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MIA LINGUA ITALIANA:

La particolarità di questo libro si concentra sulla particolarità della situazione politica italiana (le date sono fondamentali).
17/03/1861 Data dell’Unità d’Italia
18/01/1871 Nascita dell’impero tedesco
Per quanto riguarda invece le altre nazioni la Spagna si costituisce come stato dopo la cacciata degli arabi (1492), unisce
varie cose insieme cacciata degli arabi e la scoperta dell’America. La Castiglia dovette impossessarsi di altri domini fra i
quali il più importante la Catalogna. La cronaca continua a parlare delle istanze autonomiste della Catalogna hanno
l’autonomia ma vorrebbero l’indipendenza (presidente in esilio da 2 anni).
La Gran Bretagna, invece, partendo dalle lotte fra Normanni e Sassoni, passando alle lotte successive tra Gallesi,
Scozzesi cattolici, Irlandesi, anche per la Gran Bretagna l’unificazione non fu semplice ma venne molto prima rispetto
all’Italia.
In Francia l’opposizione maggiore è con gli inglesi, gli inglesi restano in Francia fino all’inizio del ‘500, ricordiamo che
la Gran Bretagna continua a occupare un lembo della Francia fino all’inizio del ‘500 ma la Gran Bretagna tutt’ora occupa
un lembo della Spagna, è una delle cose più delicate a livello di diplomazia internazionale, ci riferiamo alla patria
Gibilterra è la patria di Molly Bloom nell’Ulisse --> La Francia era divisa in due: i signori del Nord violenti e potenti ma
poveri e abbiamo il regno del sud Provenza e Occitania, è raffinato. Si alleano per distruggere questa splendida realtà, sono
nate molte leggende sulla ricchezza di questa cultura, cultura occitanica. I signori del Nord (parigino) parlavano una lingua
d’Oil, i signori del sud occitania) parlavano una lingua: d’OC
per definire la lingua si usava la particella che indicava --> Vinse Parigi e la lingua d’Oil.
 1539 data fondamentale —> editto di Villers-Cotterêts obbligherà i francesi a scrivere tutti gli atti ufficiali e
redigerli nella lingua del re cioè D’oil —>questo porterà—>allo scontro con la lingua D’oc.
Il tedesco viene dotato di una precisa data di nascita il 1517, data cruciale, perché vede la fissione delle tesi di Lutero. Il
suo inizio viene collocato nel 1517, perché Lutero tradurrà la Bibbia, questo evento fondamentale, si lega tra l’altro alle
richieste di ordine teologico, implicate nel protestantesimo. Il cristianesimo sin dalle origini è lacerato dall’eresia, centinaia
di eresie a partire dai promisi secoli, San Agostino (1410) vede il sacco di Roma, aveva lottato contro una serie di eresie,
(manichea). Le eresie fin dall’inizio sono infinite, solo una dobbiamo ricordare 1544, dopo un millennio dalla nascita di
cristo, il cristianesimo si spacca in due, entrambi i rami sono cristiani, ma uno verrà chiamato cattolico l’altro detto
ortodosso.
 Il cristianesimo 1544 si spacca in cattolicesimo col papa e chiesa ortodossa con il suo massimo rappresentante Alexié,
il patriarca ortodosso è uguale al papa cattolico. Nel 1544 abbiamo lo scisma d’oriente: il cattolicesimo va avanti per
oltre 500 anni, le eresie diventano sempre più numerose con esiti spaventosi, esempio dei Catari. i Catari collocati
nell’Italia (Piemonte, nordoccidentale) erano un gruppo religioso potentissimo, il papa li dichiara eretici e indice una
crociata contro di loro.
 Dante definisce l’Italia dove il si suona, l’affermazione si in Italia.
Protestantesimo: ci riferiamo ad una miriade di correnti molto spesso in lotta fra di loro, se il calvinista prendeva il
luterano, l’anabattista prendeva qualcun altro, lo faceva a pezzi. I protestanti occupano la metà dell’Europa lasciata libera
dagli ortodossi, che se ne erano andati 500 anni prima.
Lutero attacca la chiesa ma i punti principali di distacco: Culto dei santi e della Madonna, simonia (vendita delle
assoluzioni, il peccato si pagava in denaro) e il nipotismo (i papi facevano cardinali i propri parenti), contro la figura del
sacerdote come mediatore tra il fedele e Dio.
 Fino al 1970 la messa era in latino per due mila anni, i fedeli non capivano nulla della messa che gli veniva offerta.
 Il sacerdote aveva un enorme potere sui fedeli, si dovevano rivolgere al sacerdote, Dio era uno straniero, si doveva
prendere un traduttore della parola di Dio, ovvero il sacerdote. Sacerdote = interprete, tra il fedele e le sacre scritture.
La letteratura tedesca con la traduzione della bibbia dal latino al tedesco fatta da Lutero, che nel 1517 fece nascere il
protestantesimo, fa vincere un’eresia, che sarebbe stata distrutta come i catari se i principi inglesi non avessero protetto
questo frate.
La lotta interna tra protestanti e protestanti contro i cattolici provoca situazioni impossibili, tali per i quali alcuni gruppi
emigrano, lasciano la loro patria, e vanno in America (padri pellegrini) sbarcano ed iniziano ad edificare il nuovo paese.
Per quanto riguarda invece l’Italia, prima della nazione è venuta la lingua, è la lingua stessa che farà il popolo. La
coscienza e la volontà di un’unione si sono basate soprattutto su un valore culturale che ha prefigurato sin dalle Origini
un’unità immaginata e inseguita come un desidero.
 Non è stata dunque una nazione a produrre una letteratura ma una letteratura a prefigurare il progetto di una nazione.
Dante nel suo De Vulgaris eloquentia vede l’Italia come lo spazio geografico su cui la lingua ha da diffondersi, la sua è
una conquista intellettuale, un’idea nuova che da allora farà costantemente parte del patrimonio italiano culturale. Egli
pensa a un volgare letterario del sì ampio respiro, fondato su un gruppo non solo di toscani ma sul gruppo meridionale dei
siciliani già fioriti al tempo di Federico II, accogliendo nella federazione dei lirici ance un bolognese, Guinizelli. La
parola letteraria si stende su un’unità geografica e culturale prima che essa esista realmente . Sin dai primissimi anni
del XIV secolo persegue l’esigenza unitaria, soltanto sei secoli dopo si realizzerà questo desiderio, Mario Luzi parlerà di
questo antico sogno di un paese da costruire, di un’Italia perennemente da fare, illimitatamente futura. L’idea e la
fondazione di un’unità linguistica saranno più a fondo acquisiti nel ‘500 quando sulla base di concetti dell’umanesimo,
quali il valore assegnato alla parola e al pensiero, si conferirà un valore imprescindibile alla scrittura come condizione
necessaria alla durata, ovvero la fede nel valore perenne dei testi starà alla base della nostra storia. Nel corso del tempo
abbiamo faticato on poco a costruirci una nazione e una lingua comune, la storia della nostra patria ha conosciuto
tormentate vicende.
 Abbiamo uno stato ma uno scarso senso della nazione, non abbiamo mai avuto il senso reale di una comunità
nazionale, poiché nel nostro paese è stata la lingua a indicare un senso e un desiderio di unità.
La letteratura ha lasciato dei segni nella lingua, ha fatto sì che rimanesse vicina nei secoli alla lingua delle Origini, infatti
l’italiano non è una di quelle lingue ad aver subito nel lungo periodo dei cambiamenti importanti o radicali. De Mauro
nella Postfazione del Grande dizionario dell’uso afferma che quando Dante scrive la Divina Commedia il vocabolario era
già costruito. Straordinaria nella lingua oltre il lessico è la morfologia. La lingua di Dante non suona a un lettore molto
lontano a è facile da intendere e leggere, per questo non ha bisogno di una tradizione come per gli scritti in lingua francese
e spagnola. Man mano che si diffondono i manoscritti di Dante e Petrarca si diffonde sul territorio anche la lingua.
L’affermarsi di un dialetto, il fiorentino, su tutti gli altri è il prodotto di fattori culturali. La prima diffusione della lingua è
dovuta alla Commedia di Dante, al Canzoniere di Petrarca e al Decameron di Boccaccio (LE TRE CORONE).
 Vocabolario della crusca (1612), l’Italia non aveva una norma e ne aveva bisogno di una dettata dalla convinzione
che la lingua dei grandi scrittori del Trecento era divenuta un modello di perfezione da custodire e imitare.
La nostra è una storia che partendo da Firenze conquista una nazione grazie alla letteratura. Il nostro volgare era diventato
veicolo di contenuti colti e raffinati, la lingua italiana nasce come GRANDE e ILLUSTRE.
Da noi non c’è stato un testo principe che formasse la lingua in modo uniforme, ma sono stati i testi del ‘300 a costruirne
un canone, l’italiano non era una lingua madre ma lo erano i dialetti.
1. Dialetto = Lingua della quotidianità;
2. Volgare = Lingua illustre si deve abbracciare in determinate situazione.
Ancora nel secondo ‘800 ai tempi dall’unificazione, l’italiano restava lingua destinata alla scrittura. Ciò che aveva
ostacolato e rallentato l’unificazione è stata la scarsa densità della cultura e la troppa preoccupazione della forma. Da un
lato c’erano 5 milioni di arcadia e 17 milioni di analfabeti dall’altra che costituivano uno squilibrio culturale
insormontabile apparentemente per raggiungere un’unità linguistica.
 Arcadia: Con riferimento all'omonima regione greca, quale fu favoleggiata dai poeti bucolici, paesaggio ameno,
scenario di vita idillica e c on riferimento all'omonima Accademia romana (fondata nel 1690), che promosse un
rinnovamento delle poetiche in senso classico senza tuttavia andare immune da atteggiamenti convenzionali e leziosi,
visione idillica della natura, elevata a canone poetico.
Manzoni sin dagli inizi degli anni ’20 era guidato da un necessario NORMATIVISMO ribadito quasi mezzo secolo dopo
nella Relazione dell’unità della lingua e dei mezzi per diffonderla dove sottolineava l’urgenza di un vocabolario di base
fiorentina, mentre Ascoli, che vive incontri di lingue e di genti al contrario, privilegia le ragioni della storia e delle culture
diverse. L’italiano che verrà lo vede come il frutto di un sedimento, non di una normale esterna, pensava che fosse urgente
l’educazione delle menti, ma non credeva che si possa ottenere in tempi brevi quell’uniformità dell’uso secondo il disegno
indicato da Manzoni, il quale in definitiva assimilava l’esempio francese al nostro. Secondo Ascoli scegliere un modello
come il fiorentino significava ricadere in una retorica.
Nell’Italia postunitaria il modello fiorentino conquisterà in ogni caso una posizione solida, sia narrativa che negli scritti di
maggior praticità e molte frasi toscane entrano nell’italiano comune. Nei Promessi sposi, Manzoni non intendeva
raggiungere una perfezione stilistica ma un’unità idiomatica, una lingua unitaria e popolare. Nella nostra particolare storia,
da una parte abbiamo frasi idiomatiche fiorentine che entrano costantemente nel lessico comune, infatti egli mirava a
un’unità idiomatica accettata da tutti. Dall’altra, vi è un forte contributo anche di tutti gli altri dialetti.
La padronanza dell’italiano non era del tutto disinvolta nemmeno tra coloro che nell’’800 avevano contribuito a fare
l’Italia come Cavour. Ai non toscani l’italiano sembrava una lingua straniera da imparare sui libri. Il piemontese di Alfieri
si era fabbricato da solo un vocabolario tascabile, come una sorta di quadernetto di appunti dove su tre colonne inseriva
nella prima il noto, cioè la voce francese, nella seconda colonna la corrispondente piemontese e nella terza l’ignoto, la
voce italiana, che non sapeva e che voleva ricordare. A fine dell’’800 anche gli scritti iniziarono a prediligere il dialetto
poiché l’italiano risultava alla maggior parte della popolazione una lingua straniera. A fine Ottocento la lingua italiana
appariva ancora una lingua morta in opposizione alla naturalità del dialetto, infatti per i letterati meridionali la soluzione
manzoniana non era affatto un aiuto, ma un ostacolo.
Nella stesura di Fermo e Lucia, Manzoni si rende conto di aver in mano una lingua troppo alta e colta, non appartenente al
palato, tanto che risolverà scrivendo in una lingua milanese-toscana per un’idea di uniformità. Manzoni lamenta l’uso
dell’italiano che si parlava, mescolato con inconsci dialettismi, quello che due italiani di diversa regione usavano quando si
incontravano, infatti egli lamentava questa assenza di una lingua media.
I rivoluzionari napoletani del 1799, per farsi capire dal popolo avevano usato alcune volte il dialetto e allo scopo di
diffondere le idee repubblicane i giacobini fecero alla plebe di Napoli molti discorsi in dialetto. Nel dibattito intellettuale
del XVIII secolo si è posta in rilievo la necessità di avere a disposizione un italiano più agile del tradizionale, un
linguaggio moderno. Ed è proprio nel’800 che si forniranno molti strumenti per portare l’italiano al livello più pratico; si
sviluppò la diffusione di dizionari settoriali e metodici come quello di Tommaseo, personaggio scomodo perché
repubblicano, che prestava molta attenzione alla lingua corrente, elabora un vocabolario, pubblicato da Pomba.
 La mancanza di una lingua comune manteneva il paese in costante divisione.
Anche Leopardi lamentava il fatto della mancanza di una lingua media. In Italia vivono due lingue, la prosaica e la
poetica che non riuscivano, però a entrare in contatto. Era una lingua che guardava più al passato che al presente e
l’innovazione faticava a farsi largo. Il classicismo ottocentesco mostrava riluttanza per il nome che rappresentava la cosa
legata ai propri riferimenti reali. Si ricorreva alla figura della perifrasi --> Anche D’Annunzio rigirava le parole in perifrasi
con altri vocaboli e riferimenti mitologici.
Il dialetto ora è fortemente in calo, per la comunicazione orale ci affidiamo al dialetto piuttosto che al parlato italiano
insicuro ma questo dà voce a un sentimento negativo di identità nazionale. L’italiano diviene difficile da conquistare e il
dialetto incombe sempre di più. Nel 1944 Badoglio e Togliatti conservavano il piemontese mentre Federico de Roberto
racconta che nella trincea di guerra del 15-18, ogni soldato parlava il proprio dialetto e con i compagni di altre regioni si
parlavano attraverso l’uso dei gesti.
Ora l’italiano è diventato la lingua di tutti, nel dopoguerra hanno contribuito le migrazioni, l’inurbamento, lo sviluppo dei
mezzi di comunicazione e di informazione. Il ‘900 ha risolto la secolare questione della lingua. Il dialetto era la lingua di
natura mentre l’italiano si usava solo per scrivere, una lingua quindi di cultura.
 I dialetti, dal dopoguerra, hanno iniziato a cambiare sempre di più, a italianizzarsi, ma ancora si differenziavano da un
paese all’altro, da città a città e si sono mescolati con la lingua italiana. Anche l’italiano era in origine un dialetto,
ovvero il fiorentino, diventando man mano una lingua di prestigio prima letteraria e poi ufficiale.
 Non c’è una norma grammaticale che unisce le varietà dei dialetti.
Le ansie della globalizzazione culturale, il panico della perdita della propria identità spingono a rivendicazioni di identità
locali, perché si teme l’imposizione di modelli esterni e lontani dalla propria cultura, perciò ci si può spiegare perché
prendendo quota le considerazioni del dialetto e della tradizione locale come autenticità oppressa dalla lingua nazionale e
si usa il proprio il dialetto per preservare l’affettività di un idioma materno. Il dialetto assicura un secondo livello, quello
più intimo e casalingo.
 Lo scrittore afferma di non lodare chi propone di insegnare il dialetto a scuola, poiché si deve dedicare l’interesse alla
lingua nazionale, i dialetti si parlano ma non si possono né scrivere e tanto meno insegnare.

DISPENSE ANTONELLI:
Le dispense vertono su che cosa siano le Lingue Romanze. Le lingue romanze si formano in quella zona che viene
chiamata Romania, cioè la parte europea occidentale dell’Impero Romano.
 813: atto di nascita delle lingue romanze, ma il processo era iniziato molto prima
 813: Carlo Magno al concilio di Tours promulga una deliberazione di estrema importanza, i vescovi debbono
tradurre, tranferre, le prediche in modo comprensibile nella lingua romana, rustica o nella tedesca.
L’impero di Carlo Magno,si dividerà in zona francese e zona tedesca,riceve questa indicazione, tradurre le prediche a
seconda della zona, le prediche sarebbero state pronunciate o in lingua romana rustica (diventerà il francese) o in lingua
tedesca. Le prediche vengono definite come direttive comportamentali.
 L’813 sancisce la nascita delle lingue romanze che era cominciata 400 anni prima col sacco di Roma.
La popolazione e la lingua erano in consonanza, dalla fine dell’impero, le lingue iniziano ad evolversi al punto che il latino
finisce per sembrare straniera, si arriva ad un punto di ritorno. La lingua resta la stessa, tutto entra in crisi quando le
difficoltà del potere politico, si affiancano al potere dirigente linguistico, nella dispensa si racconta dei senatores (classi
dirigenti) e piscatores (i più umili). Per l’impero carolino la comunicazione con i fedeli, garantita per il clero, era
essenziale perché per il consenso e il successo del nuovo ordinamento sociale e politico, sono passati 4 secoli dal sacco di
Roma. Questo potere deve rimettere ordine nella comunicazione linguistica, per questo il concilio di Tours annuncia
appunto la decisione di tradurre nelle lingue rispettive.
 Islam nasce 622, dal fondo dell’Arabia.

BREVE STORIA DELLA LINGUA FRANCESE:


Sono tre i fattori che concorrono all’affermazione del francese moderno:
- La diffusione del libro a stampa;
- Il fiorire degli studi umanistici;
- La riforma protestante.
L’antico francese si era diffuso nelle corti inglesi e tedesche nel 13 secolo, diventando una sorta di lingua internazionale
della nobiltà. L’invenzione dei caratteri mobili, verso la metà del 15 secolo, rivoluzionò la trasmissione del sapere e
l’invenzione della stampa incrementò la possibilità di possedere una copia del libro inaugurando, così, anche l’era della
lettura individuale. La necessità di ampliare il mercato portò gli editori a pubblicare un numero sempre maggiore di testi in
volgare e quindi a tradurre in Francia dal latino. Con la diffusione del libro, la scrittura cominciò a essere sentita come più
importante del linguaggio orale, tanto che la circolazione libraria contribuì alla riduzione delle varianti dialettali. Nella
metà del 16 secolo venne pubblicato “Champ Fleury” di Tory, poiché legata all’affermarsi in Francia dei caratteri tondi e
del corsivo.
Lo sviluppo degli studi umanistici fu strettamente connesso ai crescenti bisogni culturali dei nuovi ceti emergenti,
mercanti e legisti, e quindi anche alla rivoluzione del libro a stampa. Contemporaneamente fiorirono gli scambi
commerciali; fra i primi segni del fermento culturale che deriva dagli scambi tra Italia e Francia, si colloca un’opera in
francese, La concorde des deux langages, un’opera che rispecchia il comune cammino delle lingue volgari.
Nel 1530 Francesco I fondò il Collège des Trois Langues, che oggi prende il nome di Collège de France, in cui le lezioni
erano in francese, invece che in latino.
Nel corso del 12 secolo, e soprattutto nel 13, Parigi aveva conosciuto una grande espansione e alla presenza episcopale si
era aggiunta anche quella del re.
La città era diventata il centro unificatore di parlate dialettali diverse, ed è questa lingua comune dell’Île de France,
chiamata francese, che lentamente acquista prestigio rispetto agli altri vernacoli. Dal 14 secolo, così, i dialetti non
svolgono più una funzione letteraria. L’affermazione graduale del potere centrale sull’ordine feudale portò alla
sostituzione del latino con la langue du Roi. Gli uomini accolti attorno al re avevano già sviluppato la pratico di uno stile
elevato e di un linguaggio pronto alle funzioni più alte dell’amministrazione. Verso la fine del XV secolo una serie di
ordinanze volte verso la riorganizzazione del regno vennero promulgate, e l’ultima di queste che fu ricordata è l’uso del
langage materne françois. La latto per l’affermazione del francese si svolgeva sul fronte del latino ma soprattutto dei
dialetti.
