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IL LATINO E LA FORMAZIONE DELLE LINGUE ROMANZE – ALBERTO VARVARO

La famiglia delle lingue romanze si estende oggi sulla penisola iberica, la Francia, parte del Belgio, l’Italia e la Romania, in
gran parte dell’America centrale, meridionale e del Québec, in isolotti linguistici minori in Asia e in larga presenza in
Africa, come lingua ufficiale e di cultura nelle antiche colonie francesi, spagnole e portoghesi. Trae la sua origine da una
varietà della famiglia linguistica indoeuropea che attorno all’VIII sec. a. C. era parlata in un’area ristretta nella bassa Valle
del Tevere, attorno a Roma e ai Colli Albani. Sulla riva destra del fiume invece, dominava una lingua non indoeuropea,
l’etrusco. A nord est, a est e a sud dell’area latina vi erano le parlate osche, che giungevano a sud fino in Campania e
Lucania e a est fino all’Adriatico, limitate a nord dall’umbro. A nord dell’umbro, lungo la Costa Adriatica, vi erano le
varietà picene e nella Valle del Po', da Senigallia fino alle Alpi, c’era una vasta area celtica a est della quale era diffuso il
venetico e a nord il retico, mentre lungo la Costa dell’Alto Tirreno e nell’interno, il ligure, forse non indoeuropeo.

Nell’odierna Puglia si parlava il messapico mentre lungo le coste c’erano insediamenti greci, tra cui Taranto. La penisola
non aveva aree linguistiche compatte, poiché non vi era alcuna forma di unità politica, linguistica o culturale (se non nel
senso di cultura usata dagli archeologi, vale a dire tutti gli aspetti visibili di una società, quali gli utensili della vita
quotidiana, i manufatti urbani, gli oggetti artistici ecc) La variazione diatopica (su base geografica) era enorme. Il
successo del latino è conseguenza diretta del lento affermarsi del predominio politico di Roma come potenza imperiale
prima sulla penisola italiana, poi nel mediterraneo occidentale e orientale e di quasi tutto il continente europeo e in
Britannia, grazie alla solidità delle sue istituzioni politiche, alla forza dei suoi eserciti e ad una tenacia invincibile. Il
trionfo non è il risultato di una politica linguistica, furono il prestigio della città e la superiorità della cultura ad indurre
sempre più persone, a cominciare dalle più colte, ad assimilarsi anche linguisticamente ai Romani, per ottenere la
cittadinanza latina o pienamente romana. La latinizzazione linguistica trovò un limite solo nella parte orientale, dove
rimase il predominio del greco, che godeva di un prestigio più alto del latino. Nel corso dei secoli centrali del Medioevo
questa grande area latinizzata vide la formazione di un grande numero di varietà parlate, dette neolatine o romanze, in
quanto appunto evoluzioni del latino (che continuava ad essere usato come lingua di cultura e scritta). A partire dal X
sec. d.C. queste varietà cominciarono ad essere usate anche nello scritto, dando luogo a una propria letteratura e man
mano alle odierne lingue romanze di cultura, il portoghese, lo spagnolo, il catalano, (nel medioevo anche l’occitano), il
francese, l’italiano e il romeno.

Oggi come ieri è molto diffusa l’idea che il processo vada distinto in due fasi successive, vale a dire che la latinizzazione
dell’Impero occidentale sia stata completata prima che avesse inizio la frammentazione romanza, per Varvaro invece
NO, si tratta di un processo unico, molto complesso, non privo di cambi di direzione e fallimenti, che non è stato breve.
Il completamento della lenta conquista della penisola italiana è avvenuto alla fine della guerra contro Taranto e il re
Pirro di Epiro (280-275 a.C.) e comunque prima del 264 a. C. La conquista aveva prodotto comunità locali che
rimanevano autonome rispetto a Roma. Furono fondate, a partire da 338 a. C. numerose colonie di cittadini romani o
latini che costituivano isole linguistiche latine all’interno di aree alloglotte, dove cioè si parlava una lingua diversa dalla
maggioranza “ufficiale”.

