La particolarità di questo libro si concentra sulla particolarità della situazione politica italiana (le date sono fondamentali).
17/03/1861 Data dell’Unità d’Italia
18/01/1871 Nascita dell’impero tedesco
Per quanto riguarda invece le altre nazioni la Spagna si costituisce come stato dopo la cacciata degli arabi (1492), unisce
varie cose insieme cacciata degli arabi e la scoperta dell’America. La Castiglia dovette impossessarsi di altri domini fra i
quali il più importante la Catalogna. La cronaca continua a parlare delle istanze autonomiste della Catalogna hanno
l’autonomia ma vorrebbero l’indipendenza (presidente in esilio da 2 anni).
La Gran Bretagna, invece, partendo dalle lotte fra Normanni e Sassoni, passando alle lotte successive tra Gallesi,
Scozzesi cattolici, Irlandesi, anche per la Gran Bretagna l’unificazione non fu semplice ma venne molto prima rispetto
all’Italia.
In Francia l’opposizione maggiore è con gli inglesi, gli inglesi restano in Francia fino all’inizio del ‘500, ricordiamo che
la Gran Bretagna continua a occupare un lembo della Francia fino all’inizio del ‘500 ma la Gran Bretagna tutt’ora occupa
un lembo della Spagna, è una delle cose più delicate a livello di diplomazia internazionale, ci riferiamo alla patria
Gibilterra è la patria di Molly Bloom nell’Ulisse --> La Francia era divisa in due: i signori del Nord violenti e potenti ma
poveri e abbiamo il regno del sud Provenza e Occitania, è raffinato. Si alleano per distruggere questa splendida realtà, sono
nate molte leggende sulla ricchezza di questa cultura, cultura occitanica. I signori del Nord (parigino) parlavano una lingua
d’Oil, i signori del sud occitania) parlavano una lingua: d’OC
per definire la lingua si usava la particella che indicava --> Vinse Parigi e la lingua d’Oil.
1539 data fondamentale —> editto di Villers-Cotterêts obbligherà i francesi a scrivere tutti gli atti ufficiali e
redigerli nella lingua del re cioè D’oil —>questo porterà—>allo scontro con la lingua D’oc.
Il tedesco viene dotato di una precisa data di nascita il 1517, data cruciale, perché vede la fissione delle tesi di Lutero. Il
suo inizio viene collocato nel 1517, perché Lutero tradurrà la Bibbia, questo evento fondamentale, si lega tra l’altro alle
richieste di ordine teologico, implicate nel protestantesimo. Il cristianesimo sin dalle origini è lacerato dall’eresia, centinaia
di eresie a partire dai promisi secoli, San Agostino (1410) vede il sacco di Roma, aveva lottato contro una serie di eresie,
(manichea). Le eresie fin dall’inizio sono infinite, solo una dobbiamo ricordare 1544, dopo un millennio dalla nascita di
cristo, il cristianesimo si spacca in due, entrambi i rami sono cristiani, ma uno verrà chiamato cattolico l’altro detto
ortodosso.
Il cristianesimo 1544 si spacca in cattolicesimo col papa e chiesa ortodossa con il suo massimo rappresentante Alexié,
il patriarca ortodosso è uguale al papa cattolico. Nel 1544 abbiamo lo scisma d’oriente: il cattolicesimo va avanti per
oltre 500 anni, le eresie diventano sempre più numerose con esiti spaventosi, esempio dei Catari. i Catari collocati
nell’Italia (Piemonte, nordoccidentale) erano un gruppo religioso potentissimo, il papa li dichiara eretici e indice una
crociata contro di loro.
Dante definisce l’Italia dove il si suona, l’affermazione si in Italia.
Protestantesimo: ci riferiamo ad una miriade di correnti molto spesso in lotta fra di loro, se il calvinista prendeva il
luterano, l’anabattista prendeva qualcun altro, lo faceva a pezzi. I protestanti occupano la metà dell’Europa lasciata libera
dagli ortodossi, che se ne erano andati 500 anni prima.
Lutero attacca la chiesa ma i punti principali di distacco: Culto dei santi e della Madonna, simonia (vendita delle
assoluzioni, il peccato si pagava in denaro) e il nipotismo (i papi facevano cardinali i propri parenti), contro la figura del
sacerdote come mediatore tra il fedele e Dio.
Fino al 1970 la messa era in latino per due mila anni, i fedeli non capivano nulla della messa che gli veniva offerta.
Il sacerdote aveva un enorme potere sui fedeli, si dovevano rivolgere al sacerdote, Dio era uno straniero, si doveva
prendere un traduttore della parola di Dio, ovvero il sacerdote. Sacerdote = interprete, tra il fedele e le sacre scritture.
La letteratura tedesca con la traduzione della bibbia dal latino al tedesco fatta da Lutero, che nel 1517 fece nascere il
protestantesimo, fa vincere un’eresia, che sarebbe stata distrutta come i catari se i principi inglesi non avessero protetto
questo frate.
La lotta interna tra protestanti e protestanti contro i cattolici provoca situazioni impossibili, tali per i quali alcuni gruppi
emigrano, lasciano la loro patria, e vanno in America (padri pellegrini) sbarcano ed iniziano ad edificare il nuovo paese.
Per quanto riguarda invece l’Italia, prima della nazione è venuta la lingua, è la lingua stessa che farà il popolo. La
coscienza e la volontà di un’unione si sono basate soprattutto su un valore culturale che ha prefigurato sin dalle Origini
un’unità immaginata e inseguita come un desidero.
Non è stata dunque una nazione a produrre una letteratura ma una letteratura a prefigurare il progetto di una nazione.