La traduzione, infatti, fu una delle attività più importanti del Rinascimento, ma la storia dell’affermazione del francese si
incrocia anche con un terzo fattore, la Riforma protestante. Uno dei capisaldi della Riforma è il libero esame dei Testi
Sacri da parte di ogni credente, infatti la fede passa attraverso la lettura individuale. La Chiesa aveva scoraggiato la
traduzione delle Sacre Scritture, ma grazie alla Riforma e a Lutero, fu proprio la Bibbia a essere tradotta nelle lingue
volgari, contro l’autorità della versione latina affermata da Roma (1517).
Dal 13 secolo aumentò l’abitudine di richiamare l’originaria forma latina, l’introduzione di consonanti inesistenti nella
pronuncia ma spia della persistente pratica del latino scritto e della totale mancanza di intenzione, presso i letterati, di
tagliare i ponti con latino, la lingua della cristianità e del sapere. Con l’invenzione la diffusione della stampa, e con il
conseguente aumento dei lettori, la necessità di uan convenzione grafica si accresce e i nuovi segni proposti da Geoffrey
Tory non esisteva nella scrittura latina. Tuttavia, due elementi sembravano opporsi in modo determinate alla riforma: da un
lato l’affermazione umanistica verso il latino e il greco, per un altro verso, le stamperie avrebbero dovuto abbandonare le
abitudini adottate, ancorché diverse per ogni stamperia, ma fondate ragioni di ordine economico dissuadevano dal disfarsi
di caratteri di tipografia la cui produzione era artigianale. Infine, gli stampatori più inclini alle innovazioni furono accusati
di protestantesimo, obbligati ad abbandonare la loro attività in Francia.
Qui si deve insistere maggiormente sulle questioni di grafia, in cui la sua storia e pronuncia riguarda il gruppo dell’OI, che
si formò nel corso del medioevo e la sua evoluzione proseguì fino ai tempi più recenti. È opportuno accennare anche due
altri importanti fonemi del francese, l’esito della dittongazione di lunga o breve in sillaba latina aperta. Altro indizio nella
grafia della pronuncia dell’epoca è l’esitazione fra O e OU. Un processo importante, alla fine del XVI secolo riguarda il
completamento della nasalizzazione.
Sotto il profilo morfologico, il fenomeno più importante fu la morte della declinazione. La scomparsa del sistema
morfologico a due casi aveva favorito l’adozione dell’ordine soggetto+verbo+complemento. Nel francese antico, infatti, la
desinenza diversa aveva permesso di riconoscere la funzione sintattica, indipendentemente dall’ordine delle parole.
La concorde des deux langages si fa sentire per il significato dei termini. La presenza a corte di Caterina de’ Medici,
moglie di Enrico II, viene a determinate una moda italiana che si estende anche alla pronuncia. Il grande Dictionnaire de la
langue française du XVI siècle è uno strumento indispensabile per la lettura dei testi di un’epoca che ancora non disponeva
di opere di consultazioni adeguate anche perché il francese era in via di invenzione.
L’opera che è stata assunta a emblema della nascita della lingua nazionale è la Déffence et Illustration de la Langue
Françoise di Du Bellay, uno dei setti poeti che attribuiranno il nome della Pléiade, il suo titolo è di per sé eloquente
poiché rappresenta la difesa della lingua francese e l’obiettivo di farlo divenire illustre.
Gli argomenti furono: Il francese non è inferiore al latino e gli autori non devono provare nessuna soggezione per il fatto di
scrivere in questa lingua, non va incoraggiata la traduzione ma l’imitazione (emulazione degli antichi) e come fecero i
romani nei confronti del greco, la lingua francese andava potenziata con un arricchimento lessicale --> Creare parole
nuove, utilizzano anche espressioni provenienti da altre lingue, si possono impiegare elementi dialettali.
La dottrina della Pléiade si fonda sull’ideale umanistico dell’imitazione, da intendersi come emulazione dei grandi
scrittori latini e greci. Du Bellay parte dell’idea che sia impossibile tradurre senza rendere forzato il proprio stile. Nella
Déffence solo una quesruine rimaneva nell’ombre, quasi che fosse secondaria per la gloria poetica, ovvero l’ortografia. La
pagina finale enuncia la decisione di attenersi alle abitudini, decisioni sulla quale agì la paura di finire nelle botteghe.
La Pléiade proponeva di inaugurare una grande letteratura di espressione francese, ampliando le ambizioni nel riferimento
al modello classico-umanistico.
In un secolo di erudizione così ostentata, appare ancora più straordinaria la scelta linguistica operata da Montaigne negli
Essais, in cui egli persegue vie indipendenti contro la prosa elaborata e aulica degli umanisti, egli cerca l’espressione
comune, lascia libero corso alla divagazione. Montaigne sceglie di parlare dell’umana condizione di farsi filosofo della
mutevolezza, ma anche della ricchezza dell’individuo e scrive in francese. Egli osserva quanto la scorrevolezza della
lingua comune sia lontana dall’oscurità del linguaggio giuridico, anche il senso dei termini non è categorico ma lascia
definire dal contesto.
Per lui è il linguaggio che deve secondo lui adattarsi alla realtà: ogni mezzo è buono, anche il dialetto, purché si riesca a
rendere il senso della realtà, inoltre è il primo ad usare l’espressione “honnête homme.
- 1494 importante perché iniziano le spedizioni militari della Francia che invadono l’Italia
- 1529: Trattato Champ Fleury di Tory, egli pubblica questo trattato che segna un discrimine nella storia del francese:
questo trattato riguarda la modernizzazione dell’ortografia (innovazione topografica e ortografica).
- 1539: Villers-Cotteretsl, presenza del francese nell’amministrazione del regno.
- 1549: Trattato di DuBellais, difesa della lingua francese.
- 1559: Pace di Cateau-Cambresis  Francia esclusa dalle cose italiane
Francesco I: fonda il Collegio delle Tre Lingue (poi Collège Royale e infine Collège de France)  le tre lingue di questo
collegio erano greco, latino ed ebraico, e proprio per questo il collegio si opponeva all’Università della Sorbona, e più in
generale dello studio universitario clericale
- 1635: data della nascita della così detta Académie française, istituzione ideata per il controllo della lingua.
Nel 17 secolo l’élite parigina si attribuirà il potere della lingua in modo più esclusivo. Con la fine delle guerre di
religione e l’ascesa al trono di Enrico IV (1594), la monarchia francese compie una delle sue tappe più importanti
verso il rafforzamento. Sono atti significativi, oltre all’editto di Nantes che stabilisce i principi di tolleranza verso i
protestanti, la creazione di intendenti per il controllo del territorio del regno, e la legge detta “paulette” che consentì a
facoltosi borghesi di rendere ereditari i titoli nobiliari acquistati assieme alle cariche. L’ l’arrivo a corte, nel 1605, di un
poeta affermatosi in “provincia”, portatore di idee che si sposano bene con gli ideali della monarchia: François
Malherbe (1555-1628) che creò una scuola di poeti, che si riunisce a casa sua, e forma così un gruppo di letterati che
manterranno il ricordo dei suoi precetti anche dopo la sua morte.
Accanto a precetti che mirano all’eufonia e a questioni di versificazione, troviamo un concetto fondamentale nella
concezione classica del discorso, quello della proprietà di linguaggio e della sua armonia, che comporta l’eufonia. Tutto
si riporta a un’esigenza di ordine, regolarità, armonia, insomma alla repressione di ogni “capriccio”. Il fatto che Malherbe
volesse promuovere la lingua parlata dal popolo, l’epoca del “realismo” linguistico è ancora lontana e la dignità d’uso a
cui mira la proposta di Malherbe ha il suo fulcro nella corte. Malherbe cerca quell’ideale di lingua che gli umanisti
perseguivano nel greco o nel latino ciceroniano. Ma il distillato che egli ne trae per la poesia ha il pregio di essere una
lingua viva. Questo è il criterio della pureté che viene perseguito con coerenza da Malherbe. L’altro criterio è quello
della clarté, la capacità dell’espressione di essere trasparente, di non opporre ostacolo alla comprensione --> Il poeta
deve parlare la lingua di tutti.
Al poeta malherbiano non sono concesse licenze; egli non può opporsi alla logica grammaticale. Si manifesta in
Malherbe il bisogno di regolamentare l’uso dei modi verbali, degli accordi. Sul piano sintattico, è necessaria la massima
chiarezza.
L’allontanamento dell’enjambement risponde all’esigenza di perseguire l’accordo fra senso e ritmo della frase, la
condanna delle cacofonie (contrario di eufonia) e la raccomandazione di non accoppiare grafie troppo diverse procedono
da un ideale di qualità da cui il parlare corretto non può prescindere. , La concezione di Malherbe si contrappone a quella
di Du Bellay, negli scopi e negli ideali: per quanto riguarda la posizione del letterato a corte e di fronte alla società.
Così la dottrina che riguarda il vocabolario si ritrova in Malherbe esattamente rovesciata rispetto alle tesi enunciate dalla
Deffence et illustration de la langue françoise:
1) La ricerca della purezza francese porta infatti a diffidare di latinismi e grecismi, agli auctores viene sostituito l’uso
corrente e vivo.
2) Vengono esclusi i termini stranieri.
3) Se il modello di lingua va ricercato nell’uso vanno banditi anche gli arcaismi (mots vieux).
4) La pureté va rispettata anche evitando cambiamenti arbitrari di categoria grammaticale.
5) Se nel programma di arricchimento del lessico propugnato da Du Bellay rientravano i dialettismi, questi diventano ora
una spia della provenienza provinciale, che sminuisce la dignità assunta presso la corte e nei salotti della capitale.
6) L’impiego di termini di mestiere, che oggi definiremmo termini tecnici viene bandito. Essi portano le scorie di
un’origine sociale da “rimuovere”.
7) Alla lista dei divieti vanno aggiunti i mots bar, ovvero le parole indegne perché in uso presso il popolo. Una porzione
larghissima del vocabolario viene eliminata dalla lingua letteraria: termini che rinviano concretamente al corpo, nella
sua naturalità.
Si instaura la distinzione degli: se Rabelais o Montaigne potevano mescolare i registri, Malherbe impone una gerarchia fra
le parole che hanno dignità poetica e parole “basse”. Malherbe non ha scritto trattati.
Infine, abbiamo il criterio della proprieté che si collega alla precisione del linguaggio, se in Montaigne il senso delle parole
sembra definirsi nel discorso e non discendere dalla definizione di dizionari, Malherbe si diletta nel perseguire i sinonimi.
Il quadro sistematico della sua “dottrina” è stato riconosciuto sulla base delle tre fonti disponibili: La sua produzione
poetica, le annotazioni da lui fatte in margine a un esemplare di alcune poesie e le testimonianze attribuite ai suoi allievi.
 Rifiuto di una poetica che impone di seguire l’uso corrente, di impiegare i termini aulici e di abbassarsi fino al popolo.
Mlle de Gournay è una donna colta che lancia una trentina di scritti, contro i malherbiani che definisce “poète
grammairiens”. La lingua letteraria per la Gournay non può fare a meno di ogni “amplification et culture” essa non può, in
nome della clarté, affidarsi alla censura dei più ignoranti. Ella difende la necessità di un vocabolario poetico ad alto spettro
che elimini solo i termini plebei; difende i diritti della metafora, contro il razionalismo di Malherbe che attaccandosi alla
rima vorrebbe ridurla a ornamento discreto, che passi inosservato.
ll nuovo impulso che il cardinale di Richelieu, primo ministro di Luigi XIII, impresse al potere monarchico comportò la
repressione o la “normalizzazione” rispetto a quanto poteva minacciare l’autorità centrale: La fondazione dell’Académie
française (1635). Uno degli obiettivi programmatici enunciati nel suo progetto consisteva nel sottrarre il francese dal
gruppo delle lingue barbare, in modo che anche le nazioni vicini la potessero parlare. Perciò occorreva “nettoyer la langue”
al fine di stabilire l’uso certo dei termini e la loro collocazione stilistica. I letterati chiamati da Richelieu a esercitare tale
autorità sulla lingua, non a caso erano coloro che più si riconoscevano nella dottrina di Malherbe.
L’Académie française voluta da Richelieu finì per diventare qualcosa di assolutamente caratterizzante nello Stato
francese, costituisce in qualche modo il “corpo simbolico” della nazione.
Con l’attributo di Immortels conferito ai suoi componenti l’Académie è in qualche modo il rappresentante della presenza
formale dello Stato in quasi tutti gli aspetti della vita francese.
All’inizio del 1637 Pierre Corneille aveva rappresentato la tragicommedia “Le Cid”, con grande successo. Molto presto si
era però attirato gli attacchi degli avversari, dopo altre critiche concernenti la struttura, i temi affrontati, Georges de
Scudéry criticava termini che considerava bassi, perché familiari o artici, molti dei quali erano propri dell’uso giuridico.
Questo attacco scatenò una serie di giudizi pro o contro, invitato a pronunciarsi, l’organo appena creato da Richelieu emise
il suo primo documento ufficiale. Nello stesso anno in cui infuriava la polemica sul Cid di Corneille, Cartesio inaugurava
sul piano filosofico un “metodo” fondato sull’appiattimento della specificità individuale a favore dell’evidenza generale.
La realtà storica è però molto più complessa di questo schema, che rispecchia piuttosto un’esigenza di controllo, allora
prioritaria per lo Stato francese. Dopo l’uccisione di Enrico IV (1610) e la reggenza di Maria de’ Medici, le redini del
potere erano state assunte dal cardinale Richelieu come primo ministro di Luigi XIII. La Francia era inoltre da tempo
impegnata contro la Spagna nella guerra dei Trent’anni. È vero che il cardinale voleva crearsi, con l’Académie, un piccolo
esercito di polemisti che servisse agli scopi della sua politica. La querelle du Cid è perciò un episodio dell’antagonismo fra
la Corte e il Parlamento di Parigi.
Anche la lingua partecipa a un più vasto processo, imita un teatro pubblico avviato a diventare la forma di divertimento più
rappresentativa per il gentiluomo.
La lingua orale, la lingua della conversazione, dove il latino e il greco fanno figura di lingue morte, fornisce i parametri
del bon usage. La presenza capitale delle dame in questo processo di ingentilimento dei costumi impone pudore e
gradevolezza di comportamento; insomma il rispetto delle bienséances.
Il linguaggio può tradire l’origine del parlante e metterne in luce la sua inadeguatezza rispetto al tono della compagnia. È il
momento in cui si assiste alla nascita dei salotti mondani. Il più importante tra i primi circoli mondani, dove potevano
incontrarsi Chapelain, Balzac e Vaugelas si riuniva all’Hôtel de Rambouillet, nella Chambre Bleue della marchesa
Catherine. I circoli mondani si affiancano alle piccole accademie private, come erano state le riunioni serali in casa di
Malherbe, anche questi a dominante maschile, con l’eccezione di quello che faceva capo a Mlle de Gournay.
Pierre Corneille è stato il primo drammaturgo a riflettere sull’importanza della conversazione. Non possiamo stupirci che
nelle ruelles uno degli argomenti favoriti di conversazione fosse proprio la lingua. La codificazione del francese sembra
ripartire da capo, eppure esistono idee-guida molto sicure, che indirizzano le notazioni verso un fine coerente. Bisogna
ancheconsiderare che il concetto di “grammatica” è legato alla norma, cioè a un modello scritto, immobile, che è ancora
dato dal latino.
Tuttavia, quella norma, che Vaugelas non voleva dare, era implicitamente accettata nel fatto stesso che egli
raccogliesse osservazioni per l’uso corretto del linguaggio in società. Il concetto di norma può avere infatti due accezioni:
l’una si riferisce a ciò che è abituale, dunque “normale”, l’altra a ciò che è accettabile ed è quindi in rapporto con
“normativo”. Egli accumulava cioè le Remarques con un fine di descrizione, ma era spinto a farlo perché si assoggettava
alle regole del comportamento sociale.
La donna era la protagonista del cenacolo mondano, colei che dava il tono alla conversazione, esige le buone maniere
malgrado la sua istruzione sia inferiore, e ciò la rende anche una sorta di filtro rispetto allo sfoggio di erudizione di fronte a
vocaboli che sanno di latino e si allontano dunque dall’uso corrente, ossia da questa base culturale media che caratterizza
l’hônnete homme. La lingua come primo strumento del paraître.
L’uomo di mondo, nella conversazione che diventa l’occasione privilegiata dei rapporti sociali, non deve tradire un’origine
provinciale, una condizione sociale bassa, e nemmeno rendersi noioso o ridicolo con un fare saccente. Vaugelas professa
di voler solo mostrare il buon uso di term
ini già esistenti.
Nei salotti a brillare è l’intelligenza e non la nobiltà di sangue. Ed è alla portata di tutto, non bisogna essere nobili per
poterne fare uso. Non frutto di una superiorità di nascita ma proviene dal consenso degli altri honnête homme e honnête
femme. La lingua francese diventa per la diplomatica dello spirito inizia un secolo di predoni del francese, come lingua
internazionale, sempre il caso estremo di quello che vien considerato il più grande romanzo della storia dell’occidente :
Guerra e pace, furibonda campagna di russi di Napoleone, ha decine di pagine scritte in francese perché la nobiltà russa si
esprimeva in francese. Sarà solo con al guerra dei 7 anni che l’equilibrio si sposterà da Parigi a Londra.
Il francese viene adottato nei trattati di pace.
Scarron—> caratterizzato per una certa libertà espressiva, perché con le sue regole, irrigidisce il flusso comunicativo ed
espressivo. Il burlesque è una valvola di sfogo, come una pentola a pressione che soffia e fa uscire questo vapore, il
burlesque ripreso dal grottesque, vuole rompere i lacci di un canone letterario avvertito come soffocante, per esempio in
alcuni paesi andava evitato ogni riferimento a elementi sessuali, (anche animali, come porco e cane, venivano evitati) si
doveva utilizzare uno stile elevato, il burlesco si sottrae a tutto questo. Bisognava ubbidire alle bienséance (buone maniere
e vraiseamblence, veridicità e alla decenza).
Prima crisi del grand siècle: termine da tenere a mente si tratta della famosa querelle tra les anciens et les modernes, la
controversia che oppone i corifei (rappresentati) di una posizione ripresa dall’antichità e posizioni della modernità.
Verso la metà del secolo XVII, la lingua francese sembra assumere contorni stabili. Nelle ruelles si afferma il “parler
Vaugelas”. L’opposizione sociale si sovrappone a quella diacronica: ciò che è vieux è anche bas. L’élite segue la moda, il
popolo e la borghesia restano indietro.
Questa lingua apparentemente fissata come lo è l’assetto della Francia nasconde fort i t e n s i o ni p o l i t i c h e e
p e r s o n a l i che si m a n i f e s t e r a n n o con la “Fronda” (1648-1653). I disordini esplodono nel periodo di reggenza di
Anna d’Austria (1643-1661), contro il potere del nuovo ministro -ancora cardinale- Mazzarino.
Ciò che chiamiamo “préciosité” è un atteggiamento di artificiosità nel comportamento e nel linguaggio, riferito in
particolare a taluni ambienti mondani parigini nel decennio 1650-1660 --> Identificata come la costante eterna nell’esprit
francese. La satira contro le précieuses è localizzata principalmente in due autori: Molière, con le sue “Précieuses
ridicules” e Somaize che imita la commedia di Molière e vi aggiunge due Dictionnaires relativi al linguaggio prezioso. Il
senso morale assunto dal termine, già dal Medioevo, era quello della donna che “fa la preziosa” perché rifiuta di
concedersi.
È un modo per contrastare l’idea di un’epoca classica senza contrasti o fatture, secondo l’immagine che l’assolutismo
monarchico voleva imporre; anche la préciosité è un fenomeno che si manifesta nella ville e seduce i provinciali.
Il vocabolario classcio è più denso, oltre che astratto, e ogni parola risuona piena di significato. La lingua delle opere
letterarie prendeva a modello la conversazione degli hônnetes gens, e ciò andava nel senso di una maggiore libertà e
spontaneità che nei testi scritti. L’ideale era scrivere come si parlava, e gli scrittori sottoponevano le loro opere al giudizio
non solo di personalità qualificate, ritenute modelli di eloquenza, ma anche alla lettura pubblica delle ruelles. Il gusto viene
inteso come principale alleato, poiché tutto ciò che è razionale deve piacere, però a sua volta, il gusto non può essere
individuale, deve conformarsi alle regole, poiché la vera ricchezza si trova nella qualità.