L’Impero Romano si reggeva con un sistema di governo indiretto (indirect rule è il sistema amministrativo utilizzato,
dall'Impero britannico, per governare i popoli assoggettati attraverso le loro istituzioni) vale a dire lasciarono intatte le
strutture politiche e sociali dei popoli sottomessi e concessero alle società locali un’autonomia. Questo sistema, che
lasciava delle competenze agli indigeni, riservando ai Romani la riscossione delle tasse, faceva sì che i contatti tra
indigeni e Romani non fossero uguali a tutti i livelli della popolazione. A Roma si sviluppò il ceto dei mercanti, che
mentre diffondeva le merci rendeva familiare la lingua latina; ciò malgrado la maggioranza della popolazione aveva
contatti ridotti con i cittadini romani e quindi meno occasioni per apprendere la lingua latina. Sarà la diffusione del
Cristianesimo grazie alla tenacia dei missionari, anche nelle campagne più remote, a diffondere il latino. Il processo di
diffusione del latino è stato lento, ma ha portato alla scomparsa di quasi tutte le lingue parlate nelle province al
momento della conquista romana. In Italia è rimasta la minoranza linguistica greca, riconosciuta dalla Legge 482/99
nelle due isole linguistiche della Bovesia in Calabria e della Grecia Salentina in Puglia); il basco, non indoeuropeo parlato
a Nord e a Sud dei Pirenei, nei Balcani l’albanese. Quando è come è avvenuto che lingue non latine abbiamo ceduto al
latino? Secondo l’ipotesi del linguista tedesco Hugo Schuchardt nel 1866, vi è una corrispondenza tra la data di
conquista di ciascuna provincia e il tipo di latino parlato, le cui caratteristiche si sarebbero conservate anche nelle future
lingue romanze. Egli disegnò un albero genealogico delle lingue dal quale una linea evolutiva principale, conduce dal
latino all’italiano; da tale linea si staccano in momenti differenti le linee che portano alle diverse varietà romanze.
L’ordine di successione corrisponde alla successione cronologica delle conquiste delle rispettive province.
Quindi: italiano meridionale - italiano settentrionale- spagnolo e portoghese- provenzale e francese. Per lui il latino
importato in queste province corrispondeva a stadi di evoluzione progressivi.

L’idea è ripresa 20 anni dopo dal prof. di Filologia romanza Gröber, secondo il quale la separazione delle lingue romanze
iniziò al tempo della romanizzazione della prima provincia fuori dall’Italia e si realizzò di nuovo ogni volta che si
conquistava l’area di una lingua romanza. L’ipotesi di entrambi va apprezzata, ma risulta infondata perché presuppone:

a- Che la romanizzazione linguistica sia avvenuta immediatamente dopo la conquista


b- Che i rapporti delle province tra loro e con il centro fossero così precari da impedire che le innovazioni linguistiche
pervenissero all’esterno dell’area in cui erano apparse
c- Che il latino portato nella provincia avesse un prestigio tale da bloccare le innovazioni che venivano dall’impero.
Si tratta di un tentativo grossolano di storicizzazione perché:
a- La romanizzazione linguistica è stata un processo molto lungo e complesso e questo smentisce il punto a sopra
b- È irrealistico pensare che esistessero zone dell’Impero così isolate da produrre arcaismi linguistici; c’erano zone con
maggiori rapporti con le altre province, ma non si può parlare di isolamento. Inoltre, ricostruire la situazione del
latino sulla base dei dati delle lingue romanze, posteriori di almeno mezzo millennio è un procedimento che va
utilizzato con la massima prudenza.
La latinizzazione della parte occidentale dell’Impero fu un processo grandioso, ma lentissimo e non fu mai completo né
prima né dopo la fine dell’Impero. Un modo per osservare il passaggio dalla cultura indigena a quella romana e quindi
alla lingua latina, ci è offerto dall’onomastica, che ci permette di osservare l’adeguamento dei nomi personali che
avveniva all’interno delle famiglie. Abbiamo due iscrizioni ad esempio, una sull’Arco di Germanico situata a Saintes e
un’altra nell’anfiteatro delle 3 Gallie a Lione. Entrambe fanno menzione di ben 6 generazioni della famiglia cui
apparteneva Julius Rufus, di cui 3 sono suoi antenati, bisnonno, nonno e padre. Il bisnonno era un gallo non romanizzato
e si chiamava EPOTSOVIRIDVS, il nonno, diventato cittadino romano, portava il nome di IVLIVS AGEDOMOPATIS. Solo il
cognome restava celtico. Il padre si chiamava IVLIVS CATUANEUNIUS e come suo padre portava il cognome celtico a
significare che era nato prima che suo padre diventasse cittadino romano.

