quello legale, organizzativo, metodologico
e ideologico) a cui devono far fronte le persone coinvolte nella didattica, offrendo
eventuali soluzioni ai problemi che sorgono.
Premessa 9

La sezione dedicata alla letteratura italiana raggruppa gli articoli che trattano
opere molto diverse tra di loro, anche diacronicamente, tuttavia è proprio il leit-
motiv del conflitto che permette una loro interessante rilettura. Fabio Boni prende
in esame i testi di Lucrezia Marinelli e Moderata Fonte, due scrittrici vissute a Ve-
nezia a cavallo tra XVI e XVII secolo, che criticano il sistema sociale e la cultura
italiana loro contemporanee e cercano di opporsi alla prepotenza maschile attra-
verso la  letteratura. Raoul Bruni offre un’analisi dell’opuscolo politico di  Curzio
Malaparte, Tecnica del colpo di Stato, in cui tratta principalmente il rapporto tra
la  meccanizzazione (la tecnica del titolo) e  i  conflitti politici, come i  golpe che
avevano caratterizzato l’Europa dei primi decenni del Novecento, sottolineando
l’attualità della riflessione dell’autore. Nel contributo di Luca Palmarini il conflitto
si manifesta, attraverso tre opere letterarie (di Claudio Magris, di Carlo Sgorlon
e di Józef Mackiewicz), nella tragedia cosacca avvenuta durante la seconda guerra
mondiale: il dramma di un popolo alla ricerca di una Patria perduta. Małgorzata
Puto, invece, analizza nei termini del conflitto la narrativa di Giuseppe Culicchia,
dimostrando come questo scrittore, ribelle e critico verso la società postmoderna,
biasima i cambiamenti avvenuti nella città nell’epoca della globalizzazione, soprat-
tutto quelli fondati sul contrasto tra vecchio e nuovo, moderno e tradizionale, pas-
sato e presente, illusione e realtà, globale e locale. Nello studio di Stefano Redaelli,
basato sui testi di  autori come Primo Levi, Italo Calvino, Carlo Emilio Gadda,
Daniele Del Giudice, Piergiorgio Odifreddi, Bruno Arpaia, viene esaminato il rap-
porto tra letteratura e  scienza come espressione di  dialogo e/o conflitto tra due
culture. L’ultimo articolo del tomo è dedicato a Michele Mari e il suo Verderame,
dove Katarzyna Skórska espone il  rapporto conflittuale dell’autore con la  realtà,
delineato attraverso la figura del protagonista adolescente e i suoi problemi con
il mondo circostante.
Indubbiamente, il volume, pur tenendo conto della sua complessità e eteroge-
neità, non esaurisce le potenzialità del conflitto come chiave di lettura dei fenome-
ni di natura linguistica, glottodidattica o letteraria, tuttavia, l’insieme delle ricerche
presentate riesce a confermare la produttività di un’analisi che ruota attorno a un
asse comune. I vari approcci al fenomeno del conflitto proposti dagli Autori dimo-
strano i suoi diversi risvolti: i vari contesti in cui può avere luogo, i rapporti che
riguarda, i fattori che ci intervengono, il conflitto non è, quindi, esclusivamente
una forza distruttrice, ma può essere percepito in termini più positivi, come op-
portunità per nuove interpretazioni e riflessioni.
Parte I. Lingua
Tra emozione e stereotipo: la tragedia politica vista
attraverso la lingua de L’Unità
Elżbieta Jamrozik
Uniwersytet Warszawski, Warszawa

Introduzione

Caratterizzare la lingua di un quotidiano diventa sempre impresa ardua per


la  diversità delle tematiche presentate: fra l’attualità politica ed  economica, fatti
di cronaca e pagine sportive si estende un ampio ventaglio di scelte lessicali e sin-
tattiche che contribuiscono a formare il livello stilistico proprio per ogni tipo di te-
stualità. A maggior ragione tale compito appare difficoltoso se il quotidiano è l’or-
gano del partito politico, dato il rapporto complesso tra fatti – lingua – ideologia
da cui è impossibile fare astrazione1.

1
Gli studi sulla stampa italiana e polacca per l’arco temporale che qui consideriamo, ossia
gli anni 1953–1981, mettono in evidenza, per ovvie ragioni politiche, caratteristiche ben
diverse: se  la stampa italiana del dopoguerra si  libera dalla pesante retorica del venten-
nio e  cerca la  propria fisionomia linguistica, la  stampa in  Polonia, sottomessa al  potere
dell’Unione Sovietica, si vede obbligata ad adoperare una lingua che per molti tratti appare
totalitaria. In conseguenza, allorché gli studiosi italiani (Maurizio Dardano, Il linguaggio
dei giornali Italiani, Bari, Laterza, 1973, Ilaria Bonomi, L’italiano giornalistico. Dall’inizio
del ‘900 ai quotidiani on–line, Firenze, Franco Cesati, 2002) sottolineano la diminuzione
degli usi aulici e letterari della lingua, quelli polacchi (ci limitiamo a citare Jerzy Bral-
czyk, O  języku polskiej propagandy politycznej lat siedemdziesiątych – On the Language
of Polish Political propaganda of the 70s, Uppsala, Almqvist&Wiksell International, 1987,
Michał Głowiński, Nowomowa po polsku, Warszawa, OPEN, 1990, (traduzione italiana:
L. Gebert, Neolingua alla polacca, PLIT 2007, pp. 192–204), tra i primi a descrivere i mec-
canismi di propaganda politica in Polonia) denunciano una lingua messa al servizio della
propaganda, vuota di contenuti, altamente ideologizzata e palesemente persuasiva, pregna
di  scelte assiologiche imposte al  lettore (bene: male; giusto: errato, amico: nemico) che
si riflettono a livello lessicale specie nelle scelte di termini altamente prevedibili e concate-
nazioni di parole che diventano quasi fisse e ripetitive.
14 Elżbieta Jamrozik

Lo scopo della disamina che qui proponiamo è seguire l’evoluzione della lingua
dell’organo del PCI, L’Unità, prendendo come punti di riferimento quattro avve-
nimenti svoltisi nell’arco di quasi trent’anni: i primi sono la morte di due dirigenti
comunisti – Josef Stalin (5 marzo 1953) e Palmiro Togliatti (22 agosto 1964) – che
verranno ricordati e compianti come due eminenti politici, benché, come si vedrà,
in modo diverso. Gli altri due fatti riguardano la Polonia, quindi rientrano nella
categoria ‘notizie dall’estero’. Sono eventi in un certo senso scomodi per il partito
comunista, in quanto vanno all’incontro dell’immagine idealizzata delle relazioni
tra stato socialista e popolo di cui quest’ultimo si considera l’emanazione: infatti
sia la protesta operaia di Poznań del giugno 1956, sia il colpo di stato del generale
Jaruzelski che il 13 dicembre 1981 mise brutalmente fine alla vasta opposizione
del popolo polacco incarnata dal sindacato Solidarność costituiscono l’immagine
di un conflitto esploso tra il popolo ed i dirigenti che si dicevano “figli” del medesi-
mo. Dal materiale linguistico raccolto da L’Unità si profila l’evoluzione della lingua
tra gli anni dello stalinismo e i decenni successivi; ciò non stupisce, dato che l’Ita-
lia rimane un paese democratico, seppur travagliato in quegli anni da altrettanto
gravi problemi interni ed esterni2. In questo contesto alquanto complesso si pone
la domanda se, e in quale misura, la lingua dell’organo del PCI abbia subito gli stes-
si influssi ideologici che rendevano pressappoco illeggibile la stampa quotidiana
nei paesi del blocco dell’Est. Infatti i quotidiani polacchi, specie l’organo del partito
Trybuna Ludu, hanno messo in atto un complesso meccanismo di persuasione re-
alizzata attraverso un ventaglio di procedimenti retorici: esaltazione smisurata dei
valori e della qualità della vita, in ovvio contrasto con la realtà dei paesi del socia-
lismo reale; glorificazione dell’onniscienza dell’apparato dirigente del partito, che
per definizione segue sempre la via giusta e non sbaglia mai; elogio dell’amicizia
solida e incondizionata tra paesi e partiti fratelli saldamente uniti contro il nemi-
co comune. A questo scopo propagandistico è stata asservita la lingua che, lungi
dall’essere l’espressione flessibile del pensiero che vola, è diventata veicolo di ste-
reotipi e clichés, di formule consacrate che ricreano un mondo altrettanto utopico
che fossilizzato nella sua irrealtà. Queste caratteristiche, considerate comuni per
i linguaggi totalitari3 e studiate in Italia nel contesto della lingua del periodo mus-

2
Si consideri che l’arco temporale qui considerato abbraccia sia la  guerra del Vietnam
e il movimento di protesta del 1968 che il successivo periodo degli anni di piombo.
3
Oltre alle opere ormai classiche di Victor Klemperer, Lingua Tertii Imperii. Notizbuch eines
Philologen, Leipzig, Reclam–Verlag 1972 (traduzione polacca con commenti di M. Stroińska,
Toronto, Polski Fundusz Wydawniczy w  Kanadzie, 1992) e  Jean–Pierre Faye, Langages
totalitaires, Paris, Hermann 1972, ambedue basate sul totalitarismo in  Germania, occorre
citare anche Cecylia Jarmuła, Die Indoktronation durch Sprache am Beispiel der Lehrwer-
ke der Nazi– und der DDR–Zeit, Dresden–Wrocław, Neisse Verlag, 2009 nonché lo studio
di Françoise Thom, La langue de bois, Paris, Juillard, 1987 sulla langue de bois.
Tra emozione e stereotipo: la tragedia politica vista attraverso la lingua de L’Unità 15

soliniano, in Polonia sono state indagate e descritte appieno all’inizio degli anni
’90, dopo i cambiamenti politici del 1989.
Ci siamo proposti di verificare se la lingua de L’Unità fosse in qualche misura
contaminata da  questa caratteristica; nel dubbio – proprio perché il  quotidiano
veniva pubblicato in un paese democratico dove i membri del partito non erano
sottoposti a un permanente lavaggio del cervello e avevano la possibilità di espri-
mersi liberamente – abbiamo pensato mettere a confronto le relazioni successive
alla scomparsa di Stalin, eroe lontano e astratto di un paese altrettanto distante,
con quelle che hanno seguito dieci anni dopo la morte del figlio del popolo italiano
Palmiro Togliatti. Un intento analogo ha dettato la scelta di altri due eventi sotto-
posti all’esame: il primo, la protesta operaia polacca repressa nel sangue nel giugno
1956, ha avuto luogo a soli tre anni dopo la scomparsa di Stalin. In quest’epoca
di guerra fredda, nell’ottica comunista le proteste operaie erano indirizzate contro
le sanguisughe del capitalismo: abbiamo voluto esaminare in quale modo l’organo
ufficiale del partito comunista di un paese democratico ha relazionato la repres-
sione di  scioperi operai rivolti contro un  governo tutt’altro che capitalista, anzi
emanato dal partito che si diceva operaio. L’espediente ideologico è tuttavia preve-
dibile e sfocia nella soluzione propagandistica che pone alla base del sollevamento
operaio le macchinazioni dei nemici del popolo. L’ultimo avvenimento qui studia-
to riguarda avvenimenti storici troppo noti e di un rilievo internazionale troppo
importante per essere alterati secondo una prospettiva ideologica semplicistica:
sarebbe infatti difficile credere che un  sindacato di  10 milioni di  aderenti fosse
manipolato dai nemici del popolo polacco. Inoltre Solidarność e il suo leader go-
devano sin dall’inizio di grande simpatia e appoggio presso la sinistra italiana, che
si è immediatamente schierata contro le autorità di repressione militare.

Le caratteristiche della neolingua

I meccanismi della lingua del regime, dell’espressione propagandistica, del po-


tere delle parole, che siano di destra o di sinistra, sono stati ormai ampiamente
studiati in vari paesi4. Questo lavoro prende spunto da uno dei saggi del lingui-
sta polacco M. Głowiński che, scritti tra il 1978 e 1988, circolavano tra dissidenti

4
Cfr. i testi classici citati sopra: per la Polonia Bralczyk, O języku polskiej propagandy, cit.; Je-
rzy Bralczyk, O języku propagandy i polityki, Warszawa, Trio, 2007; Głowiński, Nowomowa
po polsku, cit.; Michał Głowiński, Mowa i zło, Lublin KUL, 1992; Michał Głowiński,
Mowa w stanie oblężenia, Warszawa, OPEN, 1996; anche Janusz Barański, Socjotechnika
między magią a analogią, Kraków, Wydawnictwo Uniwersytetu Jagiellońskiego, 2001, per l’I-
talia Sergio Raffaelli, Le parole proibite. Purismo di Stato e regolamentazione della pubbli-
cità in Italia, Bologna, Il Mulino, 1983 e Francesca Santulli, Le parole del potere, il potere
delle parole. Retorica e discorso politico, Pavia, Franco Angeli, 2005.
16 Elżbieta Jamrozik

ed intellettuali in edizioni samizdat prima di poter essere pubblicati ufficialmente


nel 1990. Głowiński ha  messo in  evidenza alcune caratteristiche spiccanti della
lingua del partito comunista polacco: la  rigidità delle strutture, l’alta frequenza
di  espressioni fisse, facilmente memorizzabili e  pertanto particolarmente adatte
a plasmare la mente dei lettori, la fossilizzazione e la ripetitività delle immagini.
Il pericolo insito negli usi di questo sistema linguistico riguarda non solo una vi-
sione distorta della realtà, falsata dall’ottica ritenuta “unica giusta”; il rischio più
grave consiste nell’implementare nella mente degli utenti una griglia interpretati-
va del mondo con un sistema di valori tutto pronto e incontestabile. Riportiamo
la  sua definizione del concetto di  “neolingua” racchiusa in  apertura del celebre
testo Nowomowa po polsku5.

La neolingua è la lingua comune del blocco comunista, le sue regole di-
pendono in minima parte dalle peculiarità di una data lingua etnica e dalle
concrete circostanze storiche in cui si trova a funzionare. La versione sovietica
della neolingua gioca il ruolo di pioniera, è il modello e la fornitrice di innu-
merevoli cliché, stereotipi, formule obbligatorie o addirittura consacrate, che
vengono in un modo o nell’altro assimilate e imitate. Nelle neolingue locali
molti elementi sono d’importazione, tuttavia solo nel periodo staliniano non
si differenziavano quasi per niente dalla forma canonica. Negli ultimi decen-
ni subiscono delle differenziazioni caratteristiche, sebbene nessuna delle ver-
sioni metta in discussione ciò che per la neolingua è la cosa più importante:
la totale sottomissione alla lingua del potere monopartitico. (…) Le differen-
ziazioni sono però importanti e interessanti, poiché permettono di rivolgere
l’attenzione a meccanismi e a proprietà del fenomeno che potrebbero restare
inosservati se si prendesse in considerazione soltanto la versione sovietica.
La neolingua non si limita a ciò che è di sua diretta competenza, ma in-
vade altre maniere di parlare, altri stili sociali, mira alla loro eliminazione (...)
Il suo funzionamento è quindi duplice: non è solo ciò che è, ma deve costi-
tuire per il parlante una griglia di base che delimita la sfera delle sue attività
linguistiche (p. 189).

Si potrebbe presumere, seguendo l’autore, che questo tipo di codice sia comu-
ne per l’insieme della comunicazione dei partiti comunisti. Tuttavia, considerando
che nell’arco temporale considerato in  Italia il  PCI era un  partito tra altri, così
come L’Unità un quotidiano tra altri, ci siamo proposti di verificare se, e in quale
misura, il concetto di neolingua si potesse applicare alla lingua della stampa di un
paese democratico. Studiando i procedimenti linguistici messi in opera negli ar-
ticoli de  L’Unità dedicati agli avvenimenti citati, ne  abbiamo rilevato gli aspetti
d’importazione sovietica, ma abbiamo cercato più che altro di evidenziare i mo-

5
La traduzione italiana Neolingua alla polacca ad opera di L. Gebert è stata pubblicata nella
rivista PLIT 2007, pp. 192–204.
Tra emozione e stereotipo: la tragedia politica vista attraverso la lingua de L’Unità 17

menti in cui la relazione del quotidiano italiano si allontana da questo modello per
staccarsene finalmente in modo totale.

La metodologia

La metodologia qui adottata si avvale dello studio dei contesti distribuziona-


li nella prospettiva computazionale seguita da  Lenci e  Baroni6 e  in parte quella
logometrica degli studiosi francesi7. Riprendendo i  contesti distribuzionali più
frequenti nei frammenti di  testi analizzati ci  si propone di  rilevare gli usi degli
elementi lessicali considerati più pertinenti e rappresentativi per la tematica.
Il concetto di  distribuzione e  l’approccio distribuzionale alla lingua, estesosi
nel quadro dello strutturalismo bloomfieldiano con i  successivi sviluppi dovuti
a  Zellig Harris8, al  quale risale l’ipotesi che due parole sono tanto più semanti-
camente simili quanto più frequentemente appaiono in contesti linguistici simili,
venne ripreso al momento in cui la linguistica ha ricevuto uno strumento di ana-
lisi potente fornito dall’informatica: i  corpora linguistici, a  prescindere dal loro
volume, si prestano particolarmente bene a questo tipo di analisi, saldata peraltro
da risultati felici.
La metodologia di  analisi lessicale basata sull’esame delle co–occorrenze
si  è  sviluppata inoltre presso la  scuola britannica di  linguistica contestuale, con
i primi lavori di John Firth9 ed i successivi approfondimenti di Michael Halliday
e di John Sinclair10; è a Firth in particolare che si deve il termine di collocazione,
inteso come contesto altamente prevedibile di apparizione di un lessema11. Questa

6
Si vedano Marco Baroni – Alessandro Lenci, Distributional Memory: A  General
Framework for Corpus–Based Semantics, in  «Computational Linguistics», vol. 36:4, 2010,
pp. 673–721; Marco Baroni – Alessandro Lenci, How we BLESSed distributional se-
mantic evaluation, Proceedings of the GEMS 2011 Workshop on Geometrical Models of Natu-
ral Language Semantics, EMNLP 2011, Edinburgh, Scotland, pp. 1–10; Alessandro Lenci,
Modelli distribuzionali del lessico. Modelli computazionali per l’analisi semantica, in «Infor-
matica Umanistica», 3: 2010, pp. 57–69.
7
Si vedano le analisi logometriche proposte da Damon Mayaffre, Analyse du discours poli-
tique et Logométrie: point de vue pratique et théorique, in «Langage et Société», Maison des
Sciences de l’Homme, 2005: 114, pp. 91–121 per i discorsi di Sarkozy.
8
Zellig Harris, Mathematical Structure of Language, New York, John Wiley, 1968.
9
John Rupert Firth, Papers in Linguistics, London, Oxford University Press, 1957.
10
John Sinclair, Corpus, Concordance, Collocation, Oxford, Oxford University Press, 1991.
11
Firth, Papers in Linguistics, cit., pp. 11–12: «The habitual collocations in which words un-
der study appear are quite simply the mere word accompaniment, the other word material
in which they are most commonly or most characteristically embedded (…) The colloca-
tion of a word or a ‘piece’ is not to be regarded as mere juxtaposition, it is an order of mu-
tual expectancy. The words are mutually expectant and mutually prehended».
18 Elżbieta Jamrozik

metodologia fu, ed è tuttora, ampiamente sfruttata nel corso dell’analisi dei corpo-
ra12: In Italia, sono frutto dell’approccio distribuzionale al lessico le recenti opere
lessicografiche dedicate alla combinatoria lessicale13. Varie ricerche svolte nel qua-
dro della semantica distribuzionale si avvalgono dei metodi di analisi computazio-
nale per stabilire le distribuzioni delle parole estratte da corpora lessicali14. L’ana-
lisi delle co–occorrenze lessicali costituisce una base solida, poiché documentata
da materiale linguistico tratto dai corpora, per le riflessioni semantiche riguardanti
le relazioni lessicali, l’accettabilità dei costrutti, nonché la rappresentazione del si-
gnificato del lessema di cui si studiano le concordanze. In questa ottica, la chiave
fondamentale per l’analisi semantica viene data dalla ricostruzione dei rapporti
sintagmatici che intercorrono tra i lessemi usati in praesentia in un dato contesto.
Un’ulteriore fonte metodologica di cui ci si avvale è la teoria dell’immagine lin-
guistica del mondo nella versione sviluppata in Polonia da J. Bartmiński15, proprio
a scopo di analisi dei testi assiologicizzati della fine del Novecento. Attribuendo
alla lingua un  ruolo attivo nel processo cognitivo, gli autori che rappresentano
questa corrente di pensiero stabiliscono una relazione tra scelte lessicali e perce-
zione dell’oggetto denotato.
Avvalendoci degli approcci citati cercheremo di mostrare, sul corpus del ma-
teriale lessicale fornito da L’Unità, le concatenazioni di forme lessicali proprie per
i testi considerati che diventano caratteristiche, per la loro ripetitività, del modo
di  presentare gli avvenimenti trattati. Ne consegue inoltre un  effetto collaterale
a livello della percezione linguistica da parte dell’utente–lettore: più alta è la fre-
quenza di co–occorrenze tra medesime unità lessicali, più fossilizzata e stereoti-
pata appare la lingua, percepita non più come un codice comunicativo vivo, bensì
come langue de bois, neolingua.

12
Occorre segnalare il  contributo di  J. Sinclair al  progetto Cobuild (Collins Birmingham
University International Language Database) che riguardava la  costituzione di  un largo
corpus di dati e di cui frutto è il The Colllins COBUILD English Language Dictionary.
13
Paola Tiberii, Dizionario delle collocazioni, Bologna, Zanichelli, 2012; Vincenzo Lo Ca-
scio, Dizionario combinatorio compatto italiano, John Benjamins Publishing Company,
Amsterdam/Philadelphia, 2012.
14
Si vedano Marco Baroni – Alessandro Lenci, Distributional Memory, cit.; Marco
Baroni – Alessandro Lenci, How we BLESSed distributional semantic evaluation, cit.;
Alessandro Lenci, Modelli distribuzionali del lessico, cit.
15
Ci limitiamo a ricordare i volumi: Podstawy metodologiczne semantyki współczesnej, a cura
di Iwona Nowakowska–Kempna, Język a Kultura, vol. 8, Wrocław, 1992 e Jerzy Bart-
miński, Językowe podstawy obrazu świata, Wydawnictwo UMCS, Lublin, 20016, in  cui
il lettore troverà riferimento ad altri testi rappresentativi per questo indirizzo linguistico.
Tra emozione e stereotipo: la tragedia politica vista attraverso la lingua de L’Unità 19

Il corpus

Fonte del corpus è l’archivio de L’Unità accessibile al sito www. archivio.unita.


it. Per i quattro avvenimenti che qui interessano sono stati considerati i numeri del
quotidiano scelti secondo i criteri seguenti:
1. Per la morte di Stalin e di Togliatti sono stati spogliati i numeri da quello di un
giorno precedente il  decesso, dove viene annunciato lo  stato grave del diri-
gente, al giorno del funerale, il che corrisponde per Stalin ai numeri editi tra
il 5 e il 10 marzo 1953 (6 numeri) e per Togliatti, ai giorni 21–26 agosto 1964
(6 numeri). I frammenti rilevati corrispondono a un totale di 30 pagine per
Stalin e di 61 pagine per Togliatti: tale rapporto quantitativo tra i due sottocor-
pora è di per sé significativo;
2. Per gli scioperi operai di Poznań del 1956 sono stati considerati i numeri del
quotidiano in cui l’avvenimento appariva in prima pagina (sviluppato succes-
sivamente), il che corrisponde ai giorni dal 29 giugno al 3 agosto (5 giorni),
con un totale di 10 pagine;
3. Per il  colpo di  stato del 13 dicembre 1981, abbiamo limitato lo  spoglio alla
settimana dal 14 al 20 dicembre (7 giorni) con un totale di 23 pagine.
Occorre notare tuttavia che gli avvenimenti polacchi, ad eccezione del numero
del 14 dicembre 1981, non occupano la  pagina intera del quotidiano, come nel
caso del decesso dei due dirigenti, bensì coesistono con altre informazioni di po-
litica interna ed estera.

Lo spoglio e l’analisi dei dati

Accessibili in formato pdf, i dati sono stati successivamente trascritti e sottopo-


sti all’analisi lessicale con lo scopo di rilevare le seguenti caratteristiche:
– La presenza di strutture fisse di tipo N – AGG, AGG – N, specie con aggettivi
assiologici;
– Le combinazioni verbali: in particolare i verbi che appaiono nel contesto dei
nomi dei dirigenti (Stalin, Togliatti) e dei sostantivi che designano i protagoni-
sti dei movimenti di protesta in Polonia;
– La presenza di nomi e di aggettivi assiologicamente pregni: libertà, popolo, pro-
gresso, reazionario;
– I contesti in cui compaiono i nomi dei dirigenti.
Per l’analisi delle collocazioni e delle frequenze lessicali ci siamo parzialmente
avvalsi del programma di analisi AntCong, accessibile on–line.
20 Elżbieta Jamrozik

STALIN

Le parole–chiave che si riscontrano nel contesto del nome “Stalin”, a comin-


ciare dai sostantivi in apposizione ne evidenziano il ruolo di prestigio (dirigente,
conduttore, maestro, capo) e indicano gli scopi a cui mira la sua gloriosa attività
(pace, vittoria, lotta, progresso). I verbi indicano le azioni che si devono intrapren-
dere in  vista di  ottenere tali mete: Stalin guida, dirige, edifica, costruisce indica,
interviene. Tra gli aggettivi spicca per frequenza grande, ma anche geniale, lumino-
so, inspirato, eroico, instancabile infaticabile, e quindi immortale. L’aggettivo appare
spesso in forma del superlativo relativo: il più grande in contesto dei nomi come
capo, genio, difensore. Il capo del partito sovietico si profila come:

Capo dei lavoratori di tutto il mondo,


Difensore della pace,
Costruttore della società comunista,
Capo amato dei popoli dell‘Unione Sovietica e  dei lavoratori di  tutto
il mondo,
...il più grande assertore della pace e dell’amicizia fra i popoli,
...il genio di Stalin, campione della pace,
Stalin, instancabile difensore del marxismo contro ogni deformazione
e caricatura scolastica,
Il nome di Stalin è indissolubilmente legato alla lotta che l’Unione Sovie-
tica ha condotto, sin dal suo nascere, in difesa della pace nel mondo,
L’opera di Stalin continua a illuminare la lotta della classe operaia italia-
na e di tutti i cittadini onesti per la difesa delle libertà democratiche, contro
l’oscurantismo clericale e l’imperialismo16.

Una funzione semantica particolare, come risulta dai frammenti citati, spetta
anche all’espressione linguistica della quantificazione generale: tutto/tutti, ogni.
L’aggettivo in funzione elativa accompagna regolarmente non solo il nome del
protagonista Stalin, ma anche qualifica le sue opere, ponendosi alla base di espres-
sioni ad alta frequenza che, nella retorica del partito, si fossilizzano, in modo che
il  nome non riesca più a  funzionare senza tale determinante: si  possono citare
come esempio le seguenti concatenazioni: piano grandioso, esempio luminoso, svi-
luppo incessante/costante, marcia gloriosa, eroico cammino, strada giusta, via sicu-
ra, benessere umano, causa comunista, libertà democratiche. Riferendosi alle opere
16
Anche le figure retoriche, come quelle contenute in questo breve frammento, sono rivela-
trici dello stile del partito: personificazione (l’opera illumina), l’antitesi (illuminare vs oscu-
rantismo).
Tra emozione e stereotipo: la tragedia politica vista attraverso la lingua de L’Unità 21

e  progetti di  Stalin esse funzionano come qualificazioni di  secondo grado, con-
tribuendo a creare l’immagine del dirigente che non si stanca di dare all’umanità
intera pace e benessere crescente, come risulta dagli esempi citati:

Stalin interveniva con tre scritti che permettevano di rimettere sulla giu-
sta strada gli scienziati sovietici,
... indica all’umanità la via sicura per intervenire nella realtà a costruire
una società libera dallo sfruttamento, aperta a tutte le strade del benessere
umano, della pace e del progresso scientifico,
...ha guidato il popolo sovietico ad una vittoria del Socialismo,
...ha guidato il Popolo alla vittoria sul fascismo,
...ha armato il Partito e tutto il popolo di un grande e luminoso program-
ma per l‘edificazione del comunismo,
...ha dedicato tutta la sua vita a servire disinteressatamente la causa co-
munista.

Di conseguenza, la  notizia della morte del dirigente sovietico viene accolta
con dolore che il quotidiano relaziona in passaggi in cui non riesce ad allontanarsi
dalla retorica del partito:

... era continuato per tutta la giornata il plebiscito di affetto e di devozio-
ne verso il più grande assertore della pace e dell’amicizia fra i popoli,
Grande plebiscito di affetto che ha circondato la vita del compagno Stalin,
... sono pervenuti da ogni parte i messaggi che testimoniano quanto va-
sta e quanto profonda sia stata l’ondata di emozione che ha investito il nostro
Paese all’annuncio della grave malattia che ha colpito il compagno Giuseppe
Stalin e quanto grande sia stata la speranza, viva nel nostro popolo, che egli
fosse stato ancora a lungo conservato alla causa, cui la Sua vita prodigiosa
è stata dedicata La speranza, purtroppo, non è stata confortata.

Tuttavia, vengono citate anche autentiche manifestazioni del lutto, con imma-
gini che vanno al  cuore dei compagni italiani e  testimonianze dirette delle loro
reazioni:

Episodi commoventi, che testimoniano quanto il  nostro popolo sia


in  questo momento vicino ai  popoli sovietici, si  sono verificati in  decine
di luoghi diversi, in modo diverso...,
In numerose città i  bar hanno dovuto installare altoparlanti per dar
modo alla gente di  ascoltare le  notizie del giornale–radio o  le trasmissioni
di “Oggi in Italia”,
22 Elżbieta Jamrozik

La seconda edizione dell‘Unità, giunta dopo mezzogiorno, è rapidamen-


te scomparsa dalle edicole.

E siccome in un paese democratico sono lecite anche altre opinioni che quelle
dettate del partito, in segno di lutto persino gli esercenti cinematografici hanno riti-
rato la programmazione di film antisovietici.
I frammenti riportati sopra, redatti in  una lingua priva delle caratteristiche
della langue de bois del partito, coesistono con quelli in cui riappaiono le strutture
lessicali fisse, che riprendono i soliti aggettivi e avverbi combinandoli in sintagmi
altamente prevedibili:

Centinaia di lavoratori avevano recato all’Abbasciata sovietica la testimo-


nianza del dolore che unisce la cittadinanza romana al popolo sovietico così
duramente colpito dalla grave sciagura.

Infatti, come risulta dai sopracitati studi di M. Głowiński17, è l’aggettivo che
contribuisce in  gran parte alla formazione della neolingua della stampa dei pa-
esi del blocco, dato che esso costituisce l’elemento più prevedibile, più generico
e quindi meno carico di significato, contribuendo a creare espressioni che si fissa-
no in veri e propri clichés lessicali:

il grandioso piano staliniano di trasformazione della natura,


Uno sviluppo incessante della pacifica società socialista in marcia,
L’eroico cammino alla testa del popolo.

Anche gli avverbi, specie derivati dagli aggettivi di cui sopra, entrano in strut-
ture altrettanto fisse:

Ha portato vittoriosamente a termine il IV piano quinquennale,


Stalin ha difeso instancabilmente l’idea del marxismo contro le tendenze
reazionarie,
Il nome di Stalin è infinitamente caro al nostro Partito.

I sostantivi in apposizione si ritrovano raramente privi di aggettivo, come se,


riportando il pensiero di Głowiński, l’utente avesse paura di non essere abbastan-
za prolifico nella glorificazione dell’opera grandiosa dell’immortale capo del popo-
lo sovietico nella sua marcia incessante verso il progresso luminoso. Effettivamente,
dall’analisi da noi svolta risulta che il nome “Stalin” raramente compare non ac-
compagnato da determinante: nel 86% dei casi gli viene unito un aggettivo o un
17
Głowiński, Nowomowa po polsku, cit.
Tra emozione e stereotipo: la tragedia politica vista attraverso la lingua de L’Unità 23

sintagma preposizionale complemento di  specificazione con valore elativo: con


particolare frequenza ricorrono gli aggettivi grande, immortale. Si potrà suppor-
re invece che tali procedimenti si affievoliranno (senza sparire del tutto) nei testi
il cui protagonista è Palmiro Togliatti.

TOGLIATTI

In associazione al nome di Palmiro Togliatti, primo segretario del PCI, com-


paiono dei determinanti nominali che ricoprono in parte gli attributi del dirigente
sovietico (dirigente, maestro, capo, rappresentante, protagonista), nonché dei so-
stantivi che costituiscono il contesto di riferimento alla sua attività (comunismo,
socialismo, lotta, fascismo classe operaia); tuttavia i  determinanti in  parte diver-
gono, formando un’immagine diversa del dirigente considerato amico, amico del
popolo e italiano:

scompare un grande figlio del popolo italiano,


rappresentante del popolo,
capo della classe operaia italiana,
grande protagonista di 40 anni di storia del nostro paese,
uno dei massimi protagonisti della lotta contro il fascismo,
grande combattente per la causa del comunismo,
La sua statura internazionale di dirigente fece di lui un combattente per
l’unità di tutto il movimento comunista.

Tale ritratto del capo di partito italiano si riafferma negli articoli successivi alla
sua morte:

Gli operai, i contadini, gli intellettuali e i giovani italiani hanno perduto


con lui il loro migliore amico,
Egli è rimpianto oggi dalle masse innumerevoli di lavoratori e di uomini
semplici, che amò e che lo hanno profondamente riamato,
Con lui l’Italia e il movimento operaio internazionale perdono un gran-
de Italiano e un grande dirigente, perdono un eminente scienziato e maestro
del proletariato contemporaneo, di tutto il mondo civile.

Dai frammenti citati si profila un’immagine diversa dei due capi del partito:
la grandezza di Stalin viene presentata come lontana e astratta, mentre Togliatti
è figlio del popolo italiano, vicino al popolo che amò, dal quale fu amato e viene
24 Elżbieta Jamrozik

compianto (il concetto di amore, così frequente del contesto di Togliatti, è pratica-
mente assente nei testi dedicati a Stalin).
L’opera di Togliatti, pur contenendo il riferimento alle azioni di lottare, vince-
re (generalmente nel contesto del sostantivo fascismo), viene presentata in modo
meno aggressivo rispetto a quella di Stalin, attraverso scelte lessicali più ponderate
sia a livello dei verbi (sapere, dare, sancire, garantire, insegnare) che a livello dei
sostantivi: i concetti astratti (libertà, uguaglianza) vengono sostituiti da riferimenti
a persone (società di liberi e eguali):

...seppe dare al popolo italiano un nuovo Partito rivoluzionario,


Fu tra degli artefici della Costituzione che ha sancito le libertà conqui-
state dalla Resistenza,
Ha dato vita, slancio, vigore irrepetibile al grande movimento di unità
anti–fascista,
Palmiro Togliatti ci  ha indicato la  strada da  percorrere per condurre
la  classe operaia e  il movimento popolare e  democratico all’instaurazione
di una società di liberi e di eguali. Egli ci insegnò una convinta e illuminata
fiducia nella ragione, nella logica delle leggi storiche.

Come risulta dalle collocazioni riportate, la fraseologia impiegata per qualifi-


care Togliatti e la sua opera riprende solo parzialmente quella che definiva Stalin;
ne emergono anche dei sentimenti (amico del popolo, compianto amico, amato dal
popolo) e l’appartenenza non solo al medesimo partito internazionale, bensì alla
medesima nazione: grande italiano, figlio del popolo italiano. Queste scelte lessicali
contribuiscono a formare una rappresentazione più affettuosa, più cordiale e per-
tanto molto più umana del dirigente italiano.
L’immagine di Togliatti – amico amato, uno di noi – viene rafforzata dalle com-
binazioni lessicali, delle quali si avvalgono i giornalisti relazionando le manifesta-
zioni di dolore che seguono la scomparsa del capo del partito:

La commozione è generale,
Ovunque sono esposte le bandiere abbrunate. Centinaia e migliaia di cit-
tadini appongono la loro firma sui registri esposti presso le sedi del PCI,
Sui muri campeggiano grandi giornali murali con l’effige di Togliatti li-
stata a lutto,
Una folla di cittadini sosta davanti alla sede del PCI,
Subito dopo l’annuncio della morte di Togliatti alcuni piccoli imprendi-
tori hanno chiuso le fabbriche in segno di lutto.
Tra emozione e stereotipo: la tragedia politica vista attraverso la lingua de L’Unità 25

Le testimonianze dirette dei cittadini riportate dal quotidiano, formulate


in una lingua semplice e pertanto autentica, non alterata dalla retorica del partito,
contribuiscono a rafforzare l’immagine di Togliatti amico degli italiani: lo si vede
attraverso espedienti linguistici quali le citazioni di testimonianze dirette, l’uso del
discorso indiretto libero, il ricorso alla 2. persona:

Molti hanno pianto. È un grande dolore, come se avessimo perso uno
della nostra famiglia... (...) Togliatti non era più con noi, hanno ripetuto
in molti — soprattutto donne, operaie, casalinghe, persone semplici, di quei
quartieri popolari che circondano la città.
In pochi minuti migliaia di  persone, comunisti, simpatizzanti, apoliti-
ci, avversari anche, hanno firmato i registri delle condoglianze: molti di essi
hanno voluto esprimere, con poche parole, tutti i loro sentimenti: Togliatti,
ci mancherai, ma rimane la tua opera.., Grazie ai tuoi insegnamenti, il partito
andrà ancora e sempre più avanti...
Era affabile, profondamente umano: non metteva per niente soggezione,
racconta un ragazzo ad un gruppetto di amici.

Il quotidiano instaura in questo modo un rapporto particolare tra il popolo,


rappresentato da persone semplici ed il dirigente comunista scomparso: che la clas-
sica retorica del partito ceda il posto a una lingua autentica, priva di clichés e ste-
reotipi, è l’esempio palese della commozione e dei sentimenti della redazione del
quotidiano.

POZNAŃ ’56

La rivolta operaia che ebbe luogo a Poznań in giugno del 1956, così come i tra-
gici avvenimenti in Ungheria gettarono nello sgomento i partiti comunisti dell’Eu-
ropa occidentale. Difatti né i dirigenti, né a maggior ragione i semplici membri
del partito riuscivano a capire che l’apparato del partito comunista polacco abbia
potuto lanciare contro gli operai le forze militari del regime, che abbia represso
nel sangue le proteste del popolo. Nelle relazioni che L’Unità dà di queste giornate
si possono delimitare tre periodi ai quali corrispondono tre tipi di relazioni.
In un primo tempo, in assenza di altre notizie o relazioni dei propri corrispon-
denti, il quotidiano riporta testualmente il comunicato diffuso dalle autorità po-
lacche. Il governo di uno stato che si denominava Repubblica Popolare di Polonia,
formato dai membri del Partito Operaio Polacco, colto di sprovvista dagli avveni-
menti, è ricorso all’unica soluzione possibile nella sua ottica, quella di chiamare
in causa il “nemico esterno”: agenti imperialisti, provocatori e nemici del popolo
che hanno trascinato il popolo suo malgrado. E così il 29 giugno L’Unità informa:
26 Elżbieta Jamrozik

A Poznan si sono verificati oggi gravi, sanguinosi episodi. In proposito,


il governo popolare ha emanato questa sera il seguente comunicato18:
Gravi disordini si sono verificati oggi nella città di Poznan. Da qualche
tempo agenti imperialisti e  elementi clandestini reazionari hanno cerca-
to di  sfruttare le  difficoltà economiche e  le lagnanze in  alcuni stabilimenti
di Poznan per provocare agitazioni contro il potere popolare. Gli agenti ne-
mici sono riusciti oggi a provocare disordini nelle strade. Certi edifici pubbli-
ci sono stati attaccati e ciò ha causato vittime.

La repressione armata alla quale ricorre il  governo viene riportata in  modo
eufemistico, senza che vengano nominate le forze armate o la milizia (che diventa
la parte responsabile della classe lavoratrice) né venga riportata la brutalità della
repressione:

Facendo leva sulla parte responsabile della classe lavoratrice, le autorità


hanno padroneggiato la situazione e restaurato l’ordine nella città. Coloro che
si sono resi responsabili dei disordini, i quali recano l’impronta di un’azione
provocatoria e diversionista su larga scala e accuratamente preparata, verran-
no puniti con la massima severità; si rende necessaria la speciale vigilanza
di tutta la classe lavoratrice e di tutte le forze patriottiche del paese di fronte
ad ogni tentativo di agitazioni antistatali ispirato dai nemici della Polonia. La
provocazione è stata inscenata da nemici del nostro paese in un momento
in cui la maggiore preoccupazione del partito e del governo è quella di elimi-
nare le lagnanze della classe lavoratrice.

Occorre rilevare il cinismo del frammento citato, in quanto lo stesso governo


che reprime le proteste operaie si attribuisce la massima attenzione nei confronti
delle lagnanze della classe lavoratrice.
L’indomani (30 giugno) il quotidiano riassume la situazione nel titolo: Fallito
l’attacco dei nemici19 della distensione e  della Polonia socialista, tranquillizzando
subito il lettore: La situazione è normale in tutta la Polonia. Regolari comunicazioni
telefoniche e ferroviarie con l’estero. Nel corpo dell’articolo L’Unità riporta di nuovo
le informazioni diramate attraverso il comunicato ufficiale dell’agenzia di stampa
polacca PAP, ma sotto la forma di una parafrasi, il che permette di evitare i clichés
e  le espressioni fatte, poco comprensibili e  insopportabili per il  lettore italiano.
L’organo del partito italiano cerca di spiegare i fatti in modo possibilmente chiaro:
rivendicazioni salariali, disordini per le strade e violenze da parte della folla ren-
dono in apparenza giustificata l’intervento della polizia:

18
Il frammento successivo è una citazione testuale del comunicato emesso dal governo polac-
co. L’Unità si toglie in questo modo la responsabilità sia per la forma che per il contenuto
di questo passaggio.
19
Si preannuncia in questo modo al lettore l’interpretazione immediata dei fatti.
Tra emozione e stereotipo: la tragedia politica vista attraverso la lingua de L’Unità 27

Da alcuni giorni a questa parte, le maestranze delle officine ZISPO e di


altre fabbriche di Poznan erano in agitazione per rivendicazioni salariali la cui
giustezza era stata già riconosciuta dalle autorità governative (...) una folla di al-
cune migliaia di persone prendeva a sfilare per le vie lanciando grida contro
lo Stato popolare. Alcuni autobus venivano rovesciati o incendiati. La folla at-
taccava diversi edifici pubblici, come la sede della radio e del Partito operaio
unificato, la  prigione cittadina, la  caserma della polizia popolare. (...) Prima
del tramonto, l’intervento della polizia aveva riportato la calma in tutta la città.

La neolingua con i suoi clichés riappare invece laddove il quotidiano polacco


viene citato, non parafrasato; si confronti con il passaggio successivo:

Gli agenti dell’imperialismo – prosegue il giornale – hanno scelto pro-


prio questo momento per organizzare questi moti a scopo provocatorio. (...)
La calma a Poznan è stata ristabilita grazie all’appoggio della parte più co-
sciente della classe operaia. Il partito ed il governo, il paese intero, non ab-
bandoneranno la strada che hanno intrapresa. Non mancheranno di appro-
fondire la democrazia, di migliorare il sistema della economia e di aumentare
la produzione. È questa la sola via che porta al benessere. La provocazione
fallirà. (...) Noi non confonderemo questo gruppo di provocatori — prosegue
il giornale — con gli operai di Poznan. Ma tutti coloro che si sentono polac-
chi, che vogliono l‘approfondimento della vita democratica in Polonia, daran-
no battaglia a coloro che tentano di mettere a ferro e fuoco la casa comune.

A distanza di due giorni dall’inizio del conflitto ormai sanguinosamente re-


presso, il 1° luglio L’Unità manda a Poznań un suo inviato che dà ai lettori una
relazione pubblicata sotto il  titolo L’inviato dell’Unità a  Poznań ha  parlato con
gli operai della ZISPO, diversa innanzitutto per la lingua, viva, comunicativa per
le frasi brevi, ripulita dalla neolingua dei colleghi polacchi, autentica anche perché
vi  vengono citate le  testimonianze dei cittadini che il  quotidiano polacco aveva
accuratamente evitato di intervistare.

Sono a Poznan da stamane, primo giornalista occidentale giunto in que-


sta città dopo i sanguinosi avvenimenti di giovedì. Questa corrispondenza è il
primo resoconto diretto, fondato sulle testimonianze di cittadini e di lavoratori
che hanno vissuto quella tragica giornata. (...) Il cielo è plumbeo e pioviggino-
so. L’atmosfera inquieta. Pattuglie dell’esercito e della polizia popolare controlla-
no gli incroci. I segni della violenza sono visibili qua e là. La storia della ZISPO
è comune ad altri stabilimenti (…) Gli operai che volevano superare la norma,
dovevano faro fino a quattro ore di straordinario. Era una situazione non sana,
provocata da un errore di pianificazione compiuto al centro.

L’accostamento delle tre relazioni dimostra che L’Unità, pur mantenendo la ri-
gidità linguistica nelle citazioni dell’agenzia di  stampa o  dell’organo ufficiale del
partito polacco, se ne distanzia atraverso la relazione del suo inviato, conferendo
28 Elżbieta Jamrozik

un volto umano alla prima grande tragica rivolta operaia nella Polonia del sociali-
smo reale. Questo meccanismo (citazione di fonti ufficiali in neolingua vs relazio-
ne propria del quotidiano) viene ripreso in occasione di altre proteste operaie che
scuotono il paese a distanza di pochi anni in dicembre 1970, giugno 1976, in ago-
sto 1980 quando nasce il grande movimento sindacale Solidarność messo a tacere
il 13 dicembre dell’anno successivo dal colpo di Stato del generale Jaruzelski.

13 DICEMBRE 1981

All’indomani del 13 dicembre 1981 lo  sgomento è  totale, sia in  Polonia che
all’estero: le  comunicazioni telefoniche interrotte, i  media riproducono invaria-
bilmente il discorso del generale Jaruzelski e comunicati ufficiali. Mancano altre
informazioni.
Comunque i protagonisti non sono più alcune centinaia di operai scontenti:
il sindacato Solidarność conta quasi 10 milioni di membri (su una popolazione
di 38 milioni) che si possono domare con le armi, ma non più nascondere. L’U-
nità, che sin dalla nascita del sindacato gli aveva apertamente manifestato simpa-
tia e sostegno, questa volta non si limita a riprodurre i comunicati ufficiali, ma li
commenta e se ne distanzia, dimostrando che ormai, a scapito della retorica dei
partiti–fratelli e degli stati–fratelli, la fratellanza vera esiste non tra governi, ma tra
popoli. Il 14 dicembre il quotidiano esce con la prima pagina interamente dedicata
agli avvenimenti in Polonia, esprimendo la sua posizione sin dalle prime parole del
titolo: la presa del potere del comitato militare “di salvezza nazionale” (occorre no-
tare le virgolette) viene chiamata una drammatica svolta per la quale la direzione
del PCI esprime la sua condanna:

Una drammatica svolta nella crisi annunciata da un proclama di Jaru-


zelski,
Stato d’assedio in Polonia,
Il potere assunto da un comitato militare «di salvezza». Arrestati molti
sindacalisti ed ex dirigenti del POUP. Il PCI esprime la sua condanna e chiede
il ripristino delle libertà civili e sindacali,
Arrestate un migliaio di persone, fra cui 17 dirigenti di Solidarnosc e al-
cuni ex–membri del Politburo del POUP, incluso Gierek – Walesa non è stato
fermato,
Sospese le garanzie costituzionali, l‘attività di associazioni e sindacati e la
stampa, pattugliate le città, interrotte le comunicazioni, militarizzati settori
economici.
Tra emozione e stereotipo: la tragedia politica vista attraverso la lingua de L’Unità 29

Non vi è più esitazione da parte del quotidiano italiano che riproduce – sempre
in prima pagina – il comunicato della Direzione del PCI:

Le gravi misure del governo con la dichiarazione dello stato di assedio,


la costituzione di un organismo militare straordinario, gli arresti e i deferi-
menti a corti marziali suscitano vivissimo allarme.(...) ll PCI ha sempre rico-
nosciuto ed appoggiato l’esigenza di un profondo rinnovamento che superas-
se gli errori di indirizzo e di direzione nella economia e nella vita politica, che
facesse leva sulle forze fondamentali del partito comunista rinnovato, delle
organizzazioni sindacali rappresentanti in  modo autonomo e  responsabile
la libera volontà dei lavoratori e della Chiesa. (...) IL PCI si rivolge alle for-
ze democratiche e di sinistra, al mondo cattolico, alle organizzazioni sociali
e culturali in Italia e in Europa affinché, evitando strumentalità e contrappo-
sizioni propagandistiche da qualsiasi parte, portino avanti più che mai il dia-
logo e le iniziative per la difesa della pace e per una politica di distensione
e di disarmo.

Eloquente è sia l’ampiezza dello spazio che il quotidiano dedica agli avveni-
menti in Polonia (5 pagine intere) che i titoli dei singoli articoli: “Il drammatico
discorso di  Jaruzelski all’alba di  ieri”. “Le drastiche misure decise dal Consiglio
militare”, “Estremo appello Di Giovanni Paolo II «Non si versi altro sangue polac-
co»”. Questa volta gli aggettivi, lungi da entrare in freddi e vuoti clichés linguistici,
esprimono emozioni di fronte a una situazione drammatica e inquietante. Altret-
tanto spontanee sono le reazioni che le notizie dalla Polonia provocano in Italia,
che si leggono nei titoli del quotidiano: “Cgil, Cisl, Uil convocano manifestazioni
e assemblee in fabbrica”, “I commenti in Italia. Oggi la Camera”, “Sedute straordi-
narie dei consigli comunali. Appello FGCI per la difesa delle libertà”, “Oggi assem-
blee. Domani manifestano i  sindacati a  Roma”, “Manifestazione unitaria stasera
a Roma”, “Attivo del PCI a Roma”. A pagina 4 viene riportata l’interrogazione rivol-
ta dai dirigenti del PCI al presidente del Consiglio e al ministro degli affari esteri;
la riportiamo per esteso in quanto esprime l’inquietudine e la posizione del partito
comunista italiano di fronte ad avvenimenti che si sono verificati in un paese so-
cialista. Ormai siamo ben lontani dalle caute posizioni espresse nei confronti della
rivolta operaia di Poznań:

I sottoscritti interrogano il presidente del Consiglio e il ministro degli af-


fari esteri per conoscere il giudizio del governo sulla grave, allarmante situa-
zione venutasi a  determinare in  Polonia in  seguito alla proclamazione dello
stato d’assedio e sulla necessità di fare appello, dinanzi alle misure d’eccezione
adottate dalle autorità polacche, e nei cui confronti il Partito comunista italiano
ha espresso e motivato la sua condanna, perché si ripristinino le libertà sinda-
cali e le garanzie costituzionali e si riprenda la ricerca di una soluzione politica
della crisi polacca attraverso un profondo rinnovamento; sulla pressante esi-
genza di ribadire la inammissibilità di ogni intervento straniero in Polonia (...).
30 Elżbieta Jamrozik

Per illustrare al  lettore italiano le  origini degli avvenimenti del 13 dicembre
il quotidiano presenta in sintesi, mese per mese, lo svolgimento cronologico del-
la situazione sin dalle prime manifestazioni di protesta e scioperi del luglio 1980
nell’ampio articolo “Il POUP, Solidarnosc, la Chiesa (e l’URSS) da Danzica ad oggi”
(p. 4): la panoramica riflette l’accrescersi della tensione interna ed esterna tramite
il mero accostamento dei fatti (ci limitiamo a riportarne due mesi consecutivi):

DICEMBRE 1980
5 – improvvisa riunione a Mosca dei rappresentati del Patto di Varsavia...
17 – a Danzica si svolge una solenne commemorazione degli operai uc-
cisi dalla polizia nel dicembre 1970...
30 – il congresso degli scrittori (...) condanna la censura e gli interventi
dello Stato nella vita culturale...
GENNAIO 1981
10: sciopero generale di Solidarnosc per ottenere, in conformità con gli
accordi di Danzica, il sabato libero
12 – a Nowi Sacz la polizia sgombra il municipio occupato
13–19 – viaggio di Walesa a Roma e incontro col Papa
24 – secondo sciopero generale per ottenere il sabato libero.

Attraverso le  relazioni di  una sola giornata si  può vedere l’atteggiamento
de  L’Unità nei confronti degli avvenimenti in  Polonia: le  convinzioni del quoti-
diano, rappresentative sia delle opinioni del PCI che della sinistra italiana, sono
espresse in modo diretto, come testimonia il titolo in prima pagina: Il PCI esprime
la sua condanna e chiede il ripristino delle libertà civili e sindacali, nonché i con-
tenuti dei singoli articoli; testimonianza indiretta ne sono peraltro il numero dei
servizi e lo spazio dedicato alla problematica polacca. La lingua adoperata per rela-
zionare i fatti avvenuti il 13 dicembre in Polonia ne riflette pienamente sia la dram-
maticità che l’apprensione della sinistra democratica europea.

Conclusioni

Dall’analisi del corpus di articoli esaminati si profilano le seguenti conclusioni:


– la neolingua di stampo sovietico, caratterizzata da combinazioni lessicali (qua-
si) fisse, altamente prevedibili e ripetute con alta frequenza, qualificazioni at-
tributive elative e formule fisse, non è presente in modo uniforme, per quanto
riguarda sia il periodo che gli avvenimenti considerati. L’analisi diacronica del-
Tra emozione e stereotipo: la tragedia politica vista attraverso la lingua de L’Unità 31

la lingua de L’Unità ne dimostra un’evoluzione progressiva, da una forte rigi-


dità dovuta a frequenti citazioni di testi dei quotidiani del blocco dell’Est, a un
discorso più autentico che ne è esente;
– la relazione della morte di Stalin si avvale ampiamente dei comunicati della
stampa sovietica che vengono riportati testualmente: lo stile altisonante, pro-
prio per la neolingua nei momenti gravi si estende all’insieme degli avveni-
menti riportati, comprese le relazioni delle manifestazioni di lutto nelle città
italiane;
– la neolingua di tipo sovietico traspare inoltre laddove la redazione del giornale
poggia su  comunicati di  stampa estera, in  assenza di  propri servizi. Questo
avviene in particolare nelle relazioni degli avvenimenti di Poznań ’56, alme-
no fino al momento in cui un inviato speciale del quotidiano italiano manda
le proprie osservazioni e commenti;
– laddove invece viene relazionato un avvenimento intimamente legato alle vi-
cende italiane, com’è stata la morte di P. Togliatti, la lingua perde la sua rigidità
ufficiale di partito a favore di una relazione più umana e coinvolgente, in cui
le strutture prevedibili e fossilizzate appaiono con una frequenza di gran lunga
minore;
– questo avviene anche nei comunicati del colpo di stato del 13 dicembre 1981:
l’organo del partito italiano, pur riprendendo i  comunicati della stampa po-
lacca redatti in perfetta neolingua, se ne distanzia di gran lunga. La mancanza
di informazioni altre da quelle erogate dalle agenzie polacche fa sì che L’Unità
si trova nell’obbligo di ricorrere alla citazione, ma questa volta lo fa esplicita-
mente e mantenendo le distanze rispetto al testo originale; invece i frammenti
che si riferiscono al sindacato Solidarność sono praticamente privi dei clichés
propri della stampa del partito e redatti in una lingua emotivamente marcata.
Considerando la lingua de L’Unità in una prospettiva diacronica, essa subisce
una graduale ma profonda evoluzione, in consonanza con gli avvenimenti relazio-
nati e la situazione europea/mondiale nel periodo esaminato: sebbene essa risenta,
specie nei frammenti riportati testualmente, dell’influsso della comunicazione fos-
silizzata vigente nel blocco dei paesi dell’Est, i redattori del quotidiano ricorrono
a un codice linguistico molto meno rigido e più autentico nei testi di produzione
propria. Ne consegue che lo stile de L’Unità – organo del partito comunista ope-
rante in un paese democratico – è molto meno vincolato nel lessico e nelle strut-
ture rispetto alle forme di scrittura in uso nei paesi del socialismo reale, seppur
il quotidiano italiano sia costretto ad attingervi in vari momenti storici, per man-
canza di altre fonti di informazione o per ragioni ideologiche.
Conflitto e oltre. Autore–volgarizzatore–copista
nel manoscritto medievale
Roman Sosnowski
Uniwersytet Jagielloński, Kraków

Introduzione

Il conflitto nel lavoro filologico e linguistico sul testo medievale può essere inter-
pretato in diversi modi. Nel presente lavoro si andranno a ricercare tracce del con-
flitto che è inteso nell’accezione figurativa: contrasto forte, opposizione. L’attenzione
sarà rivolta alle situazioni in cui nel testo medievale si crea tensione, ma si cercherà
anche di capire quando nell’unione di parti contrastanti prevale il conflitto e quan-
do, invece, si crea uno stato di equilibrio e la convivenza di componenti diversi non
è conflittuale. Non è difficile intravedere che vari elementi del testo medievale mano-
scritto, soprattutto nel caso dei volgarizzamenti, sono in uno stato di continua ten-
sione interna o simbiosi conflittuale. Il conflitto con opposizioni più marcate è quello
legato all’uso del latino e del volgare che si manifesta in almeno due modalità:
1) code–switching, cioè il conflitto oppure la convivenza a volte pacifica, a volte
conflittuale tra il latino e il volgare;
2) tensione tra diversi strati dialettali dello stesso manoscritto.
Oltre a quanto elencato, nel volgarizzamento medievale si possono scorgere
opposizioni di carattere filologico e traduttivo come l’opposizione tra la conserva-
zione degli elementi dell’originale da una parte e l’innovazione che di solito ha ca-
rattere divulgativo dall’altra. A ciò si aggiungono sovrapposizioni tra gli elementi
che sono dovuti all’intervento del volgarizzatore e  all’intervento successivo dei
copisti. Nel caso dei testi della medicina l’intervento del copista poteva essere so-
stanziale, soprattutto quando di trattava del copista–medico, quindi una persona
consapevole della sua competenza nella materia che andava descrivendo. L’apporto
dell’autore, del volgarizzatore e del copista nel volgarizzamento medievale forma
un asse che può essere interpretato sia in termini di conflitto sia in termini di in-
tegrazione. Sarà conflittuale quando negli strati successivi viene cancellato e  in
34 Roman Sosnowski

qualche sovrascritto l’elemento precedente, è invece collaborativo ogni qual volta


si presentino integrazioni, anche sostanziose, coerenti con lo strato originale.
Come base per i ragionamenti sul conflitto nei volgarizzamenti medievali ser-
viranno alcuni testi contenuti nei manoscritti di medicina medievale, in partico-
lar modo quelli contenenti il volgarizzamento della Chirurgia parva di Lanfranco
da Milano e il Tesoro dei poveri.

Latino vs. volgare

Come è universalmente noto, il latino e il volgare sono in contrapposizione nella


scienza medievale e il più delle volte il confronto viene, per così dire, vinto dalla lin-
gua latina. L’uso del latino in un’opera scientifica medievale assume un valore neutro,
mentre l’uso del volgare è quasi sempre significativo. Ma l’alternanza di uno o dell’al-
tro codice linguistico in un singolo testo non esaurisce la casistica che ci troviamo
di fronte studiando i testi di medicina medievale; nel caso dei volgarizzamenti pos-
siamo trovare riflessioni metalinguistiche del traduttore sulla scelta del codice lingui-
stico e, con discreta frequenza, incontriamo manoscritti in cui c’è la compresenza più
o meno pacifica dei due codici linguistici. Quest’ultima situazione è stata teorizzata
nella linguistica moderna con l’etichetta di code–switching e con successo estesa alle
situazioni medievali p.es. nell’ambito anglosassone20. L’approccio risulta interessante
perché descrive bene l’uso alternato di unità da due (o più) diversi sistemi linguistici
all’interno dello stesso atto comunicativo. I testi medievali hanno una grande varietà
di commistioni latino–volgari perciò le varie tipologie di code–switching sono una
chiave di lettura privilegiata. Nel manoscritto Ital. Quart. 64 c’è un elevato numero
di brani e testi medici raccolti per le esigenze professionali di un medico21. Ai testi
latini si alternano testi in volgare senza un ordine preciso; il latino e il volgare sono
considerati di fatto sullo stesso piano di utilità e di prestigio. Il code–switching a tratti
è anche più profondo; ritroviamo il cambio del codice nello stesso brano. Di solito
esso avviene negli elementi strutturalmente diversi (tra i titoli e i testi delle ricette)22,

20
Päivi Pahta, Code–Switching in Medieval Medical Writing, in Medical and scientific writing
in late medieval English a cura di Irma Taavitsainen, Päivi Pahta, Cambridge, England;
New York, Cambridge University Press, 2004, pp. 73–99; Tony Hunt, Code–switching
in  Medical Texts, in  Multilingualism in  later medieval Britain a  cura di  David Andrew
Trotter, Woodbridge, D.S. Brewer, 2000, pp. 134–148.
21
In totale sono 46 testi (o brani) più l’indice analitico. Cfr. Roman Sosnowski, Translation and
Popularization: Sources for the History of Italian Medicine of the Middle Ages in the Berlin Col-
lection of the Jagiellonian Library in Krakow, in «Manuscripta», vol. 58, fasc. 1, 2014: 30–39.
22
Infatti, p.es. a f. 109r troviamo il titolo in latino e il testo della ricetta in volgare: Ad do-
lore(m) oculi. Ad uno ch(e) avess(e) mal ale ochi ouero rossi.)... Lo stesso schema si ripete
in altre parti del ricettario.
Conflitto e oltre. Autore–volgarizzatore–copista nel manoscritto medievale 35

ma non mancano casi dove all’interno dello stesso ricettario cambia la lingua e una
ricetta (anche per combattere la stessa malattia) è in latino e un’altra in volgare23.
Alle commistioni latino–volgari (l’uso del latino contro l’uso del volgare) si af-
fiancano tutte quelle situazioni dove il copista o il volgarizzatore espressamente ri-
corda la scelta fatta da lui tra il latino e il volgare, a volte con intenti polemici. Inol-
tre, a una situazione generalmente condivisa in cui il latino viene visto come lingua
alta e di grande prestigio (al volgare spetterebbe il ruolo subalterno) si aggiungo-
no situazioni in cui il volgare è percepito come mezzo divulgativo. Quest’ultima
risulta evidente analizzando diversi elementi; in primo luogo testi che sono con
più frequenza volgarizzati hanno proprio carattere divulgativo, in secondo luogo
la struttura dell’originale latino viene semplificata proprio con l’intento divulgativo
e, infine, i traduttori non di rado esprimono a chiare lettere le proprie intenzioni24.
I casi presentati sopra, tuttavia, sebbene improntati al  confronto, non sono
particolarmente conflittuali. Si tratta piuttosto di pacifica convivenza o di mutua
esclusione, ma la polemica, se esiste, è ben nascosta e mai accentuata. Nella lunga
storia della convivenza latino–volgare situazioni di conflittualità aperta sono, ov-
viamente, presenti. Non si scorgono nei volgarizzamenti di medicina, dove prevale
l’alternanza del codice linguistico, per così dire, pacifica, ma sono presenti in altre
realtà. Capita che nel medioevo e nel rinascimento vengano ribaltate le usuali ge-
rarchie che vedevano il latino in cima alle varie tipologie comunicative. Quando
si tratta di opposizione ‘lingua sincera’ verso ‘lingua non sincera’ il primato, istinti-
vamente e, demagogicamente, viene assegnato spesso al volgare. Viene chiaramen-
te il sospetto che si potesse trattare del grado di conoscenza dei due codici lingui-
stici, con il latino più articolato e più difficile a utenti di media cultura, ma il rifiuto
del latino non può essere ridotto solo alla rivalsa di chi non conoscesse tale lingua.
L’opposizione è di tipo culturale e l’abbandono del latino va letto come antielitaria
anche quando viene praticato da chi apparteneva alle élites. L’inaffidalità del latino
giuridico viene, per esempio, sostenuta da un famoso matematico rinascimentale,
Luca Pacioli che, nel suo testamento (in latino!) scrive:

ad clariorem intelligentiam et ad removendum omnem cavilationem que


sepius latinis verbis male interpretatis inter causidicos oriri solet, materno
exorabo sermone25.
23
P.es. ai ff. 109r–122r troviamo una serie di ricette contro le patologie degli occhi. Spesso sono
poste sullo stesso piano ricette volgari e latine. Leggiamo, infatti, (f. 110v, ma anche altri) prima
n latino: Ad idem. Ad oculos cruentos sume corticum olive... La ricetta seguente inizia: Sequitur.
Ad idem. Chi avesse una bruscha in l’occhio incurnado. Recipe della erba cavallaria...
24
Analisi delle glosse metatraduttive contenute nei volgarizzamenti di  medicina in  chiave
sociolinguistica si trova in Roman Sosnowski, Translation and Popularization, cit.
25
Testamento del 9 novembre 1508. Mi sono basato sulla trascrizione che ne fa Vincenzo
Vianello, Luca Paciolo nella storia della ragioneria: con documenti inediti, Messina, Libre-
ria Internazionale, 1896, pp. 167–174.
36 Roman Sosnowski

Ovviamente, il testamento continua in volgare, senza le biasimate inesattezze


del latino degli avvocati! Nel passo notiamo come Luca Pacioli ritenesse il volgare
più chiaro e meno ambiguo del latino. Questa opinione, di carattere popolareg-
giante, non doveva essere così singolare se anche in una lettera dei fiorentini che
rispondono a una precedente lettera senese in latino leggiamo:

E perché noi crediam che sia utilissimo a  voi e  a  noi dichiarare bene
e  apertamente senza punto di  simulazione ovvero dissimulazione qual sia
la vera intenzione e il puro e sincero proposito di ciascuno di noi, abbiamo
deliberato di  farvi questa risposta più tosto in  volgare che in  latino, sì  per
soddisfar meglio e più agli animi nostri, sì etiamdio perché la S.V. non abbia
di bisogno nell’intendere di questo nostro così sincero proposito d’altra inter-
pretazione che della nostra propria, né in altro sentimento si possa intendere
che in quello che è il naturale e il vero intelletto delle parole volgari26.