Sul piano dello stile, l’espressione non deve essere forzata, o eccessivamente ornata. Su questo era facile condannare ogni
sorta d’affettazione, per esempio quello delle Preziose: la semplicità senza tensione pretenziosa è l’unica garanzia della
verità. L’opera di Bouhours è dunque un’apologia della lingua francese che si fonda sul pregiudizio di superiorità assunto
dalla Francia del Grand Siècle nei confronti delle altre culture presenti e passate. Gli originali latini e greci venivano
sottoposti a versioni deliberatamente infranciosate, per eliminarne i “difetti” che li rendevano inaccettabili al gusto
classico. Tale atteggiamento poggiava su basi politiche, non essendo altro che il corrispettivo dell’atteggiamento assunto
dal Re Sole nei confronti delle altre nazioni d’Europa.
Il linguaggio prezioso si allineava sui precetti malherbiani perché eliminava espressioni volgari, parole concrete, agiva
insomma su una base lessicale “purificata”. Se ne allontana però con l’artificio, che è l’esatto opposto del naturale invocato
dal bien parlare classicistico. In tal senso ha una sorta di “pendant” nello stile burlesco, che consiste nell’uso deliberato dei
termini bas, vieux o sales in particolare, a scopo parodistico, cioè per mettere in ridicolo argomenti seri, e quanto più in
generale doveva venire bandito dalla conversazione mondana: arcaismi, tecnicismi, lingue straniere. La simmetria fra
préciosité e burlesque riguarda però solo la superficie del linguaggio. La prima corrispondeva infatti a un’esigenza
complessa, che scaturiva dalle caratteristiche profonde della società dell’epoca e del rapporto fra i sessi, mentre il secondo
è un vezzo puramente letterario. Il classicismo francese ribadisce la gerarchia degli stili rendendola più netta: uno stile
sublime, uno stile medio e uno stile basso, infine quello della farsa e appunto del burlesco. La nozione di burlesque
sostituisce quella di grotesque.
Il burlesco costituirebbe così una sorta di valvola di sfogo rispetto alla costrizione che il canone letterario imponeva nei
generi nobili. In poesia andava evitato ogni riferimento a realtà sessuali.
Il regno di Luigi XIV vide la fioritura di opere eccelse nelle arti come nella letteratura, nel 1674 Corneille conclude la sua
attività drammaturgica.
La revoca dell’Editto di Nantes (1685) coincide con l’inizio di un regresso generale dell’immagine trionfante del monarca
assoluto, tanto quanto i primi due decenni del regno erano stati contraddistinti dall’esaltazione del suo mito personale.
Si accende lo scontro fra due visioni contrapposte. Sul piano della storia della lingue la Querelle des Anciens et des
Modernes può essere vista come il riproporsi del dibattito fra razionalismo linguistico e ragioni della poesia che aveva già
visto come protagonisti Malherbe e Mlle de Gournay.
Fuori da Parigi c’è, nella migliore delle ipotesi, una situazione di bilinguismo dove il francese è percepito come lingua
ufficiale o come lingua di scambio, senza una grande penetrazione nella vita quotidiana. Nelle Fables di La Fontaine, che
mostrano aspetti arcaicizzanti rispetto ai progressi della lingua letteraria parigina, il registro infantile si rivela consono a
una familiarità felicemente spontanea per quanto frutto di un consapevole studio stilistico. Nella Ville e nella Cour il
controllo della parola costituiva, come abbiamo visto, una delle regole principali del comportamento. La fonetica popolare
evolve nel lungo periodo mentre quella dei nobili muta rapidamente secondo la moda dei salotti o di corte.
Nel “Discours sur l’académie françoise”, Sorel abbraccia l’argomento dell’utilità di una lingua fissa, non sottomessa cioè
al capriccio individuale, ma ha coscienza del necessario mutamento delle lingue. Egli invitava ad accogliere, con cautela, i
cambiamenti imposti dall’uso, quindi è contrario agli eccessi puristici.
Nel Seicento, il rapporto fra ortografia e pronuncia è ben lontano dal costituire una questione cruciale come nel secolo
precedente. All’inizio del XVII secolo erano comparsi dizionari i quali registravano un lessico che adesso possiamo dire
molto diverso da quello dei decenni successivi. Di fatto, ancora per molto tempo, mancò un “dizionario della lingua
francese” --> Creare un dizionario era il primo compito affidato all’Accadémie, fu intrapreso con grandi ambizioni ma con
molta lentezza. Uno degli accademici, Furetière decise di intraprendere per conto suo un dizionario che era, però, una sorta
di enciclopedia. Furetière affrontava la definizione dei termini appartenenti alle scienze, nel senso più ampio, l’Académie
si limitava al “vocabulaire de l’honnête homme” escludendo perciò i “mots des Arts et des Sciences”. Mentre infuriava la
battaglia legale fra Furetière e l’Académie, i due dizionari contendenti venivano preceduti, nel 1680, dal “Dictionnaire
français” di Richelet, che forniva una precisa classificazione dei lessemi --> DIZIONARIO SELETTIVO.
Il Dictionnaire universel di Furetière sarà la seconda opera lessicografica ad apparire, nel 1690, egli intendeva che le
definizioni forniscono una descrizione dell’oggetto, non si fondano sugli esempi tratti dagli autori.
Nel 1694 uscì il dizionario de l’Académie, in cui l’ordinamento delle voci era per radice; i termini tecnici e scientifici
erano esclusi per principio, a eccezione di quanto era più vicino alle abitudini nobiliari. Tornando all’ortografia vanno
notate le scelte antitetiche operate da Richelieu e dall’Académie. Il primo semplifica facendo economia di molte
consonanti etimologiche per agevolare nella pronuncia delle parole mentre la seconda rimaneva fedele all’antica
ortografia.
Il canone viene desunto dalla grande generazione di scrittori che aveva illustrato il Siècle de Louis XIV. Un criterio di
eccellenza, che si era definito attraverso la conversazione elegante, e propugnando l’uso contro l’immobilità della parola
scritta. Racine diviene il rappresentante maggiore di uno stile nobile, ossequioso delle règles che si oppone alla mutazione
e al corrompimento. Esiste un livello inferiore della lingue, ciò che la sociolinguistica chiama oggi “substandard” e che
tende ad emergere. Meglio, si possono individuare due fattori innovativi che sono legati alla filosofia dei Lumi. Il primo è
l’arricchimento del vocabolario sotto l’impulso del progresso tecnologico- scientifico e la coscienza che lo accompagna. Il
secondo fattore, filosofico e letterario, è la ricerca di una nuova espressività del linguaggio, e si lega alle nuove teorie
estetiche.
Per comprendere bene il nuovo sentimento dell’eccessivo inaridirsi della lingua è opportuno ricordare la polemica che
esplose nel medesimo anno attorno alla traduzione di Omero, allorché Houdar de La Motte dimezzò infatti il poema
pretendendo conservare solo ciò ch era proponibile al più raffinato gusto francese. La lingua francese veniva giudicata
invece capace di esprimere i contenuti della poesia omerica in modo accettabile per il gusto contemporaneo. Mme Dacier,
insieme al marito, costituiva una coppia di illustri cultori della letteratura classica. Mme sosteneva che una lingua
veramente abbondante deve presentare una scelta fra le parole, e non scartare a priori ciò che non rispetta la politesse.
Anche in questa seconda fase, i contenuti della Querelle des Anciens et des Modernes, apparentemente distanti dalla nostra
mentalità, si rivelano importanti per spiegare l’evoluzione della lingua. Difendendo i diritti della poesia, Mme Dacier
denunciava i limiti del razionalismo classicistico, rinnovando l’antica lotta che aveva ingaggiata circa un secolo prima
Mlle de Gournay, e che vedrà impegnata, a uguale intervallo di tempo, un’altra donna illuminata e colta, Mme de Staël.
La coscienza della necessità del mutamento deriva da fattori esterni dei quali occorre dare breve cenno. La Francia del
XVIII secolo vede un grande sviluppo dei trasporti, favorito dall’ampliamento della rete stradale. Cresce anche
l’importanza della stampa pariodica, che trasmette le notizie da e per la capitale, dall’estero alla Francia e dalla Francia
all’estero. Perciò si accresce il peso della grafia sulla pronuncia. Nel secolo XVIII il francese comincia a penetrare nelle
scuole. Luigi XV torna a risiedere in città, e il baricentro della vita aristocratica si sposta da Versailles e dal Marais verso
Saint-Germain. Gli uomini frequentano i café, la conversazione dei salotti ha un carattere sempre più universale e il salotto
diviene una delle sedi privilegiate della battaglia delle idee.
Nel 18 secolo, il termine “philosophe” assume il senso di persona che mette i suoi “lumi” a servizio del progresso
dell’umanità, ma dal punto di vista opposto diventa sinonimi di miscredente e libertino. Il lessico politico è molto
influenzato dal modello inglese ma si deve all’enorme impatto del Contrat social di Rousseau la definizione di état,
souveraineté, gouvernement. La conversazione mondana tocca inoltre gli argomenti scientifici. Uno dei risultati maggiore
dell’Encyclopédie, diretta da Diderot, fu la circolazione cosmopolita delle scienze e delle tecniche. Nel linguaggio
universale del sapere, e grazie anche a questa grande impresa editoriale, il francese si sostituisce al latino.
Quando una lingua raggiunge la fase della codificazione, lo standard assume stabilità, la lingua francese raggiunge un
grado di definizione nelle sue varie componenti che ne assicurano la norma generale. Nei massimi esponenti
dell’Illuminismo si constata infatti l’abbandono della complessità a favore dello style coupé. Si manifesta insomma una
volontà di concisione di cui uno degli effetti è la preferenza per la frase nominale, quale possiamo osservarla ancora oggi
nei registri elevati e nello stile della comunicazione giornalistica.
La lingua letteraria tiene a rispettosa distanza l’oralità, mentre la lingua aristocratica aveva creato in se stessa il vuoto, che
cominciava ad essere riempito dal materiale verbale proveniente dalle classi inferiori e la lingua familiare solo nei
personaggi di basso rango.
Le accademie in genere mantengono la tradizione della lingua epurata, fra i procedimenti nobilitanti primeggia la
sostituzione del termine proprio con la perifrasi, si tratta in fondo di un’eredità della préciosité. Ben quattro nuovi dizionari
dell’Académie si susseguono nel corso del secolo. L’edizione del 1718, obbedendo al buon senso, adotta l’ordine
alfabetico integrale e abbandona gli accorpamenti per famiglie della prima edizione. Quella del 1740 è stata considerata tra
le più importanti perché introduce gli accenti acuti e gravi all’interno delle parole, e il circonflesso al posto della vocale.
La polemica tra Mme Dacier e La Motte rimetteva in discussione la superiorità della cultura francese rispetto a quelle
antiche, se il concetto di belle infidèle comportava un atteggiamento di superiorità nei confronti del testo di partenza, la
fedeltà nasce invece da un rispetto, da un’attenzione verso i valori che vi sono contenuti. Dal punto di vista culturale, la
novità sostanziale è la nuova conoscenza del mondo inglese, l’’influenza si era esercitata semmai in senso inverso. Ma gli
scrittori ugonotti (è l'appellativo dato ai protestanti francesi di confessione calvinista presenti in Francia tra il XVI secolo e
il XVII secolo) che si erano rifugiati in Inghilterra come in Olanda dopo la revoca dell’editto di Nantes (1685) avevano
cominciato a diffondere, scrivendo in francese, le idee di tolleranza che erano nate nella filosofia inglese del periodo.
Voltaire, dal soggiorno inglese maturò l’idea di un confronto fra le due nazioni, a tutto svantaggio di quella francese.
All’ammirazione per la mentalità commerciale, la tolleranza, la scienza inglesi in Voltaire non corrisponde un’accettazione
altrettanto piena per una letteratura così lontana dalle règles e dalla giusta misura stilistica. Negli stessi anni, anche Prévost
si era trovato costretto alla fuga dalla Francia, e aveva potuto apprezzare le qualità e i meriti della vita inglese. Egli ne
diffuse la conoscenza attraverso i suoi romanzi degli anni Trenta. Egli fece compiere un passo decisivo verso
l’apprezzamento della letteratura inglese con le traduzioni da Richardson, egli traduce per assaggi, mirando a far
apprezzare gradualmente il gusto inglese ai connazionali --> i Francesi vedevano l’Inghilterra conquistare la supremazia
economica e politica, grazie ai suoi traffici marittimi e alla sua espansione coloniale.
La speculazione del linguaggio, che compie passi da gigante nel XVIII secolo, in Francia affondava le sue radici nel
razionalismo di matrice cartesiana. L’avvenimento capitale era stato, nel 1660, la pubblicazione della Grammaire générale
et raisonnée di Port-Royal. Gli autori avevano sviluppato il pensiero di Descartes, di conseguenza miravano a una
grammatica “generale”, appunto, e non particolare del francese, o del latino.
Rispetto al presunto ordine naturale della frase francese, l’ordine libero e molto spesso inverso del latino figurava come
un’“inversione” quindi come un’alterazione del grado zero del linguaggio. Sulla questione delle inversioni si sviluppò una
polemica, i sostenitori della tesi opposta sostenevano che il latino rispettasse meglio l’ordine naturale, perché metteva al
primo posto l’idea più importante, quella che si presenta prima alla mente. Diderot scrisse nel 1751 la Lettera sur les
sourds et muets dove, partendo dal confronto con il linguaggio gestuale dei sordomuti, appunto non sottomesso alle regole
sintattiche del francese, arrivava all’intuizione che la mente non percepisce in successione, ma simultaneamente --> L’
empirismo di Locke svuotava di senso la teoria delle idee innate, garanzia della corrispondenza del pensiero con la
materia; egli sosteneva che la mente umana è vuota all’origine, e che le idee derivano dalle sensazioni, esse vengono via
via elaborate e rese astratte. Quando la filosofia di Locke viene recepita in Francia, essa subisce uno spostamento
d’accento sulla connessione fra pensiero e linguaggio, e quindi sull’origine di quest’ultimo. Venivano così distinti tre stadi
del progresso delle lingue: nascita, formazione, perfezione. Il punto d’arrivo ideale era visto nella univocità del linguaggio
matematico.
Attraversando la letteratura del secolo, si nota come un trascolorare dei testi dalla trasparenza classica verso tinte più
fosche. Accanto all’ufficialità accademica si può agevolmente osservare la crescita cespugliosa della lingua del sentimento
che si avvia a invadere gli ordinati giardini alla francese. La letteratura della sensibilité non cerca più la corrispondenza
semantica fra parole e sentimenti, e quindi la proprietà dei termini, ma la presa diretta sui moti dell’animo, ovvero la svolta
sensistica degli studi sul linguaggio. Nel teatro, nel romanzo, prevalgono il “grido della passione”, l’energia irriflessa del
gesto. Nella pratica banalizzata che ne deriva, essa si traduce in un’invasione di discorsi interrotti dall’emozione: lo style
entrcoupé. Per quanto oscillante sia la terminologia adottata, il discorso entrecoupé va distinto dallo stile coupé, che
consiste invece nel ritmo breve, nella concisione del periodo. Voltaire lo maneggia con la più grande maestria per
accelerare vertiginosamente il ritmo delle disavventure di Candide. --> La sensiblerie ‘700 torna a rivolgersi alla lingua
orale, una lingua ormai spogliata dal pregiudizio di nobiltà.
Attraversando la letteratura del secolo, si nota come un trascolorare dei testi dalla trasparenza classica verso tinte più
fosche. Accanto all’ufficialità accademica si può agevolmente osservare la crescita cespugliosa della lingua del sentimento
che si avvia a invadere gli ordinati giardini alla francese. La letteratura della sensibilité non cerca più la corrispondenza
semantica fra parole e sentimenti, e quindi la proprietà dei termini, ma la presa diretta sui moti dell’animo. Vi incide
profondamente la svolta sensistica degli studi sul linguaggio. Nel teatro, nel romanzo, prevalgono il “grido della passione”,
l’energia irriflessa del gesto. Nella pratica banalizzata che ne deriva, essa si traduce in un’invasione di discorsi interrotti
dall’emozione: lo style entrcoupé. Per quanto oscillante sia la terminologia adottata, il discorso entrecoupé va distinto dallo
stile coupé, che consiste invece nel ritmo breve, nella concisione del periodo. Voltaire lo maneggia con la più grande
maestria per accelerare vertiginosamente il ritmo delle disavventure di Candide. La sensiblerie settecentesca torna a
rivolgersi alla lingua orale, una lingua questa volta spogliata del pregiudizio di nobiltà. I due punti verticali vengono
adottati per introdurre il discorso.
Voltaire attribuisce il merito della diffusione del francese nelle aristocrazie del resto d’Europa ai grandi autori del Siècle de
Louis XIV. Essi avevano portato nelle corti straniere l’esprit de société. Dal XVII secolo, il francese ha spesso sostituito il
latino come lingua della diplomazia. Il problema non è più la superiorità o l’inferiorità rispetto al latino, pensi nei riguardi
dell’italiano, dello spagnolo, del tedesco e dell’inglese.
Nella storia meno celebrata che riguarda le parole, uno dei cambiamenti di senso più vistosi si accompagna alla
rivoluzione --> Cambiamento/stravolgimento.
La fine dei salotti aristocratici si accompagna alla scomparsa del privilegio umanistico sulla cultura, che viene
acquartierato in un settore specifico della nuova divisione del lavoro. Prende il sopravvento un sapere scientifico la cui
utilità si misura sul progresso. Il punto d’arrivo ideale dell’evoluzione delle lingue viene visto dagli Idéalogues nel
linguaggio matematico. Essi assumono in proprio la critica di Locke verso l’abus des mots, cioè contro l’impiego
ingannevole della parola.
La clarté della lingua francese e la sua universalité forniscono un elemento di continuità che entra in contraddizione con
altri aspetti della fine dell’Ancien Régime.
In quanto istituzione della monarchia, l’Académie è stata fondamentalmente soppressa dalla Clase de Langue et
Littérature française dell’Institut National. Di conseguenza, l’incidenza della Rivoluzione francese sulla lingua va
misurata sugli effetti duraturi che determinò. Per la lingua, il 1789 vide l’esplodere della presa di parola in pubblico, tanto
che i giornalisti dell’epoca traducevano e adattavano vocaboli del lessico parlamentare inglese, che si sono poi affermati
tanto più rapidamente in Francia quanto più si trattava di “prestiti di necessità”: è il caso di législature, amendement.
Il nuovo vocabolario affermatosi nel 1789 scaturì dal coagulo di espressioni provenienti dal diritto romano con nozioni
inglese fino al mescolamento con le consuetudini francesi. Le idee-guida provenivano inoltre Contrat social di Rousseau
(1762). La Rivoluzione lasciò peraltro intatta la struttura grammaticale del francese. Il ritmo, la sintassi, la grammatica
degli oratori rivoluzionari appartengono al XVIII secolo, ma si constata a tutti i livelli, anche quelli meno ufficiali, la
continuità con il secolo successivo. La Restaurazione monarchica (1815-1830) toglierà di mezzo i residui simboli
rivoluzionari di cui si erano caricate le istituzioni. Ma non potrà riportare indietro il calendario della storia economica e
sociale, che indicava adesso il progresso della rivoluzione industriale, e la presenza di una borghesia degli affari,
potenziatasi attraverso l’acquisto dei beni del clero e dei nobili emigrati messi in vendita dall’Assemblea nazionale.
Il termine aristocrate viene allora a designare l’”Ennemi de la liberté”, mentre “démocrate”, “Par opposition à Aristocrate,
celui qui s’est dévoué à la Révolution”. Nei secoli precedenti non si parlava infatti di “aristocratie” come classe sociale,
ma di “noblesse
La terminologia politica subisce dunque un’esplosione vulcanica, essa si definisce secondo l’allineamento partitico:
nascono la Gauche et la Droite.
Sotto l’influsso dell’inglese, “popularité” inverte il proprio significato nel senso di “esprit populaire”. In molti casi si
tratta di coni legati ad avvenimenti particolari: “septembriser” significò “massacrare in massa” così come era avvenuto
nelle prigioni parigine nel settembre 1792.
Una settimana prima della caduta di Robespierre, la Convenzione decreta l’uso del francese per tutti gli atti pubblici: questi
atti ci dimostrano che la penetrazione della lingua di Parigi nella “provincia” era tutt’altro che acquisita ancora in epoca
rivoluzionaria. Più di un terzo dei francesi ignoravano la lingua nazionale, e altrettanti non erano in grado di “suivre une
conversation suivie”. L’obiettivo principale era la lotta ai patosi, ciò rispondeva ad urgenze pratiche: c’era un ampio
problema di comunicazione su un territorio linguisticamente diviso dai patosi e dalle lingue locali.