A prescindere dal significato dei tre nomi indigeni resta il quadro di una famiglia che nell’arco di 60 anni era diventata
del tutto romana, non solo nei nomi, ma anche nelle cariche pubbliche. Il fenomeno della trasformazione del nome si
ripete in tutte le province e in tutte le epoche e quello che ci interessa è la tendenza collettiva che favorisce la
romanizzazione. La cultura romana non poneva ostacoli all’assimilazione dei non latini: così è stata possibile l’ascesa
sociale dei provinciali, prima di origine italica, poi di tutti gli altri. Nel 98 d.C. Traiano, provinciale di origine italica diventa
imperatore; nel 193, il provinciale Settimio Severo, africano di stirpe libica, diventa imperatore dopo aver fatto carriera
nell’esercito.

Un famoso esempio di provinciale dalla grande carriera è QUINTO LOLLO URBICO, di cui abbiamo testimonianza
attraverso l’iscrizione posta sotto la statua che gli dedicarono i suoi concittadini in Algeria (allora prov. di Numidia). Da
essa risulta che Quinto Lollo Urbico aveva cominciato la sua carriera come quattuòrviro (Collegio di quattro magistrati
che amministravano la giustizia e dirigevano la polizia urbana) per la manutenzione delle strade, poi era stato tribuno
della 22esima Legione Primigenia, questore urbano, legato del proconsole d’Africa, tribuno della plebe, pretore,
governatore della Germania inferiore a Colonia, governatore della Britannia e infine prefetto di Roma dopo il 150.
Varvaro parla della società imperiale romana come di un melting pot che consisteva soprattutto nell’acculturazione di
gruppi numerosi di popolazione indigena che rimaneva lì dove aveva sempre vissuto. La latinizzazione non è che un
aspetto di un processo che Greg Woolf chiama “Becoming Roman. Diventare romani non significava omologarsi agli altri
abitanti, ma acquisire una posizione nel complesso di differenze strutturate in cui risiedeva il potere, che rappresentava i
gusti, i modi di fare, la sensibilità, gli ideali, un centro simbolico legato all’esistenza della comunità politica romana. Tesi
che non teneva però conto del Cristianesimo; se fosse vera, la latinizzazione sarebbe stata messa in crisi dopo il crollo
dell’Impero Romano; invece il processo non venne interrotto, salvo in Africa e in Britannia, i resti delle lingue preromane
vennero riassorbite e i territori imperiali diventarono romanzi. Dal IV secolo in poi si affiancò a questo modello
“Becoming Christian” di cui era essenziale il latino. Questa prevalenza facilitò la fine dell’impero d’occidente ma assicurò
il futuro della romanità linguistica.

Età repubblicana= storia di Roma antica fra il 510 e il 27 a.C., che seguì la caduta della monarchia.

Età imperiale= L'impero costituito da Roma nel periodo tra il 27 a.C. (proclamazione di Ottaviano come "Augusto") e il
476 d.C. (data della deposizione di Romolo Augustolo e termine dell'impero romano d'Occidente).
A seguito delle conquiste avvenute si era determinata la convivenza del latino con numerose lingue e quindi un
bilinguismo di cui è difficile determinare la progressiva scomparsa; le province non furono mai del tutto monolingui.
Nella penisola italiana esisteva una forte eterogeneità linguistica: in Sicilia si parlava greco, punico, elimo, siculo, osco;
ma anche fuori dalla penisola le varietà più rilevanti erano il lusitano, il celtiberico e l’iberico, il gallo e il ligure nella
moderna Francia, il germanico nella zona renana, il britonico in Britannia, varietà illiriche in Dalmazia, il sardo in
Sardegna, oltre al greco. Oggi possediamo l’opera di Adams che ci fornisce un ricco quadro del bilinguismo del mondo
romano, studiato in rapporto alle lingue italiche, al germanico, alle lingue della penisola iberica nonché, nella parte
orientale dell’impero, all’egiziano, all’aramaico, etc. Alla data del crollo dell’Impero Romano d’Occidente (476 d. C.)
non tutte queste lingue erano state sostituite dal latino, il basco, non indoeuropeo, nemmeno più tardi. L’albanese è
nella stessa condizione oggi di lingua preromana, il bretone attuale, varietà celtica, sembra sia stato importato nella
Bretagna francese dalla Britannia.