Alla lingua latina, che sarebbe ambigua per natura, i fiorentini, come fa Pacioli
nel suo testamento, contrappongono il volgare schietto e diretto. In questo caso
il conflitto tra la sincerità e la dissimulazione è un conflitto aperto e dichiarato.
Considerando tali casi dobbiamo tuttavia mantenere le proporzioni e non dimen-
ticare che la situazione tra il medioevo e il rinascimento era molto complicata e che
nella lingua scientifica il più delle volte abbiamo a che fare con una convivenza tra
il latino agli strati alti (teorici) e il volgare agli strati bassi (divulgativi e pratici).

Autore–volgarizzatore–copista

L’eventuale conflitto tra il latino e il volgare con la divisione delle competenze
tra i due codici non è l’unico che si può leggere studiando i manoscritti medie-
vali. Forse più significativo è  quello che contrappone l’autore o  il volgarizzatore
ai copisti del manoscritto che sono originari di luoghi diversi da quelli dell’autore.
Il più noto conflitto di questo tipo nella storia della lingua italiana riguarda la po-
esia siciliana. I poeti di corte di Federico II sono stati trascritti da copisti toscani
e le conseguenze della trascrizione sono state addirittura imprevedibili – siccome
quasi tutti i manoscritti siciliani si sono persi conosciamo la poesia siciliana solo
filtrata attraverso la mano toscana.
Nel medioevo, ad  ogni copia del manoscritto che avveniva fuori dall’area
originaria del testo si  creava un  forte stato di  tensione tra il  sistema linguistico
del manoscritto–sorgente e il sistema del copista. La situazione poteva avere esi-
ti molto diversi che dipendevano dal periodo, dalla lontananza geografica, dalla

26
Riprendo questo passo da Bruno Migliorini, Storia della lingua italiana, Firenze, Sansoni
(edizione Bompiani 1995), 1960, p. 234.
Conflitto e oltre. Autore–volgarizzatore–copista nel manoscritto medievale 37

personalità del copista. Il concetto del diasistema del copista (proposto da Cesare
Segre27) come un’importante variabile linguistica della copia dei testi medievali
sintetizza bene le situazioni di questo tipo. Tuttavia, anche qui bisogna fare un’av-
vertenza: sebbene all’origine ci  sia un  conflitto tra due codici linguistici perché
il copista cancella i tratti del codice linguistico dell’originale sovrascrivendoli con
il proprio sistema linguistico, il risultato finale può essere un insieme armonioso
che non dà l’idea di un conflitto di fondo. In particolare, le varie koinè formatesi
nel Quattrocento sulla base toscana, nella loro forma matura, sono un’espressione
linguistica di grande equilibrio, dove gli elementi di diversi sistemi linguistici non
si combattono tra di loro, ma piuttosto si completano a vicenda.
Analizzando i manoscritti dei volgarizzamenti di medicina, senza sforzo tro-
viamo casi di presenza di elementi linguistici misti; ciò avviene p.es. nella descri-
zione dei manoscritti spesso definiti come scritti in  koinè oppure richiamati at-
traverso la formula della patina linguistica. Si tratta quindi dei casi, dove il codice
linguistico del volgarizzamento è diverso dal codice linguistico del copista per cui
la lingua risultante è mista. La seguente tabella dimostra bene quanto fossero dif-
fuse le situazioni di questo tipo.

Testi principali e/o titolo Lingua del Luogo della


Segnatura Data
della raccolta volgarizzamento copia
1 Ital. fol. 158 Tesoro dei poveri 1460 Veneto Venezia
2 Ital. qu. 52 Tesoro dei poveri fine XV secolo Toscano Veneto (?)
3 Ital. qu. 62 Liber medicinarum – 1332(?) Veneto Veneto
raccolta di trattati medici
4 Ital. qu. 64 Libro di ricette secondo quarto veneto (?) Nord Italia
del XV secolo (Veneto?)
5 Ital. qu. 67 Chirurgia parva metà del XV veneto centrale Padova(?)
(volgarizzamento) secolo
6 Ital. oct. 6 Ricettario primo quarto Toscano Nord Italia
del XVI secolo
7 Vat. lat. 10239 Chirurgia parva XV secolo lombardo (?) tratti veneti
(volgarizzamento) ed emiliani
8 Classense 139 Chirurgia parva XV secolo Veneto Veneto
(volgarizzamento)
9 Ms. 72 Chirurgia parva XV secolo toscano Nord Italia
(volgarizzamento) (Veneto?)

27
Cesare Segre, «Critica testuale, teoria degli insiemi e  diasistema», Semiotica filologica,
Torino, Einaudi, 1979, pp. 53–64.
38 Roman Sosnowski

Per capire meglio l’intervento che il copista poteva operare su un testo, è op-
portuno guardare più da vicino uno dei manoscritti. Per esempio il codice Ital. Qu.
52 è il volgarizzamento del Tesoro dei poveri con ogni probabilità toscano. Il testo
contenuto nel manoscritto possiede anche caratteristiche settentrionali, riconduci-
bili forse a una copia fatta in Veneto. Molte delle forme sono doppie; in alcuni casi
toscane e in altri settentrionali o venete. Le varianti alternate riguardano tra l’altro:
a) presenza delle geminate; troviamo siamo forme tipo quele che quelle, neta
e netta ecc.;
b) presenza della sonorizzazione; sono presenti sia appellato e figato sia appel-
lado e figado;
c) presenza delle forme con l’anafonesi: lingua e ungi accanto a onzi (con l’affri-
cata dentale al posto dell’affricata palatale, quindi marcatamente veneto), toscano
ucider;
d) alternanza delle forme non dittongate e dittongate;
e) compresenza del futuro del tipo fiorentino ritornerà (passaggio di –ar in –
er) e del futuro zovarà;
In genere le caratteristiche della lingua del manoscritto Ital. Qu. 52 riconducibili
al Veneto sono inequivocabili se consideriamo le forme come cossa, zenzive, zova,
coçere, zovarà, azonzeli ecc. Lo sguardo d’insieme sulla lingua del manoscritto per-
mette di vedere l’intervento del copista veneto su un testo che era all’origine toscano.
Non è molto diversa la situazione dei codici in volgare della Chirurgia parva
di Lanfranco da Milano; hanno tutti la veste linguistica mista. Come già sottoline-
ato, la lingua mista dei volgarizzamenti medievali è espressione di una situazione
di tensione tra le diverse componenti dialettali, ma il risultato spesso non sembra
conflittuale, generando una lingua armoniosamente composita.
Un’altra faccia del possibile conflitto insito nel volgarizzamento riguarda
la struttura del testo. Questa caratteristica è dovuta a una particolare trasmissione
dei testi medici (attraverso le miscellanee) e al sovrapporsi di contributi ad ogni
elaborazione del testo. Come già nel caso della lingua, anche nel caso dei contenuti
si possono identificare diversi strati: l’autore che scriveva in latino, il volgarizzatore
che partiva dalla versione latina e eseguiva il primo adattamento e, infine, anche
il copista che a volte adattava il testo all’ambiente in cui il testo doveva circolare. In
ogni fase dell’elaborazione del testo potevano apparire interpolazioni più o meno
vistose. Si poteva trattare di una semplice conferma della validità della ricetta in-
trodotta attraverso la formula che in latino era experimentatur in volgare è provato
o simile. In questo modo il volgarizzatore o il copista ribadiva di aver sperimentato
la formula descritta e ne comprovava l’efficacia. Chiaramente, questo tipo di inter-
vento non è particolarmente conflittuale, ma l’intervento strutturale poteva anche
essere più profondo e cancellare le descrizioni terapeutiche precedenti oppure ag-
giungerne altri, non coerenti con quelli già contenuti nel testo di partenza. Tale si-
tuazione si presenta spesso in volgarizzamenti che sono fortemente rielaborati. È il
Conflitto e oltre. Autore–volgarizzatore–copista nel manoscritto medievale 39

caso del testo della Chirurgia parva di Lanfranco da Milano contenuto nel mano-
scritto Ital. Quart. 6728. Molti elementi presenti nell’originale latino sono omessi29,
a volte ci sono inserti originali30, qualche volta avviene la sostituzione del rimedio
dovuta alla particolare esperienza del volgarizzatore, che “corregge” l’autore.
Per esempio, nella descrizone del vulnus apostematum, il volgarizzatore enu-
mera le cause per cui si genera apostema (“quia medicus non scivit defendere, vel
quia tenta est nimis grossa, vel unguentum calidum fuit semper positum, vel alte-
ratio aeris, vel debilitas membri recipientis”) e fornisce una cura differente da quel-
la proposta da Lanfranco.

E quando el luogo i(n)piagado se apostema, s’el’è nervoso, churalo cho-


me tte disy dela ponttura dove è gran dolie. E s’el è charnoso, faly una pulttia
di 4 partte de aqua e una d’olio, e di farina di formentto quantta basta. E que-
sto chonttinua {26v} sula postimazione mettando i(n) la piaga la ttasta cho(n)
chiaro e roso d’ovo p(er)finché zese la i(n)fiadura e dolie e che la piaga abonde
dila marza. E alora metty lo mondifychattivo che schriverò in la fine e dapuo
l’ongentto de polveri(bus) che salda31. (f. 26r)

Il volgarizzatore semplifica il testo anche quando menziona soltanto il farma-


co appellandosi alle conoscenze pregresse del lettore mentre nella versione latina
è contenuta l’intera ricetta dell’unguentum apostolorum32.

Anchora è  bono mo(n)difychattivo de  fistole, ale quale si  à  levada via
la dureza e de piague che àno chroste e quasy d’ogni piague vechie: l’ongentto
apostolorum. (f. 66r)

28
Di recente il testo è stato pubblicato in Roman Sosnowski, Volgarizzamento della Chirur-
gia parva di Lanfranco da Milano nel manoscritto Ital. quart. 67 della collezione berlinese,
conservato nella Biblioteca Jagellonica di Cracovia, Kraków, Wydział Filologiczny Uniwer-
sytetu Jagiellońskiego, 2014.
29
Le omissioni sono numerose, da quelle più consistenti a quelle piccole. Manca l’intero epi-
sodio autobiografico presente nell’originale latino (il cosiddetto episodio milanese), manca
la parte del trattato dedicata alla cura degli occhi, in alcune malattie mancano singoli pro-
cedimenti terapeutici (p.es. nella descrizione postimazione fixa aquosa a f. 36r).
30
Dove nell’originale ci sono i rimedi contro il morso del cane rabbioso, aggiunge i rimedi
contro i morsi di animalio velenosi.
31
Ecco l’intero passo latino: Quando autem cum vulnere est apostema, quod est, quia medi-
cus non scivit defendere vel quia tenta est nimis grossa, vel unguentum calidum fuit sem-
per positum, vel alteratio aeris, vel debilitas membri recipientis. Quod quidem, si accidit
non obstantibus remediis appositis, erit pravum signum, scilicet signum magne debilitatis
membri lesi. Tamen si tale apostema fuerit in membro nervoso, iam dicta est cura. Si vero
fuerit in membro carnoso, facies pultes de IV partibus aque et I olei olivarum maturarum
et farina tritici.
32
Testo latino: Unguentum apostolorum mundificativum fistularum mortificatarum et ulce-
rum habentium crustas, et fere omnium ulcerum antiquorum.
40 Roman Sosnowski

Non mancano casi di  leggere divergenze nella descrizione dei procedimenti
terapeutici. Probabilmente il volgarizzatore trasferisce la propria esperienza deri-
vante anche da altre fonti sul testo in questione. L’esempio riportato sotto in due
versioni, latina e volgare, è molto significativo:

Aliud: recipe resine albe, bulliat in aceto acerrimo et proiiciatur cum ace-
to in bacino aque frigide colando cum stamegna. Postea sumatur inter manus
inunctas oleo rosato et diu manibus malaxetur et servetur usui. Sed in estate
admisce cum resina, quantum est medietas cere.
Itten p(er) incharnare e generare charne e fare pele, i(n) la fin, è ongentto
di polvere che se fai chosy. Ttuol ttrementtina (libre) i, zera biancha (libre) 5,
vernixe da schrivere, sarchachola molifichada i(n) latte di asena an(a) (onza)
j, mastichy (onze) ij, rasa di pino (onza) j. Lava p(ri)ma la ttrementtina cho(n)
axedo, e deschola la zera e raxa al fuogo legiero, e puoi zonzy la polvere dile
alttre chose senpre menando cho(n) la spattola, e puo ttuolo dal fuogo e zon-
zy la ttrementtina e cholale i(n) axedo biancho i(n)pastando cho(n) le mane
p(er)fina ch’el vigneray fredo. (f. 67v)

Anche nel passo seguente la  versione volgare è  semplificata rispetto al  testo
latino. Vengono forniti i rimedi senza spiegare la loro azione e le loro proprietà,
come, invece, avviene nella versione latina.

Fiat etiam compositum optimum aggregans has intentiones, id est matu-


rationem cum incisione ad carbunculum et antracem. Recipe ficuum sicca-
rum pinguium numero XII, uve passe unciam I, piperis, salis nitri ana uncias
5, fermenti acri quantum omnes, olei antiqui, aceti fortissimi, quantum suffi-
cit ad conficiendum emplastrum.
Anchora p(er) madurare lo anttraze e so vie. Ttuo fichy sechy xij, uva
pasa (onza) j, pevere, salnittrio an(a) (onze) 5, i(n)chorpora le ditte chose i(n)
mortter e metty suxo. (f. 64v)

Le semplificazioni e  le amplificazioni strutturali mostrano il  loro potenziale


conflittuale perché cancellano parzialmente gli strati precedenti del testo, ma di
nuovo, come nel caso delle sovrapposizioni dei codici linguistici diversi (strati dia-
lettali) il giudizio d’insieme non sempre è univoco. Il risultato della sovrascrizione
del testo con elementi nuovi da parte del volgarizzatore o da parte del copista non
sempre è uguale. Nel caso del citato manoscritto Ital. Quart. 67 si tratta di una rie-
laborazione profonda, ma omogenea che almeno in superficie si presenta come ar-
moniosa. La situazione finale non è sempre di questo tipo: in un altro manoscritto
contenente la Chirurgia parva di Lanfranco, Ms. 72 della Biblioteca Universitaria
di Padova, sebbene più ‘fedele’ all’originale latino, le situazioni conflittuali sono vi-
sibili; il testo è a volte tradotto in maniera eccessivamente letterale e a volte, invece,
presenta vistose semplificazioni.
Conflitto e oltre. Autore–volgarizzatore–copista nel manoscritto medievale 41

Conclusioni

Un’operazione culturale così complessa come il volgarizzare è inevitabilmente


fonte di tensioni. Spero di aver inquadrato bene le situazioni presenti nei volga-
rizzamenti di  medicina che sono potenzialmente conflittuali. Come poi si  vede
in alcune analisi più dettagliate, sebbene la situazione di per sé sia conflittuale il ri-
sultato linguistico e filologico può essere di tenore diverso. Lo stesso uso del latino
e del volgare che ha anche elementi di contrasto per lo più si manifesta attraverso
il code–switching in cui si ha di solito pacifica convivenza di due codici linguistici.
In secondo luogo notiamo in quasi tutti i volgarizzamenti una tensione tra di-
versi strati linguistici dello stesso manoscritto (questo riguarda quasi tutta la pro-
duzione manoscritta medievale). Il conflitto tra dialetti diversi (lingue d’origine dei
diversi protagonisti della produzione del manoscritto) va da situazioni di conflitto
aperto (p. es. la cancellazione dei tratti linguistici originali) a situazioni di armo-
niosa convivenza in cui nascono varietà ibride, ma funzionalmente e stilisticamen-
te efficaci (nascita delle koinè su base toscana nel Nord Italia).
Infine, si notano tensioni che ho definito strutturali perché si manifestano nel-
la struttura del volgarizzamento (soprattutto nelle amplificazioni e nelle semplifi-
cazioni), ma che dipendono dalla funzione del testo e dal posizionamento del testo
nell’ambiente in cui doveva circolare. Sebbene non manchino contrasti tra i contri-
buti dell’autore, del volgarizzatore e del copista, anche qui, tante volte l’insieme de-
gli elementi diversi porta in alcuni casi a dei risultati che sono sorprendentemente
armoniosi come se gli attriti portino a un nuovo equilibrio sia nella struttura che
nelle soluzioni linguistiche33.

33
Va qui ricordato che l’equilibrio si raggiungeva anche grazie alla prudenza di volgarizza-
tori e di copisti che spesso omettevano i tratti linguistici più locali per garantire una “uni-
formità linguistica interregionale e intervernacolare”. Cfr. Guida ai dialetti veneti, a cura
di Manlio Cortelazzo, Cleup, 1979, p. 135.
Gli aggettivi al servizio delle relazioni nei mass media
di oggi sui conflitti interni ed internazionali
Sylwia Skuza
Uniwersytet Mikołaja Kopernika w Toruniu

I mass media, decisivi per la  diffusione nazionale della lingua italiana, oggi
fanno parte integrante della vita della nazione trasmettendo ogni tipo di annuncio:
informativo, culturale, politico ecc. I media più diffusi – i quotidiani, la radio, la te-
levisione, Internet – ogni giorno divulgano decine di informazioni tra cui anche
quelle focalizzate sui diversi conflitti nazionali e internazionali.
Obiettivo dell’intervento è  mostrare e  analizzare l’uso degli aggettivi nei te-
sti riguardanti diversi conflitti trasmessi dai mass–media di  oggi. Utilizzo che,
pare non di rado, sembra essere esagerato e ingiustificato, propenso allo scalpo-
re e  per colpa del quale il  vero significato di  parecchi aggettivi va  perduto. Da
un lato un giornalista cerca di animare la narrazione con un tipico procedimento
di «drammatizzazione», ma dall’altro cerca di presentare la notizia in modo imper-
sonale ed equilibrato. In più per un giornalista è più difficile spiegare il «come» del
«perché», anche se al pari dello storico, dovrebbe spiegare il «perché» e descrivere
il «come» certi eventi si sono svolti34.
Aggettivo (arc. adiettivo e addiettivo), dal lat. tardo adiectivum (nomen), der.
di adicĕre «aggiungere». L’aggettivo ha due funzioni fondamentali: funzione attri-
butiva quando è collegato al nome in modo diretto per es.: Ricordo con acuta no-
stalgia le nostre stupende vacanze estive. La seconda funzione, cioè la funzione pre-
dicativa, avviene quando l’aggettivo è collegato al nome tramite un verbo, per es.:
Il cielo sembra azzurro e tranquillo, ma può diventare velocemente grigio e cupo.
Secondo il tipo di informazione che aggiungono al nome, gli aggettivi si dividono
in due categorie fondamentali: aggettivi qualificativi, che si aggiungono al nome
per segnalarne una qualità, e aggettivi determinativi, che si aggiungono al nome

34
Philip Meyer, Giornalismo e metodo scientifico. Ovvero il giornalismo di precisione, Roma,
Armando Editore, 2006, p. 10.
44 Sylwia Skuza

per meglio specificarlo determinandone l’appartenenza, la posizione rispetto a chi


parla o chi ascolta, la quantità o il numero35.
A questo punto potremmo chiederci se l’aggiunta degli aggettivi qualificativi
modifica il senso delle frasi. A dire il vero, non sempre gli aggettivi sono necessari;
sono, però, sempre importanti, perché permettono di precisare il nostro pensie-
ro, di renderlo più efficace e di esprimere sfumature rilevanti. Di una macchina,
ad esempio, possiamo dire che è bella, ma possiamo anche aggiungere che è spor-
tiva, rossa, nuova, grande, impressionante, ecc. Non c’è limite al numero degli ag-
gettivi qualificativi, perché essi possono riguardare qualsiasi aspetto della realtà
o anche della fantasia. Come possiamo vedere, gli aggettivi sono molto preziosi
perché precisano la descrizione del mondo interno ed anche esterno: forma: tondo,
quadrato; tempo: estivo, serale; colore: giallo, viola; sensazioni fisiche: caldo, freddo;
dimensioni: largo, grande; materia: aureo, cartaceo; stati d’animo: allegro, ansio-
so; valutazioni morali: generoso, sgarbato; modi di essere: stanco, nervoso; aspetto:
snello, robusto; e così via.
Gli aggettivi possiedono in più la possibilità di indicare un certo carico emoti-
vo o emozionale che subito evoca la “positività” o la “negatività” del nome descritto
(per es. l’aggettivo tragico ci informa a priori della negatività di un evento) e tra
poco ci concentreremo proprio su questo tratto.
Il punto principale di questo intervento non saranno comunque, come forse
ci si aspetta, le seguenti e scrupolose analisi legate alla morfologia degli aggettivi
qualificativi, ma le riflessioni su come scrivere un articolo giornalistico.
Nei quotidiani maggiori e più rispettati, l’equilibrio e la precisione sono fat-
tori molto importanti. I commenti e le opinioni sono solitamente confinati a una
sezione specifica, sebbene ciascuna testata sovente manifesti uno stile proprio. La
politica editoriale si estende anche all’uso di aggettivi, eufemismi e idiomi. Si sug-
gerisce però ai giovani giornalisti che «ridurre gli aggettivi significa conoscere e sa-
per scegliere parole molto significative ed evitare genericità e banalità» e che «più
sono presenti aggettivi, tanto meno l’estensore si rivela padrone della lingua»36.
Guardando i consigli più preziosi, che riportiamo dal sito internet della Trec-
cani, impariamo che per scrivere un buon articolo bisogna rispettare almeno quat-
tro regole necessarie:

Pensa al titolo. È il tuo biglietto da visita nell’occhio del lettore. Se hai


in mente un buon titolo hai anche in mente un bell‘articolo. Il titolo, essen-
zialmente, è una descrizione del tuo articolo. E il tuo articolo è la descrizione
di una notizia. 

35
Marcello Sensini, La dimensione linguistica. La riflessione sulla lingua. Torino, Arnoldo
Mondadori Scuola, 2001, p. 203.
36
Le modalità della scrittura giornalistica: analisi di  caso, http://www.edscuola.it/archivio/
esami/giornale.html, data di accesso: 15.10.2017.
Gli aggettivi al servizio delle relazioni nei mass media di oggi sui conflitti… 45

L‘attacco. Se hai un buon attacco hai anche il resto dell‘articolo. L‘attacco


di un articolo è come il tappeto rosso di fronte a un cinema, è l‘invito a en-
trare, a perdere del tempo prezioso e a leggere quello che hai da raccontare.
Arrivato a questo punto è davvero inevitabile pensare al tuo lettore. L‘hai
incuriosito con un buon titolo e hai costruito il portone d‘accesso a quanto
hai da raccontargli con l‘attacco. Adesso devi dedicarti proprio a lui, al tuo
lettore.
Immaginato titolo, attacco e pubblico, è il momento di mettersi a scrive-
re con umiltà le notizie che hai raccolto37. 

Se guardiamo il primo indizio che si suggerisce ai giovani giornalisti, cioè il ti-


tolo, possiamo constatare subito che nei titoli legati ai conflitti il ruolo principale
è giocato dall’aggettivo proprio perché esso è quella parte che ha il ruolo basilare
di descrivere, integrare il nome. Sembra quasi impossibile o eventualmente molto
difficile non mettere almeno un  aggettivo nel titolo di  un articolo che descrive
un conflitto esterno o interno. In questa presentazione vorrei concentrarmi soprat-
tutto sulle informazioni scritte, provenienti in primo luogo dai quotidiani italiani
on line come corriere.it o la repubblica.it. Guardiamo ora gli esempi dei titoli:

Papa indice Giubileo: cristiani vittime di violenza inaudita; Radio Vati-


cana, 11 aprile 2015,
Sud Sudan. Amnesty, atrocità orribili da  entrambe parti in  conflitto;
Corriere della sera, 8 maggio 2014,
Al–Shebab: Guerra lunga e orribile. Nuove minacce al Kenya; Corriere
della sera, 4 aprile 2015,
La «sporca decina»: ecco la lista dei terroristi più pericolosi del mondo;
Corriere della sera, 2 ottobre 2013,
Evento tragico, gravi problemi di sicurezza nei tribunali; La Repubblica,
9 aprile 2015,
Una tragedia epocale, trafficanti sempre più crudeli; La Repubblica,
19 aprile 2015,
Una inquietante espansione del terrorismo; Corriere della sera, 10 marzo
2015.
Nei titoli, come abbiamo potuto vedere, appare almeno un  aggettivo,
ma possiamo accorgerci che ne appaiono spesso anche due o tre.

37
Cfr. http://www.treccani.it/scuola/maturita/prima_prova/articolo_di_giornale/bartocci.htlm,
Il testo è di Matteo Bartocci (Roma, 1975), caporedattore del quotidiano «Il Manifesto», data
di accesso: 10.10.2017.
46 Sylwia Skuza

I nomi come tragedia, guerra, scontro o conflitto già di per sé evocano aggettivi
come pericoloso, inquetante, atroce, difficile, tragico, orribile, ecc.
Il nome conflitto (dal latino conflictus, –us «urto, scontro») va unito soprat-
tutto agli aggettivi mondiale, lungo, sanguinoso, immane, ecc38. In più i  conflitti
si  distinguono in  conflitti interni, che sorgono tra organi del medesimo potere
o nell’ambito della stessa società o etnia, e conflitti esterni, che sorgono tra autorità
diverse tra paesi diversi. Il nome conflitto ha quindi una portata molto estesa che
riguarda molti campi della vita mondiale e sociale, per questo motivo appare mol-
to spesso sulle pagine dei quotidiani, di solito in compagnia degli stessi aggettivi.
Guardiamo gli esempi:

Quando poi il sanguinoso conflitto terminò, le sue ripercussioni si pro-


iettarono a lungo nella vita del Paese; Corriere della sera, 31 marzo 2015,
Sul Maggio si  addensa il  conflitto di  interessi, La Repubblica,  18 aprile
2015,
(...) trae ispirazione dal pilota britannico della Royal Air Force, Douglas
Bader, che volò nel corso del secondo  conflitto  mondiale  riportando oltre
venti vittorie (...); La Repubblica, 4 aprile 2015,
Nel primo dopoguerra, con il  grande  conflitto  mondiale alle spalle,
il mondo è in grande fermento. La Repubblica, 18 novembre 2004,
Nuove ricerche svolte nel Sud Sudan, rese pubbliche oggi da un rapporto
di Amnesty International, hanno rivelato atrocità orribili commesse da en-
trambe le parti coinvolte nel conflitto. Corriere della sera, 8 maggio 2014,
Lo stato di sofferenza e conflitto in Iraq e Siria è drammatico. Corriere
della sera, 21 ottobre 2015.

I numerosi esempi citati ci aiutano a creare un campo semantico degli aggettivi


che appaiono più frequentemente accanto al nome conflitto.

aperto    orribile    grande sicuro
           spietato        lungo intenso
   sanguinoso     CONFLITTO  inquietante  
atroce       terribile
   crudele       nuovo        drammatico39
tragico    mondiale     dimenticato

38
http://www.treccani.it/vocabolario/conflitto, data di acesso: 20.10.2017.
39
Cesare Garelli notava già nel 1974 che aggettivo «drammatico – assieme allo squallido
è uno degli aggettivi più ricorrenti nella prosa giornalistica italiana. Tale abuso non è ca-
suale (...) », Cesare Garelli, Lessico prefabbricato: Gli schemi del linguaggio giornalistico,
Ravenna, Longo, 1974, p. 124.
Gli aggettivi al servizio delle relazioni nei mass media di oggi sui conflitti… 47

Gli aggettivi nominati accompagnano naturalmente, in modo efficace, anche


altri nomi (come per es. tragedia, guerra, dolore, atto, tentativo, evento, attacco,
trattamento) che appaiono di frequente negli articoli che descrivono varie situa-
zioni conflittuali interne ed esterne. Dobbiamo anche notare che non tutti gli ag-
gettivi che si trovano nel campo presentato hanno la stessa connotazione negativa
a  priori. Gli aggettivi come aperto, grande, lungo, mondiale, dimenticato, nuovo
sono neutrali e possono essere inseriti in numerose frasi che trattano molti altri
argomenti, mentre gli altri aggettivi del campo presentato non sono neutri, ma ca-
richi di emozioni negative che evocano subito il terrore e la paura.
Guardiamo ora gli esempi, di cui poi una serie relativamente recenti, poiché
abbracciano soprattutto gli anni 2013–2015.

Una tragedia epocale, trafficanti sempre più crudeli, La Repubbli-


ca,19 aprile 2015,
(...) gruppo di una ventina di persone in fuga dall‘inferno siriano e dal
clima sanguinoso che si respira in Iraq (...). La Repubblica, 9 aprile 2015,
(...) perquisizioni della polizia hanno contribuito a modificare i progetti
dei terroristi. È l’inquietante scenario che emerge da un’inchiesta della procu-
ra di Cagliari (...). La Repubblica, 25 aprile 2015,
A Parigi, l’atmosfera è al tempo stesso terribile e surreale. Corriere della
sera, 14 novembre 2015,
(...) familiari dell‘avv. Lorenzo Claris Appiani e a quelli dell‘altra vittima,
Giorgio Erba, prendendo parte al  loro  terribile  dolore (...). La Repubblica,
11 aprile 2015,
Ubertini scrive agli studenti in Erasmus in Francia e ai francesi dell’Alma
Mater per far sentire «vicinanza e affetto in questo momento di inaudita vio-
lenza»; La Repubblica, 17 novembre 2015,
Al’Shebab: Guerra lunga e  orribile. Nuove minacce al  Kenya; Corriere
della sera, 4 aprile 2015,
Le ricostruzioni apparse sulle pagine della stampa internazionale –
dal  New York Times  a  Le Monde, fino al  Figaro  – gettano una luce nuova
e  inquietante sugli ultimi momenti prima dello schianto dell’Airbus della
Germanwings. Corriere della sera, 26 marzo 2015,
È un luogo comune amaro pensare che le tragedie siano meno terribili
quando riescono ad insegnare qualcosa. (...) Questa enorme tragedia finirà
per confermare, e non contraddire, molti stereotipi sulla Germania. Corriere
della sera, 1 aprile 2015,
(...) è l’inizio della nostra ritorsione in risposta a questa orribile e bruta-
le uccisione del nostro giovane e coraggioso pilota (...). Corriere della sera,
6 febbraio 2015,
48 Sylwia Skuza

In un tragico tentativo di sbarco al largo di Capo Passero, persero la vita


283 clandestini tra pakistani indiani e cingalesi Tamil. Corriere della sera, 19
aprile 2015,
Se poi aggiungiamo che la scorsa settimana c’è stato l’attacco terroristi-
co più sanguinoso con quaranta morti, possiamo capire perché ci sia ancora
molta emotività. Corriere della sera, 7 marzo 2015,
Musab Al Zarqawi è stato un assassino spietato, un tagliagole, un man-
dante di uomini–bomba. Corriere della sera, 12 giugno 2013.

Come abbiamo visto, i nomi cruciali che si riferiscono ai conflitti e alle tra-
gedie umane, immancabili poi nel mondo contemporaneo, sono accompagnati
spesso non da uno, ma da due o tre aggettivi che rafforzano il messaggio e la de-
scrizione degli eventi.
Guardiamo ora gli stessi esempi, appena citati, da  cui elimineremo solo gli
aggettivi:

Se poi aggiungiamo che la scorsa settimana c’è stato l’attacco terroristico


più sanguinoso con quaranta morti, (...),
Se poi aggiungiamo che la scorsa settimana c’è stato l’attacco terroristico
con quaranta morti (...),

(...) «è l’inizio della nostra ritorsione in risposta a questa orribile e bruta-


le uccisione del nostro giovane e coraggioso pilota»,
(...) «è l’inizio della nostra ritorsione in risposta a questa uccisione del
nostro giovane e coraggioso pilota»,

In un tragico tentativo di sbarco al largo di Capo Passero, persero la vita


283 clandestini tra pakistani indiani e cingalesi Tamil,
In un  tentativo di  sbarco al  largo di  Capo Passero, persero la  vita 283
clandestini tra pakistani indiani e cingalesi Tamil. Corriere della sera, 19 apri-
le 2015.

L’eliminazione degli aggettivi non cambia naturalmente il significato del testo


e da un lato indebolisce e impoverisce, in modo molto significativo, il messaggio
trasmesso, ma dall’altro questa mancanza si focalizza, senza il carico emotivo che
portano con sé gli aggettivi, sull’informazione vera e propria.
Il linguaggio giornalistico (e non solo40) ci  abitua (o ci  ha già abituati) alla
sovrabbondanza di aggettivi. Il lettore si abitua al tono sproporzionato, ad un’ec-
40
Giuseppe Mazzei, Giornalismo radiotelevisivo: teorie, tecniche e linguaggi, Roma, Rai–Eri,
2005, p. 449 indica nel sottocapitolo intitolato Meno aggettivi più qualità che « il giornalista
Gli aggettivi al servizio delle relazioni nei mass media di oggi sui conflitti… 49

cessiva drammatizzazione della vicenda, il raddoppio degli aggettivi appesantisce


il testo e anche se questo stile è tipico del giornalista inesperto sembra preferito
da parecchi editori. Il tentativo di sovraccaricare il testo degli aggettivi è quindi
sempre più forte.
Alla base dei materiali analizzati possiamo identificare le categorie degli ag-
gettivi legati all’idea della guerra, incluso il terrorismo e i conflitti di diverso tipo
insieme alla frequenza con cui appaiono nei testi giornalistici.

Quantità Nome Aggettivo che accompagna il nome


Tra 10 e 20 Conflitto Orribile
Spaventoso
Sanguinoso
Tra 10 e 20 Attacco terroristico Sanguinoso
Tra 10 e 20 Tragedia Enorme
Terribile
Tra 10 e 20 Guerra Mondiale
Tra 5 e 10 Conflitto Grande
Mondiale
Drammatico
Tra 5 e 10 Attacco terroristico Vile
Peggio (nella storia)
Tra 5 e 10 Tragedia Epocale
Grande
Tra 5 e 10 Violenza Inaudita
Meno di 5 Attacco terroristico Eventuale
Potenziale
Meno di 5 Guerra Lunga
Orribile
Meno di 5 Conflitto Inquietante
Armato
Regionale
Meno di 5 Terrorismo Inqueietante
Spietato
Meno di 5 Uccisione Orribile
Brutale

Tabella 1

dovrebbe limitarsi all’uso di una moderata aggettivazione, senza mai ricorrervi per ampli-
ficare l’effetto delle immagini».
50 Sylwia Skuza

La tabella 1 ci  indica certe varianti tendenti ad  accentuare l’effetto di  dram-
matizzazione e quale è la scelta degli aggettivi più forti e più frequenti nel campo
semantico legato ai conflitti.
Capita non di  rado che gli aggettivi di  cui abbiamo parlato non descrivano
i nomi che ci si potrebbe aspettare che descrivessero in modo convenzionale e at-
teso, e suonano perciò un po’ inconsueti o strani alle nostre orecchie. Essi vengono
usati inadeguatamente soprattutto per provocare una certa dissonanza in modo
da suscitare l’interesse del lettore.
Lo possiamo osservare su un esempio nel seguente titolo di un articolo:

Si chiude con la  più  dolce  delle  sconfitte  la stagione del Siena Calcio
femminile; www.sienasport.it/siena–femminile–dolce–sconfitta–a–carrara,
28 aprile 2015.

Il nome sconfitta che indica esito sfavorevole, per uno dei contendenti di una
battaglia o di una guerra o semplicemente, come nell’esempio nominato, di un gio-
co, è di solito accompagnato da aggettivi come grave o disastrosa, ecc. Nell’esempio
presentato, invece, viene unito all’aggettivo dolce, che ha una connotazione piutto-
sto positiva, gentile.
Ancora un altro esempio:

Le regole del «bravo terrorista »: niente barba e orologio a sinistra, Cor-


riere della sera, 10 ottobre 2011.

Al nome terrorista viene unito l’aggettivo bravo. Notiamo però subito che l’au-
tore dell’articolo mette le virgolette per sottolineare l’ironia dell’aggettivo di con-
notazione positiva, unita al nome terrorista.
Altro esempio:

1918. L’orribile anno della vittoria. Corriere della sera, 12 dicembre 2009.

In questo esempio l’unione dell’aggettivo orribile non coincide in modo riu-


scito con anno della vittoria perché il  nome vittoria evoca soprattutto aggettivi
di  connotazione positiva o  almeno neutrale, come clamorosa, grande, gloriosa,
trionfante.
A questo punto possiamo osservare che nel caso del sostantivo vittoria ci sono
molti testi giornalistici legati soprattutto allo sport che attribuiscono a  questo
nome proprio degli aggettivi inaspettati:

Vittoria brutta ma fondamentale, Europacalcio.it; 15 dicembre 2014,


Vittoria amara per Guardiola. Il suo Bayern ottiene una vittoria inutile
nella gara di ritorno contro il Barcellona (...). Fangazzetta, 12 maggio 2015.
Gli aggettivi al servizio delle relazioni nei mass media di oggi sui conflitti… 51

Un esempio seguente invece presenta un’opposizione logica del nome versus


l’aggettivo che lo accompagna:

Papa Francesco e la guerra giusta. Panorama, 7 maggio 2013.

La dottrina della guerra giusta è un campo di riflessione della teologia mora-
le cristiana che stabilisce a quali condizioni dichiarare una guerra, e combattere
per vincerla. Dal punto di vista logico il confronto del nome guerra con l’aggettivo
giusta provoca un immediato conflitto sul piano semantico.
Le analisi dei testi giornalistici riguardanti diversi conflitti che scoppiano nei
paesi e fra i paesi mostrano che oggi si fa forte la tendenza ad un ampio uso di ag-
gettivi qualificativi. Essi, anche se non è necessario, appaiono abbondantemente
non solo all’interno dei testi, ma fanno anche parte integrante dei titoli che, come
sappiamo,  sono «il biglietto da  visita nell’occhio del lettore». Sono gli aggettivi
che attirano l’attenzione del lettore perché, messi già nei titoli, informano sugli
eventi tragici o sanguinosi, sui conflitti atroci o inquietanti, sulla violenza inaudita
o immane. Per questi motivi bisognerebbe adoperare sapientemente gli aggettivi
per non svalutarli, per non abituare il lettore a parole che dovrebbero essere usate
esclusivamente nelle descrizioni di eventi davvero gravi.
Una lotta per l’autoconservazione:
la dimensione linguistica
Magadalena Bartkowiak-Lerch
Uniwersytet Jagielloński, Kraków

Introduzione

Il conflitto può essere inteso come forma di interazione tra gli uomini che pro-
vano a definire le dimensioni della propria identità. Il mondo globalizzato di oggi
è diventato un contesto troppo ampio per poter radicarvisi in modo sicuro. Così
l’individuo cerca un gruppo più ristretto, un’identità più definita, per inserirvisi
e ritrovare la sicurezza ontologica di cui parla Anthony Giddens41.
Il proposito del presente articolo è di analizzare come tale identificazione si re-
alizzi a  livello sociolinguistico, attraverso il  mantenimento e  la difesa dei cerchi
identitari delle piccole culture, giacché la definizione della propria identità collet-
tiva avviene a volte anche in modo conflittuale.

Identità

Nella filosofia classica questo concetto è strettamente collegato alla sostanza


ontologica, la quale è ben definita, immutabile e capace di perdurare nel tempo.
Tale identità rifiuta tutto ciò che non appartiene alla sua definizione, che è diverso
da sé, ovvero esclude l’altro42. Questa concezione aristotelica, se applicata all’analisi

41
Anthony Giddens, Nowoczesność i tożsamość. „Ja” i społeczeństwo w epoce późnej nowo-
czesności (titolo originale: Modernity and Self–Identity: Self and Society in the Late Modern
Age), Warszawa, Wydawnictwo Naukowe PWN, 2010.
42
Francesco Remotti, Identità, noi, noialtri, in Che cosa ne pensa oggi Chiaffredo Roux?
Percorsi della dialettologia percezionale all’alba del nuovo millennio. Atti del Convegno In-
ternazionale Bardonecchia 25, 26, 27 maggio 2000, a cura di Monica Cini – Riccardo
Regis, Torino, Edizioni dell’Orso, 2002, pp. 315–328.
54 Magadalena Bartkowiak-Lerch

sociale, appare molto rigorosa e addirittura xenofoba. Benché superata da altre te-
orie di identità più moderne, essa sembra “risvegliarsi” in momenti conflittuali. Per
Hegel43 l’identità non è più immobile e non esclude l’alterità. Ma l’interazione fra
questi fenomeni opposti viene in qualche modo guidata dallo Spirito del Mondo44.
Invece nell’ambito delle scienze sociali e  umane l’interesse per l’identità emerge
quando tramontano le idee universalistiche, ovvero negli anni ’60 del secolo scor-
so, con lo psicanalista Erik Erikson, che introdusse il termine identità individuale
nelle scienze sociali, e il sociologo Erving Goffman, il quale pose l’accento sull’a-
spetto creativo dell’identità: tutti siamo attori che insceniamo le rappresentazioni
di noi stessi45. In mancanza di idee universalistiche si fanno spazio rivendicazioni
di identità particolari, individuali e collettive. Nel villaggio globalizzato, ma non
unito da un’idea comune, l’individuo si sente abbandonato, privo del sostegno psi-
chico e del senso di sicurezza offertagli da ordini sociali più tradizionali46. Di qui
nasce anche la diffusione di moti che promuovono identità regionali.
Nelle scienze sociali del Novecento il concetto di identità si richiama all’idea
di soggetto, individuale o collettivo. I soggetti funzionano sempre nel contesto so-
ciale e non hanno quella consistenza interna che gli era attribuita nella teoria ari-
stotelica. La loro esistenza dipende allora fortemente dal fatto se gli altri soggetti
sociali li “riconoscano”.
L’identità, nell’impostazione teorica moderna, ha dunque due dimensioni prin-
cipali: individuale, che vede «la pluralità nel singolare»47, e collettiva, per la quale
essa, secondo Gleason, «è un  costrutto, un  “artefatto” che scaturisce dall’“inte-
razione tra individuo e società” ed è quindi “qualcosa di ascritto dall’esterno che
muta secondo le circostanze”»48. Considerando questa flessibilità, nella riflessione
sulla società moderna si parla addirittura di più identità collettive in riferimento
alla stessa persona49.

43
Le idee di Hegel sono da ritrovare nella sua Encyklopädie der philosophischen Wissenschaf-
ten im Grundrisse, qui tratte da Francesco Remotti, ivi.
44
L’universalità dei processi storici e del destino di trasformazione storica viene poi ripresa
da Marx.
45
Remotti, Identità, noi, noialtri, cit., p. 318.
46
Giddens, Nowoczesność i tożsamość, cit., p. 54.
47
Remotti, ivi, p. 323.
48
Philip Gleason ne parla nel saggio Identifying Identity: A Semantic History, in: «Journal
of American History», LXIX/4 (1983), pp. 910–931. Qui citato da Francesco Remotti,
ivi, p. 318.
49
Questo argomento è sviluppato da: Francesco Remotti, ivi, Pietro Trifone nella Lin-
gua e identità. Una storia sociale dell’italiano, a cura di Pietro Trifone Roma, Carocci,
2006; inoltre da  Mari D’Agostino, Sociolinguistica dell’Italia contemporanea, Bologna,
Il Mulino, 2007 e da Giddens, Nowoczesność i tożsamość, cit.
Una lotta per l’autoconservazione: la dimensione linguistica 55

L’appartenenza etnica e  la lingua etnica sono dimensioni della collettività,


le quali vanno viste, secondo Ryan50, come risultato della scelta da parte dell’in-
dividuo. Osserviamo, però, che le scelte linguistiche dei parlanti non sempre sono
pienamente coscienti51. Si può però presumere in generale che la lingua faccia par-
te del progetto riflessivo52 dell’identità della persona, nei suoi molteplici risvolti.
Riassumendo, possiamo dire che la continuità dell’io e la mutabilità delle si-
tuazioni in  cui l’individuo si  trova si  pongono come due elementi sine qua non
dell’identità. Abbiamo così a disposizione un “guardaroba di abiti” con il quale co-
struire noi stessi53. Alcuni di questi “abiti” a volte devono essere rivendicati e difesi.

Conflitto

L’approccio moderno all’idea del conflitto permette di studiare le pratiche so-


ciali come sequenze di microconflitti54 che, essendo in sostanza irrisolvibili, sono
pur capaci di produrre trasformazioni55. Georg Simmel sottolinea l’importanza del
«conflitto come forma di riconoscimento reciproco (...) Un soggetto, o un grup-
po, un attore collettivo, si pone in contrasto conflittuale con un altro, quando, (...)
riconoscendone l’alterità, la differenza, ne riconosce anche l’esistenza»56.
D’altra parte, il conflitto nasce spesso dalla cosiddetta «frustrazione da rico-
noscimento»57 che consiste nella lotta per il  riconoscimento dell’identità di  un
soggetto o del rapporto di potere fra due soggetti interagenti. Ciò che ci interessa
qui in modo particolare è la dimensione linguistica di tale lotta. Gli esempi addot-
ti ad illustrazione faranno vedere strategie linguistiche adottate dagli attori della

50
Ellen B. Ryan, Why do Low–prestige Language Varietes Persist?, in «Language and Social
Psychology», a cura di Howard Giles – Robert StClair, Oxford, Basil Blackwell, 1979,
pp. 145–157, qui citata la p. 147.
51
La lingua infatti si situa tra la sfera della cosiddetta coscienza pratica (azioni abitudinarie
non percepite da chi le compie) e quella della coscienza riflessiva (azioni coscienti e inten-
zionali).
52
Giddens, Nowoczesność i tożsamość, cit.
53
Cesare Tulli, L’identità personale: definizione e  primi studi sul concetto di  identità, Ne-
onauta (online), disponibile su: http://www.neonauta.it/cms/index.php?option=com_
content&task=view&id=165&Itemid=57&menuid=45 (consultato il  06 febbraio 2013),
pp. 1–5, qui citata la p. 3.
54
Federico Montanari, Conflitto/conflitti. Le forme delle dispute e le loro molteplici strate-
gie, in «Studi culturali. Temi e prospettive a confronto», a cura di Cristina Demaria – Siri
Nergaard, Milano, McGraw–Hill, 2008, pp. 121–145.
55
Alessandro Dal Lago, Il conflitto della modernità. Il pensiero di Georg Simmel, Bologna,
Il Mulino, 1994.
56
Montanari, Conflitto/conflitti, cit., p. 137.
57
Montanari, ivi, p. 122.
56 Magadalena Bartkowiak-Lerch

interazione conflittuale. La teoria–guida nell’analisi degli avvenimenti non può


essere altra che quella dell’accomodamento linguistico di  Howard Giles58. I  due
parametri discussi a proposto di questa teoria – del potere e della solidarietà – ser-
viranno inoltre da appoggio per le nostre considerazioni.
Situazioni in cui il conflitto tende ad accentuarsi si hanno quando una cultu-
ra deve difendere la propria identità, minacciata da altre culture, opprimenti, sul
territorio stesso della prima. In questo senso si possono intendere prove di nega-
zione dell’esistenza di tale identità di gruppo, o vari tentativi di svalutarla. Questa
dimensione conflittuale sarà illustrata con indagini condotte in Gran Bretagna e in
Belgio da Bourhis e altri59.
Un altro fattore da considerare qui è la crisi di una cultura o società, la quale
provoca ridimensionamenti che possono sfociare in conflitti, all’interno della so-
cietà stessa o fra essa e le società limitrofe che invadono il suo spazio. La minaccia
all’integrità territoriale induce a reazioni di difesa. Il territorio può essere virtua-
le: le frontiere a volte esistono ormai solo nelle menti dei membri dei gruppi che
si distinguono – per la tradizione, la religione, la lingua – dai gruppi circostanti. In
seguito si cercherà di illustrare tale situazione di conflitto a livello linguistico con
un esempio osservato in Polonia.
Un’altra situazione che spesso risulta conflittuale è il rapporto gerarchico fra
i membri delle comunità. Quando le strutture gerarchiche vengono minacciate o si
verificano prove di ridefinizione di esse, nasce la situazione di conflitto. Per esem-
plificare questa dimensione si è scelto un caso riportato da D’Agostino60 che sem-
bra particolarmente interessante, in quanto il conflitto si gioca all’interno di un
gruppo identitario linguistico, ma allo stesso tempo fra rappresentanti di diversi
gruppi sociali non linguistici.

Situazioni conflittuali – livello linguistico

Avendo in  mente che la  relazione conflittuale va  vista e  interpretata in  un
momento concreto e  all’interno di  un clima sociale concreto, passiamo adesso
a introdurre i casi che dovrebbero illustrare le considerazioni fatte sopra. Come
preannunciato, nell’interpretazione degli esempi ci serviamo della teoria dell’ac-
comodamento di Howard Giles, nella quale si osservano le strategie della conver-
58
Howard Giles, Accommodation in communication, in «The Encyclopaedia of Language
and Linguistics», a cura di Dwight L. Bolinger et al., I, Aberdeen, Pergamon Press &
University of Aberdeen Press, 1994, pp. 12–15.
59
Richard Y. Bourhis – Howard Giles – Jacques P. Leyens – Henry Tajfel, Psycholingui-
stic Distinctiveness: Language Divergence in Belgium, in «Language and Social Psychology»,
a cura di Howard Giles – Robert StClair, Oxford, Basil Blackwell, 1979, pp. 158–185.
60
D’Agostino, Sociolinguistica, cit.
Una lotta per l’autoconservazione: la dimensione linguistica 57

genza e della divergenza linguistica. La convergenza significa modificare la propria


lingua a modello di quella dell’interlocutore e la divergenza – modificarla in modo
tale da differenziarla il più possibile dalla lingua di colui con cui si parla61. I due pa-
rametri – del potere e della solidarietà – vengono attivati a seconda della situazione
comunicativa: quello del potere è determinativo nei casi in cui il contesto impone
di usare la varietà considerata più prestigiosa; il parametro della solidarietà si ma-
nifesta di  solito in  situazioni meno ufficiali per marcare l’appartenenza o  meno
al gruppo identitario dell’interlocutore. Il parametro del potere determina, in altre
parole «ciò che conviene», il parametro della solidarietà comporta fattori emotivi.

In Gran Bretagna e in Belgio

Bourhis e altri62 hanno proposto una una serie di indagini sperimentali di tipo
psicolinguistico in  cui verificano i  comportamenti linguistici dei rappresentan-
ti di  gruppi etnici in  situazione di  conflitto. La prima ricerca, condotta in  Galles,
ha provato che anche le persone che non possiedono la competenza attiva della loro
lingua etnica (i gallesi sottoposti all’esperimento imparavano il gallese come secon-
da lingua63), tendono a rafforzare l’accento regionale o a intromettere parole gallesi
quando si sentono minacciate nella loro identità: il ricercatore che parlava un ingle-
se senza alcun accento regionale interrogava loro sulle tecniche dell’apprendimento
della seconda lingua. Ad un certo punto ha fatto un’osservazione spregiativa intorno
all’utilità dello studio di una «lingua che sta morendo, con un futuro miserabile». La
reazione è stata immediata. Gli studiosi hanno constatato che «when ingroup mem-
bers are ethnically threatened by  an outgroup speaker they will make themselves
psycho–linguistically distinct from him by accent divergence»64.

61
Bourhis, Psycholinguistic Distinctiveness, cit., p. 159.
62
Bourhis, ivi.
63
Dopo la conquista normanna, e specialmente con la legge conosciuta come “Union Act”,
del 1535, che imponeva l’uso ufficiale della lingua inglese, iniziò il processo di graduale
perdita della specificità culturale e linguistica della regione. La svolta verso il gallese, ormai
quasi estinto, fu segnata di nuovo da una legge: “Welsh Language Act”, del 1967. Adesso
il gallese è riconosciuto a livello dell’Unione Europea come una delle lingue semiufficiali,
insieme al catalano, al basco, al galiziano e al gaelico scozzese (cfr. Meirion Prys Jones,
Lingue a rischio di estinzione e diversità linguistica nell’Unione Europea, Unione Europea:
Dipartimento tematico B: Politiche strutturali e di coesione, Parlamento Europeo (online).
Disponibile su:
http://www.europarl.europa.eu/RegData/etudes/note/join/2013/495851/IPOL–CULT_
NT(2013)495851(SUM01)_IT.pdf (consultato il  28 aprile 2015), pp. 1–8). La realtà pre-
sente del Galles è bilingue, ma molti gallesi imparano la loro lingua etnica come lingua
seconda.
64
Bourhis, Psycholinguistic Distinctiveness, cit., p. 160.
58 Magadalena Bartkowiak-Lerch

La seconda indagine, condotta in Belgio, è stata in sostanza simile a quella fatta


precedentemente in Gran Bretagna: un parlante francofono era stato presentato
al gruppo sottoposto all’esperimento una volta come ben disposto nei confronti
delle loro aspirazioni linguistiche65 e, un’altra volta, come maldisposto. Si è rivelato
che le  strategie della divergenza linguistica (l’uso della lingua fiamminga), nella
situazione della minaccia dell’identità etnica, sono state più forti e più frequenti
quando i soggetti avevano la previa consapevolezza dell’atteggiamento sfavorevo-
le dello sperimentatore. La differenza maggiore, rispetto all’indagine precedente,
consiste nella competenza linguistica di quel gruppo: mentre i gallesi imparavano
la loro lingua come L2, i fiamminghi possedevano la competenza attiva delle due
lingue, il  francese e  il fiammingo (l’inchiesta era condotta in  inglese, una terza
lingua padroneggiata dai soggetti e  sentita come emotivamente neutra). Si può
constatare, quindi, che la lingua sia una componente fondamentale della defizione
dell’identità di  gruppo, in  questi due casi uguale a  quella etnica, indipendente-
mente dal fatto se essa sia lingua di prima socializzazione (imparata a casa) o di
seconda, ovvero imparata in un certo momento della vita adulta, probabilmente
come parte del «progetto riflessivo» della propria appartenenza al gruppo etnico.

In Polonia

La situazione che vogliamo analizzare è accaduta nell’agosto del 2008, a Rycer-


ka Górna, un piccolo villaggio situato nella catena montuosa di Beskid Żywiecki.
L’interazione è avvenuta fra la commessa di un negozio di alimentari, abitante del
villaggio, e tre giovani provenienti da un altro villaggio, Istebna, che si trova a po-
chi chilometri da Rycerka, ma appartiene al massiccio montuoso dei Beschidi della
Slesia. La frontiera amministrativa che una volta divideva le due regioni esiste an-
cora nelle menti della gente66. Gli abitanti delle due località parlano inoltre diversi
65
In Belgio, come noto, dal 1873 è riconosciuto a livello ufficiale il bilinguismo fiammingo
(olandese) – vallone (francese). Nonostante che la maggior parte degli abitanti parli il fiam-
mingo e che nel Paese sia presente un’altra minoranza linguistica, quella tedesca, la pre-
dominanza della lingua francese si fa sentire fin dall’inizio dello Stato del Belgio (1830).
L’identità fiamminga, etnica e linguistica, è comunque sempre stata viva e mantenuta. Le
leggi linguistiche degli anni ’60, che separavano i territori linguistici in Belgio e regolavano
i  diritti dei parlanti, in  pratica polarizzarono la  situazione tra i  francofoni e  i  fiammin-
ghi. Quegli ultimi si sentirono minacciati nella loro libertà e identità (cfr. Bourhis, ivi,
pp. 161–165).
66
Il territorio della provincia di Żywiec fino al 1975 appartenne al Voivodato di Cracovia e fu
inserito nel Voivodato della Slesia solo dopo il 1999. Ma la divisione fra le due popolazioni
si deve a un periodo assai più lungo: nella memoria degli slesiani di Cieszyn persiste il ri-
cordo della dominazione degli austriaci (fino alla fine della Prima guerra mondiale) che
trattavano meglio gli slesiani rispetto agli abitanti di Rycerka, da sempre legata alla regione
Una lotta per l’autoconservazione: la dimensione linguistica 59

dialetti che appartengono, rispettivamente, al gruppo della Slesia di Cieszyn e della


Piccola Polonia.
I ragazzi erano arrivati per eseguire i lavori di isolamento di una casa in tron-
chi massicci. Entrando nel negozio hanno tentato di parlare alla donna nel dialetto
di Rycerka. L’hanno fatto consciamente, nella loro intenzione doveva essere una
prova di ingraziamento linguistico, ma la reazione della commessa è stata diversa
da quanto si aspettavano i ragazzi: ha dimostrato ostilità nei loro confronti. Che
cosa è  successo? Le due parti dell’interazione rappresentano due atteggiamenti:
da parte degli slesiani c’è stata l’apertura verso l’altro e una prova di avvicinamen-
to attraverso l’adozione delle strategie di convergenza linguistica. Dall’altra parte,
la  donna ha  reagito male perché non ha  accettato questa prova. Avrà scoperto
(dalla pronuncia o  da piccole incongruenze linguistico–comportamentali) che
i tre ragazzi non appartenevano al gruppo di cui volevano parlare la lingua. Può
aver interpretato questo atto come prova di trasgressione della frontiera identitaria
virtuale. La reazione della commessa significava: “entrate nel territorio che non
vi è proprio; l’ho scoperto e non ve lo permetto”. Come scrive Remotti «un noi che
si carica di un forte senso di identità rifiuta i rischi di confusione con gli altri. (...)
scava fossati tra sé e gli altri, respingendo gli altri sull’altra sponda»67. Ovviamente,
la buona disposizione verso l’altro può incontrare un’altrettanto buona disposizio-
ne e un riconoscimento dello sforzo nell’avvicinamento all’altro, secondo il prin-
cipio di convergenza linguistica. Le reazioni ostili succedono per lo più quando
il  soggetto si  sente minacciato nella propria identità. Nella situazione descritta
sopra questa minaccia si  può definire come del tutto soggettiva, come prodotto
dell’atteggiamento chiuso da parte della donna. La lingua, sia in questo caso che
nelle situazioni descritte sopra, serve da arma di difesa dall’aggressore. Vediamo
adesso una situazione in cui essa diventa strumento di ribellione.

In Italia

La situazione sottoposta all’analisi è avvenuta in Sicilia, a Palermo, negli anni


’90 del secolo scorso ed è stata descritta da D’Agostino68. Un ragazzo di 17 anni rac-
conta al ricercatore la sua conversazione in questura con i poliziotti. Rivolgendosi
a loro il ragazzo parla in dialetto e tale scelta è intenzionale, anche se egli si ren-
de conto che sarebbe stato più opportuno parlare in  italiano. Infatti, i  poliziotti
reagiscono male e  cercano di  imporre la  conversazione in  italiano, pur essendo

storica della Galizia, per la quale invece il periodo della spartizione significava la grande
“miseria della Galizia”.
67
Remotti, Identità, noi, noialtri, cit., p. 326.
68
D’Agostino, Sociolinguistica, cit., pp. 140–142.
60 Magadalena Bartkowiak-Lerch

anche loro siciliani. Il fattore determinante la scelta della varietà è qui il contesto
comunicativo: il parametro del potere impone l’uso della lingua standard, consi-
derata come la varietà più prestigiosa. Nel caso analizzato si ha a che fare con una
doppia identità dei parlanti: etnico–linguistica (siciliana) da una parte – e questa
è comune agli attori dell’interazione – e sociale non linguistica dall’altra – e qui
ciascuna delle parti rappresenta un  gruppo diverso, contrapposto o  addirittura
nemico dell’altro. I poliziotti, rappresentanti del potere, adottano le regole lingui-
stico–comportamentali che impongono l’uso della lingua standard e  allo stesso
tempo sottolineano la distanza sociale che li separa dall’interlocutore. Il ragazzo,
trovatosi in situazione di conflitto con i rappresentanti delle autorità, adotta le stra-
tegie di divergenza linguistica. Scegliendo il dialetto viola il parametro del potere
e tenta di smascherare i poliziotti sottolineando la loro parità nei suoi confronti.
Nella coscienza del ragazzo, come risulta dalla sua spiegazione fatta al ricercatore,
la rinuncia all’adattamento linguistico costituisce l’atto di ribellione alle circostan-
ze della situazione in cui si è trovato.