Il linguaggio rivoluzionario fu attaccato in quanto pretesto ideologico.
L’Ancien régime aveva fatto della lingua un’istituzione come le altre. Essa era una parte di quel “corpo del re” con cui si
identificava lo Stato. Infrangendone l’etichetta, sostituendola con un gergo intollerabile, il popolo si rendeva colpevole di
un vero e proprio sacrilegio.
È vero che la Rivoluzione pretese di abolire il “vous”, assunto come emblema di una gerarchia sociale, e di avvicinarsi
all’ideale di égalité attraverso il “tu” e sostituendo l’appellativo “monsieur” con “citoyen”. Essa offrì l’occasione di
esprimersi a parlanti illetterati, permettendoci cosi di possedere una testimonianza più ampia sulle scorrettezza della lingua
del popolo.
La quinta edizione del Dictionnaire de l’Académie oltre ad aggiungere un supplemento di termini rivoluzionari, promosse
al rango di “familiers” molti termini già reputati “bas”, e ne introduceva più di duecento come “popolari”. Ma è ancora più
evidente che la dissociazione della lingua aristocratica passava deliberatamente attraverso l’adozione dei registri bassi del
vocabolario. Révolutionner la langue significava renderla popolare, cioè in fondo diffondere la clarté che aveva lasciato
in eredità l’Ancien Régime. Le generazioni future intesero invece questa rivoluzione come sovvertimento dell’antica
gerarchia stilistica.
Il secolo che seguì la Rivoluzione è caratterizzato da uno stretto legame fra date politiche e avvenimenti culturali e
letterari, ciò si deve alla scelta ideologica che gli scrittori si troveranno d’ora in poi a compiere.
Durante l’età napoleonica è altamente indicativo l’atteggiamento assunto nei confronti della Rivoluzione da due
personalità, come Germaine de Staël (1766-1817) e François-René de Chateubriand (1768-1848).
La prima occupa un posto di assoluto rilievo per quanto riguarda le origini del pensiero liberale moderno, che si irradia dal
suo castello presso Ginevra. Qui Mme de Staël riunisce eminenti figure intellettuali europee continuando nel modo più
illustre la grande conversazione dei salotti illuministi, e costruendo una forte opposizione ideologica a Napoleone. Le sue
idee sulla lingua si esprimono anzitutto nella condanna della violenza verbale rivoluzionaria e dei suoi “néologismes
barbares”. Si tratta di un ideale basato sulla concretezza dei fatti, sull’adesione dell’espressione al pensiero, anziché sul
fanatismo e la faziosità. Tuttavia, nelle prime fasi della Rivoluzione poi degenerata, la Staël sa cogliere quell’entusiasmo
che rendeva la parola adeguata al grande momento storico, e scatenava la comunicazione empatica di questo sentimento --
> la Staël si sofferma sull’innovazione lessicale letteraria dove l’invenzione di un’espressione nuova diviene naturale. La
Staël scopre il grande principio dell’innovazione linguistica, la sua concezione segna il trapasso dall’atteggiamento
classicistico, concentrato sulla possibilità di ammettere il neologismo, alla soggettività creatrice romantica che rifiuta il
purismo lessicale, pur prescindendo dal porre il problema dello stile in un’ottica grammaticale.
Sarà opera di Chateaubriand inventare quel nuovo linguaggio letterario che il secolo precedente si era sforzato di ricercare.
Il razionalismo scientifico e l’abbandono del sentimento religioso hanno paralizzato la poesia, che proprio l’incantevole
prosa di Chateaubriand si appresta a far risorgere dalle sue ceneri; Chateaubriand stesso, rinnegando lo spirito
illuministico, ha sostituito con qualcosa di radicalmente diverso da quella dell’Ancien Régime. Dappertutto egli ci mostra
quanto il vecchio vocabolario portasse con sé i segni della corruzione che era stata quella della società d’Ancien Régime.
Egli acconsente all’innovazione lessicale nelle “scienze” Ma esiste la possibilità di un ben più radicale cambiamento.
Bisogna dunque rigenerare le parole, ma mantenere la sintassi (equivale a cancellare la Rivoluzione). L’aggettivo
“romantique” proveniva anch’esso dall’inglese, corrispondeva al francese “romanesque”. Ma aveva subito le storiche
differenze di gusto delle due nazioni. Il riferimento ai vecchi romanzi eroici o cortesi aveva lasciato nella razionalistica
Francia l’idea dell’“immaginario”; un termine che doveva essere applicabile all’indefinibile, alle suggestioni imprecisate
che suscitano nell’animo la contemplazione di un paesaggio non civilizzato, ma esso continuava comunque a veicolare le
magie, le nostalgie e le paure che esprimeva la voga del gotico.
La rivoluzione del linguaggio letterario si sviluppava contro la rivoluzione politica e sociale. Quando Mme de Staël
illustrerà all’Europa le fonti profonde della nuova sensibilità, la rivelerà anche estranea all’ “universalità della lingua
francese”, alla sua fiducia nella ragione éclairante. Più tardi in un suo testo Hugo si fa portavoce dalla storia e segnala
l’irruzione del “popolo” nel campo letterario. La rivoluzione lanciata da Hugo in Francia riguarda lo stile. Data la
solidarietà creatasi sin dai tempi di Malherbe fra la lingua e la corte, la sovversione dell’Ancien Régime non poteva andare
disgiunta in Francia.
La specificità che la cultura francese apporterà al Romanticismo europeo si sviluppò proprio sull’impegno sociale.
La continuità tra rivoluzione politica e rivoluzione del linguaggio poetico è dunque uno dei miti che il Romanticismo ci ha
proposto con la sua inesauribile carica di seduzione.
La Rivoluzione si pose un duplice obiettivo: il primo, non fondare più l’apprendimento della grammatica sul latino, che era
la lingua della Chiesa, e laicizzare così l’istruzione; il secondo, diffondere il francese su tutto il territorio, in conformità
con gli obiettivi della politica rivoluzionaria. Attraverso l’istruzione, la norma grammaticale viene trasferita alla
collettività. I dizionari non sono più fruiti da accademici e letterati, ma da un pubblico sempre più diversificato.
Nel XIX secolo la lingua è ormai pressoché identica a quella che usiamo oggi; il XIX e il XX secolo siano dominati
soprattutto da due grandi fenomeni che influenzano a tutti i livelli la vita della lingua: lo sviluppo tecnologico-scientifico e
lo sviluppo delle comunicazioni.
Nasce l’abitudine assunta dai romanzieri detti “realisti” di far parlare i personaggi con i propri tratti popolari, provinciali,
dialettali, con la loro pronuncia straniera. Un discorso a parte va fatto per l’incidenza del linguaggio quotidiano, orale sulla
letteratura, e in particolare sullo stile del romanzo contemporaneo. Questo rapporto è stato generalizzato e accettato, e
assunto correntemente nella pratica. Di questo attingere all’argot nella sua immediatezza anche brutale, al ritmo, Céline si
presenta come una sorta di capostipide. Questa generale trasformazione del linguaggio letterario, favorita nel romanzo in
particolare dalla resa mimetica dei dialoghi quotidiani e dal ricorso massiccio al “monologo interiore”, ha creato dunque
una contraddizione rispetto all’impiego che continuano a fare i lessicografi della categoria “letterario” per classificare
termini riservati alla critica, al saggio scritto, all’uso colto della lingua.
Nel 1835, il Dictionnaire de l’Académie française, giunto alla sua sesta edizione, viene a fissare l’ortografia che rimane,
nella sostanza, fino ai giorni d’oggi. I manuali fanno anche riferimento a un decreto reale del 1832 che rendeva
obbligatoria la conoscenza dell’ortografia per l’accesso ai pubblici impieghi. Al trionfo dell’oggetto-libro si unisce adesso
il consumo letterario indotto da nuove formule, come il feuilleton, che sfruttano la stampa periodica.
E poi si possono osservare le nuove caratteristiche assunte dalla punteggiatura. Da adatta alle esigenze della lettura ad
alta voce, essa diventa logica e marca l’articolazione del periodo.
Il punto e virgola, i due punti marcavano pause intermedie. Nell’Ottocento, i due punti vengono riservati a una funzione
precisa: introdurre una spiegazione, un elenco, un discorso. Non c’è quindi da meravigliarsi che sia questo il momento in
cui si fissa l’immagine “visibile” della lingua.
La grande espansione delle istituzioni scolastiche andava di pari passo con un insegnamento fortemente strutturato, e
faceva fronte al bisogno d’istruzione di una nuova classe di piccoli proprietari terrieri. Come l’insegnamento, anche il
modello della lingua è normativo e dominato dal modello scritto. Un’altra manifestazione del prevalere della logica
dell’errore nell’insegnamento linguistico si pone in linea con la lotta ai dialetti, inaugurata come abbiamo visto dalla
Rivoluzione, e agevolata dall’inurbamento prodotto dalla società industriale.
Ad ogni repressione corrisponde una ribellione; il formarsi di una sorta di separazione degli stili, fra il parlare corretto
della scuola e il parlare libero del gruppo, fra lingua ufficiale e non convenzionale. I decreti di Jules Ferry istituirono
l’insegnamento elementare obbligatorio e gratuito. Essi sono un punto di arrivo di quella fase di organizzazione delle
istituzioni di Stato e con queste del controllo della lingua, che si determina sotto la 3 Repubblica.
Le leggi di Ferry intervengono nella fase culminante dell’unificazione linguistica del territorio, che quest’ultima si stata
favorita dall’intervento statale o dai processi legati all’industrializzazione, in quest’epoca si rafforza l’interesse dei
linguisti per le varietà locali e più in generale per le ricerche sulla lingua popolare. (nascita della distinzione di linguistica
diacronica e sincronica)
Osservando dall’alto la storia del francese, essa sembra caratterizzata da una grande fase di depressione della creazione
lessicale, che coincide in grosso modo con l’età classica, preceduta e seguita da un periodo di arricchimento. Il primo che
culmina con la magnificato della lingua durante il Rinascimento, e il secondo che prende avvio con il movimento
neologico e si intensifica sempre di più senza avere subito interruzioni. L’arricchimento diviene un ricambio con la
sostituzione di nuovi termini ai vecchi non più utilizzati. La Rivoluzione industriale ha portato le sue conseguenze in
ogni settore della vita e quindi del linguaggio, a cominciare da una più rigida scansione del tempo.
La rivoluzione dei mezzi di trasporto è solo un aspetto dello sviluppo più generale della comunicazione. Questa si serve
dei nuovi veicoli che apportano una trasformazione ancora più profonda nelle lingue occidentali. L’invenzione del
telegrafo facilitò, per esigenze di costo, lo stile secco, preciso, informativo. Sostituendosi alla tradizionale lettera, portava
alla nascita dello stile giornalistico. Nel XX secolo, poi, l’invenzione del cinematografo ha favorito l’espressione breve,
nei dialoghi, e già nelle didascalie dei film muti.
La proliferazione attuale delle sigle ha origine alla fine del XIX secolo, ed è legata all’articolazione del vocabolario
tecnico- scientifico. Le sigle sono un esempio manifesto della tendenza al minimo sforzo che, come sappiamo, è una delle
leggi linguistiche più generali. Altri neologismi che derivano dallo stesso principio sono i troncamenti, caratteristica del
francese d’oggi manifestatasi in un recente passato: prof, math dominano dalla fine del XIX secolo il vocabolario
studentesco, e ad essi possiamo aggiungere fac, restau. Anche in questo campo i francesi sono molto più fecondi degli
italiani. Molte abbreviazioni si affermano stabilmente, come all’inizio del Novecento cinématographe e vélocipède sono
scomparsi per lasciare il posto ai più semplici cinéma e vélo. Le novità vengono introdotte come gioco sulla lingua, e con
lo stesso piacere ascoltate, memorizzate.
L’espansione coloniale si intensifica dal 1881 al 1912. Nel 1883 si crea l’Alliance française pour la propagazione de la
langue française dans les colonies et à l’étranger. Si manifesta cosi al livello istituzionale la questione della francofona. La
stessa creazione dell’Alliance indica come il ruolo internazionale del francese comincia a declinare (nascita dell’esperanto
e di altre lingue artificiali). Il francese deve ormai far fronte alla “minaccia” dei forestierismi. Il nazionalismo della Terza
Repubblica non favoriva certo l’immissione indiscriminata di parole straniere.
Se la polemica contro l’“imbarbarimento" della lingue nazionale si muoveva secondo idee puriste poco realistiche, è
pur vero che l’atteggiamento comunemente definibile come “dirigista” ha avuto un forte ruolo nel corso degli ultimi
decenni. La lingua è per la Francia, in senso proprio, un affare di stato. Gli organismi culturali francesi cercano di
contrastare il dominio dell’inglese, che ha tolto alla lingua francese il privilegio di lingua internazionale mantenuto fino al
trattato di Versailles (1919).
Persa la funzione diplomatica, il francese cerca di mantenere il suo prestigio di lingua della culturale.
Formazioni lessicali come sigle, tecnicismi, troncamenti sottintendono il sentimento dei parlanti di appartenere alla
stessa comunità, sia essa professionale o sociale. Perciò i troncamenti fanno parte del registro familiare e non formale,
essi implicano una qualche intimità fra gli interlocutori. Nel francese esiste un gergo tipico, l’argot, una lingua segreta che
designava nel XVII secolo la comunità dei mendicanti e malfattori. Esso ha una funzione bifronte: di oscuramento verso
l’esterno, dal quale si osserva e di comunicazione all’interno del gruppo.
L’evoluzione sociale e le circostanze storiche portano al formarsi di comunità ristrette e si basa sulla sostituzione lessicale.
Il 68 (crisi di evoluzione della società a livello planetario) si identifica come una crisi generale delle vecchie forme di
comportamento sociale, ovvero la presa di parola dei giovani, che diviene un complesso di movimenti della Rivoluzione
dei fiori americana al movimento per la liberazione della donna, sintomo, per la sua stessa circolazione internazionale, dei
nuovi connotati assunti dal mondo in cui viviamo. La globalizzazione portata dai mass media, che convoglia nei suoi
aspetti consumistici la pubblicità, l’informatica, la musica, lo sport, va di pari passo con la democratizzazione del
linguaggio, tanto che il parlare quotidiano non viene più percepito come una deformazione della lingua.
Nel francese contemporaneo possiamo distinguere un parlato dove si producono alterazioni di senso, ma un’altra
caratteristica del francese familiare la troviamo nella riduzione del numero di parole con abbreviazioni.
L’espansione del vocabolario si è accelerata enormemente, e così la capacità della lingua di evolvere nel suo insieme.
Tutti i meccanismi di derivazione sembrano riattivarsi. Tra i meccanismi neologici più ricorrenti troviamo: la suffissazione
(porta a derivare verbi da sostantivi o aggettivi), composizione (le parole composte si basano sull’aggiunta appositiva a un
termine base). La proliferazione dei neologismi necessari per denominare in modo univoco la realtà nuove determina una
conseguenza che fa parte della specializzazione scientifica e professionale sempre più avanzata. Quest’ultima moltiplica i
“linguaggi settoriali”.
La lingua francese ha stratificato nel corso del tempo la tradizionale separazione sessista dei ruoli, facendo ammettere
dunque vendeuse, danseuse, coiffeuse, ma lasciando la forma e il genere maschile a avocat, auteur, docteur, directeur ecc.
Situazione che la presa di coscienza attuale rifiuta, richiedendo che sia creato il femminile di tutti i nomi di professione.
Per problemi di questo genere, come si è visto, non può mancare di essere coinvolta in Francia l’autorità dello Stato.
All’inizio del 1998, le donne al governo decisero di voler essere interpellate “Madame la Ministre”. Per coniare parole
nuove, che corrispondono a referenti nuovi o che sono influenzate dall’attualità, la lingua continua a ricorrere
all’importazione del termine straniero. I termini inglesi abbondano in campo tecnologico, economico, e in generale nel
vocabolario dello spettacolo e dei media. Nel1994 fu approvata la legge Toubon che imponeva l’uso della lingua francese
in tutti i contratti e messaggi destinati al pubblico: presentazione dei prodotti, istruzioni per l’uso, pubblicità, malgrado ciò
suscita discussioni il diritto stesso, che lo Stato si arroga, di dettar legge sulla lingua. Se per contrastare l’uso effettivo del
termine straniero diventava obbligatorio utilizzare il termine francese, i giovani dovevano rassegnarsi ad acquistare un
walkman cercando in negozio fra le scatole di baladeurs. La battaglia contro l’angloamericano è perciò persa in partenza in
molti settori della sua applicazione, per questo motivo, i francesi hanno cercato di adottare un vocabolario non
anglicizzato.
Il forte impulso impresso alla creazione enologica ha complicato ulteriormente il problema della riforma ortografica,
eterna questione della storia della lingua francese, tanto che lo lo Stato ha continuato a emettere istruzioni ufficiali e
circolari. L’ultimo Arrêté sull’ortografia si propone un intervento molto limitato, e si proclama rispettoso dell’uso reale.
Malgrado lo sforzo dell’Académie per mantenere il suo ruolo autorevole sull’ortografia, non sono i suoi dizionari a fare da
riferimento, esiste poi un uso privato reale che, per quanto in misura nettamente minore del XVII e XVIII secolo, diverge
da quello, controllato, dello scritto destinato alla pubblicazione.
I forestierismi facilitano la comunicazione superando le barriere nazionali, e permettono di riferirsi, specie per quelli
necessari, a oggetti che assumerebbero altrimenti nomi del tutto diversi nelle diverse lingue. Bisogna in realtà distinguere
tra due categorie di prestiti: quelli “di necessità” e gli esotismi di uso comune oppure legati a un atteggiamento di
affettazione. Se la funzione innovativa del linguaggio pubblicitario si pone l’obiettivo di raggiungere e influenzare il più
vasto pubblico, all’ambito certamente più elitario della letteratura si pensa naturalmente, che le opere letterarie sono
importanti, nella storia della lingua, perché sono proprio gli eccellenti scrittori a sfruttare al massimo, e quindi a rendere
evidenti, le potenzialità del codice.

TUTTO Ciò CHE HAI SEMPRE VOLUTO SAPERE SUL…


(1)LA LINGUISTICA QUESTA SCONOSCIUTA = Proprio come ci definì Aristotele noi siamo animali parlanti, infatti
a distinguerci da essi è proprio l’utilizzo della lingua e del linguaggio. Di queste due funzioni se ne occupa una scienza
giovane ma anche particolare, per via della sua collocazione a metà strada tra le scienze umane e quelle scienze più dure e
sperimentali come la botanica o la chimica, chiamata Linguistica, la cui nascita si fa coincidere con la pubblicazione del
Corso di Linguistica generale di Saussure nel 1916. Si calcola che un adulto di media cultura gestisca ogni giorno, nelle
16-17 ore in cui è sveglio, circa 100.000 parole, ma il nostro cervello elabora dati anche quando dormiamo. Bisogna
aggiungere che il linguista non è un poliglotta, ma quando parliamo di linguistica dobbiamo conoscere due parole e saperle
distinguere tra loro: parlare e conoscere. Parlare una lingua non significa conoscerla. E d’altra parte conoscere una lingua
non significa parlarla. Usi le regole della tua lingua in modo automatico, inconsapevole e implicito: parli italiano, ma non
conosci tutti i meccanismi che stanno alla base del suo funzionamento. Il linguista si propone, tra le altre cose, rendere
esplicita questa tua conoscenza implicita e farla emergere. Il linguista non lavora “con” le lingue ma lavora “sulle” lingue e
bisogna sottolineare che le lingue possono essere studiate solo se c’è qualcuno che le parla. Inoltre, possiamo affermare
che è negli errori che si nascondono le prime avvisaglie del cambiamento linguistico, tanto che possiamo affermare che ciò
che prima era errore oggi può essere divenuta una regola. La linguistica è dunque una scienza a tutti gli effetti, ha cioè uno
scopo conoscitivo ed esplicativo, ovvero capire come sono fatte le lingue e capirne il funzionamento.
