LE RIVOLUZIONI BORGHESI
Rivoluzione atlantica: impone cambiamenti radicali sulla politica, siccome è una rivoluzione che avviene
sulle due sponde dell’atlantico:
rivoluzione americana 1776: passaggio dalle vecchie colonie inglesi alla nascita degli stati uniti
d’America. Nel periodo precedente sin dal 600 esistevano queste 13 colonie inglesi nelle quali vi era
un certo malcontento che cresceva nel corso del tempo nei confronti della madrepatria, soprattutto
per il pagamento delle tasse, infatti in Inghilterra c’era questo principio fondamentale del “no
taxation whitout rapresentation”, cioè nessuna tassazione doveva essere data senza
rappresentanza; i coloni infatti non si sentivano rappresentati e per questo motivo avevano un
malcontento crescente nei confronti della corona britannica. Ad un certo punto, siamo nel 1776,
negli stati uniti viene scritto un importante testo dall’intellettuale radicale americano Thomas
Paine, che prende il nome di Common Sense (senso comune). In questo testo veniva per la prima
volta teorizzato il diritto alla resistenza conto un potere che si comportava in maniera arbitraria,
come una vera e propria tirannia. Questa fu la sistemazione teorica di ciò che di fatto accadde da li
a breve infatti il 4 luglio 1776 ci fu la famosa dichiarazione d’indipendenza delle colonie inglesi,
delle ex colonie inglesi, che si autoproclamarono degli stati indipendenti dalla madre patria. Questi
stati si unirono ed ecco che vennero fuori gli stati uniti d’America. Ovviamente gli inglesi non
restarono a guardare, scoppiò infatti una guerra nella quale gli americani ebbero il sostegno
fondamentale dei francesi, così che negli anni 80 questa indipendenza andò in porto e nacque la
confederazione degli Stati Uniti d’America, una confederazione che era una struttura
sovranazionale da questi stati indipendenti, che si occupava fondamentalmente di due questioni, la
politica estera (politica di difesa) e politica militare. Per tutti gli stati valeva il principio del
federalismo, ovvero ogni stato aveva autonoma la propria politica interna. Tutto questo precipitò
all’interno di un testo fondamentale, la costituzione degli stati uniti d’America che venne approvata
nel 1787. Questa costituzione è stata talmente efficace che si è mantenuta uguale a quella attuale.
Passarono pochi anni e nel 1791 vennero votati i primi 10 emendamenti della costituzione
americana che andarono a costituire il bill of rights del 1791 (una sorta di dichiarazione dei diritti
fondamentali della persona che nessun tipo di potere potrà mai mettere in discussione).
Fondamentale capire che molti di questi emendamenti sono in vigore tuttora come il principio di
separazione dei poteri (esecutivo, legislativo e giudiziario). Questo principio è fondamentale
siccome permette il passaggio da una forma di potere assoluto di diritto divino ad un potere
costituzionale, che fa riferimento alla costituzione.
Rivoluzione Francese 1789: ache in questo caso vi era un retroterra di forte malcontento all’interno
della popolazione e in particolare all’interno del terzo stato (gli stati erano i nobili, il clero e la
borghesia), soprattutto per l’elevata tassazione. Il sovrano difronte a tutto ciò decise di convocare
gli stati generali. Era da parecchio tempo che non venivano convocati, l’ultima convocazione risale
al 1614. I rappresentanti del terzo stato che sapevano che sarebbero stati svantaggiati in quanto
fossero in minoranza rispetto al clero e ai nobili, decisero d rifiutare queste regole, creando quindi
questa rottura rivoluzionaria, dando vita al famoso giuramento della pallacorda, col quale il terzo
stato si proclamò assemblea nazionale. Viene quindi fuori il concetto di nazione, col quale le
persone diventavano cittadini e acquistavano conseguentemente dei diritti fondamentali e dei
doveri senza sottostare ad un potere assoluto. Di fronte a questo giuramento il sovrano provò a
reagire inutilmente, sfociando poi nella presa della Bastiglia (carcere) del 14 luglio 1789. Passarono
pochi giorni e questa assemblea votò la dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino, un
documento che diede inizio alla storia contemporanea, nella quali si diceva che tutti gli uomini sono
uguali e che non devono sottostare a nessun potere assoluto ma devono sottostare solo alle leggi.
Questa dichiarazione la ritroviamo in un testo fondamentale che è la costituzione francese del
1791, che segna il passaggio dal potere assoluto a costituzionale.
Nello stesso momento in cui avvengono queste due grandi rivoluzione, accade un’altra grande rivoluzione
che è quella economica , che è quella industriale. Così come le rivoluzioni francese e americana, anche la
rivoluzione industriale inglese cambia completamente muta all’occidente.
epicentro: Inghilterra
Se prima la principale fonte di energia era l’uomo o gli animali adesso diventano le macchine (in particolare
il vapore). Muta completamente il modo di produrre, soprattutto in campo tessile (cotone, lana, filatura).
Un altro settore molto influenzato è quello metallurgico e successivamente quello dei trasporti
(locomotiva). Nascono le prime ferrovie all’inizio dell’800, così come i primi treni e le fabbriche che
producono ferrovie e treni, dando così una svolta all’economia. Cambia radicalmente il modo di lavorare: se
prima il lavoro era concentrato quasi esclusivamente nei cambi e sul lavoro della terra, con la rivoluzione
industriale il lavoro si sposta nelle industrie e nelle città. Si assiste infatti ad uno spostamento delle persone
dalle campagne alle città e ad una concentrazione della popolazione nelle prime fabbriche e imprese. È un
lavoro che diventa più subordinato, rispetto a quello più libero delle campagne. Ci sono lavoratori che
dipendono da altri soggetti (imprenditori) che sono i proprietari di queste prime fabbriche. Il settore più
importante diventa quello secondario, non più quello primario delle campagne. Questa rivoluzione
industriale che gli storici chiamano la prima rivoluzione industriale basata sulla macchina a vapore ha come
epicentro la Gran Bretagna e dura fino ai primi decenni dell’800, per poi pian piano trasferirsi negli altri
paesi d’Europa. Sul finire dell’800 inizierà la seconda rivoluzione industriale, il cui epicentro si concentrerà
negli Stati Uniti d’America diventati la maggiore potenza del mondo e si caratterizzerà per altre invenzioni
(lampadina, radio, telefono, motore a scoppio, esplosivi). Sempre più settori pesanti rispetto a quelli leggeri
della prima rivoluzione. Anche sul piano dei trasporti avremmo una grande invenzione, l’automobile alla
quale seguirà la navigazione a motore e l’aereonautica.
Ci sono diverse interpretazioni della rivoluzione industriale che portò si grandi benefici, ma anche molti
traumi (inquinamento, condizioni di lavoro, etc.…). Se si applica però un’ottica di lungo periodo è evidente
che i benefici si vedono prevalere sugli aspetti negativi, che esistevano anche numerosi prima della
rivoluzione industriale. David Landes rievoca la figura del Prometeo di Eschilo come paradigma simbolico
della maggiore trasformazione conosciuta dall’umanità: la rivoluzione industriale. Una svolta che ha
innescato una serie di mutamenti in grado di investire gli ambiti più diversi del reale, a partire dai sistemi di
produzione fino ad arrivare ai più vari aspetti della vita politica, sociale, culturale. Il Prometeo Liberato è
stato accolto come un’importate contributo in grado di fornire uno sguardo d’insieme, completo e
approfondito, sul processo di industrializzazione nel continente. Landes ha di fatto riscritto l’intera storia
dell’industria in Europa Occidentale. Come scrive Landes, questa rivoluzione industriale poteva avvenire in
Inghilterra siccome esistevano le condizioni ideali. Era infatti una società aperta sul piano economico e
culturale, nella quale veniva data molta importanza all’istruzione tecnica. A questa tesi di Landes se ne è
aggiunta nel corso degli anni un’altra, di uno storico americano che con i suoi studi storici sul territorio delle
fiandre (Belgio, paesi bassi) che non riguardavano il 700, ma il 600 e diceva che già nel 600 esisteva un tipo
di lavorazione che avveniva nei telai, nei momenti in cui non si poteva lavorare all’aperto nelle campagne,
nei quali venivano lavorati i tessuti. In Italia, come in molti paesi europei, la rivoluzione industriale fu più
lenta e meno traumatica ed ebbe uno dei maggiori epicentri nella zona di Biella con l’industria lamiera.
BORGHESIA E PROLETARIATO
La rivoluzione industriale è stata talmente dirompente che ha portato cambiamenti e novità non solo il
campo economico, ma anche sulla società. Il primo e più evidente cambiamento sociale è il fenomeno
dell’urbanizzazione, ovvero lo spostamento (la fuga, dicono gli storici) degli abitanti dalle campagne alle
città. Le città cominciano ad assumere un peso crescente e un numero elevato di cittadini. Londra passa da
mezzo milione di abitanti a 5 milioni di abitanti. Questo svuotamento delle campagne avvenne non solo a
causa della rivoluzione, ma anche per una profonda crisi agraria, che produce moltissima disoccupazione,
tanto che nelle campagne europee si verifica il fenomeno delle migrazioni, non solo verso le città, ma anche
verso altre nazioni e soprattutto verso l’America.
Il secondo grande evento sociale è la nascita di nuove classi sociali. In passato la maggior parte della
popolazione era composta da proprietari terrieri e da contadini, visto che la vita era soprattutto nelle
campagne. Con le rivoluzioni borghesi la società tende a diversificarsi, infatti accanto ai proprietari terrieri e
ai contadini, si affacciano due nuove classi sociali: la borghesia e il proletariato. Uno degli aspetti
fondamentali delle rivoluzioni è stata l’uguaglianza giuridica dei cittadini (non femminile), che fa si che la
società si riorganizzi economicamente.
LA BORGHESIA
La borghesia è la classe rivoluzionaria perché fa la rivoluzione e scalza dal potere chi in precedenza lo
possedeva (aristocrazia). Il lavoro della borghesia era un lavoro diretto, non viveva di rendita come avevano
fatto per secoli i proprietari terrieri, ma produceva e producendo realizzava direttamente la sua ricchezza.
La borghesia quindi a cavallo tra il 700 e 800 prende il potere. Cos’è la borghesia? Ci sono due importanti
interpretazioni di Carl Marx e Max Weber. L’interpretazione di Marx è di stampo economico e strutturale
della società. Per lui la borghesia è la classe sociale che detiene i capitali e la proprietà dei mezzi di
produzione. Grazie a questa proprietà riesce ad imporre un certo tipo di produzione con lo sfruttamento
del proletariato. Per Max Weber non conta tanto la struttura economica, bensì la dimensione culturale (che
a Marx non importava), i valori di abnegazione, risparmio, sacrificio. Marx era infatti un economista e
Weber un sociologo. Ciò che unifica tutte le borghesie mondiali sono tre aspetti:
La proprietà privata, che detiene la borghesia e che serve per avviare iniziative e per la
produzione
La libera iniziativa, fondamentale per lo svolgimento delle attività borghesi. Libertà di muoversi
liberamente
Profitto, per Marx è il plusvalore. Il borghese ha le sue dipendenze (proletari) che
rappresentano un costo, ma che è un costo inferiore rispetto a quello che l’imprenditore
riscuote vendendo sul mercato. Per Weber il profitto era la remunerazione del rischio; infatti il
borghese secondo il sociologo rischiava sul mercato con affari e investimenti e se questi fossero
andati in porto vi sarebbe stato un profitto.
L’imprenditore è la figura per eccellenza del borghese che si è fatto da sé, che ha deciso di rischiare i suoi
capitali e produrre un determinato bene da vendere sul mercato.
PROLETARIATO
Il proletariato subisce l’azione e le iniziative della borghesia per tutta l’epoca delle rivoluzioni borghesi. Nel
1848, anno delle grandi rivoluzioni d’Europa che portano effettivamente la borghesia al potere, esce il
famoso manifesto del partito comunista di Marx, un’analisi economica, ma soprattutto politica in cui si
indica il proletariato come la nuova classe rivoluzionale, che farà la rivoluzione nei confronti della
borghesia. Il primo proletariato delle rivoluzioni borghesi ha una struttura sociale piuttosto diversificata.
Questo proletariato era composto dagli ex artigiani (ex perché vanno completamente in crisi con la
rivoluzione industriale, perdono la bottega e il lavoro e diventano proletari, lavoratori dipendenti all’interno
delle grandi fabbriche), ex contadini (costretti progressivamente ad abbandonare la terra, siccome la vita
nelle campagne era una vita molto dura, sofferta, esposta alle intemperie e ai di fenomeni naturali, mentre
il lavoro nelle fabbriche è un lavoro più sicuro. Perciò anche i contadini abbandonano le campagne e vanno
a lavorare nelle fabbriche) e dalla figura dell’operaio contadino che in certi periodi dell’anno lavora la terra
e quando questo non è possibile in altri periodi va a lavorare in fabbrica. Una caratteristica del primo
proletariato è l’enorme quantità di lavoro minorile e femminile, innanzitutto perché il lavoro delle
macchine è molto semplice e non necessita di qualificazioni e abilità, in secondo luogo perché queste due
categorie di lavoratori hanno una certa manualità che in alcuni settori come quello tessile e
dell’abbigliamento era assai richiesta. Quindi la composizione del primo proletariato era piuttosto
eterogenea. Le condizioni di vita del primo proletariato appaiono abbastanza dure, tanto che alcuni
rimpiangono il periodo precedente, non soltanto per i rigidi orari di lavoro, ma anche per le condizioni
insalubri delle fabbriche e delle città, dovute soprattutto al sovraffollamento. Nasce quella che gli studiosi
già in quel periodo chiamavano “questione sociale”, cioè il pensiero che la rivoluzione industriale genera sia
ricchezza per i borghesi che difficoltà per i proletari e condizioni disastrose per gli operai. L’interpretazione
di Marx del proletariato: come dice la parola stessa deriva da prole (figli), infatti questi lavoratori non hanno
altro che i figli; è quella nuova classe sociale che non detiene la proprietà privata di nulla, ma hanno
solamente le loro braccia e la famiglia e vivono di quello che viene definito salario (sono quindi lavoratori
salariati). Ecco quindi che da questo dislivello delle due classi sociali deriva ciò che Marx chiama lotta di
classe, secondo la quale c’è il proletariato che deve reagire nei confronti della borghesia. All’interno del
manifesto di Marx viene detto che il proletariato deve unirsi nella lotta contro la borghesia, per far si che si
crei una società non tanto basata sulla libertà sociale, ma soprattutto sull’uguaglianza di tutti gli uomini
(quella che sarà poi la società comunista).
Il proletariato può essere studiato nella sua collocazione di lavoro come fa il Marx economista, nella sua
dimensione politica come classe che diventerà la classe rivoluzionaria, ma anche nella dimensione sociale e
culturale come fa Thompson nel The Making of English Working Class, che ha cambiato la storia del lavoro,
dicendo che il proletariato va studiato non solo all’interno del luogo di lavoro ma anche fuori da esso, nei
quartieri, nelle piazze, nelle parentele, nei valori.
Dalla vicenda storico, politica, economica, culturale, sociale della borghesia discende la storia dell’impresa e
da quella del proletariato discende la storia del lavoro. La storia dell’impresa nasce come una qualsiasi
storia economica di tipo fiscale, matematica, ma accanto a questo studio se ne affianca un altro sempre
sulla storia d’impresa (business history), ma di tipo micro, che non studia la politica fiscale o economica, ma
le singole aziende, le singole imprese ed enti, non solo attraverso fonti matematiche e statistiche, non solo
in termini quantitativi, ma anche qualitativi.