Dante nel suo De Vulgaris eloquentia vede l’Italia come lo spazio geografico su cui la lingua ha da diffondersi, la sua è
una conquista intellettuale, un’idea nuova che da allora farà costantemente parte del patrimonio italiano culturale. Egli
pensa a un volgare letterario del sì ampio respiro, fondato su un gruppo non solo di toscani ma sul gruppo meridionale dei
siciliani già fioriti al tempo di Federico II, accogliendo nella federazione dei lirici ance un bolognese, Guinizelli. La
parola letteraria si stende su un’unità geografica e culturale prima che essa esista realmente . Sin dai primissimi anni
del XIV secolo persegue l’esigenza unitaria, soltanto sei secoli dopo si realizzerà questo desiderio, Mario Luzi parlerà di
questo antico sogno di un paese da costruire, di un’Italia perennemente da fare, illimitatamente futura. L’idea e la
fondazione di un’unità linguistica saranno più a fondo acquisiti nel ‘500 quando sulla base di concetti dell’umanesimo,
quali il valore assegnato alla parola e al pensiero, si conferirà un valore imprescindibile alla scrittura come condizione
necessaria alla durata, ovvero la fede nel valore perenne dei testi starà alla base della nostra storia. Nel corso del tempo
abbiamo faticato on poco a costruirci una nazione e una lingua comune, la storia della nostra patria ha conosciuto
tormentate vicende.
Abbiamo uno stato ma uno scarso senso della nazione, non abbiamo mai avuto il senso reale di una comunità
nazionale, poiché nel nostro paese è stata la lingua a indicare un senso e un desiderio di unità.
La letteratura ha lasciato dei segni nella lingua, ha fatto sì che rimanesse vicina nei secoli alla lingua delle Origini, infatti
l’italiano non è una di quelle lingue ad aver subito nel lungo periodo dei cambiamenti importanti o radicali. De Mauro
nella Postfazione del Grande dizionario dell’uso afferma che quando Dante scrive la Divina Commedia il vocabolario era
già costruito. Straordinaria nella lingua oltre il lessico è la morfologia. La lingua di Dante non suona a un lettore molto
lontano a è facile da intendere e leggere, per questo non ha bisogno di una tradizione come per gli scritti in lingua francese
e spagnola. Man mano che si diffondono i manoscritti di Dante e Petrarca si diffonde sul territorio anche la lingua.
L’affermarsi di un dialetto, il fiorentino, su tutti gli altri è il prodotto di fattori culturali. La prima diffusione della lingua è
dovuta alla Commedia di Dante, al Canzoniere di Petrarca e al Decameron di Boccaccio (LE TRE CORONE).
Vocabolario della crusca (1612), l’Italia non aveva una norma e ne aveva bisogno di una dettata dalla convinzione
che la lingua dei grandi scrittori del Trecento era divenuta un modello di perfezione da custodire e imitare.
La nostra è una storia che partendo da Firenze conquista una nazione grazie alla letteratura. Il nostro volgare era diventato
veicolo di contenuti colti e raffinati, la lingua italiana nasce come GRANDE e ILLUSTRE.
Da noi non c’è stato un testo principe che formasse la lingua in modo uniforme, ma sono stati i testi del ‘300 a costruirne
un canone, l’italiano non era una lingua madre ma lo erano i dialetti.
1. Dialetto = Lingua della quotidianità;
2. Volgare = Lingua illustre si deve abbracciare in determinate situazione.
Ancora nel secondo ‘800 ai tempi dall’unificazione, l’italiano restava lingua destinata alla scrittura. Ciò che aveva
ostacolato e rallentato l’unificazione è stata la scarsa densità della cultura e la troppa preoccupazione della forma. Da un
lato c’erano 5 milioni di arcadia e 17 milioni di analfabeti dall’altra che costituivano uno squilibrio culturale
insormontabile apparentemente per raggiungere un’unità linguistica.
Arcadia: Con riferimento all'omonima regione greca, quale fu favoleggiata dai poeti bucolici, paesaggio ameno,
scenario di vita idillica e c on riferimento all'omonima Accademia romana (fondata nel 1690), che promosse un
rinnovamento delle poetiche in senso classico senza tuttavia andare immune da atteggiamenti convenzionali e leziosi,
visione idillica della natura, elevata a canone poetico.
Manzoni sin dagli inizi degli anni ’20 era guidato da un necessario NORMATIVISMO ribadito quasi mezzo secolo dopo
nella Relazione dell’unità della lingua e dei mezzi per diffonderla dove sottolineava l’urgenza di un vocabolario di base
fiorentina, mentre Ascoli, che vive incontri di lingue e di genti al contrario, privilegia le ragioni della storia e delle culture
diverse. L’italiano che verrà lo vede come il frutto di un sedimento, non di una normale esterna, pensava che fosse urgente
l’educazione delle menti, ma non credeva che si possa ottenere in tempi brevi quell’uniformità dell’uso secondo il disegno
indicato da Manzoni, il quale in definitiva assimilava l’esempio francese al nostro. Secondo Ascoli scegliere un modello
come il fiorentino significava ricadere in una retorica.
Nell’Italia postunitaria il modello fiorentino conquisterà in ogni caso una posizione solida, sia narrativa che negli scritti di
maggior praticità e molte frasi toscane entrano nell’italiano comune. Nei Promessi sposi, Manzoni non intendeva
raggiungere una perfezione stilistica ma un’unità idiomatica, una lingua unitaria e popolare. Nella nostra particolare storia,
da una parte abbiamo frasi idiomatiche fiorentine che entrano costantemente nel lessico comune, infatti egli mirava a
un’unità idiomatica accettata da tutti. Dall’altra, vi è un forte contributo anche di tutti gli altri dialetti.
La padronanza dell’italiano non era del tutto disinvolta nemmeno tra coloro che nell’’800 avevano contribuito a fare
l’Italia come Cavour. Ai non toscani l’italiano sembrava una lingua straniera da imparare sui libri. Il piemontese di Alfieri
si era fabbricato da solo un vocabolario tascabile, come una sorta di quadernetto di appunti dove su tre colonne inseriva
nella prima il noto, cioè la voce francese, nella seconda colonna la corrispondente piemontese e nella terza l’ignoto, la
voce italiana, che non sapeva e che voleva ricordare. A fine dell’’800 anche gli scritti iniziarono a prediligere il dialetto
poiché l’italiano risultava alla maggior parte della popolazione una lingua straniera. A fine Ottocento la lingua italiana
appariva ancora una lingua morta in opposizione alla naturalità del dialetto, infatti per i letterati meridionali la soluzione
manzoniana non era affatto un aiuto, ma un ostacolo.
Nella stesura di Fermo e Lucia, Manzoni si rende conto di aver in mano una lingua troppo alta e colta, non appartenente al
palato, tanto che risolverà scrivendo in una lingua milanese-toscana per un’idea di uniformità. Manzoni lamenta l’uso
dell’italiano che si parlava, mescolato con inconsci dialettismi, quello che due italiani di diversa regione usavano quando si
incontravano, infatti egli lamentava questa assenza di una lingua media.