Conclusioni

Negli esempi presentati la lingua si prefigura come un’arma con cui difendere
la propria identità e autonomia dagli altri gruppi, con la quale si può ferire l’avver-
sario. È anche capace di opporsi alla dominazione altrui e a smascherarne la vera
identità. Attraverso la lingua si rivendica inoltre il riconoscimento della realtà (il
gruppo sociale o etnico) a cui appartiene il parlante.
In questa occasione abbiamo visto solo situazioni conflittuali in cui sono state
adottate le strategie linguistiche di divergenza. Bisogna ovviamente tener presente
che la lingua ha due facce: quella più bella si fa veicolo di emozioni positive e di
apertura verso l’interlocutore, anche se egli fosse esponente di un gruppo identi-
tario diverso.
La percezione dell’altro nella commedia all’italiana
Anna Grochowska–Reiter
Uniwersytet Adama Mickiewicza w Poznaniu

Introduzione

L’economia dello sforzo nella conoscenza del mondo circostante, la difesa della
posizione nella società, la giustificazione psicologica del nostro comportamento
nei confronti di un altro gruppo si rivelano le principali funzioni dello stereoti-
po69, una delle espressioni della nostra percezione del mondo esterno. Si tratta
delle immagini nella nostra testa70, come definiva lo stereotipo Lippmann, quan-
do introduceva la nozione nelle scienze sociali; di un’opinione esagerata associata
a una categoria71, precisava trent’anni più tardi lo psicologo americano Allport. Gli
stereotipi assumono una considerevole importanza nell’espressione del pregiudi-
zio etnico. Nonostante le differenze tra i membri di una nazione possano essere
notevoli, il carattere nazionale implica che i membri della stessa nazione si asso-
miglino sotto alcuni, fondamentali aspetti, i quali, in seguito, prendono la forma
di un’etichetta classificatrice sia a livello mentale che lessicale. Secondo le puntua-
lizzazioni di  Allport, ogniqualvolta a  una categoria neutra, ad  esempio italiano,
riferita alla pura appartenenza nazionale, vengano affibbiati giudizi o immagini,
abbiamo a che fare con uno stereotipo72. Non abbiamo modo qui di trattare estesa-
mente il concetto dello stereotipo, ma occorre tener presenti gli studi che lo tratta-
no in chiave linguistica, come quello di Putnam e la collocazione dello stereotipo
all’interno dell’intensione del lessema73 o come quello di Quasthoff, in cui la con-
69
Vedi Walter Lippmann, Public opinion, New York, Harcourt, Brace and Company, 1922,
p. 83; Gordon W. Allport, 1954 (31a ed., 2003), The nature of prejudice, Cambridge, Per-
seus Books, p. 191.
70
Lippmann, Public opinion, cit., p. 6.
71
Allport, The nature of prejudice, cit., p. 191.
72
Allport, The nature of prejudice, cit., p. 192.
73
Vedi Hilary Putnam, The meaning of “meaning”, in «Language, Mind and Knowledge»,
vol. 7: Minnesota Studies in Philosophy of Science, Keith Gunderson Edition, 1975.
62 Anna Grochowska–Reiter

notazione stereotipica risulta appartenere alla competenza comunicativa del par-


lante74 o ancora la nozione di linguistica immagine del mondo introdotta nell’ambi-
to della scuola di Lublin75.
Le stesse considerazioni possono essere applicate agli stereotipi regionali che,
in un paese come l’Italia, caratterizzato nel passato da una secolare frammenta-
zione geografica, politica, sociale e linguistica, hanno trovato un terreno idoneo
di  sviluppo e  diffusione, e  tuttora sono presenti nella società italiana. Nel 1948
Pietro Francisci girò Natale al campo 119 e portò sul grande schermo le vicende
di alcuni soldati italiani (tra cui un romano, un napoletano, un veneziano, un mi-
lanese, un  genovese, un  siciliano) chiusi in  un campo di  prigionia californiano.
Il film alterna «le attese dei prigionieri di guerra (…) con flashback a carattere tu-
ristico introdotti da stornellate e ambientati in varie regioni d’Italia»76. Il film sparì
senza riscuotere un particolare successo, anzi, da Giacovelli e Lancia viene definito
«uno dei peggiori dell’epoca»77, nonostante la presenza di attori come Fabrizi, De
Sica o De Filippo. Non valutiamo il valore artistico del film. Di nostro interesse
sono i protagonisti regionali che portano sullo schermo, anche se in modo assai
macchiettistico, mille e una Italia. Svariati dialoghi del film si concentrano sulle
singolarità di diverse regioni, ma ciò che colpisce maggiormente è il modo in cui
i soldati si interpellano: con gli appellativi di provenienza («Vieni qui, Genova!»,
«Aspettiamo la Sicilia») che celano la percezione stereotipica dell’altro.
Si è  deciso quindi di  considerare in  modo più ravvicinato i  protagonisti ci-
nematografici regionali e sottoporre all’esame le strategie linguistiche attuate per
descrivere i loro compagni: consimili perché connazionali, ma allo stesso tempo
differenti, perché non corregionali.
Il corpus di  natura cinematografica racchiude le  pellicole appartenenti alla
commedia all’italiana, ovvero i film che raccontano le sorti di un paese e di una
nazione in  tumultuosa trasformazione, durante e  dopo il  miracolo economico.
La scelta dei film è stata dettata dall’immagine che portano sullo schermo: quella
dell’Italia unita dalla povertà della fine degli anni cinquanta, dalla sprovincializza-
zione e dall’arricchimento della società dei primi anni sessanta, dalla rivoluzione

74
Vedi Uta M. Quasthoff, Soziales Vorurteil und Kommunikation – eine sprachwissenschaft-
liche Analyse des Stereotyps: ein interdisziplinärer Versuch im Bereich von Linguistik, Sozial-
wissenschaft und Psychologie, Frankfurt am Main, Athenäum–Fischer–Taschenbuch–Ver-
lag, 1973.
75
Vedi Jerzy Bartmiński, Stereotypy mieszkają w języku. Studia etnolingwistyczne, Lublin,
Wydawnictwo Uniwersytetu Marii Curie–Skłodowskiej, 2009; Jerzy Bartmiński, Języko-
we podstawy obrazu świata. Wydanie czwarte, Lublin, Wydawnictwo Uniwersytetu Marii
Curie–Skłodowskiej, 2012.
76
Masolino D’Amico, La commedia all’italiana, Milano, Il Saggiatore, 2008, p. 63.
77
Enrico Giacovelli, Enrico Lancia, I film di Peppino de Filippo, Roma, Gremese, 1992,
p. 54.
La percezione dell’altro nella commedia all’italiana 63

dei costumi, dalle nuove forme di socializzazione. L’immagine, quindi, che raccon-
ta le nuove vicende, solo i protagonisti rimangono quelli vecchi, perché nonostante
i cent’anni passati dall’unità e i profondi cambiamenti del tessuto economico e so-
ciale, il senso di appartenenza, così come l’angolo di percezione, rimasero anco-
rati alle città e regioni native. Le storie raccontate dalla commedia all’italiana non
avevano come protagonisti gli italiani, bensì i romani, i napoletani, i veneti e i mi-
lanesi, ecc. Il corpus esaminato è  stato ristretto a  tre appellativi di  provenienza:
milanese, romano e siciliano. Occorre ancora una volta ribadire che essi, accanto
al loro significato primario, di valenza neutra (indicazione del luogo di origine),
nascondono anche un significato secondario, connotato emotivamente, stereoti-
pico. Inoltre, l’analisi verrà completata dagli elementi lessicali diversi dagli appel-
lativi di provenienza, ma dotati di un valore sinonimico o comunque riferiti agli
abitanti di una determinata regione.

Milanese

Il significato connotato del lemma milanese viene pienamente incarnato dai pro-
tagonisti delle commedie appartenenti al corpus. Il sostantivo serve da nomignolo
a Virgilio, protagonista di ACSI78 in cerca di collaboratori per una rapina alla mac-
china che trasporta l’incasso delle giocate del Totocalcio. Virgilio, da vero milanese,
è vestito all’ultima moda (abito e borsalino bianchi, mocassini di Varese). L’eleganza
è plausibile anche presso gli altri protagonisti milanesi, o chi vuole sembrare tale:
Nino (M79), Alberto (V80). Anche le figure femminili milanesi, sia quelle appartenen-
ti all’alta società (Anna in IOD81; Elvira e le sue amiche in V), sia le milanesi medie
(Marta in M) si vestono con gusto e raffinatezza, che spiccano ancor di più se con-
frontati con lo stile delle protagoniste provenienti dalle altre regioni.
Milanese indica anche una persona puntuale e  precisa: Virgilio è  scocciato
quando Peppe arriva in  ritardo (ACSI); Nino progetta ogni minuto del viaggio
per la Sicilia con estrema precisione (M)), per cui il lavoro e l’operosità godono
di estrema importanza (Alberto (V): «Sono le nove e due minuti! Cosa si fa, non
si  lavora qui oggi?»; «Battiamo la  fiacca? Sono le  nove!»; «Andate cari! Andate
a lavurà!»; «Andiamo! Scattare signorina! Si riprende il lavoro!»; Nino (M) «Per
molti anni ho convertito le mie vacanze in giornate lavorative»). Milanese è anche
un po’ snob, pronto sempre a porsi con raffinatezza agli altri (Peppe in SI82, quando

78
Audace colpo dei soliti ignoti, N. Loy, 1959.
79
Mafioso, A. Lattuada, 1961.
80
Il vedovo, D. Risi, 1959.
81
Ieri, oggi, domani, V. de Sica, 1963.
82
I soliti ignoti, M. Monicelli, 1958.
64 Anna Grochowska–Reiter

si finge lombardo, ammette di praticare tennis, golf e polo) e a sfoggiare la sua su-
periorità (Giovanni in GG83): «Ue, ma avete mai letto il Bakunin? Al primo nome
difficile manca la  musica»), soprattutto nei confronti delle persone provenienti
dalle regioni ritenute svantaggiate (Giovanni (GG) a ogni occasione deride Rosa-
rio, soldato di origini siciliane).
A livello lessicale il sostantivo milanese, come già menzionato, appare in quan-
to nomignolo di Virgilio (ACSI), e si incontra anche nella forma alterata milaneso-
ne (M), affiancata a nordico, pronunciata con l’assimilazione totale regressiva della
dentale, tipica delle parlate siciliane: «Arrivato sei, milanesone! / Ue, noddico!». In
questo saluto rivolto a Nino dai suoi amici si percepisce chiaramente la conno-
tazione positiva emanata dagli elementi lessicali: gli amici sono contenti che lui
ce l’abbia fatta, ma nel contempo, è quasi palpabile che avrebbero voluto essere loro
al suo posto: andarsene dall’isola piuttosto che restarvi impantanati, come appunto
ribadisce, senza neanche accorgersene, Nino: «Picciotti! (…) Noto che come vi la-
sciai otto anni fa, così vi rritrovo».
Il milanese, anche se d’adozione come Nino (M), è orgoglioso di esserlo e ama
la sua nuova patria «Don Vincenzo: E lassù come ti trovi? – Nino: Ah, ottima-
mente. Sotto ogni punto di vista: lavoro, casa, soddisfazioni», va fiero di viverci
e di averci messo su famiglia. La milanesità e tutto quello che vi si cela a livello
connotativo sembra scoppiettare quando Nino presenta le sue figlie: «Ecco le mie
bambine. Cinzia e Caterina. Questa è Cinzia. Saluta gli amici. Brava. E questa è l’al-
tra, la più piccola, Caterina. Milanesine sono».
Nei film analizzati milanese, a prescindere dal lato satirico portato dalla com-
media, ha una forte connotazione positiva, soprattutto negli ambienti considerati,
per motivi sociali, economici, o altri ancora, subalterni a quello che rappresenta
Milano insieme ai suoi abitanti. Per indicare delle qualità negative occorre quindi
ricorrere agli elementi lessicali nuovi. È così Rosario (GG), soldato siciliano, stu-
fo di essere lo zimbello di Giovanni, commilitone milanese, ricorre al sostantivo
composto mangiapolenta che, come si suppone, sia apparso proprio nelle caserme
«attribuito dai soldati meridionali a  quelli settentrionali, che ricambiavano con
il nomignolo di terroni»84. («Uh, che scassamento de peperoni. Voialtri mangiapo-
lenta sempre le stesse cose sapete dire»).

83
La grande guerra, M. Monicelli, 1959.
84
Panzini (1905: 924) citato in Pietro Trifone, Storia linguistica dell’Italia disunita, Bolo-
gna, Il Mulino, 2010, p. 48.
La percezione dell’altro nella commedia all’italiana 65

Romano

I personaggi romani, considerando il ruolo della Capitale nella realtà cinema-


tografica dell’epoca, dominavano il grande schermo. Se si ricorreva ai loro tratti re-
gionali stereotipici, con il sostantivo romano si indicavano le persone scarsamente
affidabili, con poca voglia di lavorare e grande passione per il mangiare e il diver-
timento (Oreste in GG, Bruno in SO85, Peppe in SI e ACSI, nonché i personaggi
“milanesizzati”, ma con i tratti romaneschi ben in vista: Alberto (V)).
Il ricorso al sostantivo romano e ai suoi derivati risulta frequente e punta sola-
mente alla connotazione carica di emotività:

Giovanni: Lazzaron! Porcon! Vigliacc lader di un romano! (GG)


Giovanni: Balordo di un romano bocca larga! (GG)
Giovanni: Boia di un mascalsone, spione di un romano! (GG)
Mamma Italia: Ma che volgare, tu vai di là! Molla la pelliccia romano! (V)
Mamma Italia: No! Lei la mia Gioia non la vede più né dentro né fuori
romanaccio cafone! (V)
Amedeo: Ma sti romanaschi, che gente l’è? (ACSI).

È indubbia, quasi palpabile, la loro connotazione negativa, rafforzata ulterior-


mente dalla presenza di altri sostantivi spregiativi quali vigliacco, ladro, balordo, ca-
fone o da suffissi peggiorativi in –accio o –asco, quest’ultimo di valore qualitativo,
diffuso nell’Italia settentrionale. I romani stessi sembrano coscienti dell’impressio-
ne negativa che la loro provenienza (e tutte le connotazioni che vi si celano) può
suscitare. Tale consapevolezza si spiegherebbe nelle strategie che questi adottano
per diminuire l’effetto romano. Alberto Nardi (V) quando conosce sua moglie (mi-
lanese), per non inimicarsela, cerca di sminuire il ruolo giocato dalle sue origini
ricorrendo a un’immagine più prestigiosa: «Nardi: Ce l’ho presente come se fosse
adesso, suonavano il valzer delle candele, lei venne avanti e mi disse: «Romano?».
«Sì» dico io «ma vivo a Milano». Così ci siamo conosciuti». Una tattica analoga
viene attuata in SI, quando Peppe, romano, vuole conquistare Nicoletta, domestica
veneta a servizio in una casa romana. Quando si imbatte in lei, volutamente na-
sconde la sua vera identità e si finge un viaggiatore di commercio settentrionale,
aumentando così la possibilità di accattivarsi la simpatia della ragazza.
Del romano non ci si può fidare. I protagonisti regionali ne sono perfettamente
consapevoli e vedono i romani come scansafatiche, parassiti e opportunisti senza
voglia di lavorare, il che viene ribadito numerose volte nelle battute dei film sotto-
posti all’analisi:
85
Il sorpasso, D. Risi, 1962.
66 Anna Grochowska–Reiter

Oreste: Io? Io sono un po’ miope. Hai visto mai che non lo becco.
Giovanni: Sei un pelandrone sei, altro che miope. Come tutti i romani.
(GG)
Commendatore: Eh sì, è inütil con voi. Con voialtri romani si può fare
tutto meno che impiantare degli affari. (SO)
Borelli: Mariani? No, non conosco nessun Mariano. Romani, vero? Io
a Roma ci vado sempre malvolentieri. È triste, umida e antilavorativa. Scusi-
no eh, ma io la penso così. Si può andare in qualunque città e ognuno resta
chi è. Genovese è  un genovese, fiorentino è  un fiorentino. A  Roma invece
dopo tre giorni si diventa tutti romani. (SO)
Amedeo: Ma sti romanaschi, che gente l’è? Io dei romani mi sono sempre
fidato poco. Sono buoni solo a far pagare le tasse a noi che li manteniamo!
Per fortuna che c’è quel tuo cugino Virgilio! Quelli sì che l’è in gamba! È mica
vero? (ACSI).

Romano significa anche ‘ritardatario’, il  che assume perfino le  sembianze
di un’espressione idiomatica fare i romani quindi ‘arrivare in ritardo’, come possia-
mo notare in una delle scene di ACSI:

Virgilio: Ue, cominciamo mica a  fare i  romani eh? Regola prima l’è
la puntualità. Chiaro?
Peppe: Mi si è fermato l’orologio. “Boy”!
Virgilio: Ma se non ce l’hai l’orologio!
Peppe: L’orologio der tram. (ACSI).

La connotazione emotiva del sostantivo romano si traduce in etichette di valo-


re negativo come fannullone, inaffidabile, ritardatario. Contrariamente al milane-
se, non sono stati riscontrati appellativi di valore contrario, in questo caso positivi.

Siciliano

Il siciliano è un frequente protagonista delle commedie all’italiana, il che è do-


vuto, indubbiamente, alla curiosità e all’interesse che all’epoca suscitava sia la Sici-
lia che i suoi abitanti. Vi si percepiva l’aria di altri tempi, in cui il tradizionalismo
e  l’attaccamento alla terra giocavano un  ruolo fondamentale. L’arretratezza del
pensiero e le usanze retrive dei siciliani combaciavano alla perfezione con la visio-
ne tragicomica della commedia all’italiana. «È forse uno dei pochi paesi» disse Pie-
tro Germi «in cui si sente ancora il senso dell’avventura, un po’ quasi un west, con
La percezione dell’altro nella commedia all’italiana 67

aspetti di costume che si prestano sia al dramma che alla farsa»86. La realtà siciliana
viene presentata in  modo attendibile da  Pier Paolo Pasolini, nel suo documen-
tario Comizi d’amore (1965). Dalle interviste emerge una Sicilia arretrata, arida,
gelosa, sessualmente oppressa, ma, a ogni costo, rispettosa e onorevole. In seguito,
quest’immagine riempì la connotazione secondaria del sostantivo siciliano.
Siciliano rievoca un’immagine precisa, definita perfino a  livello dell’aspetto
esteriore: bassa statura, baffi, sguardo profondo, portamento rigido. Gelosia, ono-
re, orgoglio sono invece i tratti che dominano la loro personalità e diventano eti-
chette che i siciliani finora, almeno in molte pellicole comiche, non sono riusciti
a scrollarsi di dosso.

Mario: Aò! E  fatti gli affari tuoi, fatti!. Mandaci il  siciliano! L’amico
di Cosimo
Capannelle: Ma quale siciliano?
Mario: Quello piccolo, magro, quello che c’ha sorella che la tiene sempre
chiusa in casa come un oracolo!
Capannelle: Ferribotte87? (SI)

Siciliano: Simbatica è. Giovanni, fammi vedere pure a me.


Giovanni: Dai, forza, guarda, o nano! Eh, mica male quella lì (GG).

Oltre all’estensione del significato del sostantivo indicante la provenienza, nel


caso del protagonista siciliano sono stati riscontrati alcuni appellativi offensivi.
Nano, riferito alla bassa statura (citato sopra) nonché negrus (1), africa (2) e mau
mau (3).

Siciliano: E per me niende?


Giovanni: Ue, negrus! Prima che arrivi una lettera dal paese tuo ci voglio-
no le truppe cammellate. (GG)

Siciliano: Noi non possiamo sapere se se deve fare o non se deve fare.
Giovanni: Stai zitto africa! Sono secoli che la gente si scanna con le gue-
re, non è mai servito a niente. (GG)

86
leonardo Autera, I film: Sedotta e abbandonata, in «Bianco e Nero», Anno XXV, nume-
ro 2, 1964, p. 52.
87
Il nomignolo Ferrybotte è una storpiatura di ferry boat, il traghetto che unisce la Sicilia
al continente.
68 Anna Grochowska–Reiter

Gli appellativi negrus e africa sono un esplicito riferimento al continente afri-


cano e ai suoi abitanti con una connotazione di forte valore spregiativo, con uno
sfondo razzista che rispecchia lo stereotipo secondo cui la comunità africana è in-
dustrialmente arretrata, povera, affetta dalla fame e dalle malattie. In più, Trifone
nota che dire a qualcuno africa «equivale a considerarlo un elemento non meglio
definito di  una realtà diversa e  inferiore rispetto alla propria, senza riconoscer-
ne quindi la specifica identità personale, e tanto meno accettarlo come prossimo
e uguale»88. La Sicilia risulta quindi una realtà distante ed esotica, nell’accezione
negativa della parola (vi sono solo «i sassi e i fichi d’India», come constata Mario
in SI). I suoi abitanti appaiono talmente diversi da generare panico, come nel caso
di Marta, moglie di Nino, che sta per sbarcarvi,

Nino: Che cos’hai, Marta?


Marta: Niente, guardavo l’Italia che si allontana. C’ho un magone.
Nino: Su, su, bambine, non vi addormentate. Ormai siamo arrivati.
Marta: Eh, lo credo. L’Italia è finita. (M)

o incutere paura, come si  nota nella conversazione telefonica tra Nino (M)
e suo suocero – lombardo – alla vigilia della partenza per l’isola.

(3) Nino: Pronto, papa! Sì! Siamo sul piede di partenza, come si dice. No,
non vi preoccupate. Che? La vaccinazione antitifica? Papa! Che credete che
andiamo in mezzo ai mau mau. A casa mia li potto.

I Mau Mau (anche mao mao), propriamente detti, sono i seguaci di un movi-
mento indipendentista ribellatosi, negli anni cinquanta, contro il dominio colo-
niale del Regno Unito. Come riporta Trifone89, nell’Italia settentrionale l’espres-
sione mau mau (mao mao), che in dialetto torinese significa straccione, vagabondo
e  indica uno che sta ai  margini, veniva usata, con connotazione spregiativa, nei
confronti degli immigrati meridionali.
In effetti, i siciliani destano paura e disagio. Chi non proviene dal loro mondo
e non condivide le loro tradizioni, non solo li considera insoliti, ma perfino barba-
ri, selvaggi, come detto da Tom a Assunta in RP90, quando questa cercava di levare
l’offesa volendo uccidere chi l’aveva disonorata «Sei indegna di  vivere fra gente
civile!», «Tu stai bene in una caverna!».
Nella commedia degli anni sessanta vi sono ancora esigui riferimenti al sici-
liano come mafioso. In GG Giovanni chiama camorristi tutti quelli che vivono

88
Trifone, Storia linguistica, cit., p. 36.
89
Trifone, Storia linguistica, cit., p. 46.
90
La ragazza con la pistola, M. Monicelli, 1968.
La percezione dell’altro nella commedia all’italiana 69

da Roma in giù, senza distinzioni, mentre Nino ribadisce che i settentrionali non
si immagino neanche che significato abbia la parola mafioso: «E poi con chi dovrei
parlare? Con quelli del nord? Che parlano sempre degli amici d’onore in un modo
carognoso? Che conoscono solo la parola mafioso, senza sapere quello che signi-
fica (M)».

Conclusioni

Nel presente lavoro si  è  cercato di  riflettere sulla doppia natura dei sostantivi
(e per analogia degli aggettivi) che indicano la provenienza regionale, quali milanese,
romano e siciliano. Sulla scia della definizione dello stereotipo, coniata da Pisarkowa,
che lo definisce in termini di connotazione semantica del nome della nazione, in cui
il significato primario del vocabolo viene accompagnato dal significato connotato,
carico di emotività91, si è cercato di documentare che tale teoria è applicabile anche
ai vocaboli riguardanti gli abitanti di determinate regioni italiane.
Mettendo da parte i fini comici della tipizzazione del personaggio, si è potuto
constatare che gli appellativi di provenienza analizzati acquisiscono, nel loro signi-
ficato connotato, o una valenza positiva, o quella negativa, saldamente legata allo
stereotipo regionale presente nella comunità italiana. Tra i primi troviamo l’appel-
lativo milanese, tra i secondi romano e siciliano. In quanto a milanese e romano,
sono state riscontrate anche le forme alterate, fenomeno che è invece assente nel
caso del siciliano.
Gli appellativi di valore negativo diversi dai sostantivi che richiamano la pro-
venienza geografica sono stati riscontrati per milanese (mangiapolenta) e, numero-
si, per siciliano (nano, africa, negrus, mau mau), permeati dall’uso linguistico reale
e non di pura invenzione cinematografica. Gli appellativi in questione richiamano
i tratti caratteristici delle determinate regioni (mangiare la polenta) o i tratti che
hanno origine sociale, ma sono stati ulteriormente (stereo)tipizzati e gonfiati as-
sumendo un forte valore spregiativo a sfondo razzista (africa, negrus, mau mau).
Infine, occorre ribadire che il significato connotato degli appellativi di prove-
nienza è il risultato della realtà extralinguistica condivisa dalla collettività italiana,
basato sullo stereotipo vigente presso la società e non schedato nei vocabolari. Non
è intuibile, ovvero per essere decifrato, il parlante deve esserne a conoscenza. Al
contrario, la valenza negativa degli appellativi che non richiamano il luogo di pro-
venienza, come mangiapolenta, africa, negrus, mau mau, riemersi nella nostra ana-
lisi, è, nella maggior parte dei casi, più facilmente intuibile facendo sì che essi, già
a prima vista, appaiano come offensivi.

91
Pisarkowa Krystyna, Konotacja semantyczna nazw narodowości, in «Zeszyty Prasoznaw-
cze», 1(67), Kraków, 1976, p. 5–6.
Autori di diari on–line di fronte alla norma:
scriventi incompetenti, recalcitranti o conservatori?
Maciej Durkiewicz
Uniwersytet Warszawski, Warszawa

Considerazioni introduttive

Come è ben noto, la pluralità e la versatilità dei nuovi mezzi di comunicazione
ha portato alla nascita di tutta una serie di nuove pratiche discorsive, le quali – ca-
ratterizzate dal connubio inedito tra il medium scritto e i ritmi di fruizione estre-
mamente veloci, nel mondo ante–Internet esclusivi dell’oralità – hanno ridefinito
il contesto di realizzazione e pratica della lingua scritta con presumibili ricadute
sulla norma linguistica dell’italiano. Che quest’ultima sia interessata oggi da  un
movimento appare palese almeno da una trentina di anni, il che non toglie però
che meno evidente rimane il giudizio da dare al peso e al ruolo dei media digitali
nella trasformazione dei comportamenti linguistici degli italiani. Come lucida-
mente fa notare Fiorentino92, accanto al coro degli apocalittici, vi sono anche voci
secondo le quali «Internet non crea deficit linguistici ma si limita a rispecchiare
ed evidenziare le capacità e abitudini linguistiche dei suoi utenti e il loro livello
di istruzione». Vi sono infine studi americani, sintetizzati in Fiorentino93, secondo
i quali vi sarebbero da ravvisare alcune ricadute positive dei nuovi media sui com-
portamenti scrittori degli utenti che ne fanno uso. A tutto ciò si aggiunge il fattore
tempo, non trascurabile nelle considerazioni dell’incidenza a medio e a lungo ter-
mine della CMC (comunicazione mediata dal computer) sulla norma linguistica.
Di conseguenza, oltre agli sguardi d’insieme, si ha sempre bisogno di ricerche em-
piriche che forniscano dati conoscitivi su particolari frazioni dell’universo verba-
le della CMC colte in un preciso momento storico. Il presente contributo vuole
92
Giuliana Fiorentino, “Ti auguro tanta fortuna, ma non dov’esse esser così…”. Norma li-
quida tra Internet e scrittura accademica, in Lezioni d’italiano. Riflessioni sulla lingua del
nuovo millennio, a cura di Sergio Lubello, Bologna, Il Mulino, 2014, pp. 181–204, p. 186.
93
Ivi, p. 183–185.
72 Maciej Durkiewicz

pertanto rispondere a tale bisogno affiancandosi ai pochi precedenti bibliografici


come ulteriore tassello mancante utile nella ricostruzione dell’identikit linguistico
di quella fetta della blogosfera italiana che non a torto va considerata “grado zero”
del blogging, ovvero la fetta dei diari on–line (o blog diaristici) con l’esclusione dei
blog tematici, specialistici o quelli dei vip. L’ottica proposta per un inquadramento
dei dati forniti è quella offerta dall’intersezione dei concetti di norma linguistica
e norma discorsiva.

Corpus

Il corpus (d’ora in poi Corpus Splinder, o anche Corpus) è costituito da un cen-
tinaio di post di blog per un totale di 20000 parole grafiche. provenienti da cento
blog diversi della piattaforma Splinder, aggiornati almeno una volta nell’ultima
decade del mese di maggio 2008.
Per quanto concerne la selezione del materiale, occorre ricordare che Splinder
è stata la prima piattaforma per il blogging italiana sia in termini cronologici che
per il  numero di  blog ospitati. Aperta nel 2001 da  Tipic Inc (Gruppo Dada dal
2006), nel 2008 raggiunge l’apice della sua estensione con i 400 mila blog aperti
e più di 600 mila utenti iscritti, per chiudere i battenti il 31 gennaio 2012. Il perio-
do al quale risale il campionamento, maggio 2008, risulta, quindi, un momento
cruciale nell’evoluzione del blogging in Italia nella sua declinazione diaristica. E da
quella cesura in poi che il genere ‘diario on–line’ diventa una fetta del blogging de-
cisamente meno importante di quanto non fosse prima dell’avvento dei cosiddetti
social network. Questi ultimi, Facebook in primis, fruibili agilmente anche attra-
verso il cellulare e perciò più adatti all’utente orientato non a creare veri e propri
post, bensì a stare in contatto con gli altri sono i principali responsabili del deflusso
di quei blogger senza vocazione a scrivere – a quanto pare maggioritari – che una
volta aprivano il blog solo perché andava di moda. Il conseguente ridimensiona-
mento della blogosfera ha  portato all’avverarsi del pronostico del 2003 secondo
il quale la blogosfera sarebbe stata caratterizzata da una scrematura “fisiologica”
dei diversi tipi di blog, il che avrebbe «eliminato la fuffa e premiato i weblog più
utili, quelli di servizio, consolidandoli su livelli su livelli di alta professionalità»94.
Se rimaniamo nel settore della “fuffa”, documentazione del quotidiano di gente co-
mune, è legittimo attingere al più grande bacino di blog diaristici italiano proprio
al momento della sua massima fioritura e al tempo stesso alla viglia del suo declino.

94
Francesca Reboli, Dieci, cento, mille blog in L’Espresso, 10 gennaio 2003, citato in Giu-
seppe Granieri, Blog generation, Roma–Bari, Laterza, 2014, p. 72.
Autori di diari on–line di fronte alla norma: scriventi incompetenti… 73

Norma linguistica e norme discorsive

Il concetto di  norma appare l’indispensabile punto di  riferimento per tutte
le ricerche che, come la presente, di fronte a un testo o a un corpus di testi, si pon-
gono finalità descrittive. I risultati di tali ricerche sono infatti riconducibili in ulti-
ma analisi a un commento sul più o meno accentuato distacco di tali testi da una
norma. Sta poi allo studioso precisare di quale norma si tratta.
Per norma linguistica tradizionalmente si intende l’«insieme delle regole gram-
maticali, sintattiche e semantiche, per le quali una lingua si definisce come una realtà
omogenea»95 e «accettata da una comunità di parlanti e scriventi (o per lo meno dalla
stragrande maggioranza) in un determinato periodo e contesto storico–culturale»96.
Il concetto di norma così definito si profila come formale, ovvero legato alla forma
materiale della lingua intesa come sistema (è infatti possibile individuare sottoinsie-
mi di regole in corrispondenza, al che si aggiungono le periferie del ‘sistema lingua’:
ortografia e ortoepia) e prescrittivo. Quest’ultima caratteristica è strettamente legata
al carattere sociale della norma linguistica che si identifica con l’autorità espressa dal-
le grammatiche e dai vocabolari. In altri termini essa è frutto dell’operazione di stan-
dardizzazione che in base a criteri extralinguistici, autorità ed esteticità in primis,
connota «positivamente solo una della varietà sociali e negativamente tutte le altre,
marcate all’origine solo da fattori oggettivi e non di valore»97.
Accanto alla norma a monte della quale sta il sistema lingua vi è infine una
pluralità di norme discorsive legate al differenziarsi dell’universo delle produzioni
verbali in diversi generi testuali. Questi ultimi – essendo dispositivi di comunica-
zione apparsi in precise condizioni socio–storiche – sono anche “norme” di fru-
izione per i  lettori e  di produzione per il  parlante/scrivente: «questi riconosce,
in  base alla sua esperienza di  innumerevoli atti comunicativi, le  situazioni tipo
in cui è adatta l’una o l’altra forma testuale»98. Se ci poniamo quindi in una pro-
spettiva procedurale della comunicazione e della elaborazione del linguaggio, ogni
genere testuale impone una serie di  filtri legati ai  diversi fattori extralinguistici
pertinenti per il funzionamento dei generi nelle concrete condizioni socio–stori-
che (partecipanti all’evento comunicativo, canale, scopi da raggiungere, ecc.). Tali
filtri vincolano più o meno rigidamente il parlante o lo scrivente nella produzione
del proprio messaggio nel duplice senso: lo  guidano sia nella scelta delle forme

95
Dizionario di retorica e stilistica, a cura di Barberi Squarotti et al., Torino, Einaudi,
1995, p. 278.
96
Claudio Giovanardi, L’italiano da scrivere. Strutture, risposte, proposte, Napoli, Liguori,
p. 17.
97
Maria Catricalà, Forme, parole e norme. Lineamenti sociolinguistici dell’italiano contem-
poraneo, Milano, Francoangeli, p. 60.
98
Raimund Wilhelm, Diskurstraditionen, in  «La linguistica italiana», I  (2005), Pisa,
pp. 157–161, p. 157.
74 Maciej Durkiewicz

e delle loro combinazioni, potenzialmente infinite, offerte dal sistema lingua sia
nelle scelte delle soluzioni che si collocano a livello della testualità. In virtù del-
le scelte del primo tipo, la sua produzione linguistica risulterà qualificabile come
concepita in  una varietà più o  meno in  linea o  con la  norma prescrittiva o  con
la norma statistica di una delle varietà del diasistema, mentre le scelte del secondo
tipo incideranno sulla veste del testo prodotto che lo qualificherà come esemplare
più o meno tipico della testualità prevista dal genere testuale in questione.

Finalità della ricerca


L’obiettivo del presente contributo, volutamente parziale, è quello di risponde-
re a quelli che emergono dalle considerazioni fin qui proposti come i due interro-
gativi di prima importanza.
Il primo è quello sulla varietà di lingua dominante nella produzione dei blogger.
Che si tratti di un italiano complessivamente corretto, ma con i tratti neo–standard ben
attestati è abbastanza scontato, se teniamo presente la caratterizzazione socio–culturale
degli scriventi. Sembra comunque interessante verificare in quale misura la scrittura
dei blogger risulti aperta rispetto a forme sub–standard e in quale misura le forme pre-
viste della norma standard reggano la concorrenza di quelle neo–standard.
Il secondo interrogativo riguarda, invece, le eventuali abitudini scrittorie for-
matesi in assenza di vincoli espliciti alla produzione e strutturazione del messaggio.
Si tratterrebbe in altri termini di individuare elementi di testualizzazione ricorren-
ti e  perciò analizzabili in  termini di  norme discorsive implicite. A  tal proposito
sono stati presi in considerazione in particolare i seguenti aspetti: l’organizzazione
dei post in capoversi e in periodi tipografici.

Tratti neo–standard e sub–standard nel Corpus Splinder


L’intento di esaminare la correttezza morfosintattica dell’italiano degli autori
dei post di blog del Corpus presuppone il riferimento alla questione della pene-
trazione nello standard di  tutta una serie di  tratti innovativi, finora relegati nel
sub–standard, il che avrebbe portato alla nascita di una nuova norma a cui, nella
bibliografia che si  è  andata ampliando dai primi anni Ottanta, sono state attri-
buite diverse etichette: italiano tendenziale99, italiano dell’uso medio100, italiano

99
Alberto Mioni, Italiano tendenziale: osservazioni su alcuni aspetti della standardizzazio-
ne, in AA.VV., Scritti in onore di Giovan Battista Pellegrini, Pisa, Pacini, 1983, pp. 495–517.
100
Francesco Sabatini, L’italiano dell’uso medio: una realtà tra le varietà linguistiche italia-
ne, in Gesprochenes Italienisch in Geschichte und Gegenwart, a cura di Günter Holtus –
Edgar Radtke, Tübingen, Narr, 1985, pp. 154–184.
Autori di diari on–line di fronte alla norma: scriventi incompetenti… 75

neo–standard101. Sono tutti termini volti a identificare «evidenti fatti di rinorma-


tizzazione e di ristandardizzazione che nei decenni recenti si stanno verificando,
con l’assunzione nello standard di tratti finora sub–standard e con l’avvicinamento
dello scritto al parlato»102.
L’analisi dei tratti linguistici proposta sotto si basa su una più recente proposta
di elenco dei tratti neo–standard, quella di Tavoni103, che alla definizione di base
del neo–standard ha proposto un’importante variazione terminologica in seguito
allo spoglio di un campione di testi giornalistici. La nozione di neo–standard, nul-
la togliendo alla sua validità in sé, abbraccia infatti fenomeni caratterizzati da una
gradualità piuttosto notevole della loro accettabilità tra scritto e  parlato. Stando
alla proposta di Tavoni, il termine neo–standard può dunque essere sfruttato per
riferirsi ai tratti linguistici che sono ormai stati accolti nello scritto di media for-
malità, a cominciare da quello giornalistico (lui per egli e gli per a loro/loro). I tratti
evitati nello scritto, anche se frequenti nell’italiano realmente parlato vanno invece
etichettati come sub–standard (gli per a lei). Pertanto nell’elenco dei 41 tratti si fa
distinzione tra tratti NS, neo–standard (presenti nello scritto giornalistico), SS,
sub–standard (non attestati nello scritto giornalistico e  presumibilmente di  uso
solo parlato). Alcuni tratti sono etichettati NS–SS, trattandosi di una situazione
oscillante. I tratti, come del resto nelle proposte anteriori, sono raggruppabili nei
seguenti settori: pronomi, tempi e modi verbali, preposizioni e particelle avverbia-
li, posizione dei clitici, fenomeni di tematizzazione, che polivalente, frase relativa,
concordanze a senso, altre costruzioni.
Per ovvie ragioni di economia di spazio ci limitiamo a dare uno sguardo sul
quadro d’insieme che emerge dal grafico sotto, che presenta alcuni dati statistici
relativi non tanto alla presenza numerica assoluta dei tratti di diverso tipo nel Cor-
pus, cosa che di per sé è poco eloquente, quanto piuttosto al rapporto tra il peso
percentuale delle tre classi, NS, NS–SS e  SS, sulla lista dei tratti di  Tavoni e  sul
totale dei tipi di tratti e delle occorrenze dei tratti riscontrati nel Corpus Splinder.

101
Gaetano Berruto, Sociolinguistica dell’italiano contemporaneo, Roma, Carocci, 1987.
102
Ivi, p. 23.
103
Mirko Tavoni, Padroneggiare i registri, in Marco Santagata – Laura Carotti – Al-
berto Casadei – Mirko Tavoni, Il filo rosso. Guida alla scrittura. Roma–Bari, Laterza,
2006, pp. 108–131.
76 Maciej Durkiewicz

Grafico 1. Peso percentuale delle tre categorie di tratti (NS, NS–SS e SS) sull’elenco dei tratti
di Tavoni e sul Corpus Splinder (tipi e occorrenze).

Si badi che i tratti neo–standard, che coprono oltre il 40% dell’intera lista dei
tratti, sono da soli responsabili di oltre il 50% del totale delle occorrenze. Invece
i tratti SS, potenzialmente ben rappresentati dato il loro peso sulla lista dei tratti,
scarseggiano: se ne contano solo quattro tipi per un totale di 16 occorrenze. Il loro
potere diagnostico, ovvero quello che indurrebbe a qualificare la veste linguistica
dei post di blog moderatamente aperta a eventuali slittamenti verso il basso, viene
ulteriormente sminuito se confrontiamo le 11 occorrenze di ’st–o/a/i/e in luogo
di quest–o/a/i/e (tratto n. 9) con le 72 occorrenze standard, ovvero non afereti-
che. La concorrenza delle forme standard vale anche in più di un caso per i trat-
ti NS. Così ad  esempio, per il  tratto n. 22 (risalita del clitico con verbi modali)
si hanno 14 occorrenze di proclisi contro 34 di enclisi. Per quanto riguarda invece
il congiuntivo, c’è da notare che nel Corpus si registrano 30 casi dell’indicativo pro
congiuntivo. Sono però tutti casi in cui l’indicativo e il congiuntivo sono varianti
libere (relazione VEL), casi quindi in cui anche l’indicativo è ammesso dalla nor-
ma, mentre nei contesti obbligatori (relazione AUT) il congiuntivo c’è sempre con
un  sola eccezione. Nel complesso, quindi, la  tenuta della morfosintassi è  buona
e la superficie linguistica dei post del Corpus appare poco penetrata dalle forme
sub–standard.
Autori di diari on–line di fronte alla norma: scriventi incompetenti… 77

L’organizzazione dei post in capoversi e in periodi tipografici

Alla costruzione di qualunque testo, oltre agli ovvi aspetti linguistici di superfi-
cie, concorrono inoltre i fatti tipografici, a cominciare da quelli di livello alto, relativi
ad esempio all’allestimento generale dello spazio scrittorio, fino ai singoli segni inter-
puntivi. Di conseguenza, ai fini della descrizione della testualità dei post del Corpus,
risulta più che legittimo dedicare attenzione alla loro organizzazione in capoversi.
I risultati di  un’analisi quantitativa del numero di  capoversi per testo sono
esposti nella tabella sotto.

Tabella 1.
Numero di paragrafi Numero di post
1. 19
2. 10
3. 13
4. 8
5. 7
6. 5
7. 8
8. 4
9. 4
10. 3
11. 4
12. 0
13. 1
14. 2
15. 3
16. 0
17. 1
18. 0
19. 0
20. 2
23. 1
23. 1
32. 1
36. 1
37. 1
39. 1
69. 1
78 Maciej Durkiewicz

Al di  là della notevole variabilità del numero di  capoversi per post, va  fatta
subito notare una forte presenza di quelle che potremmo definire come le due stra-
tegie estreme del paragrafare: si badi che 19 post, quindi quasi un post su cinque,
sono costituiti da un solo capoverso, invece 23 post contengono 10 e più di 10 ca-
poversi. A titolo di illustrazione di tali strategie basti citare due post del Corpus,
entrambi di pari dimensioni (di 549 e di 531 parole grafiche), ma costituiti rispet-
tivamente da 20 paragrafi e da un solo paragrafo.
L’adesione alle due strategie estreme di  parcellizzare il  testo va  interpretata
come spia di quello che Simone104 etichetta «grafismo», o anche «scrittura super-
ficiale», in opposizione a «testo/testualità scritta», o anche «scrittura profonda».
Si tratta in altri termini della rinuncia dello scrivente a strutturare accuratamente
il testo scritto in unità che vadano oltre la dimensione della frase a favore dell’e-
sercizio delle competenze relative alla gestione del discorso a livello locale. L’inter-
pretazione appena proposta si legittima ulteriormente sulla base dell’esame della
segmentazione dei post del Corpus in periodi tipografici.
Nel Corpus abbiamo individuato in  totale 1317 periodi tipografici contro
le  1689 frasi sintattiche. Se ne  evince che non di  rado si  ha la  giustapposizione
all’interno di un unico periodo tipografico di più frasi sintattiche, come in:
(1) (post_041)

I bravi son divisi dagli incapaci da semplici fogli di carta, tra poco isti-
tuiranno un patentino per lo scopare e se non lo farai sarai considerato una
sega a letto e non potrai spiegare come nascono i bambini, e ancora di più che
da attestati e fogli di carta bianca, siam divisi da piccoli pezzi di carta chiama-
ti soldi e dalla levatura sociale della nostra famiglia (che ci si creda o no, la fa-
miglia d’origine conta ancora molto, sopratutto quando si deve emergere).

Ad una redazione più attenta all’uso canonico della punteggiatura il  testo
in questione risulterebbe suddivisibile almeno in tre periodi tipografici.

I bravi son divisi dagli incapaci da semplici fogli di carta. Tra poco isti-
tuiranno un patentino per lo scopare e se non lo farai sarai considerato una
sega a letto e non potrai spiegare come nascono i bambini. E ancora di più che
da attestati e fogli di carta bianca, siam divisi da piccoli pezzi di carta chia-
mati soldi e dalla levatura sociale della nostra famiglia (che ci si creda o no,
la famiglia d’origine conta ancora molto, sopratutto quando si deve emerge-
re). (...)

Con Serianni potremmo parlare a tal proposito di «giustapposizione assoluta»,


dal momento che si tratta di un accostamento di proposizioni, o addirittura frasi

104
Raffaele Simone, Scrivere, leggere e capire, in «Quaderni storici», vol. 13, No 38 (2), Alfabe-
tismo e cultura scritta (maggio / agosto 1978), pp. 666–682.
Autori di diari on–line di fronte alla norma: scriventi incompetenti… 79

complesse, che «non si prestano ad essere collegate con segnali formali, né di coor-
dinazione né di subordinazione»105.
Il fenomeno della dilatazione del periodo tipografico si colloca all’estremo op-
posto rispetto alla “frammentazione sintattica”, fenomeno studiato a  più riprese
da Ferrari106 consistente nello spezzare una sequenza sintatticamente legata trami-
te un segno di interpunzione con importanti ricadute informativo–testuali, e co-
stituisce una tendenza stilistica notevolmente presente nella prosa giornalistica
e letteraria a partire degli anni ’80 e ’90. In virtù della frammentazione sintattica
i costituenti isolati acquisiscono un’importanza testuale e informativa particolare.
Ne è un esempio il frammento riportato sotto, in cui grazie allo stacco interpunti-
vo si crea l’effetto di ajout après coup che dà alla sequenza «e di sicuro, a pensare»
una maggiore salienza comunicativa:
(2) (post_090) (neretto mio)

E domani si  sposano Paolo e  Marica... Una giornata intera a  non fare
nulla. E di sicuro, a pensare. Ma mi impegnerò a non farlo!:)

Mentre la frammentazione della sintassi con la punteggiatura è un utile stru-


mento per gestire le dinamiche architettoniche della testualità scritta, la giustap-
posizione assoluta porta ad  una testualità informativamente piatta, che nei casi
estremi, come in (4), assume forma di struttura cumulativa seriale in cui si perde
del tutto la dinamica fra i primi piani e gli sfondi:
(3) (post_055)

Gli esami, la  fine di  un capitolo importante della mia vita, gli amici
di sempre che non sono più quello che sono sempre stati o semplicemente
non lo sono mai stati e solo ora me ne accorgo, la dieta per le intolleranze
a cose che ho tranquillamente mangiato per 20 anni e nonostante la quale per
ora continuo a stare poco bene, lo studio, la mancata crociera nei Fiordi quasi
regalata a causa dei miei esami e di lei che non può prendersi ferie, le cose
di tutti i giorni, sempre lei, che è stravolta e momenti per me non ne ha mai,
il tempo che scorre troppo in fretta, tutto che mi scivola dalle mani e corre via
davanti al mio sguardo attonito...

Fra le due tendenze del periodare in antiorientamento alla sintassi nel Corpus
prevale nettamente la prima, ovvero quella alla giustapposizione assoluta. Come
risulta dalla lettura del grafico riportato sotto, la percentuale dei post con il nume-
ro di periodi tipografici superiore al numero di frasi sintattiche sfiora il 60%.

105
Luca Serianni, Grammatica italiana. Italiano comune e lingua letteraria, Torino, UTET,
2006, p. 532 (1a ed., 1989).
106
Cfr. ad es. Angela Ferrari, La frammentazione nominale della sintassi, in «Vox Romani-
ca», 60, 2001, pp. 51–68.
80 Maciej Durkiewicz

Grafico 2. Ripartizione percentuale dei post del Corpus Splinder a seconda della proporzione
di frasi sintattiche e periodi tipografici

Questa tendenza a dilatare eccessivamente il periodo tipografico dipende pro-


babilmente da due fattori, interrelati fra di loro: dalla sovra–estensione funzionale
della virgola, fenomeno osservato da  Ferrari107 nella testualità dello scritto me-
diato dalla rete e presente anche nel Corpus qui indagato, nonché dalla comune
concezione della frase come unità di comunicazione dotata di senso compiuto. Ri-
guardo al primo fattore occorre tener presente che di regola «nessuna frase (frase
complessa, periodo) ha “senso compiuto”, se con questo si intende che può essere
compiutamente interpretata senza ricorrere a informazioni presenti in altre fra-
si»108. Se, quindi, una certa unità e compiutezza di senso si sviluppa in una dimen-
sione testuale, ovvero oltre i legami strutturali all’interno della frase, è facile che gli
scriventi che rinunciano al ricorso a unità testuali superiori (capoverso) tendano
a dilatare i confini dei periodi tipografici.

Conclusioni

Alla luce dei dati sulla presenza dei tratti NS, SS e NS–SS nel Corpus, il com-
portamento scrittorio dei blogger risulta essere non eccessivamente distante dalle
convenzioni praticate nella scrittura funzionale competente: una sostanziale ade-
sione alla norma nella sua declinazione neo–standard, una relativa resistenza delle
forme dell’italiano standard e poca apertura verso le soluzioni sub–standard. Nel
complesso, quindi, la tenuta della morfosintassi è buona.

107
Angela Ferrari, La virgola e il punto nello scritto–scritto e nello scritto mediato dalla rete. De-
scrizione e spiegazione, in Varietà e varianti linguistiche e testuali. Atti dell’XI Congresso SILFI,
Napoli, 5–7 ottobre 2010, a cura di Patricia Bianchi – Nicola De Blasi – Chiara De Ca-
prio – Francesco Montuori, Firenze, Franco Cesati Editore, 2012, vol. II, pp. 413–427.
108
Adriano Colombo, La coordinazione, Roma, Carocci, pp. 20–21.
Autori di diari on–line di fronte alla norma: scriventi incompetenti… 81

Salendo di livello e spostando lo sguardo sul piano della testualità, si scopre


che quella dei post del Corpus si lascia cogliere in termini di grafismo. Si tratta
in altre parole di una testualità a monte della quale è ipotizzabile una certa rilut-
tanza da parte dei blogger al cognitivamente dispendioso compito di strutturare
il messaggio scritto a favore dell’esclusivo esercizio di competenze praticate nel di-
scorso orale. Questa ipotesi è corroborata in primo luogo dal rifiuto di una buona
fetta dei blogger di parcellizzare il testo conformemente alle convenzioni tipiche
della scrittura funzionale competente, al che si aggiunge un’importante presenza
del fenomeno della giustapposizione assoluta che consiste nel dilatare i confini dei
periodi tipografici oltre quelli delle strutture sintatticamente legate.
Occorre essere attenti a non dare giudizi di valore agli effetti testuali di questa
sorta di  pigrizia. Rimane da  sottolineare piuttosto che la  testualità emersa dalle
analisi proposte è  semplicemente funzionale a  tutte le  scritture currenti calamo,
a  cominciare dai diari tradizionali. La novità dei blog diaristici non sta quindi
tanto nei fenomeni linguistici stessi quanto nel fatto che le scritture segnate nella
superficie verbale dai limiti contingenti dell’atto scrittorio arrivino così facilmente
alla pubblicazione, cosa che non sarebbe stata possibile nel mondo ante–Internet.
Il conflitto tra sano e malato nelle metafore militari
del campo medico italiano
Beata Katarzyna Szpingier
Uniwersytet Adama Mickiewicza w Poznaniu

Introduzione al campo d’indagine

In questa breve elaborazione si  intende evidenziare e  descrivere gli esem-


pi di  connotazioni e  di usi figurati individuati negli scritti medici italiani (arti-
coli, opinioni, relazioni) riguardanti i livelli di comunicazione diversificati (area
scientifica, divulgativa), disponibili attraverso vari siti online. L’indagine si foca-
lizza soprattutto sulle formulazioni largamente usate, praticamente in ogni livel-
lo della comunicazione scientifica, identificate come metafore militari o belliche.
Tali espressioni giocano un ruolo notevole, in quanto modificano non solo il tono
del discorso medico (fondato sull’esperienza e percepito a priori come complica-
to e  complesso), ma  anche la  metodologia della ricerca e  della pratica medica;
sono poi predilette tra gli usi metaforici di cui si serve la medicina (riguardo alla
comunicazione e all’attività svolte nel cosiddetto campo sanitario in riferimento
all’italiano contemporaneo). Attraverso le considerazioni proposte e qui contenute
si vuole rispondere, da un lato, ai bisogni del pubblico sempre più vasto dei pazien-
ti e dei destinatari che, affrontando talvolta questioni di vita o/e di morte, cercano
di decodificare il messaggio trasmesso dal professionista del campo; dall’altro lato,
si mira a sottolineare la carica con cui vengono ordinate e prescelte le parole per
attaccare e combattere il nemico (cioè la malattia).
Le unità analizzate sono contestualizzate, provengono dagli studi e dagli arti-
coli dedicati al linguaggio della medicina oppure sono individuate a partire dalle
letture e  dallo spoglio di  testi autentici (circa 50 in  totale) a  loro volta sottopo-
ste alle continue revisioni da parte degli specialisti. Le esemplificazioni saranno
disposte in  tre capitoli riguardo (1) alle parole “belliche”, (2) alle branche della
medicina e  (3) al  livello scientifico coinvolto. Si terrà conto della classificazione
84 Beata Katarzyna Szpingier

canonica delle metafore proposta da Black109, Lakoff e Johnson110, Boyd e Kuhn111


e delle teorizzazioni sugli usi figurati nella comunicazione scientifica suggeriti tra
l’altro da Pascolini112, Sontag113, Wenner114, Fuks115. Le formulazioni si evidenzia-
no (e si confermano) nel materiale divulgativo disponibile su varie fonti di Inter-
net come: www.pneumonet.it, www.bmv.bz.it (Biblioteca Medica Virtuale), www.
mediciitalia.it, www.thelancet.com, www.stetoscopio.net, www.jamanetwork.com
(The Journal of the American MedicalAssociation). La scelta delle fonti è stata det-
tata dall’opportunità di un accesso libero al complesso delle informazioni e dei dati.
Occorrerebbe ancora rendere più intelligibile il  legame che si  instaura tra
il conflitto e le metafore militari, il che costituisce il punto di partenza da cui inizia
l’indagine. Le definizioni proposte dai dizionari in rete della lingua italiana coin-
cidono in  certe formulazioni fornendo le  spiegazioni di  conflitto. Può risultare:
1) combattimento, guerra, scontro di eserciti, 2) fig. urto, contrasto, opposizione
(www.treccani.it); 1) scontro armato, combattimento, 2) contrasto, urto, collisio-
ne (www.grandidizionari.it). Derivato dal lat. conflictus ‘urto, scarto’, proveniente
da confligere ‘cozzare, combattere’, significa ‘combattimento, scontro, guerra’. In ri-
ferimento all’etimologia si intende il conflitto come fattore patogeno oppure malat-
tia. In realtà un eterno conflitto tra sano e malato, da Ippocrate attraverso Galeno,
diventa un problema filosofico e costituisce un punto centrale della deontologia
medica. Si osservi che tale prestazione determina, se non caratterizza, l’attuale con-
cezione della medicina e della cura:

la malattia è vista come un’invasione da parte di organismi estranei a cui


il corpo reagisce con operazioni militari sue proprie quali la mobilitazione
delle “difese immunologiche”; mentre i farmaci sono considerati “aggressivi”,
come si  riscontra nella nomenclatura delle chemioterapie (o almeno nella
maggioranza di tali metodi curativi)116.

Di riflesso, la considerazione sul conflitto, intensificandosi nell’immaginazio-


ne, conduce alla guerra; e parlare di quest’ultima, invece, necessita l’uso del lessico

109
Max Black, Metaphor, in «Models and Metaphors: studies in language and Philosophy»,
Ithaca, Cornell University Press, 1962.
110
George Lakoff – Mark Johnson, Metafora e vita quotidiana, Milano, Bompiani, 1980.
111
Richard Boyd – Thomas S. Kuhn, La metafora nella scienza, Milano, Fertinelli, 1983.
112
Alessandro Pascolini, Metafora e comunicazione scientifica, in «Conferenze e seminari
1999–2000» , a cura di E.Gallo – L.Giaccardi – S.Romero, Torino, Associazione Subal-
pina Matheris, 2000, pp. 128–141.
113
Susan Sontag, Malattia come metafora. Cancro e Aids, Milano, Mondadori, 2002.
114
melinda wenner, The war agains war metaphors, in «The Scientist» n.1/2007.
115
abraham fuks, The Military Metaphors of Moderne Medicine, https://pdfs.semanticscho-
lar.org/25ad/756a62f8acc29ac5273cae365b0f387b58ca.pdf, data di accesso: 17.05.2018.
116
Sontag, Malattia come metafora, cit., pp. 89–91.
Il conflitto tra sano e malato nelle metafore militari del campo medico italiano 85

opportuno, proprio quello militare. A detta di Sontag117, che discute la terapia nei
termini delle strategie adeguate, «la guerra è  definita come un’emergenza in  cui
nessun sacrificio risulta eccessivo», il suo costo non conosce i limiti, poiché punta
al risultato senza valutarne l’impiego e il sacrificio. Attenendosi a tale ragionamen-
to, si procede quindi per specificare il conflitto nel campo medico italiano attraver-
so l’uso delle metafore che si servono del lessico militare.

Comunicazione scientifica

Prima o poi, ognuno di noi deve affrontare i problemi di salute. In simili cir-
costanze le attività volte a curare le malattie e i malati non sono soltanto l’obiettivo,
ma anzi un bisogno collettivo e spontaneo dell’uomo. Facendo ancora un passo in-
dietro si ammette che in realtà la medicina inizi con il genere umano. Praticata però
oggi dai professionisti medici e assistenti sanitari, esercitata in ospedali e ambulatori,
a contatto con vari gruppi sociali, sostenuta anche da farmaci, necessita di una gam-
ma di modi e di mezzi che permettano e agevolino la comunicazione. Attualmente,
la medicina ufficiale (a differenza di quella alternativa) tende a utilizzare il linguag-
gio scientifico, specifico e astratto (ad alto tasso teorico). Le osservazioni portano
tuttavia alla constatazione che la comunicazione nel campo medico coinvolge non
solo gli specialisti,: di conseguenza la presenza del professionista non garantisce che
venga utilizzato solo tale tipo di lingua118. Si distinguono almeno tre situazioni in cui
lo specialista può intervenire su questioni di tipo professionale: 1) quando si rivolge
agli altri specialisti per dibattere problematiche della disciplina come per esempio
comunicare progetti di ricerca, i risultati oppure l’uso di attrezzature, ecc., davanti
al pubblico di alto grado di conoscenze condivise, il relatore fa ampio uso di termini
specialistici limitandosi a spiegare soltanto le voci (parole o espressioni) coniate e ri-
definite da lui stesso; 2) quando si rivolge ai non–specialisti per comunicare fatti ine-
renti alla propria disciplina: esempi caratteristici di questo tipo di divulgazione sono
i libri raccomandati agli studenti universitari e i manuali di istruzioni, con finalità
esplicative mediante l’uso del lessico speciale; 3) quando propone una comunicazio-
ne su argomenti specialistici, indirizzata al lettore profano, introducendo i concetti
del campo professionale per mezzo del lessico comune, con l’intento divulgativo;
è un campione di informazioni trovate negli articoli di giornali e riviste di carattere
non–specialistico che discutono problemi propri di un’attività particolare119; la ten-
117
Ibid.
118
maurizio gotti, I  linguaggi specialistici. Caratteristiche linguistiche e  criteri pragmatici,
Firenze, La Nuova Italia, 1991.
119
Alteri Biagi (Aspetti e tendenze nei linguaggi della scienza, oggi, in Italiano d’oggi. Lingua
non letteraria e lingue speciali, Trieste, Lint, 1974, p. 90) distingue anche il quarto livello
di massima complessità nella gerarchia, quello della formulazione e condensazione di for-
86 Beata Katarzyna Szpingier

denza ad applicare modi di dire comuni i cui elementi sono altamente denotativi
(dato che il codice verbale risulta per sua natura polisemico), imposta dall’esigenza
di sinteticità, porta lo specialista a usare simboli, formule, grafici, diagrammi e altri
elementi non verbali, anche con finalità esplicative, adoperando la lingua comune
dove possibile120. Si possono individuare altre modalità di usi linguistici nell’ambito
della comunicazione sanitaria, però tale studio riguarderebbe i  gruppi particolari
che nel campo della medicina sono realmente molteplici. In riferimento a un largo
complesso situazionale si vuole quindi sottolineare il fatto che gli usi figurati spetta-
no a ogni livello accennato.
Come sostiene Cabré, il linguaggio specialistico in generale (quello della me-
dicina non si discosta dal canone), dimostrando criteri comuni a tutti gli ambiti
della comunicazione scientifica, non rispetta un’applicazione uniforme delle regole
nei diversi settori e livelli di specialità121. Come in ogni altra scienza, anche nel-
la medicina si affermano le regole pragmatiche e le modalità semantiche operate
dall’autore e determinate dalle esigenze comunicative riguardo allo specialista e al
settore specialistico122. Praticamente l’italiano medico non risulta omogeneo, re-
gistrando varietà molteplici. Così, accanto alle caratteristiche e regole comuni del
settore, si notano certi usi che differenziano gli uni dagli altri. Occorrerebbe anco-
ra sottolineare che esiste una differenza tra la cosiddetta comunicazione scientifi-
ca, che concerne la divulgazione e l’esposizione dei dati, e l’elaborazione scientifica
dei concetti, come la genesi delle idee e l’attività scientifica.

Ruolo della metafora

La complessità della metafora e la ricchezza del linguaggio metaforico è stata


esplorata infinite volte da studiosi di discipline diverse (linguisti, filosofi, psicolin-
guisti, matematici, psicologi, linguisti computazionali ed informatici, artisti, ecc.)
e in varie prospettive. La metafora continua a essere un campo di studio stimolante

mule, il livello non verbale, ma non nega l’esistenza del piano formalizzato dei testi specia-
listici. Gotti (ibid.) sostiene che «esiste la tendenza comune a tutte le branche della scien-
za alla formulazione simbolica, liberatrice estrema dagli impacci connotativi della lingua
comune». Dalle osservazioni dell’autore risulta che esistono altri livelli di comunicazione
in cui si applica il lessico speciale, però in misura notevolmente limitata: quando i pazienti
discutono dei propri casi o quando i pazienti riferiscono i fatti propri ai famigliari oppure
ai medici stessi.
120
Ivi, pp. 9–11.
121
maria térèsa Cabré, La terminologie. Théorie, méthodes et applications, Ottava, Les Pres-
ses de l’Université d’Ottava, 1998, pp. 138–139.
122
La specialità dei modi di dire viene esaminata lungo la dimensione concreta in relazione
a tre punti fondamentali: l’argomento, il pubblico e il contesto comunicativo (ibid.).
Il conflitto tra sano e malato nelle metafore militari del campo medico italiano 87

di ricerca non solo linguistica123. Proprio a differenza di altri linguaggi specialistici


quello della medicina presenta l’alto valore di evocazioni e connotazioni. Serianni
fa notare che

L’uso dei traslati come strumento conoscitivo, cioè uno dei mezzi dei
quali la lingua dei medici si serve (e soprattutto si serviva nel passato) in vista
di una più articolata e precisa realtà. In epoche in cui non esisteva la diagno-
stica per immagini, il ricorso alla metafora ha rappresentato il metodo più
economico per comunicare nuove acquisizioni descrittive124.

Medesime scelte linguistiche, sia precedentemente che attualmente, sembrano


molto valide per identificare un segno patognomonico così come lo descriverebbe
(o descrive) un paziente (sensazione di sabbia negli occhi) oppure un’osservazione
(lingua a carta geografica, torace a clessidra). Anche nella pratica diagnostica e au-
topica si accetta la figuralità usando le espressioni come il cuore a scarpa, le lesioni
nummulari, le lesioni polmonari a vetro smerigliato, la mucosa con aspetto ad ac-
ciottolato125.
Le metafore svolgono un ruolo importante nella scienza «sia quali strumenti
atti a superare le carenze linguistiche nella fase di scoperta, sia per la susseguen-
te comunicazione e divulgazione»126. L’opinione corrente differenzia la letteratura
e la scienza proprio riguardo al ruolo che nei due contesti gioca il linguaggio: nel
primo ambito gli aspetti linguistici si  sviluppano talvolta in  modo inestricabile,
mentre nel secondo caso il linguaggio diventa solo un veicolo trasparente per tra-
smettere le scoperte e la scienza mantiene un controllo sul linguaggio, distinguen-
do in modo chiaro le parole dalle cose. Però ultimamente si scopre che gli aspetti
metaforici e non esplicitabili del linguaggio risultano essenziali per capire la dina-
mica dei cambiamenti concettuali della scienza.