Il lavoro è sempre esistito. Definizione sostanziale: Il lavoro è qualsiasi attività che viene svolta dagli
uomini finalizzata alla sopravvivenza. Ma questa definizione non è sufficiente, siccome manca quella parte
che specifica la retribuzione dell’attività. Definizione formale: il lavoro è un’occupazione sistematica e
specializzata che produce un reddito. Non si guarda solo la sostanza ma anche ciò che circonda il lavoro. Le
casalinghe non sono considerate lavoratrici vere e proprie, siccome si lavorano in modo sistematico, ma
non sono stipendiate. Il concetto di lavoro passa da sostanziale a formale con la cesura della Rivoluzione
Industriale, siccome prima non si parlava di reddito (per la borghesia) e salario (per il proletariato). Tutte le
attività che non producono un reddito sono da considerare come hobby o tempo libero. Marx parla di
lavoro astratto, perché il lavoratore quando lavora nelle fabbriche e nelle aziende si astrae dalla merce che
produce. Il lavoro del lavoratore prescinde dal risultato finale, partecipa ad una catena che produrrà la
merce, che non verrà utilizzata dal lavoratore, ma verrà messa sul mercato
Franco Ramella, Terra e telai. Sistemi di parentela e manifattura nel biellese dell’Ottocento: il titolo
evidenzia il discorso della pluriattività, il fatto che questi primi lavoratori erano impiegati nell’industria
tessile, ma continuavano a lavorare i loro terreni. Il biellese fu uno dei tre principali centri lanieri italiani. Il
periodo preso in considerazione sono gli anni centrali dell’800, anni della rivoluzione industriale, che
travolse tutti i sistemi sociali. Nei territori in cui non c’erano i grandi centri industriali più che di rivoluzione
industriale bisogna parlare di un fenomeno più dilatato nel tempo, la proto-industria, grandi trasformazioni
in campo industriale che non avvennero dall’oggi al domani, ma nel corso degli anni. Questo volume ci
racconta una storia molto importante, considerata come un punto di partenza per l’avvenire, i tumulti del
1854, tumulti popolari in cui il popolo prese a protestare contro l’aumento del prezzo della farina e del
pane. I protagonisti di questi tumulti furono soprattutto i lavoratori del biellese, composti esclusivamente
da uomini adulti. Il termine finale della storia di Ramella è la vertenza del 1889 di tipo sindacale per
ottenere un aumento dei salari e una diminuzione degli orari. Le protagoniste di questa vertenza erano le
donne, siccome erano loro a lavorare per lo più nei telai meccanici. L’arma più utilizzata da queste
lavoratrici erano gli scioperi e i risultati per quella specifica comunità furono per lo più positivi. Tra il 54 e
l’89 ci furono soprattutto due grandi eventi, gli scioperi del 1864 e del 1877. Nel 1864 a Biella e in Italia si
ebbero i primi scioperi da parte dei lavoratori dell’industria, non tumulti popolari, ma dei veri e propri
movimenti di astensione collettiva dal lavoro. I protagonisti furono proprio quei tessitori a mano,
protagonisti anni prima dei tumulti del pane. Questi scioperi all’interno dei luoghi di lavoro servivano per
contrastare il sistema delle multe. Questi scioperi furono talmente sorprendenti che le autorità dell’epoca
decisero di muoversi. In particolare, si mosse un politico biellese Mancini che cercò di mediare tra gli
interessi dei lavoratori e quelli degli imprenditori e ne venne fuori un documento, il <<lodo Mancini>>, una
sorta di regolamento di fabbrica, frutto di una forma iniziale di contrattazione collettiva. Nel 1877 ci furono
nuovamente scioperi nel biellese, da parte dei soliti tessitori a mano sempre nei confronti delle multe che
andavano a colpire i già bassi guadagni dei lavoratori. Infatti, nel corso di questi 13 anni la situazione non
era praticamente cambiata, nonostante il <<lodo Mancini>>, si poteva forse ritenere peggiorata. Questa
volta le autorità politiche si mossero a livello nazionale, con il Parlamento italiano che nel 1877 decise
varare la prima Commissione parlamentare d’inchiesta della storia italiana incaricata di studiare questo
fenomeno degli scioperi. Questa commissione pubblicò i suoi risultati in una serie di documenti ancora oggi
importanti per studiare il fenomeno degli scioperi. Questa volta, la risposta degli imprenditori fu di tipo
economico, iniziò infatti un nuovo processo di ristrutturazione industriale, con il quale venne riorganizzato il
ciclo produttivo che portò all’eliminazione dei telai a mano, grazie al quale vennero eliminati i lavoratori dei
telai, che erano operai qualificati dell’aristocrazia operaia. Questi telai a mano vennero sostituiti da telai
meccanici più semplici da utilizzare, che non richiedevano una qualifica e una certa capacità per l’utilizzo e
potevano essere utilizzati da uomini non qualificati e soprattutto dalle donne. Gli operai qualificati che
avevano condotte le lotte di quegli anni rimasero disoccupati e furono costretti ad emigrare, per lo più negli
Stati Uniti. Subentrarono così le donne, che erano state sostituite agli uomini perché si pensava fossero più
docili e facili da subordinare, ma che nel 1889 erano ricorse anche loro agli scioperi, in maniera anche più
dura dei loro predecessori, scioperi più estesi nel numero e più qualitativi nell’organizzazione. Durante
questi scioperi del 64 e del 77 era stata molto attiva la società di mutuo soccorso che proprio in quel
periodo si trasformò in una vera e propria lega di resistenza che guidava le lotte sociali e sindacali. Ecco
perché il biellese è importante nella storia industriale italiana, siccome è stato l’epicentro di una prima
forma di capitalismo industriale nel nostro paese, di una serie di scioperi dei lavoratori e della nascita delle
prime organizzazione di lavoratori dal carattere stabile e duraturo. Dal libro di Ramella viene fuori
l’importanza della comunità, il making che costruisce un lavoratore, dai rapporti famigliari e di vicinato,
dalle condizioni e dal modo di vivere. I primi scioperi non erano tanto fatti per cambiare una situazione, ma
per conservare una certa condizione che andava peggiorando ogni giorno. Questi scioperi finivano in ogni
caso per portare un mutamento, sia esso positivo o negativo.
Queste leghe di resistenza capiscono di avere poca efficacia pratica e decidono perciò di unirsi tra di loro
per dare vita a strutture più ampie. Questo allargamento può andare in due direzioni: in una direzione
orizzontale o territoriale (come per esempio per una città o una regione) o in una direzione verticale o
settoriale (per esempio tutte le aziende tessili italiane).
La rappresentanza orizzontale: le leghe di resistenza cominciano ad unirsi per avere più potere e questa
unione avviene in modo territoriale. Ed è questo il momento in cui nascono in Italia le cosiddette Camere
del lavoro, negli anni 90 dell’800 (le prime nascono a Piacenza, a Milano e a Torino nel 1891). Queste
Camere del lavoro inizialmente furono moderate, per timore di essere chiuse e perdere i finanziamenti. Le
loro funzioni sono innanzitutto funzioni di collocamento (cercano di dare lavoro ai loro iscritti), assistenza,
istruzione (insegnano agli operai, spesso analfabeti, a leggere e scrivere e anche un atteggiamento civico) e
di arbitrato (la Camera del lavoro vuole comportarsi come una sorta di arbitro tra gli interessi di due parti).
Nel 1893 nasce la prima struttura nazionale del sindacato in Italia, la Federazione nazionale delle Camere
del lavoro a Parma. Iniziano così ad espandersi le camere del lavoro in tutta Italia eccetto che al sud,
ingigantendo ancora una volta quella che è la questione meridionale. Le camere del lavoro vivono la crisi di
fine secolo,1898-1899, venendo represse e disperse e inizieranno faticosamente a rilanciarsi nel 1901.
Nel 1900 a Genova, città molto importante nel triangolo industriale per il suo porto, ci fu lo sciopero
generale. Nel 1896 venne istituita a Genova la Camera del lavoro, ma pochi giorni dopo la sua nascita
iniziano i primi problemi e scioglimenti, siccome a Genova si stanno formando delle forme di solidarietà
internazionale. Nel 1898 ci fu il secondo scioglimento sempre da parte del prefetto. La Camera del lavoro
riapre nel 1900 e nel dicembre avviene il terzo scioglimento. Il motivo di questo continuo scioglimento sono
le vittorie della Camera del lavoro, come l’aumento dei salari e la lotta nei confronti del caporalato dei porti
di Genova. Il terzo scioglimento produce un effetto molto duro, la proclamazione di uno sciopero generale
di tutti i lavoratori, il primo sciopero generale nella storia italiana. Questo sciopero blocca la città, così come
il porto e i trasporti e così facendo anche il triangolo industriale. Questo sciopero durò 5 giorni e si concluse
con la prima grande vittoria sindacale siccome il prefetto proclamò la riapertura della Camera del lavoro.
Questo evento fu talmente importante che se ne parlò anche nel parlamento e si arrivò alle dimissioni del
governo, che di lì a poco verrà sostituito dal governo Giolitti col quale si verificherà un consolidamento
rilevante dei sindacati in Italia.
Lo sviluppo della rappresentanza verticale si ha soprattutto durante l’età giolittiana, grazie al grande
cambiamento economico e alla nazionalizzazione del sindacato. Il sindacato esce dalla dimensione locale
delle leghe di resistenza e delle camere del lavoro per assumere un ruolo nazionale. È proprio durante l’età
giolittiana che si assiste alla grande diffusione in Italia delle strutture sindacali. A partire dal 1901-1902 le
camere del lavoro tornano a crescere in maniera notevole. Se ne costituirono tantissime in Italia, uscendo
dal limite della questione meridionale e diffondendosi in tutto il meridione. Un’altra grande caratteristica
dell’età giolittiana fu la nascita delle Federazioni nazionali di categoria; la prima fu la Federazione nazionale
del libro nel 1893 (tipografi), alla quale seguirono la Federazione nazionale dei ferrovieri nel 1894, la
Federazione nazionale degli edili nel 1900. Accanto alle prime Federazioni di mestiere di fine 800 inizio 900,
nacquero le prime Federazioni industriali, la più famosa che esiste ancora oggi è la FIOM, la federazione
italiana dei metallurgici nel 1901. L’Italia, che rimaneva un Paese ancora prevalentemente agricolo,
nonostante la rivoluzione industriale, vide nel 1901 la formazione della Federazione nazionale dei lavoratori
della terra (Federterra) a Bologna, il cui programma politico fu un programma socialista che aveva come
grande obbiettivo la socializzazione della terra (doveva essere sottratta ai grandi possedenti e resa
pubblica). Dal 1906 la Federterra venne ad essere guidata da una donna, Argentina Altobelli.
Il mondo sindacale andò organizzandosi attorno a due grandi aree molto eterogenee al loro interno:
i riformisti, quei sindacalisti orientati soprattutto alla ridistribuzione del reddito a favore delle classi
meno abbienti e all’introduzione graduale di elementi di socialismo all’interno del sistema
democratico. I principali strumenti d’azione dei riformisti erano la legislazione sociale a sostegno
dei lavoratori e la contrattazione collettiva, sostenendo che unendosi insieme i lavoratori avrebbero
ottenuto maggiori risultati che rimanendo da soli. I riformisti spingevano quindi per una forte
centralizzazione di tipo contrattuale e organizzativo, consideravano importante lo sciopero ma solo
come ultima scelta nel caso in cui non si fosse riusciti ad ottenere un accordo contrattuale.
I rivoluzionari avevano un atteggiamento fortemente antiborghese e anticapitalistico. Tra i
rivoluzionari vi erano i socialisti più fedeli al messaggio di Marx della lotta di classe, gli anarchici e i
sindacalisti rivoluzionari che rivendicavano l’autosufficienza del sindacato rispetto a tutte le altre
istituzioni di governo ottenibile attraverso la sua arma principale, lo sciopero generale. Per cui
niente legislazione sociale o contrattazione collettiva, ma solamente un’azione diretta contro gli
imprenditori e lo Stato, espressione del potere della borghesia.
Nell’età giolittiana ci fu un biennio di conflitti, lotte sociali e scioperi nel 1901-1902 che arrivo al culmine tra
il 1902-1903 con alcuni scioperi generali a livello cittadino, il primo dei quali a Torino e poi a Firenze e a
Roma.
In questo clima di scontri di scontro tra riformisti e rivoluzionari, tra Federazioni e Camere del lavoro, ci fu il
tentativo di unire e coordinare queste fazioni opposte. Così nel 1902 ci fu la costituzione del Segretariato
centrale della resistenza che aveva il compito di coordinare l’azione della rappresentanza <<verticale>> e di
quella <<orizzontale>>. Questo organismo fu piuttosto debole e saltò alla prima occasione nel 1904 quando
ci furono due uccisioni di lavoratori durante manifestazioni politiche e sindacali, che portarono i
rivoluzionari che avevano in quel momento il controllo sul segretariato a proclamare il primo sciopero
generale nazionale di tutte le categorie. Questo fu anche il primo sciopero generale nazionale in tutta
Europa. Fu uno sciopero molto organizzato ed efficace, tanto da preoccupare Giolitti, i liberali e i cattolici.
Fu così in quel momento che Giolitti ebbe l’intuizione di stringere un accordo tacito tra liberali e cattolici
che pose, alle elezioni proclamate poco tempo dopo, le sinistre in minoranza. In questo modo lo stesso
Segretariato entrò in crisi e venne sciolto di lì a poco. Infatti, nel 1906 ci fu il colpo decisivo quando i
riformisti stanchi della paralisi del segretariato decisero di andare avanti per la loro strada. Convocarono
quindi un congresso nel quale crearono la loro organizzazione sindacale, la Confederazione Generale del
Lavoro, guidato prevalentemente da riformisti e che girava quindi attorno alle idee della legislazione sociale
e alla contrattazione collettiva e vedeva nello sciopero una delle armi ultime da utilizzare, siccome il più
delle volte finivano in fallimento. Un apporto fondamentale per la nascita del CGDL fu il rapporto con il
partito socialista italiano. Il partito si occupava di tutte le questioni politiche riguardanti i movimenti operai,
il sindacato si occupava di tutte le questioni economiche riguardanti il proletariato. Per tutte le decisioni più
importanti vi era un confronto sistematico tra le due organizzazioni.
Nel 1906 si decise di dare vita alle confederazioni, siccome la <<confederalità>> era sia una soluzione
organizzativa per controllare la rappresentanza verticale ed orizzontale, ma anche un grande ideale
sindacale, siccome attraverso essa si cercava di frenare drasticamente i due pericoli principali sempre
presenti nell’azione sindacale: il corporativismo (l’egoismo delle categorie più forti rispetto a quelle più
deboli) e il localismo (l’egoismo dei lavoratori locali nei confronti dei lavoratori che vengono dall’esterno).
Dietro l’azione sindacale si cela quindi sempre il pericolo che i lavoratori più forti si impongano sugli altri più
deboli. Questo era vero un tempo come è vero ancora oggi.
Una delle caratteristiche principali del mondo sindacale italiano nell’età giolittiana era il fatto che vigeva un
sistema di pluralismo sindacale.
