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Bella, horrida bella. Guerre, orride guerre. Così Virgilio definiva la guerra, con un particolare controsenso.

Eppure è proprio che nella sua etimologia latina che si coglie 'attrazione fatale tra il rischio e la gloria, la
seduzione della battaglia e la perversione del conflitto.

Guerra ed umanità sono intrinsecamente legati e finché sopravvivrà l’una esisterà anche l’altra perché la
storia dell’uomo può essere vista come storia di conflitti, e l’evoluzione dell’umanità corre parallelamente e
spesso si interseca con quella della guerra. La natura bellicosa dell’uomo ha origine dalla necessità
dell’autoaffermazione, di primeggiare e arricchirsi a spese dell’altro.

Da sempre la letteratura -a partire dai poemi epici- ha cercato di sublimare la ferocia della guerra attraverso
le immagini dell’eroe. Ai poeti e agli artisti viene assegnato il compito di trasfigurarla affinché l’orrore vada
di pari passo con l’ammirazione delle gesta eroiche.

Ogni epoca ha i propri eroi reali o inventati, ciò che li accomuna è il loro obiettivo: proteggere i “buoni”
sconfiggere il male, ottenere la gloria ed essere ricordati dai posteri. L’eroe è prima di ogni altra cosa un
prodotto culturale e ideologico della società che lo crea, un modello di comportamento che in epoca antica
veniva offerto alle comunità attraverso la narrazione del mito e dell’epoca; sono figure esemplari in cui si
rispecchiano i valori condivisi del sistema socio culturale a cui appartengono.

Essi sono uomini dotati di virtù quali il coraggio e il valore che li rendono simili agli dei. Sono persone capaci
di imprese straordinarie, impossibili per la gente comune; considerano il campo di battaglia il mezzo per
dimostrare il loro valore e non hanno paura della morte, se non quella senza onore.

Sono personaggi da cui prendere esempio nel comportamento e nel pensiero. Possiedono infatti alcuni
valori che chiunque dovrebbe avere: sono coraggiosi, impavidi, difensori del bene e della patria. Uno dei
principali valori degli eroi è l'aretè: il valore militare, la forza fisica e d'animo, virtù che possedeva senza
ombra di dubbio Giulio Cesare. Grande generale romano più volte riuscì a rovesciare a suo vantaggio
situazioni di difficoltà, anche esponendosi personalmente in prima fila come accade nel passo del VII libro
del De bello Gallico sull’assedio di Alesia e la guerra contro gli Arverni: “… risollevate le sorti del
combattimento e respinti i nemici, si dirige là dove aveva inviato Labieno; fa uscire quattro coorti dalla
fortificazione più vicina, ordina a una parte dei cavalieri di seguirlo, a un’altra parte di girare intorno alle
fortificazioni interne e di attaccare il nemico alle spalle…”.

La celebrazione delle proprie capacità non è disgiunta in Cesare da una sincera ammirazione per gli atti di
coraggio e di eroismo dei suoi soldati, che egli menziona esplicitamente, conferendo ai loro nomi
l’immortalità che deriva dalla pagina scritta. Nel De bello Gallico loda ad esempio, la tenacia della legione al
comando di Quinto Tullio Cicerone nel resistere all’assalto dei Galli e riferisce il gesto di Baculo che, seppur
infermo, non esita a difendere la porta dell’accampamento dall’assalto nemico, ridando vigore ai compagni.
Lo stretto legame di fiducia e fedeltà tra Cesare e i suoi uomini è ancora più evidente nel De bello civili: in
una guerra che contrappone Romani a Romani, fondamentale, per i soldati, è la condivisione di obiettivi,
progetti, speranze del proprio leader. Il centurione Crastino che dopo aver spronato i suoi a seguirlo e a
battersi valorosamente, si lancia per primo contro il nemico e dichiara essere disposto a morire, pur di
guadagnarsi la gratitudine del proprio comandante, che lo ripaga menzionandolo nei Commentarii.