Ma le metafore possono svolgere un importante ruolo euristico e portare


a sviluppi inaspettati proprio perché spingono gli scienziati a esplorare col-
legamenti che altrimenti sarebbero rimasti oscuri: le metafore rappresentano

123
carla bazzanella, Metafora e categorizzazione. Alcune riflessioni, in «Paradigmi. Rivista
di critica filosofica», 2009, 1, pp. 69–82.
124
Luca Serianni, Un treno di sintomi. I medici e le parole: percorsi linguistici nel passato e nel
presente, Milano, Garzanti, 2005, p. 265.
125
L’autore si sofferma in particolare sulle similitudini concettuali, valorizzando il rapporto
tra figurato e figurante e trascurando le modalità formali di applicazione. I riferimenti alle
epoche precedenti fanno capire che alcuni paragoni hanno anzi un carattere didascalico:
dedicati ai laici per scopi divulgativi, con l’immagine semplificata ma evidente, nozioni più
o meno complesse. Alcuni paragoni sono ricorrenti, corrispondenti per analogia ai fatti,
altri invece sono i risultati della fertile immaginazione, a un certo punto quasi letteraria,
dei medici (ivi, 266–272).
126
Pascolini, Metafora e comunicazione scientifica, cit.
88 Beata Katarzyna Szpingier

sorgenti di possibili instabilità all’interno del discorso scientifico, con la ca-


pacità di creare contatti interdisciplinari, con scambio di significati e l’impor-
tazione di nuovi termini teorici127.

Con la metafora si tenta di strutturare le esperienze sulla realtà. Non si dimen-


tichi però che il compito si porta a termine solo parzialmente, in quanto non si rag-
giunge la completezza della conoscenza. Gli scienziati invocano la figuralità per dare
un supporto alle teorie scientifiche là dove la logica non trova le espressioni adeguate
a formulare tali teorie128. La struttura simbolica del linguaggio (dove la parola non
è una cosa) rappresenta l’unico modo in cui un paziente può venire a contatto non
soltanto con sé stesso ma anche con gli altri. In questo campo, di una notevole ri-
levanza sono le teorie ideate da Lacan129, secondo cui l’ordine nella figuralità costi-
tuisce una forma del linguaggio primario (registrato fin dalla nascita), altrimenti
nell’inconscio il simbolo è presente come contenuto e come meccanismo. In partico-
lare, il modello linguistico viene applicato alla struttura psichica130.
L’attuale stato delle ricerche sulla metafora permette di  considerarla come
un  processo cognitivo a  tutti gli effetti (non solo come uno strumento e  un or-
namento puramente linguistico). Si nota una transizione nelle ricerche e nei pre-
supposti teorici riguardo a questa figura retorica. Le metafore concettuali, teoriz-
zate da  Lakoff e  Johnson131, rendono possibile la  conoscenza di  noi stessi e  del
mondo che ci circonda; le metafore costitutive o interattive, descritte e specificate
da Black132, Boyd e Kuhn133 ineriscono al pensiero scientifico; invece sulla tipologia
di queste due forme concettuali e sul loro aspetto d’intermediazione tra la struttura
organica e intellettuale interferisce l’epistemologia134. Black, Boyd e Kuhn assegna-
no alla metafora un valore scientifico e con questa considerazione si ritiene l’uso
della metafora assai proficuo come rimedio a una scarsezza metodologica135. Nel
127
Ibid.
128
claudia navarini, Etica della metafora, Milano, Vita e Pensiero, 2007, pp. 142–143; anna
cazzullo, La verità della parola, Milano, Jaca Book, 1984, p. 22.
129
jacques lacan, Métaphore e métonymie II, in «Le Seminaire, livre III, Le psychoses (1955–
1956)», Paris, Seuil, 1981, pp, 253–262.
130
giusy bucolo – gennaro accursio, Psicologia del profondo. Modelli e tecniche di psicote-
rapia e psicodinamica, Milano, FrancoAngeli, 2007, pp. 188–190.
131
lakoff, Johnson, Metafora, cit.
132
black, Metaphor, cit., p. 25–47.
133
boyd – kuhn, La metafora nella scienza, cit., pp. 21, 105.
134
Altre osservazioni sulle teorie e sui modelli delle metafore inerenti a un linguaggio espli-
cativo in rapporto all’italiano si trovano per esempio in umberto eco, Metafora, in Enci-
clopedia Vol. IX, Torino, Einaudi, 1980 e marcel danesi, La metafora nel pensiero e nel
linguaggio, Brescia, La Scuola, 2004.
135
A proposito dell’impiego della metafora nelle scienze Boyd scrive: «per introdurre una ter-
minologia teorica là dove una tale terminologia non esisteva in precedenza (...). L’uso della
metafora è uno dei molti mezzi disponibili alla comunità scientifica per assolvere il com-
Il conflitto tra sano e malato nelle metafore militari del campo medico italiano 89

processo terapeutico la metafora costituisce un ponte per comunicare il metodo


curativo ed è efficace in quanto isomorfo oppure equivalente della situazione del
paziente, che stimola il processo di identificazione con la metafora.
Alcune metafore di questo tipo, in particolare quelle militari, modificano non
solo il tono del discorso medico, ma anche la metodologia della pratica medica.
Le parole belliche sono predilette tra gli usi metaforici di cui si serve la medicina;
la medicina stessa viene presentata come una guerra contro la malattia e la deca-
denza dell’organismo e  la cura come una forma di  conflitto, per esempio: siamo
in guerra contro i tumori e contro il cancro (lo slogan proposto dalla Lega Italia-
na contro le malattie); Hirszfeld era il primo a prevedere il conflitto sierologico tra
la madre e il bambino; si parla della strutturazione gerarchica del personale sanita-
rio; la posizione dominante del medico nei confronti del paziente; hanno inaugurato
lo studio sui “super batteri”, quelli che hanno sviluppato la resistenza agli antibiotici;
ha dichiarato che la struttura rappresenta un luogo dove verranno sviluppate bombe
intelligenti contro bersagli molecolari in modo da potersi difendere dal nemico in-
visibile; i batteri, i virus, le malattie sono i nemici da sconfiggere per salvaguardare
la salute dell’uomo; le malattie sono degli attacchi al corpo da cui difendersi, il medi-
co colui che decide la strategia della guerra; vengono ideate armi intelligenti contro
le malattie; cellule natural killer; ecco il batterio killer; gli ho regalato il mio organo
e gli ho salvato la vita; i trattamenti all’avanguardia; il minerale è un valido alleato
nella lotta alla pelle a buccia d’arancia; suggerire le strategie anticellulite; nuova fron-
tiera contro le rughe; guerra alla pelle grassa; gli interventi mirati contro il cosiddetto
codice a barre per dare più volume al sorriso136.
Gli scienziati, i medici, invocano la figuralità per dare un supporto alle teorie
scientifiche là dove la logica non trova le espressioni adeguate a formulare tali teo-
rie137. L’opinione di Susan Sontag lo conferma nelle parole riportate sotto.

pito dell’accomodamento del linguaggio alla struttura causale del mondo». Kuhn aggiunge
che: «le metafore genuine (...) sono fondamentali per la scienza, fornendo in determina-
te occasioni ‘una parte insostituibile del meccanismo linguistico di una teoria scientifica’,
svolgendo un ruolo che è costitutivo della teoria che esprimono» (in Anna Cazzullo, La
verità della parola, cit., pp. 16–17). Cfr. anche Umberto Galimberti, Psyche e tecne. L’uo-
mo nell’età della tecnica, Milano, Fertinelli, 1999, pp. 157–158 nonché Geraldine W. Van
Rijn–Van Tongeren, Metaphors in  Medicaltexts, Amsterdam–Atlanta, 1997, pp. 24–38.
Sull’uso delle metafore nell’ambito sanitario si veda anche Edoardo Giusti – Assunta
Ciotta, Metafore nella relazione d’aiuto e nei settori formativi, Roma, Sovera, 2005.
136
Cfr. Melinda Wenner, cit. Inoltre, particolarmente interessanti per approfondimento
sono due saggi di  Susan Sontag (“Illness as  Metaphor” 1978 e  “Aids and its Metaphors”
1988 riuniti in  edizione italiana nel 2002) che danno un  grande contributo al  discorso
sull’immunità e  illustrano il  repertorio delle mitologie elaborate nel tempo riguardanti
le malattie temute (il cancro e l’AIDS) con un linguaggio metaforico incaricato di veicolare
le nozioni.
137
navarini, Etica della metafora, cit., pp. 142–143; cazzullo, La verità della parola, cit., p. 23.
90 Beata Katarzyna Szpingier

Le metafore militari/belliche sono predilette dalla medicina. Infatti, la malattia


è vista come un’invasione da parte di organismi estranei a cui il corpo reagisce con
operazioni militari sue proprie quali la mobilitazione delle difese immunologiche;
mentre i farmaci sono considerati aggressivi, come si riscontra nella nomenclatura
delle chemioterapie (o almeno nella maggioranza di tali metodi curativi). Tale tipo
di metafora sopravvive nel sistema pubblico di educazione sanitaria, dove gli sforzi
per ridurre la mortalità causata da una data malattia sono chiamati lotta, battaglia,
guerra138.

Contesti d’uso

Wenner139 precisa che «militaristic language pops up in almost every scientific
domain: conservation biology (“invasive species,” “biosecurity”); global warming
(“global war on global warming”); and biomedicine (“killer cells,” “hitting multiple
targets”)». Fuks140 aggiunge: «The language of medicine, both lay and professio-
nal, is thoroughly infused with the language of war (…) The war metaphor is so
familiar and common place in our medical rhetoric that we easily lose sight of its
militaristic origins and significance»141. Le formulazioni belliche si  riscontrano
praticamente in ogni livello di comunicazione della medicina; le esemplificazioni
si possono suddividere in tre categorie:
1) Formulazioni belliche (il contesto preferito sembra quello divulgativo quan-
do gli specialisti si rivolgono ai laici):
arma: la  prevenzione rimane un’arma fondamentale, antiossidanti–una po-
tente ~, vaccinazioni–un’eccezionale ~, idratazione– ~ segreta a  portata di  ogni
donna; attacco: ~ cardiaco, ~ ischemico–transitorio, ~ di panico; battaglia: ~ fra
uomo e microbi, ~ contro le infezioni; bersaglio: gli antidepressivi sono il nuovo
~ della retorica, le patologie e i fattori di rischio costituiscono il bersaglio di molte
strategie; bomba: le ~ caloriche da evitare, cellule–bomba piene di una molecola–
dinamite chiamata istamina, una ~ di ormoni, terapia sperimentale che dovrebbe
distruggere il tumore attraverso la reazione di tante piccole bombe atomiche che
eliminano le  cellule…; bombardare: ~ la  formazione ovalare del fegato, ~ il  si-
stema immunitario, l’organismo di medicinali; conflitto: il disturbo è “conflitto”;
guerra: ~ preventiva all’ipertensione, ~ dei pollini – tanti soldatini biancastri
e grassocci armati di tutto, ~ alle rughe, ~ agli acidi grassi; invasione: estensio-
ne dell’~vascolare, ~angiolinfatica, ~ perineurale; lotta: donne in perenne ~ con

138
Sontag, Malattia come metafora, cit., pp. 89–91.
139
Wenner, The war agains war metaphors, cit.
140
fuks, The Military Metaphors, cit.
141
Ibid.
Il conflitto tra sano e malato nelle metafore militari del campo medico italiano 91

la bilancia, Aids – la ~ continua, ~ al dolore, ai tumori, al mal di testa, contro l’Aids;
nemico: il  sale ~ pubblico, malaria e  parassiti nemici combattuti, colesterolo ~
da  non trascurare; resistenza: al  dolore, a  farmaci, al  cancro, agli antibiotici, ~
insulinica; strategia: ~ diagnostica, ~terapeutica corretta, ~ contro il  cancro, ~
di implementazione; tattica: terapia con modalità e ~ caratteristica, ~ terapeutica,
~ diagnostica, ~ chirurgica;
2) Campi di applicazione (settori e specializzazioni della medicina):
a) cardiologia: crisi cardiache – come si  sfugge alla depressione; attacco car-
diaco, le 6 regole salva–cuore; anticorpi contro il colesterolo; mettere il “turbo” alla
lotta al tabagismo; interventi chirurgici per ridurre l’obesità; chirurgia: migliorare
la sopravvivenza dei pazienti operati; quando operare le vene varicose; rivoluzione
delle protesi sempre più umane; medicina, sala operatoria; dermatologia: rosacea
– attenzione ai fattori scatenanti; neutralizzare il sudore; alterare la barriera epider-
mica; melanoma – il gene che fa aumentare il rischio; il pro e il contro del servizio
per la dermatite atopica; rischio cancro e invecchiamento della pelle; dietetica/nu-
trizione: aglio e cipolla ci difendono dai tumori; pillole killer per dimagrire; alimenti
con doppia virtù; immunologia/epidemiologia: difesa del sistema immunitario;
gli alimenti contro la carenza di iodio; allarme Fluad (il falso allarme sul vaccino);
batterio/patogeno/virus killer; farmacologia: medicinali che abbassano la capacità
di  difesa dell’organismo; pain killer; il  percorso per combattere il  dolore; un  allea-
to contro le zanzare; psichiatria/psicologia: supporto degli psicologi per affrontare
la diagnosi; episodi di aggressione; il livello di violenza occupazionale; radiologia:
bomba al cobalto; aggressivo chimico; mezzo di contrasto; terapia/diagnosi: neuro-
blastoma – cure e sopravvivenza; potenziare l’assistenza sanitaria; tumore ovarico–
un killer silenzioso; tumore al polmone–un nuovo killer delle donne; vittime della
“diagnosi violenza”;
b) si usano anche denominazioni generiche come medicina difensiva, missione
sanitaria, trattamento diagnostico, rafforzamento del sistema, punti di forza del re-
parto, mezzo di contrasto, rischio d’infezione ecc.;
3) Usi scientifici (alto livello di specializzazione):
(1) cellule tumorali vs cellule killer;
(2) ictus, urto vs colpo, attacco;
(3) forze contro l’epidemia; rafforzare il sistema nervoso;
(4) mobilitazione di bioenergia; distruggere la corazza muscolare;
(5) patogen killer; Cancer No1 Killer by 2010; Activated Killer Cells; Attack of the
Killer; New Killer Virus; To Battle Deadly Infections; Battle plain for HIV/AIDS;
carrier.
92 Beata Katarzyna Szpingier

Osservazioni finali

Nel contesto dell’eterno conflitto tra psiche e soma, si originano e si sviluppano
i  modi per padroneggiare le  cause e  gli effetti di  esso. La metafora bellica aiuta
a capire il meccanismo della malattia (fasi, corso, esito). Si può osservare una di-
cotomia in varie realizzazioni del linguaggio, poiché, per comunicare, la scienza
adopera un lessico e uno stile notevolmente più figurato di quello che è in uso nel
fare scienza.
Si registra poi che il  meccanismo metaforico riguarda anche il  campo della
rappresentazione visiva mediante segni, figure, simboli. Infatti, la metafora è usci-
ta ormai dalla convenzione retorica per essere più spesso impiegata nel campo
visivo, perché alcune immagini si basano su un processo metaforico di similarità
e di paragone oppure dipendono dal fatto che i semi comuni (basi dello scambio
metaforico) sono di  varia natura. Le immagini (come sceneggiature, esperienze
e definizioni concettuali) contribuiscono a identificare il significato:

metafore visive (all’interno dell’universo del visivo bisognerà distinguere


i sistemi figurativi, quelli gestuali e così via) o che esistono anche – forse –
metafore olfattive e  musicali. Il problema è  che la  metafora verbale richie-
de spesso, per essere in  qualche modo spiegata nelle sue origini, il  rinvio
ad esperienze visive, auditive, tattili, olfattive142.

Giustificabile sembra la constatazione che le metafore spingono gli scienziati


a esplorare e a creare contatti interdisciplinari, e rappresentano sorgenti di possi-
bili usi lessicali all’interno del discorso scientifico, con scambio di significati e l’im-
portazione di nuovi termini teorici143.
L’indagine conferma un ampio ricorso alle metafore nel discorso medico e l’ap-
plicazione riguarda diversi livelli: quello della divulgazione e della comunicazione
scientifica (però in misura meno notevole, data la rigidità del linguaggio). Gli usi
detti metaforici, non solo in riferimento alla guerra e alla materia bellica, rendono
la comunicazione medica più amichevole, soprattutto nei confronti dell’uomo co-
mune144. Essi sottolineano lo stretto legame tra processi mentali ed esperienze cor-
poree. Non è da negare il fatto che la diagnosi e i processi terapeutici si considerino
forme di simbolizzazione, in cui le metafore militari collocano la malattia nell’o-
rizzonte dell’esistenza agevolando la sua “rielaborazione” attraverso l’osservazione
e l’interpretazione. Riassumendo quello che implica lo studio proposto, è possibile

142
Umberto Eco, Semiotica e filosofia del linguaggio, Torino, Einaudi, 1984, p. 143.
143
Pascolini, Metafora e comunicazione scientifica, cit.
144
giuseppe sergio, La salute in vendita. Un sondaggio lessicale sulla lingua medico–pubblici-
taria, http://www.torinomedica.com/allegati/2010/(76)%20la%20salute%20in%20vendita.
pdf, data di accesso: 17.05.2016.
Il conflitto tra sano e malato nelle metafore militari del campo medico italiano 93

riunire i lessemi nei gruppi schematici seguenti (spostando leggermente l’ordine


della ricerca):
armi: siringa–pistola, bisturi–sciabola; campo di battaglia: ospedale/pronto
soccorso, reparti; nemici: parassiti, patogeni, batteri, virus; guerra, scontro, lotta,
battaglia: malattia e stati morbosi; divisa, uniforme: camice (bianco, verde, ecc.);
strategia, tattica: terapia, procedure per guarigione; soldati, guerrieri: farmaci.
Gli usi figurati diventano un vero e proprio strumento cognitivo grazie al qua-
le si ampliano le visioni della realtà. Tali operazioni, sia in passato che oggi, sem-
brano molto valide per identificare un segno patologico così come lo descrivereb-
be un paziente. Gli aspetti metaforici e non esplicitabili del linguaggio risultano
essenziali anche per capire la dinamica dei cambiamenti concettuali della scienza
stessa (del progresso e dello sviluppo tecnologico e concettuale). Grazie a vari tipi
di divulgazione, gli usi che fanno riferimento al linguaggio dei militari sembrano
familiari e popolari. Lo studio degli scritti scientifici evidenzia un uso preponde-
rante di prestiti dalla lingua inglese, concepita come il latino dei tempi moderni;
anche i forestierismi provocano un forte impatto sul lettore. Gli scienziati impiega-
no continuamente connotazioni (metafore, analogie) nel processo creativo di nuo-
ve teorie e ipotesi, per definire e spiegare con immediatezza i contenuti e i risultati
delle loro ricerche. Spesso le metafore usate in ambito divulgativo sono le stesse
utilizzate nel processo di elaborazione scientifica.
Anche per le  metafore sono individuabili diverse tipologie di  destinatari:
i ricercatori che stanno lavorando all’argomento; gli scienziati di altre discipline;
il pubblico generico rispetto a diversi livelli e scopi di applicazione e di utilizzo (va-
lutabili storicamente), come: metafore assimilate e banalizzate tra tutti i tipi di de-
stinatario: per es. codice genetico, crisi cardiaca (intrametaforico); metafore ancora
nuove e  strane, a  rischio di  comprensione limitata: per es. interruttore chimico,
intervento sanitario (metaforico); metafore usate solo tra scienziati specialisti nel
corso di un esperimento: per es. cellula che ‘decide’, activated killer cells (suprame-
taforico)145.
Il ricorso frequente all’uso figurato aiuta a stabilire le prospettive di osserva-
zione e interpretazione. In un certo senso implica la ristrutturazione della realtà ol-
tre alla riformulazione dello scenario da realizzare146. La metafora quindi non pre-
vale unicamente nel linguaggio letterario e quotidiano (oltre a quello dei bambini),
ma anche nei campi canonicamente collegati al significato letterale che caratterizza
la scienza. Dallo studio emerge che, contrariamente alle regole che ordinano il di-
145
Elaborato secondo il materiale proposto sul sito http://www.slideshare.net/Davide/la–co-
municazione–della–scienza–sociale–e–professionale–occasionale–e–programmata, data
di accesso: 14.09.2015.
146
lucia galvagni, Racconti e  metafore di  malattia: un’espressione della creatività mora-
le, http://books.fbk.eu/sites/books.fbk.eu/files/Lucia%20Galvagni%20159–196.pdf, data
di accesso: 17.05.2015.
94 Beata Katarzyna Szpingier

scorso specialistico, l’italiano medico non si caratterizza per scelte lessicali povere
e rigorose. Ricco di termini monosemici, non ambigui e indipendenti dal conte-
sto, esso non esclude l’apporto delle parole polisemiche e legate al contesto. L’ap-
porto delle formulazioni belliche segue la via determinata e non cambiabile della
persuasione sia nell’elaborazione di nuovi concetti che per facilitare la riflessione,
la  modalità cui si  ricorre per far impressione. In conclusione e  attenendosi alle
considerazioni riportate, ci si potrebbe quindi augurare tattiche e strategie oppor-
tune in caso di malattie.
Parte II. Insegnamento
La subordinata oggettiva e le due circostanziali:
la finale e la causale nelle grammatiche descrittive
italiane. Alcune considerazioni
Anna Godzich
Uniwersytet Adama Mickiewicza w Poznaniu

Premessa

Come già evidenziato dal titolo del contributo, nel presente studio si vuole in-
dagare la subordinata oggettiva ed alcune difficoltà in cui si imbattono gli studen-
ti di madrelingua polacca analizzando il periodo italiano e dovendo rintracciare
tale dipendente. Il nostro intento scaturisce soprattutto dai problemi pratici che
riscontrano gli studenti polacchi (o slavi in genere, dal momento che non di rado
vi sono anche alcuni ucraini) di italianistica iscritti al corso di sintassi del periodo
presso l’Università Adam Mickiewicz di Poznań e perciò di dar loro degli strumen-
ti di ricerca validi, che permettano di tracciare una netta distinzione tra la oggetti-
va e le due circostanziali: finale e causale.
Le ulteriori difficoltà riguardano la differenza tra la subordinata oggettiva im-
plicita e  quella relativa implicita nonché la  distinzione tra le  quattro frasi com-
pletive, ovvero subordinata oggettiva, soggettiva e dichiarativa, nonché quella in-
terrogativa indiretta, tuttavia di questo, visto lo spazio concessoci per la presente
riflessione, abbiamo discusso in un’altra sede147.
Inoltre, risulta anche di difficile comprensione la differenza tra un unico pre-
dicato verbale e due predicati diversi, tuttavia la questione richiede un approfon-
dimento a  parte che miri a  evidenziare i  tipi di  verbi che possono formare una
perifrasi verbale in  italiano (p.es. i  verbi fraseologici), nonché dia almeno delle

Si veda Anna Godzich, Le subordinate completive e la relativa implicita al corso accademi-
147

co di sintassi dell’italiano LS. Atti del Convegno Internazionale La Polonia e l’Italia nel dia-
logo delle culture. 11–12 giugno 2015, a cura di Ewa Nicewicz–Staszowska–Leonardo
Masi, Warszawa, Wydawnictwo Uniwersytetu im. Kardynała Stefana Wyszyńskiego, 2016.
98 Anna Godzich

principali linee guida circa l’approccio alla questione del predicato dei grammatici
italiani e polacchi.
Va anche precisato che il corpus dell’indagine si basa su alcuni manuali di sin-
tassi d’italiano destinati ai discenti di madrelingua italiana, a cominciare dagli anni
Cinquanta del Novecento:
1. Ernesta Paniate, Analisi logica per la scuola media, Torino, S. Lattes & C.
Editori, 1953.
2. Il libro Garzanti della lingua italiana per le  scuole medie superiori, a  cura
di Donata Schiannini – Pier Luciano Guardigli – Franco Bastianello –
Paola Castellini, Milano, Garzanti, 1974 (1969).
3. Umberto Panozzo – Nedda Sacerdoti, Dalla parola al linguaggio. Strut-
ture, origini, evoluzione della lingua italiana per la scuola media, Firenze, Le Mon-
nier, 1979.
4. L’italiano parlato e scritto. Grammatica di riferimento e manuale delle abilità
testuali con Schede di  autoverifica, a  cura di  Luca Serianni – Valeria Della
Valle – Giuseppe Patota, Milano, Mondadori, 2003.
5. Marcello Sensini, La lingua e i testi. La riflessione sulla lingua, Milano,
Mondadori, 2005.
Inoltre, per completare la nostra analisi ci siamo appoggiati ad una gramma-
tica di riferimento, e cioè al capitolo Sintassi del periodo in: Italiano. Grammatica
italiana. Ortografia e morfologia. Analisi logica e grammaticale. Sintassi della pro-
posizione e del periodo a cura di L. Serianni con la collaborazione di A. Castelvec-
chi. Glossario di G. Patota, Milano, Garzanti, 2015 (1997), pp. 368–440, nonché
su uno studio di G. Fiorentino, Le frasi oggettive, in: Treccani. Enciclopedia dell’i-
taliano, 2011, http://www.treccani.it/enciclopedia/frasi–oggettive_(Enciclopedia_
dell’Italiano)/ (accesso:15/10/2015). Siamo dell’opinione che l’analisi di tale corpus
ci permetta di dare allo studente delle linee guida circa la subordinata oggettiva
in italiano.

Le difficoltà legate alla subordinata oggettiva

In questa sede ci  preme sottolineare che in  genere le  grammatiche italiane
omettono l’argomento delle problematicità della subordinata oggettiva (forse affi-
dandosi all’intuito dei discenti italiani). Benché l’argomento di cui trattiamo possa
sembrare del tutto facile e  sulle prime potrebbe addirittura essere preso un  po’
sottogamba dagli stessi studenti (dal momento che apparentemente la subordinata
oggettiva è una proposizione che risponde alla domanda che cosa?), le difficoltà
legate alla subordinata oggettiva a nostro parere risultano tra l’altro:
La subordinata oggettiva e le due circostanziali: la finale e la causale… 99

– dalla distinzione tra un  predicato verbale e  un unico predicato verbale


espresso da una perifrasi verbale / struttura perifrastica148, che possiamo vedere
negli esempi sottostanti:

(1) Finisco di studiare,


(2) Marco mi ha fatto vedere la partita della Juve,
(3) Lasciami vedere la partita!

vs. due predicati diversi: (4) Sento che Marco ha ragione.


Innanzitutto, già all’inizio dei corsi dedicati sia alla proposizione che quelli
riguardanti il periodo, va sottolineato (e poi ribadito ancora) che in italiano si pos-
sono avere diversi tipi di predicato: verbale: (5) Marco guarda la partita, nominale: (6)
Marco è tifoso. / (7) Marco è arrabbiato ed il predicato espresso da un verbo fraseolo-
gico + verbo lessicale (detto anche nucleare) che formano una perifrasi verbale:

(8) Marco si rimette a mangiare,


(9) Marco sta vedendo la partita.

Si tratta di una questione molto accattivante e poco studiata al confronto con


le  lingue slave, tra cui la  lingua polacca149. Ciononostante, siccome l’argomento
dei verbi fraseologici merita uno studio a parte, vi dedicheremo i nostri contributi
futuri, per cui nel presente studio lo segnaliamo appena.
– dalla presenza di verbi dai valori sintattici particolari:

148
L’argomento è stato trattato da Luisa Amenta – Erling Strudsholm, “Andare a + infi-
nito” in italiano. Parametri di variazione sincronici e diacronici, in «Cuadernos de filología
italiana», IX (2002), pp. 11–29 e da Hanne Jansen, I verbi fraseologici, in Treccani, Enci-
clopedia dell’italiano, 2002, http://www.treccani.it/enciclopedia/verbi–fraseologici_(Enci-
clopedia_dell’Italiano)/ (accesso: 15/10/2015) nonché da Massimo Cerruti, Strutture pe-
rifrastiche in Treccani, Enciclopedia dell’italiano, 2011, http://www.treccani.it/enciclopedia/
strutture–perifrastiche_(Enciclopedia_dell’Italiano)/ (accesso: 15/10/2015).
149
Pensiamo qui alla monografia di  Katarina Klimová, Questioni di  aspetto verbale. Un
confronto tra italiano e  slovacco, Roma, Aracne, 2012, dedicata alla questione dell’aspet-
to, studiato dalla prospettiva slava ed  agli studi di  Stanisław Karolak, Od semantyki
do gramatyki, Warszawa, Slawistyczny Ośrodek Wydawniczy, 2001 nonché al contributo
di Anna Karlova, L’aspetto come categoria grammaticale nell’italiano moderno. La forma
e il significato, in La lingua e letteratura italiana dentro e fuori la Penisola. Atti del Terzo
Convegno degli Italianisti Europei, 11–13 ottobre 2001, a cura di Stanisław Widłak con
la collaborazione di Maria Maślanka–Soro e Roman Sosnowski, Kraków, Wydawni-
ctwo Uniwersytetu Jagiellońskiego, 2003, pp. 395–399.
100 Anna Godzich

verbi ausiliari propriamente detti: (10) Marco è partito, verbi servili (volere, po-
tere, dovere) vs. verbi di volontà (desiderare, preferire): (11) Marco è dovuto partire vs.
(12) Marco ha desiderato partire nonché (13) Marco ha preferito partire.
– dall’uso del verbo sapere in quanto servile:

(14) Non so guidare (ovvero: “non ne sono capace”),


(15) Non so il suo numero di telefono (non possiedo informazioni su di
esso, non ne sono a conoscenza),
(16) Non so se Marco viene.

Inoltre, l’analisi della subordinata oggettiva risulta difficile anche per il fatto
che essa regge la stessa domanda che la dipendente soggettiva (che cosa?), tuttavia
le soggettive vengono rette da verbi ed espressioni impersonali a struttura È+Agg,
È+N e simili, che siano impersonali però, come in (17) – (19):

(17) È superfluo che Marco parta,


(18) È un’opportunità che Marco parta,
(19) Si sa che Marco parte.

– ci  sia una confusione nei manuali d’italiano (destinati sempre al  discente
di madrelingua italiana), risultante dal graduale cambiare della norma: alcune di-
pendenti, classificate come subordinate oggettive negli anni Cinquanta–Sessanta
del secolo scorso, possono essere considerate piuttosto finali o causali nel Duemila
(si tratta di subordinate rette da una proposizione con un verbo detto di volontà,
di comando (i cosiddetti verbi volitivi e iussivi): vietare, ordinare:

(20) Vieto che i bambini giochino nel cortile,


(21) Ordino agli soldati di marciare via,

e di quelle rette da un predicato implicante la causa:

(22) Mi stupisco che Marco parta).

– ci sia solo criterio formale a distinguere la subordinata oggettiva da quella


dichiarativa nonché interrogativa indiretta:

(23) Spero che Marco parta (oggettiva),

vs. (24) Ho la speranza che Marco parta (dichiarativa),


vs. (25) Non so se Marco parte (interrogativa indiretta).
La subordinata oggettiva e le due circostanziali: la finale e la causale… 101

– la subordinata oggettiva, finale e causale formino un continuum sintattico


ed i confini tra di esse siano talvolta sfumati (si vedano i paragrafi 4–5).

La definizione della subordinata oggettiva e le differenze tra le singole gram-


matiche descrittive italiane
In questa sede vanno evidenziati due aspetti: mentre in tutti gli autori delle
grammatiche descrittive (ad eccezione della grammatica di riferimento di Serian-
ni–Castelvecchi–Patota150) troviamo che la oggettiva funge da complemento og-
getto della proposizione reggente151, a differenziarsi un po’ di manuale in manuale
sono i predicati che la reggono. Secondo Paniate152 la subordinata oggettiva sareb-
be retta dai seguenti verbi:
1. del dire: dire, narrare, sostenere, rispondere, confessare, giurare, scrivere, mi-
nacciare, dichiarare, ecc;
2. che indicano sapere o sentire: sapere, sentire, ignorare, capire, vedere;
3. di stima: giudicare, stimare, ritenere, reputare, pensare, ecc;
4. di volontà: volere, non volere, preferire, sperare, promettere, comandare, vie-
tare, ecc;
5. che esprimono un sentimento: rallegrarsi, godere, dolersi, lamentarsi, mera-
vigliarsi, congratularsi, ecc.
Si osservi che tutti i suddetti verbi di volontà tranne sperare e promettere po-
trebbero essere considerati predicati che reggono una subordinata finale, mentre
invece tutti i verbi del punto 5 rientrano piuttosto nel gruppo dei predicati reggenti
le subordinate causali (la questione verrà approfondita nel paragrafo 4).
Secondo Panozzo – Sacerdoti153 invece la  oggettiva avrebbe il  predicato che
significa:
– narrare, affermare, udire, dire, riferire, promettere, giurare, confessare, ri-
spondere;
– stimare, giudicare, reputare, ritenere, credere, sospettare;
– sentire, udire, capire, sapere, ignorare, comprendere, ricordare, dimenticare,
vedere;
150
Sintassi del periodo, in Italiano. Grammatica italiana. Ortografia e morfologia. Analisi logica
e grammaticale. Sintassi della proposizione e del periodo a cura di Luca Serianni con la col-
laborazione di Alberto Castelvecchi. Glossario di Giuseppe Patota, Milano, Garzanti,
2015 (1997), p. 382.
151
Ernesta Paniate, Analisi logica per la scuola media, Torino, S. Lattes & C. Editori, 1953,
p. 154; L’italiano parlato e scritto. Grammatica di riferimento e manuale delle abilità testuali
con Schede di autoverifica, a cura di Luca Serianni – Valeria Della Valle – Giuseppe
Patota, Milano, Mondadori, 2003, p. 261; Marcello Sensini, La lingua e i testi. La rifles-
sione sulla lingua, Milano, Mondadori, 2005, p. 448.
152
Ernesta Paniate, Analisi logica, cit., p. 154.
153
Umberto Panozzo – Nedda Sacerdoti, Dalla parola al linguaggio. Strutture, origini, evo-
luzione della lingua italiana per la scuola media, Firenze, Le Monnier, 1979, p. 434.
102 Anna Godzich

– volere, desiderare, proibire, vietare, stabilire, impedire.


In base agli esempi di predicati sottostanti vediamo che impedire, proibire, vie-
tare andrebbero classificati come predicati reggenti una dipendente finale. È palese
che occorrerebbe anche segnalare il comportamento dei verbi modali: in (26) Vo-
glio che Marco parta.
dove non c’è l’identità tra i due soggetti, si avrà una subordinata oggettiva retta
dal predicato ”voglio”, mentre in

(27) Marco vuole partire

avremo un unico predicato verbale con il verbo ”volere” che funge da supporto
del verbo che esprime l’azione cui si accinge Marco (partire).
Nonostante questa mancanza di  spiegazioni ulteriori e  di approfondimenti
da parte degli autori che non forniscono che un elenco di verbi, un’informazio-
ne utile viene data da Serianni–Della Valle–Patota154 (quindi in una grammatica
di pubblicazione piuttosto recente) i quali sottolineano che la oggettiva può anche
essere introdotta da come seguito dal congiuntivo:

(28) Ho costatato come sia difficile mettere tutti d’accordo,


(29) Gli dimostrò come avesse torto.

L’informazione data dagli autori suddetti risulta davvero preziosa per gli stu-
denti. Tuttavia andrebbe anche precisato che nel caso di proposizioni come (28)
e (29) non si tratta di subordinate modali e risulta incisiva la presenza del con-
giuntivo (cfr. con la subordinata modale: (30) Mi sono comportata come mi hai
consigliato tu).
Anche in un recente studio di Giuliana Fiorentino155 si sostiene che sia i verbi
fraseologici (definiti dall’autrice «verbi che indicano tentativo o inizio e conclusio-
ne» e che «si costruiscono solo con l’infinitiva», tra i quali: cercare, provare, tentare,
inziare, cominciare, finire, terminare, sforzarsi, impegnarsi), che i  verbi «di stato
d’animo, denotanti emozioni e sentimenti», quali rallegrarsi, rammaricarsi, vergo-
gnarsi, gioire, dolersi, spaventarsi, temere, desiderare, augurarsi, meravigliarsi, pre-
occuparsi, reggano le oggettive:

(31) Giovanni cerca (o si offre) di convincermi,


(32) Giovanni si rallegra di rivedermi.

154
L’italiano parlato e scritto, a cura di Serianni – Della Valle – Patota cit., p. 261.
155
http://www.treccani.it/enciclopedia/frasi–oggettive_(Enciclopedia_dell’Italiano)/ (acces-
so: 15/10/2015).
La subordinata oggettiva e le due circostanziali: la finale e la causale… 103

Per quanto riguarda i verbi fraseologici (31), dal punto di vista formale si può
dare ragione alla linguista, tuttavia viene da  interrogarsi sul perché di  una tale
analisi e suddivisione. Ciononostante, alcuni autori italiani preferiscono le analisi
formali e meticolose, basti pensare al loro approccio alle polirematiche nominali
del tipo ferro da stiro o barca a vela156 al cui interno taluni autori italiani indivi-
duano i rispettivi complementi: c. di fine (scopo) (da stiro) e quello di strumento
(a vela). Tali considerazioni, basate sullo svisceramento delle unità che formano
un insieme sintattico, rientrano nella tradizione linguistica italiana.
Quanto invece a (32), ovvero ai verbi che dentotano emozioni, si potrebbe an-
che trattare di predicati reggenti le proposizioni causali e non oggettive. Tuttavia,
tale sfumatura andrebbe segnalata trattando di questo tipo di sovraordinate.
Stando alla Fiorentino, anche le sovraordinate il cui predicato è formato da un
verbo di  volontà e  comando come volere, comandare, ordinare, proibire, esigere,
concedere, consentire, vietare, permettere, imporre, ingiungere, suggerire, intimare,
ecc. reggerebbero una oggettiva:

(33) Giovanni ordina che tutti escano dalla stanza.

Come vedremo nel paragrafo 5, tali subordinate vengono anche considerate fi-
nali. Il problema della classificazione concerne i predicati non neutri, che rivelano
una carica emotiva o un approccio del soggetto o del parlante all’azione espressa
della dipendente. Ne Il libro Garzanti della lingua italiana per le scuole medie supe-
riori, a cura di Schiannini – Guardigli – Bastianello – Castellini157 possiamo anche
leggere che «L’oggettiva implicita (…) ha il verbo all’infinito ma senza di, quando
il soggetto è diverso (vedo scorrere l’acqua; sento il bambino piangere) (…)». Nel
nostro contributo uscito nel 2016 trattiamo dell’ambiguità nell’interpretare le rela-
zioni logiche soggiacenti alle proposizioni implicite come le suddette.
Riassumendo, la oggettiva è una subordinata:
1) che funge soprattutto da complemento oggetto per la reggente: (34) Dico che
Marco sta vedendo la  partita (stando a  Serianni–Castelvecchi–Patota una oggettiva
può anche essere retta da un nome (35) od aggettivo (36):

(35) La sensazione che tu mi nasconda qualcosa mi tormenta,


(36) Dormimmo (…) ansiosi che la luce del giorno ci rivelasse la terra
rumena)158.

156
E così per esempio ne L’italiano parlato e scritto, a cura di Serianni, Della Valle, Patota,
cit., pp. 224–225 od in Sensini, La lingua e i testi, cit. p. 389.
157
Il libro Garzanti della lingua italiana per le  scuole medie superiori, a  cura di  Donata
Schiannini – Pier Luciano Guardigli – Franco Bastianello – Paola Castellini,
Milano, Garzanti, 1974 (1969), p. 327.
158
Sintassi del periodo, in Italiano a cura di Luca Serianni, cit., 2015 (1997), p. 382.
104 Anna Godzich

Secondo noi, nel caso della proposizione (35) si potrebbe anche trattare di una
subordinata dichiarativa, dal momento che essa dipende da un sostantivo che in-
dica impressione, presentimento, convinzione, pur non essendo separata dalla so-
vraordinata dai due punti o da una virgola;
2) il cui predicato il più delle volte è costituito da un verbo transitivo attivo:
(37) Promette che verranno, tuttavia non si dimentichino i casi in cui si ha la reggenza
verbale con verbi intransitivi: (38) Mi rendo conto che siamo in ritardo.
o in cui si ha la reggenza col verbo transitivo ma con l’oggetto espresso, come
notano Serianni–Castelvecchi–Patota159: (39) Ti avverto che i soldi sono finiti);
3) il cui predicato ha la forma personale: (40) Marco ha costatato che avrebbe avuto
ragione Paolo.
Nei paragrafi successivi cercheremo di illustrare le principali difficoltà legate
alla subordinata oggettiva in italiano.

Subordinata oggettiva vs. subordinata causale

In questa sede va soprattutto segnalato che, se la causa viene espressa dal predi-
cato della reggente, questo tipo di subordinata di solito non viene segnalato come
causale: in effetti gli indizi sintattici della causale esplicita, non solo nelle vecchie
grammatiche descrittive (come quella di Paniate), ma anche in quelle di pubbli-
cazione recente, restano le congiunzioni o locuzioni congiuntive causali: perché,
poiché, giacché, siccome, come, per il fatto che, per il motivo che, dal momento che,
dato che, visto che, considerato che e simili.
La formalità della grammatica italiana si nota anche dalla seguente costatazio-
ne che «le causali implicite possono essere costruite
con per + infinito, passato: Si sentì poco bene per aver bevuto troppo.
con il gerundio, presente o passato: Conoscendo Carlo, so che se la prenderà
a male.
con il participio passato: Svegliato dai rumori della strada, non riuscì a ripren-
dere sonno»160.
Notiamo quindi che con la causale implicita si ammette la mancanza di con-
giunzione / locuzione congiuntiva subordinativa, tuttavia si resta attaccati alle tre
forme implicite del verbo, che esprimono nettamente la causa.
Uno dei problemi riguardanti la distinzione tra la oggettiva e le circostanziali
concerne i predicati espressi dai «verbi ed espressioni di sentimento: godere, ral-
legrarsi, compiacersi, lamentarsi, meravigliarsi, dispiacersi, dolersi, rammaricarsi;

159
Sintassi del periodo, in Italiano a cura di Luca Serianni, cit., p. 382.
160
L’italiano parlato e scritto, a cura di Serianni – Della Valle – Patota, cit., p. 264.
La subordinata oggettiva e le due circostanziali: la finale e la causale… 105

provare meraviglia, essere compiaciuto ecc.»161 dal momento che le  subordinate
rette da essi vengono spesso classificate come oggettive. E così gli autori suddetti
ne danno gli esempi seguenti:

(41) Mi meraviglio che non ci abbia pensato anche tu,


(42) Mi dispiace di averlo sospettato.

Panozzo – Sacerdoti162 forniscono un’importante distinzione tra la dipendente


oggettiva e causale: la distinzione però sembrerebbe applicabile solo se consideria-
mo la struttura superficiale della dipendente, giacché gli autori affermano che nel
caso di  dipendenti rette da  verbi come meravigliarsi, godere, rallegrarsi, stupirsi,
dolersi e simili, va considerata la duplice interpretazione sottostante alla struttura
superficiale nei periodi seguenti:

(43) Godo perché tu fai ciò,


vs. (44) Godo che tu faccia ciò.

In effetti, stando agli autori, se  l’accento viene posto sulla causa dell’azione,
ovvero del meravigliarsi, del godere ecc., le subordinate siffatte «si possono consi-
derare causali». Se invece si mette l’accento sul sentimento che viene espresso dai
verbi suddetti, le dipendenti «sono oggetive»163.
Ciononostante, notiamo che, malgrado questa esplicita messa in evidenza del-
la causa o del sentimento espressi dal predicato della sovraordinata nei due esempi
soprastanti, risulta sempre vincolante la  saturazione della congiunzione: un  che
in quanto congiunzione subordinante sarà in ogni caso meno saturo di una con-
giunzione più monovalente come perché o affinché. Nulla cambia quindi nell’ap-
proccio dei linguisti italiani, che restano sempre attaccati alla forma.
Riteniamo rilevante sottolineare anche che, mentre le subordinate rette da un
verbo personale, che abbia cioè un soggetto, che esprime emozioni o approccio
dell’utente della lingua, quali per es.

(45) Mi rallegro che tu torni con me,


(46) Mi meraviglio che Luca voglia seguire la partita dal vivo.

vengono classificate come oggettive dalla maggioranza dei linguisti italiani


e potrebbero essere ritenute causali (Mi rallegro / Mi meraviglio per quale motivo?

161
L’italiano parlato e scritto, a cura di Serianni – Della Valle – Patota, cit., p. 262.
162
Panozzo – Sacerdoti, Dalla parola al linguaggio, cit., p. 437.
163
Ibid.
106 Anna Godzich

e  non tanto: di  che cosa?), quelle rette dagli stessi verbi alla forma impersonale
però:

(47) Mi meraviglia che tu torni con me,


(48) Mi rallegra che andiate sempre d’accordo,
(49) Mi sorprende che Luca voglia vedere la partita,

sono da considerarsi solo soggettive, mai causali. Risulta quindi incisiva la for-
ma impersonale del predicato della reggente. Dal punto di vista didattico è parec-
chio utile farlo notare agli studenti a scanso di equivoci e dubbi.
Gli unici cenni che, nel caso di subordinate rette da verbi come meravigliarsi,
stupirsi, godere ecc., vada presa in considerazione la non neutralità del predicato
della sovraordinata, si trovano in Sensini164 il quale definisce le subordinate rette
da questi predicati «più causali che oggettive»:

I verbi e  le locuzioni costituite da  essere + un  aggettivo che indicano


un sentimento come rallegrarsi, rammaricarsi, compiacersi, meravigliarsi, sde-
gnarsi, preoccuparsi, essere contento ecc. reggono non tanto una subordinata
oggettiva, quanto una subordinata causale: “Mi meraviglio che (= per il fatto
che) tu la pensi così”; “Il sindaco si rammarica di (= a causa del fatto di) non
essere qui con noi”.

nonché in  Serianni–Castelvecchi–Patota165, mentre gli altri linguisti italiani


continuano imperterriti a segnalare che si tratta di subordinate oggettive anche nel
caso che vengano rette da predicati costituiti da verbi di sentimento166.
Come vediamo, la  forma tende ad  avere la  meglio sulla semantica (le con-
giunzioni subordinanti di causa o la forma del verbo della subordinata nel caso
delle causali implicite vs. i verbi della reggente esprimenti la causa). I grammatici
italiani sono restii a prendere in considerazione il significato del predicato della
sovraordinata.

La subordinata oggettiva vs. la dipendente finale

Serianni–Della Valle–Patota167 giustamente osservano che le finali «indicano


il fine verso il quale tende l’azione espressa nella reggente». Secondo il meno re-
164
Sensini, La lingua e i testi, cit., p. 448.
165
Sintassi del periodo, in Italiano, a cura di Luca Serianni, cit. p. 383.
166
E così ad esempio Paniate, Analisi logica, cit., p. 155 e L’italiano parlato e scritto, a cura
di Serianni – Della Valle – Patota, cit., p. 262.
167
L’italiano parlato e scritto, a cura di Serianni – Della Valle – Patota, cit., p. 264.
La subordinata oggettiva e le due circostanziali: la finale e la causale… 107

cente fra i manuali analizzati, ovvero il libro redatto da Paniate168, i verbi di volontà
quali volere, non volere, preferire, sperare, promettere, comandare, vietare reggereb-
bero una oggettiva. Si noti che andrebbe sempre precisato che volere e non vole-
re nel caso di due soggetti diversi reggono effettivamente una oggettiva, mentre
in altri casi avremo un unico predicato verbale, il modale, non avendo autonomia,
da solo non costituirà predicato autonomo (come in (27)).
Sulla stessa scia di Paniate troviamo nel libro Garzanti169 le informazioni che
anche i  verbi che indicano «preghiera» o  «comando» introducono e  reggono
un’oggettiva. Gli autori elencano i verbi seguenti: pregare, ordinare. Cionondime-
no, nei casi in cui la congiunzione subordinante che è sostituibile con una meno
polivalente come perché o ché, comunque sempre dal valore finale, oppure con una
monovalente affinché – sarebbe da considerarsi finale:

(50) Ordino affinché usciate.

Tuttavia va notato che allo stesso tempo l’uso della subordinata finale risulta
parecchio ristretto e limitato dalla struttura superficiale il che si vede p. es. nello
stesso Paniate170:

(51) Mangiamo per vivere,


(52) Andiamo a scuola affinché ci istruiamo,

oppure in Panozzo – Sacerdoti171: «possono avere: forma esplicita (con il con-


giuntivo, retto dalle congiunzioni affinché, perché, aciocché, che, onde e locuzioni
affini)». Gli autori danno i seguenti esempi di subordinate finali:

(53) I cittadini son soggetti alle leggi affinché possano essere liberi,
(54) Scriverò a Carlo perché (affinché) ci venga a trovare,
(55) Ti dico ciò affinché tu mi dia un consiglio;

Panozzo–Sacerdoti172 da par loro sottolineano che le finali implicite sono pro-


posizioni infinitive con «l’infinito introdotto dalle preposizioni per, a, di, o dalle
espressioni ‘allo scopo di’, ‘con lo scopo di’». Come esempi vi troviamo le proposi-
zioni seguenti:

168
Paniate, Analisi logica, cit., p. 154.
169
Il libro Garzanti della lingua italiana, a cura di Schiannini – Guardigli – Bastianello –
Castellini, cit., p. 327.
170
Paniate, Analisi logica, cit., p. 192.
171
Panozzo – Sacerdoti, Dalla parola al linguaggio, cit., p. 438.
172
Ibid.
108 Anna Godzich

(56) Il tiranno Dionigi, per non affidare il collo al barbiere, invitò le figlie
a fargli la barba,
(57) L’ho esortato ad accettare,
(58) Siamo venuti qui con lo scopo di far del bene.

Ne consegue che per parlare di una finale si dovrebbe avere in struttura su-
perficiale una congiunzione o locuzione congiuntiva dal valore finale (o comun-
que sostituibile con affinché), perché quando questo segno di finalità viene meno,
la frase viene piuttosto considerata oggettiva:

(59) Cesare comandò di fare il ponte173.

Ovviamente, là dove la congiunzione o locuzione congiuntiva risulta mono-


valente, gli studenti non riscontrano difficoltà nel rintracciare la finale (cfr. (50)
– (56) o (58)).
La finale, sempre secondo Paniate174, «indica il fine o lo scopo della reggen-
te», ha «la forma implicita col verbo all’Infinito, retto dalle congiunzioni di, per,
a o dalle locuzioni: al fine di, allo scopo di, nonché la forma esplicita, col verbo
al Congiuntivo, retto dalle congiunzioni: affinché, onde, acciocché, ecc.»,

(60) Esigo ch’egli chieda perdono.

Osserviamo che il  segno della finalità nella esplicita è  il modo congiuntivo,
il quale rafforza il collegamento subordinativo e la gerarchia tra le proposizioni175.
Inoltre vediamo una gradazione della forza del collegamento: dal collegamento
debole realizzato dalla congiunzione polivalente che, passando attraverso il colle-
gamento più forte, espresso dalla congiunzione subordinante che, al collegamento
sintatticamente più vincolante, ossia la congiunzione affinché o locuzioni congiun-
tive subordinative con lo scopo di, al fine di, allo scopo di176.

173
Paniate, Analisi logica, cit., p. 155.
174
Ivi, p. 159.
175
Cfr. Elżbieta Jamrozik, Collegamento transfrastico in italiano moderno, in Lingua e let-
teratura italiana dentro e  fuori la  Penisola. Atti del Terzo Convegno degli Italianisti Eu-
ropei, 11–13 ottobre 2001, a cura di Stanisław Widłak con la collaborazione di Maria
Maślanka–Soro e  Roman Sosnowski, Kraków, Wydawnictwo Uniwersytetu Jagiel-
lońskiego, 2003, p. 372.
176
A proposito del collegamento transfrastico in italiano contemporaneo si vedano i contri-
buti di  Jamrozik, Collegamento transfrastico in  italiano moderno, cit., p. 371–380 non-
ché Elżbieta Jamrozik, Collegamento transfrastico in italiano, Warszawa, Wydawnictwo
Uniwersytetu Warszawskiego, 2005.
La subordinata oggettiva e le due circostanziali: la finale e la causale… 109

Inoltre, in Sensini177 troviamo un’osservazione utile secondo cui «i verbi e le


locuzioni verbali che esprimono ordine, divieto o proibizione come ordinare, proi-
bire, comandare, impedire, vietare ecc. secondo taluni grammatici reggono non
una subordinata oggettiva, ma la subordinata finale». Tale informazione andrebbe
inserita in ogni grammatica descrittiva dell’italiano.
Nell’elenco di verbi dai quali dipendono le oggettive fornito da Serianni–Della
Valle–Patota178 troviamo l’informazione che queste proposizioni dipendono da «i
verbi ed espressioni che significano “affermare” o “dichiarare” (…), verbi ed espres-
sioni che significano “percepire” (…): vedere, ascoltare, sentire, percepire (…)». Ma
anche «verbi ed espressioni che significano “volere”, “sperare”, “tentare”, “temere”:
volere, desiderare, sperare, ordinare, comandare, vietare, impedire, permettere, con-
cedere, proibire, temere, avere desiderio, paura (…)». Ne consegue che ancora una
volta viene sottolineato che i linguisti e i grammatici italiani considerano oggettive
le proposizioni segnalate da Sensini179 come finali.
Se è  vero che lo  sguardo degli italianisti stranieri ai  fenomeni della lingua
in atto in Italia potrebbe sempre restare in qualche modo incompleto, dal momen-
to che ci possono sfuggire degli aspetti più immediati, più recenti, specie aspet-
ti sociolinguistici, percepibili solo sul posto, sembra altrettanto giusto dire che
un campo d’interesse alquanto valido per gli italianisti stranieri resta il confronto
tra l’italiano e la propria lingua su vari livelli del sistema: infatti, con il presente
contributo si vuole piuttosto fornire una buona fonte di differenze e somiglianze
nel descrivere la oggettiva da parte degli studiosi italiani o dagli italianisti stranieri,
in particolare quelli polacchi.
E così Kwapisz–Osadnik180 include anche i  verbi fraseologici tra i  verbi che
reggono una oggettiva, non considerandoli cioè verbi ausiliari tempo–aspettuali181.
Infatti come esempi dell’oggettiva implicita vengono date dall’autrice le proposi-
zioni seguenti:

(61) Ho imparato a parlare tedesco.

177
Sensini, La lingua e i testi, cit., p. 449.
178
L’italiano parlato e scritto, a cura di Serianni – Della Valle – Patota, cit., p. 262.
179
Sensini, La lingua e i testi, cit., p. 449.
180
Katarzyna Kwapisz–Osadnik, Zdanie złożone, in: Eadem, Podstawowe wiadomości
z gramatyki polskiej i włoskiej. Szkic porównawczy, Katowice, Wydawnictwo Uniwersytetu
Śląskiego, 2012, p. 125.
181
Cfr. Il verbo, in Italiano. Grammatica italiana. Ortografia e morfologia. Analisi logica e gram-
maticale. Sintassi della proposizione e del periodo a cura di Luca Serianni con la collabora-
zione di Alberto Castelvecchi. Glossario di Giuseppe Patota, Milano, Garzanti, 2015
(1997), p. 280.
110 Anna Godzich

mentre il tutto, ovvero “Ho imparato a parlare” non è che un verbo fraseologi-
co + verbo lessicale che forma un unico predicato, una perifrasi verbale nei termini
di Jansen o Cerruti182.
Vediamo gli altri esempi addotti dall’autrice polacca, come:

(62) Sono felice che tu (ci) sia riuscito,


e (63) Sono felice di stare con lei. (Jestem szczęśliwy, że z nią jestem →
ponieważ z nią jestem).

Da par nostro le subordinate in ambedue le proposizioni soprastanti risponde-


rebbero piuttosto alla domanda per quale motivo?, pertanto le subordinate andreb-
bero considerate causali e non completive (oggettive). Osserviamo che i predicati
delle sovraordinate non sono neutri, portano l’approccio del parlante.

Considerazioni finali

L’oggetto di  questo studio, ossia la  subordinata oggettiva, sembra essere una
proposizione facile da  rintracciare nel periodo e  altrettanto facile da  distinguere
dalle altre subordinate, che siano completive o circostanziali, mentre alla suddetta
subordinata sono legate numerose questioni difficili che riguardano: la distinzione
di un unico predicato verbale da due predicati verbali, la distinzione dell’oggettiva
dalle altre completive, quali soggettiva, dichiarativa ed interrogativa indiretta, non-
ché dalla relativa, dalla finale e dalla causale. Alla questione va quindi dedicato pa-
recchio tempo sia durante la lezione frontale di sintassi sia durante le esercitazioni.
Come possiamo vedere, avendo passato in rassegna le varie proposte di de-
finizioni dell’oggettiva, essa si  situerà in  un continuum sintattico nel cui centro
troveremo le oggettive modello, rette da verba putandi, dicendi, in periferia invece
le  subordinate rette dalla frase matrice costituita da  un verbo non neutro come
in (45) e (46).
Le divergenze di vedute tra gli studiosi italiani non facilitano il compito del do-
cente di sintassi non italiano. Visto e considerato quanto sopra è parecchio difficile
districarsi tra le opinioni e le tipologie diverse proposte dagli studiosi italiani. Inol-
tre mancano esercizi finalizzati alla distinzione di due o tre subordinate facilmente
confondibili tra loro e che possono essere difficili da riconoscere dagli studenti.

182
I verbi fraseologici, in Treccani, Enciclopedia dell’italiano, 2002, http://www.treccani.it/en-
ciclopedia/verbi–fraseologici_(Enciclopedia_dell’Italiano)/ (accesso: 15/10/2015) nonché
Massimo Cerruti, Strutture perifrastiche in  Treccani, Enciclopedia dell’italiano, 2011,
http://www.treccani.it/enciclopedia/strutture–perifrastiche_(Enciclopedia_dell’Italiano)/
(accesso: 15/10/2015).
La subordinata oggettiva e le due circostanziali: la finale e la causale… 111

Pertanto il manuale più amichevole, con numerose segnalazioni „Per non sbaglia-
re” è senza dubbio quello di Sensini183, in cui tuttavia tali osservazioni non sono
sempre presenti. Comunque è un manuale dall’approccio didattico–descrittivo.
Per concludere possiamo osservare per analogia che «l’antichissimo cancro
della retorica», tanto biasimato e condannato a più riprese da Ascoli184, in un certo
qual modo persiste o i suoi orpelli perdurano sotto forma dell’eccessiva formalità,
del badare troppo alla forma e trascurare la semantica e la grammatica semantica.
Riassumendo quanto detto sopra, le conclusioni e le raccomandazioni posso-
no essere le seguenti:
1. i manuali degli anni Cinquanta–Sessanta del Novecento sono più formali,
la congiunzione è un indizio di circostanzialità (la subordinata oggettiva vs. finale
o causale);
2. è un tema valido ed attuale visto il costante bisogno di insegnare la sintassi
dell’italiano allo studente straniero;
3. è osservabile un lieve spostamento sull’asse oggettiva–finale–causale;
4. vigono sempre requisiti piuttosto formali che non formali–semantici nel
caso di subordinate circostanziali (finale, causale);
5. si nota una certa apertura di alcune subordinate all’apporto di nuove propo-
sizioni al loro gruppo (causali);
6. in alcuni casi risulta palese la mancanza del focus sul concetto di predicato
(e la mancanza di esercizi in merito);
7. talvolta alcune subordinate sfumano una nell’altra (oggettiva–causale, og-
gettiva–finale).
Il nostro intento era di  delineare le  difficoltà che si  possono riscontrare nel
corso di sintassi del periodo e di proporre come discernere i tipi di subordinate più
confuse dal discente polacco. Per spiegare e soprattutto far capire i suddetti feno-
meni e le differenze tra di essi allo studente al corso di sintassi del periodo a nostro
parere occorre anche mettere in rilievo l’alto grado di formalità dell’italiano.
Va ribadito che in  qualche caso risulta superfluo o  addirittura discutibile
o talvolta persino arbitrario decidere in modo netto la loro appartenenza ad uno
o all’altro gruppo di proposizioni subordinate.
In questa sede ci preme sottolineare che il presente contributo non vuole essere
una critica dei manuali di sintassi italiani: in effetti con esso vogliamo dare agli stu-
denti degli strumenti validi per potersi destreggiare nella selva delle proposizioni
italiane, nonché far sì che si rendano conto della molteplicità di punti di vista e di
approcci degli studiosi italiani.

Marcello Sensini, La lingua e i testi. La riflessione sulla lingua, Milano, Mondadori, 2005.
183

Graziadio Isaia Ascoli, Proemio all’ “Archivio glottologico italiano”, http://ww2.biblio-


184

tecaitaliana.it/xtf/view?docId=bibit000730/bibit000730.xml&chunk.id=d4819e132&toc.
depth=1&toc.id=&brand=newlook (accesso: 15/10/2015).
Considerazioni sull’e–conflitto nell’insegnamento
delle lingue
Aleksandra Kostecka–Szewc
SWPS Uniwersytet Humanistycznospołeczny, Warszawa

«Ma non mi dire che stai studiando!». È una frase molto spesso usata dai ge-
nitori che non credono che il bambino che sta davanti allo schermo del computer,
con la  musica accesa e  il telefonino a  portata di  mano, stia proprio studiando.
Invece il multitasking è molto comune, soprattutto tra le nuove generazioni. Ovvia-
mente in questo caso l’efficacia e la concentrazione risultano cruciali per il pieno
svolgimento del processo di apprendimento. Comunque non è detto che perché
al genitore questo modo di apprendere sembri impossibile, lo sia anche per il bam-
bino. Dei diversi cervelli e, allora, dei diversi modi di apprendere dei nativi e im-
migrati digitali si è parlato già tante volte. Quello che era adeguato e stimolante per
le generazioni precedenti non deve affascinare i giovani, anzi è molto più probabile
che li annoierà.
Il presente articolo si propone di presentare alcune soluzioni che possono es-
sere adottate per risolvere questa specie di e–conflitto.

E–conflitto

Infatti è stato usato il prefisso «e–» perché riguarda la sfera multimediale, elet-
tronica, tecnologica. Con questo prefisso si indicano anche le cose che riguardano
l’uso dell’elettronica digitale e delle nuove tecnologie. E–mail, e–book, ma adesso
anche e–scuola, ed e–insegnante. La realtà delle nuove tecnologie è onnipresente.
Devono allora per forza esserci pure dei problemi, delle critiche e proprio anche
dei conflitti riguardanti la materia. Il detto conflitto sorge non solo tra i giovani
e i loro genitori, ma anche tra gli insegnanti e in più nell’intero sistema scolatico
di oggi.
114 Aleksandra Kostecka–Szewc

Una delle soluzioni sarebbe magari di non farne per forza una battaglia. Né
tra le generazioni, né tra i genitori e figli, né tra gli studenti e gli insegnanti. Che
le tecnologie siano indispensabili non lo possiamo negare, però l’eccesso della loro
applicazione oppure l’uso sbagliato possono provocare diversi danni, sia dal pun-
to di vista educativo, che da quello psicologico. La risposta sta dunque nel come
sfruttare in modo saggio le possibilità che ci offrono le tecnologie e condividere
questo sapere con gli studenti, seguendo e rispettando le importantissime scoperte
della neurodidattica.
Alcuni limitano l’uso degli strumenti tecnologici soprattutto al gioco che, se-
condo loro, non costituisce uno scopo educativo vero e proprio. Infatti molti geni-
tori e insegnanti collegano il gioco solo con il divertimento e il piacere di passare
il tempo libero in modo spensierato. Ovviamente la connotazione è giusta, però
chi ha detto che lo studio non può essere piacevole, divertente, interessante e sti-
molante? È già ben chiaro che il fattore ludico è indispensabile non solo nell’inse-
gnamento dei più piccoli, ma di tutti i discenti.
Per lo  più, dal punto di  vista neurobiologico, il  gioco è  uno dei più intensi
processi dell’apprendimento che non può essere sostituito con nessun altro sti-
molo. Marzena Żylińska185, nel suo libro, menziona gli esempi dei bambini che
proprio attraverso il  gioco imparano cose indispensabili per la  loro vita futura,
traendo da ciò la conclusione che il gioco sia un metodo valido. Invece il bambino
che si annoia, cioè che non trova delle condizioni adeguate per lo sviluppo così
tanto desiderato e richiesto dal suo cervello, farà di tutto per essere attivo in un
altro modo. Lo sanno benissimo tutti i genitori. Nell’ambiente di apprendimento
a scuola valgono le stesse regole. Gli studenti devono avere le condizioni adeguate
al  loro sviluppo e  al mantenimento di  un alto livello di  motivazione, altrimenti
si annoiano, fanno altre cose, non sanno più concentrarsi.
La ricerca europea sulle competenze linguistiche (ESLC European Survey on Lan-
guage Competences) fatta in Polonia nel 2012 dimostra che uno studente su quattro
dopo sei anni di studio di una lingua straniera non raggiunge nemmeno il livello più
basso (il 24% degli studenti d’inglese, alla fine del ginnasio186 ha un livello inferiore
ad A1). Questi dati non devono sorprendere. Quante volte si sentono affermazioni
come: «dopo anni di studio non so costruire nemmeno una frase corretta in una
lingua straniera», oppure «studio la lingua da tanti anni, ma non oserei mai usarla
in pubblico». Ecco il risultato dello studio sbagliato. Anche se gli studenti sanno per-
fettamente completare gli esercizi, abbinare le colonne e inserire le forme giuste, non
sanno usare la lingua187. La situazione deve per forza cambiare.