Ad un certo punto nella CGDL iniziò a farsi strada l’idea che il sindacato si dovesse creare una sua
rappresentanza parlamentare, un Partito del Lavoro. Questa idea venne lanciata nel 1910, ma non andò in
porto sia per l’opposizione del partito socialista, sia per l’opposizione della CGDL. Continuava intanto la
collaborazione tra CGDL e partito socialista che raggiunse il culmine nel 1911 quando proclamarono uno
sciopero generale contro la guerra in Libia decisa da Giolitti. Questo sciopero non andò benissimo, infatti la
guerra andò avanti e si concluse con la vittoria dell’Italia. Questo fu quindi un segnale d’allarme di
debolezza che si intensificò per i riformisti della CGDL quando nel 1912 al congresso del partito socialista, la
guida passò dai riformisti ai massimalisti (tra i quali c’era un giovanissimo Benito Mussolini), continuamente
in conflitto con i riformisti della CGDL. Quindi la CGDL visse una fase calante negli ultimi anni dell’età
giolittiana. Particolarmente critica era anche la situazione per i sindacalisti rivoluzionari, che utilizzarono la
loro arma principale per uscire dall’angolo, uno sciopero generale agricolo a Parma nel 1908, uno sciopero
duro e lungo contro gli agrari. Questi ultimi ebbero però la meglio grazie all’aiuto delle autorità pubbliche.
Questo fu quindi l’ennesima dimostrazione che questa strategia del sindacalismo rivoluzionario di scontro
frontale (lo sciopero) era una strategia fortemente perdente. Nel 1912 però i sindacalisti rivoluzionari che
guardavano con ostilità la CGDL, ma ne apprezzavano la forza organizzativa, diedero vita alla loro struttura
nazionale che assunse la forma di una confederazione, l’Unione Sindacale italiana. All’interno dell’USI vi
erano soprattutto le due fazioni degli anarchici e dei sindacalisti rivoluzionari, che furono i principali artefici
di quel duro scontro sociale che si verificò alla fine dell’età giolittiana, la <settimana rossa>> di durissimo
conflitto sociale. Di fronte allo scoppio della Prima guerra mondiale nel 1914 l’USI franò e si spaccò in due
parti contrapposte: gli anarchici (neutrali alla guerra) e i sindacalisti rivoluzionari (favorevoli all’intervento in
guerra). Questi ultimi lasciarono così l’USI e diedero vita alla loro confederazione sindacale nel ’18, la UIL.
I Cattolici si affacciarono sulla scena pre-sindacale con la Rerum Novarum, secondo la quale la rivoluzione
industriale doveva essere affrontata in modo cristiano, con armonia tra le classi sociali, escludendo quindi la
lotta di classe. Quindi i cattolici inizialmente si tennero lontani dal sindacalismo. Più avanti incominciarono a
nascere qua e là le prime leghe bianche, ovvero i cattolici iniziarono ad organizzarsi per offrire ai loro iscritti
servizi e aiuti e iniziarono anche i primi scioperi da parte dei lavoratori cattolici.
Anche i Repubblicani (gli eredi di Mazzini) arrivarono in ritardo nell’esperienza sindacale, proprio perché
questo nacque sotto l’idea della lotta di classe e della resistenza, mentre gli ideali repubblicani prevedevano
una collaborazione pacifica tra le classi sociali. I repubblicani vennero definiti sindacalisti gialli, siccome
facevano sindacato in modo del tutto inefficace, siccome non ricorrevano alla resistenza e agli scioperi.
Questo non vale però per tutti i repubblicani, siccome in alcune zone d’Italia, qualcuno di questi organizzò
eventi di resistenza e scioperi soprattutto con il passare degli anni. I repubblicani però non avrebbero mai
dato vita alla loro struttura sindacale, a differenza dei cattolici che nel 1918 diedero vita alla CIL.
Il 900 viene chiamato dagli studiosi, il secolo americano. Come già detto ciò che differenzia la prima
rivoluzione industriale dalla seconda sono le fonti di energia, i settori produttivi, i mezzi di trasporto, le
tipologie di aziende.
Il paese leader della seconda rivoluzione industriale che ha dominato tutto il 900 sono stati gli Stati Uniti
d’America. Dal 1861 al 65 ci fu in America una grande guerra civile tra nord e sud, la prima guerra
<<industriale>>, durante la quale ci fu una grande produzione di armi e armamenti militari, che provocò un
numero elevatissimo di vittime. La guerra si concluse con la vittoria del nord America e con l’abolizione
della schiavitù, fortemente utilizzata nel sud, essendo la parte del paese nel quale la maggior parte del
lavoro era agricolo, a differenza del nord più industrializzato. Da questo evento in poi, iniziò una nuova
stagione nella storia degli Stati Uniti, un’epoca di ricostruzione e crescita che culminò all’inizio del 900
nell’età progressista che ebbe come protagonisti Theodore Roosevelt e Thomas Wilson. Gli anni fra la fine
dell’800 e l’inizio dell’900 furono gli anni in cui costruì la famosa eccezionalità americana che permise agli
americani di affermarsi come la principale potenza economica e militare del mondo. Le caratteristiche
dell’eccezionalità americana sono molteplici:
Ci fu inoltre una grande crescita militare, che esplose nel 1898 con una guerra contro la Spagna, sancita
dalla rapida vittoria americana e dalla conquista di Cuba e delle Filippine. È da qui in avanti che gli Stati Uniti
diventeranno la più grande potenza industriale.
Il fordismo prende il nome da Henry Ford, un imprenditore che si buttò nella produzione di autovetture,
diventando ben presto il più importante produttore di auto non solo negli Stati Uniti, ma in tutto il mondo.
L’invenzione di Ford destinata a cambiare in maniera evidente il mondo della produzione industriale fu la
catena di montaggio, un nastro trasportatore che permette di accelerare la produzione industriale,
portando gli strumenti della produzione direttamente agli operai. Non sono più gli operai che si muovono,
ma i prodotti che arrivano direttamente nelle loro mani. La catena di montaggio fa la sua prima comparsa
nello stabilimento di Ford di Highlands Park nel 1914. Questa introduzione fu talmente importante che nel
giro di pochi giorni si ebbe una netta diminuzione dei tempi di lavorazione. Prima dell’introduzione della
catena per costruire una macchina Ford ci volevano 700 minuti, dopo la produzione solamente 100 minuti.
Quindi se Taylor semplicizzò il lavoro, Ford lo accelerò. Naturalmente l’azienda per mantenere quei livelli
così elevati di produzione di massa è evidente che non possa giocare più di tanto con certi aspetti come il
colore della macchina (infatti tutte le prime macchine che uscivano dagli stabilimenti della Ford erano di
colore nero). Nel 1914 Ford introduce un’altra novità. Decide di raddoppiare i salari dei suoi dipendenti
arrivando a 5 dollari all’ora. Questa innovazione quasi al pari livello della catena di montaggio, porta Ford
ad essere il primo imprenditore che guarda ai suoi operai non solo come dipendenti, ma come possibili
acquirenti dei propri prodotti di massa, in quel caso dell’automobile. Quindi il fordismo non è solo
produzione di massa, ma anche consumismo di massa. Ford aumentò infatti in maniera significativa
l’assistenza nei confronti dei suoi lavoratori: vennero costruite delle case riservate ai dipendenti, vennero
diffusi degli spacci e dei negozi nei quali questi lavoratori potevano rifornissi, venne istituita un’assistenza
sanitaria ed educativa nei confronti degli operai e delle loro famiglie.
Ci furono però anche diverse ombre nel fordismo come il grande sfruttamento umano, un maggior
controllo e una maggiore gerarchia all’interno delle fabbriche e quindi una maggiore repressione,
simboleggiata dalla presenza di una vera e propria polizia interna incaricata di tener l’ordine pubblico negli
stabilimenti. Il sindacato non era inoltre ammesso all’interno delle fabbriche Ford.
Le cause che portano allo scoppio della guerra sono principalmente due:
Il nazionalismo: deriva dalla nazione, il concetto innovativo che nasce con le rivoluzioni. Non è altro
che una comunità di persone libere, cittadini, che hanno doveri e diritti e sono guidati non più da un
potere assolutistico, ma da un potere costituzionale. Insieme a questo, si sviluppa anche il concetto
di ideologia della nazione (nazionalismo), che pone l’accento sugli aspetti biologici, di sangue,
culturali che accentuano la distanza e l’ostilità tra le diverse nazioni.
L’imperialismo: derivazione del nazionalismo. Questi grandi stati nazionali si danno alla conquista di
enormi territori, soprattutto in Africa e in Asia che sono dotati di grandissime materie prime e
grandi quantità di forza lavoro, rischiando gioco forza di entrare in conflitto tra di loro. Si inizia
perciò ad assistere ad una serie di scontri armati sempre più significativi.
La Grande Guerra viene definita <<mondiale>> siccome per la prima volta viene combattuta una guerra che
coinvolge i Paesi di tutto il mondo. È anche la prima guerra di <<massa>> siccome coinvolge le grandi masse
di soldati dei singoli Paesi e le grandi masse di civili che rappresentano il fronte interno e sono mobilitate in
maniera attiva in questo scontro (per esempio anche con la propaganda). La guerra assume quindi le
dimensioni di uno scontro <<totale>>. La Prima guerra mondiale è combattuta da due grandi coalizioni
contrapposte: la Triplice Intesa (Gran Bretagna, Francia, Russia) e la Triplice Alleanza (Impero Austro-
Ungarico, Impero Tedesco, Italia). L’Italia però inizialmente nel 1914 decide di dichiararsi neutrale,
pensando di trarne vantaggi commerciali, non fermando l’economia e continuando ad avere rapporti con
tutte le nazioni. Ma è proprio nei mesi della neutralità che l’Italia inizia a prendere le distanze dalla Triplice
Intesa e ad avvicinarsi e poi ad allearsi segretamente con la Triplice Alleanza, data la grande distanza e
l’antico risentimento nei confronti dell’Austria. L’Italia entra così in guerra nel 1915. A spingere per l’entrata
dell’Italia in guerra furono soprattutto quei settori pesanti come i bellici e metallurgici, che avrebbero
guadagnato di più da un’entrata in guerra, finanziando quindi i quotidiani che avrebbero dovuto convincere
la popolazione ad entrare in guerra. Uno fra questi quotidiani fu l’Avanti diretto da Mussolini, che spingeva
per l’entrata in guerra. Per questo motivo venne espulso e fondò un suo quotidiano, il Popolo d’Italia, che
sarà il giornale del partito fascista, finanziato dai grandi gruppi industriali italiani che vorrebbero entrare in
guerra.
La Prima guerra mondiale è stata la prima guerra <<industriale>> di carattere mondiale (guerra civile
industriale in America).
Antonio Gibelli, L’officina della guerra: analisi della guerra attraverso la figura dei soldati, come <<soldati
senza qualità>>. Essi sono sì degli eroi, ma di un eroismo non positivo. Infatti, ai soldati delle trincee viene
richiesto un eroismo passivo, un’accettazione di una realtà drammatica, un atteggiamento passivo spinto
dal grande spirito nazionale inculcato alle masse nei decenni precedenti. Se infatti poco tempo prima non
esisteva il concetto di appartenenza alla nazione, durante la Prima guerra mondiale i cittadini si sentono
responsabili di combattere per il proprio paese, spesso offrendosi volontari, per diventare vera e propria
carne da macello nelle trincee. Gibelli dice che questo soldato senza qualità è la stessa tipologia di persona
dell’<<operaio senza qualità>> tipico della nuova società industriale.
L’Italia dopo la Prima guerra mondiale sarà ancora un paese prevalentemente agricolo, ma durante i 3 anni
di guerra diventerà sempre più industriale. Tre grandi aziende furono protagoniste della guerra: l’Ansaldo di
Genova, la più grande industria italiana di armamenti, l’Ilva l’acciaieria italiana per eccellenza indispensabile
per gli armamenti e la Fiat che riesce in poco tempo a passare dalla produzione di macchine alla produzione
di armi, navi aeroplani utilizzati in guerra. Queste aziende decuplicarono i loro guadagni e di conseguenza
assunsero un numero elevatissimo di operai. Tutto questo complesso meccanismo di crescita industriale del
Paese viene ad essere gestito dal meccanismo della Mobilitazione Industriale, che dirigeva la produzione
industriale finalizzata allo sforzo bellico e controllava e gestiva la manodopera all’interno delle fabbriche
ausiliarie all’esercito.
Se durante la guerra l’Italia vede una grande crescita industriale, nell’immediato dopoguerra vengono fuori
tutti gli squilibri economici e sociali che un evento come la guerra ha provocato in tutto il mondo. Da un
punto di vista economico lo squilibrio più evidente è l’enorme crescita del debito pubblico. Infatti, in un
periodo come la guerra, non viene aumentata la tassazione, ma vengono aumentate le uscite e ridotte le
entrate. Questo scenario di crisi, porterà in alcuni paesi il problema dell’inflazione, ma soprattutto una
grande disuguaglianza sociale tra i cittadini, soprattutto per chi come gli operai ricevevano un reddito fisso.
Su questo scenario già piuttosto difficile, si abbatté la grande crisi economica del 1921. Le grandi imprese
che avevano dominato in guerra vivono un fenomeno di riconversione, soprattutto l’Ansaldo e l’Ilva,
mentre la Fiat riuscirà a stare in piedi con le sue forze senza essere aiutata dallo Stato, tornando alla
produzione delle auto, con l’apertura di una nuova e più grande azienda. Durante il fascismo domineranno
in Italia le aziende elettriche, chimico e meccanico, oltre alle grandi aziende già esistenti dell’industria
pesante. Una mossa intelligente del primo fascismo fu quella di dare continuità alla politica economica
liberale, senza intervenire in modo duro e radicale, ma mantenendo ciò che c’era di positivo senza
sconvolgere l’intero sistema.
Una delle novità più importanti dell’Italia in guerra è il raggiungimento di una situazione di piena
occupazione per la prima volta dall’unità d’Italia. Questa fu una novità straordinaria dati gli elevati tassi di
disoccupazione che avevano da sempre caratterizzato la nazione. Questo picco di occupazione è dovuto alle
industrie, siccome ci si entra a lavorare in modo massiccio, essendo queste impegnate al massimo
soprattutto per i rifornimenti bellici e per gli abbigliamenti di guerra. Vi sono inoltre numerosi lavori militari
di cui necessita l’esercito nei fronti. Tra i settori produttivi quello che va maggiormente in crisi è quello
agricolo, siccome la maggior porte dei soldati che partono in guerra sono contadini e braccianti, lasciando le
campagne desolate. Per risolvere questo problema vengono istituite delle Commissioni agricole, che vanno
proprio alla ricerca di lavoratori che possano prendersi cura delle campagne, indispensabile per l’industria
militare e la nutrizione dei soldati. Vi è inoltre una sorta di lavoro a domicilio delle donne soprattutto nel
settore tessile e dell’abbigliamento, per rifornire l’esercito delle tute e dell’equipaggiamento.
Molto importante durante la guerra diventa il lavoro delle donne che svolgono un lavoro sostitutivo, dei
soldati costretti a partire per la guerra, nelle campagne e nelle fabbriche. Non è però soltanto un lavoro
sostitutivo, ma anche un lavoro integrativo per quanto riguarda alcuni settori, soprattutto all’interno delle
fabbriche. Questo porta dei cambiamenti sia sul piano sociale e culturale che su quello economico. Sul
piano sociale infatti, le donne escono dalle loro case nelle quali sono state per tanto tempo confinate ed
entrano nella società; cominciano così a mutare in modo evidente i rapporti di genere all’interno della
società. Con l’scita delle donne dalle case cambiano anche gli usi, i costumi, le tradizioni, portando ad una
modernizzazione dell’Italia e di tutto il mondo. Tutto questo porta al processo di emancipazione delle
donne, che avviene proprio attraverso il mondo del lavoro, siccome le donne diventano una necessità per la
nazione. Il percorso che porterà le donne a diventare cittadine a tutti gli effetti dei vari paesi sarà un
percorso lungo, che avrà un punto fondamentale nell’acquisizione del diritto di voto.