Nonostante l’errore tattico del suo luogotenente Curione in Africa, Cesare proietta su di lui una luce di
eroismo: pur potendo mettersi in salvo, Curione sceglie di morire con i suoi, per dimostrare fino alla fine la
fedeltà al proprio comandante.

Il caso più famoso di antieroe nella letteratura greca antica è Tersite: personaggio dell’Iliade, Omero lo
descrive come il peggiore fra tutti i guerrieri achei giunti sotto le mura della città di Troia. A differenza di
Achille, bello e forte come tutti gli eroi classici, oltre che vile Tersite era anche fisicamente poco prestante:
gobbo, zoppo, e con la testa oblunga, di buono aveva solo l’abilità oratoria. Che usò però per i motivi
sbagliati, tentando di convincere i suoi ad abbandonare il campo di battaglia.

Ideali diversi possiede invece il poeta lirico spartano Tirteo che in un frammento dichiara: “La migliore
sorte, per un valoroso, è cadere in battaglia combattendo eroicamente nelle prime file. Invece, chi salva la
vita con la fuga perde l’amore e vaga esule con la sua famiglia, circondato dall’unanime disprezzo. Dunque,
è necessario combattere audacemente per la patria e per i figli, senza pensare a salvare la vita”.

Giacere morto è bello, quando un prode lotta per la sua patria e cade in prima fila. Abbandonare la città, le
sue ricche campagne, e mendicare, vagando con la madre diletta, il padre vecchio, i bimbi, la cara sposa, è
la cosa più turpe. Dovunque giunga l’esule sarà come un nemico, vittima del bisogno e dell’odiosa miseria. E
insozza la sua stirpe, guasta la figura, ogni infamia lo segue, ogni viltà. Se per chi va così ramingo non c’è
cura, non c’è rispetto o riguardo o pietà, combattiamo coraggiosi per la patria, e per i figli moriamo. E non
risparmiamo la vita.

In età contemporanea la letteratura tratta il tema della guerra diversamente: essa viene indagata sotto una
luce nuova, si espongono chiaramente le difficoltà fisiche e psicologiche che i soldati devono saper
sopportare in condizioni estreme.

Il poeta Giuseppe Ungaretti che ha vissuto in prima persona la terribile esperienza dei due conflitti
mondiali, esprime in versi ciò che sente, senza usare immagini violente, ma ricorrendo ai propri moti
dell’animo. Nel suo componimento Fratelli si parla della fragilità umana, della precarietà della vita e del
timore primordiale dovuto all’aleggiare costante della morte. Tuttavia, con l’appellativo di fratelli, i soldati
riconquistano la propria umanità e l’immagine della foglia diventa un elemento di consolazione e un tiepido
affacciarsi della vigoria e della positività, nonostante l’esperienza traumatica della guerra.

I soldati, avendo sempre davanti ai propri occhi immagini di morte, sono ben consapevoli della tragedia alla
quale stanno prendendo parte e di quanto siano fragili, tuttavia riescono anche a comprendere che la
caducità è una caratteristica peculiare dell’intera condizione umana e accomuna tutti gli uomini in un
sentimento di dolorosa fraternità. Gli uomini prendono coscienza di ciò e desiderano ribellarsi all’orrore
della guerra attraverso un’”involontaria rivolta” che possa permettere loro di tornare gradualmente alla
vita.

In conclusione la guerra non colpisce solamente i soldati direttamente coinvolti nello scontro ma affligge
anche le persone più care a questi: è il caso di Genoveffa Cecconi Cervi, madre dei fratelli Cervi, partigiani
fucilati dai fascisti nel periodo della Resistenza. La narrazione di Piero Calamandrei ci ha consegnato una
figura dolente, vinta dal dolore che non augura ad altri madri di provare il suo stesso strazio: “non vi
rimprovero o figli d’avermi dato tanto dolore l’avete fatto per un’idea perché mai più nel mondo altre
madri debban soffrire la stessa mia pena”.

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