I rivoluzionari napoletani del 1799, per farsi capire dal popolo avevano usato alcune volte il dialetto e allo scopo di
diffondere le idee repubblicane i giacobini fecero alla plebe di Napoli molti discorsi in dialetto. Nel dibattito intellettuale
del XVIII secolo si è posta in rilievo la necessità di avere a disposizione un italiano più agile del tradizionale, un
linguaggio moderno. Ed è proprio nel’800 che si forniranno molti strumenti per portare l’italiano al livello più pratico; si
sviluppò la diffusione di dizionari settoriali e metodici come quello di Tommaseo, personaggio scomodo perché
repubblicano, che prestava molta attenzione alla lingua corrente, elabora un vocabolario, pubblicato da Pomba.
La mancanza di una lingua comune manteneva il paese in costante divisione.
Anche Leopardi lamentava il fatto della mancanza di una lingua media. In Italia vivono due lingue, la prosaica e la
poetica che non riuscivano, però a entrare in contatto. Era una lingua che guardava più al passato che al presente e
l’innovazione faticava a farsi largo. Il classicismo ottocentesco mostrava riluttanza per il nome che rappresentava la cosa
legata ai propri riferimenti reali. Si ricorreva alla figura della perifrasi --> Anche D’Annunzio rigirava le parole in perifrasi
con altri vocaboli e riferimenti mitologici.
Il dialetto ora è fortemente in calo, per la comunicazione orale ci affidiamo al dialetto piuttosto che al parlato italiano
insicuro ma questo dà voce a un sentimento negativo di identità nazionale. L’italiano diviene difficile da conquistare e il
dialetto incombe sempre di più. Nel 1944 Badoglio e Togliatti conservavano il piemontese mentre Federico de Roberto
racconta che nella trincea di guerra del 15-18, ogni soldato parlava il proprio dialetto e con i compagni di altre regioni si
parlavano attraverso l’uso dei gesti.
Ora l’italiano è diventato la lingua di tutti, nel dopoguerra hanno contribuito le migrazioni, l’inurbamento, lo sviluppo dei
mezzi di comunicazione e di informazione. Il ‘900 ha risolto la secolare questione della lingua. Il dialetto era la lingua di
natura mentre l’italiano si usava solo per scrivere, una lingua quindi di cultura.
I dialetti, dal dopoguerra, hanno iniziato a cambiare sempre di più, a italianizzarsi, ma ancora si differenziavano da un
paese all’altro, da città a città e si sono mescolati con la lingua italiana. Anche l’italiano era in origine un dialetto,
ovvero il fiorentino, diventando man mano una lingua di prestigio prima letteraria e poi ufficiale.
Non c’è una norma grammaticale che unisce le varietà dei dialetti.
Le ansie della globalizzazione culturale, il panico della perdita della propria identità spingono a rivendicazioni di identità
locali, perché si teme l’imposizione di modelli esterni e lontani dalla propria cultura, perciò ci si può spiegare perché
prendendo quota le considerazioni del dialetto e della tradizione locale come autenticità oppressa dalla lingua nazionale e
si usa il proprio il dialetto per preservare l’affettività di un idioma materno. Il dialetto assicura un secondo livello, quello
più intimo e casalingo.
Lo scrittore afferma di non lodare chi propone di insegnare il dialetto a scuola, poiché si deve dedicare l’interesse alla
lingua nazionale, i dialetti si parlano ma non si possono né scrivere e tanto meno insegnare.
DISPENSE ANTONELLI:
Le dispense vertono su che cosa siano le Lingue Romanze. Le lingue romanze si formano in quella zona che viene
chiamata Romania, cioè la parte europea occidentale dell’Impero Romano.
813: atto di nascita delle lingue romanze, ma il processo era iniziato molto prima
813: Carlo Magno al concilio di Tours promulga una deliberazione di estrema importanza, i vescovi debbono
tradurre, tranferre, le prediche in modo comprensibile nella lingua romana, rustica o nella tedesca.
L’impero di Carlo Magno,si dividerà in zona francese e zona tedesca,riceve questa indicazione, tradurre le prediche a
seconda della zona, le prediche sarebbero state pronunciate o in lingua romana rustica (diventerà il francese) o in lingua
tedesca. Le prediche vengono definite come direttive comportamentali.
L’813 sancisce la nascita delle lingue romanze che era cominciata 400 anni prima col sacco di Roma.
La popolazione e la lingua erano in consonanza, dalla fine dell’impero, le lingue iniziano ad evolversi al punto che il latino
finisce per sembrare straniera, si arriva ad un punto di ritorno. La lingua resta la stessa, tutto entra in crisi quando le
difficoltà del potere politico, si affiancano al potere dirigente linguistico, nella dispensa si racconta dei senatores (classi
dirigenti) e piscatores (i più umili). Per l’impero carolino la comunicazione con i fedeli, garantita per il clero, era
essenziale perché per il consenso e il successo del nuovo ordinamento sociale e politico, sono passati 4 secoli dal sacco di
Roma. Questo potere deve rimettere ordine nella comunicazione linguistica, per questo il concilio di Tours annuncia
appunto la decisione di tradurre nelle lingue rispettive.
Islam nasce 622, dal fondo dell’Arabia.
LA PAROLA BRACCATA =
CENNI STORICI: Esercizi come le traduzioni letterarie, le traduzioni dei giochi di parole, sono secondo gli studiosi la
miglior palestra per prepararsi all’arte della decisione. All’interno di questi “esercizi estremi”, il primo dei campioni che
verrà affrontato riguarda la traduzione di una figura antichissima quale l’acrostico. Si tratta di un tipo di composizione
poetica in cui le iniziali dei singoli versi, lette verticalmente formano una parola o una frase riferendosi alla donna amata o
al titolo di un’opera. Analizzando il verso, bisogna ricorrere a Jakobson per mostrare come la poesia sia caratterizzata dalla
sovrapposizione di un principio di equivalenza sulla successione delle parole, ovvero il prevalere della forma metrica.