Il Warfare: nel 1917 in Italia si decide di procedere ad un’assicurazione obbligatoria per l’invalidità e la
vecchiaia, però rivolta solo ai lavoratori della Mobilitazione industriale, che verrà portata avanti anche nel
primo dopoguerra. Il Warfare sarà quindi un primo tentativo di dare vita ad un sistema di welfare (Sistema
sociale che vuole garantire a tutti i cittadini la fruizione dei servizi sociali ritenuti indispensabili), anche se
con finalità ed obbiettivi sociali diversi.
La condizione operaia cambia notevolmente in virtù della guerra. Il lavoro diventa sempre più <<coatto>>,
ovvero un lavoro che è costretto sempre più dentro regole e discipline rigide ed è come se perdesse
elementi nati con la rivoluzione industriale, che ha portato ad un passaggio definitivo da una condizione di
schiavismo ad una condizione di libertà. Questa restrizione della realtà è una restrizione che riguarda tutti
gli ambiti a partire dai salari. Infatti, non vi è tanto un abbassamento dei salari, ma un aumento dei prezzi e
del costo della vita in maniera esponenziale. Gli orari di lavoro si fanno particolarmente lunghi e i carichi di
lavoro intensi e faticosi. C’è inoltre una lenta introduzione dell’organizzazione scientifica del lavoro, che
produce un evidente peggioramento della salute delle classi lavoratrici. Vi è infatti un aumento delle
malattie professionali all’interno delle fabbriche che unite al problema degli infortuni sul lavoro hanno
prodotto nel corso della Prima guerra mondiale un significativo incremento dei tassi della mortalità operaia.
Il lavoro nelle fabbriche viene equiparato al lavoro dell’esercito. Le fabbriche vengono militarizzate, la
disciplina diventa di tipo militare, portando all’annullamento della libertà di sciopero (se si sciopera si
commette reato). Nel periodo di guerra viene istituito uno speciale Codice penale di guerra, che prevede
punizioni e sanzioni diverse dal comune Codice penale. Chi si rifiuta di lavorare può essere accusato di vera
e propria asserzione, come se fuggisse dall’esercito e si può arrivare anche alla pena di morte. Nel
momento in cui viene cancellata la resistenza, di fatto è come se cessasse la funzione del sindacato. In
realtà le cose sono diverse, in quanto il sindacato in una tale condizione riesce a ritagliarsi uno spazio
significativo. Infatti, il fatto che non si possa scioperare non esclude il fatto che ci possano essere delle
controversie di lavoro, di natura individuale o collettiva. Queste controversie vengono affrontate, come
detto, nei Comitati di Mobilitazione industriale.
DAL BIENNIO NERO ALLA DITTATURA FASCISTA - VIDEO 2 STORIA DELL’IMPRESA E DEL LAVORO
LE RIVOLUZIONI BORGHESI
Rivoluzione atlantica: impone cambiamenti radicali sulla politica, siccome è una rivoluzione che avviene
sulle due sponde dell’atlantico:
Rivoluzione Americana 1776: passaggio dalle vecchie colonie inglesi alla nascita degli stati uniti
d’America. Nel periodo precedente sin dal 600 esistevano queste 13 colonie inglesi nelle quali vi era
un certo malcontento che cresceva nel corso del tempo nei confronti della madrepatria, soprattutto
per il pagamento delle tasse, infatti in Inghilterra c’era questo principio fondamentale del “no
taxation whitout rapresentation”, cioè nessuna tassazione doveva essere data senza
rappresentanza; i coloni infatti non si sentivano rappresentati e per questo motivo avevano un
malcontento crescente nei confronti della corona britannica. Ad un certo punto, siamo nel 1776,
negli stati uniti viene scritto un importante testo dall’intellettuale radicale americano Thomas
Paine, che prende il nome di Common Sense (senso comune). In questo testo veniva per la prima
volta teorizzato il diritto alla resistenza conto un potere che si comportava in maniera arbitraria,
come una vera e propria tirannia. Questa fu la sistemazione teorica di ciò che di fatto accadde da lì
a breve, infatti, il 4 luglio 1776 ci fu la famosa dichiarazione d’indipendenza delle colonie inglesi,
delle ex colonie inglesi, che si autoproclamarono degli stati indipendenti dalla madre patria. Questi
stati si unirono ed ecco che vennero fuori gli stati uniti d’America. Ovviamente gli inglesi non
restarono a guardare, scoppiò infatti una guerra nella quale gli americani ebbero il sostegno
fondamentale dei francesi, così che negli anni 80 questa indipendenza andò in porto e nacque la
confederazione degli Stati Uniti d’America, una confederazione che era una struttura
sovranazionale da questi stati indipendenti, che si occupava fondamentalmente di due questioni, la
politica estera (politica di difesa) e politica militare. Per tutti gli stati valeva il principio del
federalismo, ovvero ogni stato aveva autonoma la propria politica interna. Tutto questo precipitò
all’interno di un testo fondamentale, la costituzione degli stati uniti d’America che venne approvata
nel 1787. Questa costituzione è stata talmente efficace che si è mantenuta uguale a quella attuale.
Passarono pochi anni e nel 1791 vennero votati i primi 10 emendamenti della costituzione
americana che andarono a costituire il Bill of Rights del 1791 (una sorta di dichiarazione dei diritti
fondamentali della persona che nessun tipo di potere potrà mai mettere in discussione).
Fondamentale capire che molti di questi emendamenti sono in vigore tuttora come il principio di
separazione dei poteri (esecutivo, legislativo e giudiziario). Questo principio è fondamentale
siccome permette il passaggio da una forma di potere assoluto di diritto divino ad un potere
costituzionale, che fa riferimento alla costituzione.
Rivoluzione Francese 1789: anche in questo caso vi era un retroterra di forte malcontento
all’interno della popolazione e in particolare all’interno del terzo stato (gli stati erano i nobili, il
clero e la borghesia), soprattutto per l’elevata tassazione. Il sovrano difronte a tutto ciò decise di
convocare gli stati generali. Era da parecchio tempo che non venivano convocati, l’ultima
convocazione risale al 1614. I rappresentanti del terzo stato che sapevano che sarebbero stati
svantaggiati in quanto fossero in minoranza rispetto al clero e ai nobili, decisero d rifiutare queste
regole, creando quindi questa rottura rivoluzionaria, dando vita al famoso giuramento della
pallacorda, col quale il terzo stato si proclamò assemblea nazionale. Viene quindi fuori il concetto di
nazione, col quale le persone diventavano cittadini e acquistavano conseguentemente dei diritti
fondamentali e dei doveri senza sottostare ad un potere assoluto. Di fronte a questo giuramento il
sovrano provò a reagire inutilmente, sfociando poi nella presa della Bastiglia (carcere) del 14 luglio
1789. Passarono pochi giorni e questa assemblea votò la dichiarazione dei diritti dell’uomo e del
cittadino, un documento che diede inizio alla storia contemporanea, nella quali si diceva che tutti
gli uomini sono uguali e che non devono sottostare a nessun potere assoluto ma devono sottostare
francese del 1791, che segna il passaggio dal potere assoluto a costituzionale.
Nello stesso momento in cui avvengono queste due grandi rivoluzione, accade un’altra grande rivoluzione
economica, che è quella industriale. Così come le rivoluzioni francese e americana, anche la rivoluzione
industriale inglese cambia completamente muta all’occidente.
Rivoluzione industriale inglese (a cavallo fra 700 e 800):
epicentro: Inghilterra
simbolo: macchina a vapore
Se prima la principale fonte di energia era l’uomo o gli animali adesso diventano le macchine (in particolare
il vapore). Muta completamente il modo di produrre, soprattutto in campo tessile (cotone, lana, filatura).
Un altro settore molto influenzato è quello metallurgico e successivamente quello dei trasporti
(locomotiva). Nascono le prime ferrovie all’inizio dell’800, così come i primi treni e le fabbriche che
producono ferrovie e treni, dando così una svolta all’economia. Cambia radicalmente il modo di lavorare: se
prima il lavoro era concentrato quasi esclusivamente nei cambi e sul lavoro della terra, con la rivoluzione
industriale il lavoro si sposta nelle industrie e nelle città. Si assiste infatti ad uno spostamento delle persone
dalle campagne alle città e ad una concentrazione della popolazione nelle prime fabbriche e imprese. È un
lavoro che diventa più subordinato, rispetto a quello più libero delle campagne. Ci sono lavoratori che
dipendono da altri soggetti (imprenditori) che sono i proprietari di queste prime fabbriche. Il settore più
importante diventa quello secondario, non più quello primario delle campagne. Questa rivoluzione
industriale che gli storici chiamano la prima rivoluzione industriale basata sulla macchina a vapore ha come
epicentro la Gran Bretagna e dura fino ai primi decenni dell’800, per poi pian piano trasferirsi negli altri
paesi d’Europa. Sul finire dell’800 inizierà la seconda rivoluzione industriale, il cui epicentro si concentrerà
negli Stati Uniti d’America diventati la maggiore potenza del mondo e si caratterizzerà per altre invenzioni
(lampadina, radio, telefono, motore a scoppio, esplosivi). Sempre più settori pesanti rispetto a quelli leggeri
della prima rivoluzione. Anche sul piano dei trasporti avremmo una grande invenzione, l’automobile alla
quale seguirà la navigazione a motore e l’aereonautica.
Ci sono diverse interpretazioni della rivoluzione industriale che portò si grandi benefici, ma anche molti
traumi (inquinamento, condizioni di lavoro, etc.…). Se si applica però un’ottica di lungo periodo è evidente
che i benefici si vedono prevalere sugli aspetti negativi, che esistevano anche numerosi prima della
rivoluzione industriale. David Landes rievoca la figura del Prometeo di Eschilo come paradigma simbolico
della maggiore trasformazione conosciuta dall’umanità: la rivoluzione industriale. Una svolta che ha
innescato una serie di mutamenti in grado di investire gli ambiti più diversi del reale, a partire dai sistemi di
produzione fino ad arrivare ai più vari aspetti della vita politica, sociale, culturale. Il Prometeo Liberato è
stato accolto come un’importate contributo in grado di fornire uno sguardo d’insieme, completo e
approfondito, sul processo di industrializzazione nel continente. Landes ha di fatto riscritto l’intera storia
dell’industria in Europa Occidentale. Come scrive Landes, questa rivoluzione industriale poteva avvenire in
Inghilterra siccome esistevano le condizioni ideali. Era infatti una società aperta sul piano economico e
culturale, nella quale veniva data molta importanza all’istruzione tecnica. A questa tesi di Landes se ne è
aggiunta nel corso degli anni un’altra, di uno storico americano che con i suoi studi storici sul territorio delle
fiandre (Belgio, paesi bassi) che non riguardavano il 700, ma il 600 e diceva che già nel 600 esisteva un tipo
di lavorazione che avveniva nei telai, nei momenti in cui non si poteva lavorare all’aperto nelle campagne,
nei quali venivano lavorati i tessuti. In Italia, come in molti paesi europei, la rivoluzione industriale fu più
lenta e meno traumatica ed ebbe uno dei maggiori epicentri nella zona di Biella con l’industria lamiera.
BORGHESIA E PROLETARIATO
La rivoluzione industriale è stata talmente dirompente che ha portato cambiamenti e novità non solo il
campo economico, ma anche sulla società. Il primo e più evidente cambiamento sociale è il fenomeno
dell’urbanizzazione, ovvero lo spostamento (la fuga, dicono gli storici) degli abitanti dalle campagne alle
città. Le città cominciano ad assumere un peso crescente e un numero elevato di cittadini. Londra passa da
mezzo milione di abitanti a cinque milioni di abitanti. Questo svuotamento delle campagne avvenne non
solo a causa della rivoluzione, ma anche per una profonda crisi agraria, che produce moltissima
disoccupazione, tanto che nelle campagne europee si verifica il fenomeno delle migrazioni, non solo verso
le città, ma anche verso altre nazioni e soprattutto verso l’America.
Il secondo grande evento sociale è la nascita di nuove classi sociali. In passato la maggior parte della
popolazione era composta da proprietari terrieri e da contadini, visto che la vita era soprattutto nelle
campagne. Con le rivoluzioni borghesi la società tende a diversificarsi, infatti accanto ai proprietari terrieri e
ai contadini, si affacciano due nuove classi sociali: la borghesia e il proletariato. Uno degli aspetti
fondamentali delle rivoluzioni è stata l’uguaglianza giuridica dei cittadini (non femminile), che fa si che la
società si riorganizzi economicamente.
LA BORGHESIA
La borghesia è la classe rivoluzionaria perché fa la rivoluzione e scalza dal potere chi in precedenza lo
possedeva (aristocrazia). Il lavoro della borghesia era un lavoro diretto, non viveva di rendita come avevano
fatto per secoli i proprietari terrieri, ma produceva e producendo realizzava direttamente la sua ricchezza.
La borghesia quindi a cavallo tra il 700 e 800 prende il potere. Cos’è la borghesia? Ci sono due importanti
interpretazioni di Carl Marx e Max Weber. L’interpretazione di Marx è di stampo economico e strutturale
della società. Per lui la borghesia è la classe sociale che detiene i capitali e la proprietà dei mezzi di
produzione. Grazie a questa proprietà riesce ad imporre un certo tipo di produzione con lo sfruttamento
del proletariato. Per Max Weber non conta tanto la struttura economica, bensì la dimensione culturale (che
a Marx non importava), i valori di abnegazione, risparmio, sacrificio. Marx era infatti un economista e
Weber un sociologo. Ciò che unifica tutte le borghesie mondiali sono tre aspetti:
La proprietà privata, che detiene la borghesia e che serve per avviare iniziative e per la
produzione
La libera iniziativa, fondamentale per lo svolgimento delle attività borghesi. Libertà di muoversi
liberamente
Profitto, per Marx è il plusvalore. Il borghese ha le sue dipendenze (proletari) che
rappresentano un costo, ma che è un costo inferiore rispetto a quello che l’imprenditore
riscuote vendendo sul mercato. Per Weber il profitto era la remunerazione del rischio; infatti il
borghese secondo il sociologo rischiava sul mercato con affari e investimenti e se questi fossero
andati in porto vi sarebbe stato un profitto.
L’imprenditore è la figura per eccellenza del borghese che si è fatto da sé, che ha deciso di rischiare i suoi
capitali e produrre un determinato bene da vendere sul mercato.
PROLETARIATO
Il proletariato subisce l’azione e le iniziative della borghesia per tutta l’epoca delle rivoluzioni borghesi. Nel
1848, anno delle grandi rivoluzioni d’Europa che portano effettivamente la borghesia al potere, esce il
famoso manifesto del partito comunista di Marx, un’analisi economica, ma soprattutto politica in cui si
indica il proletariato come la nuova classe rivoluzionale, che farà la rivoluzione nei confronti della
borghesia. Il primo proletariato delle rivoluzioni borghesi ha una struttura sociale piuttosto diversificata.