Non è facile stabilire quando siano morte le lingue che non hanno resistito all’impatto del latino, possiamo solo dire a
quando risalgono le ultime testimonianze: le lingue della penisola iberica non lasciano tracce dopo il II secolo d. C.; il
gallico era vivo fino all’inizio del VI secolo d. C. Gli studiosi di lingue romanze hanno parlato della possibilità di
fenomeni di sostrato rilevanti per la formazione delle lingue romanze. Il sostrato è una lingua che attraverso una fase
di bilinguismo, è stata soppiantata da un’altra, ma ha lasciato in questa tracce della sua esistenza. La metodologia del
sostrato risale al linguista goriziano Graziadio Isaia Ascoli che ne formulò i principi nel 1886. La convinzione secondo
cui, l’esistenza di un sostrato sarebbe provata quando l’area del fenomeno moderno coincide con quella della lingua di
sostrato, è approssimativa perché non conosciamo mai esattamente l’area esatta di copertura della presunta lingua di
sostrato e anche perché l’area medievale non è quella moderna. Ad esempio il passaggio da MB-ND a MM- NN in Italia
meridionale (quando < quanne) che è stata a lungo considerato dovuto all’osco, quando poi è dimostrabile che il
fenomeno dell’assimilazione è tardo medievale a partire da una zona dell’Italia centro-meridionale. Il fatto che,
diversamente dai casi lessicali, sia molto difficile in altri campi verificare la permanenza del sostrato, non significa che
la convivenza in epoca romana non abbia avuto conseguenze su questo. Il multilinguismo dell’impero faceva sì che
tutti fossero coscienti dell’eterogeneità delle lingue. È ovvio che il latino, vista la sua ampia diffusione nel tempo e
nello spazio, abbia sviluppato delle varietà sub-standard. Il loro studio però dimostra di essere difficile, poiché queste
si suppone si siano sviluppate oralmente, mentre noi abbiamo solo testi scritti, inoltre è evidente che in primo luogo
non possiamo avere testi scritti da analfabeti, in secondo luogo i testi sono stati scritti da professionisti, perciò più
controllati ed è stata copiata secoli dopo la stesura originale.

Lo studio di questa varietà però non è impossibile e un esempio è la sintesi di Adams, il quale afferma che a livello sub-
standard il latino è ricco di variazioni lessicali, ad esempio il latino delle campagne galliche contrapposto a quello
dell’Aquitania, segni di differenze tra nord e sud Italia. Solo nel caso del lessico siamo comunque in grado di
individuare differenze diatopiche e di constatare la loro corrispondenza con forme romanze. In ogni caso questa
variazione non è sistematica e non costituisce dialetti. La variazione romanza non è la continuazione diretta della
variazione del sub-standard tardo latino. Sono diverse le ipotesi secondo le quali nel Tardo Impero sia esistito un livello
linguistico ancora inferiore al latino sub-standard, che Adams definisce latino sommerso, ovvero un insieme di tratti
comuni a quasi tutte le varietà e sentiti dai parlanti come bassissimi, documentati fin dai più antichi documenti scritti e
che non appaiono in nessun testo latino precedente. Si è formulata l’ipotesi che le innovazioni comuni risalgano ad
una fase precedente ancora latina e che, come ci insegna la linguistica comparata, se 2 o più lingue condividono un
tratto innovativo che non si è trasmesso da una di loro alle altre, allora deve essere esistito un antenato comune. Su
questo si è formulato il concetto di protoromanzo, termine alternativo, preferito da alcuni studiosi di linguistica
romanza, a quello di latino volgare, un'espressione coniata verso il 1866-68 dal linguista tedesco Hugo Schuchardt e
che ricalcava l'espressione antica sermo vulgaris, che distingueva lo stile colloquiale da quello più aulico.