(2) PARLIAMO UNA LINGUA O UN LINGUAGGIO= Il rapporto tra lingua e linguaggio è quello tra hardware e
software. Il linguaggio (o meglio la facoltà del linguaggio) è il prerequisito per le lingue, è il supporto sul quale esse
vengono installate. Il linguaggio è una facoltà innata dell’uomo che gli permette di creare sistemi di comunicazione
abbinando contenuti e mezzi di espressione, ed è in larga parte prodotto di natura. Le lingue, invece, sono analizzabili in
termini prevalentemente culturali. L’uomo parla perché la natura gli consente di farlo. Il linguaggio è unico, identico per
tutti i membri della specie; le lingue invece variano in base a condizionamenti ambientali, sociali e culturali. Noi, di
conseguenza, cresciamo con una predisposizione a parlare che è in qualche modo inscritta nel patrimonio genetico,
malgrado ciò, essa non è vincolata da una lingua specifica. Infatti, la trasmissione delle lingue avviene per via orizzontale
per contatto. Il linguaggio quindi è: congenito e di conseguenza immutabile e incancellabile. Le lingue sono apprendibili,
non sono universali, sono mutevoli, sono cancellabili. Il linguaggio è quindi l’insieme delle componenti fisiche, concrete,
non modificabili di un sistema nel quale vengono successivamente “installate”.
(3) LA LINGUA CI HA SALVATO DALL’ESTINZIONE= Migrare è la nostra strategia di adattamento per far fronte
ai cambiamenti climatici e a sua volta ha cambiato il nostro modo di relazionarci. Il nostro cervello è plastico, si adatta.
Adattabilità e mobilità sono le nostre strategie di sopravvivenza. Ultima specie ad uscire dall’Africa siamo stati noi Homo
sapiens e di nuovo abbiamo migrato prima in Eurasia e poi in Australia fino in America. Fino a 50 millenni fa la terra era
abitata da 4 specie umane: Homo neanderthalensis in Europa, Medioriente e Asia centrale, homo di denisova nelle regioni
Monti Altai, l’homo floresiensis sull’isola di Flores in Indonesia e l’homo Sapiensa nati in Africa 200 mila anni fa.
L’ultima grande migrazione dei gruppi Homo sapiens è associata a un complesso di nuovi comportamenti che si solito
sono fatti coincidere con la comparsa dell’intelligenza simbolica, ovvero ornamenti, arti rupestre...
(4) ANIMALI PARLANTI= Dai tempi di Aristotele gli animali erano definiti “Bestiae mutae” cioè si distinguevano dagli
umani perché privi di un codice comunicativo, fatta eccezione delle scimmie poiché molto vicine all’universo cognitivo
umano. Alcuni animali adottano la comunicazione animale, cioè un passaggio di informazioni da un individuo all’altro che
appartiene o no alla stessa specie. Perché si possa parlare di linguaggio, il codice comunicativo deve comprendere una
serie di caratteristiche presenti in tutte le lingue umane: Arbitrarietà, semanticità, sistematicità e produttività e creatività.
La bioacustica serve a questo, a studiare la comunicazione animale, e hanno scoperto che essi hanno un repertorio molto
variabile a seconda dell’individuo. Mentre, da altri esperimenti si è scoperto che alcune capacità cognitive sottese all’uso
della lingua parlata non siano coincidenti con quelle espressive, o meglio dire non è necessario essere in grado di parlare
per comprendere una lingua, tanto che un grande numero di specie animali diverse mostrano di possedere tutti i parametri
che insieme definiscono il linguaggio.
(5) QUANDO LE LINGUE SONO PARENTI=La linguistica storico-comparativa dell’Ottocento ha dato origine al
primo paradigma scientifico nell’ambito della linguistica, scoprendo un metodo in grado di riconoscere la parentela tra le
lingue. La linguistica ha così contribuito a tracciare lo sviluppo delle popolazioni. Con il meotdo si giunge alla
classificazione genealogica delle lingue, ovvero alla loro suddivisione in famiglie sulla base delle somiglianze, e sul
confronto tra parole. Le famiglie linguistiche si sviluppano per partenogenesi: una lingua muta nel tempo e si disperde e si
differenzia insieme agli individui che la parlano. Si parla di “lingue diverse” o “lingue sorelle” quando le differenze si
accumulano fino a superare una certa soglia di comprensibilità.
(6) COME VARIANO LE LINGUE DEL MONDO= In tutte le parole dell’italiano le informazioni grammaticali si
trovano sempre nella parte finale, cioè si collocano dopo la radice lessicale. Tuttavia, non tutte le lingue si comportano allo
stesso modo nella costruzione delle parole. Esistono alcune lingue in cui l’ordine di questi elementi è diverso; la disciplina
che studia questa diversità linguistica e la sua variazione è la tipologia linguistica --> Le lingue possono variare in modo
anche radicale, ma non di certo in modo anarchico, ci sono infatti dei limiti costituiti dagli universali linguistici (principi
caratteristici di ogni lingua – Chomsky).
(7) QUANDO LE LINGUE SONO TUTTE UGUALI -UL= La variazione interlinguistica non è sempre “casuale”, ma
nasconde meccanismi che sono alla base del funzionamento di tutte le lingue. Tutte le lingue sono espressione di un’unica
capacità del linguaggio e come tali posseggono alcune caratteristiche uniche ed universali. Tutte le lingue sono dotate della
“ricorsività” con cui è possibile produrre frasi complesse. Secondo Noam Chomsky ogni individuo della specie umana
nasce con un corredo biologico detto “grammatica universale” che contiene una serie di principi validi per tutte le lingue
ed altri parametri che prevedono una diversa impostazione da lingua a lingua. La grammatica universale servirebbe da
guida al bambino nell’età dell’apprendimento linguistico e rappresenterebbe i caratteri comuni alla variazione e alla
diversità linguistica. La teoria degli universali linguistici è identificabile a partire dagli anni ’60 sulla base dell’analisi di
campione di lingue più o meno grandi (da 30 a 1000). Forma tipica degli universali è l’implicazione: l’universale ci dice
che per una lingua avere la proprietà X implica avere la proprietà Y, e quindi la proprietà Y sarà più diffusa della X.
(8) ESISTONO LINGUE FACCILI E LINGUE DIFFICILI? = Si, esistono, poiché ad esempio il russo è una lingua
lontana da noi con grafemi differenti, così come l’arabo. In teoria no, perché tutte le lingue sono manifestazioni di una
stessa facoltà del linguaggio e pertanto sono ugualmente apprendibili come lingue materne dai bambini senza differenze
importanti. Ciò che conta è lo sforzo per apprendere una seconda lingua in età adulta.
(9) LE LINGUE INFLUENZANO IL NOSTRO MODO DI PENSARE? = Secondo Fernand de Saussure il pensiero
sarebbe una “massa amorfa e indistinta” senza il linguaggio: sarebbe il linguaggio a mettere ordine tra i nostri pensieri. Le
lingue influenzano il nostro modo di pensare secondo alcuni linguisti, come Whorf che elaborò il relativismo linguistico o
determinismo linguistico (ipotesi Sapir-Whorf ) affermando che le categorie espresse da una lingua determinassero le
categorie di pensiero dei parlanti di quella lingua: il nostro sistema cognitivo sarebbe quindi legato alla lingua che
parliamo e dunque relativo. Tuttavia, questa teoria viene definita. Il linguaggio umano è strettamente connesso con il
nostro sistema cognitivo: il linguaggio ci aiuta a ragionare, a mettere in ordine i pensieri, a categorizzare la realtà, tuttavia,
il linguaggio serve anche per comunicare.
(10) UNA FRASE GIUSTA AL MOMENTO SBAGLIATO= Esistono situazioni formali, pubbliche, socialmente
impegnative, rette da norme di comportamento ben codificate. Queste differenze si riflettono nei comportamenti
linguistici. In situazioni formali si scelgono bene e controllano le parole. In situazioni informali, invece, prevalgono
soluzioni più immediate, più accessibili, più generiche. In situazioni informali emergono maggiormente l’espressività e la
partecipazione emotiva, sotto forma di disfemismi. Per poter dire una stessa cosa in modi diversi consente di adattarsi a
situazioni comunicative differenti ma anche di intervenire su queste stesse situazioni. Si parla in tal caso di VARIAZIONE
DIAFASICA che può comprendere anche la VARIAZIONE DIAMESICA ossia il variare della lingua in base all’uso se
scritto o parlato.
(11) PARLIAMO COME SCRIVIAMO? = Lingua parlata e lingua scritta sono due manifestazioni del linguaggio con
caratteri distinguibili. Tuttavia, non tutti i tratti del parlato e dello scritto hanno valore diagnostico decisivo: esistono usi e
ambiti di impiego della lingua che li mescolano e li intrecciano. I caratteri della lingua scritta e parlata sono: il mezzo
fisico di realizzazione del messaggio, il tipo di strutturazione del messaggio, quindi le scelte di sintassi,
l’organizzazione testuale che caratterizzano gli usi elaborati formali e pianificati proprio dallo scritto, quello più semplici,
informali e non pianificate dell’oralità. Nel primo caso possiamo parlare di mezzo grafico opposto a fonico; nel secondo
caso di concezione scritta opposta a parlata. Di conseguenza si possono avere quattro possibilità: lo scritto grafico
(comunicazione tradizionale scritta) e il parlato fonico (il parlato conversazionale spontaneo); lo scritto fonico (lettura di
testi, recitazione) e il parlato grafico (un testo parlato per la concezione ma grafico per quanto riguarda il mezzo). Gran
parte dei caratteri tipici del parlato si possono ricondurre all’immediatezza e vicinanza comunicativa che contrassegna
l’interazione faccia a faccia, un esempio è la mancanza di pianificazione. Le frequenti ripetizioni e ridondanze che ci
sono nel parlato spontaneo hanno il compito di migliore il passaggio dell’informazione in contesti in cui sono presenti
elementi di disturbo che si sovrappongono alla formulazione del messaggio. Una funzione simile hanno i segnali discorsivi
tipici del discorso orale, sono elementi che regolano l’interazione. Il parlato è, dunque, articolato come lo scritto ma la
differenza rientra nelle proprietà della lingua nell’essere variabile. Il mezzo fa parte della variazione diamesica, e la
possiamo affermare che la lingua parlata abbia convenzioni proprie che di solito seguiamo spontaneamente ma che vanno
comunque, sempre, rispettate.
(12) QUANDO FINISCE UNA LINGUA E COMINCIA UN DIALETTO? = Le lingue sono grandi ripartizioni del
linguaggio umano, mentre i dialetti sono delle varietà piccole, orali, un po' casuali e senza una vera grammatica; possono
essere definiti come sottoinsiemi delle lingue, malgrado ciò, non esiste nessuna varietà linguistica che non abbia una
grammatica --> Per il linguista sono l’insieme delle regole e delle convenzioni fra le persone. Per lui non esiste nessuna
differenza tra i due poiché funzionano allo stesso modo, infatti secondo lui i dialetti sono delle lingue ma tutti gli effetti.
Infatti, esistono delle lingue che sono parlate pochissimo e dei dialetti utilizzati da milioni di parlanti. Basta pensare che ci
sono più opere scritte utilizzando dialetti italiani piuttosto che lingue ufficiali. Il linguista Max Weinrech disse: la lingua è
un dialetto con un esercito e una marina, proprio per indicare la differenza fra i due che non è di tipo linguistico, ma
sociale. Le lingue sono quelle varietà che per ragioni storiche accendono di conseguenza ad una serie di funzioni in di cui i
dialetti non usufruiscono: la pubblica amministrazione, la scuola, la giustizia, spesso la liturgia. La differenza fra lingua e
dialetto è dunque di uso; con le lingue si fanno cose che con i dialetti non si fanno e viceversa.
(13) parlare per non farsi capire? = Nel linguaggio come è solito dire che i professionisti parlino un gergo con parole
che risultano incomprensibili agli altri, un linguaggio settoriale fatto di parole sconosciute a chi non è del mestiere, ma
capaci di garantire precisione e oggettività nel nominare realtà importanti per chi esercita quella professione. Il gergo, per i
linguisti è una lingua di gruppo, in cui le parole usate per indicare realtà usuali, per nulla legato a un ambito tecnico o
specialistico particolare, sono sostituite da altre non in uso fuori dal gruppo. Il gergo non ha come funzione principale
quella di non farsi capire, i gergani parlano in gergo soprattutto fra di loro quando nessun altro estraneo è presente. La
funzione primaria di esso consiste nel marcare l’adesione ad un gruppo marginale e nel favorire la coesione tra i
membri di tale gruppo. Le parole del gergo assomigliano molto alle parole della lingua ospite, ma presentano specificità
sia nella forma che nel significato. Anche i giovani hanno un loro gergo, che è definito linguaggio giovanile e condivide la
funzione coesiva: dà unità al gruppo e lo differenzia da quello degli adulti. I linguisti tuttavia, definiscono il linguaggio
giovanile come una varietà paragergale, dato che è parlato da un gruppo individuato dall’età, i cui membri appartengono
a tutte le classi sociali e manca quindi di un legame con un gruppo sociale vero e proprio, sia con uno strato sociale. È
definito inoltre come una varietà transitoria, che viene progressivamente abbandonata alla fine adolescenziale.
(14) SCRITTURE BREVI= Per influenza delle nuove tecnologie la scrittura ha guadagnato una nuova vitalità e nuovi
spazi, penetrando anche in ambiti che prima erano riservati all’oralità, con tratti non convenzionali e caratteristici del
parlato. Inoltre, il coinvolgimento delle giovani generazioni ha suscitato giudizi negativi e allarmi contri i rischi di
imbarbarimento della lingua. La lingua degli SMS appare ricca di nuove parole, voci a statuto gergale, prese dal parlato.
La scrittura sviluppa strategie di sintesi testuale che rispettano il limite di 160 caratteri dove il costo della lunghezza del
messaggio e le dimensioni ridotte dei mezzi utilizzati, creano le condizioni per la nascita di speciali forme della scrittura
abbreviata e veloce nota come texting. La lingua dell’SMS è sopravvissuta a molte rivoluzioni digitali, riproponendosi in
forme rinnovate e la pratica quotidiana ha rafforzato certe abitudini alla scrittura sintetica conservandola nel corso
dell’evoluzione dei dispositivi telefonici (da cellulare a smartphone). Gli SMS si sono poi iniziati a visualizzare non più
singolarmente ma in successione, come piccole porzioni di testo frammentate che riproducono l’andamento veloce del
dialogo; tra i più diffusi sistemi di messaggistica istantanea c’è Whatsapp. Allo stesso modo anche usi ortografici come
quello del punto esclamativo a fine frase con valore positivo, rispetto al punto fermo a frase percepito come aggressivo,
come il maiuscolo che rappresenta “il gridato” secondo i principi della netiquette, ossia la cortesia linguistica. I social
network diventano qui, i luoghi per eccellenza della condivisione.
(15) CHE LINGUA PARLANO I COMPUTER= La conversazione con i computer è ancora imperfetta e primitiva: in
molti casi il computer non riconosce le nostre parole ne fraintende il significato, le sue traduzioni sono approssimative e
piene di errori. I computer “parlano” appunto una lingua diversa dalla nostra, la “lingua dei numeri”, diventano il prodotto
della ricerca “in intelligenza artificiale” e in “linguistica computazionale”. La prima si occupa di dotare i computer di
capacità tipiche degli esseri intelligenti: riconoscere un volto, risolvere un problema, guidare un’auto, mentre la linguistica
computazionale, ha l’obiettivo di dotare i computer della capacità di usare il linguaggio naturale come noi. È un ambito di
ricerca che vede impegnati linguisti e informatici. La linguistica computazionale ha iniziato le sue ricerche negli anni ’50
del secolo scorso, ma solo di recente è riuscita a fare un salto di qualità nella nostra vita quotidiana. Ad oggi, è cambiato il
modo stesso di insegnare la nostra lingua ai computer con le machine Learning o l’apprendimento automatico. Gli
algoritmi di machine learning usano la statistica per individuare come le stretture di una lingua devono essere tradotto.
Queste regolarità statistiche estratte da un numero elevato di traduzioni consentono poi al computer di tradurre nuove frasi
mai viste prima; la linguistica computazionale non insegna più le regole del linguaggio a computer, ma insegna ai
computer ad imparare da sé queste regole analizzando il modo in cui il linguaggio viene usato.
(16) COME SI IMPARA LA LINGUA NATIVA? = I bambini iniziano ad apprendere la lingua materna fin dal
momento della nascita, seeguendo, però, un processo in cui supererà diversi stadi. Di fatto i bambini risultano in grado di
distinguere percettivamente, suoni all’età di già 2 mesi. Tra i due e i 10 mesi mostrano di saper distinguere consonanti. Il
bambino rivela eccellenti qualità anche nel discriminare foni che non ricorrono nella lingua ambiente. Queste abilità
cominciano però a declinare progressivamente intorno ai 10 mesi, poiché l’attenzione si sposta selettivamente sui foni
della lingua nativa, portando il bambino ad ignorare i suoni di altre lingue. Solo dopo aver raggiunto la capacità di
riconoscere e associare un significato a sequenze di suoni, il bambino inizia ad accumulare parole nella memoria, e intorno
approssimativamente ai 6-7 inizia la fase della cosiddetta “lallazione” in cui i bambini di tutte le culture producono
sequenze di tipo consonante-vocale. La produzione delle parole diviene una conquista lunga e faticosa. Dopo la fase in cui
gli enunciati sono composti di singole parole, il bambino inizia a realizzare enunciati più lunghi, prima combinando parole
e gesti e poi due o più parole insieme. Una volta conquistata la capacità di combinare due o più parole, può anche gettarsi
in imprese più complicate con il linguaggio.
(17) COME SI IMPARA UNA LINGUA STRANIERA? = Imparare una lingua straniera significa impadronirsi non
solo di conoscenze, ma anche di abilità, vuol dire impegnarsi in un’attività il cui scopo è acquisire un sapere ed essere in
grado di attivarlo. Similmente apprendere le parole, i suoni, le regole grammaticali e le regole d’uso di una lingua straniera
implica imparare a servirsene nelle varie situazioni comunicative e per il tipo di compito o compiti che ci sono chiesti. Si
costruisce gradualmente. In sostanza, quelle che enfatizzano l’apprendimento linguistico come il risultato di un’attività
individuale interna alla mente, che si realizza immagazzinando le strutture linguistiche, assimilando via via un nuovo
sistema di forme e significati. Successivamente ci sono quelle che accentuano l’apprendimento linguistico come un’attività
sociale che è fortemente influenzata dalla partecipazione negli scambi verbali con gli altri, all’interno di una comunità.
Una parte della ricerca attuale sull’acquisizione di una lingua si occupa della “competenza interazionale” nel saper
mantenere il flusso della comunicazione, cambiare l’argomento, cercare una parola che non si conosce, superare ostacoli
comunicativi, aprire o chiudere una conversazione.
(18) QUANDO LE LINGUE SONO PIÙ DI UNA= Un parlante è bilingue perché nel corso delle sue attività quotidiane
usa alternativamente due lingue, spesso apprese in sequenza, in base all’ordine di acquisizione, una prima, una seconda,
una terza o ulteriore lingua. In base al contesto di acquisizione possiamo distinguere fra una lingua che si sa solo parlare e
una che si è anche scolarizzati ed è per questo che una lingua risulta spesso dominante rispetto all’altra. Sebbene il
plurilinguismo individuale dipenda gran parte dalla propria storia personale, un ruolo importante lo ricopre anche il tipo di
comunità nella quale ci si trova a vivere. Diventa allora utile introdurre la nozione di “comunità linguistica”, definita
proprio sulla base delle lingue condivise e delle norme rispetto a come e quando le diverse lingue possono o devono essere
usate. Più spesso le lingue sono ordinate gerarchicamente: una lingua è limitata agli usi scritti, formali, istituzionali,
mentre gli usi parlati, familiari e più in generale informali sono dominio dell’altra lingua. Questo è il caso della
“diglossia”, implica che la lingua “bassa” non possa “elevarsi ai contesti formali”.
(19) COME SI MESCOLANO LE LINGUE OGGI= Che cosa accade quando due o più lingue entrano in contatto? Le
comunità possono ignorarsi a vicenda, possono prendere in prestito delle parole e persino regole grammaticali l’una
dall’altra, o possono creare una lingua intermedia; il “contatto linguistico” può avere almeno tre conseguenze: una lingua
in contatto con un’altra può restare invariata o al più prendere in prestito qualche termine o qualche struttura; può essere
abbandonata, parzialmente o totalmente, in favore della lingua di contatto; infine si possono creare lingue intermedie,
miste, formate dall’unione delle lingue in contatto con l’aggiunta di elementi nuovi. Tra i fattori che influenzano gli esiti
del contatto ci sono il grado di somiglianza delle lingue coinvolte, la facilità di trasferimento di suoni e strutture,
l’atteggiamento del parlante nei confronti di questa lingua, il desiderio di proteggere la propria identità e così via. Sarah
Thomason e Terrence Kaufman, i due linguisti che per primi hanno tentato uno studio sistematico del cambiamento
linguistico in situazione di contatto hanno proposto una gerarchia del prestito. Più è forte il contatto, più profondo e
complesso è ciò che si prende in prestito. Se il contatto è sporadico si prenderanno in prestito solo delle parole. Se il
contatto è prolungato e intenso anche le strutture passeranno da una lingua all’altra.