Questo proletariato era composto dagli ex artigiani (ex perché vanno completamente in crisi con la
rivoluzione industriale, perdono la bottega e il lavoro e diventano proletari, lavoratori dipendenti all’interno
delle grandi fabbriche), ex contadini (costretti progressivamente ad abbandonare la terra, siccome la vita
nelle campagne era una vita molto dura, sofferta, esposta alle intemperie e ai di fenomeni naturali, mentre
il lavoro nelle fabbriche è un lavoro più sicuro. Perciò anche i contadini abbandonano le campagne e vanno
a lavorare nelle fabbriche) e dalla figura dell’operaio contadino che in certi periodi dell’anno lavora la terra
e quando questo non è possibile in altri periodi va a lavorare in fabbrica. Una caratteristica del primo
proletariato è l’enorme quantità di lavoro minorile e femminile, innanzitutto perché il lavoro delle
macchine è molto semplice e non necessita di qualificazioni e abilità, in secondo luogo perché queste due
categorie di lavoratori hanno una certa manualità che in alcuni settori come quello tessile e
dell’abbigliamento era assai richiesta. Quindi la composizione del primo proletariato era piuttosto
eterogenea. Le condizioni di vita del primo proletariato appaiono abbastanza dure, tanto che alcuni
rimpiangono il periodo precedente, non soltanto per i rigidi orari di lavoro, ma anche per le condizioni
insalubri delle fabbriche e delle città, dovute soprattutto al sovraffollamento. Nasce quella che gli studiosi
già in quel periodo chiamavano “questione sociale”, cioè il pensiero che la rivoluzione industriale genera sia
ricchezza per i borghesi che difficoltà per i proletari e condizioni disastrose per gli operai. L’interpretazione
di Marx del proletariato: come dice la parola stessa deriva da prole (figli), infatti questi lavoratori non hanno
altro che i figli; è quella nuova classe sociale che non detiene la proprietà privata di nulla, ma hanno
solamente le loro braccia e la famiglia e vivono di quello che viene definito salario (sono quindi lavoratori
salariati). Ecco quindi che da questo dislivello delle due classi sociali deriva ciò che Marx chiama lotta di
classe, secondo la quale c’è il proletariato che deve reagire nei confronti della borghesia. All’interno del
manifesto di Marx viene detto che il proletariato deve unirsi nella lotta contro la borghesia, per far si che si
crei una società non tanto basata sulla libertà sociale, ma soprattutto sull’uguaglianza di tutti gli uomini
(quella che sarà poi la società comunista).
Il proletariato può essere studiato nella sua collocazione di lavoro come fa il Marx economista, nella sua
dimensione politica come classe che diventerà la classe rivoluzionaria, ma anche nella dimensione sociale e
culturale come fa Thompson nel The Making of English Working Class, che ha cambiato la storia del lavoro,
dicendo che il proletariato va studiato non solo all’interno del luogo di lavoro ma anche fuori da esso, nei
quartieri, nelle piazze, nelle parentele, nei valori.
LA SOCIABILITÀ POPOLARE:
L’associazionismo popolare (d’imitazione) guarda alla borghesia e volendo anch’esso difendere e affermare
i propri diritti decide di fare qualcosa di simile. Con qualche decennio di ritardo anche le classi popolari
decidono di iniziare ad incontrarsi per condividere le proprie esperienze. Iniziano quindi ad avere i loro
luoghi di associazione, come osterie, taverne e luoghi privati come società, circoli operai. All’interno di
questi luoghi ci si vede per svagarsi, divertirsi, bere, mangiare. Avviene però qui, in questi luoghi anche il
fenomeno dell’alfabetizzazione, siccome la gran parte degli appartenenti a queste classi non sapeva né
leggere né scrivere. Imparano quindi a leggere e scrivere e imparano quali sono i loro interessi e i loro
diritti. Si svolgono inoltre la lettura dei giornali, manifestazioni sportive, inaugurazioni di imprese,
matrimoni. Anche in questo caso il fenomeno è urbano, avviene quindi prevalentemente nelle città. È un
fenomeno elitario che spettava alla cosiddetta aristocrazia popolare e un fenomeno maschile, siccome la
donna deve occuparsi soprattutto della casa, del marito, della prole, seppur spesso la donna lavorava anche
fuori casa. Tutto questo avviene anche in una città come Torino, città molto importante e avanzata sul
piano politico, economico e sociale. Nella Torino della seconda metà dell’800 nascono queste associazioni e
circoli. Gli operai di Torino (Musso): studio di carattere tradizionale, economico della classe operaia di
Torino. Mondo operaio e mito operaio (Gribaudi), studio sulla classe operaia torinese, nella sua collocazione
all’interno delle città, nei quartieri operai, le cosiddette “barriere”, chiamate così perché nel 1853 Torino si
dota di una cinta daziaria, quindi con nuove mura, che prevedono porte dalle quali avviene l’ingresso e
l’uscita delle merci (12 aperture). In corrispondenza di queste barriere vengono a formarsi i primi quartieri
operai. A volte nascono attorno alle industrie, mentre altre volte succede il procedimento opposto. Sono
tre i quartieri più importanti: la barriera di Milano, Borgo San Paolo e la barriera di Nizza (presso la quale
verrà formata la fiat). Quindi Gribaudi studia le classi operaie all’interno di questi luoghi. Questo fenomeno
di concentrazione operaia nelle barriere finisce per creare il fenomeno della divaricazione sempre più
ambia ed evidente che si viene a registrare rispetto all’altra grande classe sociale, la borghesia, che si
concentra sempre più nel centro cittadino.
La festa del Primo Maggio (Festa del Lavoro): rappresenta il simbolo per eccellenza di questi processi di
associazione popolari e borghesi nel corso dell’800. Questa festa viene istituita alla fine del 900. A causa
delle condizioni di vita e lavoro precarie (come la lunga durata del lavoro giornaliero) nascono le prime
associazioni per migliorare le condizioni di vita e di lavoro. Tra le prime rivendicazioni vi era quella di avere
giornate di lavoro più brevi, prima di 12 ore poi di 11 e infine di 8 ore di lavoro che assumono un valore
simbolico all’interno del movimento operaio (giornata di 24 divisa in 3 parti uguali: 8 ore di lavoro, 8 ore di
riposo, 8 ore di svago). Visto che queste prime richieste incontrano inizialmente delle difficoltà nascono i
primi scioperi, azioni collettive in cui ci si astiene dal lavoro per ottenere risultati. Uno dei primi e più
importanti scioperi è quello di Chicago maggio 1886, nel quale vi sono una serie di scontri fra dimostranti e
forze dell’ordine; i capi di queste dimostrazioni di Chicago vengono imprigionati e processati e condannati a
morte nel giro di un anno (i cosiddetti martiri di Chicago). Una volta condannati a morte la seconda
internazionale (insieme di movimenti socialisti, nasce nel 1889 in occasione del centenario della Rivoluzione
francese) inizia a ricordare questi martiri e da qui nasce una festa che viene ricordata e celebrata in tutto il
mondo. La prima Festa del Lavoro si svolge nel 1890, mentre in Italia nel 1891 negata l’anno precedente da
Crispi. Il primo maggio si festeggia quindi la fratellanza e l’uguaglianza dei diritti dei lavoratori.
IL MUTUALISMO
Il fenomeno del mutualismo, ovvero quelle società di lavoratori e operai di mutuo soccorso che derivano
dalle vecchie confraternite o dalle prime vecchie associazioni popolari e circoli operai oppure nascono
come nuove, è caratterizzato dal fatto che queste società non si occupano più semplicemente alle questioni
legate allo svago, ma si occupano in maniera sistematica delle questioni sociali. Nelle società di mutuo
soccorso non si fa più semplice beneficienza dall’alto verso il basso, ma vi è un vero e proprio aiuto
reciproco tra pari. Il mutualismo è un fenomeno nato in Inghilterra, ma che si diffonde in tutto il mondo,
così come in Italia, un fenomeno inizialmente considerato illegale e respinto in Inghilterra e in Francia, ma
che con le rivoluzioni borghesi esce pienamente allo scoperto. Il fatto che questo fenomeno sia
internazionale è dimostrato da una famosa esposizione universale di Milano nel 1906, durante la quale
viene costituita la federazione internazionale delle società di mutuo soccorso, società che provengono da
buona parte dell’Europa e dell’America.
In Italia, queste società non sono società religiose, ma mantengono una caratteristica tipica del mondo
moderno, ovvero il fatto di essere laiche. Un’altra caratteristica è la sua dimensione interclassista, ovvero il
fatto che quelle prime società di mutuo soccorso non siano composte da una sola classe sociale, come
poteva essere quella del proletariato, ma sono costituite anche da borghesi più illuminati che cercano di
dare una mano alla risoluzione della cosiddetta questione sociale. Ed è proprio questa presenza dei
borghesi che determina una influenza politica del pensiero borghese all’interno di queste società. E sono
soprattutto tre le componenti della borghesia nell’Italia della metà dell’800:
Componente moderata costituzionale (parliamo del gruppo di Cavour, quello che farà la
rivoluzione) che cercano di influenzare le società di mutuo soccorso
Componente radicale, componente più democratica che ha come personaggio di riferimento
Giuseppe Garibaldi. Questa componente radicale ha posizioni più avanzate e progressiste, cercano
di tutelare e diffondere sempre più il fenomeno del mutualismo.
Componente repubblicana, ancora più radicale di quella radicale, aveva come punto di riferimento
Giuseppe Mazzini. In un contesto monarchico, i repubblicani inizialmente sono considerati veri e
propri terroristi che devono essere perseguitati. Mazzini si appassiona al mutualismo, siccome a
causa del suo pensiero è costretto ad uscire dalla nazione e a viaggiare, situandosi per lunghi anni a
Londra, dove tocca con mano le gravi questioni sociali. Diventa così un grande fautore delle prime
società di mutuo soccorso.
Già prima dell’unità d’Italia, il regno più avanzato era quello di Sardegna, del Piemonte, dei Savoia che
garantiscono libertà civili e borghesi importanti e questo fa sì che in questi territori si possa sviluppare il
mutualismo. Quindi il Piemonte e la Liguria che fanno parte del regno di Sardegna sono le regioni in cui
nasce il movimento mutualista, che si diffonderà prevalentemente nel centro, ma soprattutto nel nord
Italia.
Una modalità per far socializzare e tenere insieme queste società di mutuo soccorso era quella di
organizzare dei congressi annuali, nei quali ci si incontra e si discute dei problemi comuni di quel
movimento. Il primo congresso in Italia avvenne nel 1853 ad Asti.
Queste funzioni non esercitano azioni di lotta e resistenza, ma hanno una funzione di tipo assistenziale,
ovvero i soci di queste società si assistono fra di loro in particolari casi di difficoltà, come per esempio in
caso di infortunio, vecchiaia, disoccupazione, morte. Le funzioni assistenziali più comuni sono quelle sugli
infortuni e sulla vecchiaia. Una seconda funzione è quella di carattere educativo, i lavoratori vengono
assistiti per imparare a leggere e a scrivere per meglio difendere i propri interessi e diritti, diritti che
vengono insegnati loro da queste società. Ci sono poi tutta un’altra serie di funzioni minori, come gli uffici di
collocamento, azioni creditizie (prestiti di denaro, e educazione al risparmio). All’interno di queste società
nascono anche i primi comitati elettorali. Questa assistenza si svolge attraverso un fondo, costituito dalla
quota di iscrizione dei soci del mutuo soccorso che vanno ad alimentare una cassa di solidarietà, che servirà
a venire incontro alle esigenze dei soci. È quindi un sistema di autotutela guidato dalla solidarietà e dalla
fratellanza.
Alcune di queste società hanno una struttura di tipo cumulativa, ovvero tengono insieme lavoratori di
diversi mestieri, ma la struttura più diffusa è quella di mestiere.
All’interno di queste organizzazioni vi sono due tipi di soci:
Soci effettivi, che versano la loro quota e beneficiano dei servizi prestati dalla società. Erano
lavoratori che guadagnavano abbastanza bene, la cosiddetta aristocrazia operaia.
Soci onorari, coloro che versano la quota d’iscrizione (talvolta anche maggiore in quanto se lo
potevano permettere), ma non beneficiano dei servizi perché non ne hanno bisogno grazie alla loro
ricchezza. Erano i borghesi, che oltre al sostegno economico, davano un sostegno anche
professionale, siccome svolgevano importanti lavori.
I soci erano prevalentemente maschi, in quanto il ruolo della donna era più di tipo domestico e famigliare.
Esistevano però delle donne iscritte e vi erano addirittura società esclusivamente femminili, che
aumentarono negli anni. In alcune di queste società femminili, nacquero servizi speciali, come i primi asili, o
crediti riservati alle donne per potersi emancipare e investire.
Nel 1861 il congresso annuale delle società di mutuo soccorso venne vinto da Mazzini, dalla corrente
mazziniana che divenne egemone in queste società, che si trasformarono in forze di opposizione, non però
nei confronti della borghesia di cui Mazzini faceva parte. Una delle questioni più rilevanti tra gli anni 60 e 70
dell’800 fu quella del riconoscimento giuridico, ovvero la volontà di voler essere riconosciuti dalla legge. In
ambito borghese ci fu una divisione su questa questione:
Conservatori, che volevano il riconoscimento giuridico e una stretta regolamentazione
Liberali, favorevoli al riconoscimento giuridico, ma a patto che queste società mantenessero una
certa autonomia
Radicali, che volevano una piena autonomia, opponendosi al riconoscimento giuridico
Nel congresso del 1877 si discusse di questo problema e si affermò la posizione dei liberali, ma solamente
perché i mazziniani radicali non vollero partecipare a questa riunione. La legge sul riconoscimento giuridico
arrivò quindi nel 1886, ma non ebbe un grande risultato, siccome solo un decimo delle società di mutuo
soccorso in seguito alla legge erano registrate.
L’influenza di Mazzini sul mondo operaio calò drasticamente con la Comune di Parigi, un movimento di
governo rivoluzionario, contro il quale Mazzini ebbe una posizione molto dura che non piacque ai
lavoratori. L’anno seguente nel 1872, l’anno della morte di Mazzini, la corrente mazziniana viene sconfitta
dagli anarchici ed esclusa dalle conferenze annuali. Questi nuovi gruppi radicali consideravano insufficiente
il metodo mutualistico e per questo motivo lo respingevano e spingevano per sostituirlo con la lotta di
classe e la resistenza. Tra gli anni 70 e 90 alcune di queste società di mutuo soccorso incominciarono perciò
a cambiare atteggiamento seguendo una strada guidata dalla violenza. Verso la fine del 19 secolo inizia così
il declino del mutualismo dovuto a ragioni politiche, secondo le quali era necessario iniziare ad usare la
violenza per ottenere risultati e a motivi economici, siccome iniziano ad avere gravi problemi finanziari in
entrata.
LA COOPERAZIONE
La cooperazione rappresentò un passo in avanti nella storia dell’associazionismo popolare rispetto alle
società di mutuo soccorso. La cooperativa è una impresa originale che esercita attività economiche nei
diversi settori senza uno scopro diretto di lucro, ma con un approccio di tipo mutualistico. Considera quindi
gli aspetti sociali come predominanti su quelli economici. La storia della cooperazione ricopre un periodo
molto lungo, tanto è che anche oggi esistono le cooperazioni. Anche la cooperazione ha una storia di
carattere internazionale, e come le società mutualistiche, nacquero in Inghilterra. La prima cooperativa al
mondo fu quella dei probi pionieri di Rochdale del 1844, una cooperativa di consumo, un semplice negozio.
Qualche anno dopo la metà dell’800 nacquero le prime cooperative in Italia e gran merito lo ebbe ancora
una volta Giuseppe Mazzini. Infatti, le prime in Italia nacquero tra gli anni 70 e 90 dell’800 (ventennio della
grande crisi agraria), ebbero un’impronta puramente mazziniana e furono una conseguenza della crisi
agraria, siccome molti lavoratori iniziarono a trasferirsi nelle città ed ad associarsi tra di loro all’interno
delle prime imprese. Il movimento cooperativo andò ad insediarsi in alcune regioni italiane, soprattutto nel
centro-nord, in particolare nell’Emilia Romagna e nella Lombardia.