Una delle tracce dell’evoluzioni del latino è la LENIZIONE e già nel 37-39 d. C. abbiamo attestazioni di questo processo
(tridici e trigidi da TRITICUM) nelle tavolette di Murècine presso Pompei. (La lenizione è una forma
di mutazione delle consonanti. Lenizione significa 'indebolimento”, e si riferisce al cambio da una consonante
considerata dura ad una considerata morbida. consonanti occlusive sorde (/p t k/) → occlusive sonore (/b d g/) → In
fonetica, indebolimento dell’articolazione delle consonanti occlusive, che da sorde diventano sonore (di c in g : dal
lat. locus l'italiano luogo). Un'altra traccia è la categoria grammaticale dell’ARTICOLO, che non esisteva in latino e che
troviamo in tutte le varietà romanze. In tutte, l’articolo determinativo proviene etimologicamente dalle forme del
pronome dimostrativo latino, per lo più ILLE, a volte IPSE. Nella maggior parte dei casi esso è anteposto, tranne in
romeno (lupul).
Vero è che in alcuni dei primi documenti delle varietà romanze come i Giuramenti di Strasburgo e i Placiti di
Montecassino l’articolo determinativo manca, ma forse in questi testi di rilevanza giuridica erano considerati troppo
volgari. Atro caso è quello del FUTURO: il latino aveva un futuro sintetico, tipo CANTABO, DELEBO e un futuro
perifrastico CANTATURUS SUM di cui non è rimasto nulla. Nelle lingue romanze sono stati sostituiti da perifrasi con
l’infinito: VOLO CANTARE (in rumeno), DEBEO CANTARE (in sardo) e soprattutto CANTARE HABEO. La perifrasi HABEO +
INFINITO è già abbastanza diffusa in latino, ma ciò che va accertato è se habeo conservi o meno il proprio valore
semantico o se sia grammaticalizzato. Ciò che importa è trovare documentazione di forme in cui le due parti sono già
fuse. Infatti già nei Giuramenti di Strasburgo abbiamo savarai, prindrai. Non è ammissibile la diffusione in epoca
romanza di queste innovazioni, Varvaro dice che già prima dell’VIII secolo esisteva in latino un livello linguistico sub-
standard nel quale le consonanti intervocaliche tendevano a lenirsi, i pronomi dimostrativi slittavano verso l’articolo
determinativo e si era formato un nuovo futuro e che queste innovazioni erano state talmente represse da non
apparire nello scritto fino all’VIII secolo, mentre nel parlato erano diffuse.

I fenomeni da attribuire a questo substrato e rilevanti per la formazione delle lingue romanze sono:

- Modifica della natura dell’accento e assestamento dei sistemi vocalici


- Dittongazione spontanea e metafonetica (metafonesi indica un’evoluzione delle vocali toniche. Quando nella
sillaba successiva o finale si trovano –I oppure –U, le vocali aperte toniche –è-, -ò- dittongano in –ie- e in –uo-
es. paisiello.
- Palatalizzazioni
- Crollo parziale della declinazione
- Crollo parziale del neutro
- Formazione di un nuovo passivo
- Formazione di un nuovo passato perifrastico
- Formazione del condizionale

Ammesso che sia esistito il latino sommerso, come è avvenuto il cambiamento della struttura del sistema
comunicativo che ha portato alla luce questo infimo livello? La spiegazione più antica addebita alle invasioni
germaniche la corruzione del latino. Oggi non ci si crede più, è però corretto dire che le invasioni hanno creato le
condizioni politiche che permisero una frammentazione linguistica, rinforzando l’autonomia delle regioni sotto
dominio romano, che si staccarono dalla zona di influenza linguistica di Roma e resero possibile la formazione delle
lingue romanze. Tra gli alti funzionari, i mercanti, i missionari la mobilità era normale, ma i contadini si muovevano
poco o nulla. L’Impero era uno spazio aperto, percorso in lungo e in largo e se anche vi erano aree meno esposte,
non si può parlare di isolamento.