L’acrostico sembra caratterizzato dalla duplicità della scrittura poetica, producendo un’analoga ambiguità, in quanto
obbliga a una doppia lettera, simultaneamente orizzontale e verticale, rivelandosi, così, adatto a veicolare messaggi cifrati
o tali da essere percepiti soltanto a un’attenta analisi. Giovanni Pozzi, riassume la storia di questa pratica, che era già
presente nella letteratura babilonese, l’acrostico venne introdotto fra i greci da Epicarmo, mentre presso i latini, afferma
Cicerone, fu inizialmente praticato da Ennio. La tecnica compare con una certa frequenza nelle epigrafi, ma la massima
fioritura coincide con l’avvento della poesia cristiana, ma non viene coltivato dai provenzali comparendo soltanto nel tardo
‘400 presso i poeti francesi. Nella poesia volgare italiana, si attribuisce a Dante il ricorso all’acrostrofe, ossia ad acrostici
che legano le lettere iniziali di strofa. Pozzi ha concluso chele figure si impongono per il loro rapporto con il testo e più in
generale, è possibile riscontrare l’incremento di simili artifici soprattutto in periodo che privilegiano le ricerche formali.
Durante il volgare, l’acrostico diventa più frequente. Quanto alle regole che ne reggono la tecnica compositiva, lo studioso
spiega come la posizione delle unità linguistiche utili possa essere “quella iniziale di segmento linguistico e allora si ha
l’acrostico propriamente detto; quella finale, ed allora si ha il telestico, o una lettera mediana ed allora si ha il mesostico.
LAVORI FATTI IN CASA: Un esercizio di capo lo troviamo con una poesia di Magrelli, una lirica redatta in italiano
senza acrostici e traducendola in una vera versione, dotandola di un particolare accorgimento alfabetico. Soffermandoci
sulla particolarità rappresentata dal passaggio endolinguistico (da Roman Jackboson “all’interno della stessa lingua”), il
cui esempio più celebre riguarda il transito da un testo di partenza francese a un testo d’arrivo, sempre francese, ma
sottoposto alla contrainte (costrizione) del lipogramma (costituito da un testo in cui non può essere usata una determinata
lettera). Si tratta del romanzo “La disparicion”, pubblicato nel 1969 da Georges Perec. In quest’opera, lo scrittore-
enigmista affrontò la sfida di versare alcune composizioni francesi (sei poesie Ottocentesche) in un testo d’arrivo francese
lipogrammato. Si trattava cioè di riscrivere, in una versione priva di una singola vocale (in questo caso la “e”), sei famose
liriche dal canone transalpino a firma Mallarmé, Baudelaire, Hugo, Rimbaud. Se il lipogramma prevede spesso la completa
ristrutturazione lessicale e sintattica dell’originale, l’acrostico, meno invasivo, appare circoscritto alle iniziali dei singoli
versi, vedendo ciò nel passaggio da un testo poetico libero a uno sottoposto al vincolo dell’acrostico. La composizione di
“Cucina” paragona la raffinata arte dei nuovi chef al rozzo prototipo dei Mangiatori di patate di Van Gogh. Da un lato
abbiamo la ricerca di dose, misure e indici propria delle ricette che seguono una linea dietetica che dall’altra parte, con i
termini “foia” e “violenza” non troviamo. Il tutto con due sostantivi in maiuscolo, rappresentando un appetito quasi
animale. In conclusione, si sottolineano una coppia di verbi, il primo è indicativo “cancellano” per indicare come le tante
prelibatezze dei nuovi cuochi tendano a trascurare la smania alimentare dell’ingordo. Il secondo verbo, il riflessivo “si
perde”, appare in forma sinonimica rispetto al precedente per ribadire come i nuovi preparati culinari abbiano ormai
smarrito il ricordo. La riscrittura di Cucina nasce da un esame sticometrico, dove, muovendo dagli undici versi della poesia
iniziale ed essendosi posta verticalmente nei capilettera come chiave di volta la parola “dieta”, è venuto spontaneo provare
a raddoppiarla. In tal modo si è preceduto alla scissione del corpo testuale. Per realizzare la verticale alfabetica, il primo
verso è risolto mentre la traduzione del secondo consiste in un semplice scambio verticale, il terzo ha chiesto un
raddoppiamento degli aggettivi tramite il concorso della particella “e”, mentre il quarto e il quinto hanno subito sia una
sostituzione di congiunzioni sia un cambio di verso necessario a introdurre il dativo acrosticamente indispensabile per
ottenere l’ultima vocale della sigla D.I.E.T.A. Quanto alla seconda strofa, dato che il sesto verso non richiedeva modifiche,
la formula “i confini di” (v.7) è stata anteposta all’oggettivo indefinito “ogni”, usufruendo dell’articolo maschile plurale.
L’ottavo verso è stato lasciato intatto, ampliato solo dal sintagma “su quel” appartenente al verso successivo e ciò ha
consentito di correggere il nono, per tradurre l’acrostico in una poesia inizialmente concepita nella stessa lingua ma in
versi liberi, bastano pochi ritocchi, mentre più complesso è quando si lavora su una lingua di partenza diversa da quella di
arrivo.
Un’invettiva cifrata: Gwen Harwood: Per rendere in italiano la traduzione di un acrostico redatto in un’altra lingua,
Gwen Harwood si rivolse si rivolse invano ad una rivista inviando due componimenti con il suo vero nome, finché,
sospettando di misoginia, decise di spedirli con uno pseudonimo maschile e vennero accettati. Entrambe le poesie
nascondevano un acrostico, arrivando la seconda ad esibire un “Fuck all editors”. Per colpire, la scrittrice raccolse il suo
veleno non “in cauda”, cioè secondo le canoniche indicazioni latine, ma “in capite”: ovvero non in rime, ma in capilettera.
Nel primo dei due sonetti, Eloisa si era rivolta ad Abelardo, forse sulla scia di versi di Alexander Pope. Nel secondo
sonetto invece, la parola passa al maestro, che indirizza all’amata appassionata parole di amore e morte, in una lirica
definita come “rubbish”, dedicata al solo scopo di dimostrare l’incapacità dei redattori. La prima cosa da notare nel
sonetto, formato da tre quartine e un distico finale, è la presenza del dativo. Per il sostantivo “editori”, si dovrà passare dal
plurale al singolare così da ridurre la frase-acrostico da 11 a 10 lettere. La soluzione/traduzione iniziale “in culo
all’editore” approderebbe a un sonetto con 16 versi invece che 14; meglio allora “Fottuti editori” oltretutto privo di
articoli.