Tra la fine dell’800 e i primi anni del 900 arrivò “la stagione della maturità” per le cooperative, il grande
consolidamento del movimento cooperativo. Questa stagione fu una fase fortemente segnata dalla politica,
siccome quelli furono gli anni delle grandi ideologie politiche, tra cui se ne riscontrano soprattutto due:
Il socialismo, derivante dall’ideologia marxista, si occupò a fondo della cooperazione (cooperazione
rossa) che ebbe il suo epicentro nella Lega Nazionale delle Cooperative (Lega Coop che esiste
tutt’ora), costituita nel 1886, una delle tante organizzazioni rosse. Favorevoli alla lotta di classe
Cattolicesimo, sempre esistito in Italia, ma entrato direttamente in azione nel campo economico,
sociale e politico, quindi anche delle cooperative in questo periodo. Si parla infatti di cooperazione
<<bianca>>. Anche in questo caso vi era una struttura nazionale che dirigeva tutto il movimento
cooperativo bianco, fondata nel 1906 e prese il nome di Unione Cattolica delle istituzioni
economiche e sociali. Favorevoli all’armonia di classe.
Accanto a queste due ideologie, vi fu una terza realtà di stampo repubblicano e di derivazione mazziniana,
che ebbe però un’estensione ridotta sul territorio, ma molto concentrata nella regione della Romagna.
Questa realtà si posizionava nel mezzo tra la lotta e l’armonia di classe, ma parlava di una collaborazione di
classe.
Esistevano diverse tipologie di cooperazione. Le due per eccellenza, che ancora oggi esistono sono:
Le cooperative di consumo, che si occupano del problema della distribuzione dei prodotti. Il campo
per eccellenza di queste cooperative di consumo è quello commerciale e altro non sono che negozi,
spacci e magazzini
Le cooperative di produzione e lavoro. Si parla della produzione vera e propria presente in tutti i
campi e settori dell’economia. Un settore in cui tende a svilupparsi in maniera significativa è quello
dell’edilizia, che si occupa della costruzione delle case e dei quartieri popolari. Si ponevano alcuni
obbiettivi fondamentali: il primo era quello di dare lavoro, in un periodo di grande disoccupazione e
far si che questo una volta ottenuto fosse retribuito in maniera equa. La prima cooperativa di
lavoro in Italia fu creata a Bologna nell’Emilia rossa nel 1868, messa in piedi dai tipografi. Altre
cooperative vennero costituite in campo agricolo e solo più tardi tra gli operai dell’industria.
In campo agricolo le cooperative presero una forma particolare, quella delle affittanze collettive. Venivano
costituite per prendere in affitto grandi terreni dei proprietari terrieri. Vi erano diversi tipi di affittanze
collettive, in particolar modo due:
Affittanze collettive a conduzione divisa. Queste cooperative prendevano in affitto un terreno lo
dividevano in diversi lotti e ciascun socio lavorava un lotto. Trovò spazio soprattutto tra la
cooperazione bianca e nel Meridione. Permise di colpire i grandi proprietari terrieri e i gabellotti,
ma non ebbe un gran successo sul mercato, in quanto la divisione in lotti non creava grandi
guadagni.
Affittanze collettive a conduzione unita. Queste cooperative prendevano in affitto un terreno che
non veniva ripartito tra i singoli soci, ma veniva condotto in maniera unita. Questo tipo di
cooperazione fu soprattutto in voga nella parte rossa, nelle regioni del nord e il fatto di tenere uniti
questi terreni permise la realizzazione di grandi aziende moderne, in grado di competere nel
mercato capitalistico.
IL MODELLO EMILIANO
Nell’ambito della cooperazione, l’epicentro dal punto di vista geografico, spettava all’Emilia Romagna. La
capitale per eccellenza fu Reggio Emilia, siccome qui lavorarono due grandi teorici della cooperazione
integrale: Antonio Vergnanini e Camillo Prampolini. La cooperazione integrale era un sistema economico
territoriale in cui le cooperative avevano un ruolo centrale, ma intorno a queste si costruiva un sistema
armonico all’interno del quale ognuno faceva la sua parte. Il consiglio comunale rappresentava la regia di
questo modello emiliano.
Nullo Baldini fu il leader dell’Associazione generale degli operai braccianti di Ravenna, che per lunghi anni
fu la più importante cooperativa agricola in Italia. Questa cooperativa fu l’azienda che realizzò le grandi
bonifiche della Polesina e di Ferrara. E grazie al loro grande lavoro, queste aziende furono chiamate per
bonificare la zona romana attorno alla capitale. Le esperienze di Molinella a Bologna e di Fontanelle a
Parma dimostrarono la grande efficienza di queste cooperative. Il modello emiliano esplose nei primi anni
del 900 ed ebbe il suo periodo d’oro durante l’età giolittiana, quando queste cooperative riuscirono a
mettere in piedi una vera e propria rete alternativa e competitiva nel mercato capitalistico, portando avanti
un disegno sociale di grande rilievo (salari equi, profitto reinvestito nel sociale, prezzi dei prodotti bassi per
far accedere ai consumi anche chi guadagnava meno).
Nel dopoguerra le cooperative continuarono a crescere e a consolidarsi. Tra queste una forma di
cooperazione particolarmente interessante fu quella dei reduci di guerra, soldati che erano
prevalentemente contadini e ai quali fu promesso che una volta tornati dalla guerra avrebbero ottenuto
della terra, ma questo non avvenne mai. Nacquero inoltre in questi anni delle cooperative particolari, le
<<gilde>>, la cui proprietà spettava ai sindacati stessi. Questa esperienza della cooperazione libera e
democratica durò poco perché nei primi anni 20 arrivò il fascismo che prese il potere nel 1922 ed eliminò
tutte le forme di cooperazioni esistenti, dalle rosse alle bianche, creando un’unica grande cooperazione, la
cooperazione nera o fascista. Mussolini nel 1926 istituì l’ente nazionale della Cooperazione, un ente
pubblico, che più di occuparsi dei problemi della cooperazione, si occupava di costruire il consenso con le
buone e le cattive maniere per la dittatura totalitaria. Soltanto con la caduta del fascismo dopo la Seconda
guerra mondiale ci fu il rilancio della cooperazione libera, che entrò a far parte della costituzione
nell’articolo 45. Durante il periodo repubblicano dopo il 1946 rinacque il discorso del pluralismo politico
della cooperazione. Rinacque quindi la cooperazione rossa, quella bianca e quella di impronta mazziniana
repubblicana. Negli anni 70/80 il mondo dei partiti cominciò ad entrare in crisi e quando ci fu il naufragio
della repubblica dei partiti alla fine degli anni 80 e all’inizio degli anni 90 iniziò quindi una nuova storia nella
quale le cooperative italiane non avevano più la sponda dei partiti politici e per questo dovettero provare a
reggere da soli la concorrenza delle grandi imprese private.
Ciò che va sottolineato in conclusione è che alla fine dei conti resta il valore storico di questa esperienza di
solidarietà sociale e associativa, che ha cercato in tutti i modi di affermare i principi fondamentali dei diritti
sociali di cittadinanza.
ETA’ GIOLITTIANA
LA CRISI DI FINE SECOLO
Nel 1896 vi è un ritorno in Italia dei <<moderati>>, anche se il loro comportamento fu tutt’altro che
moderato; infatti, di fronte ad un grande dinamismo dell’economia che iniziò in quegli anni, la scelta dei
moderati fu di carattere repressivo nei confronti di quelle prime forme di mobilitazione popolare. Le
trasformazioni e lo sviluppo capitalistico di quegli anni avevano prodotto un notevole rafforzamento della
borghesia, ma anche un allargamento nelle schiere del proletariato, colpite nelle loro condizioni di vita e di
lavoro. Di fronte a questi episodi la borghesia si trovava di fronte ad un bivio: andare incontro al conflitto
sociale e non averne paura lasciando esprimere queste masse oppure vivere con terrore questo conflitto
sociale che avrebbe portato ad una repressione della minaccia.
Nel 1897 scoppiò una crisi economica a causa della dura concorrenza dei mercati stranieri e ad una pessima
annata agricola che determinò un peggioramento delle condizioni sociali che portarono a dei tumulti che
esplosero nel 1898 soprattutto a Milano. Questi sono passati alla storia come i tumulti del pane, causati dal
prezzo elevato della farina e del pane. Di fronte a questi tumulti, la reazione del potere moderato fu molto
dura; venne proclamato infatti lo stato d’assedio (usare la mano dura, quella militare), con limitazioni della
libertà di stampa e di organizzazione. Questo stato di assedio raggiunse il culmine nel maggio del 98
quando il governo diede l’ordine di sparare sulla folla protestante, provocando decine di morti e arresti.
Non ci fu soltanto uno scontro sociale, ma anche una durissima battaglia politica in particolare nella Camera
dei deputati, dove si distinsero soprattutto le formazioni dell’estrema sinistra, che avevano un
atteggiamento di tipo estremista (radicali, repubblicani e socialisti). Accanto alle formazioni di sinistra
estremista si avvicinò la componente della sinistra liberale costituzionale che rappresentava la costola della
vecchia sinistra storica. Dopo la repressione dei tumulti del pane era caduto il governo di Rudinì ed era
stato sostituito dal governo sempre moderato di Luigi Pellù, nei confronti del quale si cercò di ingaggiare
una battaglia parlamentare sulla base di atteggiamenti di tipo ostruzionistico. Gli estremisti rivendicavano il
fatto che l’Italia dovesse diventare una monarchia costituzionale, nella quale il governo non doveva avere
soltanto la fiducia del re, ma anche di una maggioranza parlamentare. Pellù cercò comunque di portare
avanti il suo governo ultraconservatore, adottando una serie di provvedimenti che puntavano ad una
limitazione dei poteri dei cittadini, ad un rafforzamento della pubblica sicurezza e alla modificazione del
regolamento parlamentare che disciplinava la Camera dei deputati in modo da dare maggiore potere al
governo e limitare i poteri del parlamento nei suoi confronti. Questo disegno conservatore non riuscì al
governo Pellù, a causa dell’efficace ostruzionismo delle opposizioni che portò anche alla chiusura del
parlamento per alcuni mesi, siccome il governo non poteva contare sulla maggioranza parlamentare.
Questa chiusura portò alle elezioni politiche nel 1900, dalle quali venne fuori una maggioranza dei governi
conservatori ancora più debole. La vittoria politica spettò alle forze di opposizione e alla nomina del
governo di Saracco, esponente dei vecchi moderati, ma che aveva un atteggiamento più collaborativo.
Questo nuovo governo si trovò a gestire due avvenimenti importanti: il primo fu il regicidio, ovvero
l’uccisione nel 1900 del re in carica Umberto I assassinato in strada da un anarchico. L’atteggiamento del
governo di fronte a questo episodio fu molto intelligente e permise al paese di non vivere con rancore e
come una sconfitta morale la morte del Re. Il secondo importante avvenimento fu il primo sciopero
generale cittadino della storia dell’Italia della città di Genova a causa della gestione repressiva del governo e
della chiusura della camera di lavoro di Genova. Questo sciopero, così come la morte del re suscitò una
forte ondata emotiva nel paese, un forte dibattito pubblico e una importante discussione in Parlamento nel
1901, alla fine del quale il governo Saracco non aveva più una maggioranza parlamentare e fu costretto così
alle dimissioni, che portarono al potere Zanardelli, un vecchio dirigente dell’antica sinistra storica, che
aveva come ministro degli interni Giovanni Giolitti.
L’età giolittiana iniziò nel 1901 e terminò nel 1914 quando scoppiò la Prima guerra mondiale. La prima
grande questione che Giolitti e Zanardelli si trovarono ad affrontare fu quella sociale. Ormai nel pieno della
rivoluzione industriale, Giolitti e Zanardelli affrontarono i problemi sociali in modo del tutto nuovo, ovvero
non utilizzando la forza e le repressioni, ma misure totalmente opposte assumendo un atteggiamento
neutrale tra capitale e lavoro. Ovviamente questa decisione avrebbe portato alla formazione di diverse
organizzazioni di lavoratori. La scommessa di Giolitti era quella di far integrare il più possibile le masse
popolari allo Stato, specie in una fase in cui l’Italia si stava trasformando da Paese agricolo a Paese agricolo-
industriale. Le masse popolari si andarono a posizionare all’interno di due formazioni ideali: i socialisti e i
cattolici. Giolitti inizialmente cercò di realizzare una collaborazione concreta soprattutto con i primi, mentre
i secondi mantennero una certa distanza dai governi. Nel 1903 in seguito alla morte del papa Leone XI, che
era stato molto sensibile alla questione sociale, divenne papa Pio X che aveva posizioni più conservatrici e
tendeva ad accentrare più il potere nelle mani delle gerarchie ecclesiastiche. Questa vicinanza di Giolitti ai
socialisti mutò nel 1904, quando venne proclamato in Italia il primo grande sciopero generale nazionale,
che provocò grande paura tra i liberali del governo e i cattolici. Giolitti ebbe l’abilità di proclamare nuove
elezioni e lo scioglimento del parlamento e per la prima volta si realizzò una vera e propria alleanza politica
fra i liberali e i cattolici, che interruppe il documento cattolico proclamato dal papa dopo la conquista di
Roma (Non expedit) che prevedeva che i cattolici non potessero partecipare alla vita politica del nuovo
regno. Giolitti divenne così protagonista di quella che si può definire politica del <<pendolo>>, che ogni
tanto oscillava verso sinistra (socialisti) e ogni tanto verso destra (cattolici, liberali conservatori, destra
nazionalista). Questa politica ebbe sia luci che ombre. Per quanto riguarda gli aspetti positivi, certamente
Gioititi fu un abile mediatore, che portò grandi vantaggi economici, fece approvare le prime leggi sociali che
tentarono di migliorare le dure condizioni di vita e di lavoro delle classi popolari e portò anche ad una serie
di riforme importanti, come le assicurazioni e soprattutto il varo del suffragio universale che entrò in vigore
nel 1912 e che prevedeva che potessero votare tutti i cittadini maschi che avessero compiuto i 30 anni e
avessero prestato il servizio di leva. Per quanto riguarda gli aspetti negativi dell’età giolittiana Giolitti era
riuscito a controllare tutto il Parlamento, si parlava infatti di una sorta di dittatura parlamentare; Giolitti
reprise nel sangue alcuni conflitti sociali ed iniziò ad abbracciare alcune posizioni della nuova destra
nazionalista di inizio 900, anche se furono poi gli stessi nazionalisti a respingere e dare contro a Giolitti. Ad
indebolire ulteriormente la politica di Giolitti ci furono due importanti crisi economiche nel 1907 e nel 1913.
In politica estera Giolitti non modificò più di tanto i rapporti con gli altri Paesi europei, ma decise di
intensificare la politica coloniale, come con la conquista della Libia nel 1912 che divenne la prima grande
colonia italiana in Africa. Questa avventura portò a Giolitti grandi consensi a Destra, ma gravi critiche a
Sinistra, dove tornarono al potere i rivoluzionari socialisti massimalisti, tra i quali ebbe un ruolo importante
un giovane Benito Mussolini che nel 1912 divenne direttore dell’Avanti, il periodico ufficiale del partito
socialista italiano. Nel 1913 si tennero in Italia le prime elezioni politiche a suffragio universale, che videro
un avanzamento dei socialisti e delle sinistre molto blando inferiore alle attese, ma che portarono alla
vittoria ancora una volta di quella coalizione composta da liberali giolittiani e cattolici che fecero tra di loro
un accordo, il patto Gentiloni, con cui si candidavano ufficialmente alla guida del Paese. Nel marzo del 1914
Giolitti lasciò momentaneamente il potere, quando al governo andò Antonio Salandra esponente del
mondo liberale con posizioni più moderate. In Italia nel giugno del 1914 ci fu la cosiddetta settimana rossa,
una settimana di grandi conflitti sociali contro la stretta militaristica del Paese che si concluse con una
grande repressione nel sangue, ma l’avvenimento epocale che pose termine all’età giolittiana in Italia fu lo
scoppio della Prima guerra mondiale nell’estate del 1914.
