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A partire dalla metà degli anni ’20 un numero crescente di italiani dovette affrontare il

carcere o il confino politico, l’esilio o la clandestinità. Non tutti gli antifascisti


sperimentarono i rigori della repressione. Molti, anzi i più, scelsero il silenzio o cercarono
di sfruttare i ridotti spazi di autonomia culturale che il regime lasciava sussistere
purché non si trasformassero in centri di opposizione politica. Fu questa la strada scelta
dalla maggior parte dei popolari e dei liberali non fascistizzati e anche da molti
socialisti. Se i cattolici potevano contare su qualche forma di tacito e prudente
appoggio da parte di una Chiesa che restava pur sempre alleata del fascismo, i liberali
trovarono un importante punto di riferimento in Benedetto Croce. Protetto dalla sua
notorietà internazionale, ma anche da una precisa scelta del regime, l’anziano filosofo
poté proseguire senza eccessivi fastidi la sua attività culturale e pubblicistica, evitando
però ogni esplicita presa di posizione politica. Grazie ai suoi libri e alla sua rivista «La
Critica», che continuò a stamparsi per tutto il ventennio, molti intellettuali ebbero la
possibilità di conoscere e mantenere in vita la tradizione dell’idealismo liberale,
contrapposta a quella nazionalista e tendenzialmente totalitaria impersonata da
Gentile.
Per coloro che intendevano opporsi attivamente alla dittatura, restavano aperte solo
due strade: l’esilio all’estero e l’agitazione clandestina in patria. A praticare fin dall’inizio
quest’ultima forma di lotta furono soprattutto, anche se non esclusivamente, i
comunisti: gli unici preparati all’attività cospiratoria, sia per le caratteristiche della loro
struttura organizzativa, sia perché erano stati oggetto per primi di una repressione
sistematica da parte delle autorità. Durante tutto il ventennio, il Partito comunista
riuscì a tenere in piedi e ad alimentare dall’interno e dall’estero una propria rete
clandestina, a diffondere opuscoli, giornali e volantini di propaganda, a infiltrare suoi
uomini nei sindacati e nelle organizzazioni giovanili fasciste. Tutto questo nonostante i
modesti risultati immediati e gli altissimi rischi cui andavano incontro i militanti: più di
tre quarti dei 4500 condannati dal Tribunale speciale e degli oltre 10 mila confinati fra il
’26 e il ’43 furono infatti comunisti.
Anche gli altri gruppi antifascisti cercarono di tenere in vita qualche isolato nucleo
clandestino in Italia. Ma la loro attività principale si svolse all’estero, soprattutto in
Francia, già sede di una numerosa comunità italiana, dove si erano rifugiati molti
esponenti antifascisti.
Nel 1927 questi gruppi si federarono in un’organizzazione unitaria, la Concentrazione
antifascista, che si ricollegava all’esperienza dell’Aventino, ereditandone però, con il
contenuto ideale, anche i limiti pratici e le divisioni interne. Nonostante ciò, i partiti
della Concentrazione svolsero un’attività importante a livello di testimonianza e di
propaganda, fecero sentire la voce dell’Italia antifascista nelle organizzazioni
internazionali, stamparono i loro giornali, proseguirono in esilio le elaborazioni
ideologiche e i dibattiti politici iniziati in patria sulle ragioni della loro sconfitta e sui
possibili fattori di una riscossa democratica. Di particolare interesse fu la riflessione
autocritica che vide impegnati i socialisti e che portò, nel 1930, in un congresso tenuto a
Parigi, alla riunificazione dei due tronconi in cui il Psi si era diviso nel ’22.
Un nuovo impulso all’azione concreta contro il fascismo e un’aperta critica alla tattica
attendista della Concentrazione vennero dal movimento di Giustizia e Libertà, fondato
nell’estate del ’29 da due antifascisti della giovane generazione: Emilio Lussu e Carlo
Rosselli, che nel ’37 sarebbe stato assassinato in Francia da sicari fascisti assieme al
fratello Nello. GL voleva essere innanzitutto un organismo di lotta, capace di far
concorrenza ai comunisti sul piano dell’attività clandestina; ma si proponeva anche
come nucleo di una nuova formazione politica che sapesse coniugare gli ideali di
libertà e di giustizia sociale, ricomponendo la frattura fra liberalismo e socialismo
secondo le linee indicate da Rosselli in un libro del 1930 intitolato Socialismo liberale.
Fortemente polemici verso i partiti della Concentrazione, ma altrettanto ostili ai
tentativi di GL, erano i comunisti, attestati su una posizione di rigido isolamento. Anche
i comunisti avevano un “centro estero” con sede a Parigi, ma il vero centro dirigente era
a Mosca. Palmiro Togliatti, il leader che guidò il partito negli anni dell’esilio, era anche
un dirigente di primo piano della Terza Internazionale. Era dunque inevitabile che il Pci
si allineasse senza riserve alla strategia dettata da Mosca, che ne seguisse fedelmente
anche le formulazioni più settarie, che si adeguasse all’imperante culto di Stalin. I
dirigenti che assunsero posizioni eterodosse furono espulsi dal partito. Le critiche alla
linea ufficiale formulate in carcere da leader come Umberto Terracini e Antonio
Gramsci rimasero sconosciute ai militanti. Egualmente sconosciute rimasero le
originali riflessioni sulla storia d’Italia, sul ruolo degli intellettuali e sulla strategia del
partito elaborate, sempre in carcere, da Gramsci e affidate ai quaderni di appunti che
sarebbero stati pubblicati nel secondo dopoguerra, molti anni dopo la morte, nel 1937,
del loro autore.
A metà degli anni ’30, la svolta dei “fronti popolari” aprì anche per l’antifascismo italiano
una fase nuova, che vide il Pci riannodare i contatti con le altre forze d’opposizione,
partecipare alle manifestazioni unitarie contro il fascismo, stringere nel ’34 un patto di
unità d’azione con i socialisti. Ma questa stagione, che conobbe il suo momento più alto
con l’esperienza della guerra di Spagna, durò solo pochi anni. Il fallimento del Fronte
popolare in Francia, le lotte interne allo schieramento repubblicano in Spagna, gli echi
delle “grandi purghe” staliniane, la rottura fra l’Urss e le democrazie occidentali
culminata, come vedremo più avanti, nel patto tedesco-sovietico del ’39 si ripercossero
negativamente sull’unità del movimento antifascista italiano, che fu colto disorientato
e diviso dallo scoppio del secondo conflitto mondiale.
Se si volesse tracciare un bilancio del movimento antifascista in base ai suoi scarsi
successi immediati, si dovrebbe concludere che la sua incidenza sulla situazione
italiana di quegli anni fu poco più che nulla. Per molto tempo gli antifascisti attesero
invano un grande sommovimento popolare che abbattesse il regime. Si illusero che lo
scossone potesse venire dalla grande crisi o dall’avventura etiopica, dovendo poi
constatare che il fascismo era uscito rafforzato dall’una e dall’altra. Eppure il
movimento antifascista svolse, fra il ’26 e il ’43, un ruolo di grande importanza politica
oltre che morale: testimoniò con la sua sola presenza l’esistenza di un’Italia che non si
piegava alla dittatura e ad essa diede voce e rappresentanza politica; rese possibile il
sorgere, dopo il ’43, di un movimento di resistenza armata al nazifascismo, anticipò con
le sue riflessioni teoriche e i suoi dibattiti molti tratti della futura Italia democratica.

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