Cominciando il lavoro di adattamento, muovendo dal testo in italiano per travasarlo in un nuovo schema, adottando il
minor numero di cambiamenti. Una prima fase di avvicinamento prevede la disposizione, accanto a ogni verso, della
lettera da raggiungere. Se riprendessimo l’analisi del sonetto, facciamo precedere l’imperativo “Dimmi” dalla formula di
cortesi “ti prego”, mentre agendo per via sinonimica, possiamo passare da “consunta” a “opaca” posponendo l’aggettivo al
sostantivo cui è riferito. Arrivando al distico finale, dove “Non richiamare” diventerebbe “Rifiutati di chiamare”, mentre
la frase “non lasciare che alcuna fede mi evochi” diventa “non lasciare che alcuna fede ti inciti ad evocarmi”.
Un esempio bilingue: Jonathan Franzen: Esaminando un secondo caso di “acrostico aggressivo”, dove cioè la lettura
della frase verticale racchiude un intento polemico, un modello che troviamo nel romazo Purity di Jonathan Franzen.
Siamo a Berlino est, dove un giovane di buona famiglia si prende gioco di una rivista letteraria pubblicando una poesia a
doppio taglio, un messaggio di violenta critica politica declinato in due lingue, tedesco e inglese, il cui titolo tradotto in
italiano è “Io dedico la mia gloriosa eiaculazione al vostro socialismo”. In questa poesia, l’acrostico della prima lingua è
scritto nella lingua della seconda e viceversa, depistando i lettori, mentre l’edizione italiana ha tradotto solo i versi tedeschi
tralasciando quelli inglesi. Gli editori, invece, addebitavano lo scandalo non alla scelta stilistica bensì al contenuto.
L’acrostico si occupa della prima estremità del verso (la sua lettera di apertura) mentre la rima riguarda le lettere
situate a partire dell’ultima unità sillabica accentuata, che è inoltre chiamata ad esprimere il rilievo che il ritmo
concede alla posizione finale. La posizione iniziale di verso, strofa o capitolo risulta avvantaggiata nei riguardi della
rima.
IV ESERCIZI DI CODA: TRADURRE UNA RIMA – CYRANO E KRULL: La frattura culturale inaugurata dal
verso libero fu responsabile sia del divorzio fra poesia e metrica consumatosi nella seconda metà dell’Ottocento, sia del
discredito in cui cadde la rima. Il lungo processo di erosione del verso principe francese, ossia l’alessandrino, attraversa
l’Ottocento con Victor Hugo e molti altri. Certo è però che diversi studi segnalano una serie di fenomeni metrici inaugurati
intorno al 1861, anno che vede l’uscita della seconda edizione delle Fleurs du mal baudelairiane. Possiamo definire la
poesia moderna tout court”, cioè slegata da qualsiasi obbligo sia nei confronti del metro, sia nei riguardi della rima o
quanto meno del suo impiego sistematico e strutturale. E qui torniamo al problema delle traduzioni: allineandosi al
gusto dell’epoca, anche il lavoro di transito linguistico ha finito per adottare la scelta del verso libero, “liberando” anche le
versioni di testi formalmente organizzati. Da qui una serie di risultati dal taglio più o meno prosaico, come nel caso
dell’esperimento di Giorgio Caproni, che giunse a tradurre le Fleurs du mal rinunciando completamente alla
versificazione. L’attimo fuggente narra della rivolta giovani contro un mondo governato dal calcolo, dall’ordine, dal
conformismo. Protagonista è un insegnante, in grado di scatenare la forza anarchica contro le ferree leggi di un potere
“prosaico” e utilitarista, una poesia contro prosa, ma in duello dove a scegliere le armi, ossia ad essere parlata dai
personaggi è la seconda. Nel Cyrano, se in qualche modo la lotta è la medesima, i suoi mezzi risultano invertiti, in quanto
lo scontro si svolge per intero sotto la difesa del metro e della rima. L’inestimabile testimonianza che Thomas Mann
dedicò appunto a un ragazzo ineducato e brillante. Confessioni del cavaliere d’industria Felix Krull , il romanzo restò
sospeso quasi quarant’anni, per essere pubblicato, ancora incompiuto nel 1954. Focalizzandosi su quest’opera,
esamineremo il ricco gioco di rapporti stabiliti dal romanziere tedesco fra prosa e poesia. A mo’ di premessa, occorre
precisare che la strategia manniana dei versi “nascosti” risale nel dramma Fiorenza. La scena che ci interessa riguarda la
parentesi dell’incontro amoroso con la stessa donna cui l’eroe aveva in precedenza sottratto un cofanetto di gioielli.
Nell’ardore della passione, la focosa cliente dell’hotel si rivolge al suo gigolò vantandone gli occhi azzurri e capelli biondi
con un sei alessandrini giambici, il ragazzo rimane basito. Ma per comprendere occorre tornare al brillante colloquio di
Krull per ottenere il posto di lavoro presso l’hotel parigino. La sequenza vede il protagonista esibirsi, oltre che in tedesco,
anche in italiano, inglese e francese, introducendo dei versi in francese, quindi abbiamo le prove che il ragazzo è venuto a
contatto con la lirica anche prima dell’incontro con la sua amante. (risposta dell’esaminatore brutale).
La rima in una quartina francese: Yves Bonnefoy: Si tratta di una composizione piuttosto particolare, non solo perché
dedicata a un pubblico di bambini, ma anche perché isometrica e monorima. Filastrocca o no-sense vedremo che alla sua
base sta un elemento importante ben visibile: ciò che i vocaboli definiscono nei termini d’identità di suono, a partire
dalla vocale accentata, fra due o più parole, più frequentemente poste a fine verso. Si è fatto riferimento alla
“filastrocca”, una delle cui caratteristiche salienti è costituita dalla “scarsa importanza del materiale semantico”. In
alcuni casi “l’uso della rima avrebbe ragioni tanto vitali nell’economia del testo da doversi imporre anche nella
traduzione”. Il suo mantenimento non è un dogma della traduzione poetica. Tuttavia, una volta stabilito, deve essere
rispettato anche a costo di qualche inevitabile compromesso --> Non conserva più nulla del testo originario a quanto
effetto metrico, ritmico e rimico.