(20) QUANDO UNA LINGUA È DI MINORANZA: In ogni paese del mondo esistono quote più o meno significative di
popolazione che parlano una lingua diversa da quella ufficiale. Questi gruppi possono percepire la propria diversità come
elemento costitutivo di una identità “altra”, la diversità linguistica non contribuisce invece a determinare un senso di
appartenenza realmente alternativo rispetto al fatto di integrarsi nella popolazione del paese. La presenza di lingue
minoritarie può costituire un “problema” per i poteri di stato: se la diversità linguistica, diventa un elemento di conflitto, le
autorità centrali possono decidere di inibirla e combatterla, oppure promuoverla e valorizzarla come risorsa ed elemento di
ricchezza del paese. Nella maggior parte dei casi, al carattere di “minorità” si associa la disistima degli stessi parlanti,
abituati a considerare l’uso del proprio idioma come meno utile rispetto alla scelta della lingua ufficiale. L’atteggiamento
delle istituzioni si è molto evoluto promuovendo, almeno su carte il dispetto per la diversità linguistica.
(21) QUALE POLITICA PER LE LINGUE? = Quattro entità diverse intervengono in modo diretto nel plasmare la
lingua che noi parliamo. Chiamiamo politiche linguistiche questi interventi: ossia tutte le azioni che servono a influenzare
i comportamenti delle persone per quanto riguarda l’acquisizione, la struttura e la ripartizione funzionale dei loro codici
linguistici, in genere sono proprio gli stati e le istituzioni. Un campo dove l’intervento di politiche linguistiche esplicite è
quello della toponomastica: la possibilità, garantita dalla legge, di esporre cartelli con nomi di luogo nelle lingue del
territorio dà a queste una visione molto più grande e conferisce loro un’evidente patente di ufficialità a prima vista. Il
fascismo è anche ricordato per un classico delle politiche linguistiche repressive; per esempio, l’Academie Francaise è
ancora l’istituzione che “decide” che cosa è francese e che cosa non lo è.
(22) CHI DECIDE COSA SIA GIUSTO E COSA SBAGLIATO? = Con lo scossone provocato dalla proposta
manzoniana (di adesione secca al fiorentino parlato delle persone colte) e con il progressivo diffondersi dell’italiano tra gli
abitanti d’Italia dopo l’Unità politica, l’uso degli autori ritenuti esemplari e raccomandato dai grammatici non sembrò più
un caposaldo. Il concetto stesso di norma ha subito modifiche con il prevalere della visione scientifica della lingua come
“sistema dei sistemi”, ossia un fascio di varietà che risentono di quattro fattori di diversificazione: le variazioni dovute al
mezzo (diamesiche), parlato, scritto o trasmesso, al diverso rapporto comunicativo che si vuole attuare (diafasiche), alle
condizioni culturali dei diversi strati sociali (diastratiche) e alle tradizioni linguistiche preesistenti e presenti nei diversi
territori di provenienza dei parlanti (diatopiche).
(23) ERRORI OGGI, REGOLE DOMANI=Nella ricca documentazione relativa al passaggio dal latino alle lingue
romanze c’è un documento. Si tratta di una lista di 227 parole “sbagliate”, accompagnate dalla forma corretta, di cui
l’autore del testo, ad oggi, ci è ignoto. Molte delle parole allora etichettate sbagliate sono identiche o molto simili a quelle
che usiamo oggi in italiano; di conseguenza, quella che allora veniva stigmatizzata come erronea è, oggi una forma
corretta, quindi possiamo affermare che da un posto di vista strettamente linguistico in realtà l’errore non esista. L’errore
ha quindi sostanzialmente a che fare con la percezione che si ha della lingua, oltre che con la coerenza interna del sistema,
diviene quindi una questione sociale. L’errore spesso è la prima manifestazione di un cambiamento in atto, anticipa le
tendenze innovati della lingua, ma esso diventa regola quando cambia la sensazione che esso suscita nei parlanti. Tutte le
produzioni linguistiche spontanee sono frutto di regole che stanno nella competenza di ogni parlante, “nella sua testa”.
L’idea che noi parliamo in un certo modo perché ci sono delle regole che ci impongono di fare così è sbagliata. Anzi, è
vero proprio il contrario: è la forma delle regole che dipende dall’uso che facciamo della lingua.
(24) COME CAMBIANO LE LINGUE? = L’uomo è un animale “instabilissimo” e “mutevolissimo”, e quindi ogni
lingua, come le istituzioni e i costumi, è destinata a cambiare “per distanza di luoghi e di tempi”. Nell’Ottocento l’interesse
per le famiglie linguistiche ha aperto orizzonti della diversità, mentre agli inizi del Novecento Ferdinand de Saussure ha
precisato due prospettive nello studio dei fatti linguistici. La linguistica sincronica, che descrive i sistemi per come si
presentano in un dato momento, e quella diacronica, che studia la variazione lungo l’asse del tempo, cioè ricostruendo le
vicende e i percorsi delle lingue --> La lingua e la moda cambiano di continuo, ma si basano anche sulla costante replica
ed elaborazione più o meno necessari. L’innovazione ha dei limiti: quelli imposti dalle funzioni, dalle situazioni e dalla
natura umana. Il cambiamento dei suoni si può osservare attraverso la lingua scritta ed è in genere regolare ma non
prevedibile, malgrado sia meno evidente di quella elle parole. Il processo per cui i vocaboli perdono autonomia e
acquistano nuove funzioni, di tipo grammaticale, si chiama appunto “grammaticalizzazione” e coinvolge anche i
significati, gradualmente diventano opachi.
(25) LINGUE INVENTATE= Esiste un caso estremo di lingua come prodotto culturale: le lingue inventate, lingue
pianificate” o “lingue costruite”, ovvero sistemi linguistici completi, che possono essere scritti e soprattutto parlati.
L’invenzione di sana pianta di una lingua segue di solito due motivazioni principali. La prima motivazione è irrobustire
una cultura immaginaria, ideata per motivi artistici o letterari, come il Klingon di Star Trek. La seconda motivazionale è
ideale, e intende modificare la società, attraverso uno strumento linguistico inventato per la comunicazione internazionale,
tra le molte lingue proposte a questo scopo la più nota è certamente l’esperanto. La differenza si trova nella violazione
della proprietà universale delle lingue ovvero la sua storicità. Mentre le lingue storico-naturali vengono prima parlate da
una comunità e poi scritte, la dinamica delle lingue inventate procede al rovescio: esse vengono prima scritte, di solito da
un individuo, detto “glottoteta” per poi essere parlate dalla comunità. Le lingue inventate sono un fenomeno molto più
comune di quanto siamo abituati a pensare.
(26) DOVE RISIEDE IL LINGUAGGIO= Il linguaggio è un fenomeno mentale, che risiede nel cervello umano tanto
che le lesioni cerebrali possono compromettere la nostra capacità di usare il linguaggio, causando sindromi dette “afasie. Il
deficit linguistico si manifesta differentemente a seconda del danno cerebrale. La “neurolinguistica” cerca di capire come i
diversi aspetti e proprietà del linguaggio siano rappresentati differentemente a livello cerebrale. Combinando i risultati
sappiamo che l’architettura cerebrale del linguaggio è lateralizzata a sinistra nella maggior parte della popolazione,
sebbene l’emisfero destro partecipi ai processi sia di comprensione sia di produzione. Poi, sappiamo che ci sono alcune
regioni fondamentali per il linguaggio. La prima è una regione frontale ventrolaterale sinistra, ovvero l’AREA DI
BROCA, fondamentale per tutte le funzioni linguistiche. Mentre la seconda regione è localizzata a livello del lobo
temporale sinistro fino al polo temporale, in cui risiede la rappresentazione verbale dei concetti e delle parole, ma
entrambe non agiscono come centri isolati.
(27) QUANDO NON RIUSCIAMO PIÚ A PARLARE= Le patologie del linguaggio possono essere infatti suddivise in
“congenite” e “acquisite”. Nel primo caso, i bambini nascono con un disturbo del linguaggio che può essere “specifico” e
“non specifico”. Le patologie acquisite sopraggiungono invece dopo che si è imparato a parlare e sono attribuite a lesioni
nelle aree cerebrali deputate al linguaggio, a causa di traumi cranici. Le difficoltà possono riguardare la produzione e/o la
comprensione della lingua, le patologie ci permettono pertanto di capire l’architettura cognitiva del linguaggio. Esse ci
permettono di capire l’organizzazione del sistema, dal momento che possono essere compromessi in maniera selettiva, i
vari componenti o “moduli” del linguaggio sono autonomi, cioè separabili l’uno dall’altro, anche se per comprendere e
parlare normalmente agiscono in sinergia. In caso di sordità, la lingua non si sviluppa completamente per via di
malformazioni e/o disfunzioni dell’apparato uditivo. Ma la lingua orale e scritta delle persone sorde può presentare
caratteristiche simili a chi ha un disturbo del linguaggio --> trattate con la riabilitazione logopedica.
(28) ALTRE VOCI= La facoltà del linguaggio può manifestarsi anche attraverso la vista e il corpo. Si sono venute a
creare così delle lingue naturali che si esprimono principalmente attraverso il canale “visivo”, ovvero la lingua dei segni.
Come per le lingue parlate, alcune lingue dei segni hanno influenzato nei secoli lo sviluppo delle altre per motivi sociali,
politici e culturali ma soltanto negli anni Ottanta sono iniziate, le prime ricerche linguistiche sulle lingue dei segni
utilizzata nel nostro paese (LIS). Oggi il LIS è utilizzato in molti ambiti e presente sia in pubblicazioni cartacee che in
produzioni video digitali, ed è possibili distinguere sia quattro parametri manuali che no. Le caratteristiche sono la multi-
linearità dal punto di vista articolatorio che permette di produrre più unità linguistiche nello stesso tempo ed infine la
presenza di una serie di caratteristiche iconiche che convivono accanto a forti elementi di arbitrarietà.
(29) COME MUORE UNA LINGUA? = Una lingua si estingue, quando nessuno la parla più, cioè quando viene a
mancare il contesto sociale nel quale utilizzarla, infatti esse vivono o muoiono per mezzo dei loro parlanti e lo fanno in
diversi modi. Per alcuni accade improvvisamente in seguito alla repentina scomparsa dei parlanti, la perdita improvvisa di
una lingua può essere determinata anche da bruschi cambiamenti nelle abitudini linguistiche dei parlanti in seguito a eventi
drammatici, malgrado ciò, l’abbandono da parte della comunità avviene gradualmente e questo può produrre modificazioni
sia nelle abitudini d’uso all’interno della comunità sia nelle strutture del sistema linguistico stesso. Gli equilibri si
modificano a favore della lingua che offre mggiori vantaggi ai fini del miglioramento economico e sociale. L’interferenza
della lingua dominante riguarda diversi livelli del sistema: quello lessicale. Non tutte le trasformazioni della lingua in
estinzione sono frutto di interferenza ma possono essere interpretate come esiti di una evoluzione autonoma. Fenomeni che
si verificano nei parlanti più deboli (tendenza alla semplificazione).
(30) COME NASCE UNA LINGUA? = Il fenomeno di nascita di una lingua è invece del tutto particolare, soprattutto per
la sua impossibilità nell’individuare con precisione luogo e data in cui viene al mondo. Inoltre, è difficile, controllare e
valutare la sua consistenza, velocità, trasformazione e diffusione. Un tipico esempio sono le lingue “pidgin”, una lingua
che nasce quando un gruppo sociale, nell’incontro con una realtà linguistica culturale diversa, lo imposta come veicolo
privilegiato di comunicazione. In altri termini, se due o più gruppi umani che hanno diverse lingue si incontrano e
convivono per un certo periodo di tempo, si trovano spesso a comunicare con una lingua “provvisoria” che nasce proprio
dalla mescolanza delle loro lingue. Le lingue “pidgin” divengono mezzi di comunicazione privi di connotazione etnica e
veicolo di libero scambio in contesti multilingui come quelli dell’Africa. Alcune di esse si sono estinte, altre si sono
trasformate in “creoli”, cioè sono divenute le lingue native di una successiva generazione di parlanti (in America).
(31) COME RICOSTRUIAMO LA STORIA DELLE PAROLE? = L’etimologia suscita curiosità anche tra i non
specialisti, più di ogni altro aspetto della linguistica, è per molti l’occasione per farsi un’idea di come cambiano le lingue e
di come si costruiscono le parole. L’effetto negativo è che l’etimologia viene avvertita come una ricerca amatoriale in cui
chiunque può cimentarsi anche senza un’adeguata preparazione, è uno studio probabilistico. Il linguista non può fare altro
che raccogliere tanti piccoli indizi e, dopo averli esaminati criticamente, comporli insieme in un quadro il più possibile
coerente. Un primo, fondamentale aiuto ci viene dalla forma delle parole, in particolare dai suoni, soltanto raccogliendo
tutte le forme affine in lingue e dialetti tra loro imparentati e confrontandole tra loro sul versante della forma e del
significato è possibile ipotizzare una base di partenza capace di spiegare l’insieme degli sviluppi documentati.
(32) QUALI RISORSE USA (CREA) IL LINGUISTA? = La linguistica moderna ha da molto tempo abbandonato
l’idea di essere normativa nei confronti delle lingue e si è concentrata invece a fornire descrizioni accurate delle produzioni
dei parlanti. Il “testo” autentico, inteso come possibile atto comunicativo tra parlanti diventa quindi la fonte degli
“esperimenti” sui quali il linguista basa le sue generalizzazioni. Per il linguista si creano i cosiddetti “corpora”, grandi
raccolte di testi in formato elettronico che rappresentano un buon campione, della lingua oggetto dello studio. Egli è in
grado di proporre generalizzazioni e/o modelli teorici, in linea di principio non affetti a posizioni teoriche predefinite. La
legge di Zipf afferma che, dato un qualsiasi corpus di testi autentici, la frequenza di ogni parola nel corpus è inversamente
proporzionale alla posizione che la parola assume nella lista che elenca tutte le parole del corpus in ordine decrescente di
frequenza. Un numero limitato di parole delle lingue, che compone la maggior parte dei testi. Questo aspetto, noto come
problema di “scarsità dei dati”, porta alla necessità di costruire corpora enormi, ed esiste una tipologia di corpora
decisamente varia. Importante anche le “risorse lessicali” ovvero gli strumenti che raccolgono, le informazioni sul lessico
di una lingua (le parole).
(33) QUANTI E QUALI SUONI PER LE LINGUE? = I suoni sono movimenti, è il modo in cui noi percepiamo l’onda
sonora prodotta da tali spostamenti, realizzare suono linguistici è infatti un processo più complesso. Viene poi modulato
principalmente da lingua e labbra. Le componenti essenziali sono 3: produzione di energia (espirazione), la vibrazione
delle corde vocali (voce) e la modificazione della forma del tratto vocale che va dalla laringe alle labbra (articolazione). I
suoni si suddividono tra consonanti e vocali. Le prime si realizzano ostacolando l’uscita dell’aria in vari modi, il passaggio
d’aria può essere bloccato del tutto oppure in parte producendo una frizione. Le vocali al contrario sono suoni in cui la
lingua si limita a modella lo spazio dentro la bocca per ottenere dei timbri diversi. I suoni linguistici si possono
rappresentare con un alfabeto spesso chiamato IPA, trascritti esattamente come pronunciate. Le lingue del mondo non
differiscono soltanto perché si basano su diversi suoni, ma anche perché i suoni sono disposti in sequenze di vario tipo
secondo regole precise. La capacità di comunicare attraverso i suoni deve anche fare affidamento su “categorie” stabili,
chiamate fonemi e hanno il ruolo di evitare che la variabilità ostacoli la trasmissione del messaggio. I fonemi indicano
anche le differenze rilevanti tra i suoni di una data lingua.
(34) COME SI COSTRUISCONO LE PAROLE= Parole come blu, perché, no, si presentano sempre nella stessa forma
e sono perciò dette invariabili, mentre altre variano: scatola e scatole, libri e libro sono variazioni di un unico elemento
detto lessema. Si tratta di lessemi “complessi”, detti “derivati” se contengono prefissi o suffissi. Le differenze tra parole
sono di due tipi fondamentali. In alcuni casi, variare la forma di una parola serve a esprimere informazioni che è
obbligatorio esprimere nella lingua che si sta usando. Quasi sempre le lingue possiedono mezzi per creare sia forma flesse
sia lessemi che esprimono alcune categorie di significati molto generali. La formazione di nuovi lessemi serve per
denominare nuove entità o concetti e/o per esprimere con una parola sola uno stato di cose complesse.
(35) COME SI COSTRUISCONO LE FRASI? = La struttura è gerarchica ma impone dei vincoli, per cui certi
significati si costruiscono solo in relazione ad alcuni punti di attacco. La relazione tra struttura e significa sono realtà del
linguaggio che osserviamo continuamente nel suo uso quotidiano. Ogni verbo richiede la presenza obbligatoria di
argomenti. Lucien Tesnière parlava di “valenza” paragonando un vero ad un elettrone chimico: un atomo con dei “punti di
attacco” che devono essere riempiti da altrettanti costituenti perché il suo significato sia saturo. Chiaramente, non solo il
verbo ha dei punti di attacco: ogni costituente ha la possibilità di “ospitarne” altri che ne completano il significato. L’uso
di specifiche strategie sintattiche consente anche di veicolare il nostro punto di vista e l’atteggiamento (positivo o
negativo) che assumiamo nei confronti di qualcosa.
(36) COME SI COSTRUISCONO I SIGNIFICATI? = Due proprietà che rendono unico il linguaggio umano: 1) se
conoscete il significato delle parole di una lingua siete in grado di comprendere un numero potenzialmente illimitato di
frasi ottenute combinando queste parole; 2) le parole possono combinarsi solo con altre parole i cui significati soddisfano
particolati requisiti. La prima proprietà è chiamata da filosofi e linguisti “principi di composizionalità” il significato di una
frase viene costruito componendo il significato delle sue parti, le parole sono come mezzi da montare. I linguisti chiamano
queste regole “preferenze di selezione”. Le regole di montaggio delle parole non sono rispettate alla lettera ma siete lo
stesso in grado di costituire una frase che ha un significato compiuto, in molti casi possono essere violate ed essere in
grado di “montare” un senso corretto.
Per struttura una frase abbiamo bisogno di due proprietà:
1) Principio di composizionalità, il significato di una frase viene costruito componendo il suo significato;
2) Idea che spiega il senso delle frasi, per poter combinare il significato di due frasi.
 Proprietà evidenti e complicate da chiarire.
Due frasi che noi cogliamo nella loro differenza ma che sono complesse nel loro insieme per poterle analizzare, e per
questo in certi casi questo montaggio non è disponibile, poiché per avere un senso una frase deve avere parti delle quali i
loro significati riescano a incastrarsi tra loro in maniera opportuna --> PREFERENZE DI SELEZIONE.
Parte della linguistica che studia il significato delle parole, degli insiemi di parole, delle frasi e dei testi
Significato lessicale = significato di parole intere (es: ragazzo)
 Significato grammaticale = riguarda i morfemi e le categorie grammaticali: in ragazzo la desinenza -o (masch. sing.)
 Significato della frase = dipende dalla combinazione delle parole nella frase e dall’ordine in cui sono disposte.
Per lo strutturalismo invece:
Significato: non è proprietà intrinseca, ma risulta dai rapporti che un elemento linguistico intrattiene con gli altri elementi
linguistici con cui si confronta.
Es: automobile si definisce in rapporto ai significati di veicolo, camion, pullman ecc.