Gli indicatori stradali mettevano sotto gli occhi di tutti le dimensioni reali del mondo romano. Le iscrizioni davano
un’idea concreta della realtà dell’Impero e delle sue dimensioni. Il testo più importante è ciò che rimane delle tre
facce di un indicatore stradale collocato nel centro della Gallia, ad Autun, (dip. Saone-Loire). Confrontando gli scritti
di Ammiano Marcellino (nato attorno al 330-335) e Gregorio di Tours (590-594) si può notare quanto si sia ristretto
il mondo. Ammiano, autore di Res Gestae, racconta di aver perlustrato tanto l’Occidente quanto l’Oriente, oltre i
confini dell’Impero. Gregorio duecento anni dopo sembra avere poca familiarità con il mondo fuori dal proprio
raggio d’azione; le pagine della sua Historiae Francorum sono fitte di nomi di regioni, città e piccole località della
Gallia. È vero che Gregorio non scrive la storia di Roma, ma quella dei Franchi, ma è indiscutibile che il suo orizzonte
sia infinitamente più ristretto di quello di Ammiano.

La coscienza del mondo si era ristretta in modo impressionante. Secondo Varvaro questo è un indizio di quale sia
stata la vera catastrofe che ha modificato il mondo euro-mediterraneo dopo il 400 d.C. le invasioni germaniche e la
scossa all’economia non sono state così sconvolgenti. Gli indigeni romanizzati avevano assorbito in tempo
abbastanza breve i nuovi arrivati. Il crollo della struttura imperiale, che non poteva essere sostituito dalla nascente
chiesa romana, aveva modificato gli orizzonti cognitivi ed esistenziali degli abitanti. A questo restringimento si
accompagnava una modifica dei rapporti di prestigio che avevano governato il sistema della lingua: finché l’area di
riferimento era rimasta l’Impero, il modello linguistico era quello della corte imperiale.
La classe senatoriale spingeva questo ideale fino alle classi più basse delle regioni più remote. C’era una norma
comune, seppur con le sue violazioni. In un mondo più ristretto, il riferimento reale è la sede del vescovo, un non
romano, la cui lingua ha poco in comune con l’antica norma imperiale della letteratura; il vescovo è qualcuno del
luogo, con scarsa coscienza di come si parla nelle regioni vicine. Lo spostamento verso la campagna ha fatto sì che
gente che non era permeata di cultura romana prese la guida dello sviluppo della lingua e che la tradizione rurale
(che conservava molto delle abitudini linguistiche degli antenati e che intaccava il latino attraverso generazioni di
bilingui) prese il sopravvento.

Questa è stata la vera catastrofe, perché ha rotto la strutturazione del sistema complessivo, ha capovolto le
relazioni di prestigio, ha ridotto la norma precedente a letteraria, lasciando libero il campo a parlate diverse da zona
a zona, indipendenti dalla norma antica. Il restringimento è osservabile nell’economia, ci fu un eccezionale
mutamento qualitativo, con la scomparsa di intere industrie e reti commerciali. Poiché l’economia antica era un
sistema complicato e interconnesso, la sua raffinatezza lo rese poco adeguato al cambiamento. Lo stesso con il
sistema comunicativo: se l’Impero avesse avuto quella omogeneità diatopica (nello spazio) e diastratica (nelle varie
classi sociali), la resistenza alla crisi politica, sociale ed economica sarebbe stata maggiore. Sopravvisse solo a livello
elitario, sia la circolazione dei beni di lusso che lo stato dei colti, capaci di usare il latino normativo, mentre la massa
doveva accontentarsi dei rozzi prodotti locali e di modelli linguistici più rustici. Nel VII-XI secolo le comunità
linguistiche si sono ridotte di dimensione, ma non dissolte. Gli individui hanno avuto coscienza di far parte di un
gruppo che si esprimeva più o meno nello stesso modo e che si differenziava perciò da altri, spesso considerati
ridicoli. La coscienza che i parlanti hanno di parlare una stessa varietà non è dovuta all’esistenza di limiti esterni
netti, ma al riconoscimento di un’identità più complessa di quella fornita dai dati linguistici.