COME TRADURRE LA NOSTRA POESIA: L’unica resa plausibile deve essere quella, oltre che isometrica,
monorima, così da cogliere il fattore più rilevante del testo, cioè l’informazione dominante. La rima consiste nell’identità
consonantica e vocalica a partire dall’accento tonico della parola a fine verso. Altrimenti parole piane rimano solo con
quelle piane, sdrucciole con sdrucciole e tronche con tronche. La nostra terminologia metrica è basata su parole piane, cioè
con accento sulla penultima sillaba, in quanto la maggior parte delle parole italiane sono piane. Per questo “endecasillabo”
è nome riferito alla variante piana normale. La terminologia italiana definisce la misura del verso contando sempre una
sillaba in più rispetto all’ultima tonica.
V. ESERCIZI DI VERSO: TRADURRE IL METRO – L’EFFETTO DELTA: “Delta” è il nome della quarta lettera
dell’alfabeto greco. La sua forma portò a usare il medesimo termine per indicare lo spazio compreso fra due imboccature
di un fiume. Per tale motivo, il basso Egitto, cioè il tratto di paese compreso fra i due rami del Nilo inferiore e il mare,
venne chiamato Delta. Lo stesso vale per il muscolo deltoide, attaccato alla spalla e alla parte superiore dell’omero.
A partire di un testo poetico originale, possiamo infatti affermare che, nell’impossibilità di prendere una soluzione unica
(per così dire “estuario”), dovremo solo e sempre accontentarci di una fra le molteplici soluzioni possibili. Nel sonetto di
Baudelaire in alessandrini rimati dal titolo Recuillement per osservarlo trasposto non in una sola versione ma in quattro.
Solitamente il sonetto in alessandrini viene reso con il doppio settenario o l’endecasillabo, senza tuttavia escludere il
novenario o come vedremo l’ottonario. Così, partendo da una composizione in dodecasillabi francesi osserveremo defluire
quattro traduzioni, come se fossero quattro contendenti che aspirano ad un unico trono --> La prima traduzione che
osserviamo è quella dal francese all’italiano, l’unica eccezione risulta dal sostantivo “Douleur” reso con l’italiano “pena”,
al fine di conservare il genere femminile e mantenere la personificazione. La trasposizione dello scrittore siciliano
(Bufalini) vanta la riproduzione del sistema rimico originale. Nel testo si sottolineano la scorrevolezza e linearità
nonostante l’abolizione dell’enjambement che segna il passaggio tra quartine e terzine. Alla traduzione in doppi settenari
che segue quella in endecasillabi di Luigi De Nardis, dove possiamo notare un fenomeno interessante a livello
sticometrico. Infatti, oltre all’abolizione delle strofe, si registra un aumento del numero di versi, che rompe lo stampo del
sonetto passando dai 14 francesi ai 19 dell’italiano, a causa dell’adozione dell’endecasillabo per rendere più ampio
l’alessandrino. È evidente che quello che si perde sul piano orizzontale (numero di sillabe), si riacquista su quello verticale
(lunghezza della composizione).
L’ottonario è molto apprezzato nell’onde-canzonetta, ed è definito come il metro più “appiccicoso” della lingua italiana, a
causa della facilità con cui si imprime al ricordo del lettore-ascoltatore, che lo rende oltretutto la più antica forma di
mnemotecnica. A proposito di memoria dell’ascolto, è indicativa la predilezione del pubblico infantile per il metro
trocaico, una sequenza di piedi binari in cui la posizione forte precede quella debole. Tra queste nessuna e tutte sono più
fedeli all’originale, questo perché tornando al discorso sull’effetto “delta”, si può concludere ribadendo che, in base a una
sorta di democrazia diretta, versioni disparate possono tutte legittimamente pretendere di subentrare nell’alessandrino
francese. Tutto ciò per ribadire quanto grande sia la responsabilità della scelta del traduttore sul piano del metro. In
assenza di una corrispondenza univoca fra lingue differenti, per orientarci non abbiamo altra regola che il gusto, la pratica,
l’esperienza, in breve quanto definiva Kant, la capacità di giudizio.
ADDIO A HUGO: Se analizziamo la sua composizione delle Orietales, intitolata Le Djnns. Il titolo si riferisce alla
denominazione araba di quegli spiriti che popolano la natura, esercitando un influsso benefico o malefico sulla vita umana.
Queste creature di origine preislamica costituirebbero una collettività indifferenziata che a volte lascerebbe emergere tratti
più personali. I Jinns si videro attribuire caratteristiche diverse da quelle originarie come ad esempio l’inferiorità rispetto
all’uomo e la natura mortale. Per quanto riguarda la lirica di Hugo, si tratta di una composizione originale, dotata di
un’articolazione che ne fa un reperto senza pari: ogni stanza è organizzata secondo un diverso numero di sillabe, seguendo
uno schema metrico prima ascendente e poi discendente in modo tale da formare un totale di 15 strofe con otto metri
diversi. Tutto questo per giungere alla traduzione vera e propria, in modo da esaminare sia la performance di Hugo, sia i
passaggi indispensabili per riversare il testo in un’altra lingua. La ricca fortuna del suo testo parte da un saggio di
Cornulier intitolato “Les Djinns boiteux” che si propone di affrontare un’edizione volutamente “zoppa” o erronea del
prototipo. Per farlo, lo studioso ne manomette l’impianto metrico inserendo una zeppa monosillabica all’interno di ogni
strofa, così da violare il meccanismo della poesia iniziale in una prospettiva didattica cioè di verificare la percezione
dell’isosillabismo da parte dei lettori francesi in modo da capire quali errori metrici vengono effettivamente percepiti.