 Analisi componenziale: si scompone il significato delle parole
Significato denotativo: significato descrittivo o concettuale; coincide sostanzialmente con il significato riportato nei
dizionari
 Significato connotativo: valori emotivi e associazioni evocate da una parola
LA METAFORA E LA METONONIMIA sono due figure retoriche che svolgono un ruolo fondamentale nel
mutamento del significato
Metafora: sostituzione di un vocabolo con un altro vocabolo, che rispetto al primo presenta una sovrapposizione semantica
parziale (si modifica un tratto semantico di selezione). La metafora fa parte della lingua quotidiana e riguarda il nostro
modo di ragionare. Con la metafora concetti astratti o di natura complessa vengono spiegati mediante concetti, semplici,
concreti
Le metafore divenute convenzionali (la gamba del tavolo) costituiscono la base per comprendere metafore nuove
Differenza fondamentale: la metafora comporta un “trasferimento” da un dominio cognitivo all’altro (dal concreto
all’astratto, dal semplice al complesso); con la metonimia, invece, si rimane nello stesso dominio cognitivo (PROCESSO
COGNITIVO).
 Il principio della composizionalità è quella regola secondo cui, se all’interno di una frase sommo semplicemente i
significati delle parole e ottengo il risultato della frase complesse, e se in questo caso posso raggiungere un risultato
accettabile, grazie a questo principio possiamo combinare le parole in maniera creativa, riuscendo a formare parole
nuove ma sempre comprensibili. Con altre frasi, questo principio non funziona solo nel caso non avesse senso la frase
che stiamo dicendo poiché entra in campo la composizione metaforica.
 Dalle lingue abbiamo una veicolazione delle frasi a seconda di chi le pronuncia poiché può cambiare il significato.
(37) QUANDO IL LINGUAGGIO NON È LETTERALE= Quando il significato d’un espressione complessa si può
calcolare sommando il significato delle parole che la compongono, allora si dice che quell’espressione è
“composizionale”, ovvero si conforma al cosiddetto principio di composizionalità. Siamo liberi di combinare le parole in
maniera creativa, formando espressioni sempre nuove, eppure perfettamente comprensibili. La presenza nella lingua delle
espressioni idiomatiche è indice del fatto che il parlante, nel momento in cui deve formulare un messaggio può usare due
strategie: da un lato, può sfruttare “le regole” della lingua e il principio di composizionalità, dall’altro può fare appello a
“blocchi prefabbricati”, già pronti al suo. Molto spesso alla base delle espressioni idiomatiche troviamo una metafora, un
processo cognitivo che usiamo in continuazione per pensare e per descrivere il mondo a partire dalla nostra esperienza.
(38) POSSIAMO FARE COSE CON LE LINGUE? = Il “dire” e perfino il “comprendere” sono essi stessi fare, che
producono cambiamenti nella realtà circostante al pari di un agire fisico, fornendo un piccolo assaggio dei fenomeni
studiati dalla “pragmatica”. Esistono entità che possono essere creata solo attraverso la parola e che, una volta istituite, ci
permettono di agire di conseguenza. Le azioni non possono essere valutate come vere o false, ma solo come adeguate o
inadeguate, in base alla situazione e chi le pronuncia. Anche l’atto performativo non può essere giudicato vero o falso, ma
adeguato o meno in relazione ai parlanti. La dimensione performativa della lingua è ciò che sta dietro al potere persuasivo,
chi usa la lingua, infatti, è sempre mosso da un’intenzione a “fare” e quest’ultima non è mai disinteressata ma è finalizzata
ad ottenere qualcosa. Il fare interrogativo è finalizzato a far sì che l’interlocutore produca informazione, il fare direttivo è
finalizzato a far sì che l’interlocutore compia qualche azione, il fare dichiarativo è finalizzato a istituire uno stato di cose
nella realtà e il fare constativo è finalizzato a rendere nota una qualche informazione all’interlocutore. Il fare che sta dietro
il comprendere è un fare essenzialmente cognitivo, di ragionamenti successivi e inferenze, volte a riempire di senso anche
il “non- detto” e l’implicito.
(39) POSSIAMO DIRE LA STESSA COSA IN UN’ALTRA LINGUA? = Chi traduce tende a realizzare una maggiore
o minore adattamento al contesto di partenza o di arrivo. Insomma, la nostra mente è abituata a cercare la traduzione
perfetta illudendosi di trovarla, ma tradurre a tutti i costi con “la stessa cosa” non porta sempre alla soluzione più
appropriata. Impossibile tradurre senza tradire, appunto perché si perderebbe non solo la rima ma anche il significato
racchiuso. Borges: essa è traducibile purchè si tenga a mente che tradurre non significa affatto far coincidere alla
perfezione una lingua di partenza e una di arrivo ma “esplorare la possibilità di ogni lingua presa isolatamente”.
(40) PERCHÉ GESTICOLIAMO? = Gli esseri umani comunicano sia attraverso le lingue verbali sia attraverso il loro
corpo. Possiamo infatti trasmettere messaggi con i gesti le espressioni del viso o il movimento e la posizione del corpo,
infatti la comunicazione linguistica si è sempre accompagnata ai gesti, essi non sono una risorsa periferica, ma sono parte
integrante del modo in cui gli esseri umani producono significati. Un primo tipo di gesti è quello che mima il significato da
esprimere. Questi gesti vengono chiamati iconici, trasmettono contenuti facilmente identificabili (bere). Esiste un secondo
tipo di gesti, che è prevalentemente usato insieme alle parole, che non esprime in modo immediato il contenuto del
messaggio, ma piuttosto come il messaggio deve essere inteso. Infine, i gesti che hanno lo scopo di accompagnare
l’andamento del discorso parlato con una funzione simile a quella dell’intonazione: ritmo, melodia, volume. Un’altra
funzione molto importante è che i gesti svolgono la funzione di attirare l’attenzione dell’interlocutore su elementi della
situazione rilevanti per la comunicazione --> La comunicazione umana comprende quindi i gesti come sua parte
essenziale.
(41) QUANTI MODI CI SONO PER SCRIVERE LE LINGUE? = La scrittura è qualcosa di più di una semplice
trascrizione della lingua, possiamo definire il pensiero come la facoltà di elaborare rappresentazioni mentali; il linguaggio
come la capacità di fissare il pensiero in simboli materiali; la lingua e la scrittura come forme del linguaggio
rispettivamente uditiva-vocale e manuale-visiva. La scrittura è dunque un sistema di segni, manuali, grafici e plastici,
capace di codificare non solo la lingua, ma anche direttamente il pensiero. Possiamo distinguere 3 tipi di scrittura:
pittografica che codifica direttamente il pensiero, senza passare tramite della lingua, è una scrittura per immagini. La
scrittura ideografica codifica un significato o in maniera specifica una parola, nel qual caso si definisce “logografica”:
appare essere uno sviluppo della pittografia: un disegno, che rappresenta un concetto. La scrittura fonica codifica invece il
significante, cioè i suoni di una specifica lingua. Le scritture fonetiche si possono suddividere in: scritture sillabiche che
trascrivono sillaba (come la lineare B greca, le scritture consonantiche, le scritture indiane); le scritture alfabetiche in cui
ogni segno grafico corrisponde a un suono (come le scritture greca, cirillica e latina).
(42) CINQUE COSE DA SAPERE SULLA LINGUA CHE PARLIAMO OGGI GIORNO:
1) Da un recente sondaggio radiofonico è emerso che gli italiani sono più preoccupati dal deterioramento della lingua che
da quello del paesaggio. Il congiuntivo esprime una “modalità”: dubbio, probabilità nelle frasi complesse. La
sostituzione del congiuntivo con l’indicativo nelle altre frasi subordinate è bollata invece come mancanza di stile. Se
in alcuni casi, dunque, di errore si tratta, in altri casi è l’economia della conversazione a spingerci verso opzioni più
semplici e strutture più agili.
2) L’altro presunto errore su cui gli italiani si mostrano intransigenti è l’uso di a me mi, bandito come “ridondanza
pronominale”. La ripetizione del pronome è in realtà funzionale a sottolineare il centro d’interesse della frase. Come
in tutti i contesti, a fini comunicativi, l’a me mi va usato in contesti informali.
3) Si tratta della congiunzione del purtroppo che usata con valore disgiuntivo inclusivo anziché esclusivo. Siamo di
fronte a un uso improprio della congiunzione che finisce per mettere sullo stesso piano le due alternative collegate
anziché esprimere preferenza per la prima rispetto la seconda.
4) Relativa al femminile dei nomi in cariche per i quali non si dispone di una tradizione assodata. Le forme femminili
corrispondenti pur essendo perfettamente grammaticali e attestate nella storia dell’italiano a molti suonano male. Le
resistenze a un cambiamento del tutto ragionevole legate a stereotipi culturali introiettati dalle donne stesse, che
spesso rifiutano le forme al femminile nel timore di auto discriminarsi o di vedere diminuito il proprio prestigio.
5) Last but not least l’invasione degli anglismi.
(43) A CHE COSA SERVE LA LINGUISTICA? = Il modo in cui parliamo ci dice molto su noi stessi. Il fatto che la
lingua sia una specie di impronta digitale ha moltissime implicazioni per l’applicabilità della linguistica a problemi reali.
Attribuire un testo d’autore è però solo una delle tante applicazioni che la linguistica, e in particolare la disciplina
denominata “linguistica computazionale” può avere. Ricerche come quelle sulla traduzione automatica, sul riconoscimento
automatico del parlato sulla sintesi vocale, si sono sviluppate proprio nell’ambito della linguistica computazionale. Anche
lo sviluppo di questi sistemi richiede l’essenziale intervento della linguistica (telefonia e la domotica). Tra le discipline
umanistiche, dunque, la linguistica è quella che più di tutte può essere utilizzata per risolvere problemi reali e per
migliorare la qualità della vita.

LA PAROLA BRACCATA =
CENNI STORICI: Esercizi come le traduzioni letterarie, le traduzioni dei giochi di parole, sono secondo gli studiosi la
miglior palestra per prepararsi all’arte della decisione. All’interno di questi “esercizi estremi”, il primo dei campioni che
verrà affrontato riguarda la traduzione di una figura antichissima quale l’acrostico. Si tratta di un tipo di composizione
poetica in cui le iniziali dei singoli versi, lette verticalmente formano una parola o una frase riferendosi alla donna amata o
al titolo di un’opera. Analizzando il verso, bisogna ricorrere a Jakobson per mostrare come la poesia sia caratterizzata dalla
sovrapposizione di un principio di equivalenza sulla successione delle parole, ovvero il prevalere della forma metrica.
L’acrostico sembra caratterizzato dalla duplicità della scrittura poetica, producendo un’analoga ambiguità, in quanto
obbliga a una doppia lettera, simultaneamente orizzontale e verticale, rivelandosi, così, adatto a veicolare messaggi cifrati
o tali da essere percepiti soltanto a un’attenta analisi. Giovanni Pozzi, riassume la storia di questa pratica, che era già
presente nella letteratura babilonese, l’acrostico venne introdotto fra i greci da Epicarmo, mentre presso i latini, afferma
Cicerone, fu inizialmente praticato da Ennio. La tecnica compare con una certa frequenza nelle epigrafi, ma la massima
fioritura coincide con l’avvento della poesia cristiana, ma non viene coltivato dai provenzali comparendo soltanto nel tardo
‘400 presso i poeti francesi. Nella poesia volgare italiana, si attribuisce a Dante il ricorso all’acrostrofe, ossia ad acrostici
che legano le lettere iniziali di strofa. Pozzi ha concluso chele figure si impongono per il loro rapporto con il testo e più in
generale, è possibile riscontrare l’incremento di simili artifici soprattutto in periodo che privilegiano le ricerche formali.
Durante il volgare, l’acrostico diventa più frequente. Quanto alle regole che ne reggono la tecnica compositiva, lo studioso
spiega come la posizione delle unità linguistiche utili possa essere “quella iniziale di segmento linguistico e allora si ha
l’acrostico propriamente detto; quella finale, ed allora si ha il telestico, o una lettera mediana ed allora si ha il mesostico.
LAVORI FATTI IN CASA: Un esercizio di capo lo troviamo con una poesia di Magrelli, una lirica redatta in italiano
senza acrostici e traducendola in una vera versione, dotandola di un particolare accorgimento alfabetico. Soffermandoci
sulla particolarità rappresentata dal passaggio endolinguistico (da Roman Jackboson “all’interno della stessa lingua”), il
cui esempio più celebre riguarda il transito da un testo di partenza francese a un testo d’arrivo, sempre francese, ma
sottoposto alla contrainte (costrizione) del lipogramma (costituito da un testo in cui non può essere usata una determinata
lettera). Si tratta del romanzo “La disparicion”, pubblicato nel 1969 da Georges Perec. In quest’opera, lo scrittore-
enigmista affrontò la sfida di versare alcune composizioni francesi (sei poesie Ottocentesche) in un testo d’arrivo francese
lipogrammato. Si trattava cioè di riscrivere, in una versione priva di una singola vocale (in questo caso la “e”), sei famose
liriche dal canone transalpino a firma Mallarmé, Baudelaire, Hugo, Rimbaud. Se il lipogramma prevede spesso la completa
ristrutturazione lessicale e sintattica dell’originale, l’acrostico, meno invasivo, appare circoscritto alle iniziali dei singoli
versi, vedendo ciò nel passaggio da un testo poetico libero a uno sottoposto al vincolo dell’acrostico. La composizione di
“Cucina” paragona la raffinata arte dei nuovi chef al rozzo prototipo dei Mangiatori di patate di Van Gogh. Da un lato
abbiamo la ricerca di dose, misure e indici propria delle ricette che seguono una linea dietetica che dall’altra parte, con i
termini “foia” e “violenza” non troviamo. Il tutto con due sostantivi in maiuscolo, rappresentando un appetito quasi
animale. In conclusione, si sottolineano una coppia di verbi, il primo è indicativo “cancellano” per indicare come le tante
prelibatezze dei nuovi cuochi tendano a trascurare la smania alimentare dell’ingordo. Il secondo verbo, il riflessivo “si
perde”, appare in forma sinonimica rispetto al precedente per ribadire come i nuovi preparati culinari abbiano ormai
smarrito il ricordo. La riscrittura di Cucina nasce da un esame sticometrico, dove, muovendo dagli undici versi della poesia
iniziale ed essendosi posta verticalmente nei capilettera come chiave di volta la parola “dieta”, è venuto spontaneo provare
a raddoppiarla. In tal modo si è preceduto alla scissione del corpo testuale. Per realizzare la verticale alfabetica, il primo
verso è risolto mentre la traduzione del secondo consiste in un semplice scambio verticale, il terzo ha chiesto un
raddoppiamento degli aggettivi tramite il concorso della particella “e”, mentre il quarto e il quinto hanno subito sia una
sostituzione di congiunzioni sia un cambio di verso necessario a introdurre il dativo acrosticamente indispensabile per
ottenere l’ultima vocale della sigla D.I.E.T.A. Quanto alla seconda strofa, dato che il sesto verso non richiedeva modifiche,
la formula “i confini di” (v.7) è stata anteposta all’oggettivo indefinito “ogni”, usufruendo dell’articolo maschile plurale.
L’ottavo verso è stato lasciato intatto, ampliato solo dal sintagma “su quel” appartenente al verso successivo e ciò ha
consentito di correggere il nono, per tradurre l’acrostico in una poesia inizialmente concepita nella stessa lingua ma in
versi liberi, bastano pochi ritocchi, mentre più complesso è quando si lavora su una lingua di partenza diversa da quella di
arrivo.
Un’invettiva cifrata: Gwen Harwood: Per rendere in italiano la traduzione di un acrostico redatto in un’altra lingua,
Gwen Harwood si rivolse si rivolse invano ad una rivista inviando due componimenti con il suo vero nome, finché,
sospettando di misoginia, decise di spedirli con uno pseudonimo maschile e vennero accettati. Entrambe le poesie
nascondevano un acrostico, arrivando la seconda ad esibire un “Fuck all editors”. Per colpire, la scrittrice raccolse il suo
veleno non “in cauda”, cioè secondo le canoniche indicazioni latine, ma “in capite”: ovvero non in rime, ma in capilettera.
Nel primo dei due sonetti, Eloisa si era rivolta ad Abelardo, forse sulla scia di versi di Alexander Pope. Nel secondo
sonetto invece, la parola passa al maestro, che indirizza all’amata appassionata parole di amore e morte, in una lirica
definita come “rubbish”, dedicata al solo scopo di dimostrare l’incapacità dei redattori. La prima cosa da notare nel
sonetto, formato da tre quartine e un distico finale, è la presenza del dativo. Per il sostantivo “editori”, si dovrà passare dal
plurale al singolare così da ridurre la frase-acrostico da 11 a 10 lettere. La soluzione/traduzione iniziale “in culo
all’editore” approderebbe a un sonetto con 16 versi invece che 14; meglio allora “Fottuti editori” oltretutto privo di
articoli.
Cominciando il lavoro di adattamento, muovendo dal testo in italiano per travasarlo in un nuovo schema, adottando il
minor numero di cambiamenti. Una prima fase di avvicinamento prevede la disposizione, accanto a ogni verso, della
lettera da raggiungere. Se riprendessimo l’analisi del sonetto, facciamo precedere l’imperativo “Dimmi” dalla formula di
cortesi “ti prego”, mentre agendo per via sinonimica, possiamo passare da “consunta” a “opaca” posponendo l’aggettivo al
sostantivo cui è riferito. Arrivando al distico finale, dove “Non richiamare” diventerebbe “Rifiutati di chiamare”, mentre
la frase “non lasciare che alcuna fede mi evochi” diventa “non lasciare che alcuna fede ti inciti ad evocarmi”.
Un esempio bilingue: Jonathan Franzen: Esaminando un secondo caso di “acrostico aggressivo”, dove cioè la lettura
della frase verticale racchiude un intento polemico, un modello che troviamo nel romazo Purity di Jonathan Franzen.
Siamo a Berlino est, dove un giovane di buona famiglia si prende gioco di una rivista letteraria pubblicando una poesia a
doppio taglio, un messaggio di violenta critica politica declinato in due lingue, tedesco e inglese, il cui titolo tradotto in
italiano è “Io dedico la mia gloriosa eiaculazione al vostro socialismo”. In questa poesia, l’acrostico della prima lingua è
scritto nella lingua della seconda e viceversa, depistando i lettori, mentre l’edizione italiana ha tradotto solo i versi tedeschi
tralasciando quelli inglesi. Gli editori, invece, addebitavano lo scandalo non alla scelta stilistica bensì al contenuto.
 L’acrostico si occupa della prima estremità del verso (la sua lettera di apertura) mentre la rima riguarda le lettere
situate a partire dell’ultima unità sillabica accentuata, che è inoltre chiamata ad esprimere il rilievo che il ritmo
concede alla posizione finale. La posizione iniziale di verso, strofa o capitolo risulta avvantaggiata nei riguardi della
rima.
IV ESERCIZI DI CODA: TRADURRE UNA RIMA – CYRANO E KRULL: La frattura culturale inaugurata dal
verso libero fu responsabile sia del divorzio fra poesia e metrica consumatosi nella seconda metà dell’Ottocento, sia del
discredito in cui cadde la rima. Il lungo processo di erosione del verso principe francese, ossia l’alessandrino, attraversa
l’Ottocento con Victor Hugo e molti altri. Certo è però che diversi studi segnalano una serie di fenomeni metrici inaugurati
intorno al 1861, anno che vede l’uscita della seconda edizione delle Fleurs du mal baudelairiane. Possiamo definire la
poesia moderna tout court”, cioè slegata da qualsiasi obbligo sia nei confronti del metro, sia nei riguardi della rima o
quanto meno del suo impiego sistematico e strutturale. E qui torniamo al problema delle traduzioni: allineandosi al
gusto dell’epoca, anche il lavoro di transito linguistico ha finito per adottare la scelta del verso libero, “liberando” anche le
versioni di testi formalmente organizzati. Da qui una serie di risultati dal taglio più o meno prosaico, come nel caso
dell’esperimento di Giorgio Caproni, che giunse a tradurre le Fleurs du mal rinunciando completamente alla
versificazione. L’attimo fuggente narra della rivolta giovani contro un mondo governato dal calcolo, dall’ordine, dal
conformismo. Protagonista è un insegnante, in grado di scatenare la forza anarchica contro le ferree leggi di un potere
“prosaico” e utilitarista, una poesia contro prosa, ma in duello dove a scegliere le armi, ossia ad essere parlata dai
personaggi è la seconda. Nel Cyrano, se in qualche modo la lotta è la medesima, i suoi mezzi risultano invertiti, in quanto
lo scontro si svolge per intero sotto la difesa del metro e della rima. L’inestimabile testimonianza che Thomas Mann
dedicò appunto a un ragazzo ineducato e brillante. Confessioni del cavaliere d’industria Felix Krull , il romanzo restò
sospeso quasi quarant’anni, per essere pubblicato, ancora incompiuto nel 1954. Focalizzandosi su quest’opera,
esamineremo il ricco gioco di rapporti stabiliti dal romanziere tedesco fra prosa e poesia. A mo’ di premessa, occorre
precisare che la strategia manniana dei versi “nascosti” risale nel dramma Fiorenza. La scena che ci interessa riguarda la
parentesi dell’incontro amoroso con la stessa donna cui l’eroe aveva in precedenza sottratto un cofanetto di gioielli.