185
Marzena Żylińska, Neurodydaktyka. Nauczanie i uczenie się przyjazne mózgowi, Toruń,
Wydawnictwo UMK, 2013, p. 156.
186
Il ginnasio polacco corrisponde alla scuola media italiana.
187
Marzena Żylińska, Neurodydaktyka, cit., p. 97.
Considerazioni sull’e–conflitto nell’insegnamento delle lingue 115

Un altro fattore a favore dell’uso delle nuove tecnologie nell’insegnamento del-


le lingue è il fatto che sicuramente provocano delle emozioni. Infatti l’emozione
provata nei confronti di un’attività costituisce un tipo dell’indicatore della memo-
ria188 che aiuta a  memorizzare meglio. Bisogna ricordare che il  cervello impara
di continuo, non solo a scuola, non solo davanti a un manuale, ma anche durante
una passeggiata, un gioco oppure davanti al computer o al televisore, il che ovvia-
mente può essere vantaggioso, ma anche molto pericoloso. Si impara meglio, più
velocemente e  in modo più duraturo quello che serve, piace e  interessa, spesso
anche inconsciamente.
E i  giovani di  oggi si  interessano tra l’altro alle tecnologie. Tornando però
all’esempio del bambino, il fatto che gli interessa lo schermo non significa che gli
accendiamo il televisore pensando già di aver creato le condizioni giuste per l’ap-
prendimento.
Analogamente non basta assegnare allo studente un computer, un tablet, Inter-
net affinché apprenda in modo efficace con le tecnologie. Manfred Spitzer nel suo
nuovo libro Demenza digitale. Come la nuova tecnologia ci rende stupidi sottolinea
che così come nutriamo il nostro corpo con il cibo per farlo crescere e sviluppa-
re, così proponiamo il cibo al cervello189. Allora l’aspetto qualitativo come sempre
è fondamentale. La TV o Internet non potranno mai sostituire i veri contatti in-
terpersonali che sono indispensabili per lo sviluppo dell’uomo e poi il contenuto
proposto deve essere sottoposto a una selezione molto rigorosa.
Pertanto la soluzione sta nell’uso saggio delle tecnologie. Non è necessario per
forza adattare tutte le innovazioni seguite dai giovani, perché non tutte funzionano
e inoltre non è chiaro quali risultati daranno in futuro. Il contatto quotidiano con
le tecnologie certamente sviluppa il cervello, attivando alcuni collegamenti neuro-
nali, ma nello stesso tempo indebolisce gli altri. Se le attività sono creative, lasciano
spazio alla scoperta delle conoscenze e delle regole, all’analisi, all’intuizione e alla
sperimentazione, non devono essere dannose. Bisogna integrare le tecnologie di-
dattiche con gli altri metodi didattici e non necessariamente sostiture gli uni con
gli altri. Anche secondo Prensky, che ha introdotto la famosa divisione tra i nativi
e gli immigrati digitali, le tecnologie costituiscono un tipo di supporto al modello
di  apprendimento. Inoltre alla domanda se  sia possibile cambiare la  scuola con
l’uso delle tecnologie Marek Kaczmarzyk, uno studioso di  neurodidattica, con
sicurezza risponde di no. Sostiene che è indispensabile una vera rivoluzione del
pensiero190. Qui entra in gioco il ruolo dell’insegnante.

188
Ivi, p. 164.
189
Ivi, p. 99.
190
Marek Kaczmarzyk, Sama technologia niczego nie zmieni, in «IT w edukacji», 3 (2015),
p. 65.
116 Aleksandra Kostecka–Szewc

Competenza mediale

È facile dire che bisogna usare bene le innovazioni tecnologiche, ma è altret-


tanto difficile da  fare. Le ricerche condotte tra i  nativi digitali confermano che,
sebbene passino tante ore navigando su Internet, in realtà non sanno usare bene
le risorse informatiche. Hanno delle difficoltà a collegare informazioni da fonti di-
verse o a trovare i corrispondenti nella vita reale. Le loro ricerche sono superficiali
e caotiche. D’altra parte non c’è da stupirsi, è un po’ come se studiassimo una lingua
straniera da soli. Infatti le lezioni d’informatica nelle scuole non insegnano la vera
competenza mediale che, bisogna sottolinearlo, si trova tra le competenze base.
L’educazione ai media è un’espressione entrata in uso proprio con lo sviluppo
tecnologico dei mezzi di  comunicazione di  massa e  si riferisce alla formazione
delle capacità di utilizzare in modo giusto i mezzi di comunicazione di massa. Non
possiamo allora confonderla con l’educazione con i  media, cioè attravaerso gli
strumenti che offre la nuova tecnologia191.
Nel contesto formativo si tratta soprattutto di ottenere i seguenti obiettvi:
– la comprensione del sistema mediale e dei suoi messaggi (tecnologie, strate-
gie commerciali, ecc);
– la fruizione consapevole dei dati e degli strumenti;
– la produzione di messaggi originali192.
L’utente deve dunque in modo soggettivo saper criticare i mezzi di comunica-
zione di massa, riflettere sui contenuti e analizzarli, riconoscendo anche i possibili
pericoli. Deve inoltre trarre vantaggi dal loro uso. L’accesso, la valutazione, l’analisi,
l’uso, la  comuncazione e  la creazione sono gli elementi necessari da  introdurre.
Ovviamente tutto è basato sulle norme della legge, sul pensiero critico, sulla mo-
ralità, ma anche sulla creatività.
L’Università degli Studi di Padova, ma anche tante altre università e organiz-
zazioni come Unison, hanno attivato dei corsi specialistici proprio per formare
i professionisti della materia.
Matteo Locatelli ideatore del corso e formatore di Unison lo spiega in modo
molto chiaro:

Il mondo della scuola è cambiato. Oggi nello zaino di uno studente, oltre
a libri e quaderni ci sono anche tablet e smartphone. Strumenti che possono
avere un  utilizzo esclusivamente ludico ed  essere motivo di  distrazione sia
in classe che a casa, ma anche essere preziosi “alleati” nel percorso didattico
e formativo. La sfida della società moderna è proprio questa: aiutare i ragazzi,
ma anche i genitori e i docenti, a rendere queste apparecchiature utili nello

191
Educazione ai  media, in  Wikipedia, https://it.wikipedia.org/wiki/Educazione_ai_media,
consultato il 29/5/2015.
192
Ibid.
Considerazioni sull’e–conflitto nell’insegnamento delle lingue 117

studio, nello svolgimento dei compiti, nel fare le ricerche e, più in generale,
nel complesso e articolato processo di conoscenza che ognuno di noi affronta
prima a scuola e poi nel mondo lavorativo193.

La formazione in questo settore è sempre più spesso organizzata anche in Po-


lonia. Si può menzionare tra l’altro il portale Edukacja medialna in cui si trova-
no appunto le indicazioni su come usare bene le risorse multimediali e anche gli
esempi delle lezioni da fare in classe194.
Qualcuno però può chiedere: perché insegnare queste cose? Il programma è lo
stesso troppo denso, è inutile sovrappesarlo ancora. Forse è vero, ma con la valan-
ga di informazioni che appare ogni giorno bisogna cavarsela in qualche modo e in
più per trarne dei profitti bisogna farlo in modo consapevole.
Nell’introduzione alla rivista IT w edukacji, dedicata proprio all’insegnamento
con l’utilizzo delle nuove tecnologie, il redattore presenta il problema riguardante
gli insegnanti d’informatica195. Ovviamente non è giusto generalizzare, però la loro
grande maggioranza è rimasta all’epoca precedente. Certamente insegnano come
usare il software, i programmi di videoscrittura, creare i propri file. Tutto ciò è im-
portante, ma i giovani spesso lo sanno fare meglio dell’insegnante. Anni fa faceva-
no anche gli informatici veri, occupandosi ancora delle questioni tecnologiche nel-
le scuole. Adesso lo fanno di rado, non hanno più le competenze oppure le scuole
scelgono ditte esterne che offrono i servizi complessi senza coinvolgere gli infor-
matici–insegnanti. La gestione delle informazioni e la loro analisi rimane trascu-
rata nell’insegnamento. Gli insegnanti delle altre materie raramente intervengono
su temi inerenti l’uso dell’informatica e della multimedialità giustificandosi di non
avere abbastanza tempo a causa delle tempistiche serrate della scuola e puntando
il dito sulle lezioni d’informatica, che dovrebberero servire per l’approfondimento
di tali competenze. In questo modo si crea un circolo vizioso.

Multitasking

Al modo di saper o anzi di non saper sfruttare bene le risorse e gli strumenti
tecnologici è collegata ancora un’altra caratteristica importante dei nativi digitali,
e nello stesso tempo una di quelle il cui funzionamento è il più difficile da capire
– il multitasking. I giovani sono capaci di svolgere più attività nello stesso tempo.
È possibile supporre che sia così grazie alla realtà che gli offre così tanti stimoli.
Da bambini sono abituati ad agire in questo modo. Non sanno più concentrarsi
su una cosa e se già lo fanno si annoiano subito. Sempre più spesso il problema
193
Consorzio Unison, http://www.consorziounison.it, consultato il 29/5/2018.
194
Edukacja medialna, http://edukacjamedialna.edu.pl, consultato il 29/5/2015.
195
Jacek Ścibor, Coś drgnęło, in «IT w edukacji», 2 (2015), p. 3.
118 Aleksandra Kostecka–Szewc

tocca anche gli adulti, che non sono nemmeno consapevoli di  svolgere diverse
attività nello stesso tempo. Guidano la macchina ascoltando la radio e parlando
al telefono. Guardano la TV stirando e preparando il pranzo o controllando la po-
sta elettronica. Oppure semplicemente leggono le notizie che il canale trasmette
sulle strisce in fondo allo schermo196.
Si torna dunque all’esempio presentato all’inizio dell’articolo a proposito dello
svolgimento dei compiti a casa con l’uso di tanti strumenti tecnologici. Infatti è un
metodo molto comune. Perché? Se alle cose che bisogna fare si aggiungono quelle
che ci interessano il piacere accresce la motivazione. La dopamina, un ormone che
funziona tra l’altro aumentando la frequenza cardiaca e la pressione del sangue,
è responsabile anche dell’assegnazione dei premi. Se viene attivata, spinge ad agire.
Per lo più in questo modo si risparmia il tempo, così prezioso nei tempi di oggi. Le
ricerche condotte da Spitzer confermano che il tempo dedicato al compito a casa
con l’aiuto del computer solo in un terzo dei casi è dedicato allo studio vero e pro-
prio197. Succede così probabilmente perché gli studenti proprio non sanno come
farlo in modo adeguato.
È chiaro però che non tutte le  azioni possono essere svolte contemporane-
amente oppure che il  loro risultato non è  soddisfacente. Pensiamo per esempio
al pranzo bruciato o al messaggio mandato a un destinatario sbagliato. È vero che
il multitasking funziona fino a quando non intervenga lo stress, la stanchezza o la
mancanza di concentrazione. In quelle condizioni l’effettività diminuisce, il lavoro
è svolto in modo trascurato e caotico.
Qual è, allora, la soluzione? Come accontentare i giovani che vogliono essere
multiattivi e nello stesso tempo fare in modo che apprendano il materiale?
Prima di  tutto serve una buona competenza mediale. Bisogna sapere come
fare, perché gli scarsi risultati dei lavori sono estremamente demotivanti. In più
molti specialisti di  didattica, tra cui Żylińska, consigliano i  metodi attivi, basati
sui giochi, progetti, sondaggi, lavori di gruppo, simulazioni, discussioni, dibattiti
e ricerche in cui gli studenti da soli trovano le regole, le soluzioni e le definizioni.
Più informazioni devono scoprire da soli, più a lungo rimangono motivati. La que-
stione sta dunque nella scelta giusta dei materiali. L’impegno attivo da parte degli
studenti è  sottolineato da  moltissimi studiosi (anche dai costruttivisti). Si tratta
soprattutto dell’impegno realizzato tramite le attività in collaborazione con gli altri
studenti e sempre in un dato contesto. In questo modo anche gli alunni iperattivi,
che fanno mille cose nello stesso tempo potranno avere il loro spazio.

196
Marzena Żylińska, Neurodydaktyka, cit., p. 186.
197
Manfred Spitzer, Demenza digitale. Come la nova technologia ci rende stupidi, Milano,
Corbaccio, 2013, p. 225.
Considerazioni sull’e–conflitto nell’insegnamento delle lingue 119

Esempi pratici

Gli esempi pratici del materiale preparato proprio in modo che possa soddi-
sfare i bisogni degli studenti di oggi si trovano in una serie di manuali per le scuo-
le medie polacche preparata da Aleksandra Kostecka–Szewc e Marta Kaliska, Va
bene!. La maggioranza degli esercizi ha appunto come scopo l’attivazione degli stu-
denti, ai quali offre la possibilità di sfruttare le innovazioni tecnologiche e permet-
te di apprendere in una maniera più adatta e attraente per loro, visto che si tratta
di una fascia d’età particolarmente esigente.
In una delle unità del secondo volume198, a  proposito del tema riguardante
il caffè si descrive anche una visita a Venezia. Si comincia dall’ascolto dei nomi dei
tipi di caffè che poi vengono presentati attraverso le immagini. Gli studenti indovi-
nano i nomi, cercano di spiegarne il significato, compararli con il mercato polacco.
Poi si pone la domanda: sapete dove è nata la prima caffetteria? Gli alunni cercano
le informazioni su Internet. «Ovviamente in Italia! Andiamo dunque a Venezia!».
Così si propone di fare una passaggiata virtuale al Caffè Florian, che è disponi-
bile sul sito internet del locale (http://www.caffeflorian.com). Si visita la pagina,
cercando le informazioni concrete (l’anno in cui è stato fondato, il prezzo del cap-
puccino, ecc.), lavorando in gruppi oppure proponendo una forma del progetto.
Poi si  legge un  testo su  Venezia e  sulle prime caffetterie italiane, in  cui bisogna
inserire le preposizioni (il lavoro individuale, poi la verfica a coppie). Quindi si fa
un gioco sui simboli veneziani, chi ne nomina di più – vince (il gioco di classe).
Alla fine si  lascia un  po’ di  spazio per proposte, dubbi, suggerimenti e  racconti
degli studenti.
Un altro esempio è  costituito dalle ricette video facilmente reperibili, per
esempio sul sito: http://ricette.giallozafferano.it. Qui le tecniche dell’uso sono tan-
tissime: progetto, lavoro individale, concorso top chef per la migliore ricetta, ecc.

Conclusioni

Bisogna adeguare il modo di insegnare al modo di pensare e funzionare dei


giovani. Il funzionamento dei loro cervelli è ben diverso, ma la colpa non è loro.
Sono cresciuti già in quest’epoca, per loro è naturale. Allora è il sistema che deve
cambiare. Żylińska dichiara che il presente modello non può essere efficace, perché
uccide negli alunni la curiosità del mondo e la volontà di svilupparsi199.

Marta Kaliska,– Aleksandra Kostecka–Szewc, Va bene! 2, Poznań, Nowela, 2016, p. 50.


198

Marzena Żylińska, Neurodydaktyka, cit., p. 159.


199
120 Aleksandra Kostecka–Szewc

Le nuove tecnologie, se usate in modo adeguato, possono costituire uno stru-


mento utile e indispensabile nel miglioramento del sistema scolastico moderno200.
Come affermano diversi studiosi, tra cui Prensky201, il ruolo della tecnologia è pro-
porio quello di  supporto ad  un nuovo modello di  apprendimento. Per fortuna,
grazie alle diverse iniziative educative, la loro applicazione durante le lezioni si al-
larga, procedendo nella giusta direzione.
Invece di lottare e creare nuovi conflitti, anche se virtuali, sarebbe giusto trarre
profitto dalle nuove risorse e insegnare agli studenti come farlo in modo efficace,
fruttuoso e sicuro. Le tendenze cambiano, ma è poco probabile che le tecnologie
spariscano. Per questo è meglio formare in modo saggio i loro utenti, utenti consa-
pevoli della realtà che li circonda.

200
Manfred Spitzer, Dopamina i sernik, Warszawa, PWN, 2014, p. 65.
201
Marc Prensky, Il ruolo della tecnologia nell’insegnamento e nelle classi, in «Educational
Tecnology», Novembre–Dicembre 2008.
Multimediale e interattivo...
Un’esigenza del metodo o del mercato?
Alicja Paleta
Uniwersytet Jagielloński, Kraków

Introduzione

L’idea dell’articolo è nata dalla presunzione di chi scrive che esista una sorta
di conflitto sull’asse apprendente – insegnante – teoria della glottodidattica – ma-
teriali didattici (come corsi di  lingua) che riguarda la  multimedialità ma  le cui
cause non si  possono facilmente ricondurre alla costatazione che da  una parte
ci sono gli apprendenti, soprattutto quelli giovani, che rivendicano l’uso delle tec-
nologie aiutati da eccitati scienziati, i quali a loro volta riempiono i materiali didat-
tici di elementi multimediali considerati l’unica fonte della motivazione basata sul
piacere attualmente accessibile; dall’altra parte si troverebbero i ‘cattivi’ insegnanti
che ignorano la multimedialità e ne negano qualsiasi utilità e vantaggio.
Per esaminare la questione più da vicino siamo partiti dall’esame di alcuni sag-
gi e articoli dedicati all’argomento e scritti da autori polacchi e italiani per vedere
se  l’entusiasmo incondizionato di  alcuni anni fa  ha resistito alla prova del tem-
po oppure la percezione del ruolo della multimedialità nella didattica delle lingue
straniere ha subito dei cambiamenti. Come si può vedere da alcune citazioni ripor-
tate sotto, sembra che l’euforia sia accompagnata da una riflessione critica mirante
a un bilanciamento degli indubbi vantaggi e altrettanto indubbi svantaggi che gli
strumenti digitali offrono alla glottodidattica.
Il computer non può sostituire l’insegnante, «per chi apprende le lingue a qual-
siasi livello è  importante la  guida di  un docente, per quanto sofisticate possano
essere le apparecchiature e il software di cui si serve»202.

Gianfranco Porcelli, Principi di glottodidattica, Brescia, Editrice La Scuola, 1994, p. 166.


202
122 Alicja Paleta

Non sembrano esservi dubbi sulla capacità delle tecnologie di allargare il cam-
po delle esperienze ben al di là dei limiti dell’insegnante come modello di lingua
e narratore di civiltà203.

Il computer multimediale, grazie a una delle sue prerogative principali, l’in-


terattività, e  alle molteplici modalità percettive che offre (testo, grafica, suono,
animazioni, video), riassume in  sé le  potenzialità di  più media, permettendo
di svolgere attività diverse (ascoltare, parlare, leggere, scrivere, consultare banche
dati in linea, quali dizionari e grammatiche), scegliendo percorsi individualizzati
e seguendo i propri ritmi di apprendimento. La presenza sullo schermo di più lin-
guaggi (iconico, filmico, linguistico) attiva i processi cognitivi di natura bimodale
ed evidenzia la dimensione semiotica del linguaggio, rendendo espliciti gli aspet-
ti dell’interazione che non possono emergere dal solo testo scritto, quali i  gesti,
la mimica, la postura, il ritmo, l’intonazione, il tono204.

Le NT permettono al docente di mettere in pratica una serie di principi


glottodidattici (...) dagli aspetti neurolinguistici alle dinamiche collaborative
per l’apprendimento, dalla promozione delle strategie di apprendimento allo
sviluppo dell’autonomia dello studente e della sua centralità, ecc. Le NT offro-
no l’opportunità di svecchiare l’insegnamento della lingua creando un nuovo
ambiente di  lavoro pur nel solco della tradizione, cioè innestandosi su  un
tessuto che è quello dell’approccio comunicativo nella sua dimensione uma-
nistico–affettiva205.
Stworzenie możliwości krytycznej i nastawionej na refleksję pracy z me-
diami również podczas zajęć z  języka obcego otwiera przed uczniami sze-
rokie możliwości nie tylko przyswajania sobie obcego języka i przybliżania
innej kultury, ale i pracy nad własna tożsamością206.

Il Web di seconda generazione permette di realizzare molti concetti glottodi-


dattici grazie proprio alle applicazioni semplici, gratuite e disponibili a tutti, ba-
sandosi sui principi di condivisione delle conoscenze e di socializzazione. Bisogna
dunque modificare e migliorare sia i metodi didattici sia i materiali usati nel pro-
cesso di insegnamento linguistico, non solo per poter affrontare bene i cambia-

203
Ivi, p. 169.
204
Katerin Katerinov, L’acquisizione di una lingua seconda nell’era digitale. La multimedia-
lità applicata al progetto Socrates. Atti del Convegno «Italiano e italiani nel Mondo», a cura
di  Maria Arici, Gabriele Pallotti, Leila Ziglio, Perugia, Università per Stranieri
di Perugia, 2001, p. 2.
205
Marco Mezzadri, I ferri del mestiere. (Auto)formazione per l’insegnante di lingue, Perugia,
Guerra Edizioni, 2003, p. 340.
206
Dorota Tomczuk, Metody audiowizualne i media w nauczaniu języków obcych, in «Języki
obce w szkole», III (2012), p. 32.
Multimediale e interattivo...Un’esigenza del metodo o del mercato? 123

menti tecnologici, ma anche e soprattutto, quelli mentali. Per fortuna, oggigiorno,


gli approcci innovativi sono sempre più comuni e frequenti207.
Alla luce di quanto riportato sopra, pare che non vi siano tracce di alcuna di-
scordia nella teoria della didattica delle lingue straniere. Si passa quindi alle consi-
derazioni riguardanti gli altri elementi.

Apprendente – insegnante – multimedialità208


Zmiany, jakie pod wpływem kontaktu z nowymi technologiami doko-
nały się w mózgach dzisiejszych nastolatków, mają o wiele większy i głębszy
zasięg niż badacze skłonni byli przypuszczać. Różnice w strukturze sieci neu-
ronalnej cyfrowych tubylców i imigrantów mają swoje źródło w odmiennej
socjalizacji, różnych typach aktywności i sposobach poznawania świata209.

Non si può negare che l’avvento dell’epoca digitale ha influito in modo radi-
cale sulla generazione degli apprendenti moderni. Un adolescente di oggi possie-
de delle caratteristiche neuropsicologiche diverse da un adolescente di vent’anni
fa; ne consegue una diversa struttura neuronale del cervello dei giovani e questo
implica la necessità di adattare i processi di insegnamento alla nuova situazione,
ma è giusto rifiutare le modalità di apprendimento tradizionali e accettare acritica-
mente tutte le tecniche privilegiate da esse? Ne potrebbe essere un esempio il mul-
titasking che consiste nell’esecuzione contemporanea di più compiti che riguarda-
no i media digitali210. Infatti tantissimi giovani sono abituati a preparare i compiti
per casa ascoltando la musica, controllando la posta elettronica e chattando con

207
Aleksandra Kostecka–Szewc, Innovazione e tecnologia nell’insegnamento e nell’appren-
dimento dell’italiano, in Percorsi linguistici tra Italia e Polonia, a cura di Elżbieta Jamro-
zik, Roman Sosnowski, Firenze, Franco Cesati Editore, 2014, p. 126.
208
Allo scopo della presente relazione si è adottata la definizione di Vaughan secondo il qua-
le la «multimedialità è qualunque combinazione di testo, grafica, suono, animazioni e vi-
deo distribuita da  un computer. Quando si  permette all’utente (…) di  controllare quali
e quando sono distribuiti questi elementi, si ha multimedialità interattiva» (Tay Vaughan,
Multimedia: Making it work, McGraw–Hill, New York, 1996 (citato in: Gianfranco Por-
celli, Roberto Dolci, Multimedialità e insegnamenti linguistici, Torino, UTET Libreria,
1999, p. 49). Nel presente testo, per semplificare il discorso, non si fa distinzione teorica tra
la multimedialità e l’ipermedialità, dove la differenza sta nel ruolo rispettivamente passivo
e attivo dell’utente e di conseguenza con il termine «multimedialità» ci si riferisce ad am-
bedue i casi. La multimedialità non sarà neanche vista come un metodo didattico indipen-
dente, ma solo come una forma di organizzazione e predisposizione del materiale didattico.
209
Marzena Żylińska, Neurodydaktyka, Toruń, Wydawnictwo Naukowe UMK, 2013, p. 167.
210
Sul multitasking vedi Manfred Spitzer, Demenza digitale, traduzione di Alessandra Pe-
trelli, Milano, Garzanti/Corbaccio, 2013, pp. 194–204 e  Żylińska, Neurodydaktyka, cit.,
pp. 186–189.
124 Alicja Paleta

gli amici. Gli studi confermano invece che chi utilizza contemporaneamente di-
versi media digitali presenta problemi rispetto al  controllo della propria mente.
In relazione a tutte le attività mentali necessarie per il multitasking, i multitasker
ottengono risultati peggiori dei non multitasker. Persino nel passaggio da un’atti-
vità all’altra, che è lo standard del multitasking, sono decisamente più lenti dei non
multitasker211.
La stessa cosa si potrebbe dire a proposito della capacità di selezione delle in-
formazioni su Internet. Visto il numero di ore che i giovani passano navigando
in rete, si potrebbe supporre che la loro competenza digitale sia alta. Invece le ri-
cerche dimostrano che i giovani non sanno utilizzare Internet in modo efficace,
non sanno da  dove provengono le  informazioni disponibili e  non sanno citare
le fonti consultate212; succede così perché ci vuole una riflessione autonoma e la
capacità di selezione e valutazione del contenuto delle pagine web. Da questa pro-
spettiva si potrebbe definire il ruolo dell’insegnante moderno, che dovrebbe consi-
stere nell’applicare in prassi didattica tutta la tradizione teorica e unirla alle scoper-
te tecnologiche per creare tecniche didattiche capaci di catturare l’interesse degli
apprendenti e  anche fruttuose in  funzione dell’apprendimento delle lingue stra-
niere. L’insegnante dovrebbe inoltre indirizzare i discenti verso l’uso consapevole
e valido della multimedialità con tutte le sue risorse213. Il cervello sa adattarsi alle
circostanze in cui viene immerso e ciò che si acquisisce nell’adolescenza costituirà
in futuro il patrimonio mentale dell’apprendente. In quest’ottica la multimedialità
acquista un’importanza particolare, perché da una parte viene considerata il do-

211
Spitzer, Demenza, cit., p. 204.
212
Żylińska, Neurodydaktyka, cit., p. 192.
213
Tra gli indiscutibili vantaggi che la multimedialità offre a chi si trova davanti alla prepara-
zione di un corso di lingua straniera si possono elencare: l’accesso immediato a materiali
autentici che permettono di avvicinare agli apprendenti la cultura del dato paese e della
sua lingua, il contatto diretto con gli abitanti del paese la cui lingua si studia, la possibilità
di reimpiegare immediatamente la lingua e le informazioni apprese in aula, lo spostamento
dell’attenzione dall’insegnante al discente che lo porta all’autonomia nell’apprendimento,
ecc. Come tutti i  metodi, le  tecniche e  i  supporti didattici, anche la  multimedialità pre-
senta potenziali svantaggi che, alla luce di quanto si vedrà in seguito, vanno sempre presi
in considerazione programmando il lavoro di classe. Infatti, da una parte per un insegnan-
te è difficile e dispendioso in termini di tempo navigare nel mare delle informazioni per
trovare del materiale che sia valido e interessante allo stesso tempo e dall’altra non è detto
che le proposte dei libri di corso che fanno uso della multimedialità soddisfino i principali
concetti dell’attuale didattica delle lingue straniere. Il discente, invece, se l’input non sarà
impostato correttamente, non si stimolerà all’apprendimento indipendente e autonomo e si
demotiverà per il mancato successo nella realizzazione di un dato compito, il che non sarà
dovuto tanto alla sua mancata competenza comunicativa quanto alla mancata competenza
digitale oppure all’esposizione a un input tecnologico e linguistico incomprensibile o trop-
po articolato.
Multimediale e interattivo...Un’esigenza del metodo o del mercato? 125

minio dei nativi digitali214, ovvero degli adolescenti, e dall’altra può essere sfruttata
dagli insegnanti per accedere al  mondo dei loro studenti. A  questo punto però
si arriva alla questione che fa nascere alcuni dubbi. Il conflitto non sarebbe tanto
da cercare nel famoso divario generazionale e nella mancata comunicazione tra
i vecchi e i giovani, quanto nella discrepanza tra le capacità metodologiche e tec-
nologiche degli insegnanti e le aspettative che il mondo nutre verso questo gruppo
professionale, il che si vede particolarmente bene nel caso delle lingue straniere.
Infatti molti presuppongono che nel XXI secolo chi si decide a diventare inse-
gnante abbia una competenza digitale alta essendo già nato nativo digitale, ma allo
stesso tempo si dimentica spesso che l’istruzione non prevede ancora una forma-
zione digitale efficace e quindi queste persone si portano sulle spalle i problemi
di cui si è appena parlato. In più i datori di lavoro, ovvero le scuole di tutti i tipi
e gradi, non garantiscono corsi di abilitazione in questo campo e la soluzione più
sicura sembra quella di  basarsi sul materiale offerto dal mercato. Nasce quindi
la  domanda: ci  si può fidare della multimedialità inclusa nei corsi dell’italiano
come lingua straniera?

Materiali didattici

Secondo Gianfranco Porcelli il  materiale glottodidattico multimediale potrà


essere definito valido se soddisferà i requisiti di pertinenza, accettabilità, comple-
mentarietà ed economicità, dove la pertinenza significa la conformità con gli ar-
gomenti trattati e le strategie di apprendimento adottate; l’accettabilità ha invece
a  che fare con la  motivazione e  gli aspetti affettivi dell’apprendimento. La terza
condizione, ossia la complementarietà, vuol dire un collegamento diretto e un’in-
tegrazione con il resto dell’unità didattica e  viene contrapposta alla supplemen-
tarietà, che si riferisce alle attività svolte nel corso dell’unità didattica, spesso alla
fine e di solito al puro fine di divertimento senza costituire una parte integrante
dell’unità. L’economicità infine è  il rapporto tra l’utilizzabilità del dato supporto
o programma e i costi relativi al tempo e al denaro215.
Da questa prospettiva si  può vedere chiaramente che preparare il  materiale
multimediale da  soli è  una vera e  propria sfida, sarebbe quindi giusto affidarsi
al  mercato didattico che offre una ricca gamma di  corsi nuovi o  aggiornati che
contengono l’elemento multimediale e  di cui l’insegnante può avvalersi nel suo
lavoro. Resta solo da  vedere se  l’offerta può soddisfare la  domanda ovvero se  la

214
Termini coniati da Mark Prensky, Digital Natives, Digital Immigrants, http://www.mar-
cprensky.com/writing/Prensky%20–%20Digital%20Natives,%20Digital%20Immigran-
ts%20–%20Part1.pdf (ultimo accesso del 26.05.2015).
215
Porcelli, Principi, cit., pp. 165–166.
126 Alicja Paleta

multimedialità inclusa nei corsi dell’italiano è conforme ai requisiti di pertinenza,


accettabilità, complementarietà ed economicità.
All’analisi sono stati sottoposti alcuni corsi presenti sul mercato polacco e de-
stinati al lavoro con gli alunni delle scuole medie superiori (licei), con gli studenti
universitari e con gli adulti in genere. Sono stati scelti corsi pubblicati (nella prima
edizione o nell’edizione aggiornata) negli ultimi dieci anni (2005 – maggio 2015),
dato che questo è stato il periodo più fruttuoso per quanto riguarda la presenza dei
materiali per l’apprendimento dell’italiano come LS sul mercato editoriale polacco.
L’analisi si è limitata ai livelli A1–A2 (in alcuni casi B1), perché essi riguardano
la maggioranza dei corsi di lingua italiana svolti nelle scuole pubbliche e private.
Nell’analisi sono stati presi in considerazione i seguenti elementi: la presenza del
termine ‘multimediale’ o ‘interattivo’ nel titolo del corso, la presenza dei supporti
multimediali quali p. es. CD–ROM interattivo o materiali LIM, la presenza e il tipo
di materiali aggiuntivi online, nonché la presenza e il tipo di attività multimediali
incluse nel libro dello studente e/o nel quaderno degli esercizi.
L’analisi ha rivelato una forte presenza della multimedialità nei corsi analizzati,
che pare esser cresciuta nell’arco degli ultimi quattro anni. È interessante notare
che la presenza del termine ‘multimediale’ nel titolo non garantisce la disponibi-
lità dei supporti multimediali. Al contrario, i corsi che propongono tali strumenti
spesso non contengono l’allusione alla multimedialità nel titolo.
Nella maggioranza dei casi le  case editrici dichiarano di  rendere disponibi-
li materiali aggiuntivi online, ma  la loro tipologia è  molto disomogenea e  varia
da vere e proprie attività interattive a file con esercizi che hanno forma cartacea
digitalizzata in formato PDF; essi di solito rimandano alla ricerca di informazioni
in  rete o  contengono semplici glossari con il  lessico trattato nelle singole unità
didattiche oppure costituiscono appendici grammaticali. A volte diventa perfino
difficile consultare tali materiali, perché ad  esempio nel caso della casa editrice
Bulgarini, che ha  pubblicato Bravissimo, chi non possiede il  Codice Fiscale o  la
Partita IVA non può registrarsi e accedere all’area riservata agli insegnanti; capita
anche che nonostante l’indicazione sulla copertina del libro, sul sito web i materiali
non si trovino (Bellissimo).
Per quanto riguarda le attività che fanno parte del libro dello studente o del
quaderno degli esercizi, se esse si riscontrano, consistono soprattutto nella sem-
plice ricerca di informazioni legate in qualche modo all’argomento dell’unità di-
dattica216. Solo Bravissimo prevede l’uso del sito didattico Babelweb, dove gli ap-
prendenti sono invitati a condividere i risultati del loro lavoro sul sito e a mettersi

216
Per esempio: «Cerca data e luogo di nascita; il titolo di un’opera oltre quella citata nella
lezione; altre due informazioni a scelta sulla sua vita» (Universitalia), «Con l’aiuto di Inter-
net cerca le informazioni necessarie per completare le schede di questi personaggi famosi
di origine italiana» (Bravissimo).
Multimediale e interattivo...Un’esigenza del metodo o del mercato? 127

in contatto con altri utenti. Un dubbio sorge, però, se si analizzano queste attività
(sia quelle incluse nel libro stesso sia quelle che fanno parte dei materiali aggiunti-
vi) dal punto di vista dell’autonomia dell’apprendente, dato che spesso le istruzioni
sono molto generiche e non limitano in modo sufficiente la ricerca da svolgere.
Inoltre solo a volte gli autori suggeriscono i siti dove si possono cercare le infor-
mazioni richieste. Se il discente, ancora a livello elementare, viene messo di fronte
al compito «Cerca delle informazioni su questi stilisti italiani (Dolce&Gabbana,
Krizia, Diesel, Versace) e scrivi dei brevi testi per descrivere il loro stile e le caratte-
ristiche principali» (Bravissimo 1); oppure «Andate in biblioteca a Roma, almeno
virtualmente, e iscrivetevi» (Universitalia), è facile che si demotivi il discente, dato
che la difficoltà dell’esercizio non riguarda solo il compito della scrittura, ma anche
il fatto che chi deve svolgerlo viene lasciato davanti a una fonte di informazioni im-
mensa, senza avere a disposizione alcuno strumento per consentire una selezione
delle informazioni, per esempio attraverso le domande che precisino esattamente
quali informazioni si dovrebbero cercare.
Sono pochi, ma vi sono e questo fatto va apprezzato, i momenti in cui l’inse-
gnante può affidarsi al  materiale didattico proposto e  non deve intervenire per
renderlo adatto al livello linguistico e tecnologico dell’apprendente. Tra le proposte
più interessanti sembrano i materiali che accompagnano i corsi Domani e Nuovo
Espresso pubblicato da Alma Edizioni di Firenze e che includono un dvd con brani
audio per l’autoapprendimento, cortometraggio/videocorso con attività didattiche
(disponibile anche sul sito web), radiodramma della storia a fumetti inclusa nel
volume (con attività didattiche) (Domani), canzoni, glossari e chiavi degli esercizi.
Sul sito web invece si possono trovare alcuni esercizi interattivi, divisi per unità
e  predisposti per il  lavoro autonomo, dato che si  svolgono online e  le soluzioni
si  verificano automaticamente cliccando il  tasto INVIA. La tipologia di  esercizi
è quella tradizionale e varia da un semplice abbinamento, sequenza o tabelle gram-
maticali a più difficili cloze, scelta multipla, dettati o cruciverba. Gli esercizi soddi-
sfano pienamente i requisiti di pertinenza, accettabilità, complementarietà ed eco-
nomicità, in quanto si basano sul materiale incluso nel volume, sono accompagnati
da una brevissima guida che può servire sia all’insegnante sia all’apprendente stes-
so e per il loro svolgimento si necessita solo di un computer o di un telefonino con
connessione Internet. Inoltre uniscono in sé l’aspetto digitale con le tecniche tradi-
zionali, attirando l’attenzione dell’apprendente e indirizzandolo verso una tecnica
che altrimenti potrebbe rifiutare considerandola poco attraente.
Merita attenzione anche la piattaforma idee.it (italiano–digitale–edizioni–edi-
lingua) creata dalla casa editrice Edilingua, che non solo contiene la versione di-
gitale di alcuni contenuti dei volumi ma permette anche un lavoro multimediale
e interattivo più complesso e creativo. L’insegnante può formarvi classi di utenti,
introdurre le proprie idee preparando test e giochi interattivi, personalizzare le le-
zioni, ecc. L’apprendente invece può lavorarci come membro di un gruppo, ma an-
128 Alicja Paleta

che individualmente svolgendo attività online con la correzione immediata, può


anche comunicare con altri utenti provenienti da diverse parti del mondo.

Conclusioni

Non vi è nessun dubbio che la multimedialità con i suoi canali e strumenti è un
elemento utile e importante della didattica delle lingue straniere, ma allo stesso
tempo di per sé, senza alcuna riflessione metodologica e adattamento, non costi-
tuisce ancora un supporto né per l’insegnante né per l’apprendente perché, come
si è visto, è facile perdersi e di conseguenza demotivarsi di fronte a una fonte così
ricca di informazioni e di stimoli. L’utilizzo della rete necessita di una forte capaci-
tà di selezionamento dei dati e si è visto che è proprio quello che manca spesso agli
apprendenti. Importante è ciò che dice a proposito Porcelli:

multimedialità non è sinonimo né di pluralità di sussidi né di interfac-


ciamento, ma implica il razionale coordinamento di tutti i messaggi verbali
(scritti ed orali) e non–verbali finalizzati all’apprendimento. (...) La semplice
compresenza di molteplici sussidi non è di per sé garanzia di efficienza; anzi
(...) può facilmente degenerare in un sovraccarico di informazioni che invece
di favorire la comunicazione è fonte di confusione217.

La soluzione non può essere che analizzare attentamente qualsiasi proposta nei
termini della sua conformità con i principi glottodidattici e, in caso di difformità,
adattare il materiale ai propri bisogni. Così la multimedialità diventa un’esigenza
sia del metodo sia del mercato e il conflitto cui si è accennato prima in realtà non
esiste, in quanto non si tratta di un vero e proprio conflitto, ma di una mancanza
di coerenza e corrispondenza tra la teoria e la pratica. Per questo motivo occorre
ancor più che mai puntare sull’efficienza e sulla complessità della formazione degli
insegnanti in vista della loro autonomia, anche quella «digitale», perché sappia-
no prima valutare e poi eventualmente adattare l’input e il canale tramite il qua-
le questo input andrebbe proposto agli apprendenti per soddisfare i loro bisogni
e i requisiti del corso. Un fattore altrettanto importante sembra la necessità di una
profonda consapevolezza delle caratteristiche neuropsicologiche, cognitive ed af-
fettive degli apprendenti e la capacità di elaborare il materiale proposto dal mer-
cato, senza soffermarsi sulla convinzione che tra gli insegnanti e i discenti esiste
un divario generazionale insuperabile che rende impossibile qualsiasi tipo di co-
municazione.

217
Gianfranco Porcelli, Principi, cit. p. 167.
Multimediale e interattivo...Un’esigenza del metodo o del mercato? 129

Corpus Analitico
Maria Balì, Giovanna Rizzo, Espresso 2, Firenze, Alma Edizioni, 2014.
Elena Ballarin, Barbara D’Annunzio, Bellissimo 1, Recanati, ELI, 2014.
Marilisa Birello, Albert Vilagrasa, Bravissimo 1, Firenze, Bulgarini, 2012.
Elena Carrara, UniversItalia. Esercizi, Firenze, Alma Edizioni, 2007.
Federica Colombo, Cinzia Faraci, Pierpaolo De Luca, Arrivederci 1 e 2, Perugia,
Edilingua, 2011.
Barbara D’Annunzio, Marisa Pedrana, Bellissimo 2, Recanati, ELI, 2014.
Carlo Guastalla, Massimo Naddeo Ciro, Domani 1 e 2, Firenze, Alma Edizioni,
2011.
Matteo La Grassa, Italiano all’università 1, Perugia, Edilingua, 2011.
Teli Marin, Sandro Magnelli, Nuovo Progetto Italiano 1, Perugia, Edilingua, 2007.
Marco Mezzadri, Paolo E. Balboni, Italiano: pronti, via! 1, Perugia, Guerra Edi-
zioni, 2008.
Danila Piotti, Giulia de Savorgnani, UniversItalia, Firenze, Alma Edizioni, 2007
Maurizio Trifone, Antonella Filippone, Andreina Sgaglione, Affresco italiano
A1 e A2, Firenze, Le Monnier, 2008.
Linda Toffolo, Nadia Nuti, Renate Merklinghaus, Allegro 1, Perugia, Edilingua,
2005.
Linda Toffolo, Allegro 2, Perugia, Edilingua, 2005.
Luciana Ziglio, Giovanna Rizzo, Espresso 1, Firenze, Alma Edizioni, 2014.
Il fattore ludico nell’insegnamento come soluzione
al conflitto tra i vecchi e i nuovi metodi didattici
Karolina Wolff
Uniwersytet Warszawski, Warszawa

Il conflitto tra i vecchi e i nuovi metodi d’insegnamento:


una lotta generazionale?

Nella glottodidattica, come in ogni altra disciplina scientifica, sono avvenuti


dei passaggi da un approccio218 all’altro. Più la glottodidattica è diventata un ogget-
to di studio, più ha attirato attenzione, più sono stati frequenti tali passaggi.
Quando parlo del conflitto tra i vecchi e i nuovi metodi intendo che i metodi
basati sull’approccio formalistico, soppiantati dall’insistenza sull’uso delle nuo-
ve tecnologie da parte degli apprendenti, sono ora in ribasso. Nell’insegnamento
odierno diventa sempre più visibile la coesistenza di vari metodi d’insegnamento
usati sia nelle università sia nelle scuole di lingue. Il conflitto è parzialmente dovu-
to all’onnipresenza di Internet, che è strapieno di diverse applicazioni per studiare
le lingue ed anche i materiali didattici on–line, parzialmente invece al fatto che gli
studenti di oggi, abituati allo studio semplificato, considerano i vecchi metodi no-
iosi e troppo impegnativi. In occasione del convegno della SWPS, da un lato voglio
chiedere se l’uso in classe delle nuove tecnologie sia veramente il miglior metodo
applicabile e dall’altro lato se la fortuna dei metodi formalistici debba veramente
tramontare. Credo che la soluzione a questo conflitto di approcci possa essere l’in-
serimento di fattori ludici nel processo d’insegnamento in quanto conciliatore tra
il vecchio e il (troppo?) nuovo.

Qualora si parli nel presente articolo dell’approccio si intende la filosofia di fondo, quando
218

invece ci si riferisce al metodo si parla della traduzione dell’approccio in procedure operative.
132 Karolina Wolff

Il fattore ludico – che pasticcio è?

La voce ludolinguistica finora non ha registrato una grande fortuna nella lette-
ratura del campo. Non è sempre trovabile nei dizionari e non tutti sono d’accordo
sul suo uso, o vogliono addirittura essere chiamati ludolinguisti preferendo gli ap-
pellativi come saggista o enigmista219 o addirittura giocologo.
Alcuni ritengono che il  padre fondatore della ludolinguistica come discipli-
na idonea sia Anthony Mollica, il quale ha recentemente pubblicato una raccolta
di  esercizi ludici accumulati nei decenni della sua attività lavorativa220. Tuttavia
è stato Giuseppe Aldo Rossi, un grande enigmista, a coniare la parola ludolingui-
stica, che è stata poi inserita nel vocabolario Zingarelli nel 1998221, ed a usare questa
voce come titolo del suo Dizionario Enciclopedico di Enigmistica e Ludolinguistica.
Giovanni Freddi, professore di Didattica delle lingue moderne presso l’Univer-
sità Ca’ Foscari di Venezia, ha elaborato invece un elenco dei principi su cui deve
basarsi la  didattica ludica, tra i  quali troviamo ad  esempio: ludicità, motoricità,
sensorialità, bimodalità neurologica, espressività.
Che cosa è dunque la ludolinguistica? Citando da Mollica, che a sua volta cita
da  Giampaolo Dossena, la  più diffusa risposta è  quella «che è  una branca della
linguistica che si occupa di giochi di parole e combinazioni lessicali»222. Come ve-
dremo sono stati soprattutto gli studiosi di glottodidattica a usare questa voce nel
contesto didattico. Nel Dizionario di Glottodidattica di Paolo Balboni sotto il ter-
mine glottodidattica ludica leggiamo:

Tradizionalmente legato all’insegnamento precoce delle lingue, oggi


un atteggiamento ludico viene perseguito a tutti i livelli, non solo attraverso
l’uso di giochi didattici ma piuttosto attraverso un impianto giocoso, un’at-
mosfera rilassata, il ricorso alle tecniche di simulazione223.

Quell’opinione è condivisa anche da Paola Begotti e Elisabetta Pavan dell’Uni-


versità Ca’ Foscari di Venezia, che sostengono che la ludolinguistica sia «un settore
che si occupa di attività creative utilizzando la lingua. Tali attività si fondano in ge-

219
Rimando all’intervista rilasciata da  Stefano Bartezzaghi a  Maurizio Codogno e  citata
da Anthony Mollica nel suo libro Ludolinguistica e Glottodidattica.
220
Anthony Mollica, Ludolinguistica e Glottodidattica, Perugia, Guerra Edizioni, 2010.
221
Rimando all’intervista lanciata dal professor Rossi a Anthony Mollica in occasione del suo
centesimo compleanno inclusa nella rubrica di Mollica del Corriere Canadese: https://italia-
no–nsk.ru/downloads/061–080%20–%20Pagine%20singole.pdf, data di accesso: 20.09.2018.
222
Anthony Mollica, Ludolinguistica e Glottodidattica, Perugia, Guerra Edizioni 2010, p. XVI.
223
Paolo Balboni, Dizionario di Glottodidattica, Perugia, Guerra Edizioni, 1999, p. 62.
Il fattore ludico nell’insegnamento come soluzione al conflitto tra i vecchi… 133

nerale su un concetto di “ostacolo” di carattere linguistico, sintattico o grammati-


cale, ma anche su esercitazioni linguistiche basate sulla fantasia»224.
Prendendo spunto dalle posizioni sopracitate, mi pare più che giustificato pro-
porre qui una definizione della ludolinguistica nell’ambito glottodidattico: si tratta
di una branca della glottodidattica il cui oggetto di studio è l’insegnamento basato
sull’utilizzo di giochi linguistici (collocazioni lessicali, proverbi, rebus, cruciverba,
quiz), testi autentici (tra cui canzoni, film, filmati, slogan pubblicitari, ecc.), rea-
lia, cioè gli oggetti non didattizzati provenienti dal paese straniero, per esempio
biglietti ferroviari o prodotti alimentari, diversi tipi di messe in scena o role–play,
e generalmente ogni tipo di esercizio lingustico che suscita la creatività del discen-
te nell’acquisire la lingua in un’atmosfera rilassata e giocosa. In questo tipo di inse-
gnamento all’insegnante viene affidato un ruolo cruciale, in quanto egli è portatore
di stimoli, inventore degli esercizi giocosi e infine guida nello svolgimento delle
attività ludiche in classe.

I principi di base dell’insegnamento ludico

Come ogni tipo di insegnamento anche l’insegnamento attraverso il fattore lu-


dico gode delle solide basi teoriche quali:
1. La teoria di Krashen, la quale mi pare alquanto interessante visto che con-
trappone l’apprendimento all’acquisizione dando più importanza a quella secon-
da. Il motivo per farlo sarebbe seguente: l’apprendimento secondo Krashen è tutto
quello che noi impariamo in modo conscio, con lo sforzo educativo nostro e quello
dei nostri insegnanti, e  spesso non produce effetti di  lunga durata. Invece, l’ac-
quisizione avviene in modo inconscio e spontaneo, ad uno verrebbe da dire qua-
si involontariamente, in modo che non ci accorgiamo neanche di acquisire delle
nuove informazioni. In tali circostanze le nozioni entrano nella nostra memoria
quasi senza il nostro sforzo e ci rimangono a lungo termine. Nelle situazioni co-
municative, reagendo in  modo spontaneo, noi ci  basiamo in  primo luogo sulle
informazioni acquisite e solo in un secondo tempo sulle nozioni apprese, facendo
magari qualche correzione di ciò che è stato appena detto. Lo stesso scopo si pone
l’insegnamento ludico: far entrare nella testa degli studenti strutture grammaticali
o lessicali in modo piacevole, senza che loro si rendano conto del lavoro mentale
che stanno eseguendo225.
224
Paola Begotti – Elisabetta Pavan, Insegnare/apprendere il  lessico attraverso la  ludo-
linguistica. Laboratorio, in L’acquisizione del lessico nell’apprendimento dell’italiano L2. Atti
del XIX Convegno nazionale ILSA, a cura di Elisabetta Jafrancesco, Milano – Firenze,
Mondadori Education – Le Monnier/Italiano per stranieri, 2011, p. 83.
225
Steven Krashen, Principles and Practice in Second Language Acquisition, Oxford, Oxford
Pergamon Press, 1982, p. 37.
134 Karolina Wolff

2. La glottodidattica “umanistica”, che mette in  rilievo gli aspetti psicologici


dell’insegnamento assieme alla dimensione emozionale del discente intesa come
diversità di  percezione, diversi stili cognitivi ecc. Impone dunque un  approccio
individuale allo studente e sottolinea che spesso il successo nell’insegnamento sta
nell’atteggiamento verso la lingua che l’insegnante suscita incrementando o abbas-
sando la motivazione allo studio. In più pone come base la nozione che il cervello
elabora prima i dati della realtà in maniera olistica, e solo dopo in quella analitica
e logica, per cui deve esser presa in considerazione la sua dimensione emozionale,
la conoscenza non è trasmessa da una persona (docente) ad un’altra (studente),
ma viene costruita da quella seconda nella sua mente attraverso il lavoro congiun-
to con i compagni e sotto la guida dell’insegnante226.
3. Il principio di bimodalità e direzionalità, secondo il quale nel processo della
comunicazione linguistica parteciperebbero tutti e due gli emisferi cerebrali: il de-
stro responsabile degli aspetti olistici, globali, emozionali, intuitivi e quello sinistro
gestore degli aspetti analitici, logici, razionali. Perché l’apprendimento vada a buon
fine dobbiamo attivare tutti e due gli emisferi nel processo d’acquisizione. A tale
scopo il fattore ludico si ascrive perfettamente, visto che usa sia gli elementi for-
mali sia quelli che aprono le porte alla creatività. Marcel Danesi ha affermato che
tutti i giochi di parole costituiscono una valida realizzazione in classe del principio
di  bimodalità, in  quanto mettono in  moto tutte le  aree del cervello227. Bisogna,
tuttavia ricordarsi di un altro principio, quello della sequenza giusta delle azioni,
che spesso nella didattica odierna viene rovesciata: il passaggio va fatto dal fattore
ludico alle nozioni grammaticali e non viceversa, perché il principio di direziona-
lità spiega che, per poter arrivare all’analitico, bisogna partire dal globale.

Vecchi metodi che si prestano all’insegnamento ludico

Nonostante sembrino obsoleti, i  vecchi metodi possono essere rispolverati


e adoperati con successo nell’insegnamento ludico. Prendiamo in considerazione
per esempio gli atti giuridici di qualche processo. Mi sembra fattibile instaurare
una certa messa in scena durante la quale i discenti interpretano diversi ruoli (giu-
dice, avvocato, pubblico ministero, parte civile, verbalista), dovendo allo stesso
tempo tradurre e anche reagire. Anche per quanto riguarda invece il lato gram-
maticale, c’è tanto spazio per l’uso del fattore ludico. L’introduzione della funzio-

226
Paolo Balboni, Didattica dell’italiano come lingua seconda e straniera, Torino, Loescher
Editore, 2014, p. 37.
227
Marcel Danesi, Bimodalità e insegnamento delle lingue oggi, in Linguistica e Glottodidat-
tica Studi in onore a Katerin Katerinov, a cura di Anthony Mollica – Roberto Dolci
– Mauro Pichiassi, Perugia, Guerra Edizioni, 2008, p. 128.
Il fattore ludico nell’insegnamento come soluzione al conflitto tra i vecchi… 135

ne d’ipotesi del futuro semplice può essere tanto noiosa quanto faticosa, se la si fa
in base solo ad un manuale e agli esercizi da svolgere. Nella mia prassi didattica
ho notato che questa struttura grammaticale viene appresa dagli studenti con uno
sforzo minimo, se preceduta dall’ascolto delle canzoni tipo Sarà perché ti amo dei
Ricchi e Poveri oppure Sarà la nostalgia di Sandro Giacobbe; in più gli studenti
si sono mostrati molto predisposti a tradurre tali canzoni e a fare ipotesi riguar-
danti i messaggi trasmessi dagli autori dei testi.
L’approccio strutturalistico, realizzato soprattutto nella variante audio–orale
ed elaborato in America in base al behaviorismo degli anni Trenta, vedeva l’inse-
gnamento nell’ottica del botta e risposta, in modo da poter memorizzare gli elementi
minimi della comunicazione e questi pattern drill sono rimasti nell’insegnamento
attraverso il fattore ludico soprattuttto al livello del principiante, in cui giova anche
una certa automatizzazione. Paolo Balboni spiega questo fatto in modo seguente:
«così come non si impara a suonare la chitarra senza automatizzare gli accordi,(...)
allo stesso modo non si impara una lingua se non si automatizzano alcuni processi,
e l’automatizzazione richiede la ripetizione»228.
Per quanto riguarda invece gli approcci umanistici, l’insegnamento attraverso
il fattore ludico sembra essere in una certa sintonia con la suggestopedia di Loza-
nov, che metteva in rilievo l’atmosfera di totale rilassamento come punto cardine
e il ruolo della musica nel sostenere la memorizzazione del materiale. Entrambi
i metodi affidano un ruolo primario all’insegnante.

Il fattore ludico e le nuove tecnologie

Sebbene l’insegnamento attraverso le nuove tecnologie non sia una richiesta


innovativa (è da  tanto tempo che esiste nella glottodidattica l’utilizzo dei mezzi
audiovisivi), questa volta non basta porsi la domanda: come insegnare? Ci rimane
anche la domanda: a chi insegniamo? Lo studente del terzo millennio è ben diver-
so da tutti gli studenti con cui la glottodidattica ha avuto a che fare in precedenza.
Innanzitutto, è rappresentante della generazione Y se parliamo di quelli nati prima
del 1997, oppure della generazione Z, se è nato dopo quell’anno. Della generazione
Y si è già parlato a lungo. Nella glottodidattica è una generazione per la quale tipi-
co è verificare le parole su Internet, non usare dizionari e rendersi conto di essere
protagonisti del proprio processo di apprendimento229.

Balboni, Didattica dell’italiano, cit., p. 31.


228

Per approfondimenti rimandiamo a  Mauro Pichiassi, L’allievo protagonista del proprio


229

apprendimento. Riflessioni su stili di studio e strategie di apprendimeno di italiano L2, in Lin-


guistica e Glottodidattica Studi in onore a Katerin Katerinov, a cura di Anthony Mollica
– Roberto Dolci – Mauro Pichiassi, Perugia, Guerra Edizioni, 2008.
136 Karolina Wolff

La generazione Z, chiamata spesso anche con l’appellativo di  nativi digitali,


pone comunque una vera sfida all’insegnante. La generazione che alla domanda
“di cosa hai paura?” risponde quasi senza pensarci: “della mancanza di wi–fi”! In-
vece alla domanda “quali strumenti elettronici usi ogni giorno?” risponde, proprio
in questa sequenza: “il computer portatile, il bollitore, il tablet”230.
Non può dunque stupirci il fatto che tale generazione non presta attenzione
ai metodi privi di mezzi audiovisivi. Come scrive Aleksandra Kostecka–Szewc nel
suo articolo intitolato Insegnamento 2.0. dopo aver svolto la richiesta in merito, gli
studenti tra gli strumenti indispensabili per l’insegnamento elencano: tablet, LIM
(lavagna interattiva multimediale), computer portatile, proiettori, wifi, aule multi-
mediali, lettori audio e video231.
Non è, però, detto che questo atteggiamento valga per ogni gruppo. La ricer-
ca svolta da  me nel 2013 tra 120 studenti della Facoltà di  Linguistica Applicata
non conferma questo fatto. Sono rimasta piacevolmente sorpresa nello scoprire
che, nonostante l’esistenza di tanti materiali multimediali, i nostri studenti danno
la precedenza a mezzi come gli handout (50%), le fotocopie scelte appositamente
dall’insegnante oppure addirittura la vecchia lavagna (13%!). Alcuni, benché pochi
(4%), hanno peraltro indicato la figura di un bravo insegnante come unico “stru-
mento” indispensabile per fare un progresso nello studio232. E questo mi dà la spe-
ranza di rimediare attraverso l’uso del fattore ludico al conflitto tra chi vorrebbe
che l’insegnamento fosse più serio, rigido e impegnativo, e chi sostiene invece che
nel nuovo millennio non è più possibile l’insegnamento se non è equipaggiato.
Per quanto riguarda le nuove tecnologie sono dell’opinione che tutte, sia l’u-
tilizzo di Internet, sia della LIM, sia anche dei film, aumentano l’attrattività della
lezione e perciò si addicono perfettamente all’insegnamento ludico, visto che han-
no gli stessi scopi: alleggerire, facilitare, incuriosire. L’uso dei giochi e delle nuove
tecnologie introduce sempre una certa varietà tra gli esercizi e rende anche l’acqui-
sizione di una lingua straniera più gradevole e motivante.
Il problema che si  riscontra frequentemente è, tuttavia, che spesso gli inse-
gnanti non sfruttano fino in fondo questi strumenti. Non proseguono le attività
230
Per maggiori approfondimenti sulla generazione Z rimando al blog di Natalia Hatalska
e soprattutto al suo articolo Generazione Z – la generazione che cambierà il nostro mondo,
http://hatalska.com/2015/01/22/generacja–z–pokolenie–ktore–zmieni–nasz–swiat/, data
di accesso: 29.09.2018.
231
Aleksandra Kostecka – Szewc, Insegnamento 2.0., in Italia 2.0. Lingua, cultura, società.
Le ultime ricerche dei giovani italianisti, a cura di Elżbieta Jamrozik, Warszawa,Wydaw-
nictwo Naukowe Instytutu Komunikacji Specjalistycznej i  Interkulturowej Uniwersytet
Warszawski, 2016, p. 98.
232
I risultati di tutta la ricerca sono stati pubblicati in Karolina Wolff, L’atto didattico del
Terzo Millennio – un’indagine sui rapporti nell’asse insegnante–discente in Percorsi linguistici
tra l’Italia e la Polonia. Studi di linguistica italiana offerti a Stanisław Widłak, a cura di Elżb-
ieta Jamrozik e Roman Sosnowski, Firenze, Franco Cesati Editore, 2014, pp. 139–149.
Il fattore ludico nell’insegnamento come soluzione al conflitto tra i vecchi… 137

a catena, in modo che da una ne nasca un’altra. Spesso la LIM, in quanto provoca
una scrittura un po’ rallentata rispetto a quella normale, distrae l’attenzione dello
studente invece di focalizzarla.
Gli studenti più pignoli si lamentano anche che guardare un film durante la le-
zione è per loro uno spreco di tempo, se ne consuma tanto, mentre gli effetti sono
quasi inesistenti. Non credo che sia del tutto così, dato che durante la visione di un
film vengono esercitate sia le capacità uditive sia quelle sociopragmatiche, nono-
stante occorra che tale visione prosegua e si completi negli esercizi. E questi po-
trebbero essere di diversi tipi: a partire dal riassumere la trama, tramite il riscrivere
l’ultima scena, finendo con il mettere le parole utili da apprendere riscontrabili nel
film in una scatola magica da cui verranno tirate fuori alla lezione successiva per
la ripetizione.
Nei tempi moderni, in cui le scuole private di lingue fanno sempre più vasto
uso nell’insegnamento delle nuove tecnologie ricorrendo sia ai multimedia sia alla
LIM, l’insegnante universitario spesso è felice quando riesce a prenotare un proiet-
tore per una data lezione o quando il lettore audio legge il CD. Ed è proprio lì che
nasce la necessità di servirsi di mezzi che, pur sembrando modesti al confronto,
possono portare agli stessi o anche a migliori risultati.

Qualche parola sulla figura dell’insegnante

Avendo già fatto riferimento alla figura dell’insegnante mi  pare opportuno
sottolineare l’importanza del suo ruolo nell’apprendimento attraverso il  fattore
giocoso. Tra i  compiti che Anthony Mollica assegna all’insegnante troviamo «la
responsabilità di  creare un’atmosfera di  successo i  cui obiettivi principali sono:
motivare, divertire, insegnare»233.
L’insegnamento ludico, come ogni approccio, ma ancor più degli altri, mette
la chiave del successo dell’acquisizione nelle mani del docente. Il docente incapace
può essere più nocivo di qualunque manuale noioso e può incidere negativamente
sull’atteggiamento dello studente circa la lingua insegnata. Per cui è essenziale che
gli insegnanti si decidano a svolgere solo le attività di cui sono convinti, di cui ve-
dono il senso e le possibili applicazioni. In sintesi: solo quando sanno dove e come
vogliono arrivare all’obiettivo. Un altro fattore da non dimenticare è la mancan-
za di esercizi universali adatti per tutti i gruppi dello stesso livello. Ogni gruppo
ha una sua dinamicità e un modo proprio di lavorare, per cui un esercizio ludico
riuscito molto bene in un gruppo, può fallire completamente in un altro.
L’insegnante che introduce il fattore ludico nell’insegnamento deve essere con-
vinto dei vantaggi dell’insegnamento attraverso tale metodo. In più deve essere

Mollica, Ludolinguistica e Glottodidattica, cit., p. XX.


233
138 Karolina Wolff

ben cosciente degli scopi didattici che vuole realizzare tramite un esercizio ludico
in  modo che tale esercizio non diventi un  semplice tappabuco234. E  infine deve
essere aperto ai  cambiamenti (non siamo in  grado di  prevedere tutto) e  incline
all’improvvisazione.