VI. ESERCIZI DI CIFRA: TRADURRE UN INDOVINELLO NUMERICO: Giocare sulle interferenze fra lettera e
numero si basa sulla convinzione che proprio in situazioni eccentriche emergano alcune strutture profonde della pratica
traduttoria. Ma è soltanto muovendo alcune osservazioni di taglio teorico, si potranno apprezzare i risultati prodotti da un
esercizio come la traduzione di un indovinello centrato sul bisticcio fra lettere e numeri. I danni di un’analogia, si riferisce
all’espressione che ha accompagnato sin dalla sua nascita il moderno dibattito sulla traduzione: la coppia bellezza e
infedeltà. “Belle infedeli”, come ha spiegato Zuber, è una formula coniata in pieno Seicento da Ménage per indicare le
traduzioni in gradi di rispettare la qualità originale, di contro a quelle che a causa di un malinteso senso di letteralità,
finiscono per sfigurarla. Associando linguaggio ed erotismo viene segnalata l’impossibilità di una versione ideale, dove si
cela in realtà l’inganno. Roman Jakobson, focalizzandosi sul concetto di equivalenza e sulla sua impossibile totalità,
propose di ricorrere al termine “loyal” piuttosto che al sostantivo “fidelity”. Nel suo caso però, la questione riguarda
piuttosto il dilemma per cui il traduttore si chiede se essere fedele all’autore oppure al lettore. Diverso il nostro caso,
relativo invece al rapporto tra traduttore e testo. Un’impostazione del genere comporta implicazioni, non meno ardue:
infatti, sia pur rappresentato da un’unica entità piuttosto che da una coppia, l’originale cui tener fede, cui “dare la
nostra parola”, non è costituito da una semplice parola, bensì da un sistema di relazioni composto di parole.
REGOLA DEL MENO UNO: Un testo letterario non equivale a un oggetto statico, ma a un processo dinamico, a un
concorso di spinte contrapposte, a un insieme di forze di equilibrio. Di conseguenza, il traduttore potrà tutt’al più cercare
d’essere fedele a qualche singolo elemento, non certo all’insieme. Scegliere a cosa essere fedeli significa, decidere a cosa
non esserlo al contempo. In un sonetto tradotto dal francese all’italiano, come si è visto l’adozione dell’endecasillabo (11
misure) per rendere il più ampio alessandrino (12 misure) potrà causare un incremento nel numero di versi complessivi -->
In ogni traduzione la fedeltà a un criterio compositivo implica sempre almeno una infedeltà verso qualsiasi altro, ovvero
tradurre significa riorganizzare il testo in base a un ristretto numero di priorità. Di conseguenza, il problema preliminare
non sarà più come ma bensì COSA tradurre; Peter Newmark affermò che il compito del traduttore è soppesare i fattori fra
di loro, in sostanza tutto è centrato sul tema del decidere. Prendiamo per esempio il gioco dell’indovinello del soldato che
spia per scoprire la formula segreta del campo nemico. Davanti alla necessità di riprodurre un indovinello italiano in
un’altra lingua, emerge infatti l’esigenza di fare in modo che il rapporto fra il numero pronunciato dalla sentinella e la
replica del soldato che chiede di entrare, risponda al duplice criterio dalla cui confusione scaturisce il motto di spirito. Se
infatti noi ridiamo, è proprio perché in italiano, in apparenza indica il risultato della divisione ma in verità designa la
quantità di lettere contenute nel vocabolo. Ciò spiega come mai, dovendo tradurre l’indovinello, sarebbe insensato
riportare pedissequamente i numeri dell’originale astenendosi dal ricomporre la logica complessiva del gioco. Così
facendo, il traduttore non potrà più illudersi di poter praticare una vaga, sommaria professione di fedeltà ma al contrario,
egli dovrà decidere, in maniera altrettanto irrevocabile, cosa tradire --> Traduttore infatti vuol dire “riorganizzare il testo
in base a un ristretto numero di priorità”. L’esempio del rompicapo mostra bene come si debba ogni volta risalire alla
componente principale di un testo, per poi cercarlo di riprodurlo, o quanto meno offrirne qualche più o meno pallido
riflesso, a discapito, sempre inevitabilmente di qualche altro elemento.
VII. ESERCIZIO DI SEGNO: TRADURRE UN CALLIGRAMMA (ARABO): In genere la traduzione a quattro mani
prevede che uno dei due soggetti interessati ignori la lingua di partenza. Il primo punta da considerare riguarda lo stato
d’animo che inevitabilmente pervado il secondo membro della coppa, ossia quello sprovvisto di un’adeguata
strumentazione linguistica, perché quest’ultimo dispone di alcune capacità che mancano al primo, di conseguenza il
secondo membro della comitiva dovrà disporre di un qualche altro genere di abilità. In una traduzione a quattro mani, il
soggetto che ignori la lingua di partenza, pur essendo gettato in una sorta di cecità linguistica, sa di affidarsi, da non
vedente, a un vedente-interprete, cioè a un esploratore che, pienamente inserito nel mondo circostante, sarà in grado di
scorgere assai bene la materia del testo.
La traduzione a quattro mani di alcune poesie araba fu una scommessa, si confermò l’ipotesi circa l’influenza di
elementi arabi sulla nascente poesia italiana alla corte di Federico II, a cominciare per il gusto dell’allitterazione, non solo
a sancire il il legame tra la poesia araba e quella italiana, avrebbe concorso la creazione di testi specificamente basati sul
frequente impiego del poliptòto (ripresa e variazione di uno stesso termine). La traduzione è sempre un atto critico, e solo
sulla base di un’attenta lettura delle strutture testuali ci si può realizzare un attendibile lavoro di travaso linguistico.
Individuare perciò all’interno della composizione gli elementi prioritari. Di conseguenza, la prima parte del mio intervento
consistette nel ripristinare, per quanto possibile, le ripetizioni e le annominazioni, organizzando poi i versi sul piano
metrico. Fra le liriche tradotte dai nostri predecessori presentava al suo interno un calligramma. Essa giocava sull’aspetto
visivo di alcune lettere araba (LAM E NUN). Per la prima volta, Magrelli e la sua guida si ritrovarono a replicare nella
nostra lingua il senso del gioco, creando, in italiano, un calligramma dotato di una propria autonomia visiva. La traduzione
richiede di riprodurre, per sé in maniera del tutto diversa, lo slancio del testo originale. Per prima cosa dovremmo
ovviamente “versare l’immagine” da un alfabeto all’altro, modellando quello d’arrivo perché offra al lettore un senso
analogo a quello di partenza. Rimandando ai saggi che Pozzi dedicò ai calligrammi, l’indovinello grafico (Lam e nun)
verte sulla cosiddetta “auto-ostensione del significante” in questo esemplare caso di poesia: la forma di Lam e Nun agisce
su due livelli: mentre sul piano grafico le lettere suggeriscono i tratti di un volto, su quello verbale la loro unione esprime
la negazione no). La differenza sta nel fatto che mentre ne doppia dimensione attivata dall’acrostico riguarda gli assi
orizzontali e verticali, quella mobilitata dal calligramma concerne l’ambito verbale e figurativo, costringendo a
guardare contemporaneamente l’alfabeto e il disegno da esso tracciato. Infatti, per tradurre un calligramma (del
genere arabo) dovremo cambiare, oltre che l’idioma, il suo alfabeto. Qui non interessa esibire la qualità del risultato, bensì
la bontà del suo intento, vale a dire la logica che ne orienta il processo, dobbiamo dunque mirare al progetto iconico
complessivo.