L’esistenza di un continuum dialettale romanzo è realistico, ma non esclude fratture; a volte si possono riscontrare
linee di intercomprensibilità, altre volte di omogeneità. Il fatto che non esista un rapporto di variazione costante e
che la coscienza di identità è sempre esistita, spiega un problema filologico dell’800-900 in cui è emerso che la
maggioranza dei testi romanzi dei primi secoli si è caratterizzata localmente, ma presenta fenomeni linguistici
sovraregionali. (la localizzazione dei Giuramenti è stata discussa senza arrivare a conclusioni condivise); per i Placiti
di Montecassino si è osservato che la loro prima parola (sao- so) forse non corrisponde all’uso locale (saccio). A tal
proposito Remacle, nel 1948, studiando la più antica carta di Liegi, formulò il concetto di Scripta, quale sistema,
diverso da una zona all’altra, con cui si rende nella scrittura la lingua: forme di realizzazione grafica miste sia a causa
dell’eterogeneità dei sistemi linguistici che riflettono, sia perché in esse si intersecano correnti linguistiche diverse.
Nell’Alto Medioevo le varietà parlate nell’Europa romanza erano riducibili ad un numero limitato, la cui area era più
o meno estesa, ma non ridotta al villaggio, e comportavano la possibilità di accettare tratti non locali.

Come vanno letti i testi medievali? Varvaro non accetta l’ipotesi che la grafia del latino, scritto nei secoli
altomedievali, sia logografica e non alfabetica. Secondo questa ipotesi gli scritti anteriori all’epoca di Carlo Magno
avrebbero di latino solo la veste grafica latina e il cambiamento avvenne quando i germanici stabilirono nei regni
carolingi uno standard parlato ufficiale in aggiunta al vecchio standard scritto del latino. Purtroppo questa tesi non
ha prove a suo favore perché la riforma carolingia riguarda la correttezza del latino scritto e la stessa forma grafica
della scrittura (con introduzione della minuscola carolina), ma da nessuna parte si accenna alla lingua parlata, non
c’è nulla che ci autorizzi a parlare di parlato ufficiale standard.

Questa ipotetica ulteriore riforma carolingia avrebbe “inventato” il latino medievale abolendo la logografia, che
permetteva di leggere in modo diverso ciò che era scritto in un solo modo, avrebbe costretto ad inventare le
diverse ortografie romanze, che risalirebbero ad azioni coscienti e finalizzate. Nessuna grafia riesce a leggere la
pronuncia esatta delle parole, ecco perché è stato inventato l’IPA. L’ipotesi logografica permette agli studiosi di
leggere nei testi latini medievali quello che ritengono opportuno, ma lascia aperti vari problemi. L’ipotesi che il
latino fosse letto come romanzo non può valere nelle aree che non erano romanze, sarebbe stato troppo difficile il
colloquio tra persone che parlavano in modo diverso. L’ipotesi logografica costringe a caricare la riforma carolingia
di valori e finalità che Varvaro reputa improbabili. La riforma era stata intesa come restaurazione morale, culturale,
scolastica e grafica. Se dunque è molto improbabile che ci sia stata un’invenzione del latino medievale, non è lo è di
meno l’invenzione delle lingue romanze, attraverso un’operazione di invenzione della loro grafia. La tecnica della
scrittura si apprende in riferimento a una particolare lingua; nel Medioevo e prima si è insegnato a scrivere il latino,
non le lingue volgari.
Chi usa la scrittura per una lingua diversa da quella appresa lo fa per adattamento. Perché sarebbe stato necessario
“inventare” un’ortografia romanza? Uno dei problemi al momento di scrivere testi romanzi era la resa delle
consonanti palatali, che mancavano in latino. Se l’invenzione delle lingue romanze fosse avvenuta dall’alto non
avremmo ottenuto questi risultati. La stabilizzazione di un’ortografia delle singole lingue è stato un processo di
secoli e ha reso necessario l’intervento di legislatori, grammatici e tipografi, nonché le volontà di distinguersi dai
vicini. L’ipotesi logografica suppone che buona parte delle innovazioni sia avvenuta DOPO l’adozione della grafia
non logografica, in quanto esse sono poco o nulla riflesse in quella precedente. Il futuro, il condizionale e la forma
passiva si sarebbero imposti DOPO la riforma carolingia.