Nell’ardore della passione, la focosa cliente dell’hotel si rivolge al suo gigolò vantandone gli occhi azzurri e capelli biondi
con un sei alessandrini giambici, il ragazzo rimane basito. Ma per comprendere occorre tornare al brillante colloquio di
Krull per ottenere il posto di lavoro presso l’hotel parigino. La sequenza vede il protagonista esibirsi, oltre che in tedesco,
anche in italiano, inglese e francese, introducendo dei versi in francese, quindi abbiamo le prove che il ragazzo è venuto a
contatto con la lirica anche prima dell’incontro con la sua amante. (risposta dell’esaminatore brutale).
La rima in una quartina francese: Yves Bonnefoy: Si tratta di una composizione piuttosto particolare, non solo perché
dedicata a un pubblico di bambini, ma anche perché isometrica e monorima. Filastrocca o no-sense vedremo che alla sua
base sta un elemento importante ben visibile: ciò che i vocaboli definiscono nei termini d’identità di suono, a partire
dalla vocale accentata, fra due o più parole, più frequentemente poste a fine verso. Si è fatto riferimento alla
“filastrocca”, una delle cui caratteristiche salienti è costituita dalla “scarsa importanza del materiale semantico”. In
alcuni casi “l’uso della rima avrebbe ragioni tanto vitali nell’economia del testo da doversi imporre anche nella
traduzione”. Il suo mantenimento non è un dogma della traduzione poetica. Tuttavia, una volta stabilito, deve essere
rispettato anche a costo di qualche inevitabile compromesso --> Non conserva più nulla del testo originario a quanto
effetto metrico, ritmico e rimico.
COME TRADURRE LA NOSTRA POESIA: L’unica resa plausibile deve essere quella, oltre che isometrica,
monorima, così da cogliere il fattore più rilevante del testo, cioè l’informazione dominante. La rima consiste nell’identità
consonantica e vocalica a partire dall’accento tonico della parola a fine verso. Altrimenti parole piane rimano solo con
quelle piane, sdrucciole con sdrucciole e tronche con tronche. La nostra terminologia metrica è basata su parole piane, cioè
con accento sulla penultima sillaba, in quanto la maggior parte delle parole italiane sono piane. Per questo “endecasillabo”
è nome riferito alla variante piana normale. La terminologia italiana definisce la misura del verso contando sempre una
sillaba in più rispetto all’ultima tonica.
V. ESERCIZI DI VERSO: TRADURRE IL METRO – L’EFFETTO DELTA: “Delta” è il nome della quarta lettera
dell’alfabeto greco. La sua forma portò a usare il medesimo termine per indicare lo spazio compreso fra due imboccature
di un fiume. Per tale motivo, il basso Egitto, cioè il tratto di paese compreso fra i due rami del Nilo inferiore e il mare,
venne chiamato Delta. Lo stesso vale per il muscolo deltoide, attaccato alla spalla e alla parte superiore dell’omero.
A partire di un testo poetico originale, possiamo infatti affermare che, nell’impossibilità di prendere una soluzione unica
(per così dire “estuario”), dovremo solo e sempre accontentarci di una fra le molteplici soluzioni possibili. Nel sonetto di
Baudelaire in alessandrini rimati dal titolo Recuillement per osservarlo trasposto non in una sola versione ma in quattro.
Solitamente il sonetto in alessandrini viene reso con il doppio settenario o l’endecasillabo, senza tuttavia escludere il
novenario o come vedremo l’ottonario. Così, partendo da una composizione in dodecasillabi francesi osserveremo defluire
quattro traduzioni, come se fossero quattro contendenti che aspirano ad un unico trono --> La prima traduzione che
osserviamo è quella dal francese all’italiano, l’unica eccezione risulta dal sostantivo “Douleur” reso con l’italiano “pena”,
al fine di conservare il genere femminile e mantenere la personificazione. La trasposizione dello scrittore siciliano
(Bufalini) vanta la riproduzione del sistema rimico originale. Nel testo si sottolineano la scorrevolezza e linearità
nonostante l’abolizione dell’enjambement che segna il passaggio tra quartine e terzine. Alla traduzione in doppi settenari
che segue quella in endecasillabi di Luigi De Nardis, dove possiamo notare un fenomeno interessante a livello
sticometrico. Infatti, oltre all’abolizione delle strofe, si registra un aumento del numero di versi, che rompe lo stampo del
sonetto passando dai 14 francesi ai 19 dell’italiano, a causa dell’adozione dell’endecasillabo per rendere più ampio
l’alessandrino. È evidente che quello che si perde sul piano orizzontale (numero di sillabe), si riacquista su quello verticale
(lunghezza della composizione).
L’ottonario è molto apprezzato nell’onde-canzonetta, ed è definito come il metro più “appiccicoso” della lingua italiana, a
causa della facilità con cui si imprime al ricordo del lettore-ascoltatore, che lo rende oltretutto la più antica forma di
mnemotecnica. A proposito di memoria dell’ascolto, è indicativa la predilezione del pubblico infantile per il metro
trocaico, una sequenza di piedi binari in cui la posizione forte precede quella debole. Tra queste nessuna e tutte sono più
fedeli all’originale, questo perché tornando al discorso sull’effetto “delta”, si può concludere ribadendo che, in base a una
sorta di democrazia diretta, versioni disparate possono tutte legittimamente pretendere di subentrare nell’alessandrino
francese. Tutto ciò per ribadire quanto grande sia la responsabilità della scelta del traduttore sul piano del metro. In
assenza di una corrispondenza univoca fra lingue differenti, per orientarci non abbiamo altra regola che il gusto, la pratica,
l’esperienza, in breve quanto definiva Kant, la capacità di giudizio.
ADDIO A HUGO: Se analizziamo la sua composizione delle Orietales, intitolata Le Djnns. Il titolo si riferisce alla
denominazione araba di quegli spiriti che popolano la natura, esercitando un influsso benefico o malefico sulla vita umana.
Queste creature di origine preislamica costituirebbero una collettività indifferenziata che a volte lascerebbe emergere tratti
più personali. I Jinns si videro attribuire caratteristiche diverse da quelle originarie come ad esempio l’inferiorità rispetto
all’uomo e la natura mortale. Per quanto riguarda la lirica di Hugo, si tratta di una composizione originale, dotata di
un’articolazione che ne fa un reperto senza pari: ogni stanza è organizzata secondo un diverso numero di sillabe, seguendo
uno schema metrico prima ascendente e poi discendente in modo tale da formare un totale di 15 strofe con otto metri
diversi. Tutto questo per giungere alla traduzione vera e propria, in modo da esaminare sia la performance di Hugo, sia i
passaggi indispensabili per riversare il testo in un’altra lingua. La ricca fortuna del suo testo parte da un saggio di
Cornulier intitolato “Les Djinns boiteux” che si propone di affrontare un’edizione volutamente “zoppa” o erronea del
prototipo. Per farlo, lo studioso ne manomette l’impianto metrico inserendo una zeppa monosillabica all’interno di ogni
strofa, così da violare il meccanismo della poesia iniziale in una prospettiva didattica cioè di verificare la percezione
dell’isosillabismo da parte dei lettori francesi in modo da capire quali errori metrici vengono effettivamente percepiti.
VI. ESERCIZI DI CIFRA: TRADURRE UN INDOVINELLO NUMERICO: Giocare sulle interferenze fra lettera e
numero si basa sulla convinzione che proprio in situazioni eccentriche emergano alcune strutture profonde della pratica
traduttoria. Ma è soltanto muovendo alcune osservazioni di taglio teorico, si potranno apprezzare i risultati prodotti da un
esercizio come la traduzione di un indovinello centrato sul bisticcio fra lettere e numeri. I danni di un’analogia, si riferisce
all’espressione che ha accompagnato sin dalla sua nascita il moderno dibattito sulla traduzione: la coppia bellezza e
infedeltà. “Belle infedeli”, come ha spiegato Zuber, è una formula coniata in pieno Seicento da Ménage per indicare le
traduzioni in gradi di rispettare la qualità originale, di contro a quelle che a causa di un malinteso senso di letteralità,
finiscono per sfigurarla. Associando linguaggio ed erotismo viene segnalata l’impossibilità di una versione ideale, dove si
cela in realtà l’inganno. Roman Jakobson, focalizzandosi sul concetto di equivalenza e sulla sua impossibile totalità,
propose di ricorrere al termine “loyal” piuttosto che al sostantivo “fidelity”. Nel suo caso però, la questione riguarda
piuttosto il dilemma per cui il traduttore si chiede se essere fedele all’autore oppure al lettore. Diverso il nostro caso,
relativo invece al rapporto tra traduttore e testo. Un’impostazione del genere comporta implicazioni, non meno ardue:
infatti, sia pur rappresentato da un’unica entità piuttosto che da una coppia, l’originale cui tener fede, cui “dare la
nostra parola”, non è costituito da una semplice parola, bensì da un sistema di relazioni composto di parole.
REGOLA DEL MENO UNO: Un testo letterario non equivale a un oggetto statico, ma a un processo dinamico, a un
concorso di spinte contrapposte, a un insieme di forze di equilibrio. Di conseguenza, il traduttore potrà tutt’al più cercare
d’essere fedele a qualche singolo elemento, non certo all’insieme. Scegliere a cosa essere fedeli significa, decidere a cosa
non esserlo al contempo. In un sonetto tradotto dal francese all’italiano, come si è visto l’adozione dell’endecasillabo (11
misure) per rendere il più ampio alessandrino (12 misure) potrà causare un incremento nel numero di versi complessivi -->
In ogni traduzione la fedeltà a un criterio compositivo implica sempre almeno una infedeltà verso qualsiasi altro, ovvero
tradurre significa riorganizzare il testo in base a un ristretto numero di priorità. Di conseguenza, il problema preliminare
non sarà più come ma bensì COSA tradurre; Peter Newmark affermò che il compito del traduttore è soppesare i fattori fra
di loro, in sostanza tutto è centrato sul tema del decidere. Prendiamo per esempio il gioco dell’indovinello del soldato che
spia per scoprire la formula segreta del campo nemico. Davanti alla necessità di riprodurre un indovinello italiano in
un’altra lingua, emerge infatti l’esigenza di fare in modo che il rapporto fra il numero pronunciato dalla sentinella e la
replica del soldato che chiede di entrare, risponda al duplice criterio dalla cui confusione scaturisce il motto di spirito. Se
infatti noi ridiamo, è proprio perché in italiano, in apparenza indica il risultato della divisione ma in verità designa la
quantità di lettere contenute nel vocabolo. Ciò spiega come mai, dovendo tradurre l’indovinello, sarebbe insensato
riportare pedissequamente i numeri dell’originale astenendosi dal ricomporre la logica complessiva del gioco. Così
facendo, il traduttore non potrà più illudersi di poter praticare una vaga, sommaria professione di fedeltà ma al contrario,
egli dovrà decidere, in maniera altrettanto irrevocabile, cosa tradire --> Traduttore infatti vuol dire “riorganizzare il testo
in base a un ristretto numero di priorità”. L’esempio del rompicapo mostra bene come si debba ogni volta risalire alla
componente principale di un testo, per poi cercarlo di riprodurlo, o quanto meno offrirne qualche più o meno pallido
riflesso, a discapito, sempre inevitabilmente di qualche altro elemento.
VII. ESERCIZIO DI SEGNO: TRADURRE UN CALLIGRAMMA (ARABO): In genere la traduzione a quattro mani
prevede che uno dei due soggetti interessati ignori la lingua di partenza. Il primo punta da considerare riguarda lo stato
d’animo che inevitabilmente pervado il secondo membro della coppa, ossia quello sprovvisto di un’adeguata
strumentazione linguistica, perché quest’ultimo dispone di alcune capacità che mancano al primo, di conseguenza il
secondo membro della comitiva dovrà disporre di un qualche altro genere di abilità. In una traduzione a quattro mani, il
soggetto che ignori la lingua di partenza, pur essendo gettato in una sorta di cecità linguistica, sa di affidarsi, da non
vedente, a un vedente-interprete, cioè a un esploratore che, pienamente inserito nel mondo circostante, sarà in grado di
scorgere assai bene la materia del testo.
La traduzione a quattro mani di alcune poesie araba fu una scommessa, si confermò l’ipotesi circa l’influenza di
elementi arabi sulla nascente poesia italiana alla corte di Federico II, a cominciare per il gusto dell’allitterazione, non solo
a sancire il il legame tra la poesia araba e quella italiana, avrebbe concorso la creazione di testi specificamente basati sul
frequente impiego del poliptòto (ripresa e variazione di uno stesso termine). La traduzione è sempre un atto critico, e solo
sulla base di un’attenta lettura delle strutture testuali ci si può realizzare un attendibile lavoro di travaso linguistico.
Individuare perciò all’interno della composizione gli elementi prioritari. Di conseguenza, la prima parte del mio intervento
consistette nel ripristinare, per quanto possibile, le ripetizioni e le annominazioni, organizzando poi i versi sul piano
metrico. Fra le liriche tradotte dai nostri predecessori presentava al suo interno un calligramma. Essa giocava sull’aspetto
visivo di alcune lettere araba (LAM E NUN). Per la prima volta, Magrelli e la sua guida si ritrovarono a replicare nella
nostra lingua il senso del gioco, creando, in italiano, un calligramma dotato di una propria autonomia visiva. La traduzione
richiede di riprodurre, per sé in maniera del tutto diversa, lo slancio del testo originale. Per prima cosa dovremmo
ovviamente “versare l’immagine” da un alfabeto all’altro, modellando quello d’arrivo perché offra al lettore un senso
analogo a quello di partenza. Rimandando ai saggi che Pozzi dedicò ai calligrammi, l’indovinello grafico (Lam e nun)
verte sulla cosiddetta “auto-ostensione del significante” in questo esemplare caso di poesia: la forma di Lam e Nun agisce
su due livelli: mentre sul piano grafico le lettere suggeriscono i tratti di un volto, su quello verbale la loro unione esprime
la negazione no). La differenza sta nel fatto che mentre ne doppia dimensione attivata dall’acrostico riguarda gli assi
orizzontali e verticali, quella mobilitata dal calligramma concerne l’ambito verbale e figurativo, costringendo a
guardare contemporaneamente l’alfabeto e il disegno da esso tracciato. Infatti, per tradurre un calligramma (del
genere arabo) dovremo cambiare, oltre che l’idioma, il suo alfabeto. Qui non interessa esibire la qualità del risultato, bensì
la bontà del suo intento, vale a dire la logica che ne orienta il processo, dobbiamo dunque mirare al progetto iconico
complessivo.
VIII. ESERCIZI DI TEMPO: TRADURRE I SOTTOTITOLI: Il compito affidato alla coppia (Magrelli-Caramazza)
non consisteva nel predisporre dei sottotitoli bensì nel ritoccare quelli già esistenti. Mentre si apprestava a questo compito,
si accorse però che in realtà la questione era assai più complessa, che non si trattava di intervenire sulla correttezza della
traduzione (che infatti non prestava particolari errori) la vera mansione era un’altra: di valutare piuttosto i sottotitoli in
base alla loro capacità di selezionare le principali unità di informazione presenti nell’originale. Quindi non si trattava
tanto di migliorare genericamente la traduzione, quanto di incrementare la pertinenza o densità comunicativa. Il tutto in
base a un criterio che andava scoprendo man mano: la durata temporale e la lunghezza alfabetica dei sottotitoli (chiamata
crono-metrica), in cui era necessario misurare le unità di una frase in relazione alla durata della sequenza filmica.
Verso la fine degli anni Venti il cinema conobbe, con l’invenzione del sonoro, una sorta di “dicotomia audiovisiva”. Il
passaggio da una fase all’altra avvenne per gradi. Tuttavia, solo dopo il ricorso ai cosiddetti “intertitoli” o “didascalie”
(brevi sequenze di commenti descrittivo-esplicativi o di dialoghi proiettati tra le scene di un film), si impose l’uso dei veri
e proprio sottotitoli che nacquero intorno agli anni ’80. Grazie alla creazione di sofisticati software per il sottotitolaggio si
è assistito alla nascita di una nuova metodologia di lavorazione per i progetti multilingua, i traduttori hanno potuto
concentrarsi sulla versione nella lingua d’arrivo senza doversi più preoccupare del timing --> Inoltre, ai sottotitoli è
richiesto una sorta di miracolo, poiché essi vanno a costruire un ulteriore strato verbale he è destinato a integrarsi al
sistema semiotico originario del testo audiovisivo senza turbarne l’intima coesione. Il sottotitolare deve operare le sue
scelte e valutare i fattori linguistici e no. Occorre distinguere due specifici tipi di sottotitolaggio: quello interlinguistico e
quello intralinguistico. I sottotitoli intralinguistici consistono nella trascrizione totale o parziale dei dialoghi nella stessa
lingua della colonna sonora originale del film, e sono rivolti sia soggetti con problemi di udito, sia a coloro che intendono
apprendere una lingua straniera. I sottotitoli interlinguistici, invece, sono composti in una lingua diversa da quella del
prodotto originale e pertanto coinvolgono due lingue. Nel primo caso, l’azione si svolge su due livelli, realizzando da un
lato una traduzione verbale, dall’altro la traduzione intersemiontica, per sintetizzare verbalmente un messaggio altrimenti
destinato ad andare perso. Anche nel secondo caso esiste un doppio livello, in quanto questi sottotitoli possono fungere da
ausilio sia fisico (deficit udito) sia linguistico (per chi non ha dimestichezza con la lingua parlata nel testo audiovisivo).
I sottotitoli come traduzione doppiamente estreme: I sottotitoli devono rispettare regole ancora più complesse di quanto
accade in altre forme di resa linguistica. Essi infatti sottostanno a obblighi formali o quantitativi che riguardano la loro
disposizione sullo schermo, lo spazio e il tempo di esposizione che possono occupare su di esso, nonché la lunghezza delle
battute degli attori. Non occorrerà tradurre integralmente i dialoghi, bensì limitarsi alla loro sintesi. Chiederà allo
spettatore, di suddividere la sua attenzione fra il contenuto delle immagini e la lettura/comprensione delle scritte. Limitata
nel tempo (metrica) e nello spazio (crono-metrica), la versione finale sarà il risultato del delicato rapporto fra lunghezza
dei dialoghi, lo spazio disponibile all’interno della sequenza filmica e il rapporto con il non verbale (immagini, suoni ecc.).
Il sogno del traduttore sarebbe quello di “dare allo spettatore l’illusione di capire tutto senza leggere i sottotitoli”.
Brondeel, introduce un ulteriore specificazione, la comprensione è chiamata a coinvolgere simultaneamente non una, ma
due attività: da un lato la lettura attiva del sottotitolo, dall’altro l’ascolto passivo del parlato. L’insieme delle tante
componenti conduce lo studioso a sostenere che “una simile combinazione di lettura e ascolto crea una situazione unica”.
Troviamo confermata l’ipotesi che, nel variegato campo della traduzione letteraria, i sottotitoli rappresentino un’eccezione
anche di fronte alle cosiddette “traduzioni estreme”. Il loro artefice dovrà essere non solo “capace di prendere decisioni”
ma in grado di farlo, ecco il punto, una situazione “doppiamente estrema”.
La traduzione potrebbe essere addirittura definita come un processo decisionale tout court. Così stando non sarebbe
azzardato collocare l’insieme dei suoi protocolli nel segno di Ercole al bivio (prima ancora di affrontare le dodici fatiche, il
figlio di Zeus e Alcmena dovrà andare incontro a una specie di rito di passaggio, a un’autentica “scena della decisione”. La
storia rappresenta essenzialmente la cruciale scelta fra Vizi e Virtù, la Y pitagorica rappresenta questa scelta), stando
davanti a un bivio, seppe rappresentare, come forse nessun altro, la funzione stessa del decidere.

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