I vantaggi dell’insegnamento ludico rispetto ai vecchi


e nuovi metodi

Le tecniche ludiche possono essere usate sia come elementi supplementari


durante un’ unità didattica, sia come riferimento principale. La prevalenza cru-
ciale del fattore ludico sulle tecnologie è quella che il fattore ludico si basa sulla
pura creatività, la quale è diventata la parola–chiave degli anni Duemila, mentre
l’insegnamento attraverso le nuove tecnologie si basa in primo luogo sulle attrez-
zature e solo dopo sulla creatività, invece quello grammaticale–traduttivo si basa
soprattutto su una certa ripetività, non lasciando affatto spazio alla creatività. Per
alcuni tipi di esercizi è bene poter usare Internet, ma per altri sarà sufficiente anche
un semplice foglio e una penna, visto che l’apprendimento non dovrebbe essere
alleggerito attraverso l’equipaggiamento ma attraverso uno scambio di idee o bat-
tute. Resto convinta che praticamente ogni argomento potrebbe essere introdotto
o rinforzato con l’utilizzo del fattore ludico.
Paola Begotti ed Elisabetta Pavan hanno perfino nominato le aree di un’unità
didattica in cui l’applicazione delle attività ludiche risulta più proficua:
– in fasce orarie in cui gli studenti si presentano particolarmente stanchi;
– diffuse qua e là per prevenire il calo dell’attenzione;
– quando si devono introdurre strutture linguistiche complesse nel loro utilizzo
pratico e si deve semplificare la metodologia di apprendimento;
– all’inizio di un’unità o di un percorso, per introdurre nuovi elementi linguistici;
– alla fine di una lezione, per attività di rinforzo o di recupero di elementi poco
recepiti in frasi precedenti235.
Va messo in rilievo anche il fatto che l’insegnamento ludico non si limita solo
all’utilizzo delle capacità intellettuali, spesso richiede anche l’integrazione di tali
capacità con quelle motorie. Come esempio ci può servire una lezione sull’impe-
rativo basata sull’esecuzione degli ordini degli esercizi della ginnastica: alza una
gamba, respira e così via, che gli studenti in coppie possono darsi a vicenda. Sicu-
ramente l’utilizzo del movimento durante la lezione dà una marcia in più all’inse-
gnamento ludico. In conformità alla teoria della bimodalità, l’integrazione delle
capacità intellettuali con quelle motorie mi pare proprio un elemento indispensa-

234
Ivi, p. XIX.
235
Begotti – Pavan, Insegnare/apprendere il lessico, cit., p. 89.
Il fattore ludico nell’insegnamento come soluzione al conflitto tra i vecchi… 139

bile di questo approccio. L’insegnante che gioca in classe lavora con tutto il corpo.
Ed anche il movimento del corpo può servire ad attivare la mnemotecnica.
Un altro fattore da prendere in considerazione per quanto riguarda il coinvol-
gimento degli studenti è la competizione. La rivalità è una spinta motivazionale
molto efficace.
Ritengo anche che all’inizio dell’apprendimento le  semplici frasi fatte usate
durante le situazioni comunicative del tipo role–play, cioè diversi tipi di dialoghi
situazionali siano molto utili, perché non solo permettono di portare avanti la co-
municazione senza troppe complicazioni o  esitazioni, ma  liberano anche dallo
stress iniziale che ci accompagna sempre quando dobbiamo cominciare ad espri-
merci in una nuova lingua.
Per concludere voglio citare un’opinione del grande studioso di didattica ita-
liano Paolo Balboni:

La ludicità è essenziale per poter realizzare dialoghi e simulazioni, per-


ché solo all’interno di  un atteggiamento di  gioco si  possono motivare due
persone della stessa lingua, che vivono nello stesso quartiere e frequentano
la stessa classe, ad interagire faticosamente tra loro in una lingua straniera236.

Paolo Balboni, Didattica dell’italiano a stranieri, Roma, Carocci Editore, 1994, p. 62.
236
Il conflitto nella didattica dell’italiano ovvero
la didattica dell’italiano tra vari conflitti
Joanna Jarczyńska, Katarzyna Święcicka
SWPS Uniwersytet Humanistycznospołeczny, Warszawa

Il conflitto di per sé è un fenomeno così frequente che sembra inscindibilmen-


te legato ai processi di insegnamento e di apprendimento o acquisizione linguisti-
ca. L’insegnamento di una lingua straniera non può quindi essere dissociato dai
diversi tipi di conflitti dovuti soprattutto alle divergenze tra il piano ideologico dei
presupposti glottodidattici e i vincoli della realtà in cui avvengono i detti processi.
Nel presente articolo si  vogliono prendere in  esame le  diverse tipologie dei
conflitti presenti nella didattica per poi sottoporle alla riflessione su  quanto tali
conflitti siano inevitabili nell’insegnamento della lingua italiana in Polonia. Il con-
flitto può manifestarsi su diversi piani e quindi può essere analizzato da più punti
di vista diversi. Si propone quindi una suddivisione in quattro prospettive com-
plementari, secondo le autrici, e in grado di aiutare a individuare le vere radici dei
problemi cui devono far fronte tutte le persone coinvolte nel processo didattico.
La prima prospettiva riguarda il contesto legale o istituzionale, ovvero l’insieme
delle determinate leggi, provvedimenti e prescrizioni che regolano la didattica delle
lingue straniere e con ciò influenzano anche i processi d’insegnamento o d’appren-
dimento della lingua italiana in Polonia. Il secondo punto di vista abbraccia invece
i numerosi conflitti di tipo organizzativo, ossia quelli che riguardano tanto la gestio-
ne delle condizioni esterne (gli spazi, gli strumenti e il tempo a disposizione), quan-
to la gestione delle risorse umane (composizione dei gruppi, scelta dell’insegnante,
eccetera). Il terzo piano in cui sorgono conflitti è quello strettamente didattico, vale
a dire quello che appare a livello della metodologia dell’insegnamento, mentre l’ul-
timo, ma allo stesso tempo e il più difficile da affrontare, è il punto di vista sociale,
relativo alla rete di dipendenze interpersonali, formata dalle norme socio–culturali,
tra i vari partecipanti al processo. Cercando di analizzare concisamente tutti e quat-
tro i tipi del conflitto sembra indispensabile sottolineare che i problemi che nascono
nella prassi didattica sono maggiormente di  natura complessa, per cui raramente
142 Joanna Jarczyńska, Katarzyna Święcicka

possono essere analizzati da una sola prospettiva. La comprensione della loro vera
natura dipende proprio dalla capacità di guardare da più punti di vista, di modo tale
da ottenere un quadro possibilmente più completo.
Partendo dal presupposto che le  lingue dovrebbero servire per comunicare,
ovvero – dal punto di vista etimologico – mettere in comune237 e non per dividere,
il conflitto più infelice pare essere quello sentito sul piano sociale, proprio perché
invece di contribuire alla co–costruzione delle relazioni sociali e la condivisione
delle esperienze tende a dividere le persone.
All’inizio del processo didattico i conflitti di sfondo sociale coinvolgono di re-
gola tre parti: l’insegnante, l’apprendente e il genitore, la figura del quale col passar
del tempo sparisce (anche se  non sempre) dal “campo di  battaglia”. Quali sono
i  problemi più frequenti in  questo campo? Ovviamente il  contrasto qui presen-
te riguarda principalmente i metodi e/o le tecniche usate dall’insegnante contro
i  presupposti fondati dai genitori o  dagli allievi stessi in  base alle proprie espe-
rienze e aspettative. Non di rado i conflitti nati su questo piano riguardano anche
l’approccio che l’insegnante assume con gli studenti e  viceversa: l’atteggiamento
di ogni singolo studente verso l’insegnante.
Invero, nei gruppi complessi gli allievi hanno diverse configurazioni di prefe-
renze sensoriali e di stili cognitivi e – soprattutto – diversi tempi da rispettare. Nes-
sun metodo e nessuna tecnica possono essere ritenuti validi per tutti, né considerati
universali. Nella prassi quotidiana risulta estremamente difficile, se non impossibile,
accontentare i bisogni e le preferenze cognitive di tutti gli apprendenti. Ma a prescin-
dere dal postulato di trovare un metodo o delle singole tecniche adeguate ai bisogni
e alle possibilità reali di tutti gli apprendenti, bisogna ammettere che molti insegnan-
ti tendono a  realizzare ciecamente i  contenuti impersonali dei materiali didattici
e/o scegliere i metodi e le tecniche con cui hanno studiato di persona, trascurando
proprio la diversità dei bisogni e delle possibilità congitive degli apprendenti. Con-
formemente a quanto già menzionato, la detta tendenza a imporre le tecniche speri-
mentate di persona, che d’altronde è un processo naturale in quanto si è sempre più
fiduciosi verso le tecniche adoperate nel passato con successo, anziché verso le tecni-
che nuove, più spesso basate sui rislutati degli studi scientifici, caratterizza però non
solo l’approccio dell’insegnante, ma anche del genitore e/o dello studente che non
di rado avanzano pretese riguardo le scelte didattiche del docente.
I conflitti che sorgono lungo l’asse delle aspettative e delle pretese verso le scel-
te didattiche non sono quindi quasi mai unidirezionali.
Un problema analogo riguarda le esigenze reciproche circa l’apporto del lavoro
dell’insegnante e dell’apprendente. Se da un lato l’insegnante propende a esigere
237
Il nuovo etimologico, DELI. Dizionario Etimologico della Lingua Italiana, a cura di Manlio
Cortelazzo – Paolo Zolli, 2° ed., 1999:  communicare, mettere in  comune, derivato
di commune, propriamente, che compie il suo dovere con gli altri, composto di cum insieme
e munis ufficio, incarico, dovere, funzione.
Il conflitto nella didattica dell’italiano ovvero la didattica dell’italiano… 143

dagli allievi più lavoro a casa, dall’altro lato sia gli apprendenti che i genitori sono
spesso convinti che i loro risultati ed il loro progresso nello studio dipendano so-
prattutto dalle competenze del docente.
Malgrado possa sembrare assurdo e contraddittorio, anche l’approccio umanisti-
co–affettivo attualmente in voga porta molto spesso a fraintendimenti da parte degli
studenti e dei genitori, che tendono a perdere la percezione dei limiti della disponibilità
e delle possibilità reali dell’insegnante e del sistema scolastico, pretendendo diverse for-
me di lavoro più personalizzato e la realizzazione di quasi tutte le loro richieste.
Il tasto dolente di tutti i contrasti citati sopra è la questione della gestione dei
ruoli sociali dei partecipanti al processo didattico, vale a dire la questione del rispetto
degli obblighi e dei diritti propri e altrui, senza intaccare l’autorità né del genitore,
né dell’insegnante e senza ledere l’autostima dell’apprendente. In questo contesto ap-
pare molto evidente l’importanza dell’educazione all’uso di ogni lingua, vista come
uno strumento di regolazione sociale dotato di tutto il potenziale indispensabile per
mitigare i contrasti, che invece, se usata inadeguatamente, può fomentare i conflitti.
Per prevenire i problemi di cui sopra sembra indispensabile sensibilizzare gli in-
segnanti all’uso di quello strumento didattico che purtroppo molto spesso viene con-
siderato una perdità di tempo: il “patto formativo”. Esso, stipulato tra l’insegnante e gli
studenti adulti, e, nel caso degli studenti minorenni, anche con i loro genitori, permette
infatti di precisare e di mettere in chiaro non solo gli obiettivi da raggiungere e le scelte
didattiche, ma anche le anzidette questioni riguardanti le responsabilità, le aspettative
reciproche e le possibilità reali di tutte le parti. In effetti, l’importanza del patto forma-
tivo viene attualmente sottolineata in tutti gli approcci di stampo umanistico–affettivo,
non solo perché costituisce un efficace strumento per evitare i fraintendimenti e i con-
flitti sul piano della gestione del proprio spazio sociale nel processo didattico, ma anche
perché contribuisce allo sviluppo della motivazione intrinseca a lungo termine. Come
spiega Clotilde Pontecorvo, «la conoscenza degli obiettivi permette a colui che studia
di dirigere meglio la sua attività e il suo interesse, ed è provato che gli studenti impara-
no prima e meglio se conoscono (e capiscono) gli obiettivi del loro lavoro»238. Proprio
per questo motivo il “patto formativo” è uno strumento prezioso anche dal punto di vi-
sta più strettamente glottodidattico, anche esso – come verrà presentato nel paragrafo
successivo – permeato da conflitti di varia natura.
In primo luogo vengono elencati i conflitti tra i presupposti ideologici della
didattica delle lingue e le condizioni reali dell’insegnamento/apprendimento che
riguardano il tempo a disposizione. Tenendo in considerazione che l’italiano è una
seconda o terza lingua straniera insegnata in Polonia nelle scuole pubbliche e che
gli studenti cominciano a studiarla per lo più solo al liceo239, il programma da re-
238
Cfr. Clotilde Pontecorvo – Maurizio Pontecorvo, Psicologia dell’educazione: cono-
scere a scuola, Bologna, il Mulino, 1985.
239
Cfr. Podstawa programowa z  komentarzami, Tom 3, Języki obce w  szkole podstawowej,
gimnazjum i liceum.
144 Joanna Jarczyńska, Katarzyna Święcicka

alizzare per superare l’esame di maturità anche a livello B1 (‘matura podstawowa’)


è  difficilmente realizzabile nel corso di  soli 3 anni240. La divergenza abissale tra
la quantità di contenuti grammaticali, lessicali e pragmatici da realizzare e il tempo
a disposizione porta spesso gli insegnanti a trascurare alcune fasi dell’Unità didat-
tica241, quali ad esempio la fase di recupero, in cui lo studente, dopo aver ottenuto
il risultato della prova di controllo espresso in voto, dovrebbe colmare tutte le lacu-
ne che possano ostacolare l’apprendimento della successiva porzione del materiale.
Il problema dei tempi inadeguati rispetto alla quantità del materiale si ripercuote
però non solo sull’organizzazione delle fasi di apprendimento, ma anche sugli obiettivi
da raggiungere, privilegiando la necessità di realizzare il programma al vero e proprio
obiettivo della didattica delle lingue, ossia quello di insegnare a comunicare. Questa di-
storsione della realtà scolastica in cui la lingua diventa obiettivo di per sé, invece di fun-
gere da strumento con cui raggiungere obiettivi extralinguistici e/o realizzare compiti
diversi (tra cui anche quelli sociali, come ad esempio la ricerca del compromesso e lo
sviluppo delle relazioni sociali in rispetto dei ruoli di tutti i partecipanti, menzionata
nella parte iniziale dell’articolo), deteriora ulteriormente l’apprendimento delle abilità
di comunicazione, già compromesso da altri problemi organizzativi, quali la gestione
dello spazio e la disparità comunicativa tra l’insegnante e l’apprendente.
Per quanto riguarda la  gestione dello spazio, basta riflettere sulla tipica im-
postazione dei banchi in classe, ovvero in file parallele, che snatura notevolmente
le condizioni della comunicazione reale, la quale avviene invece faccia a faccia per-
mettendo agli interlocutori di intrattenere il contatto visivo e sentire meglio tutti
gli enunciati. Invece l’impostazione dei banchi in file parallele, che rende impossi-
bile vedere la faccia di chi è seduto davanti o dietro mentre gli si parla, non è solo
innaturale, ma anche fortemente nociva dal punto di vista psicologico, in quanto
innalza il livello del filtro affettivo ed abbassa la motivazione alla comunicazione.
Fortunatamente, anche a  questo conflitto è  possibile porre rimedio impostando
i banchi a forma di ferro di cavallo, per garantire il contatto visivo e una maggiore
udibilità tra tutte le persone presenti in classe242.
I problemi di fondo a livello organizzativo più difficili da affrontare riguardano
però la disparità comunicativa tra l’insegnante e gli apprendenti. Il primo di esso ri-
guarda il tempo dedicato alla produzione che in una comunicazione spontanea è di
regola grossomodo uguale, mentre nella realtà scolastica viene suddiviso in  modo
sproporzionato tra l’insegnante che parla per 2/3 della lezione, le attività da svolgere
in silenzio e gli studenti che raramente possono praticare la lingua allo stesso momento.
Molto affini paiono i problemi della disparità comunicativa dovuti ai diversi ruoli
sociali. Mentre la comunicazione in condizioni naturali è sempre un atto di collabora-
240
Cfr. le tabelle con i dati riportate alla fine dell’articolo.
241
Cfr. Marco Mezzadri, I  ferri del mestiere. (Auto)formazione per l’insegnante di  lingue,
Perugia, Edizioni Guerra, 2003.
242
Cfr. Mezzadri, I ferri del mestiere, cit.
Il conflitto nella didattica dell’italiano ovvero la didattica dell’italiano… 145

zione (gli interlocutori di solito hanno le stesse competenze, insieme gestiscono l’atto
di comunicare e hanno gli stessi diritti nella conversazione: possono iniziarla, rifiutare
di rispondere alla domanda, cambiare argomento), durante la comunicazione in clas-
se l’insegnante non solo è più competente, ma è anche l’unico autorizzato a organizza-
re, iniziare, impostare, gestire e porre fine a ogni atto comunicativo. Lo studente non
ha il diritto di rifiutare di rispondere o di cambiare argomento e se tace, non vuole
o non sa rispondere alla domanda viene punito. Mentre bisogna ricordare che «il bi-
sogno e il desiderio di comunicare nascono in una precisa situazione e la forma della
comunicazione, allo stesso tempo del contenuto, corrispondono a tale situazione»243.
La stessa disparità riguarda anche le modalità di formulare le domande e di
dare le risposte. Nella comunicazione spontanea le domande si pongono per col-
mare le lacune informative e ogni interlocutore ha lo stesso diritto di fare una do-
manda per chiedere informazioni. Invece in classe l’insegnante conosce le risposte
alle domande che pone: le sue domande non colmano quindi lacune informative,
ma servono esclusivamente a controllare la correttezza linguistica. Le uniche do-
mande che assomigliano di più a quelle della comunicazione reale vengono for-
mulate dagli studenti per ottenere ulteriori spiegazioni da  parte dell’insegnante,
ma anch’esse sono sottoposte al potere organizzativo dell’insegnante, che decide
in quale momento gli studenti possono rivolgerle.
Una situazione analoga riguarda le risposte che nelle condizioni naturali ven-
gono scelte liberamente, in base alla situazione e alle relazioni tra gli interlocutori,
mentre in classe il numero di risposte accettabili è molto limitato e di solito l’inse-
gnante aspetta ed accetta una risposta ben determinata.
Inoltre, l’unico stile o registro ammesso in classe è neutrale, raramente con una
sfumatura affettiva, poco diversificato o adeguato al linguaggio dei coetanei italo-
foni degli apprendenti, molto spesso segnato invece dalla cosiddetta correttezza
politica, giustificata spesso dagli obiettivi educativi e dal contesto scolastico in cui
usare solo ed esclusivamente il lessico neutrale, strettamente indispensabile.
Anche lo sviluppo delle competenze extralinguistiche in classe è molto limi-
tato. La comunicazione non verbale e l’uso delle interiezioni che nella comunica-
zione naturale svolge un ruolo molto importante e permea tutta la conversazione
tra gli italofoni, in classe quasi non esiste e, se gli studenti provano a comunicare
non verbalmente, vengono subito richiesti di dare una forma linguistica alla loro
comunicazione, reazione contradditoria alla realtà linguistica vera.
Nonostante i problemi riguardanti la disparità organizzativa all’interno dell’at-
to comunicativo, la varietà di registri, lo spazio e il tempo a disposizione durante
la lezione trovino ormai valide soluzioni attingendo ai presupposti dell’approccio
cooperativo e all’impiego delle tecniche di lavoro in gruppo244, resta da notare che
243
Cfr. Council Of Europe, Quadro comune europeo di riferimento per le lingue: apprendimen-
to, insegnamento, valutazione, Milano, La Nuova Italia, 2004.
244
Cfr. Mezzadri, I ferri del mestiere, cit.
146 Joanna Jarczyńska, Katarzyna Święcicka

la maggior parte delle tecniche di questo stampo impiega più tempo, per cui il loro
uso, pur riuscendo a porre rimedio al conflitto dovuto alle diverse disparità comu-
nicative, riapre il circolo vizioso attorno al conflitto tra la quantità del materiale
da realizzare e il tempo a disposizione durante il ciclo didattico. Inoltre, le tecniche
di lavoro in coppia e/o in gruppo comportano la necessità di preparare i materiali
didattici in grado sia di stimolare la produzione orale, sia di dare il feedback sulla
correttezza delle frasi, affinché gli studenti possano sfruttare contemporaneamen-
te, in modo attivo, il tempo dedicato a conversazioni, con la possibilità di correg-
gersi a vicenda.
Come risulta da tutti gli esempi forniti finora, diversi tipi di conflitti nella didat-
tica si sovrappongono e/o collegano tra di loro, non di rado creando circoli vizio-
si. Il conflitto di sfondo organizzativo, descritto nei paragrafi precedenti, presenta
molti punti in comune non solo con i conflitti di tipo sociale (disparità comunica-
tiva) o metodologico (i contenuti e gli obiettivi della didattica delle lingue straniere
e le possibilità reali), ma anche con i conflitti dovuti ai vincoli istituzionali. Infatti,
il problema della realizzazione del programma, che non sempre può essere esegui-
to nei tempi previsti per le determinate tappe d’istruzione (quali le scuole medie
inferiori o superiori), viene ulteriormente aggravato dalle divergenze tra di esso
e il lavoro di preparazione dell’alunno per l’esame di maturità245. Un altro problema
è costituito dai materiali didattici di base a disposizione degli insegnanti d’italiano
operanti in Polonia: al momento non esiste un manuale completo pensato per gli
apprendenti polacchi ed elaborato in base ai contenuti precisi indicati nei due do-
cumenti regolatori che copra tutte le tappe di un intero ciclo didattico (sia quello
delle medie inferiori, sia delle medie superiori), per non parlare di  un’ulteriore
coordinazione dei manuali tra i due cicli. Malgrado attualmente si stiano usando
due manuali246 preparati conformemente ai requisiti specificati in CKE (la com-
missione centrale per gli esami statali) e in Podstawa Programowa247, vale a dire
nelle Indicazioni Nazionali, va osservato che anche tali lavori costituiscono una
sorta di compromesso tra i presupposti metodologici (quali ad esempio le tecni-
che induttive e la stimolazione di tutti i sensi nell’assimilazione dell’input nuovo)
e i vincoli imposti dalla legge del 7 luglio 2014248, che vieta esplicitamente l’uso
nelle scuole pubbliche dei materiali con gli spazi vuoti da completare.

245
Council Of Europe, Quadro comune europeo, cit.
246
Marta Kaliska – Aleksandra Kostecka–Szewc, Va bene, Poznań, Nowela, 2015, Jo-
anna Jarczyńska – Katarzyna Święcicka, Perfettamente, Poznań, Nowela, 2015.
247
Podstawa programowa z komentarzami, Tom 3, Języki obce w szkole podstawowej, gim-
nazjum i liceum.
248
Legge del 30 maggio 2014 r. „O zmianie ustawy o systemie oświaty oraz niektórych innych
ustaw (Dz. U. z 2014 r., poz. 811). Specificamente: Rozporządzenie Ministra Edukacji Na-
rodowej z dnia 7 lipca 2014 r. w sprawie udzielania dotacji celowej na wyposażenie szkół
w podręczniki, materiały edukacyjne i materiały ćwiczeniowe.
Il conflitto nella didattica dell’italiano ovvero la didattica dell’italiano… 147

Un altro conflitto tra la  realtà polacca e  il livello istituzionale e  burocratico


riguarda l’abilitazione dell’insegnante a esercitare la professione nelle scuole pub-
bliche e più precisamente la preparazione psicologica e pedagogica richiesta dalla
legge per le  persone operanti nel settore dell’educazione dei minori. Purtroppo
da anni solo presso pochi atenei che che offrono studi di primo e di secondo grado
con la specializzazione in lingua italiana è possibile frequentare i corsi specialistici
in base ai quali ottenere la detta abilitazione. Ciò costituisce un grosso problema,
in quanto la carenza di docenti abilitati al lavoro nelle scuole pubbliche porta a una
graduale riduzione delle ore dedicate alla lingua italiana (per cui prova una reazio-
ne a catena innescando il conflitto tra la realizzazione del programma e i problemi
organizzativi descritti sopra) o all’affidamento della materia ai docenti di altre ma-
terie, ma in possesso del certificato di livello B2 o C1, con poca esperienza e dime-
stichezza con le questioni inerenti al sistema linguistico italiano.
Visto che i conflitti all’interno della situazione reale della didattica della lingua
italiana in Polonia a tutti i livelli d’istruzione si sovrappongono tra di loro crean-
do spesso circoli viziosi, si vuole concludere questa breve analisi con una rifles-
sione offerta da una recente conferenza tenutasi nel 2015 in Trentino e intitolata:
Il Conflitto Come Valore Educativo249. La riflessione dell’edizione 2015 dedicata
a “Desiderio e Conflitto” presenta difatti questi due concetti come due elementi
che attraversano costantemente la vita di tutti e muovono il mondo. È però proprio
l’educazione a dare loro un significato e una direzione. In questo senso il desiderio
va interpretato come pulsione verso il futuro e verso l’altro e diventa una chiave per
comprendere, per crescere, per aprirsi e condividere ciò che si impara. Il conflitto
costituisce invece una base di partenza per nuovi percorsi di ricerca e di matura-
zione, nuove forme di convivenza, nuovo sapere.
Ricollegandoci alle argomentazioni di fondo del presente lavoro, che mostrano
che la maggior parte dei conflitti presenti nella realtà didattica nasce dalle diver-
genze tra il piano idealistico e i vincoli della realtà, si può concludere che sebbene
non esistano le condizioni perfette per insegnare, seguendo la riflessione del con-
vegno trentino e partendo dalla presa di coscienza della vera natura di ogni singolo
conflitto si possano elaborare nuovi percorsi di maturazione. E anche se discutere
sicuramente non basta a risolvere tutti i problemi, il processo di affrontarli insieme
contribuisce senza dubbio allo sviluppo del dialogo, della negoziazione linguistica
dei concetti e della competenza comunicativa in rispetto dei nostri ruoli sociali.
Ridando alla lingua il suo valore come strumento di condivisione si compie quin-
di l’obiettivo vero e  proprio dell’insegnamento/apprendimento linguistico, che
è quello di imparare ad ascoltare per capire, e non invece – come spesso accade
nella realtà – per rispondere.

http://www.mostraconfinieconflitti.it/il–conflitto–come–valore–educativo/, data di acces-


249

so: 10.09.2018.
Ad 4: I dati riguardanti l’insegnamento dell’italiano nell’anno scolastico 2013 / 2014250.
148

lingua straniera
In totale
inglese francese spagnolo latino tedesco russo italiano altre tutte
00003 Szkoła podstawowa 2 018 591 4 791 3 786 0 133 004 6 443 350 715 2 167 680
00004 Gimnazjum 1 093 652 39 830 21 533 498 773 767 85 156 4 182 876 2 019 494
00013 Zasadnicza szkoła zawodowa 104 619 619 0 0 57 960 10 966 69 29 174 262
00014 Liceum ogólnokształcące 705 299 60 687 30 954 11 260 349 428 62 264 12 142 495 1 232 529
00015 Liceum profilowane 7 027 270 55 0 4 230 1 021 16 27 12 646
00016 Technikum 504 154 17 696 3 550 0 400 965 51 944 921 1 124 980 354
00017 Liceum ogólnokształcące uzupełniające dla absolwentów zasadni- 5 244 0 0 0 313 636 0 0 6 193
czych szkół zawodowych
00018 Technikum uzupełniające dla absolwentów zasadniczych szkół 12 181 77 0 0 5 006 1 649 2 0 18 915
zawodowych
00019 Szkoła policealna (ponadgimnazjalna) 144 910 71 24 252 8 717 1 385 45 2 415 157 819
00021 Sześcioletnia ogólnokształcąca szkoła muzyczna I stopnia 8 798 60 4 0 536 0 0 0 9 398
Joanna Jarczyńska, Katarzyna Święcicka

00024 Sześcioletnia ogólnokształcąca szkoła muzyczna II stopnia 3 962 130 0 0 2 977 164 173 0 7 406
00025 Sześcioletnia szkoła muzyczna II stopnia 0 0 0 0 0 0 0 0 0
00026 Sześcioletnia ogólnokształcąca szkoła sztuk pięknych 2 590 1 487 63 0 660 151 0 0 4 951
00027 Czteroletnie liceum plastyczne 4 906 1 738 36 0 2 091 279 89 0 9 139
00029 Dziewięcioletnia ogólnokształcąca szkoła baletowa 832 464 0 0 0 65 0 0 1 361
00032 Policealna szkoła artystyczna 1 058 0 0 0 90 0 41 7 1 196
00034 Kolegium nauczycielskie 1 077 21 0 9 193 0 0 0 1 300
00035 Nauczycielskie Kolegium Języków Obcych 2 067 216 148 0 1 084 82 27 0 3 624
00065 Kolegium Pracowników Służb Społecznych 672 20 0 0 99 0 0 0 791
00066 Szkoła pomaturalna animatorów kultury 195 0 0 5 175 0 0 0 375
00069 Czteroletnia szkoła muzyczna II stopnia 39 18 0 0 21 0 20 0 98
00070 Dziewięcioletnia szkoła sztuki tańca 0 0 0 0 0 0 0 0 0
00082 Poznańska szkoła chóralna 180 0 0 0 106 0 0 0 286
222
Razem 4 622 053 128 195 60 153 12 024 1 741 422 18 077 5 688 6 809 817
205

250
Informazioni tratte dal portavoce ufficiale del Ministerstwo Edukacji Narodowej.
Il conflitto nella didattica dell’italiano ovvero la didattica dell’italiano… 149

Il numero di persone che nell’anno 2012 hanno sostenuto l’esame di italiano all’esame dopo
il gimnazjum e a quello di maturità in confronto alle altre lingue:
język włoski
esame dopo il gimnazjum esame di maturità
livello elementare livello avanzato livello elementare livello avanzato
68 13 560 219
In totale in tutto il paese hanno sostenuto In totale in tutto il paese hanno sostenuto
l’esame di una lingua straniera: l’esame di una lingua straniera:
403 179 339 457 360925 83139
l’italiano consiste dunque: per cento
0,0017 0,0004 0,015 0,026
Parte III. Letteratura
Due modi diversi di intendere il conflitto uomo–donna:
Lucrezia Marinelli e Moderata Fonte (sec. XVI–XVII)
Fabio Boni
Uniwersytet Pedagogiczny w Krakowie

Nel 1599, a Venezia, per l’editore Vincenzo Somasco, usciva un ponderoso vo-
lume il cui titolo, I donneschi difetti, non lasciava molti dubbi sul suo contenuto.
Scopo dell’autore – l’erudito ravennate Giuseppe Passi – era infatti quello di  di-
mostrare l’inferiorità fisica, morale e mentale della donna, essere per natura insta-
bile, imprevedibile, inaffidabile, nonché portato naturalmente al male operare251.
L’opera di Passi inaugurava un tipo di trattatistica dedicata alla denigrazione della
donna e alla messa in luce delle sue tare252. La fioritura di questa produzione non
era del resto casuale, ma rispecchiava la non facile condizione della donna nella
vita culturale e sociale della fine del Cinquecento e del Seicento in Italia. A testi-
monianza di questo si possono portare alcuni fatti storici e sociali. Conti Odorisio
fa notare che «per quanto riguarda la situazione delle donne, non si può modifi-
care una valutazione negativa» e con lo storico Natali individua le cause di questo
peggioramento in due fatti storici ben precisi, la Controriforma e la dominazione
spagnola253. Anche Visconti, a inizio Novecento, avanzava analoghe motivazioni,
sostenendo che «la tendenza religiosa del Seicento ha dichiarato guerra alle donne,
definendole cagione prima dell’umana dannazione, fonti di  vizi e  corruttela»254.
Recentemente, è  stato poi notato come a  partire dalla Controriforma si  assista
in effetti ad una recrudescenza nella promozione della castità e del pudore in molti
251
Giuseppe Passi nacque a Ravenna nel 1569 e morì a Venezia nel 1620 circa. I donneschi
difetti si compone di 35 Discorsi, ciascuno dei quali dedicato ad un difetto femminile.
252
Diversi furono gli scritti dedicati a questo argomento. In generale si tende a criticare la don-
na intesa soprattutto come corpo che attrae, seduce e colpisce il maschio, come si può nota-
re da questi altri titoli: Giovanni Antonio Massinoni, Il flagello delle meretrici (Venezia,
1599); Giovanni Battista Barbo, L’Oracolo, ovvero invettiva contro le donne; Bonaven-
tura Tondi, La femina origine di ogni male. Overo Frine rimproverata (Venezia, 1687).
253
Cfr. Ginevra Conti Odorisio, Donna e società nel Seicento, Roma, Bulzoni, 1979, p. 36.
254
Filippo Visconti, Lo spirito misogino del Seicento, Avellino, Pergola, 1905, p. 77.
154 Fabio Boni

aspetti della vita sociale255. A fare le spese di questa impostazione della società sono
le donne, verso le quali si acuisce il pregiudizio sessuale. Esse vengono così viste
come potenziali tentatrici e veicoli di peccato. La loro condizione è inoltre di totale
subalternità al maschio, sia questi fratello, padre o marito. Il compito della donna
all’interno della società è limitato quindi alla vita domestica, nella fattispecie alla
procreazione e  all’allevamento dei figli. Tutto quanto vada al  di là  di questi due
compiti essenziali, incluso quindi anche l’esercizio e  la formazione intellettuale,
viene visto dalla società con occhio ostile e viene condannato come una distorsio-
ne ed un pericolo per la società stessa256.
Questa minima introduzione al  contesto socio–culturale è  parsa necessaria
per avvicinarsi all’argomento principale dell’articolo, ossia la  reazione che due
intellettuali donne, invero una rarità per l’epoca, ebbero di  fronte alla degrada-
ta situazione delle loro simili, attraverso la  stesura di  due trattati in  cui emerge
la consapevolezza della propria contingente inferiorità sociale, ma allo stesso tem-
po la volontà di affermare il proprio valore e la propria dignità nei confronti della
prepotenza maschile.
Sarà in  particolare interessante osservare come esse intendano il  rapporto
uomo–donna e su quali assi si muovano nell’affrontare il problema della condizio-
ne sociale della donna, alla luce del conflitto con l’uomo.
Entrambe le intellettuali hanno origine veneziana, entrambe fin dalla giovane
età versate negli studi e fortunate nell’essere cresciute in famiglie, se così si può dire,
illuminate. Lucrezia Marinelli (1571–1653) fu  educata dal padre medico e  poté
sviluppare la sua passione per la letteratura e la filosofia, in particolare studiando
Platone ed il neoplatonismo, sposandosi in età avanzata, oltre i quarant’anni; Mo-
derata Fonte (pseudonimo di Modesta Pozzo, 1555–1592), educata da un parente
che ne  conobbe e  apprezzò le  doti intellettuali, poté coltivare la  scrittura, senza
però tralasciare le  incombenze familiari, andò infatti sposa all’avvocato Filippo
Zorzi, da cui ebbe quattro figli, partorendo l’ultimo dei quali morì.
Vedremo come la vicenda biografica di queste due donne (la prima intellettua-
le, libera e maritata soltanto in età matura, la seconda maggiormente legata all’am-
biente domestico, madre e moglie) in un certo senso influenzerà le loro riflessioni
sulla condizione femminile ed il loro modo di porsi nel rapporto con l’uomo.
Della nobiltà et eccellenza delle donne co’ diffetti et mancamenti degli huomini
fu composto da Lucrezia Marinelli nel 1600 ed edito nello stesso anno, a Venezia,
per l’editore Ciotti257. Con questo trattato Marinelli intendeva, da un lato, rispon-
255
Cfr. George Duby – Michelle Perrot, Storia delle donne. Dal Rinascimento all’età mo-
derna, a cura di Natalie Zemon Davis e Arlette Farge, Bari, Laterza, 2009, p. 73.
256
Cfr. Duby – Perrot, Storia delle donne, cit.; sulla condizione della donna nell’età moderna
si può anche vedere: Merry E. Wiesner, Le donne nell’Europa moderna 1500–1750, Tori-
no, Einaudi, 1994.
257
Edizione di riferimento per le citazioni.
Due modi diversi di intendere il conflitto uomo–donna… 155

dere al contemporaneo trattato misogino di Giuseppe Passi e, dall’altro, rivendica-


re il valore della donna e la sua dignità. L’opera dell’intellettuale veneziana è divi-
sa così in due parti ben distinguibili: una prima dedicata all’eccellenza femminile
ed una seconda concentrata a rispondere ai Donneschi difetti, una sorta di contro–
trattato in cui l’autrice ripropone, in chiave parodica ed in versione maschile, quei
difetti che Passi attribuiva alla donna.
Lucrezia Marinelli era ben consapevole della condizione di  inferiorità della
donna all’interno del contesto sociale e del pregiudizio che gravava sull’intelletto
e sul corpo femminili. Del resto, il trattato di Passi, che Marinelli conosceva bene
ed aveva eletto ad obiettivo polemico, rifletteva l’atteggiamento antifemminile del-
la società. Nei Donneschi difetti non di rado si prende di mira il corpo della don-
na, strumento di seduzione. Delle donne da partito, meretrici, puttane e sfacciate,
discorso XIV, Delle adultere, impudiche e vagabonde, discorso XIII, Quanto sia di-
sdicevole a donna il farsi bella, discorso XXIII, Bellezza pericolosa, discorso XXV,
sono solo alcuni dei capitoli dedicati allo svelamento dei pericoli che si nascondo
dietro il corpo femminile, vera trappola per l’uomo (tra le altre cose, si definiscono
“deformità” i seni, si afferma come la donna bella sempre sia impudica e così via).
Oltre a ciò, l’erudito ravennate intende svilire l’intelletto femminile, con una serie
di capitoli che mirano a colpire la sfera intellettuale della donna, come ad esem-
pio quelli dedicati alle «donne vanagloriose» (Discorso IX), a quelle «linguacciute,
ciarliere, maldicenti, bugiarde e mordaci» (Discorso XVI), o alle «volubili, inco-
stanti, instabili, leggere, credulone, sciocche e sciempie» (Discorso XXXI).
Nella prima parte del suo trattato Lucrezia, quindi, intende partire alla ricon-
quista di questi due aspetti della donna: il corpo e la mente. Ella procede alla ri-
conquista del corpo femminile partendo dal suo interno. Il corpo femminile è il
simulacro dell’anima che esso racchiude, irraggia quindi bellezza, una bellezza
che non è destinata al possesso ed al disprezzo da parte maschile, ma è «un rag-
gio e un lume dell’anima, che informa quel corpo» (p. 13). Questa beltà si rive-
ste di una funzione civilizzatrice e nobilitante che conduce addirittura alla con-
templazione divina (un’idea di donna, quindi, come principio autonomo di vita
spirituale). Questo corpo trasfigurato non può più essere strumento di pericolosa
attrazione e trappola per l’uomo, ma rispecchia la bellezza dell’anima delle donne.
L’immagine così idealizzata che Marinelli propone della donna, si avvicina molto
a quella della tradizione stilnovistica e petrarchista. Non a caso, la maggior parte
delle citazioni che vengono addotte per dimostrare queste assolute caratteristiche
della donna sono tratte da poeti come Dante, Petrarca, Bembo, (ma anche Ariosto
e Tasso). Quindi, come giustamente è stato osservato, in un certo senso l’autrice
procede alla difesa della donna e alla celebrazione della sua superiorità, attraver-
so un immaginario poetico maschile e si arriva al paradosso per cui «l’immagi-
156 Fabio Boni

ne femminile che si celebra è comunque quella partorita dall’uomo»258. Tuttavia,


in questa costante ricostruzione del corpo, che ha come obiettivo la sua rivendi-
cazione e la sua riconquista da parte delle donne, manca qualcosa. Ed è proprio
quel qualcosa che turba l’uomo e che genera poi l’immagine della donna e del suo
corpo come animale vorace ed insaziabile: la componente della sessualità259. Forse
anche la scelta che tende ad escludere la trattazione di questa componente è detta-
ta dalla volontà di presentare la donna come un modello di elevazione spirituale,
in cui bellezza interiore e bellezza esteriore coincidono e convivono in reciproca
armonia. Marinelli difende la donna, il suo corpo, ma sceglie di tagliarne una par-
te, ossia quella legata alla carnalità e alla sessualità. Vi è, sì, nel trattato, un capi-
tolo dedicato al sentimento amoroso, Dell’amor delle donne verso i padri, i mariti,
i fratelli, et i figliuoli, ma è un sentimento tutto orientato alla fedeltà, quando non
alla castità (quest’ultimo aspetto è approfondito in un capitolo dedicato appunto
alle Donne temperate e continenti). La castità è considerata come una virtù tipica-
mente femminile; in questo modo si cerca di far svanire l’immagine della donna
tentatrice, ciò che serve non solo per procedere al lavoro di ricostruzione dell’im-
magine della donna, ma anche ad allontanare da Lucrezia stessa questo fantasma.
Se si  tiene conto anche del dato biografico, e  cioè che Marinelli si  sposò in  età
alquanto avanzata e trascorse buona parte della vita tra svaghi eruditi e letterari,
si può ipotizzare che tutto ciò abbia influito sul suo piano di rivalutazione della
donna, un piano che ella elabora a partire dalla sua condizione personale di donna
lontana dall’universo della sessualità, più vicina senz’altro a quello dell’astrazione
intellettuale. Anzi, quella castità che ne La nobiltà si presenta come un tratto tipi-
camente femminile, nel poema epico–cavalleresco del 1635 L’Enrico si trasforma
nel vessillo dell’indipendenza femminile contro il controllo maschile260. Il corpo
alla cui riconquista si muove l’opera dell’intellettuale veneziana sembra più quindi
un corpo ideale, lontano da quello reale. Del resto, è anche questo un modo per
escludere il maschio dall’universo femminile e sancire una completa autosufficien-
za della donna. Tuttavia, è difficile non vedere in questo estremismo, oltre ad un
rapporto conflittuale col proprio corpo di donna, anche un timore verso l’uomo
ed il suo aspetto fisico. A suffragio di questa ipotesi, vi è la costante riproposizione

258
Cfr. Anna Romagnoli, La donna del Cortegiano nel contesto della tradizione, Barcelona,
Universitat de Barcelona, 2007, p. 306.
259
Interessante a questo proposito un aneddoto riportato da Passi, che riflette abbastanza bene
l’ossessione corporea e sessuale che l’uomo proiettava sulla donna. Riferendo dei costumi
dell’isola di Dalica, loda in particolare quello che imponeva alle donne di portare «la natura
cucita fino al tempo di maritarsi, lasciando però un poco d’adito, per il quale l’urina potesse
uscire» (Passi, I donneschi difetti, cit., p. 199).
260
Cfr. Laura Lazzari, Forme di libertà nelle opere di Lucrezia Marinelli. Atti del Convegno
Internazionale Donne a Venezia tra ‘500 e ‘700. Spazi di libertà e forme di potere, Venezia,
8–10 maggio 2008.
Due modi diversi di intendere il conflitto uomo–donna… 157

del confronto di  genere sull’asse bello/brutto. Quanto la  donna si  distacca dalla
corporeità terrena e si proietta nel mondo del bello e del buono, tanto l’uomo spro-
fonda nella mondanità e da questa non sa sollevarsi, condannato dalla sordidezza
del suo animo, che traspare dalla bruttezza del suo corpo:

è cosa meravigliosa vedere la moglie di un calzolaio, o di un beccaio, ov-


vero di un facchino vestita di seta con catene d’oro al collo, con perle, e anelli
di buona valuta (…) e poi all’incontro vedere il marito tagliar la carne tutto
lordato di sangue di bue, e male in arnese, o carico come un asino da soma
vestito di tela, con la quale si fanno i sacchi. (p. 26).

La donna è  bella, l’uomo è  brutto e  suscita raccapriccio. Non appare quin-


di così fuori luogo vedere proiettato in una visione manichea il rapporto uomo/
donna, maschile/femminile261. Possiamo allora osservare come Marinelli reagi-
sca alla denigrazione misogina del corpo femminile, proiettandolo nell’universo
dell’idealità, facendone un simulacro divino. È una rivalutazione che trova rifugio
nell’ideale, forse un poco estremistica nel suo rifiuto di considerare la donna come
un corpo reale che deve confrontarsi anche con l’altro corpo, quello dell’uomo. Del
resto la formazione culturale della scrittrice, col culto di Platone e del neoplato-
nismo, nonché la sua vicenda biografica, potevano lasciar prevedere l’ottica in cui
la questione del corpo sarebbe stata trattata.
Per quanto riguarda, invece, la riaffermazione della mente della donna, delle
sue facoltà intellettuali, l’autrice ha sicuramente miglior gioco. La figura che di sé,
infatti, presenta è quella di una intellettuale vivace ed in grado di padroneggiare
perfettamente filosofia, letteratura, storia, capace, insomma, di  sapersi muovere
con dimestichezza tra i vari piani della cultura. Dimostra di conoscere a fondo l’o-
pera di Aristotele e di Platone, al quale vanno il suo favore e ammirazione. La con-
sapevolezza del proprio valore intellettuale e la solida formazione filosofica le per-
mettono di polemizzare con figure di primo piano della cultura contemporanea,
come ad esempio il Torquato Tasso del Discorso della virtù femminile e donnesca,
in cui il poeta della Gerusalemme liberata divideva l’universo femminile in poche
donne elette (quelle in possesso della “virtù donnesca”) e la massa delle donne co-
muni, alle quali non si addirebbe l’esercizio intellettuale e che dovrebbero rimanere
sotto il  controllo dell’uomo262. Nel capitolo dedicato al  Parere di  Torquato Tasso
addotto et rifiutato (p. 128), Marinelli afferma che non esiste alcuna distinzione
tra la virtù femminile e la virtù donnesca, ma tutte le donne sono uguali nella loro
eccellenza. Ciò che comunque maggiormente irrita la scrittrice è il fatto che Tas-

Cfr. Romagnoli, La donna del Cortegiano, cit., p. 300.


261

Il Discorso uscì a Venezia nel 1582. Oggi si può leggere in edizione moderna con un’intro-
262

duzione di Maria Luisa Doglio – Torquato Tasso, Discorso della virtù feminile e don-
nesca, Palermo, Sellerio, 1997.
158 Fabio Boni

so abbia svalutato l’intelletto femminile, sostenendo che la speculazione non è un


esercizio in  cui le  donne siano particolarmente versate263. Risponde seccamente
al grande poeta: «io non admetto questa sua suppositione, anzi essendo le donne
della medesima spetie degli huomini, et  havendo una stessa anima, et  le stesse
potenze (…) direi che tanto conviene la speculazione alla donna quanto all’huo-
mo» (p. 129). È questa affermazione una sorta di manifesto del pensiero di Lucre-
zia Marinelli, che rivendica l’uguaglianza con l’uomo e lo accusa per la situazione
di inferiorità in cui ha relegato la donna, in primis non consentendole un accesso
all’istruzione. È facile, così, per l’uomo affermare che alla donna non si addica il ra-
gionamento, questi infatti «non lascia che la Donna a tali contemplationi attenda,
temendo ragionevolmente la superiorità di lei» (ivi). L’accusa che si muove a Tasso
è quindi quella di aver contribuito a mantenere soggiogato l’ingegno femminile.
Tuttavia, il principale obiettivo polemico di Marinelli rimane Giuseppe Passi e su
di lui si concentra la sua opera di distruzione. Per prima cosa, Lucrezia si chiede
che cosa possa muovere un uomo a scrivere male delle donne:

dico dunque, che varie furono le cagioni che spinsero et che sforzarono
alcuni huomini sapienti, et dotti a biasimar et vituperar le donne, fra le quali
è  lo sdegno, l’amor di  se stessi, l’invidia, et  la scusa del poco ingegno loro.
Onde si potrebbe dire, che quando Aristotile, o alcuno altro biasimò le don-
ne, che o sdegno, o invidia, o troppo amor di lor medesimi ne fosse cagione
(p. 108, corsivo nostro).

In quel “alcuno altro” pare scorgersi un  neanche troppo velato riferimento
all’autore dei Donneschi difetti, il quale sarebbe quindi accusato di invidia e poco
ingegno. Passi (definito tra l’altro “crudelissimo nemico nostro”) viene, infatti,
chiamato in causa poco dopo, quando si ipotizza che alla base dell’astio del raven-
nate contro il sesso femminile ci possa essere stato un qualche trauma nel rapporto
con una donna. Ad ogni modo, Marinelli, dall’alto della sua superiorità intellettua-
le, liquida così il suo livoroso collega: «non si conosce apertamente, quale sdegno,
ch’egli avea contra alcuna, lo abbia mosso. Si certo, se li perdoni adunque; perché
si  emenderà del commesso fallo, et  conoscerà la  nobiltà delle Donne» (p. 116).
Infine, l’affondo finale: Passi non è un fine erudito, ma soltanto un “maleducato”
da  non prendere ulteriormente in  considerazione: «queste sono le  risposte, che
si danno a persone, che sono della ragione capaci: percioché alle opinioni degli
huomini volgari, et ignoranti, non accade faticarsi a rispondere, i quali senza fon-
damento, et ragione parlano ostinatamente (p. 116)».
La seconda parte del trattato dedicata ai difetti degli uomini, si diceva, è spe-
culare a tutto I donneschi difetti, di cui si propone un controcanto ironico, una
sorta di eco. Qui Lucrezia fa mostra delle sue capacità letterarie e abbandonando

263
Cfr. Tasso, cit., p. 61 (edizione moderna).
Due modi diversi di intendere il conflitto uomo–donna… 159

le dissertazioni filosofiche, si diverte a rovesciare parodicamente i difetti femmi-


nili in maschili (vedi ad esempio i capitoli sugli «uomini otiosi, negligenti sonnac-
chiosi», sugli «uomini vanagloriosi e vantatori», su quelli «ornati, politi, bellettati
e biondati», che fanno il verso a quelli dei Donneschi difetti, dedicati alle donne
pigre, vanitose, che amano truccarsi, ecc.). In particolare, la scrittrice veneziana
è abile nel disegnare feroci caricature maschili, come quella dedicata ad un uomo
ormai vecchio, ma  dai comportamenti fin troppo giovanili, tra cui la  passione
per le serenate (nonostante abbia «voce di ranocchio»), il ballo e lo sport. Doveva
essere davvero un bello spettacolo, ci comunica l’autrice, vedere sotto una capi-
gliatura riccamente acconciata e sottoposta a stiramenti e tinture «una fronte cre-
spa, rugata, e negra, due occhi scarpellati, e riversi, il naso gocciolante, le guance
ritirate in dentro. La bocca isdentata, le labbra livide, smorte, tremanti» (p. 267).
In un crescendo, si passa alla descrizione dell’abbigliamento e dell’atteggiamento
“giovanili” del pover’uomo, che «portava un berrettino rosato tutto tagliato con
cordoni, e cordelle d’oro e d’argento» (ivi), indossando il quale era il primo a lan-
ciarsi a ritmo di musica in balli scatenati, «ancor che a pena si reggesse in piedi»
(ivi). Ma il climax si raggiunge mostrandolo in azione durante le partite a palla:
«era più ghiotto di giuocare alla palla da vento, che l’orso del mele. Dove ritrovava
giovani giucatori, spogliavasi in  farsetto, e  alcuna volta in  camicia per mostrar
meglio la bella disposizion del corpo, in niuna parte contraria alla bellezza del
volto» (ivi).
La prima parte della Nobiltà rimane comunque la più originale e la più im-
pegnata. È  notevole l’intento dell’autrice di  rivalutare il  corpo della donna, così
martoriato dalla tradizione misogina (anche se  la sua scelta perde di  vista, alla
fine, la realtà fisica di questo corpo per proiettarlo nell’astrattezza dell’ideale). Nella
parte dedicata, invece, alle mancanze degli uomini si avverte un certo rilassamen-
to. Qui si procede al botta e risposta con Passi e l’autrice sembra volersi divertire,
il suo stile si fa ancor più vivace e non mancano scenette gustose e divertenti. Tut-
tavia, dopo un po’ il gioco sembra appesantirsi in uno stucchevole rovesciamento
dei difetti femminili in maschili e a tratti riappare quella virulenza manichea, con
da un lato la bontà e bellezza femminili e dall’altro la cattiveria e bruttezza maschi-
li, il che potrebbe infine lasciar trasparire un suo timore verso il maschio.
Caratteri diversi ha invece l’opera in difesa della donna composta da Moderata
Fonte. Come già vuole suggerire lo pseudonimo che adotta per firmarsi, la sua non
è un una polemica alla maniera della concittadina Marinelli. Lo scritto in cui pro-
pone la sua riflessione sulla condizione della donna e sul suo rapporto con l’uomo
non si presenta, infatti, come un trattato in cui scontrarsi a viso aperto con autori
tacciati di misoginismo. Moderata Fonte sceglie la forma della conversazione pa-
cata, sviluppata nel quadro di  un garbato dialogo rinascimentale, nell’opera dal
titolo Il merito delle donne. Ove chiaramente si scuopre quanto siano elle degne e più
160 Fabio Boni

perfette de gli huomini264. Sette donne, unite da un vincolo di nobile amicizia, si ri-
trovano nel giardino della villa che una di queste, la giovane Leonora, ha ereditato
dopo la prematura scomparsa del marito. Ognuna di esse rappresenta una tappa
della vita di una donna nella società del tempo: Leonora è una giovane vedova,
Corinna è  una giovane intellettuale che fugge la  compagnia di  qualsiasi uomo,
Cornelia è una donna sposata, Adriana è ormai una vedova anziana che deve prov-
vedere a maritare la figlia Virginia ed, infine, Elena è una fresca sposa. Tutte sono
gentildonne dell’alta borghesia veneziana che possono permettersi di trascorrere
due giornate, tale è la durata temporale del dialogo, a discutere sul tema che la più
anziana di loro ha proposto, ovvero i rapporti tra i due sessi. L’autrice può così tes-
sere la sua riflessione sulla condizione femminile, mascherandosi ora dietro l’una,
ora dietro l’altra delle sue protagoniste. Ognuna di queste contribuisce, alla fine,
a fornire il pensiero dell’autrice sulla donna e sul suo rapporto con l’uomo.
La prima giornata ha  un andamento piuttosto vivace; partendo dalla pro-
pria esperienza personale e dalla vita femminile del tempo, le amiche procedono
ad una rivalutazione della donna e alla messa in luce della prepotenza maschile. Lo
sguardo dell’autrice si dimostra quanto mai lucido e ben consapevole della realtà
in cui si vive. A differenza di Lucrezia Marinelli, qui non si procede ad un catalogo
di uomini viziosi o ad uno sfoggio di erudizione filosofica per ingaggiare un duello
con i rappresentanti maschili della cultura. È da notare come l’attenzione dell’au-
trice si rivolga in particolare all’ambiente domestico; non si vuole costruire un’ar-
chitettura argomentativa che proietti la donna in una sfera di idealità, ma piuttosto
si vuole partire da ciò che è più semplice: dall’esperienza e dalla realtà quotidiana.
Si può affermare che l’approccio di Moderata Fonte è quindi più pragmatico e con-
creto di quello della Marinelli. L’attenzione al quotidiano è testimoniata da alcuni
argomenti che vengono affrontati nella prima giornata del dialogo e che riguar-
dano proprio gli aspetti che maggiormente condizionano la  vita di  una donna.
Innanzitutto, il matrimonio e la vita familiare. Ecco come viene sintetizzato da Co-
rinna il matrimonio dal punto di vista della donna: «mirate che bella ventura è ma-
ritarsi: perder la robba, perder se stessa, e non acquistar nulla se non gli figliuoli,
che le danno travaglio, e l’imperio d’un uomo che la domini a sua voglia» (p. 60). Si
alza qui il sincero lamento per la condizione della vita coniugale e si esprime tutta
la propria amara delusione. Se si pensa che la vita matrimoniale di Modesta Pozzo
non era poi così disagiata (sappiamo, infatti, che il marito le consentiva di coltivare
i propri interessi culturali ed aveva una mentalità aperta, insomma Modesta non
viveva certo da reclusa, né tantomeno era una moglie–schiava), questa analisi delle
condizioni matrimoniali testimonia ancora di più della sua capacità di analisi so-
ciale e della consapevolezza di come le sue simili vivessero nel matrimonio l’espe-

264
Moderata Fonte terminò il dialogo il giorno prima della morte, nel 1592. L’opera fu pubbli-
cata postuma, a Venezia, per Imberti, nel 1600. Le citazioni si riferiscono a questa edizione.
Due modi diversi di intendere il conflitto uomo–donna… 161

rienza della prigionia. Successivamente, si prende in considerazione l’argomento,


spinoso, delle relazioni extraconiugali e  dell’adulterio, per denunciare il  diverso
trattamento riservato all’uomo e alla donna in questo ambito. La ragione sociale
della maggior riprovazione dell’adulterio femminile stava nel fatto che la donna
veniva considerata proprietà sessuale del marito, per cui, se si fosse concessa ad al-
tri uomini, avrebbe perso di valore ed intaccato l’onorabilità del coniuge265. Fonte
sembra di tutto ciò consapevole, quando con una delle sue protagoniste afferma:
«se per mala sorte una donna si lascerà dalle insidie di alcun molesto amator per-
suadere a perdere l’onore, per buono, savio e onorato che sia il marito, subito egli
ne  riceve disonor e  vergogna solennissima» (p. 47). Ecco, quindi, giungere alla
constatazione di come l’adulterio sia quasi uno svago riservato ai maschi, perché
è come se questi «s’abbino fatto una legge a lor modo» (p. 45) che abbia dato loro
licenza di peccare di più e impunemente, quando in verità la colpa è di entrambi.
L’autrice va però oltre e prova a dare anche una spiegazione di carattere psicologico,
se così si può dire, dell’adulterio. Corinna, infatti, marca una netta differenza nelle
relazioni sentimentali tra i due sessi: la donna è mossa dall’amore, mentre l’uomo
dal desiderio. Questi è quindi maggiormente portato a ricercare nuove relazioni,
poiché vi è in lui desiderio senza amore e «mancato che è in lui il desiderio, che
è causa di quel vano amore, o per averlo conseguito, o per non lo poter conseguire,
viene a mancar insieme l’amor, che è l’effetto di quella causa» (p. 53). L’uomo si ca-
ratterizza per una maggior instabilità sentimentale, mentre nella donna «è amor
senza desiderio», quindi anche una disinteressata fedeltà. Le radici dell’infedeltà,
nella coppia, vanno ricercate nella natura dell’uomo, non in quella della donna,
conclude l’autrice. Secondo questo filo conduttore, Fonte non ha  timore nell’af-
frontare la figura della prostituta, argomento questo che Lucrezia Marinelli aveva
tenuto lontano dall’universo femminile. Moderata invece non fugge verso l’idea-
lità, ma rimane fedele al suo modo di guardare il mondo così come appare nella
realtà dei fatti. Ella vuole rivendicare alla prostituta il suo essere donna, rifiutando
la generalizzazione misogina266. Si capovolge, così, l’affermazione “la donna è una
prostituta” in “ la prostituta è una donna”. È una donna, la prostituta, che ha avuto
la sfortuna di essersi imbattuta in cattive compagnie maschili, che è stata oggetto
di desiderio senza amore e poi abbandonata a sé stessa: «di tanto male l’origine

265
Cfr. Duby – Perrot, Storia delle donne, cit., pp 93 sgg. Sulla questione si può inoltrevedere
l’articolo di Keith Thomas, The double standard, in «Journal of the History of Ideas» n. 20,
aprile 1959, pp. 195–216. Qui Thomas affronta proprio la questione del diverso trattamento
– the double standard – tra uomo e donna in caso di adulterio.
266
In Passi, ma anche in altri testi come ad esempio quelli citati all’inizio, la figura della pro-
stituta tende a sovrapporsi a quella della donna in generale: la donna è per natura sfacciata,
lussuriosa e quindi tende a concedersi e ad attirare verso di sé l’uomo per appagare le sue
voglie (vedi ad es. il capitolo dei Donneschi difetti dedicato alle Delle donne da partito, me-
retrici, puttane e sfacciate, discorso XIV).
162 Fabio Boni

propria e la cagione sono stati essi uomini, i quali prima hanno insidiato, tentato,
molestato e speronato le misere donne quando erano da bene, tanto che hanno
indotte le più semplici e facili a rovinarsi ed a scavezzarsi il collo» (p. 43). In questa
prima giornata, quindi, attraverso il gioco della piacevole conversazione tra ami-
che, sono stati toccati, con acuta consapevolezza, i punti attorno a cui ruota la vita
di una donna nella società: vita in famiglia, matrimonio e relazione tra i sessi.
Dopo l’analisi e  la critica sociale della prima giornata, nella seconda parte
si procede ad una rivalutazione dello spazio riservato dalla società alla donna, os-
sia quello domestico. Si potrebbe dire che Moderata Fonte voglia riconquistare
questa dimensione ed affermare il merito della donna attraverso un sapere tipica-
mente femminile. La donna è depositaria di una sapienza particolare, la chiave del
cui scrigno è suo esclusivo possesso. Si tratta della sapienza culinario–officinale,
che le  permette di  decifrare il  libro della natura e  di conoscerne i  segreti. Non
è semplicemente la conoscenza della casalinga che sa cucinare ed usare le erbe.
Come, infatti, è stato notato, alla base di questo piccolo erbolario della seconda
giornata vi  è  l’intenzione di  proporre una chiave per la  conoscenza del cosmo,
la cui cifra è l’armonia tra gli esseri viventi267. Anche l’uomo, quindi, dovrebbe vi-
vere in armonia con l’altro sesso, in quanto uomo e donna fanno parte della stessa
specie. Tuttavia, dall’uomo arriva una stonatura che incrina l’armonia cosmica.
Uomo e donna, nell’armonia della natura, sono uguali ed occupano la posizione
più nobile. Perché, allora, ci si chiede, l’uomo non vuole riconoscere questo dato
naturale e vi si oppone? Ecco quindi che bisogna trovare un modo per convincere
il maschio a riconoscerlo e considerare la donna come sua compagna di vita, con
pari dignità. Questa via è quella della parola, nella cui forza persuasiva l’autrice
ripone grande fiducia. La decisione di affidarsi alla parola costituisce uno snodo
all’interno dell’opera e testimonia ancora una volta della maturità dell’autrice. Co-
struire un’immagine di donna che non si “sporca” con le cose di questo mondo,
non serve a nulla. La donna vive nel mondo ed una fuga nell’idealità, nella spe-
culazione filosofica (così come accade in Lucrezia Marinelli) non porta ad alcun
risultato. È  vero, l’uomo ha  molti difetti, considera la  donna un  essere inferiore
ed  è  più forte, socialmente e  fisicamente. Ma quali vantaggi potrebbero portare
un continuo lamento per la propria condizione e la deplorazione dei vizi dell’uo-
mo? Bisogna invece agire sulla e nella realtà. Per questo le sette amiche decidono
di  confrontarsi direttamente con l’uomo, rivolgendosi a  lui con un’orazione, of-
frendo una possibilità di mediazione, per convincerlo a riconoscere la bontà e la
dignità, il merito delle donne. È Leonora l’incaricata di questo compito. L’apertura
267
Secondo A. Chemello, la seconda parte del dialogo è un volgarizzamento in miniatura della
Naturalis Historia di Plinio il Vecchio, di cui l’autrice riprende anche la concezione del si-
stema binario simpatia/antipatia, principio governatore dell’armonia cosmica, per cui ogni
cosa ama il  suo simile (cfr. Adriana Chemello, introduzione a  Moderata Fonte, Il
merito delle donne, Venezia, Eidos, 1988, p. XL sgg.).
Due modi diversi di intendere il conflitto uomo–donna… 163

dell’orazione segna già la sua cifra stilistica, ossia una insistita, costante, captatio
benevolentiae: «Carissimi e amatissimi uomini, voi siete così prudenti e amorevoli,
che son certa, che voi tutti ascolterete me» (p. 113). Ci si rivolge all’uomo non con
una volontà polemica o sarcastica come in Marinelli, ma con la più totale dispo-
nibilità a  trattare, a  mediare, senza contrapposizioni e  con pacatezza. Leggiamo
l’appello finale di questa orazione, che ben ne sintetizza il significato:

essendo noi, dunque, giustissimi e prudentissimi uomini così a voi simili


di sostanza, di figura e qualità naturali (…) e se ogni cosa ama il suo simile,
deh, di grazia, perché ancor voi non amate noi? (…) fatelo uomini, che vi tro-
varete ogni dì più contenti: eseguite le domande nostre, levandoci l’occasion
di più querelarci di voi, come so che per vostra bontà e vostra prudenza fa-
rete; acciò viviamo quel breve tempo, che’l Signor ci ha dato in questa vita,
perché ci amiamo, e conversiamo insieme in pace, in carità, e amore (p. 116).