I LAVORATORI DELL’INDUSTRIA
LA CLASSE OPERAIA
Thompson vede agli operai come uomini e donne in carne e ossa che non sono solo coloro che lavorano
nelle fabbriche (collocazione economica) e faranno la rivoluzione politica (maturazione politica), ma sono
persone che hanno un certo vissuto quotidiano e una vita sociale (famigliari, cibo, abitazioni, tempo libero,
vicinato, ambiente sociale, cultura).
Stefano Merli, Proletariato di fabbrica e capitalismo industriale Le condizioni di vita degli operai sono
segnate da una profonda miseria, dovuta a salari minimi. Abitano in abitazioni che sono per lo più tuguri, in
condizioni igieniche pessime, si alimentano con cibi scadenti, carenti di vitamine e sostanze vitali, vestono
di stracci. Anche le condizioni di lavoro sono particolarmente dure, oltre ad un numero esagerato di
disoccupati pronti a subentrare nelle fabbriche, vi è una migrazione di massa di uomini e donne disperate,
anche quando si lavora vi è una grande incertezza e instabilità lavorativa. I datori di lavoro e gli imprenditori
hanno una totale libertà di licenziamento (se un operaio non va a genio per qualsiasi motivo può essere
lasciato a casa dall’oggi al domani). Anche il tasso di assenteismo, ovvero di coloro che abbandonano il
lavoro è molto elevato, siccome il lavoro è molto faticoso e massacrante e molti uomini e donne non
riescono a resistere a quel carico di lavoro. Fenomeno della pluriattività: ci sono uomini e donne che
prestano parte dei loro giorni, settimana o mesi all’interno delle aziende lavorando come operai e il resto
della loro giornata, settimana, mese lavorano nei campi come contadini.
Il proletariato di fine 800 ha una composizione piuttosto eterogenea, ne fanno parte ex artigiani, le cui
botteghe sono state chiuse, ex contadini costretti ad abbandonare la terra e operai-contadini. Ciò che
emerge dallo scritto di Merli è la quantità elevatissima di donne e fanciulli che popolano il primo
proletariato, grazie al loro atteggiamento docile e di rassegnazione facile da controllare. Inoltre, queste
fabbriche si caratterizzano per il fatto di essere sempre più meccanizzate e perciò richiedono sempre meno
capacità lavorative e questi tipi di lavoratori risultano perciò funzionali, per la maggior manualità e
pazienza. Ci sono anche bambini dai 4 e 5 anni, destinati a vivere una vita di sofferenze. Nelle prime
fabbriche italiane e non solo esistono due tipologie di salari:
Salario a economia, secondo il quale si viene retribuiti in base al tempo di lavoro. È una paga
giornaliera o settimanale, ma non mensile come oggi (solamente dagli anni 70). La scelta di
suddividere questo salario mensile in più volte era data dalla paura che questi operai, una volta
retribuiti corrano subito a spendere e dissipare questa paga, invece di conservarla per i bisogni
essenziali.
Salario a cottimo, secondo il quale si viene retribuiti in base alla quantità di prodotto realizzata
dall’operaio. È evidente che gli operai per produrre di più tendano a lavorare di più per ottenere
una retribuzione maggiore. È però evidente che dietro a questo sistema si celi uno sfruttamento
maggiore, in quanto spesso, sfruttando l’ignoranza degli operai, i datori di lavoro e gli imprenditori,
con una sorta di raggiro arrivano a pagarli meno del dovuto.
Tra le prime rivendicazioni degli operai contro i datori di lavoro ci furono l’aumento dei salari e la
diminuzione degli orari di lavoro, che alla fine dell’800 non erano neanche ben definiti. L’idea era infatti
quella di iniziare all’alba e di finire al tramonto, come si dice <da sole a sole>. Merli documenta il fatto che
molti lavoratori tra i quali anche molti bambini arrivano a lavorare nei mesi estivi fino a 18 ore, mentre al
nord fino a 16 ore. In media a fine 800 si lavora nelle fabbriche 11-12 fino a 14 ore al giorno, che
diventeranno 10 ore per 6 giorni la settimana dopo le prime riforme del 900.
I luoghi di lavoro erano ambienti particolarmente nocivi e insalubri, nei quali erano numerosissimi gli
infortuni dovuti alle poche conoscenze sulle nuove macchine. Un tema importante che fece molte vittime
fu quello delle malattie professionali (saturnismo per i tipografi, avvelenamento da piombo, per i minatori
avvelenamento da mercurio). La malattia più diffusa in Italia nel 900 fu la Silicosi, una malattia polmonare,
diffusa soprattutto nel settore metalmeccanico ed estrattivo. Di conseguenza inizia anche la medicina del
lavoro, che studia le malattie professionali nei luoghi di lavoro. Queste prime fabbriche erano regolate da
una disciplina quasi militare in cui le regole erano molto dure e stringenti e le pause erano ridotte al
minimo. Vi erano una serie di punizioni per chi non rispettasse le regole sul lavoro che arrivavano fino a
delle punizioni corporali, anche se il sistema più utilizzato era quello delle multe. Merli usa un’espressione
molto forte per descrivere le dure condizioni di lavoro nelle fabbriche, <<Gli ergastoli nell’industria>>, per
intendere che questi lavoratori si trovavano nelle industrie come se fossero nelle carceri, come se
dovessero scontare una grave pena, come quella dell’ergastolo. Merli utilizza anche l’espressione di
<<genocidio pacifico>> come se in tutti i paesi ci fosse stato un altissimo numero di vittime a causa del
lavoro come se si stesse combattendo una guerra.
Il simbolo per eccellenza di questo genocidio che avviene nelle fabbriche alla fine del 1800 sono i
regolamenti di fabbrica, che sono i documenti migliori per studiare le condizioni di lavoro nelle fabbriche
italiane. A volte le regole vengono tramandate solo in forma orale, altre volte vengono messe per iscritto e
vanno a costituire il regolamento di fabbrica, la legge che domina all’interno della fabbrica preparata
dall’imprenditore che diventa una sorta di sovrano assoluto. Una parte di questi regolamenti diceva che
l’operaio doveva essere docile e subordinato ai suoi superiori ed eseguire senza indugi tutti i compiti che gli
verranno assegnati; doveva inoltre essere pulito nella persona ed usare modi corretti. Con l’abbandono del
lavoro (scioperi, sfinimenti, pause, fughe) l’operaio doveva ritenersi licenziato. Anche nella condotta
esterna gli operai dovevano condursi con moralità e decoro e non partecipare ad organizzazioni di
resistenza previo licenziamento.
A partire dall’età Giolittiana si passa dall’imposizione individuale di queste norme ad una dimensione
collettiva, in cui gli operai si organizzano e cercano di contrattare per non subire unilateralmente queste
regole di lavoro. La prima tipologia di contrattazione collettiva sono i cosiddetti concordati di tariffa, accordi
tra datori di lavoro e operai che riguardano esclusivamente i salari, con cui i lavoratori chiedevano di
ricevere un salario non inferiore ad una certa somma stabilita. Accanto a questi primi contratti iniziano a
comparire nel 900 contratti collettivi veri e propri che stabiliscono: i minimi tabellari salariali, la riduzione
dell’orario (60 ore settimanali. 10 ore al giorno per 6 giorni salvo casi eccezionali di lavoro straordinario che
deve essere pagato), il collocamento dei lavoratori attraverso delle sorti di sindacati organizzativi, forme di
rappresentanza operaia nelle fabbriche la cosiddetta <<Commissione interna>> che controlla che all’interno
dell’ambiente di lavoro vengano rispettati i contratti stipulati dai lavoratori. Viene perciò introdotta
all’interno dello Stato una legislazione sociale, di efficacia nazionale e non più differenziata per ciascuna
fabbrica.
TERRA E TELAI
Franco Ramella, Terra e telai. Sistemi di parentela e manifattura nel biellese dell’Ottocento: il titolo
evidenzia il discorso della pluriattività, il fatto che questi primi lavoratori erano impiegati nell’industria
tessile, ma continuavano a lavorare i loro terreni. Il biellese fu uno dei tre principali centri lanieri italiani. Il
periodo preso in considerazione sono gli anni centrali dell’800, anni della rivoluzione industriale, che
travolse tutti i sistemi sociali. Nei territori in cui non c’erano i grandi centri industriali più che di rivoluzione
industriale bisogna parlare di un fenomeno più dilatato nel tempo, la proto-industria, grandi trasformazioni
in campo industriale che non avvennero dall’oggi al domani, ma nel corso degli anni. Questo volume ci
racconta una storia molto importante, considerata come un punto di partenza per l’avvenire, i tumulti del
1854, tumulti popolari in cui il popolo prese a protestare contro l’aumento del prezzo della farina e del
pane. I protagonisti di questi tumulti furono soprattutto i lavoratori del biellese, composti esclusivamente
da uomini adulti. Il termine finale della storia di Ramella è la vertenza del 1889 di tipo sindacale per
ottenere un aumento dei salari e una diminuzione degli orari. Le protagoniste di questa vertenza erano le
donne, siccome erano loro a lavorare per lo più nei telai meccanici. L’arma più utilizzata da queste
lavoratrici erano gli scioperi e i risultati per quella specifica comunità furono per lo più positivi. Tra il 54 e
l’89 ci furono soprattutto due grandi eventi, gli scioperi del 1864 e del 1877. Nel 1864 a Biella e in Italia si
ebbero i primi scioperi da parte dei lavoratori dell’industria, non tumulti popolari, ma dei veri e propri
movimenti di astensione collettiva dal lavoro. I protagonisti furono proprio quei tessitori a mano,
protagonisti anni prima dei tumulti del pane. Questi scioperi all’interno dei luoghi di lavoro servivano per
contrastare il sistema delle multe. Questi scioperi furono talmente sorprendenti che le autorità dell’epoca
decisero di muoversi. In particolare, si mosse un politico biellese Mancini che cercò di mediare tra gli
interessi dei lavoratori e quelli degli imprenditori e ne venne fuori un documento, il <<lodo Mancini>>, una
sorta di regolamento di fabbrica, frutto di una forma iniziale di contrattazione collettiva. Nel 1877 ci furono
nuovamente scioperi nel biellese, da parte dei soliti tessitori a mano sempre nei confronti delle multe che
andavano a colpire i già bassi guadagni dei lavoratori. Infatti, nel corso di questi 13 anni la situazione non
era praticamente cambiata, nonostante il <<lodo Mancini>>, si poteva forse ritenere peggiorata. Questa
volta le autorità politiche si mossero a livello nazionale, con il Parlamento italiano che nel 1877 decise
varare la prima Commissione parlamentare d’inchiesta della storia italiana incaricata di studiare questo
fenomeno degli scioperi. Questa commissione pubblicò i suoi risultati in una serie di documenti ancora oggi
importanti per studiare il fenomeno degli scioperi. Questa volta, la risposta degli imprenditori fu di tipo
economico, iniziò infatti un nuovo processo di ristrutturazione industriale, con il quale venne riorganizzato il
ciclo produttivo che portò all’eliminazione dei telai a mano, grazie al quale vennero eliminati i lavoratori dei
telai, che erano operai qualificati dell’aristocrazia operaia. Questi telai a mano vennero sostituiti da telai
meccanici più semplici da utilizzare, che non richiedevano una qualifica e una certa capacità per l’utilizzo e
potevano essere utilizzati da uomini non qualificati e soprattutto dalle donne. Gli operai qualificati che
avevano condotte le lotte di quegli anni rimasero disoccupati e furono costretti ad emigrare, per lo più negli
Stati Uniti. Subentrarono così le donne, che erano state sostituite agli uomini perché si pensava fossero più
docili e facili da subordinare, ma che nel 1889 erano ricorse anche loro agli scioperi, in maniera anche più
dura dei loro predecessori, scioperi più estesi nel numero e più qualitativi nell’organizzazione. Durante
questi scioperi del 64 e del 77 era stata molto attiva la società di mutuo soccorso che proprio in quel
periodo si trasformò in una vera e propria lega di resistenza che guidava le lotte sociali e sindacali. Ecco
perché il biellese è importante nella storia industriale italiana, siccome è stato l’epicentro di una prima
forma di capitalismo industriale nel nostro paese, di una serie di scioperi dei lavoratori e della nascita delle
prime organizzazione di lavoratori dal carattere stabile e duraturo. Dal libro di Ramella viene fuori
l’importanza della comunità, il making che costruisce un lavoratore, dai rapporti famigliari e di vicinato,
dalle condizioni e dal modo di vivere. I primi scioperi non erano tanto fatti per cambiare una situazione, ma
per conservare una certa condizione che andava peggiorando ogni giorno. Questi scioperi finivano in ogni
caso per portare un mutamento, sia esso positivo o negativo.
IL NEW DEAL
Una crisi eccezionale come quella del 29 richiedeva delle risposte di carattere straordinario. In tutti i grandi
Paesi del mondo queste risposte furono molto simili. Il significato più profondo di queste risposte fu un
ruolo decisivo dello Stato in campo economico. Era quindi la <<mano pubblica>> che interveniva
pesantemente nei mercati per salvare l’economia, siccome il mercato da solo non riusciva a soddisfare
questi bisogni. Serviva quindi la politica, l’intervento dei governi. Nacque quindi la politica economica
(l’intervento dello Stato in campo economico), in risposta alla crisi del ’29. L’uomo simbolo di questa
risposta fu Franklin D. Roosevelt, il leader dei democratici negli anni 30. Non fu soltanto colui che salvò gli
Stati Uniti dalla crisi del ’29, ma fu anche colui che sconfisse il nazismo durante la Seconda guerra mondiale.
La caratteristica del programma elettorale di Roosevelt fu quella di abbracciare delle teorie economiche
nuove, la Teoria Keynesiana e di realizzare questo nuovo piano che prese il nome di New Deal (Nuovo
patto). Il New Deal non era altro che l’intervento della mano pubblica, un piano straordinario di intervento
pubblico che seguiva queste nuove teorie Keynesiane. Una teoria che rigettava la centralità del mercato e
tutte le teorie economiche precedenti del liberismo. L’idea rivoluzionaria di questa teoria fu quella di
introdurre delle politiche anticicliche (di fronte ad un ciclo economico negativo, la politica doveva assumersi
le sue responsabilità e mettere in atto delle teorie anticicliche, cioè che frenassero la recessione e facessero
cambiare il segno alla crescita economica). Queste teorie anticicliche consistevano nell’espansione della
moneta, quindi, politiche monetarie che permettessero una maggiore circolazione della moneta,
immettendo più soldi all’interno del mercato che avrebbero provocato sì un aumento dell’inflazione, ma
controllato. Accanto a ciò bisognava anche immettere più denaro pubblico attraverso una maggiore spesa
pubblica, che doveva essere concentrata soprattutto nei lavori pubblici. In questo modo con più soldi in giro
a favore delle imprese queste potevano riprendere a produrre e a fare profitti, che avrebbero provocato un
miglioramento dei salari dei lavoratori, che avrebbero portato un aumento dei consumi per cui le aziende
avrebbero potuto collocare più facilmente i loro prodotti all’interno del mercato. Si innescava così un
circolo virtuoso: agendo sulla leva monetaria e sulla spesa pubblica avrebbe portato ad una ripresa dei
consumi, della produzione, dei salari e dei profitti. Roosevelt si presentò con il famoso programma dei
cento giorni (oggi lo sentiamo spesso ripetere dai politici italiani) e nei primi cento giorni Roosevelt svalutò
il dollaro in modo da poter fare ripartire l’economia americana, stabilì che chi aveva debiti per un
determinato periodo di tempo poteva smettere di pagarli e insieme a questa politica monetaria cominciò a
far partire una politica di lavori pubblici, che significava far si che il governo decidesse un imponente ciclo di
investimenti pubblici per la costruzione di infrastrutture, strade, ferrovie, ponti.