VIII. ESERCIZI DI TEMPO: TRADURRE I SOTTOTITOLI: Il compito affidato alla coppia (Magrelli-Caramazza)
non consisteva nel predisporre dei sottotitoli bensì nel ritoccare quelli già esistenti. Mentre si apprestava a questo compito,
si accorse però che in realtà la questione era assai più complessa, che non si trattava di intervenire sulla correttezza della
traduzione (che infatti non prestava particolari errori) la vera mansione era un’altra: di valutare piuttosto i sottotitoli in
base alla loro capacità di selezionare le principali unità di informazione presenti nell’originale. Quindi non si trattava
tanto di migliorare genericamente la traduzione, quanto di incrementare la pertinenza o densità comunicativa. Il tutto in
base a un criterio che andava scoprendo man mano: la durata temporale e la lunghezza alfabetica dei sottotitoli (chiamata
crono-metrica), in cui era necessario misurare le unità di una frase in relazione alla durata della sequenza filmica.
Verso la fine degli anni Venti il cinema conobbe, con l’invenzione del sonoro, una sorta di “dicotomia audiovisiva”. Il
passaggio da una fase all’altra avvenne per gradi. Tuttavia, solo dopo il ricorso ai cosiddetti “intertitoli” o “didascalie”
(brevi sequenze di commenti descrittivo-esplicativi o di dialoghi proiettati tra le scene di un film), si impose l’uso dei veri
e proprio sottotitoli che nacquero intorno agli anni ’80. Grazie alla creazione di sofisticati software per il sottotitolaggio si
è assistito alla nascita di una nuova metodologia di lavorazione per i progetti multilingua, i traduttori hanno potuto
concentrarsi sulla versione nella lingua d’arrivo senza doversi più preoccupare del timing --> Inoltre, ai sottotitoli è
richiesto una sorta di miracolo, poiché essi vanno a costruire un ulteriore strato verbale he è destinato a integrarsi al
sistema semiotico originario del testo audiovisivo senza turbarne l’intima coesione. Il sottotitolare deve operare le sue
scelte e valutare i fattori linguistici e no. Occorre distinguere due specifici tipi di sottotitolaggio: quello interlinguistico e
quello intralinguistico. I sottotitoli intralinguistici consistono nella trascrizione totale o parziale dei dialoghi nella stessa
lingua della colonna sonora originale del film, e sono rivolti sia soggetti con problemi di udito, sia a coloro che intendono
apprendere una lingua straniera. I sottotitoli interlinguistici, invece, sono composti in una lingua diversa da quella del
prodotto originale e pertanto coinvolgono due lingue. Nel primo caso, l’azione si svolge su due livelli, realizzando da un
lato una traduzione verbale, dall’altro la traduzione intersemiontica, per sintetizzare verbalmente un messaggio altrimenti
destinato ad andare perso. Anche nel secondo caso esiste un doppio livello, in quanto questi sottotitoli possono fungere da
ausilio sia fisico (deficit udito) sia linguistico (per chi non ha dimestichezza con la lingua parlata nel testo audiovisivo).
I sottotitoli come traduzione doppiamente estreme: I sottotitoli devono rispettare regole ancora più complesse di quanto
accade in altre forme di resa linguistica. Essi infatti sottostanno a obblighi formali o quantitativi che riguardano la loro
disposizione sullo schermo, lo spazio e il tempo di esposizione che possono occupare su di esso, nonché la lunghezza delle
battute degli attori. Non occorrerà tradurre integralmente i dialoghi, bensì limitarsi alla loro sintesi. Chiederà allo
spettatore, di suddividere la sua attenzione fra il contenuto delle immagini e la lettura/comprensione delle scritte. Limitata
nel tempo (metrica) e nello spazio (crono-metrica), la versione finale sarà il risultato del delicato rapporto fra lunghezza
dei dialoghi, lo spazio disponibile all’interno della sequenza filmica e il rapporto con il non verbale (immagini, suoni ecc.).
Il sogno del traduttore sarebbe quello di “dare allo spettatore l’illusione di capire tutto senza leggere i sottotitoli”.
Brondeel, introduce un ulteriore specificazione, la comprensione è chiamata a coinvolgere simultaneamente non una, ma
due attività: da un lato la lettura attiva del sottotitolo, dall’altro l’ascolto passivo del parlato. L’insieme delle tante
componenti conduce lo studioso a sostenere che “una simile combinazione di lettura e ascolto crea una situazione unica”.
Troviamo confermata l’ipotesi che, nel variegato campo della traduzione letteraria, i sottotitoli rappresentino un’eccezione
anche di fronte alle cosiddette “traduzioni estreme”. Il loro artefice dovrà essere non solo “capace di prendere decisioni”
ma in grado di farlo, ecco il punto, una situazione “doppiamente estrema”.
La traduzione potrebbe essere addirittura definita come un processo decisionale tout court. Così stando non sarebbe
azzardato collocare l’insieme dei suoi protocolli nel segno di Ercole al bivio (prima ancora di affrontare le dodici fatiche, il
figlio di Zeus e Alcmena dovrà andare incontro a una specie di rito di passaggio, a un’autentica “scena della decisione”. La
storia rappresenta essenzialmente la cruciale scelta fra Vizi e Virtù, la Y pitagorica rappresenta questa scelta), stando
davanti a un bivio, seppe rappresentare, come forse nessun altro, la funzione stessa del decidere.