L’orazione, quindi, condensa il senso dell’opera: non si cerca uno scontro con
l’altro sesso; se lo si critica è solo per cercare di mettere in luce ciò che si presenta
in disaccordo con un’armonia ed una concordia che sono naturali e vanno conser-
vate, evitando qualsiasi turbamento. Non si vuole neppure scardinare l’ordine so-
ciale; se lo spazio che la società riserva alla donna è quello domestico, così sia. Ciò
che è importante è il riconoscimento della dignità dell’essere femminile, unita alla
considerazione del rapporto uomo–donna su un piano di eguaglianza sentimenta-
le e naturale, prima ancora che politica e sociale. È legittimo chiedersi, però, se die-
tro questo buon senso, dietro l’accettazione della realtà, non si nasconda un pes-
simismo che blocca ogni possibilità di cambiamento. Moderata Fonte ha fin qui
dimostrato di conoscere perfettamente la realtà sociale. Se propone una soluzione
di compromesso, una sostanziale accettazione delle regole, non lo fa perché spinta
da pessimismo. Il buon senso, la mediazione, la disponibilità a trattare, non vanno
letti come una resa, perché dietro questa scelta, comportamentale prima e argo-
mentativa poi, vi è la fiducia nella possibilità di farsi ascoltare e capire. L’autrice,
inoltre, crede nella ricostruzione di quell’armonia naturale, alla base della quale
sta la concordia e l’amore tra i simili, e uomo e donna simili lo sono. Così, quello
che poteva sembrare pessimismo o rassegnazione si trasforma in fiducia nell’essere
umano. E l’uomo non fa più paura perché, in quanto essere umano e in quanto
simile della donna, può essere persuaso all’amore e alla concordia. Il merito delle
donne sta proprio in questa fiducia nell’uomo (da intendersi come specie), pur ri-
conoscendo che si vive in tempi bui di violenza e prevaricazione. Il merito di Mo-
derata Fonte, invece, sta nell’invito a questa fiducia senza distogliere lo sguardo
dalla realtà e senza fuggire nell’idealismo o nell’astrazione erudita e filosofica; non
vi deve essere opposizione (buone le donne, cattivi gli uomini, come nel manichei-
smo della Marinelli), ma confronto.
164 Fabio Boni

In conclusione, possiamo quindi notare il diverso modo di gestire il rappor-


to ed il conflitto uomo–donna in Lucrezia Marinelli e Moderata Fonte. Lucrezia
Marinelli, conformemente al suo approccio intellettualistico, procede ad una ide-
alizzazione della donna e ne fa un essere angelico, portatore di salvezza spirituale
e generatore di vita. È un’astrazione che proietta la donna fuori dal reale, lontana
dal commercio col mondo e con l’uomo, dipinto come un essere del tutto negativo,
col quale non è possibile confrontarsi, se non polemizzando. La possibilità della
mediazione è esclusa. Al contrario, la donna di Moderata Fonte è assai più “ter-
restre”, se così si può dire. È nel mondo e si confronta con l’uomo senza timore.
È una donna che sa vivere nella sua dimensione domestica ed è padrona del suo
ambiente, il cui possesso rivendica con orgoglio (forse anche perché la vita fami-
liare dell’autrice era tutto sommato felice e riuscita). Per lei l’uomo è certamente
criticabile per la sua natura prevaricatrice, egli è prepotente, egoista ed accentra-
tore, detta le regole della società. Nonostante tutto, non è comunque un mostro
da cui tenersi lontano. Moderata Fonte dimostra di non temerlo ed ha anzi fiducia
nella sua natura razionale. Con l’uomo, in fondo, si può (anzi, si deve) convivere
e dialogare: lo si può convincere a cambiare atteggiamento, perché anche lui, come
la donna, è un essere umano ed è quindi sensibile alla forza del logos e della per-
suasione.
Sulla base di tutto ciò potremmo quindi affermare che la posizione di Moderata
Fonte nella gestione del conflitto uomo–donna appaia più equilibrata, nella ricerca
della conciliazione e della mediazione, di quella di Lucrezia Marinelli, improntata
piuttosto all’astrazione intellettuale–poetica, alla rivendicazione di  un’indiscussa
superiorità femminile, nonché alla negazione di qualsiasi possibilità di coopera-
zione con l’uomo.
Il conflitto rivoluzionario nell’età della tecnica:
considerazioni su Tecnica del colpo di Stato
di Curzio Malaparte
Raoul Bruni
Uniwersytet Kardynała Stefana Wyszyńskiego w Warszawie

«Se Napoleone disse “La politica è  il destino”, oggi si  può dire: “La tecnica
è il destino”»268, ha scritto Hans Jonas; come corollario possiamo aggiungere che
il destino della politica è stato quello di essere assorbita dalla tecnica. Si potrebbe
quindi parlare (mi si perdoni il termine poco eufonico) di un processo di tecni-
cizzazione della politica, che è ancora in atto ai nostri giorni (basti pensare ai vari
governi «tecnici» che si sono susseguiti nella storia italiana recente).
Nella cultura novecentesca il tema della tecnica è diventato centrale nel dibat-
tito filosofico europeo soprattutto a partire dal periodo compreso tra le due guer-
re mondiali, in cui apparvero scritti fondamentali su questo argomento di autori
come Heidegger, Jünger, Spengler, Carl Schmitt269.
Nello stesso periodo in Italia, pochi sono i pensatori che si siano mostrati sen-
sibili al tema dell’espansione del dominio della tecnica, e in particolare al rapporto
tra politica e tecnica. Tra questi, un rilievo del tutto speciale va senz’altro attribuito
a Curzio Malaparte, e al suo saggio più controverso Tecnica del colpo di Stato270.
Uscito dapprima in Francia, nella traduzione di Juliette Bertrand presso l’editore
268
Hans Jonas, Tecnica, medicina ed etica, a cura di Paolo Becchi, Torino, Einaudi, 1997, p. 12.
269
Per un’introduzione al dibattito filosofico novecentesco sulla tecnica, cfr. Michela Nacci,
Pensare la tecnica. Un secolo di incomprensioni, Roma–Bari, Laterza, 1999. Gianni Vattimo
nella prefazione a questo libro scrive che «il problema della tecnica non è un problema tra
altri, sia pure importante delle riflessioni del Novecento, ma è il tema dominante, per lo più
esplicito, ma presente anche là dove non appare, di tutta la riflessione e della cultura del
secolo» (Gianni Vattimo, Presentazione, ivi, p. IX).
270
Nonostante il notevole clamore suscitato dal libro, tradotto anche in vari Paesi, l’importan-
te contributo di Malaparte al dibattito filosofico sulla tecnica è invece, in genere, ignorato
dalla storiografia filosofica (nel pur utile studio sopra citato di Michela Nacci, ad esempio,
Malaparte non è mai menzionato).
166 Raoul Bruni

Grasset, nel 1931, Tecnica del colpo di Stato dovette attendere ben diciassette anni
prima di poter approdare alla pubblicazione anche in Italia (presso Bompiani, nel
1948)271, in primo luogo a causa del suo contenuto, non certamente in linea con
i dettami del regime fascista272.
Il tema centrale del volume è la modalità di attuazione dei colpi di Stato mo-
derni. La tesi di Malaparte è che il conflitto tra chi attenta allo Stato – cioè quelli
che lui chiama «catilinari», non importa se di destra o di sinistra – e chi lo difende,
non è un conflitto sociale o politico, come normalmente si credeva e si crede tut-
tora, bensì strettamente tecnico. Per sottoporre la sua intuizione alla prova dei fatti
storici, Malaparte prende in considerazione vari colpi di Stato della storia contem-
poranea europea: la Rivoluzione Russa, la marcia fascista su Roma, la conquista del
potere da parte di Piłsudski in Polonia, il golpe di Primo de Rivera in Spagna, senza
trascurare l’importante precedente del 18 Brumaio di Napoleone Bonaparte; pa-
gine precocemente critiche, a tratti ferocemente sarcastiche, sono dedicate anche
a Hitler e al nascente movimento nazista, che, come si sa, al momento dell’uscita
del libro, non era ancora approdato al  potere (tant’è che, dopo l’ascesa di  Hitler
al potere, Tecnica del colpo di Stato, nel frattempo tradotto in tedesco, fu proibito
in Germania, se non addirittura bruciato pubblicamente, come dichiara fieramen-
te Malaparte nella prefazione all’edizione italiana273).
I fenomeni politici su cui Malaparte concentra maggiormente la sua attenzione
sono la Rivoluzione d’Ottobre e il fascismo mussoliniano, che considera anche, per
molti versi, i colpi di Stato più paradigmatici. Nella sua analisi della Rivoluzione
bolscevica Malaparte dà particolare rilievo all’operato di Trockij274 («Se lo stratega
della rivoluzione bolscevica è Lenin275, il tattico del colpo di Stato dell’ottobre 1917

271
Per la  storia e  la ricezione dell’opera, cfr. Maurizio Serra, Malaparte. Vita e  leggende,
Venezia, Marsilio, 2012, in particolare, pp. 171–194.
272
Su questo argomento, cfr. Francesco Perfetti, Postfazione, in Curzio Malaparte, Tec-
nica del colpo di Stato, Milano, Mondadori, 2002, pp. 199–234.
273
«Non è perciò da meravigliarsi se Hitler, appena salito al potere, si affrettò a far condannare
il mio libro, con decreto del Gauleiter della Sassonia, a essere bruciato sulla pubblica piazza
di Lipsia, per mano del boia, secondo il rito nazista. La mia Tecnica del colpo di Stato fu get-
tata alle fiamme sullo stesso rogo che tanti libri, condannati per ragioni politiche o razziali,
ha ridotto in cenere» (Curzio Malaparte, Tecnica del colpo di Stato, Nota al testo di Gior-
gio Pinotti, Milano, Adelphi, 2011, p. 14; da ora in poi, questa edizione sarà indicata con
la sigla T, seguita dalla numerazione di pagina).
274
Da parte sua, Trockij non dimostrò affatto apprezzamento per Tecnica del colpo di Stato
(cfr. Lev Trockij, Scritti sull’Italia, a cura di Antonella Marazzi, Roma, Controcorren-
te, 1979, pp. 237–239).
275
Si ricordi che a Lenin Malaparte aveva già dedicato il pamphlet politico Intelligenza di Le-
nin (Milano, Treves, 1930), a cui, per alcuni aspetti, la Tecnica del colpo di Stato va ricolle-
gata. Successivamente Malaparte pubblicò un altro opuscolo dedicato al leader bolscevico,
Le bonhomme Lenin (Paris, Grasset, 1932, uscito in italiano soltanto molti anni più tardi
Il conflitto rivoluzionario nell’età della tecnica… 167

è Trotzki» (T, p. 123)), il quale, a differenza di Lenin, non subordina l’esito della
rivoluzione al contesto storico o sociale, ma ritiene che la riuscita dipenda soltanto
dall’efficacia dell’applicazione di principi tecnici: «La novità introdotta da Trotzki
nella tattica insurrezionale era l’assoluta noncuranza della situazione generale del
paese (…). La tattica di Trotzki sarebbe stata la stessa, anche se le condizioni della
Russia fossero state diverse» (T, p. 77). Inoltre, secondo la tesi di Malaparte, non
è necessaria la partecipazione delle masse popolari affinché una rivoluzione riesca:
è sufficiente una piccola «truppa d’assalto», composta non solo da soldati ma an-
che, per l’appunto, da tecnici in senso stretto. Né è necessario l’aiuto dei sindacati
o lo sciopero generale giacché, come afferma il Trockij di Malaparte: «“L’insurre-
zione non è un’arte” egli dice “è una macchina. Occorrono dei tecnici per metterla
in movimento: nulla potrebbe arrestarla, nemmeno delle obbiezioni. Soltanto dei
tecnici potrebbero arrestarla”» (T, p. 137).
Le azioni dei rivoluzionari guidati da Trockij saranno quindi volte ad occupare
i punti tecnicamente vitali delle aree che si vogliono espugnare:

quei piccoli gruppi di operai senza armi, di soldati, di marinai, (…) s’in-
filano nei corridoi delle Centrali telefoniche e telegrafiche, del Palazzo del-
la Posta, dei Ministeri, della sede dello Stato Maggior Generale, osservando
la disposizione degli uffici, gli impiantì della luce elettrica e dei telefoni, fis-
sandosi negli occhi e nella memoria il piano degli edifìci, studiando la ma-
niera di  potervi penetrare di  sorpresa al  momento opportuno, calcolando
le probabilità, misurando gli ostacoli, cercando nell’organizzazione difensiva
della macchina tecnica, burocratica e militare dello Stato, i luoghi di minor
resistenza, i lati deboli, i punti più sensibili (T, p. 147).

A questo proposito è interessante notare la straordinaria consonanza delle tesi


di Malaparte con quelle di Ernst Jünger, e in particolare di un’opera tra le più in-
fluenti del pensatore tedesco, L’operaio (risalente al 1932, quindi ad un anno dopo
la prima edizione francese della Tecnica). Scrive Jünger:

Al fortissimo aumento della capacità che le armi hanno di colpire a di-


stanza, e che già ora minaccia a breve termine indifese metropoli, corrisponde
una tecnica di sovversione politica la quale tenta non più di riversare le mas-
se nelle strade, bensì d’impadronirsi, mediante pattuglie di punta, dei punti
centrali e  nevralgici delle città sedi di  governo. Le corrisponde certamente
anche il fatto che la polizia sia equipaggiata con mezzi il cui effetto è in grado
di polverizzare in pochi secondi qualsiasi massa ribelle. Il grande delitto po-
litico non è più diretto contro i rappresentanti personali o individuali dello

con il titolo Lenin buonanima (Firenze, Vallecchi, 1962)), dove riprende alcuni temi già
affrontati nella Tecnica.
168 Raoul Bruni

Stato, contro ministri, sovrani o esponenti di ordini sociali, ma contro ponti


ferroviari, antenne radio o depositi industriali276.

Lo studioso francese Emmanuel Mattiato, in un suo recente contributo ricco


di utili spunti, ha ipotizzato un’influenza diretta di Malaparte su Jünger, che avreb-
be avuto modo di leggere la Tecnica nella traduzione tedesca del 1932277. D’altra
parte però, Jünger andava elaborando da tempo le idee espresse in modo più or-
ganico nell’Operaio già negli scritti degli anni venti–trenta come La guerra come
esperienza interiore (1922) e La mobilitazione totale (1930), testi che presentano
a loro volta analogie con le tesi malapartiane. Al di là dei legami diretti, non sem-
pre facili da dimostrare, varrebbe assolutamente la pena approfondire il confron-
to tra questi due protagonisti del Novecento, indagando anche le loro non poche
consonanze ideali278.
Quanto al  nesso tecnica–rivoluzione, queste idee variamente declinate cir-
colavano ampiamente nella cultura del periodo tra le due guerre. Un precedente
importante è  rappresentato da  Carl Schmitt, il  quale, in  un suo libro del 1923,
Cattolicesimo romano e forma politica, richiamandosi a Marx, parlava della tecnica
come del «vero principio rivoluzionario»:

Intellettualismo e razionalismo non sono rivoluzionari in sé; lo è bensì


il pensiero esclusivamente tecnico, del tutto estraneo ad ogni tradizione so-
ciale. La macchina è priva di tradizione. Che sia la tecnica il vero principio
rivoluzionario, e che a suo paragone tutte le rivoluzioni fondate su principi
giusnaturalistici non siano che giochi arcaizzanti, è una delle feconde intui-
zioni sociologiche di Karl Marx279.

Malaparte aveva letto Carl Schmitt? Anche in questo caso è difficile da stabili-
re. Del resto, Marx era una fonte comune ad entrambi, e Malaparte, nel suo esor-
dio letterario Viva Caporetto! (1921), chiama in causa il filosofo di Treviri proprio
a proposito del trionfo della macchina, e quindi della tecnica:

(Marx) aveva veduto sorgere fabbriche, e fumare camini ed altri uomini


pallidi e tristi aggirarsi fra il roteare delle macchine, nel rombo delle officine;
276
Ernst Jünger, L’operaio. Dominio e forma, edizione italiana a cura di Qurino Principe,
Parma, Guada, 1991, p. 106.
277
Cfr. Emmanuel Mattiato, La guerra come laboratorio di scrittura malapartiana: dall’Eu-
ropa marcia di «Kaputt» alla rinascita della riflessione politica, in Viaggio fra i terremoti.
Malaparte e il giornalismo, Atti del Convegno, Prato, 12 dicembre 2008, Prato, Biblioteca
Comunale Lazzerini, 2009, in particolare, pp. 32–34.
278
Il nome di Jünger torna a più riprese anche nella biografia di Serra, Malaparte, cit. (cfr.,
in particolare, p. 178).
279
Carl Schmitt, Cattolicesimo romano e  forma politica, a cura di Carlo Galli, Milano,
Giuffré, 1986, pp. 56–57.
Il conflitto rivoluzionario nell’età della tecnica… 169

aveva veduto sorgere la  nuova civiltà dei nostri tempi e  osservati per pri-
mo, negli uomini, i segni della nuova malattia. Aveva capito che la macchina
avrebbe ucciso l’anima, la religione, la tradizione. Aveva capito che la macchi-
na avrebbe ucciso lo stato280.

In ogni caso, se Malaparte, come pensatore della tecnica, si inserisce senz’altro


in un filone filosofico europeo, nessun pensatore prima di lui aveva sviscerato così
a fondo la fenomenologia del moderno colpo di Stato, traendone ipotesi teoriche
così originali e ancora, per certi versi attuali. Si legge in un libro fortunato di un
filosofo italiano tra i più influenti dei nostri giorni, Emanuele Severino:

da tempo, la  forza vincente di  cui può disporre un  gruppo politico
(e un qualsiasi gruppo di potere, come l’impresa capitalistica) per realizzare
i propri scopi, è un prodotto della tecnica guidata dalla scienza moderna. La
tecnica è il mezzo di cui intende oggi servirsi ogni gruppo politico, dunque
anche le società democratiche del nostro tempo, per realizzare il proprio sco-
po281.

Certamente gli scenari storico–politici sono radicalmente mutali rispetto


ai tempi in cui Malaparte concepì e scrisse il suo pamphlet sui colpi di Stato, ep-
pure, nondimeno, come si vede, la sua diagnosi sull’estensione del dominio della
tecnica nell’ambito politico continua a essere attuale.
Un altro punto importante della riflessione malapartiana risiede nell’afferma-
zione dell’affinità di fondo tra bolscevismo e fascismo, una tesi che si sarebbe diffu-
sa solo molti decenni più tardi l’uscita della Tecnica. La marcia su Roma e la Rivo-
luzione d’Ottobre si basano sostanzialmente, secondo Malaparte, sulla medesima
tattica insurrezionale. Come la truppa d’assalto di Trockij, così anche le squadre
fasciste cercano innanzitutto di impadronirsi dei gangli tecnici della città:

Le camicie nere avevano occupato di sorpresa tutti i punti strategici della


città e della provincia, vale a dire gli organi vitali dell’organizzazione tecnica,
le officine del gas, le centrali elettriche, la direzione delle poste, le centrali dei
telefoni e dei telegrafi, i ponti, le stazioni ferroviarie (T, p. 202).

Il parallelismo con la Rivoluzione bolscevica è asserito esplicitamente da Ma-


laparte quando ricorda che, come «L’insurrezione bolscevica dell’ottobre 1917,
a Pietrogrado, si era effettuata quasi senza perdite» (T, p. 217), similmente, nel cor-
so del golpe mussoliniano non ci furono scontri particolarmente cruenti, se non
a Bologna e a Cremona (e tali eccezioni secondo Malaparte furono dovute a mal-

280
Curzio Malaparte, Viva Caporetto! La rivolta dei santi maledetti, a  cura di  Marino
Biondi, Firenze, Vallecchi, 1995, p. 54.
281
Emanuele Severino, Il destino della tecnica, Milano, Rizzoli, 2009, p. 87.
170 Raoul Bruni

funzionamenti tecnici)282. Iosif Brodskij, per demistificare l’immagine agiografica


della Rivoluzione russa, si serve di argomentazioni molto simili, tra l’altro, soste-
nendo, esattamente come Malaparte, la tesi della rivoluzione come golpe:

Quella che nei libri di storia è presentata come la Grande Rivoluzione


Socialista d’Ottobre non fu in realtà che un semplice golpe, e incruento per
giunta. Al segnale un colpo a salve sparato dal cannone di prua dell’incrocia-
tore Aurora un plotone delle neonate Guardie Rosse entrò nel Palazzo d’In-
verno e  arrestò un  pugno di  ministri del governo provvisorio che stavano
lì a perder tempo, a cercare vanamente di provvedere alla Russia dopo l’ab-
dicazione dello Zar. Le Guardie Rosse non incontrarono alcuna resistenza;
stuprarono metà del reparto femminile che sorvegliava il palazzo e ne sac-
cheggiarono le sale. Fu allora che due Guardie Rosse furono abbattute a fuci-
late e una annegò nelle cantine piene di vino. L‘unica sparatoria che mai ebbe
luogo sulla Piazza del Palazzo, con corpi che stramazzavano e i riflettori che
perlustravano il cielo, fu opera di Sergej Ejzenštejn283.

E certamente, anche Malaparte, puntando l’accento sul carattere non cruento


della presa del potere fascista, fornisce una rappresentazione della marcia su Roma
lontanissima dalle oleografie di regime che mostravano un improbabile «Mussoli-
ni romantico smarritosi in un paesaggio neoclassico» (T, p. 237).
La spregiudicatezza di Malaparte emerge inoltre nel sottolineare il background
marxista di Mussolini (a ulteriore riprova della sua percezione dello stretto legame
tra fascismo e bolscevismo): «La tattica seguita da Mussolini per impadronirsi del-
lo stato non poteva essere concepita e attuata che da un marxista. Non bisogna mai
dimenticare che l’educazione di Mussolini è un’educazione marxista»284. Del resto,
lo stesso Hitler, secondo Malaparte, si preparava a seguire l’esempio di Trockij:

Trotzki giungeva perfino a  considerare la  necessità d’istituire a  Mosca


una scuola per l’istruzione tecnica dei comunisti, destinati a inquadrare quel
corpo speciale in  ciascun paese. Questa idea è  stata ripresa recentemente

282
Cfr. T, pp. 206–207.
283
Iosif Brodskij, Fuga da Bisanzio, traduzione di Gilberto Forti, Milano, Adelphi, 1987,
pp. 63–64. Le consonanze con la tesi di Malaparte sono sorprendenti. Si ricordi che Ma-
laparte aveva ribadito il carattere golpistico e non cruento del momento di innesco della
Rivoluzione d’Ottobre anche in Lenin buonanima: «Trotzki non si è preoccupato di rove-
sciare il Governo: si è impadronito dello Stato. In quella situazione paradossale è il segreto
della tecnica insurrezionale di Trotzki. Le operazioni si sono svolte con una rapidità e una
regolarità sorprendenti. Nessun avvenimento sanguinoso marca la prima giornata dell’in-
surrezione: alcuni colpi di fucile soltanto, nel sobborgo di Putilov» (Curzio Malaparte,
Lenin buonanima, Firenze, Vallecchi, 1962, p. 318).
284
«La tattica seguita da Mussolini per impadronirsi dello Stato non poteva essere concepita
e attuata che da un marxista. Non bisogna mai dimenticare che l’educazione di Mussolini
è un’educazione marxista» (T, p. 227).
Il conflitto rivoluzionario nell’età della tecnica… 171

da Hitler, che sta organizzando a Monaco una scuola del genere, per l’istru-
zione delle sue truppe d’assalto (T, p. 180).

I catilinari di destra e quelli di sinistra sono dunque accomunati dalla medesi-


ma tecnica di sabotaggio.
Nell’età della tecnica la strategia rivoluzionaria subisce dunque, secondo Ma-
laparte, un’autentica mutazione genetica, e  i  rivoluzionari che non comprendo-
no questa mutazione rischiano di  fallire. D’altra parte, anche gli stessi difensori
dell’ordine costituito, rischiano, a loro volta, di venire travolti se continuano a di-
fendere il proprio stato con i tradizionali sistemi di polizia: se «L’arte di difendere
lo stato moderno è regolata dagli stessi princìpi che regolano l’arte di conquistarlo»
(T, p. 38), ne consegue che: «Le misure di polizia non servono a nulla contro i col-
pi di mano» (T, p. 155). Per questo ad esempio, Kerenskij era destinato ad essere
sconfitto dai bolscevichi: «La tecnica del colpo di Stato ha fatto considerevoli pro-
gressi da Silla in poi: ed è chiaro, perciò, che i provvedimenti adottati da Kerenski
per impedire a Lenin d’impadronirsi del potere avrebbero dovuto essere logica-
mente assai diversi da quelli adottati da Cicerone per difender la Repubblica dalla
sedizione di Catilina. Quello che in altri tempi era un problema di polizia è oggi
divenuto un problema di tecnica» (T, p. 65). Chi intende difendere lo stato dovrà
quindi adoperare sostanzialmente gli stessi mezzi che gli eversori utilizzano per
rovesciarlo. Si potrebbe aggiungere che i  mezzi, e  in particolare la  tecnica, non
sono mai neutri (è questo l’insegnamento essenziale che si ricava dalla riflessione
filosofica novecentesca sulla questione della tecnica) e che quindi l’utilizzo di tali
mezzi espone a  rischi notevoli, anche se  il fine, machiavellicamente285, è  quello
di proteggere lo stato. Nell’età contemporanea, non di rado, infatti, a riprova della
fondatezza dell’intuizione malapartiana, i  metodi degli Stati democratici hanno
assunto forme non troppo dissimili da quelle tipiche degli eversori.
Dinanzi alla Tecnica del colpo di Stato, parecchi si sono chiesti se Malaparte
parteggi per i difensori dello stato o per i suoi sovvertitori. In realtà, a ben osser-
vare, non mi sembra questa la domanda più corretta da porsi, anche perché è pro-

Benché Malaparte prenda le distanze dall’ingombrante modello del Principe, fin dall’incipit
285

del suo pamphlet («non si può dire che questo libro voglia essere un’imitazione del Principe
di Machiavelli, sia pure un’imitazione moderna», (T, p. 35)), è impossibile negare l’inciden-
za della scrittura politica di Machiavelli sulla Tecnica. Come ha scritto Laura Mitarotondo:
«Nell’intenzione di indagare la natura del colpo di Stato, inteso come azione rivoluzionaria,
ma anche come tecnica per la difesa dello Stato è ravvisabile l’intento classificatorio proprio
di  Machiavelli, perseguito attravero un’analoga trattazione scientifica» (Laura Mitaro-
tondo, «Il Principe» fra il «Preludio» di Mussolini e le letture del “ventennio”, in Machiavelli
nella storiografia e nel pensiero politico del XX secolo, Atti del Convegno di Milano, 16 e 17
maggio 2003, a cura di Luigi Marco Bassani e Corrado Vivanti, Milano, Giuffré, 2006,
p. 74; al di là del cenno presente in questo e in altri contributi, l’influsso di Machiavelli
su Malaparte meriterebbe un approfondimento più specifico).
172 Raoul Bruni

prio la fredda e “scientifica” neutralità da cronista che distanzia l’autore dalle parti
in conflitto a garantire l’attendibilità delle sue riflessioni.
Troppo spesso Malaparte è stato ridotto, come scrittore politico, a una parte,
a  una fazione, o, ancor più banalmente, a  un’etichetta. Non che l’autore pratese
non fosse stato direttamente coinvolto nelle contese politiche del suo tempo (anzi,
come si sa, ne fu coinvolto, e più clamorosamente di altri), ma, nel rileggerlo e nel
ristudiarlo oggi, varrebbe forse la pena di riconsiderare il suo pensiero al di là dei
coinvolgimenti personali nelle varie contingenze storiche. Letto in questo modo,
l’autore mostra ancora una notevole attualità, anche e soprattutto come scrittore
politico. Basti pensare all’allarme lanciato a  proposito della estrema labilità del-
le democrazie: «L’errore delle democrazie parlamentari è l’eccessiva fiducia nelle
conquiste della libertà, di cui niente è più fragile nell’Europa moderna» (T, p. 115).
Malaparte ritiene addirittura che il prograssivo diffondersi della democrazia non
solo non allontani la minaccia di colpi di Stato, ma addirittura ne aumento le pos-
sibilità di insorgenza: «L’importanza raggiunta dal parlamentarismo nelle demo-
crazie favorisce, senza dubbio, le possibilità di un colpo di Stato bonapartista: con
la progressiva parlamentarizzazione della vita moderna, il terreno particolarmen-
te favorevole all’applicazione della tattica del 18 brumaio si è venuto allargando»
(T, p. 113). La storia contemporanea sembra confermare questa tesi.
Il conflitto dentro il conflitto,
la tragedia cosacca durante la Seconda Guerra mondiale
in un confronto letterario italo–polacco
Luca Palmarini
Uniwersytet Jagielloński, Kraków

Un breve inquadramento storico

Nella Storia ci sono tragedie che restano nella viva memoria, e altre che invece
cadono nell’oblio, che vengono, forse volutamente, dimenticate. È questo il caso
della triste storia dell’armata cosacca che decise, non senza qualche riluttanza,
di  combattere al  fianco dei nazisti, credendo in  un’anacronistica Russia bianca.
Un episodio semisconosciuto, riportato in letteratura da Claudio Magris e Carlo
Sgorlon in Italia e da Józef Mackiewicz in Polonia. In questi romanzi si ha la con-
ferma che, come spesso accade, la letteratura non è in conflitto con la storia, bensì
le viene incontro, ricoprendo il ruolo di memoria genetica del genere umano.
Nel 1944, pochi mesi dopo la caduta di Mussolini e del fascismo, la Carnia,
regione del Friuli settentrionale, vive un breve periodo con lo status di ‘zona li-
bera della Carnia’286, per poi venire occupata dai nazisti che a loro volta decido-
no di  mandarvi i  cosacchi loro alleati, rimasti legati al  sistema zarista e  in fuga
dall’Unione Sovietica, contro cui vogliono combattere. Si tratta di uno spostamen-
to di massa a cui partecipa un intero popolo, il quale si trasferì con famiglie, carri
e bestiame. I cosacchi rappresentano in quel momento un conflitto interiore di un
popolo alla ricerca di una patria dopo aver perso la propria, proprio mentre l’inte-
ra Europa è sconvolta dal conflitto mondiale. Proprio in seguito a questa decisione
di non accettare il nuovo ordine, essi in Carnia si abbandonano a scorrerie e vio-
lenze di ogni tipo per poi finire loro stessi ingannati e sterminati. Su questa vicenda
per molti anni è stato scritto poco. Proprio i romanzi di Claudio Magris e Carlo

Francesco Vuga, La Zona Libera di Carnia e l’occupazione cosacca (luglio–ottobre 1944),


286

Udine, Del Bianco, 1961, pp. 61 e 67.


174 Luca Palmarini

Sgorlon, messi qui a  confronto, stimoleranno in  Italia alcune ricerche in  ambi-
to storico. Proprio in conseguenza di ciò, negli anni successivi usciranno alcune
opere a riguardo287. Il destino dei cosacchi alla ricerca della patria si concluderà
in modo tragico: dopo la liberazione del Friuli scapperanno verso l’Austria, dove
si arrenderanno agli inglesi con la promessa di non venire consegnati ai sovietici.
Questa promessa non verrà mantenuta e i cosacchi verrano portati in Unione So-
vietica, dove verranno giustiziati come traditori.

Illazioni su una sciabola

Il triste destino dei cosacchi viene qui visto in un breve confornto da tra opere
letterarie, due italiane e una polacca. La prima delle opere in questione è firmata
da Claudio Magris288, e costituisce il romanzo di esordio dell’autore triestino. Il ro-
manzo è basato sulla figura del generale Krasnov che sarebbe arrivato in Carnia
nel febbraio dello stesso 1944289. Una figura che avrebbe galvanizzato il morale dei
cosacchi impegnati nella lotta contro i  partigiani. L’opera di  Magris comunque,
non racconta nulla di ciò: ci si trova già dopo la guerra, ma non si riportano molti
fatti storici, bensì racconti, e per giunta non sempre nitidi.
Il tema classico del ricordo, della memoria attraversa l’intera rievocazione,
all’inizio si  presenta come una sorta di  gioco che coinvolge il  narratore, il  qua-
le graduatamente si  appassiona ai  fatti, successivamente vi  entra dentro, decide
di  compiere ricerche per approfondire, incontrare personaggi e  testimoni, fino
ad affermare che quella vicenda è lo specchio della sua esistenza. Memoria di un
uomo anziano, memoria annebbiata, vicina alla leggenda, dove quest’ultima
si pone in conflitto alla Storia non fornendo nessuna certezza. “Illazioni”, appunto,
quelle di chi racconta che non può far altro che immaginare. A queste congetture
conflittuali accenna Pireddu:

Here the notion of  ‘illazioni’ (arbitrary suppositions) applies not only
to the multiple and conflicting conjectures about the half–buried sabre next
to the alleged body of the Cossack leader Krasnov, but also more extensive-
ly to  the speculative conceptualization of  individual and collective identity

287
Oltre a Vuga, si possono citare: Pier Arrigo Carnier, L’Armata cosacca in Italia, Milano,
Mursia, 1990,
Gregorio Venir, Cosacchi in  Carnia, Comune di  Pasian di  Prato (UD), 1999, Leonardo
Zanier, Carnia Kosakenland – Kazackaja Zemlja (Racconti di ragazzi in guerra), Udine,
Ed. Mittelcultura, 1996.
288
Claudio Magris, Illazioni su una sciabola, Pordenone, Garzanti–Studio tesi, 1984.
289
Pier Arrigo Carnier, L’Armata cosacca in Italia, Milano, Mursia, 1990, p. 95.
Il conflitto dentro il conflitto, la tragedia cosacca durante… 175

alike, from a  private home to  a  people’s national homeland or  nationalis-
tic Heimat290.

L’opera di Magris gioca quindi su un conflitto tra i fatti avvenuti realmente,
di cui non si ha assoluta certezza, e le supposizioni, “le illazioni” appunto, del sa-
cerdote che le racconta. Magris convince sé stesso e il lettore che non ci sono ricer-
che da fare per cercare la verità, resta solo l’invenzione, le illazioni. Magris sembra
non rimanere indifferente alla lezione di Borges. Tutto ha comunque inizio dalla
sciabola ritrovata, non è quella di Krasnov ma assurge a esserlo, deve esserlo:

Un’elsa bruna e ricurva, finemente intarsiata, che sembra suggerire la so-


litudine: promessa di  gloria e  sigillo di  vanità, breve illusione di  sicurezza
e  di sostegno per la  mano che la  stringe e  crede di  sentirsi meno sola nel
fluttuare delle cose. La terra ha restituito quell’elsa, non la lama: un’arma che
non può più colpire, stendardo senza reggimento o cavallo senza cavaliere.
Quell’elsa, nella fotografia, ha qualcosa di impavido, un gesto magniloquente
di sfida, che minaccia ciò che non potrebbe mai porre in atto. Un gesto fal-
so, ma ostentato con coraggio autentico. Anche l’elsa è falsa, non appartiene
a Krasnov291.

Non si tratta di una menzogna nascosta, bensì visibile e in netto contrasto con
la realtà, ma Magris e il lettore stesso vogliono credere alla menzogna, nonostante
essa sia visibilmente in conflitto con i fatti veritieri: «La menzogna è altrettanto
reale quanto la verità, agisce sul mondo, lo trasforma, è davanti a noi, la possiamo
vedere e toccare, fungo velenoso che non è perciò meno reale di quelli mangerec-
ci…»292.
Il racconto si  focalizza sulla figura del generale Krasnov, sulla sua presenza
in  quell’illusoria patria, sulla sua figura di  uomo sconfitto due volte: prima dai
bolscevichi e poi dal nuovo corso degli eventi. Un altro conflitto, dunque; un uomo
vinto dalla storia assurge a  voler essere vincitore. Una situazione di  un’enorme
complessità morale, in quanto da una parte si pone il desiderio fondamentalmente
legittimo di avere una patria, dall’altro l’alleanza con il diavolo nazista. Tutto si ca-
povolge in un conflitto tra verità e falso: i cosacchi hanno il diritto a una patria
ma  finiscono per rubarla. Non vi  è  tra l’atro nulla di  più artificioso di  una pa-
tria cosacca nelle Dolomiti orientali. I cosacchi contraddicono anche il loro ideale
di popolo nomade: “The pre–dominance of transience − the homeland constantly
displaced on the map − finds its ultimate material correlative in the tent, described
as  Krasnov’s most authentic homeland and state because, as  a  temporary dwel-

290
Nicoletta Pireddu, On the threshold, always homeward bound: Claudio Magris’s Europe-
an, in «Journal of European Studies», 42/4 (2012), p. 335.
291
Magris, Illazioni, cit., p. 22.
292
Ivi, p. 39.
176 Luca Palmarini

ling literally and metaphorically without foundations, it embodies the nomadism


to which the rootless Krasnov aspires”293.
L’incontro col misterioso ufficiale è fondamentale: il sacerdote vuole credere
che quell’uomo fosse il famoso comandante Krasnov, il generale bianco, scrittore
di romanzi storici. Proprio da questa convinzione prende il via tutta la storia e su
di essa si regge tutto il romanzo, il sottile confine tra equivoco e inganno si pone
in conflitto con i fatti storici, ma mano a mano che la storia si sviluppa, la linea
di demarcazione si fa sempre più labile. Prende così il via la ricostruzione di un
fatto storico tutto giocato sull’equivoco e sull’inganno, una vera beffa della storia
ai danni dei cosacchi. Krasnov in realtà era una pedina, s’illudeva di comandare,
fingeva di non sapere quale corso la storia stesse prendendo, si rifiutava di vederlo.
La figura fisica di questo personaggio, di parenza aristocratica, ordinato e fanatico
della disciplina, contrasta con la sua illusione di essere ancora artefice del proprio
destino, con il suo essere incapace di comprendere la realtà dei fatti. Il conflitto
maggiore lo si osserva nella credenza di Krasnov di difendere una ormai scompar-
sa Russia bianca che per lui rappresentava l’ordine, mentre la sua armata imperso-
nifica l’esatto contrario, ovvero il caos. I cosacchi nell’opera di Magris rappresen-
tano un chiaro contrasto, in quanto, alla fine, verranno soverchiati dal potere, che
non accetta alcuna diversità, fantasia e avventura. Lo stesso potere che Krasnov
voleva rappresentare, ma che lo ha portato a collocarsi fuori dalla storia per con-
dannare sé stesso e il suo popolo. Lo storico conflitto tra vittima e carnefice arriva
qui a essere impalpabile e «logora ciò che vi è di più nobile in noi e fa di ogni pec-
catore anzitutto una vittima, un ingannato»294. Krasnov è in conflitto con il mondo
intero e il suo errore più grande è quello di non accettare che il mondo sia cambia-
to, di essere arrivato al tramonto.

Mi domando solo, qualche volta, se Krasnov, in quel colloquio con Vla-


sov, pochi giorni prima della caduta, non abbia intuito che anch’egli, come
l’altro, avrebbe dovuto togliersi gradi e spalline, spogliarsi delle insegne della
sue presunta gloria e morire in grigio dopo tanto svariare di colori295.

I suoi cosacchi sono parte di un passato nebuloso, reso lontano dal nuovo or-
dine, pur essendone consapevoli non riescono ad accettarlo e preferiscono morire.
Molti personaggi nell’opera intervengono a definire la figura di Krasnov, ormai
simbolo del nulla, e il popolo che lo segue, un popolo di vittime, non innocenti,
ma pur sempre vittime, raggirate dalla Storia: «Tutta quest’avventura è una mar-
cia all’indietro, verso il  niente, e  attraverso le  quinte di  cartapesta che coprono

293
Pireddu, On the threshold, cit., p. 336.
294
Magris, Illazioni, cit., p. 43.
295
Ivi, pp. 83–84.
Il conflitto dentro il conflitto, la tragedia cosacca durante… 177

il niente, un continuo ritorno sui propri passi»296. I cosacchi condividono lo stesso


destino del loro capo, copevoli e innocenti allo stesso tempo, annullando il metro
di giudizio utilizzato nei momenti tragici del genere umano.
Forse il debutto di Magris non fu memorabile (la consacrazione invece avven-
ne successivamente con Danubio), in quanto questa sua volontà di farsi testimone
romanzesco di un personaggio non riuscì a lievitare nella sublimazione fantastica
dei fatti297. Resta certo che le sue congetture si sono poste in conflitto con una non
confermata versione precedente e  hanno dato il  via a  molte successive ricerche
e opere a riguardo.

I cosacchi nel Friuli di Sgorlon.

L’armata dei fiumi perduti298 è  il secondo romanzo italiano sull’occupazione


cosacca della Carnia. Si tratta di un romanzo storico scritto da Carlo Sgorlon nel
1985 e  che gli è  valso il  premio Strega. La tragedia della Carnia viene qui vista
da una piccola comunità locale, ma Sgorlon non si preoccupa di fornire un quadro
storico della situazione. Magni299 afferma che Sgorlon menziona solo una volta
la “Zona Libera”300 e lo fa senza fornire dettagli. Si tratta dell’unico vero dato che
informa il lettore su dove si svolge l’azione. Sgorlon non si addentra nello sviluppo
del conflitto, bensì si interessa delle sorti dei conflitti dei singoli, facendo intuire
che in  realtà tali attriti esistono finché non si  conosce l’altro. Lo stesso Sgorlon
tiene a precisare che il romanzo si presenta come un’unione tra storia e fantasia,
che viene costruito sulla scia di alcuni ricordi e che in buona parte è basato su un
sentimento di pietà verso quegli invasori che egli non esita a definire ‘strani’.
I cosacchi arrivano in Friuli e sia loro che i friuliani vogliono illudersi che non
esista un conflitto di culture. Immaginano di vivere «dentro casa, un luogo sepa-
rato dal mondo, come in una nave senza ormeggi che scivolasse su un mare privo
di variazioni e di tempeste»301. Il romanzo viene sviluppato da Sgorlon su due temi,
il primo sociale, l’altro più intimo. Il primo testo presenta il vivere in modo collet-
tivo dei villaggi di allora in quel momento specifico, mentre nel secondo vengono
sviluppati i rapporti familiari e sentimentali. Tutto ciò avviene mentre sullo sfondo
si percepisce la tragedia di due popoli che gli eventi vogliono mettere in conflitto
l’uno contro l’altro, in quanto il primo è alla ricerca di una patria, mentre il se-
296
Ivi, p. 40.
297
Enzo Golino, Sottotiro, 48 stroncature, Lecce, Manni, 2002, p. 185.
298
Carlo Sgorlon, L’armata dei fiumi perduti, Milano, Mondadori, 1983.
299
Stefano Magni, Carlo Sgorlon: Ideologia e  guerra, in  «Cahieres d’études italiennnes»,
3/2005, p. 236.
300
Sgorlon, L’armata, cit., p. 38.
301
Ivi, p. 54.
178 Luca Palmarini

condo invece deve lottare per conservarla. Lo scrittore si pone subito in contrasto
rispetto agli scrittori dello stesso periodo: «Sgorlon intraprende un percorso che
Benussi ha definito ‘di tipo epico–contadino’, in vista di un ritorno alla terra dietro
cui si  cela (...), metaforicamente, il  desiderio di  una reimmersione nelle origini
e in una dimensione premoderna della società friulana, di cui egli si sente can-
tore.»302. Si tratta di una sorta di rimitizzazione del territorio che darà ad alcune
opere di Sgorlon l’appellativo di «ciclo epico friuliano»303.
Un punto di contrasto rispetto al classico romanzo di guerra è la rappresen-
tazione dei partigiani. Coloro che la storia ha fatto protagonisti ed eroi, nell’opera
di Sgorlon costituiscono invece un elemento estraneo alla vita popolare, gli abitan-
ti dei villaggi carnici conoscono da lontano questa realtà sommersa, «come se si
trattasse di un misterioso oggetto lontano e segreto»304. L’unica a saperne qualcosa
è Marta, uno dei personaggi principali della storia. La trasfigurazione dei partigia-
ni pone queste figure in contrasto con i villaggi in cui avvengono i fatti. I partigia-
ni sono identificati con la foresta, sono quindi indefiniti, inafferrabili, non hanno
quasi una forma. Il contrasto tra la resistenza e i normali abitanti del villaggio avrà
termine solo alla fine della guerra, quando la frattura tra essere combattente e ci-
vile verrà ricomposta305. Solo allora i partigiani abbandoneranno i loro nomi vaghi
e mostreranno il loro volto, tornando a essere delle persone normali.
Il romanzo si pone in conflitto con la tradizione, in quanto la figura centrale
dell’opera sono invece i cosacchi, la narrazione si sviluppa infatti secondo il loro
punto di vista. Essi sono rappresentati da Sgorlon come una figura, quasi estrapo-
lata dal mito letterario russo:

Al corpo indefinito, ineffabile, del partigiano si  oppone invece quello


glorioso del cosacco, visto non con gli occhi dell’italiano occupato, ma con
quelli epici della letteratura russa che ne ha osannato le doti di cavaliere e di
guerriero. Il cosacco è atletico, danza e combatte, ma in ciò si riflette l’irre-
altà della fonte letteraria, del mito che Sgorlon, scrittore di  miti, raccoglie
da altri testi. Nei due estremi di assenza fisica da un lato e presenza gagliarda
dall’altro, si legge in ogni caso la mancanza di realtà sanguigna, si riconosce
la convenzione letteraria della finzione 306.

302
Ilaria Puggioni, La riscoperta dell’epica: mito e confine nella narrativa di CarloSgorlon, in:
La letteratura degli italiani, rotte, confini, passaggi, Associazione degli italianisti, XIV con-
gresso nazionale, Genova, 15–18 settembre 2012 http://www.italianisti.it/upload/userfiles/
files/Puggioni%20Ilaria_1.pdf, p. 2.
303
Bruno Maier, Carlo Sgorlon, Firenze, La Nuova Italia, 1984, p. 13.
304
Magni, Carlo Sgorlon, cit., p. 235–251, citato p. 236.
305
Ivi, p. 238.
306
Ibid.
Il conflitto dentro il conflitto, la tragedia cosacca durante… 179

Sgorlon probabilmente attinge al ricordo di qualche abitante della Carnia che


nonostante tutto aveva stretto amicizia con alcuni cosacchi e ne serbava un ricor-
do di amicizia. Ciò chiaramente edulcora il ruolo dei cosacchi, ma in parte falsa
la storia, omettendo particolari storici non da poco, come le angherie e le violenze
perpetrate dai cosacchi a  discapito della popolazione locale. Inoltre il  ruolo dei
partigiani viene qui drasticamente ridimensionato a svantaggio della verità stori-
ca. L’interesse di Sgorlon si rivela puramente umano e ciò pone il libro in conflit-
to con l’obiettività storica. Invasori e invasi, posti l’uno contro l’altro dalla Storia,
si trovano qui avvicinati da un destino praticamente identico:

Nella sua voce entrò qualcosa di  cupo e  di sordo, come se  d’un tratto
gli fosse caduta addosso la sua condizione di uomo solo, con la famiglia di-
strutta, che si trovava alla testa del presidio di un popolo senza speranza. Nei
momenti liberi si aggirava attorno a Marta come un cane sperduto attorno
a un casolare. Una volta le disse: – Il Friuli e la Steppa si somigliano almeno
in una cosa. – Ossia?– Nei nostri cimiteri sono seppelliti molti italiani, e nei
vostri molti cosacchi. Una specie di gemellaggio nella morte307.

Sgorlon sembra, in  questo come in  altri romanzi, non riuscire facilmente
a rendere l’introspezione del personaggio maschile, ma invece rivela una grande
abilità nel proporre complesse figure femminili. Nel romanzo di Sgorlon infatti,
la figura centrale non è un cosacco, ma Marta. La figura femminile è sempre pre-
sente in Sgorlon e si ripresenta in ogni romanzo, con lievi cambiamenti, facendo
intuire che si tratti dello stesso personaggio, ovvero lo scrittore stesso trasfigurato
in un’anima femminile. Marta rappresenta una gran madre, una figura in grado
di creare convivenza in questo conflitto di culture:

Era una donna semplice, perfino elementare, che attorno a sé, come sem-
pre, non riusciva a vedere se non uomini, soltanto uomini, tutti simili tra loro,
che parlavano lingue diverse, che avevano in mente cose differenti, ma erano
tutti tartassati dalla guerra e dalle sventure, tutti dispersi nel disordine e nel
buio del mondo308.

Spesso Sgorlon incentra tutta la visione del popolo cosacco in Ghirei che viene
divorato dal conflitto interiore di uomo consapevole del prorpio destino, ma che
non vuole comunque rinuciare ai vecchi anacronistici ideali. Magni309 paragona
Ghieri a un novello Giovanni Drogo che si trova di fronte al deserto dei tartari, che
aspetta un nemico invisibile e una battaglia che non arriverà mai.

307
Sgorlon, L’armata, cit., p. 103.
308
Ivi, p. 121.
309
Magni, Carlo Sgorlon, cit., p. 237.
180 Luca Palmarini

Lo stile di Sgorlon si presenta assai trattenuto, confermando un’erudizione che


mai si presenta sfarzosa. La sua ostinazione a essere legato alla storia recente e alla
cultura del suo popolo può essere considerata il  suo limite più grande, oppure
il motivo principale per cui Sgorlon andrebbe letto con grande interesse. L’alone
è di leggenda, quasi a voler rispettare i canoni del romanzo storico dell’Ottocento,
mentre la prosa è calma, calcolata e senza eccessi. Il triste destino del popolo co-
sacco sembra qui essere ovattato nel tempo e nello spazio, il lettore non viene reso
consapevole del tragico finale a cui andrà incontro questo strano popolo. Si occupa
invece di trasfigurare i cosacchi come se fossero leggenda già del momento in cui
essi arrivarono in Carnia. Insomma, un triste presagio. Sgorlon comunque sembra
aver appreso la matrice vichiana310, in cui tutte le storie si ripetono e i cui protago-
nisti vanno oltre il senso di appartenenza a una patria scoprendo di far parte di un
crogiolo di culture differenti le quali alla fine interagiscono tra loro, annullando
l’iniziale conflitto culturale.

I cosacchi visti da un polacco

Il terzo dei tre romanzi proposti in  cui si  cerca di  analizzare il  conflitto nel
conflitto si intitola Kontra311 ed è opera di Józef Mackiewicz312, uno dei più con-
troversi autori polacchi del XX secolo. La tragedia cosacca viene qui vista in modo
differente, tramite la storia di una famiglia che rappresenta il destino di un popolo
intero, dal periodo zarista allo sterminio messo in atto dai sovietici. L’opera attra-
versa due guerre mondali e mette a confronto due totalitarismi, narrando quindi
in  scala più ampia le  vicende dei cosacchi, e  non limitandosi a  un episodio av-
venuto solo in una regione, ma compiendo un excursus del loro cammino verso
la tragedia finale.
Nello scrittore polacco appare netto il conflitto tra il vecchio e il nuovo ordine,
dove la  Russia zarista viene fortemente idealizzata, e  che, sebbene lungi dall’es-
sere un  mondo ideale, è  di sicuro migliore della sua erede, l’Unione Sovietica.
Mackiewicz accentua il contrasto tra la situazione iniziale di calma del villaggio
cosacco e i successivi eventi catastrofici, descrivendo accuratamente la prima per
preparare il lettore alla seconda. Tutto il romanzo si basa sulla concezione delle due
interpretazioni della verità, fatto introdotto proprio dalla frase di esordio: «Są dwie

310
Puggioni, La riscoperta dell’epica, cit., p. 3.
311
Józef Mackiewicz, Kontra, Londra, Nina Karsow, anni 80.
312
Józef Mackiewicz fu uno scrittore fortemente anticomunista costretto all’emigrazione. Fu,
tra l’altro, autore del primo reportage sul massacro di Katyń, invitato sul posto dai tedeschi
dopo che questi ultimi avevano scoperto una fossa comune con i corpi degli ufficiali polac-
chi trucidati dai sovietici.
Il conflitto dentro il conflitto, la tragedia cosacca durante… 181

prawdy na Świecie»313 e che porta il cittadino (allora) sovietico a una sorta di con-
flitto interiore. Da una parte si trova la verità obiettiva e dall’altra quella ufficiale.
Spesso la problematica sociale in grande scala viene resa da Mackiewicz attra-
verso un singolo protagonista314. La vita di una persona è nello stesso tempo cosmo
e storia315. Nel giovane Mitja, personaggio centrale della famiglia polacca, vengono
presentati dall’autore i cambiamenti psichici che il sistema sovietico ha realizzato,
inculcando a forza la dottrina comunista nei singoli individui. Il mostruoso siste-
ma sovietico ha, secondo Mackiewicz, creato un “Homo Sovieticus” che sembra
diventare indifferente a tutto:

Mitia wyszedł w lipcu, w marynarce narzuconej na ramiona, z drewnia-


nym kuferkiem w ręku, z jakim kiedyś podążali do wojska wiejscy rekruci. Gdy
przy okienku kasy stacyjnej podszedł doń służbowy z GPU i zapytał: „A ty do-
kąd?” Odpowiedział obojętnie:– Do Bobrików. –Pokaż dokumenty. Pokazał
obojętnie.–Po co  tam?–Na służbę wysyłają – odparł obojętnie. – No, waliaj!
Kiwnął głową obojętnie. Wiedział, że tak trzeba, że taki jest porządek316.

L’indifferenza resa dalla ripetizione del termine stesso, ma  anche dallo stile
delle risposte, si pone in conflitto con l’aggressività del sistema sovietico, ma essa
è in realtà il risultato dell’applicazione dell’indottrinamento. Essa è dettata dall’e-
sigenza stessa della sopravvivenza che si pone in conflitto con il sistema sovieti-
co: la menzogna. Bisogna mentire, spesso anche con i propri cari, bisogna trovare
una ‘seconda verità’ da presentare al mostro sovietico e con la quale si garantisce
la continuazione della propria singola esistenza.
Mitia resta comunque uno strano protagonista per tutta l’opera: nonostante
la situazione, egli non è rinunciatario e passivo, non accetta pienamente l’annul-
lamento della singola esistenza che impone il  sistema sovietico, ma  cova invece
un desiderio di indipendenza, comune allo spirito cosacco. Si tratta quindi di un
personaggio dotato di una grande forza di spirito. La sua figura si pone in conflitto
a quella sbiadita di Krasnov, riflesso sbiadito di un mondo che non esiste più e in

313
«Ci sono due verità al mondo» (Trad. Mia). Mackiewicz, Kontra, cit., p. 1.
314
Waldemar Jakubowski, Kontra Józefa Mackiewicza. O  postaciach i  technikach
powieściowych, in «Archiwum emigracji», quaderni 5/6, 2002/2003, p. 233.
315
Wojciech Chudy, Józefa Mackiewicza filozofia człowieka in «Archiwum emigracji», qua-
derni 5/6, 2002/2003, p. 171.
316
Mackiewicz, Kontra, cit., p. 37. «Mitia uscì in luglio con una giacca di tipo classico sulle
spalle, con una scatolina in legno tra le mani,come quelle con cui si recano al servizio militare
le reclute della campagna. In quel momento dallo sportello della cassa della stazione passò
l’addetto del GPU che chiese: ‘E tu, dove vai?” . Egli rispose: “a Bobryki. – Mostrami i docu-
menti. Li mostrò con indifferenza. –Perché ci vai? Mi mandano a fare il servizio militare –
rispose ancor più indifferente. – E allora va’! Scosse la testa con un che di indifferente. Sapeva
che bisognava fare così, che questo era l’ordine delle cose.» (Trad. Mia).
182 Luca Palmarini

un certo qual modo simbolo della vittoria del sistema sovietico. Mitia invece di-
mostra che la partita non è ancora chiusa che l’annichilimento dell’essere umano
non è stato ancora portato completamente a termine. C’è ancora una flebile spe-
ranza. L’autore, al contrario di Sgorlon, non vede i cosacchi come delle figure mi-
tiche, ma, caratteristica della sua opera, tende a farli entrare nella sua concezione
di demitizzazione dei Kresy317.
Quello che appare inconsueto da  parte di  Mackiewicz in  questo romanzo
è proprio l’essere uscito dal suo mondo letterario, ovvero i Kresy, che in certo qual
modo possono ricordare una terra di confine, una “marca”, come il Friuli vissuto
da Sgorlon e quello visto da Magris. Mackiewicz non vuole limitare la tragedia co-
sacca al singolo episodio dell’occupazione del Friuli, ma al contrario dei precedenti
autori analizza le cause degli eventi partendo dai cambiamenti radicali apportati
dall’apparato politico–burocratico–militare sovietico. Il trasferimento dei cosacchi
in Friuli resta assai marginale nella sua opera.

Conclusioni

Il triste epilogo della storia dei cosacchi, tragedia di un intero popolo, un con-
flitto dentro un  altro conflitto, nasconde altri contrasti all’interno delle singole
storie. Tutti e tre gli autori si pongono in contrasto rispetto al cliché classico del
romanzo. Probabilmente non è merito solo di queste singole opere, bensì si tratta
di caratteristiche di tutta la produzione dei tre autori, ma ciò non toglie che il rac-
conto di questi fatti tramite il romanzo abbia invogliato altri alla ricerca di fatti sto-
rici e abbia portato alla luce accadimenti forse volutamente tralasciati dalla Storia
che, come spesso accade, viene scritta dai solo dai vincitori. Tutto ciò che muove
l’azione è sempre e comunque il conflitto interiore dei protagonisti verso i continui
cambiamenti in atto. Un conflitto che, quando gli uomini conoscono altri uomini
in modo introspettivo, spesso cessa di esistere.

317
I Kresy (tradotto liberamente sarebbe una sorta di “marca orientale”) sono i territori polac-
chi orientali perduti per sempre dalla Polonia dopo l’invasione sovietica del 1939. I polacchi
in cambio ricevettero i territori sottratti ai tedeschi. Di queste terre rimane la storia e il mito.
Sistema globale come conflitto nella narrativa
di Giuseppe Culicchia
Małgorzata Puto
Uniwersytet Śląski w Katowicach

La frontiera non è uno sbarramento: è un passaggio che


permette di comprendere le contraddizioni
che colpiscono la storia contemporanea318

Parlare del sistema globale, significa parlare del mondo senza frontiere, del
mondo che è caratterizzato da una mobilità eccessiva, surmoderna319, da una co-
municazione istantanea e da una circolazione di prodotti, immagini ed informa-
zioni320. La suddivisione dello spazio, così evidente nel passato321, sembra cancellata
a favore di una continuità rappresentata da una globalità che dovrebbe permette-
re a  esseri umani, beni, messaggi di  circolare senza limiti322. Le apparenze della
mondializzazione di cui fa parte il sistema globale323 nascondono però le nuove
frontiere in cui si addensano le problematiche culturali sottoposte all’indagine an-

318
Marc Augé, Per una antropologia della mobilità, Milano, Jaca Book, 2015, copertina.
319
Augé usa il termine surmoderno in cui il prefisso sur viene inteso nel senso dell’inglese over,
ossia quello che indica la sovrabbondanza di cause che complica l’analisi degli effetti.
320
Ivi, p. 9.
321
La concezione antica della città prevedeva una disciplinata organizzazione dello spazio,
il  confine che separava il  centro che rimaneva sempre simbolico e  rifletteva un’identità
sociale, e  la periferia, distante dal centro, erano in  rapporto conflittuale il  che spingeva
alla vitalità. La suddivisione dello spazio persiste anche nella fase pre–moderna ed è basata
sulla separazione delle funzioni del centro e della periferia. Per l’approfondimento si rinvia
a Davide Bazzini–Matteo Puttilli, Il senso delle periferie. Un approccio relazionale alla
rigenerazione urbana, Milano, Elèuthera, 2008, p. 23.
322
Queste caratteristiche rinviano all’immagine di una meta–città virtuale descritta in Paul
Virilio, Bomba informatica, Milano, Cortina, 2000.
323
Augé definisce ed  approfondisce il  concetto di  mondializzazione: Marc Augé, Per una
antropologia…, cit., pp. 17–18.
184 Małgorzata Puto

tropologica. Occorre dunque ripensare il concetto della frontiera, che costituisce


una realtà da una parte negata alla compiutezza del mondo globalizzato, dall’altra
riaffermata sotto un’altra veste. Facendo ricorso alla definizione del sistema globale
proposto da  Paul Virilio324, che ribadisce le  sue principali caratteristiche: esten-
sione, libertà, coscienza planetaria, parametri spaziali, ma anche quelli economi-
ci e  politici si  evidenzia una fondamentale situazione contraria, l ’o p p o s i z i o -
n e t r a g l o b a l e e   l o c a l e . Il globale costituisce il sistema appena menzionato,
il sistema in rete, a cui non ha accesso un gran numero di persone e considerato
dal suo punto di vista il locale diventa l’esterno, situato fuori della rete dunque nel
mondo globalizzato i l   g l o b a l e s i   c o n t r a p p o n e a l   l o c a l e c o m e l ’ i n -
t e r n o a l l ’e s t e r n o .
La narrativa di Giuseppe Culicchia, torinese, un attento osservatore della re-
altà surmoderna, corrisponde alla duplice visione del mondo ossia quella globale
contrapposta a quella locale, il che non ha soltanto il valore descrittivo, mimeti-
co, ma si dedica allo studio delle aporie puntando sulle differenze ma cercando
di notare una certa interdipendenza dei concetti all’interno di questo sistema. Il
contrasto tra globale e locale ha in Culicchia una dominante coordinata spaziale.
Lo spazio globale è caratterizzato da una mobilità surmoderna, che si ritrova facil-
mente in Brucia la città, nonché in Venere in metrò. Per i protagonisti dei romanzi
la mobilità è un ideale a cui aspirare, un elemento necessario del sistema, per esi-
genze lavorative e per quelle della vita quotidiana. La mobilità significa elasticità
contrapposta alla rigidità, essere costretti in  un luogo è  un segno di  fallimento.
Gaia, una milanese entra ed  esce dalla conference call, possiede dei dispositivi
tecnologici come ipad e iphone, che le servono per connettersi con tutto il mondo,
aggiorna il suo profilo su Facebook mettendoci il suo status da «ansiosa, euforica,
incredula, distratta»325, «digita sull’iphone» in continuazione326,, comunica il suo
licenziamento attraverso Internet, cerca di adottare i consigli di Gwyneth Paltrow,
quando ha  problemi con sua figlia adolescente, scrive su  Forum alFemminile.
com., manda le  mail a  personaggi pubblici come Paolo Crepet, «guarda con gli
occhi sbarrati lo schermo del computer. Scorre svariate pagine col mouse. Torna
indietro. Si ferma»327. Viaggia in rete anche Iaio e i suoi amici dj. Il loro spostarsi
consiste nel viaggiare con la  musica, suonare un  brano subito dopo che questo
venga lanciato in qualsiasi angolo del mondo, far divertire i torinesi con la stessa
musica che suonano all’estero. La musica rappresenta per i  ragazzi il  paradosso

324
Paul Virilio descrive il sistema globale, allacciando la sua ricerca all’analisi della strategia
del Pentagono americano, Marc Augé ribadisce la concezione di Virilio in Marc Augé,
Che fine ha fatto il futuro? Dai non luoghi al nontempo, Milano, Elèuthera, 2009, p. 34.
325
Giuseppe Culicchia, Venere in metrò, Milano, Mondadori, 2012, pp. 23–33.
326
Ivi, p. 44.
327
Ivi, p. 192.
Sistema globale come conflitto nella narrativa di Giuseppe Culicchia 185

della mobilità di cui parlano gli antropologi328, essa permette loro di spostarsi non
muovendosi di un centimetro da casa, o dalla propria città.