Dai testi risulta che la crisi che ha sottratto le parlate dell’Impero Occidentale al vincolo della norma latina, si è
verificata molto prima dell’avvento di Carlo Magno, durante o subito dopo il crollo dell’impero d’occidente. La
riduzione degli ambiti vitali a spazi più limitati, ha determinato il prestigio di varietà locali lontane dalla norma
romana, che per un po' rimasero a livello parlato. Per lo scritto era sufficiente il latino. La riforma carolingia rimane
importante per la cultura e la religione, ma non c’è prova che lo sia per la lingua parlata; sarà il Concilio di Tours
dell’813 a dare uno spazio pratico alla lingua parlata per la prima volta. Dopo Carlo Magno la società cambia
ancora, i poteri locali si affermano, le comunità vogliono avere voce comprensibile. Sono le necessità quotidiane a
spingere verso l’uso della lingua parlata in diversi tipi di testo. Da nessuna parte si ha l’impressione che il processo
sia diretto dall’alto, da politici o intellettuali; lo studio di questi processi va fatto nei testi, bisogna verificare e
approfondire le condizioni in cui ognuno di essi è stato prodotto e come si sia costituita ogni singola tradizione
testuale.

C’è un’altra ipotesi, secondo la quale il latino parlato sarebbe socialmente inferiore al latino classico scritto, che nei
primi secoli del Medioevo andava perdendo la sua qualità, finché la riforma carolingia, riportando all’originale
correttezza il latino, ha rotto il suo legame con le varietà parlate. Quando latino e volgare sono sentite come lingue
diverse, bisogna ricordare che entrambe sono lingue parlate; il latino era sempre stato e restava ancora al 600 d. C.
un sistema complesso, dalla prestigiosa norma letteraria al più basso grado di sub-standard. La norma letteraria era
rimasta a lungo compatta perché espressione di un grande impero, ma a partire dal 400 d.C. inizia a caratterizzarsi
regionalmente. Il sistema non aveva più un riferimento univoco né politico, nella struttura imperiale, né sociale,
nell’antica classe senatoriale. La sua complessità lo spingeva verso la rottura e alla fine è arrivata, anche se in tempi
e luoghi diversi. Le comunità presero coscienza di non parlare il latino dei classici e si determinarono 2 sistemi
diafasici paralleli:

1- Quello latino che si articolava a partire dalla norma degli scrittori antichi e cmq dall’uso degli scrittori
medievali contemporanei fino al sub-standard.
2- Quello romanzo, diverso da regione a regione, in una prima fase priva di un livello scritto/letterario, che si
andò costituendo per tentativi, partendo dall’oralità e dalle occasioni di necessità di scrittura.
Una percentuale modesta continuava a servirsi del latino che era rimasto più omogeneo per il suo riferimento alla
scuola, ai classici e alla chiesa. Fu da questi bilingui che venne la spinta a dotare anche i sistemi volgari di usi scritti.
Le differenze e le specificità che si notano oggi tra area e area, implicano che il processo di affermazione dei testi
scritti romanzi, sia diverso da area ad area. Nell’area d’oil si producono molto presto testi letterari, prima religiosi,
poi profani, che per qualità e qualità non hanno confronto in altre aree e acquisiscono grande influenza anche fuori
dall’ambito romanzo. Per contro, l’uso documentario del volgare ci appare molto tardi, dopo il 1220. Nell’area
occitana invece i testi documentari e giuridici compaiono presto e in buon numero; la penisola italiana ha prima del
1200 un’eterogeneità di testi, anche letterari, poi si forma sull’asse Toscana-Sicilia una forte tradizione di poesia lirica
e subito dopo la prosa conosce una straordinaria diffusione soprattutto in Toscana, da cui proviene gran parte della
documentazione italoromanza. Nell’area castigliana il volgare si impone autonomamente in prosa e in poesia solo
dopo il 1200.

Il mondo europeo del X-XIV secolo è molto frammentato e ciò che accade può difficilmente ridursi a processi
semplici. Un fatto fondamentale, come l’affermazione della supremazia culturale della Francia (intesa come area tra
la Loira e la Mosa) avvenne dopo le Crociate, quando le tradizioni scrittorie locali si erano in parte formate.
Nell’Europa romanza, come in quella germanica, il mito dell’Impero unitario rimarrà vivo a lungo, ma la realtà
rimarrà quella del frazionamento e della differenza.

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