Mi dirigo verso gli scaffali e attacco a scartabellare. Dunque: Mylo, Drop


the Pressure, con radio edit, Club mix, Riton rerub, Erol Alkan edit, Felix Da
Hausecat remix, Dirty Minds rework, Clean Club mix….roba vecchia, ce l’ho.
Poi: Layo & Bushwacka, It’s Up to You Shining through, con Radio mix, Roni
Size vocal mix, Lee Cebrera remix…ho anche questo. (…) «Ehm« mi schia-
risco la voce, cercando di controllarmi. «Sono venuto…a prendere..Spastik..il
nuovo singolo d’importazione..di Richie Hawtin..aka Plastikman…remixato
da..Dubtfire dei Deep Dish….329.

Nonostante che sia Gaia che Iaio non si spostino dalle loro città Torino e Mi-
lano, macinano i chilometri in un click, si fermano, tornano indietro, passano per,
si dirigono, attraversando lo spazio che intercorre tra loro e qualsiasi punto sulla
mappa del mondo, aspirando in  effetti all’ubiquità che infatti toglie allo spazio
il valore che aveva nella vita quotidiana, lo neutralizza330, così alla mitologia della
velocità si sostituisce la mitologia dell’ubiquità. Visto che lo spostamento è consi-
derato una perdita di tempo si va verso un concetto in cui lo spazio è indipendente
dal tempo, l’idea di altrove viene eliminata, giacché tutto è immediato, il tempo
di percorrenza è azzerato, i limiti del tempo che separa lo spazio sono infranti.
Il locale comincia al  di fuori di  questa rete frenetica del mondo a  portata
di mano. «Succede sull’aereo. Siamo in volo sopra il Mediterraneo, da qualche par-
te tra Roma e  Palermo, (…) guardo il  mare fuori dal finestrino, quel mare che
di qui a pochi decenni avrà inghiottito chissà quante isole in tutto il mondo e mi-
lioni di chilometri di costa»331. I protagonisti di Un’estate al mare, il romanzo che
racconta un’estate del 2006, sono in viaggio di nozze in Sicilia dalla parte di Marsa-
la. Per loro il concetto di frontiera ha un significato molto chiaro e materiale e la di-
stanza viene attraversata misurando il tempo e i chilometri. «Le spiagge, a Marsala,
si  stendono per chilometri e  chilometri lungo la  costa profumata d’Africa dove
comincia l’Italia» (p. 23). Il modo in cui Culicchia racconta lo spazio colpisce per
una chiara delimitazione di esso, indicando dove inizia «la zona dello Stagnone,
con le saline e i mulini» (p. 26), dove «oltre Mozia, l’Isola Lunga si srotola nel mare
come la lingua di un drago assettato» (p. 26), dove da un determinato punto della
spiaggia «si vedono più lontane, ma all’apparenza più vicine, le Egadi» (p. 26). La
vita dei ragazzi che ci  abitavano nel passato si  concentrava su  una delle piccole
isole, Levanzo, poco distante da Favignana e Marittimo. Quando l’aspetto globale
328
Augé spiega il doppio paradosso della mobilità, da una parte un’ideale a cui si ispira, dall’al-
tra una mobilità forzata in forma dell’esilio, delle migrazioni, dei campi profughi.
329
Giuseppe Culicchia, Brucia la città, Milano, Mondadori, 2009, p. 59.
330
Franco La Cecla, Mente locale. Milano, Elèuthera, 1993, p. 12.
331
Giuseppe Culicchia, Un’estate al mare, Milano, Garzanti, 2007, p. 11.
186 Małgorzata Puto

delle metropoli di Torino e di Milano rinvia all’effettività, all’utilità e al consumo,
il locale della provincia di Marsala fa ricorso ad una narrazione che diventa una
città, la narrazione che in verità rappresenta uno spazio amalgamato con alcune
persone che ci  vivono. Nell’introduzione al  romanzo Culicchia cita Goethe, di-
cendo che «L’Italia senza la Sicilia, non lascia alcuna immagine nell’anima» (p. 9),
e la parola anima diventa la parola chiave nel modo di raccontarla sia in questo
romanzo sia in un altro dedicato all’isola, Sicilia, o cara. Un viaggio sentimentale332.
Facendo ricorso al concetto della mente locale proposto da Franco La Cecla333, no-
tiamo subito il modo in cui lo spazio si allaccia all’anima, al ricordo, all’emozione
fortissima.

Tutto qui a Marsala mi ricorda mio padre. La luce di Marsala mi ricorda


mio padre. Il profumo di Marsala mi ricorda mio padre. I colori di Marsala
mi ricordano mio padre. Il giallo del tufo con cui sono fatte le case di Marsala
è lo stesso giallo che mi entrava negli occhi quando accanto a me c’era mio pa-
dre. L’azzurro del cielo terso di Marsala è lo stesso azzurro che vedevo sopra
di me quando a tenermi per mano era mio padre. E così il blu del mare, il rosa
delle bouganville, il verde delle palme. Perfino l’aria che respiro e il vento che
mi scompiglia i capelli qui a Marsala mi ricordano mio padre (pp. 28–29).

Lo spazio è percepito attraverso i sensi ma soprattuto come testimone dei fatti


della vita. Più avanti troviamo non soltanto la cartina della Sicilia raccontata attra-
verso le prelibatezze tipiche dell’isola ma anche una ferma opinione in cui si ritro-
va l’opposizione tra il locale e il globale:

Mi aggiro tra i banchi strabordanti di merci. (…) Bottarga di Favignana.


Pistacchi di Bronte. Capperi di Pantelleria. Origano di Agrigento. Pomodori
di Pacchino. Acciuge di Messina. Olive di Belice. Olio di Paternò. Ragusano
di Noto. Provola di Floresta. Prillasse di Caltanissetta. Pecorino di Corleone.
Mandorle di Avola. Arance di Ragusa. Fichi d’India dell’Etna. (…) Paranoi-
co. Che senso ha comprare del condimento per la pasta coi ricci in scatoletta
e pure portoghese, in Sicilia? (pp. 63–64).

Possiamo dunque notare come i protagonisti dei testi di Culicchia dialogano


tra loro mettendo avanti la questione del binomio locale–globale i cui i caratteri
risultano diversi.
La differenza tra globale e locale è segnata da un modo di percepire il concetto
dell’orientamento che determina un luogo. Come ribadisce La Cecla, distinguendo
la concezione dello spazio newtoniana da quella relativistica, einsteiniana334, l’o-

332
Giuseppe Culicchia, Sicilia, o cara. Milano, Feltrinelli, 2010.
333
La Cecla dedica al concetto di mente locale il saggio Mente locale, Milano, Elèuthera, 1993.
334
Franco La Cecla, Perdersi. L’uomo senza ambiente, Bari, Laterza, 2007, pp. 44–45.
Sistema globale come conflitto nella narrativa di Giuseppe Culicchia 187

rientamento nello spazio è un precesso attivo, e rinvia alla capacità di organizzare
il proprio spazio nel modo in cui esso diventi un riferimento al quale una persona
possa «agganciare la propria coscienza»335. Paragonando lo spazio globale e quello
locale, in Culicchia possiamo ribadire che nel locale troviamo un tipo di spazio
definito da Hallpike come lo spazio topologico336, ossia quello che è determinato
dai rilievi topografici, dove orientarsi significa seguire una mappa. L’impossibilità
di raggiungere un posto, o il modo in cui uno si muove nel locale seguendo le in-
dicazioni come su, giù, andare incontro a qualcuno, o non poterlo incontrare per
motivi relativi alla geografia dello spazio, si possono verificare nel globale. Dunque
anche questa caratteristica sembra sottolineare la differenza tra locale e globale.
Così i Docks Dora, descritti in Torino, casa mia337, sono

l’area oltre il corso del fiume Dora, a nord del centro storico, quella dove
prima ancora della Fiat a Torino è nata l’industria. Fabbriche, magazzini, in-
frastrutture. (…) Nei Docks si entra da un cancello di ferro che si apre su uno
spiazzo che si apre su due corridori paralleli su cui si aprono innumerevoli
locali, un tempo adibiti solo ed esclusivamente a magazzini, ora adibiti sia
a locali, intesi non come semplici locali ma come locali notturni. Qui, a metà
degli anni Novanta, l’epicentro del clubbing a  Torino. Un posto chiamato
Reddocks. I migliori dj in circolazione. House a palla. Installazioni di giova-
ni artisti. Party sui tetti dei capannoni. E nelle vecchie fabbriche sparse per
la città, o appena oltre i suoi confini, la trance e la techno e il drum’n’bass
dei primi rave illegali. Dove arrivavi solo se conoscevi le piste giuste. Oggi
ai Docks ci sono studi di registrazione (…). Ma tutto intorno è distruzione
ed eruzione. Prima le ruspe hanno distrutto i perimetri dell’antica area in-
dustriale e raso al suolo il resto. Poi, anche qui come in Via Bologna angolo
corso Novara, un’eruzione di condomini (pp. 21–22).

Notiamo subito che alle caratteristiche riscontrate nel globale, ossia defisiciz-
zazione e delocalizzazione, si contrappone una descrizione molto precisa della to-
pografia di un tratto della città di Torino, che prosegue attraverso elementi dello
spazio, edifici, che hanno una struttura, e  una funzione. Lo spazio è  delimitato
da un confine che separa lo spazio funzionale da quello distrutto in disuso. È evi-
dente non solo una disciplina spaziale, ma anche l’aspetto temporale, che fa riferi-
mento al passato, indicando il varco temporale tra il passato e il presente.
«Sempre al triplo livello di percezione, definizione ed uso, la mente locale ope-
ra distinguendo nello spazio differenti densità»338. Infatti la  densità spaziale sa-
rebbe un’altra caratteristica che focalizza l’opposizione all’interno del discorso sul
globale e il locale. Come sostiene La Cecla, lo spazio è gestito da varie forze che
335
Ivi, p. 43.
336
Ivi, p. 46.
337
Giuseppe Culicchia, Torino è casa mia, Roma, Laterza, 2005.
338
Franco La Cecla, Perdersi. L’uomo senza ambiente, Bari, Laterza, 2007, p. 97.
188 Małgorzata Puto

si muovono in esso, determinandone la densità in base alla possibilità di stabilirne


i valori di conoscenza o di enigma. L’opposizione tra conosciuto, denso ed enig-
matico, vuoto determina questa opposizione. La mente locale stabilisce la densità
dello spazio attraverso i confini, i varchi, che sono però mobili, flessibili, spostabili
davanti agli enigmi che si cerca di risolvere. «L’alterità può essere sorvegliata e ge-
stita quando è sentita, così come si sente un corpo o un’assenza di esso»339. Così
come una città, il cui spazio è denso, pieno di corpi, in cui come in un organismo
pulsa il sangue, il corpo respira, si muove, è sveglio, come nel breve romanzo Am-
barabà340:

La città è una città. Solida. Liquida. Gassosa. Sopra arterie d’asfalto se-
zionano pietra, vetro, cemento, acciaio. Sotto vene di plastica pulsano acqua,
feci, energia, informazioni. Intorno aria: condizionata dentro, addizionata
fuori. Dappertutto un  continuo viavai di  corpi. Lungo strade a  attraverso
stanze su e giù per corridoi, ascensori e scale mobili. Seguendo queste sino
in fondo ci si inoltra nel buio. Nel buio rotto dagli squarci al neon delle sta-
zioni. Nel buio dove treni corrono veloci. All’interno di una pausa luminosa,
in ventuno aspettano il prossimo convoglio. Nessuno conosce nessuno e per-
ciò nessuno parla (p. 11).

Le persone si orientano bene negli spazi che hanno a disposizione, e la gente
sconosciuta «evita di invadere il territorio degli altri» (p. 61). Gli individui cono-
scono bene lo spazio così come conoscono bene i propri corpi che vi si trovano,
corpi che hanno gli occhi, le orecchie, gli zigomi, le bocche, le barbe, le scapole,
i gomiti, i corpi che «non hanno fatto al doccia da 36 mesi» (p. 25), «si ascoltano
respirare» (p. 19), «sono pettinati, profumati, eleganti» (p. 106).
La città è uno spazio denso, la sua potenza però è minacciata dall’enigma dello
sconosciuto che invade lo spazio delle persone materialmente ma allo stesso tem-
po incute paura.

Nella stazione è  sceso per ultimo, pochi secondi dopo gli altri. Ora
se ne sta all’ingresso del marciapiede, alle spalle di tutti. (…) Scommetto che
vi sembra tutto normale, qua sotto: niente che non vi aspettaste di trovare,
non è  vero? Le luci artificiali che piovono dall’alto. Le scritte pubblicitarie
alle pareti. Il budello nero nel quale contate di infilarvi sotto la città. Donne
e uomini. Giovani e vecchi. Attenti a non invadere un millimetro di troppo
dello spazio circostante. (…) Ve ne state con le mani in tasca o seduti sui vo-
stri sedili o appoggiati alle pareti, abulici, pallidi, silenziosi, come se l’antica
vitalità vi  avesse abbandonati per far posto alla paura. La paura. La vostra
paura (p. 133).

339
Ibid.
340
Giuseppe Culicchia, Ambarabà, Garzanti, 2000.
Sistema globale come conflitto nella narrativa di Giuseppe Culicchia 189

La densità dello spazio muta, nei momenti in cui viene percepito dai suoi abi-
tanti è denso, pieno di dettagli e corpi, ma essi sono anche molto sensibili a tutto
ciò che è sconosciuto, vuoto e mette paura.
Il locale è finalmente legato all’identità, giacché lo spazio conosciuto si esprime
attraverso il ‘noi’, che esige una densità maggiore. Quello che permette alla men-
te locale di rincasare sono i confini sentiti materialmente, determinati dalle linee
al  di fuori delle quali uno sente la  propria diversità. Il confine quindi definisce
l’identità. La località può essere dunque definita per mezzo del’ noi’ che persiste
e regge fino ad un certo punto lo spostamento, fino al quale si può parlare della
località. La globalità evidenzia molto meno i confini, così le persone riconoscono
sempre meno i margini territoriali. La mente locale, anche se possiede delle risorse
infinite, è confusa, ma non priva della capacità di reagire. Così si può parlare delle
vertigini, ma mai di incapacità di reagire341. Nel globale la mente locale scivola nel-
la presenza di una spazio fluttuante, privo di centri e di confini, in cui l’angoscia
territoriale cresce.

Conclusione

La narrativa di  Culicchia è  la rappresentazione dell’opposizione tra locale


e  globale, che da  una parte risulta conflittuale, dall’altra interdipendente. Come
risulta dalla tabella che riassume le principali caratteristiche che sono state indivi-
duate nella ricerca (ossia: la mobilità, l’ubiquità, l’orientamento e la densità spazia-
le), queste definiscono la diversità tra globale e locale, che però non è tanto un urto
o uno scontro, ma piuttosto l’intrecciarsi a vicenda.

Globale Locale
Mobilità surmoderna, determinata dal para- viaggio che realmente percorre
dosso della mobilità, spostamento la distanza, per piacere, o per co-
fatto senza un  reale percorrere noscere la terra di origine
della distanza, che sfugge alla ca-
tegoria del tempo, ha  un ruolo
di fatalità e di necessità
Ubiquità la conseguenza della mobilità, non presente
in cui essa sfocia
Orientamento spazio a carattere relativistico Sspazio topologico
Densità spaziale minore maggiore
Confine meno evidente, il  che influenza chiaramente delineato
la densità spaziale

341
Franco La Cecla, Perdersi. L’uomo senza ambiente, Bari, Laterza, 2007, p. 101.
190 Małgorzata Puto

Partendo dal presupposto che il globale è un’estensione del locale, si osserva


infatti come certi caratteri che non si verificano nel locale, possono realizzarsi nel
globale. La caratteristica che nel modo migliore segnala l’interdipendenza tra glo-
bale e locale è la densità spaziale, che nella narrativa di Culicchia cambia di gra-
do a seconda della situazione. I testi di Culicchia sono composti nel modo in cui
si intreccino aspetti del globale e del locale ed ambedue gli aspetti sono definibi-
li e raccontati uno in riferimento all’altro, quindi sono inseparabili. Il messaggio
universale che comunicano i testi di Culicchia è sicuramente l’invito a ripensare
l’idea della frontiera e del confine. L’idea di cancellarla posta dalla globalità non
è  accettabile, giacché come ribadisce Augé le  frontiere non si  cancellano ma  si
rintracciano, perché una frontiera non è uno sbarramento ma un passaggio. In-
dagando il sistema globale nei termini spaziali attraverso il concetto della mente
locale, emerge che una frontiera ha sempre un aspetto temporale, la dimensione
che si cerca di eliminare all’interno del sistema globale, invece essa rinvia sempre
ad un futuro, in forma della speranza e dell’avvenire.
Letteratura e scienza: un conflitto di culture?
Stefano Redaelli
Uniwersytet Warszawski, Warszawa

Introduzione

Il problema delle “due culture”, della diversità e lontananza tra cultura lette-
rario–umanistica e scientifico–tecnica non solo è rimasto aperto – dalla famosa
polemica sollevata da Charles Snow negli anni ’60 ad oggi –, ma è diventato sem-
pre più attuale, assumendo, a seconda dei contesti culturali, connotazioni specifi-
che342. La letteratura italiana, da Dante a Galileo, ha mostrato nel corso dei secoli
una vocazione al dialogo tra le due culture. Pensiamo ad alcuni grandi autori del
Novecento che hanno creato il canone: Italo Calvino, il chimico Primo Levi, l’inge-
gnere Carlo Emilio Gadda, ma anche ad autori contemporanei come Daniele Del
Giudice343, Bruno Arpaia344, Giuseppe Longo345; ai  saggi a  quattro mani di  Pier-

342
Vedi: Aldous Huxely, Letteratura e  scienza, Milano, Il Saggiatore, 1963; Frederick
Amrine , Literature and science as modes of expression, Boston, Kluwer, 1989; Katheri-
ne Hayles, Chaos and Order: Complex Dynamics in Literature and Science, Chicago, The
University of Chicago Press, 1991; Mario Petrucciani, Scienza e letteratura nel secondo
novecento: la ricerca letteraria in Italia tra algebra e metafora, Milano, Mursia, 1978; Ezio
Raimondi, Scienza e  letteratura, Torino, Einaudi, 1978; Andrea Battistini, Letteratu-
ra e Scienza, Bologna, Zanichelli, 1977; Carlo Bernardini–Tullio De Mauro, Contare
e raccontare. Dialogo sulle due culture, Bari–Roma, Laterza, 2003; Pierpaolo Antonel-
lo, Contro il materialismo. Le «due culture» in Italia: bilancio di un secolo, Torino, Nino
Aragno, 2012; Pierpaolo Antonello, Il menage a quattro. Scienza, filosofia, tecnica nelle
letteratura italiana del Novecento, Firenze, Le Monnier, 2005; Mario Porro, Letteratura
come filosofia naturale, Napoli, Medusa, 2005; Giovanna Ioli, Cavalcare la luce. Scienza
e letteratura, Novara, Interlinea, 2009.
343
Daniele Del Giudice, Atlante occidentale, Torino, Einaudi, 1985.
344
Bruno Arpaia, L’energia del vuoto, Milano, Guanda, 2011.
345
Giuseppe O. Longo, L’acrobata, Torino, Einaudi, 1994; Giuseppe O. Longo, Il nuovo
Golem: come il  computer cambia la  nostra cultura, Bari–Roma, Laterza, 1998; Giuseppe
O. Longo, Homo Technologicus, Roma, Meltemi, 2001.
192 Stefano Redaelli

giorgio Odifreddi346 e Segio Valzania347, Carlo Bernardini e Tullio de Mauro348, Erri


de Luca e Paolo Sassone Corsi349.
Nel presente articolo350, tuttavia, più che mostrare esempi di dialogo tra lettera-
tura e scienza, porremo l’accento sul conflitto, a volte camuffato da apertura o fine
dialogo, che nasconde, dietro uno scontro di idee, uno scontro di ideologie.

Un po’ di storia

Partiamo dalla polemica di Charles Snow, sollevata in Inghilterra a metà del se-
colo scorso351, per arrivare al contesto culturale italiano dell’inizio del secolo e ve-
dere quale sia attualmente lo “stato di salute dei rapporti” tra letteratura e scienza.
Nella memorabile conferenza tenuta a  Cambridge nel 1959, intitolata The
Two Cultures, Charles P. Snow, fisico e romanziere inglese, denunciava l’esistenza
e l’incomunicabilità di «due gruppi antitetici», che si autodefinivano intellettuali:
«Letterati a un polo e scienziati all’altro, i più rappresentativi dei quali i fisici. Tra
i due gruppi, un abisso di reciproca incomprensione»352. Per Snow all’origine del
conflitto c’è una visione del mondo antitetica: mentre i secondi «hanno per natura
il futuro nel sangue»353, i primi guardano ad esso con scetticismo e sfiducia. Ne
consegue, tra l’altro, un atteggiamento critico da parte dei letterati verso la rivo-
luzione industriale e scientifica: «Gli umanisti non si sono mai sforzati, né hanno
mai desiderato, o non sono mai stati in grado di capire la rivoluzione industriale,
e ancor meno di accettarla»354. L’incomunicabilità (in quanto assenza di comuni-

346
Odifreddi è autore di numerosi saggi sul rapporto tra scienza e religione; tra i più impor-
tanti: Piergiorgio Odifreddi, Il Vangelo secondo la  Scienza. Le religioni alla prova del
nove, Torino, Einaudi, 1999; Piergiorgio Odifreddi, Perché non possiamo essere cristiani
(e meno che mai cattolici), Milano, Longanesi, 2007; Piergiorgio Odifreddi, Hai vinto,
Galileo! La vita, il pensiero, il dibattito su scienza e fede, Milano, Mondadori, 2009.
347
Piergiorgio Odifreddi – Sergio Valzania, La Via Lattea. (Un ateo impenitente e un
cattolico dubbioso in cammino verso Santiago de Compostela), Milano, Longanesi, 2008.
348
Carlo Bernardini – Tullio De Mauro, Contare e raccontare. Dialogo sulle due culture,
Bari–Roma, Laterza, 2003.
349
Erri de Luca – Paolo Sassone Corsi, Ti sembra il caso? Schermaglia fra un narratore e un
biologo, Milano, Feltrinelli, 2013.
350
Questo lavoro è  finanziato dal Centro Nazionale delle Scienze della Polonia, attraverso
il Grant nr DEC–2012/07/D/HS2/03673.
351
Cfr. Stefano Redaelli, A che servono gli Studia humanitatis (in una società tecnologico–
scientifica)?, Atti del Convegno Chernarus (in stampa), Banja Luka, 2015.
352
Charles P. Snow, Le due culture, Venezia, Marsilio, 2005, pp. 18–20.
353
Ivi, p. 25.
354
Ivi, p. 34.
Letteratura e scienza: un conflitto di culture 193

cazione o scontro aperto) tra letterati e scienziati compromette la possibilità di far


scaturire nuovo sapere dallo scambio tra essi:

il punto di  scontro tra due soggetti, due discipline, due culture – due
galassie, finché va così – dovrebbe produrre occasioni creative. (…) Le oc-
casioni ora ci sono. Ma sono, per così dire, sospese nel vuoto, per il fatto che
i membri delle due culture non riescono a parlarsi. È strano che sia stato as-
similato dall’arte del ventesimo secolo così poco della scienza del ventesimo
secolo355.

Di questo parere è anche Carlo Emilio Gadda. In un’intervista con Moravia


di  quegli stessi anni (1967), alla domanda: «Credi che la  rivoluzione scientifica
debba avere dei riflessi diretti nella letteratura? », Gadda risponde:

Mi hai fatto verbalmente l’esempio di Einstein, ma qual è il letterato che


può riflettere direttamente nella sua opera contenuti einsteiniani o quell’altro
che può leggere Einstein? No, non credo a  riflessi diretti della rivoluzione
scientifica sulla ormai insopportabile letteratura356.

Vediamo dunque, introdotti dal nostro “ingegner fantasia”, quale risonanza


ebbe in Italia la polemica di Snow. Il suo saggio fu tradotto nel 1964 dal Ludovico
Geymonat, padre della filosofia della scienza italiana. Tra i letterati, i primi a de-
dicare studi approfonditi al problema furono Ezio Raimondi e Mario Petrucciani.
Raimondi evidenzia la «dialettica policentrica di forme e codici culturali, senza
di cui sembra difficile oggi rendere conto della stessa letterarietà nella sua concreta
dimensione pragmatica»357 ed accusa l’idealismo umanistico di non dare «credito
al  pensiero scientifico e  tanto meno alla metamorfosi letteraria che ne  trascrive
e ne deforma la ragione inventiva»358.
Secondo Petrucciani abbiamo a che fare piuttosto con una «danza di corteg-
giamento, altalenante di insidie e di lusinghe, di ostilità e blandizie, di senso di in-
feriorità e talvolta, viceversa di superiorità»359; più che di un «intimo colloquio» tra
le due culture, si tratta di un «desiderio allusivo, movimento figurato»360.
Lo studio più profondo, e ad oggi il più lucido, rimane quello del filosofo Giu-
lio Preti, Retorica e  Logica, del 1968. Per Preti «prima che letterati e  scienziati,
esistono lettere e scienze» con le loro peculiarità e intersezioni, con diversi atteg-

355
Ivi, p. 30.
356
Carlo Emilio Gadda, Per favore, mi lasci nell’ombra. Interviste 1950–1072, a cura di Clau-
dio Vela, Milano, Adelphi, 1993, pp. 147–152.
357
Raimondi, Scienza e letteratura, cit., p. 50.
358
Ivi, p. 29.
359
Petrucciani, Scienza e letteratura, cit., p. 13.
360
Ibid.
194 Stefano Redaelli

giamenti, in particolare nei confronti della verità: intersoggettiva per gli scienzia-
ti, che difendono una cultura teoretica (basata sulla conoscenza), soggettiva per
gli umanisti, che difendono una cultura assiologica (basata sui valori). Dal punto
di vista di Preti, il contributo della scienza alle lettere è fondativo per il discorso
etico: «E così l’ascesi scientifica è strumento di riadattamento dell’ethos alle esigen-
ze della vita: restituisce al mondo dei valori la sua fondazione, la condizione stessa
della sua efficacia – mantiene aperte le vie della sua stessa autotrascendenza»361.
Fino alla ristampa nel 2005 delle Due culture, il numero di pubblicazioni è ridotto
e  sporadico. Antonello e  Porro362 riaprono la  questione, concentrandosi su  Cal-
vino, Gadda, Levi, Sinisgalli. Tali studi identificano come elementi centrali della
cultura scientifica degli autori studiati (rappresentanti di una “filosofia naturale”)
il materialismo e la centralità della natura, a dispetto dell’antropocentrismo e ide-
alismo tipici della cultura umanistica363.

Un conflitto di idee (o ideologie?)

Oltre ai succitati saggi, espressione di un punto di vista specifico, particolar-


mente significative sono due recenti pubblicazioni, una a quattro mani e l’altra –
per così dire – a “quattro piedi”, la cui struttura stessa è espressione della dialettica
tra due punti di vista opposti. La prima è un epistolario tra il fisico Carlo Bernar-
dini e il linguista Tullio de Mauro, intitolato Contare e raccontare. Dialogo sulle due
culture. La seconda è un dialogo peripatetico (oggetto di una trasmissione radiofo-
nica) intitolato364 La Via Lattea. Un ateo impenitente e un cattolico dubbioso in cam-
mino verso Santiago de  Campostela, tra il matematico Piergiorgio Odifreddi e il
giornalista Sergio Valzania, che hanno affrontato insieme il Cammino di Santiago.
Il primo libro è composto di due lunghe epistole: Carissimo Tullio…, Carissimo
Carlo….
Nella prima Bernardini riprende la polemica di Snow, affermando che non «si
tratta di dibattito sorpassato»365, poiché sussiste «un problema di incomunicabili-
tà», e «questo è dovuto soprattutto ai linguaggi, che diventano divergenti là dove

361
Ivi, p. 242.
362
Antonello, Il menage a quattro, cit.; Porro, Letteratura come filosofia naturale, cit.
363
Si pensi all’anti–antropocentrismo di Palomar: “Dato che c’è mondo di qua e mondo di là
dalla finestra, forse l’io non è  altro che la  finestra attraverso la  quale il  mondo guarda
il mondo” (Italo Calvino, Palomar, Mondadori, Milano, 2011, p. 101).
364
Il titolo è un omaggio al film di Luis Buñuel del 1969, che narra le avventure di due pel-
legrini in cammino verso la tomba dell’apostolo Giacomo. In Spagna e in Portogallo Via
Lattea era anche il nome del Cammino di Santiago, perché indicava la via da est a ovest che
portava al luogo della supposta sepoltura dell’apostolo.
365
Bernardini – De Mauro, Contare e raccontare, cit., p. 7
Letteratura e scienza: un conflitto di culture 195

il linguaggio scientifico si prende la sua autonomia e lascia in soffitta il linguag-


gio di  tutti i  giorni»366. Il problema non è  che letterati e  scienziati non si  parli-
no, si  ignorino o  si snobbino, come sosteneva Snow, ma  che parlano linguaggi
intrinsecamente diversi367: connotativo (dunque poetico, polisemico, suggestivo)
e di comunicazione i primi; denotativo (ovvero preciso, stabile, rigido, univoco)
e di elaborazione i secondi368. Fatta questa distinzione e precisazione, Bernardini
accusa l’«Intrinseca debolezza del pensiero umanista”369, un  «pensiero che bada
solo ad  essere erudito ed  elegante e  non si  preoccupa minimamente del rigore
semantico». In particolare denuncia (sempre con tono amichevole e  rispettoso)
la «denutrizione scientifica (…), la corriva tolleranza umanista verso l’irraziona-
le» ed un parlare (soprattutto in questioni etiche) che non «appare più elegante,
non è più sofisticato», ma «solo banalmente ‘ideologico’ (che ogni ideologia tragga
forza dal fatto che supplisce a una incompetenza?)»370. Conclude, dunque, affer-
mando: «Non voglio alcun conflitto tra le due culture, voglio solo che quei testoni
dei letterati e dei filosofi smettano di parlare come funzionari di una “cultura do-
minante”»371.
De Mauro riconosce che «Il linguista deve avere nella cassetta degli attrezzi
almeno alcuni dei molti arnesi che si sono costruiti gli studiosi di biologia, etolo-
gia, neuroscienze, antropologia culturale»372, e ammette l’esistenza di una «retorica
dell’umanesimo»373 di  eredità crociana; ma, alla domanda: «troppo umanesimo
e perciò poco scienza?», risponde: «Ma no, poco umanesimo e poca scienza per-
ché poca è la propensione nazionale all’accertamento rigoroso di fatti e dati, alle
misurazioni precise, all’esperienza diretta»374.
Questo appello al rigore, tanto nel campo umanistico quanto in quello scien-
tifico, ci pare una delle conclusioni principali (insieme alla critica di Bernardini

366
Ivi, p. 10.
367
Cfr. Stefano Redaelli, Tradurre la scienza: il Sistema periodico di Primo Levi, in «Kwar-
talnik Neofilologiczny», LXII, 2/2015, pp. 211–220.
368
Secondo Carlo Bernardini il linguaggio di comunicazione serve per “la formulazione di re-
gistrazioni memorizzabili di informazioni (fatti, opinioni, idee), nell’impiego soggettivo;
e per lo scambio di quelle informazioni, nell’impiego intersoggettivo”, mentre il “linguaggio
di  elaborazione (…) usa le  informazioni, particolarmente quelle della realtà circostante,
per elaborarle secondo procedure concepite e collaudate al fine di conseguire risultati non
contenuti già nelle informazioni di partenza” (Carlo Bernardini, Prima lezione di fisica,
Laterza, Roma, 2007, p. 18).
369
Bernardini – De Mauro, Contare e raccontare, cit., p. 6.
370
Ivi, p. 7.
371
Ivi, p. 10.
372
Ivi, p. 78.
373
Ivi, p. 116.
374
Ivi, p. 121.
196 Stefano Redaelli

al parlare ideologico) che riguarda, come vedremo, non solo gli umanisti, ma an-
che gli scienziati.
Ne troviamo un esempio nel libro: La Via Lattea. Qui il matematico Odifred-
di pratica una sorta di retorica basata sulla logica, al fine non tanto di difendere
l’autonomia dello scienziato, quanto, di fatto, di affermarne la superiorità, scredi-
tando il pensiero umanistico e le questioni di valore che esso affronta. Abilmente,
Odifreddi premette al suo discorso un’affermazione di limitatezza intrinseca nel
sapere, citando il teorema di Gödel375 e il principio di indeterminazione di Hei-
senberg376: «dobbiamo accettare questa condizione di limitatezza della conoscen-
za e della ricerca come una delle caratteristiche intrinseche della nostra umanità:
si arriva a un certo punto, ma oltre non si può andare»377.
Parafrasando il teorema di Gödel afferma, poi, che «non tutte le domande sen-
sate ammettono una risposta» e, spingendo il ragionamento oltre, che «non tutte
le  domande sono sensate», in  particolare le  domande sul senso della vita, anzi
«le domande di senso sono le più insensate». Conclude, quindi, affermando che:

La cosa divertente è  che le  domande che spesso si  pongono i  ‘filosofi
da cane’378 sono appunto di quel genere. Il miglior esempio è proprio costitu-
ito dalla domanda sul ‘senso della vita’: il che dimostra che ha più buonsenso
Bonolis, che nel titolo del suo programma le fa il verso, che Severino o Cac-
ciari, che invece se le pongono per davvero379.

Secondo Odifreddi, l’uomo comune «non ha nemmeno idea che si possa per-
dere tempo con domande di un certo genere e, se gli dicessero che c’è gente che
è pagata per farsele e osannata perché non sa da loro risposta, la farebbe giusta-
mente sbranare dal proprio cane»380.
Se le domande di senso e dunque sui valori – la sfera assiologica, direbbe Preti
–, tipiche della cultura umanistica, non hanno senso, a cosa si ridurrebbe, di fatto,
la sua competenza e il suo campo di azione? Secondo Odifreddi ai discorsi «non
dichiarativi», che sono:

375
Il teorema di Gödel afferma che qualunque sistema matematico è incompleto, per quante
verità un sistema sia in grado di dimostrare, ne rimarranno sempre alcune che sono precluse.
376
Secondo il principio Heisenberg ci sono limitazioni intrinseche al livello delle particelle
elementari, che impediscono di misurarne con precisione arbitraria sia la posizione che
la velocità in uno stesso istante.
377
Odifreddi – Valzania, La Via Lattea, cit., p. 43
378
Qui Odifreddi si riferisce a Darwin che, nella sua Autobiografia, racconta del cane che ab-
baiava furiosamente quando vedeva un bandiera mossa dal vento, convinto della presenza
di qualcuno, definendo questo atteggiamento «teologia da cani».
379
Odifreddi – Valzania, La Via Lattea, cit., p. 99.
380
Ibid.
Letteratura e scienza: un conflitto di culture 197

tipici dell’umanesimo, che non vogliono dire come stanno le  cose
al mondo e parlare di verità, ma piuttosto suggerire e stimolare sensazioni
e sentimenti. Lì le contraddizioni vanno benissimo, e nessun razionalista ri-
fiuterebbe di leggere una poesia o un romanzo sulla base del fatto che con-
tengono contraddizioni. E lo stesso discorso vale per i libri sacri, purché li si
prendano come letteratura, e non come testi filosofici o storici381.

Ridotto l’ambito umanistico al  dominio delle sensazioni e  dei sentimenti,


screditate le questioni sul senso e sui valori, criticato ogni atteggiamento religioso
come irrazionale e pretenzioso, rimane sensato, valido, solo il discorso teoretico
sulla verità, dominio esclusivo degli scienziati, anzi dei matematici, che diventano,
di fatto i nuovi profeti.
Candidamente, Odifreddi confessa che i suoi colleghi matematici sono con-
vinti di «parlare il linguaggio di Dio»382; idea, questa, portata alle sue estreme con-
seguenze nella conclusione del saggio Il Vangelo secondo la Scienza: «La vera reli-
gione è la matematica, il resto è superstizione. O, detto altrimenti, la religione è la
matematica dei poveri di spirito»383.
La matematica fornirebbe, secondo Odifreddi, «Un punto di intesa tra coloro
che usano la ragione e coloro che invece rifiutano di usarla»384 (questa, brutalmen-
te, la sua distinzione tra umanisti e scienziati), come leggiamo anche nel saggio
a postfazione della nuova edizione de Le due culture, che ha un tono apparente-
mente conciliatore:

Sembra dunque che proprio nella matematica si trovi la cerniera di col-


legamento tra le culture, il corpo colloso che collega i due emisferi, il linguag-
gio poetico della natura, il mediatore neutrale che permetti di riappacificare
le apparenti discordanze culturali385.

In realtà, anche questa conclusione a cui Odifreddi giunge non è affatto di me-
diazione e riappacificazione, ma di esclusione, come si evince dal seguente brano:

Se la  formazione umanistica diventa inadeguata per l’appropriazione


degli strumenti necessari all’analisi del mondo moderno, e gli umanisti non
possono più seguire il passo della scienza, non per questo diminuisce dunque
il bisogno di letteratura e filosofia: l’unica soluzione sembra allora che siano
gli uomini di formazione scientifica ad appropriarsene386.

381
Ibid.
382
Odifreddi – Valzania, La Via Lattea, cit., p. 184.
383
Odifreddi, Il Vangelo secondo la Scienza, cit., p. 211.
384
Odifreddi – Valzania, La Via Lattea, cit., p. 184.
385
Cfr. Piergiorgio Odifreddi, La guerra dei due mondi, in Charles P. Snow, Le due cultu-
re, Venezia, Marsilio, 2005, p 135.
386
Ivi, p. 132.
198 Stefano Redaelli

L’unica letteratura possibile sarebbe quella di un Gadda o Levi, in grado di de-
scrivere scientificamente il mondo; oppure, in extremis, dobbiamo attendere i ro-
manzi Odifreddi!

Conclusione

Ricordiamo la  critica di  Bernardini: «Non voglio alcun conflitto tra le  due
culture, voglio solo che quei testoni dei letterati e dei filosofi smettano di parlare
come funzionari di una “cultura dominante” », di parlare in modo «banalmente
ideologico». Il discorso di Odifreddi – testone matematico e non letterato – è un
esempio speculare del medesimo atteggiamento nell’ambito della cultura scientifi-
ca; atteggiamento che ha anche un nome: “terza cultura”. Promossa da John Brock-
man alla fine degli anni ’80 in America, la “terza cultura” è rappresentata da un’élite
di scienziati e abili divulgatori che si è assunta il ruolo di rispondere alle domande
fondamentali sull’uomo, la vita, il cosmo, escludendo del tutto le materie umanisti-
che (filosofia, letteratura, religione), ritenute semplicemente superflue e finanche
dannose387. Questi autori (scienziati) fanno un uso della letteratura, in particolare
della saggistica, puramente utilitaristico (retorico, come abbiamo visto nel caso
di  Odifreddi) all’interno di  un progetto che però la  svaluta, esclude, asservisce
a pura divulgazione (a volte ideologica).
Per “la terza cultura” il conflitto è superato, non esiste più, perché, in realtà,
la cultura umanistica è definitivamente sconfitta e fagocitata.
Per superare i  conflitti tra le  due culture occorre innanzitutto riconoscerne
le differenze e gli ambiti (come fa Giulio Preti in Retorica e logica), rispettarli; non
pretendere di inverare il discorso altrui – sui valori o sulla verità intersoggettiva) –
e soprattutto di prenderne il posto.

387
Cfr. Redaelli, Tradurre la scienza, cit., pp. 211–220.
Conflitto, rimozione. Verderame di Michele Mari
Katarzyna Skórska
Uniwersytet Warszawski, Warszawa

Nel giugno del 2008, alla sua ventisettesima e ultima edizione, il Premio Grin-
zane–Cavour è andato a due scrittori: Bernardo Atxaga per Il libro di mio fratello
e all’autore milanese Michele Mari per il suo Verderame pubblicato nel 2007. Se-
condo le parole dell’allora presidente del premio, Giuliano Soria, quella ventisette-
sima era stata un’edizione destinata a «declinare un periodo dominato dal conflit-
to»388. Il filone principale del romanzo di Mari racconta di un’amicizia inconsueta
allacciata nell’estate del 1969 fra Michelino, un ragazzo di 13 anni, alter ego dell’au-
tore – in effetti il romanzo è segnato da un’impronta fortemente autobiografica389
– e il factotum della casa dei nonni del protagonista, Felice, un anziano contadino
semi–analfabeta. Il loro «rapporto colma un vuoto di dialogo tra genitori e figli»
– commentava Mari nel ricevere il premio – «un vuoto che spesso si verifica in fa-
miglia. (…) Sono sorpreso che i ragazzi mi abbiano così amato da farmi vincere.
È piaciuto loro probabilmente il senso dell’avventura che ha trasmesso quest’uo-
mo così avulso dalla normalità. Conosco bene questa sensazione perché è  stata
la  mia»390. Nel motivare il  premio, Mari puntava così sul conflitto generaziona-
le, l’elemento portante del racconto, sebbene il libro nel suo insieme presenti una
vasta gamma di  conflitti con i  loro esiti che, col passare del tempo, si  è  cercato
di celare, o anzi di rimuovere. È attraverso la figura del ragazzino protagonista che
Michele Mari tenta di svelarli, offrendo un romanzo che attinge ai tratti del giallo

388
Italia: premi, Grinzane Cavour, vincono Mari e  Atxaga, http://www.tio.ch/News/Este-
ro/401161/Italia–premi–Grinzane–Cavour–vincono–Mari–e–Atxaga, visitato il 23.05.2015.
389
In un’intervista lo scrittore stesso ammette: «Sicuramente è autobiografica tutta la prima
parte del romanzo (...), fino a quando la storia non prende una strada fantastica». Vedi:
Marco Negri, A Nasca, tra russi, nazisti e lumache, la terra si tinge di Verderame, www.
varesenews.it, visitato il 15.05.2015.
390
Italia: premi, Grinzane Cavour, vincono Mari e  Atxaga, http://www.tio.ch/News/Este-
ro/401161/Italia–premi–Grinzane–Cavour–vincono–Mari–e–Atxag, visitato il 23.05.2015.
200 Katarzyna Skórska

e del romanzo d’avventura, spingendosi persino verso il paranormale, senza mai


rinunciare al valore autobiografico del racconto391.
Non è la prima volta che Mari sceglie di delineare il suo rapporto conflittuale
con la realtà di oggi assumendo i panni di un adolescente. Michelino, già prota-
gonista dei racconti delle raccolte Euridice aveva un cane (1993) e Tu, sanguinosa
infanzia (1997), è un ostinato lettore di romanzi d’avventura, un «adolescente ste-
vensoniano»392, come si autodefinisce, invece considerato disturbato e molesto dai
nonni, da cui trascorre lunghe e noiose estati. La sua immaginazione, alimentata
dalle letture di Robert Louis Stevenson e Herman Melville (fra i numerosi scrittori
nominati direttamente nel romanzo e nell’opera di Mari in generale)393 va a costi-
tuire un elemento di separazione, di conflitto nella relazione dell’adolescente con
il mondo circostante394. Qualsiasi tentativo di rapportarsi con la gente è inutile, vi-
sta la «politica affettazione delle risposte»395 del nonno a qualsiasi domanda posta
dal nipote, considerata l’assenza totale della nonna, ma anche «l’aura maledetta che
si sprigiona»396 dalla loro casa. Tutto ciò fa di Michelino l’«essere più solo al mon-
do»397, una personificazione malinconica dell’isolamento398.
Il conflitto del protagonista con la realtà lo induce a continue evasioni mentali,
a una enfatizzazione e intensificazione delle esperienze vissute nel quotidiano. Per
sentirsi rassicurato, Michelino ha bisogno di un mostro, come afferma egli stesso:
«essere amato da un mostro è la migliore delle protezioni dall’orribile mondo»399.
Il ragazzino vorrebbe avere accanto a sé un melvilliano capitano Achab, ma si deve
accontentare del contadino Felice, quell’essere quasi irreale, un orco orrendo, una
figura rimossa sia dalla madre stessa sia dagli abitanti del paese, un  «poveretto
che non sapeva neanche chi fosse»400, un  emarginato persino nella lingua, non

391
Carlo Mazza Galanti, Michele Mari, Fiesole, Cadmo, 2011, p. 111.
392
Michele Mari, Verderame, Torino, Einaudi, 2007, p. 145.
393
Si veda il  racconto Otto scrittori in  cui vengono nominati i  sommi maestri di  Michele
Mari, tra cui (a parte i già menzionati) sono: Jules Verne, Daniel Defoe, Jack London, Ed-
gar Allan Poe, Emilio Salgari e Joseph Conrad (Michele Mari, Tu, sanguinosa infanzia,
Torino, Einaudi, 2009).
394
Sul piano narrativo il conflitto si traduce in contrasto fra una storia romanzesca e un’am-
bientazione, la zona del varesotto, per eccellenza non romanzesca. Vedi: Marco Negri,
A Nasca, cit.
395
Mari, Verderame, cit., p. 97.
396
Ibid.
397
Ibid.
398
Anche in  questo caso l’ispirazione è  di estro autobiografico: le  estati trascorse da  Mari
nell’infanzia a casa dei nonni sul Lago Maggiore, «essendo state un’infanzia e un’adolescen-
za tristi», nella sua percezione rendono quel luogo intriso «di malinconia e di angoscia»,
Marco Negri, A Nasca, cit.
399
Mari, Verderame, cit., p. 4.
400
Ivi, p. 97.
Conflitto, rimozione. Verderame di Michele Mari 201

parlando che il dialetto di Varese. Proprio lui diventerà l’unico interlocutore del
ragazzo durante le lunghe giornate estive nella casa dei nonni. Nonostante la sua
menomazione mentale, Felice è al tempo stesso una figura conciliatrice che, come
presto si verificherà, fa coesistere i due mondi, quello del presente e del passato,
quello sensibile e quello sovrasensibile. Con il suo tratto quasi animalesco egli as-
sume il  ruolo di  uno psicopompo paradossale che introduce il  piccolo Michele
nell’inferno della Storia, di  una vicenda di  francesi, di  partigiani, di  nazisti e  di
russi fuoriusciti dopo la rivoluzione che durante la guerra avevano collaborato con
i tedeschi; una storia di operazioni losche compiute dalla Resistenza italiana nella
lotta al nemico, per anni tenute segrete. Questa scelta di usare la Storia come sfon-
do del romanzo, che tra l’altro compare nella produzione di Mari per la prima vol-
ta, come afferma l’autore stesso, «è probabilmente dovuta a un’inconscia polemica
nei confronti del filisteismo varesotto»401, che egli aveva sempre percepito come
assai opprimente.
Di Felice non si sa niente: completamente staccato dalla realtà, sembra appar-
tenere al  tempo mitico, così come l’anziana di  nome Flora, amica di  Michelino
nell’omonimo racconto della raccolta Euridice aveva un cane402. Ispirandosi a una
persona realmente esistita403, Mari vi aggiunge una sfumatura sovrannaturale fa-
cendone appunto un personaggio privo di origine, di qualsivoglia punto di riferi-
mento, insistendo anche sullo stato di leggera ebrezza alcolica in cui perennemente
si trova il contadino:

Quand’era nato, e  dove? Cos’aveva fatto prima di  lavorare per noi? Se
aveva parenti? Qualcuno era mai entrato in casa sua, se casa era l’incognito
spazio chiuso da  un portoncino di  legno grigiastro? Qualcuno l’aveva mai
visto in un abito che non fosse quella tuta, identica nei decenni? Qualcuno
poteva dire di averlo visto fare la spesa, o ricevere derrate a domicilio? E di
cosa si nutriva? Beveva molto, evidentemente, ma c’era in tutto il paese una
sola persona che potesse testimoniare dell’ingresso di una bottiglia attraverso
quel portoncino?404.

In più il “mostro di Michelino” presenta gravi problemi di memoria, la per-


de man mano che si sviluppa la trama del racconto: «non passava giorno senza
un nuovo vuoto mentale: era come se per lui il mondo si rimpicciolisse a poco
a  poco perdendo i  suoi pezzi, pezzi che erano cose, che erano parole, che era-
no luoghi, che erano ricordi»405. In questa maniera Felice stesso diventa personi-
ficazione sui generis della rimozione e dell’oblio. Michelino cercherà di salvargli
401
Conversazione con Michele Mari in Mazza Galanti, Michele Mari, cit., p. 176.
402
Michele Mari, Euridice aveva un cane, Torino, Einaudi, 1993, pp. 89–124.
403
Negri, A Nasca, cit.
404
Mari, Verderame, cit., p. 5.
405
Ivi, p. 13.
202 Katarzyna Skórska

la memoria, ed è in questa operazione di recupero salvifico che egli verrà a sco-
prire i segreti celati nella casa di Nasca e che ricostruirà il passato del luogo. Per
aiutare il contadino, il ragazzo crea una mnemoteca precaria costituita da indizi,
associazioni, analogie, assonanze echeggianti. Fra i tanti esempi di questa costru-
zione si può citare quello di quando Michelino per far ricordare il proprio nome
a Felice gli raccomanda di tenere una foglia di felce accanto al letto; intorno alla
casa invece distribuisce una serie di frecce indicatrici. Tra gli indizi appare anche
il disegno di un coniglio appeso – un omaggio–feticcio dell’autore milanese che
attraverso l’impiccagione degli animali richiama uno dei libri da lui più stimati,
Cosmo di Witold Gombrowicz, nel quale, come osserva Giuseppe Antonelli, è con-
tenuta una soluzione possibile alla dualità fra cosmo e caos che interessa Mari sin
dal suo debutto406. Questa dualità anche in Verderame si manifesta su diversi piani
fra loro divergenti e conflittuali: «di nomi e di cose, di letteratura e vita, di lin-
gua e dialetto»407. Quell’intervento di Michelino di porre Felice davanti a una serie
di indicazioni inconfondibili, dei «memento materiali o mentali»408, che attraver-
so associazioni varie devono fargli tornare i ricordi, in maniera metaforica ripor-
ta il presente al passato conservatosi nella mente del contadino. E in questa rete
di immagini del presente sovrapposte a quelle del passato, in questa ricerca di se-
gni congeniali, si compie quell’atto di «ricondurre l’impronta propria di ciascuno
alla sua visione, accogliendola (...) e  adattandola alla propria orma»409 descritto
da Platone nel Teeteto, esso stesso metafora fondamentale, come rileva Paul Rico-
eur, per illustrare l’atto mnemonico del riconoscimento, «questo piccolo miracolo
della memoria felice»410.
La memoria fallace di Felice con i suoi vuoti diventa un equivalente della cen-
surata memoria collettiva nel microcosmo del paesino lombardo (al contempo
estensibile a quella del macrocosmo italiano post–bellico), nonché della memoria
selettiva dei fatti storici serbata dalla famiglia di Michelino. Mari delinea l’aspetto
spaziale della mente già nelle parti iniziali del romanzo: «una casa è  come una
testa, con le sue ambage e le sue oscure circonvoluzioni, le sue ambiguità e le sue
ossessioni»411, per poi passare direttamente al mneme stesso di Felice, paragonato
alla casa dei nonni del protagonista:

406
Michele Mari, Di bestia in bestia, Milano, Longanesi, 1989. (Cfr. I nomi ad anagramma
dei protagonisti Osmoc e Osac).
407
Giuseppe Antonelli, Nomi e cose, in «L’Indice dei Libri del Mese», dicembre 2007.
408
Mari, Verderame, cit., p. 16.
409
Platone, Teeteto o Sulla Scienza, Milano, Feltrinelli, 2000, p. 181.
410
Paul Ricoeur, La memoria, la  storia, l’oblio, Milano, Raffaello Cortina Editore, 2003,
p. 610.
411
Mari, Verderame, cit., p. 47.
Conflitto, rimozione. Verderame di Michele Mari 203

Guardavo la  nostra casa e  mi sembrava di  vedere la  memoria di  Feli-
ce, non solo perché un  tempo favoloso era stata sua, ma  perché era piena
di buchi e di crepe, con il tetto che faceva acqua da tutte le parti e macchie
di umido che annerivano e riempivano di bolle l’intonaco, i mobili bucherel-
lati dai tarli e le maniglie che ti restavano in mano, le persiane con i listelli
che uscivano dal telaio e rimanevano di sbieco, la vernice di serramenti che
si scrostava, il muro di cinta che andava in pezzi per la spinta delle radici dei
rampicanti, le vecchie stampe che si incurvavano sotto il vetro e ospitavano
negli angolini i bozzoli di larve che non si sarebbero mai evolute, il ferro delle
ringhiere ridotto a una massa di ruggine tenuta insieme solo dai ripetuti strati
di cromo e vernice verdina, zone sempre più ampie del frutteto invase dalla
robinia e dal bambù, alberi con i rami più alti che nessuno potava da anni...412.

Questa sempre più profonda interiorizzazione dello spazio abitato slega il pro-
tagonista dalla realtà, fa quasi svanire il mondo circostante. E nonostante la casa
esista realmente, essa assume sempre più le  sembianze della bachelardiana casa
onirica (con le sue contaminazioni con la grotta e il labirinto)413, facendola diven-
tare quasi un luogo immaginario. Nella casa estiva di Nasca, come in Bachelard,
tutto l’universo «si anima al  limite dei temi astratti e  delle immagini superstiti,
in quella zona in cui le metafore acquistano il sangue della vita per poi cancellarsi
nella linfa dei ricordi»414. Quando ad un certo punto Felice consegnerà al ragazzo
la chiave dello stanzino segreto della casa dei nonni, nel quale sono nascosti gli
scheletri dei tre presunti soldati tedeschi che si riveleranno essere i russi ex–padro-
ni di casa, i Kropoff uccisi dai partigiani italiani, egli gli aprirà le porte di un aldilà,
di un passaggio dal presente al passato, dalla realtà di oggi all’inferno di ieri con
i suoi spettri, il che porterà Michelino a una delle sue constatazioni finali:

c’era un’altra analogia fra la testa di quel poveretto e la nostra casa: la pre-
senza di certi ricordi corrispondenti a certi fatti avvenuti in certi luoghi, luo-
ghi come uno sgabuzzino nascosto dietro un  letto smontato in  una stanza
di fianco al fienile, luoghi come la terra grassa sotto a un prato... In entrambi
i casi c’erano di mezzo dei cadaveri: possibile che il passato consegnasse solo
quello, o morti o fantasmi? O gente giustiziata o gente scomparsa?415.

Il tredicenne Michelino svolge quindi una solitaria indagine sul passato di Na-
sca. La sua ispezione della memoria di Felice provoca al contempo uno sposta-
mento nella Storia. Il carattere spaziale della memoria su cui si insiste nel romanzo
rievoca il concetto agostiniano presentato nelle Confessioni, l’opera che, come sot-

412
Ivi, p. 134.
413
Cfr. Gaston Bachelard, La terra e il riposo, Milano, Red Edizioni, 2007, pp. 83–86.
414
Ivi, p. 84.
415
Mari, Verderame, cit., p. 135.
204 Katarzyna Skórska

tolinea Paul Ricoeur «conferisce all’interiorità l’aspetto di una spazialità specifica,


quella di un luogo intimo»416 attraverso la metafora della memoria come palazzo

dove si  accumulano tesori di  innumerevoli immagini, per ogni sorta
di oggetti della percezione. Lì è custodito tutto ciò che ci avviene di pensare,
amplificando o riducendo o comunque variando i dati dei sensi, e quant’altro
vi sia stato riposto in consegna, purché l’oblio non l’abbia ancora inghiottito
o sepolto417.

Tuttavia la memoria di Nasca, a differenza di quella di cui parla Agostino, come


si è già visto, non è piena di tesori ma di cimeli indesiderati e vergognosi, di avve-
nimenti e oggetti da nascondere, la cui presenza si vuole rimuovere. La scoperta
del passato da parte di Michelino, come spesso succede nella prosa di Mari, inseri-
sce nella trama del romanzo l’elemento del sovrannaturale418 (mentre riemergono
sempre nuovi cadaveri e si viene a sapere del sangue conservato in bottiglie in can-
tina nonché di un Gran Coniglio creato nel corso di esperimenti compiuti durante
la guerra, ecc.), facendo accrescere l’angoscia419 e rievocando il genere fantastico
della tradizione sette–ottocentesca420, lo stesso di cui si è nutrita l’immaginazione
del protagonista.
In tale contesto, anche il compito di Felice di irrorare il verderame, su quella
terra degli orrori, assume esso stesso un valore di pratica magica in cui si usa quella
sostanza purificatrice come mezzo rituale per provocare oblio. È un intervento mi-
rato a sterminare le lumache che invadono il giardino riemergendo sempre come
la  Storia e  la colpa rinnegata, sepolta ormai da  tempo sotto strati di  terra. Feli-
ce le chiama “lumache francesi” (in dialetto del Varese: “lümagh frances”), visto
che a suo avviso esse sarebbero cresciute nutrendosi dei corpi dei soldati francesi
sepolti nel giardino dei quali egli stesso eseguì la  sepoltura. Questa guerra con
le lumache, dichiarata già nell’incipit («Dimidiata da un colpo preciso di vanga,
la lumaca si contorceva ancora un attimo: poi stava»421), non racchiude in sé solo
il  conflitto con un  passato difficile, ma  anche il  conflitto di  Felice con la  madre
respinta, una giovane prostituta detta la Macula, per via di una macchia violacea

416
Ricoeur, cit., p. 139.
417
Agostino (sant’), Confessioni, Milano, Garzanti, 1990, p. 355.
418
Si veda per esempio il romanzo di Mari dedicato a Giacomo Leopardi, Io venìa pien d’an-
goscia a rimirarti (Longanesi, Milano, 1990), oppure i racconti dalle raccolte già nominate
ma anche quelli dalla più recente Fantasmagonia (Einaudi, Torino, 2012).
419
Essendo l’angoscia nella narrativa di  Mari legata frequentemente «al sottosuolo, a  quel-
le profondità terrestri o marine sconosciute e invisibili che la fantasia infantile non tarda
a popolare di mostri terrificanti». Vedi: Luca Tassinari, Michele Mari – Verderame, http://
letturalenta.net/2008/01/michele–mari–verderame, visitato il 15.05.2015.
420
Negri, A Nasca, cit.
421
Mari, Verderame, cit., p. 3.
Conflitto, rimozione. Verderame di Michele Mari 205

in viso, il cui soprannome costituisce un anagramma della parola “lumaca”. Nel


nome stesso Macula si  racchiude un’indicazione dell’estraneità della madre alla
comunità naschese, e quindi di Felice − la cui nascita non viene neanche registrata
−, dotato anche esso di «una vasta voglia color vinaccia»422, che si traduce in una
loro emarginazione e seguente espulsione.
A estromettere Felice è anche l’impurità del sangue versato, dei Kropoff uccisi
dai partigiani in  sua presenza. È  un’impurità che si  rivela contagiosa originan-
do «una macchia che bisogna togliersi di dosso non soltanto per se stessi ma per
la collettività»423, secondo la teoria dell’antropologo della violenza René Girard. Se-
guendo la teoria di Girard, quella macchia venuta dal sangue paradossalmente può
essere tolta solo dal «sangue stesso, ma stavolta il sangue delle vittime sacrificali,
il sangue che resta puro se versato ritualmente»424. Felice sembra adempiere alla
«funzione del sacrificio (…) di placare le violenze intestine, d’impedire lo scoppio
dei conflitti»425, quando si dedica alla “rituale” uccisione delle lumache, allo scuo-
iamento dei conigli, la cui «cruenta pelliccia»426 appende ai rami degli alberi, quasi
a  surrogare con il  sacrificio animale quello umano, essendovi tra le  due forme
sacrificali un nesso427.
Nel conflitto di Felice con le lumache si racchiude anche quello con la sua ses-
sualità, segnato sia dal “mal francese” ereditario sia dal suo precoce fallimento
erotico con una donna indubbiamente proveniente dalla Francia428. Ci vuole tanto
verderame, afferma il contadino, per un mondo «sansa fascist, sansa lümàgh e san-
sa frances»429. Nonostante esso sia un veleno alquanto forte, Felice ne resta sempre
“immune”, essendo l’unico a non rinnegare niente, che della rimozione collettiva
è solo un metaforico esecutore, un veicolo, ancora una volta rivelando il suo aspet-
to sovrannaturale e la sua sospensione fra due mondi.
Carlo Mazza Galanti, autore dell’unica monografia dedicata alla scrittura
di Michele Mari, annovera Felice fra i testimoni di una consunzione irreversibile,
di una perdita di aderenza alla realtà, lo menziona fra i personaggi di Mari «im-
mersi nei propri deliri», accanto a quelli colti, quali lo studioso solitario Osmoc del
romanzo Di bestia in bestia o il filologo serial–killer del racconto La serietà della

422
Ivi, p. 4.
423
René Girard, La violenza e il sacro, Milano, Adelphi, 1992, p. 59.
424
Ibid.
425
Ivi, p. 30.
426
Mari, Verderame, cit., p. 4.
427
Per la dottrina della sostituzione del sacrificio umano con quello animale si veda: Joseph
De Maistre, Les soirées de Saint–Pétersbourg, ou Entretiens sur le gouvernement temporel
de la providence; suivis d’un Traité sur les sacrifices. Tome 2, Paris–Lyon, Rusand, 1822.
428
Cfr. Mari, Verderame, cit., pp. 144, 157.
429
Ivi, p. 129.
206 Katarzyna Skórska

serie430. Come afferma Mazza Galanti, per lo scrittore milanese «la letteratura è un
artificio sovrano», e quindi «il fascismo, la guerra, la rivoluzione russa, sulla pagina
di Mari non possono che parlare, ancora e sempre, la lingua fantastica e visionaria
del romanziere»431. Questa tesi trova conferma nelle parole dello stesso autore: «la
vicenda storica che coinvolge la  Seconda guerra mondiale, i  partigiani, il  fasci-
smo, il nazismo, è entrata (nel romanzo) come ingrediente fantastico»432. Questo
intervento narrativo è stato garantito non solo da quel filtro che offre lo sguardo
di un tredicenne nutritosi di romanzi fantastici e di libri dell’orrore, ma anche dalla
visione leggendaria e mitica che Mari stesso, come afferma, aveva acquisito da ra-
gazzino avendo conosciuto le vicende dei partigiani attraverso le rappresentazioni
mitiche che di loro avevano offerto i libri di Beppe Fenoglio, Italo Calvino, Cesare
Pavese433. Nella narrativa di Mari si tende a esprimere il conflitto tra letteratura
e vita, e invero l’autore stesso considera la sua vocazione di scrittore in termini «di
lotta, di conflitto, di opposizione», essendo forse l’ultimo erede dei grandi letterati
italiani novecenteschi, quali Gadda, Consolo, Landolfi, Manganelli, essendo pro-
babilmente, come scrive Mazza Galanti, «l’ultima incarnazione, in ordine di tem-
po, di una risposta ostinatamente letteraria alla fine della letterarietà»434.

430
Cfr. Mazza Galanti, Michele Mari, cit., p. 13.
431
Ivi, p. 111.
432
Mazza Galanti, Conversazione con Michele Mari, cit., p. 175.
433
Ivi, p. 176.
434
Mazza Galanti, Michele Mari, cit., p. 17.
I l volume che presentiamo ai lettori tiene
conto della complessità del fenomeno del
conflitto e, nonostante le sfumature negative
presenti nell’accezione comune del termine,
mira a dimostrare la sua utilità come chiave
di lettura di fenomeni di varia natura, come
strumento per scoprire le variegate dicoto-
mie della contemporaneità: il vecchio e il
nuovo, il digitale e l’analogico, la tradizio-
ne e l’innovazione. La presente monografia
dà spazio alle analisi del fenomeno in ottica
interdisciplinare, raggruppate intorno a tre
argomenti dominanti: la lingua, l’insegna-
mento e la letteratura, in cui il conflitto non
viene percepito esclusivamente come una
forza distruttrice, ma piuttosto come oppor-
tunità per nuove interpretazioni e riflessioni.

www.wydawnictwo-silvarerum.eu

Potrebbero piacerti anche