A tutto ciò si affiancarono anche delle politiche del lavoro molto importanti che per la prima volta
permettevano agli Stati Uniti di creare un vero e proprio sistema di relazioni industriali. In particolar modo
due provvedimenti nel 1933 e nel 1935 in cui si introduceva questo sistema di relazioni industriali
attraverso la contrattazione collettiva tra i rappresentanti dei lavoratori e i rappresentanti delle imprese.
Questa contrattazione doveva favorire una crescita dei salari e in cambio le imprese avrebbero ottenuto
una crescita della produttività. Siamo quindi nel pieno di quello che abbiamo chiamato uno schema di
corporatismo pluralista, per cui una triangolazione tra il governo, i lavoratori e il capitale che permise una
ripresa dell’economia americana, che non tornò comunque ai livelli precrisi, almeno fino alla Seconda
guerra mondiale.
Quasi tutte le potenze mondiali risposero a questa crisi nello stesso modo in cui aveva risposto Roosevelt,
vale a dire con un maggiore intervento dello Stato nell’economia, sviluppando la contrattazione collettiva.
Per modello scandinavo o svedese si intende il peculiare sistema socioeconomico affermatosi
progressivamente in Svezia e negli altri Paesi nordici. Questo sistema intende proteggere i propri cittadini
durante l'intero arco di vita, attraverso uno stato sociale equo ed efficiente che garantisca un livello elevato
di qualità della vita ed un livello elevato di protezione sociale; tale spesa è sostenuta tramite una elevata
contrattazione collettiva tra imprenditori e sindacati e una corposa tassazione, pur in contesto di mercato
fortemente liberalizzato e disintermediato dallo Stato.
Con il modello svedese si cominciò a realizzare quello che diventerà poi il Welfare State (Stato sociale)
nell’Inghilterra della Seconda guerra mondiale. L’intuizione di Lord Beveridge con la sua Social Insurance fu
di unificare in un unico sistema statale (con una forte gestione della mano pubblica) tutto quello che poteva
essere definito Welfare State. In un unico sistema di sicurezza sociale vi rientrarono sia le pensioni, sia
l’assistenza sanitaria e tutte quelle forme di assistenza delle categorie più svantaggiate, come potevano
essere i disoccupati e le donne in maternità. Da questo rapporto venne fuori un vero e proprio piano, il
piano Beveridge che venne applicato per la prima volta in Gran Bretagna nel 1945. Lo stato si sarebbe
occupato di proteggere i propri cittadini "dalla culla alla tomba", cioè durante l'intero arco di vita del
benessere sociale.
Questa soluzione di maggior intervento dello Stato in campo economico non fu una prerogativa soltanto
delle democrazie, ma anche delle grandi dittature. La crisi del ’29 portò ad una tale caduta economica oltre
che politica nella Germania di Weimar che di lì a due tre anni la politica di Weimar crollò sotto i colpi e le
violenze del nazismo. Hitler andò al potere nel 1933 e di fronte alla situazione economica drammatica fece
in parte la stessa cosa che si fece nelle grandi democrazie, ma trattandosi di una dittatura, il metodo era lo
stesso, ma gli obiettivi erano diversi. Nel caso delle democrazie si cercava un benessere economico, ma
anche un benessere della cittadinanza. Hitler non aveva alcun interesse sociale, ma voleva mettere in piedi
delle vere e proprie politiche di riarmo per espandersi e riconquistare ciò che si era perso con il trattato di
Versailles. Perciò milioni di cittadini tedeschi disoccupati vennero reimpiegati nelle industrie belliche
tedesche. Anche in Italia si fece la stessa scelta bellica del nazismo, non a caso il fascismo italiano
rappresentò una sorta di modello per Hitler. Infatti, l’Italia per uscire dalla crisi, oltre alle tante cose che
mise in campo ci fu anche una politica imperialista verso l’estero, da qui la famosa guerra di Etiopia del
1935 che permise all’Italia di avere una nuova colonia. In Italia c’era lo slogan tipico dell’ideologia fascista
che era lo slogan della terza via: né capitalismo, ne socialismo, ma il corporativismo <<latino>>. In realtà
questo pensiero rimase un pensiero piuttosto debole e l’Italia rimase pienamente all’interno di un quadro
di economia capitalistica.
Chi invece uscì da un sistema economico capitalista fu l’Unione Sovietica di Stalin. Da un punto di vista
economico il comunismo sovietico significò due grandi cose:
la collettivizzazione agricola forzata: venne abolita la proprietà privata e nacquero grandi aziende
pubbliche. I Kulaki erano i contadini che vivevano in una situazione di maggiore agiatezza rispetto ai
contadini più poveri. Stalin colpì duramente questi kulaki, eliminandoli anche fisicamente o
inviandoli nei campi di lavoro forzato, i Gulag, dove spesso trovavano la morte, date le condizioni di
lavoro estreme.
Pianificazione industriale: l’URSS voleva imporsi come grande stato industriale e per fare ciò
dovette potenziare fortemente la produzione industriale. Ciò avvenne con due piani quinquennali e
nel giro di soli dieci anni l’URSS venne trasformato da paese agricolo povero in una grande potenza
industriale e militare.
IL SINDACATO FASCISTA
L’unica organizzazione dei lavoratori consentita ai tempi della dittatura fascista fu il sindacato fascista. Per
studiare le origini del sindacato fascista bisogna risalire al 1914 l’anno in cui l’USI si spaccò in due. Una delle
due parti, i sindacalisti rivoluzionari interventisti furono il nucleo originario che andò a formare il sindacato
fascista. Questo nucleo di sindacalisti nel 1918 decise di dare vita ad un proprio sindacato, la UIL, che si
spezzò subito in due, da una parte gli antifascisti e dall’altra coloro che consideravano preminenti gli
interessi della nazione su quelli delle singole persone o di un gruppo di persone come potevano essere gli
operai. Dall’incontro di un pezzo del sindacalismo rivoluzionario fascista, un pezzo del sindacalismo
autonomo economico (colore che si preoccupavano solo dell’aspetto economico del sindacalismo e non di
quello politico) e l’insieme degli ambienti nazionalisti venne fuori il nucleo del sindacalismo fascista. La
Confederazione nazionale dei sindacati fascisti nacque nel 1922. Il capo del nuovo movimento sindacalista
appoggiato dal partito unico fascista di Mussolini fu Edmondo Rossoni, che si pose un obiettivo principale,
quello di dare vita al fenomeno di <<sindacalismo integrale>>, ovvero di inserire all’interno di uno stesso
nucleo sindacale tutti i rappresentanti delle imprese. Questo modello di Rossoni non si riuscì a realizzare, a
causa delle forti resistenze della Confindustria. Si arrivò alla firma del patto di Palazzo Chigi nel 1923 con il
quale iniziava una stretta collaborazione tra la Confindustria e il mondo dei sindacati fascisti, ma il disegno
di sindacalismo integrale di Rossoni in realtà non andò a compimento. (Nel dicembre del 1923 venne siglato
a Palazzo Chigi un patto tra Confederazione nazionale delle Corporazioni sindacali e Confindustria, in cui si
affermava la volontà di entrambi di impegnarsi alla reciproca collaborazione tra industriali e lavoratori, evitando
di esasperare il conflitto di classe, che ebbe però più un effetto positivo nei confronti delle prossime elezioni
del 1924 che uno pratico nell'azione rossoniana. In quest'ottica appare anche la mozione del Gran Consiglio del
Fascismo del 15 novembre 1923, con la quale si riconoscenza che la maggioranza degli industriali faceva parte di
Confindustria, della quale si riconosceva così indirettamente l'indipendenza).
Dopo il caso Matteotti anche i sindacalismi fascisti iniziarono alcune forme di protesta contro gli industriali, ma
mai contro lo Stato fascista. Tutto questo fino a quando Mussolini decise di ridimensionare il sindacato unico
fascista con il patto di Palazzo Vidoni (pag. 41 DAL BIENNIO NERO ALLA DITTATURA FASCISTA) e con la Legge
Rocco (stessa pagina). Il sindacato fascista divenne quindi l’unico sindacato nel 1926 riconosciuto dalla
legge. A sancire questo riconoscimento arrivò nel 1927 un documento essenziale nell’ideologia sindacalista
che fu la Carta del Lavoro, nella quale vi erano tutti i principi fondamentali dell’ideologia sindacale fascista.
All’interno di questa carta si parlava della centralità del lavoro all’interno del fascismo per il benessere
primario della nazione e l’importanza del sistema corporativo, organismi che avevano al loro interno
rappresentanti del lavoro, delle imprese e dello stato finalizzati alla collaborazione e alla contrattazione.
Nonostante ciò, gli eventi per il sindacato fascista presero subito una piega negativa. Il simbolo per
eccellenza di questa parabola negativa fu nel 1928 il provvedimento dello sbloccamento confederale, il
tentativo di indebolire il sindacato fascista che veniva perciò smembrato in 13 organizzazioni, che
divennero poi 6 rispetto all’unica precedente. Un’altra azione fu la riforma di collocamento, che istituiva il
collocamento pubblico, che significava che il collocamento spettava direttamente ai ministeri del lavoro e al
governo (il collocamento veniva perciò allontanato dalle mire dei sindacalisti). Il terzo provvedimento che
segno la fase negativa del sindacato fascista fu il passaggio del controllo dell’Opera nazionale dopolavoro
nelle mani del partito. Quest’opera era un organismo di massa che inquadrava e controllava i lavoratori
fuori dagli orari di lavoro. Tutto ciò aggravò ulteriormente le condizioni già tragiche dei lavoratori che non
avevano più un sindacato sul quale fare affidamento. Nonostante ciò, ci furono durante il fascismo alcuni
elementi di modernizzazione, come la contrattazione collettiva nazionale di lavoro (ancora oggi molto
importante) (il primo contratto collettivo nazionale fu quello dei metalmeccanici del 1928) e
l’ufficializzazione di quattro categorie di lavoratori operai (in ordine di importanza: operai specializzati,
operai qualificati, manovali specializzati e manovali comuni).
Dal 1934 iniziò una lenta stagione di ripresa sindacale che portò a cogliere alcuni importanti risultati.
All’interno del sindacato cominciava ad assumere un peso sempre più forte il mondo delle Federazioni di
categoria, siccome venne stabilito che il potere di contrattazione collettiva non sarebbe più appartenuto
alle grandi confederazioni, ma alle Federazioni di categoria. Il secondo fondamentale passaggio che segnò
la ripresa del mondo sindacale fu l’accordo interfederale Cianetti-Pirelli, con il quale lavoratori ed imprese
si accordarono affinché l’orario di lavoro settimanale scendesse dalle 48 ore alle 40. Un altro aspetto di
modernizzazione fu il varo degli assegni famigliari che spettavano ai lavoratori con figli. Nel 1937 ci fu la
firma di un importante contratto collettivo nazionale, dedicato alla categoria degli impiegati dell’industria
di tutti i settori. Ultima grande conquista per il sindacato fascista fu la ripresa del controllo sul
collocamento e sul dopolavoro. Un’ultima importante conquista fu l'istituzione dei fiduciari di fabbrica
cioè di quella figura che avrebbe dovuto trattare i rapporti sindacali interni alle fabbriche e mantenere i
contatti con le stesse.
Ci fu così una forte centralizzazione a livello contrattuale da parte dei capi della CGIL e della Confindustria,
necessaria per la rapida ricostruzione del paese. Ma nel lungo periodo una centralizzazione contrattuale
così forte rischiava di essere molto soffocante per le federazioni di categoria.
I problemi per la CGIL unitaria iniziarono nel 1947 a causa dello scoppio della guerra fredda e con l’inizio
dell’epoca del centrismo. Nello stesso anno la CGIL tiene un congresso unitario in cui si ebbe uno scontro
molto forte dei tre partiti politici principali (socialisti, comunisti, democristiani) sull’articolo 9, ovvero sugli
scioperi economici o politici (si potevano fare entrambi?). I democratici erano contrari agli scioperi politici. I
socialisti e i comunisti presentarono un documento alla democrazia cristiana, il modus vivendi, un tentativo
di fissare delle regole all’interno della CGIL per potere andare avanti. Con questa proposta i socialisti e i
comunisti permettevano ai democristiani di far sentire la loro voce, ma quest’ultimi dovevano cessare
l’ostruzionismo e permettere alla maggioranza di sinistra di governare la confederazione nel modo più
sereno possibile. Questa proposta sembrò essere accolta, ma nel 48 ci fu il primo incidente diplomatico
all’interno della confederazione: venne convocata a Londra una conferenza sindacale internazionale con
l’obiettivo di discutere il Piano Marshall, ovvero la spartizione dei prestiti. La CGIL italiana decise di non
partecipare, ma i democristiani decisero di violare questa scelta e volare a Londra.
La vera e propria svolta arrivò nel 1948, quando una volta conclusa la Costituzione, ci furono le elezioni che
vennero vinte dalla Democrazia cristiana. Il nuovo governo decise che bisognava procedere ad una sorta di
<<18 aprile sindacale>>, uno scontro decisivo per porre fine all’esperienza della CGIL unitaria che veniva
vissuta dalla democrazia cristiana come troppo limitante e soffocante. Il pretesto per la scissione sindacale
arrivò il 14 luglio del 1948 quando ci fu l’attentato a Palmiro Togliatti, il capo del partito comunista, in
seguito al quale ci fu uno sciopero generale dei lavoratori, con l’intervento delle forze dell’ordine per
calmare e reprimere l’insurrezione. Questo sciopero venne preso come pretesto e occasione per la
minoranza democristiana per lasciare la CGIL. Si tennero così in quel giorno delle riunioni infuocate al suo
interno, che portarono all’uscita della democrazia cristiana. (lo sciopero che c’era stato era stato uno
sciopero politico, la democrazia cristiana era contraria a questo tipo di sciopero e quindi lasciò la CGIL).
Nacque così nel 1948 la Libera CGIL composta dai democristiani. Anche repubblicani e socialdemocratici
decisero di uscire dalla CGIL e fondarono la FIL (federazione italiana dei lavoratori). Nel 1950 nasceva la UIL
(unione italiana del lavoro) che non c’entrava nulla con la UIL del 1918, ma era l’erede di un pezzo della FIL,
ovvero quella componente di repubblicani e socialdemocratici. Poco tempo dopo nacque la CISL
(confederazione italiana sindacati dei lavoratori) composta dalla minoranza più grande, quella cattolica
democristiana uscita dalla CGIL unitaria e che un anno e mezzo dopo creava la sua confederazione.
Si concluse così la straordinaria stagione della CGIL unitaria durata quattro anni dal 44 al 48, aprendo una
stagione di sindacalismo ordinario che vedeva come protagonisti la CGIL, la CISL e la UIL.
IL SESSANTOTTO
Il movimento del sessantotto fu il movimento più importante che si verificò durante la stagione dei
movimenti (come viene chiamata dagli storici) tra fine anni 60 e anni 70. Questo movimento fu un
movimento politico (con obiettivi politici), che vide come protagonisti i giovani, studenti e operai, che
lottavano per ottenere riforme riguardanti le scuole, le università e il mondo del lavoro. Ma l’obiettivo
politico di questo movimento era quello di arrivare a cambiare il sistema capitalistico che determinava un
certo tipo di democrazia rappresentativa, che all’epoca veniva ancora definita come una democrazia
borghese. Fu infatti un movimento <<antisistema>>, con l’obiettivo di contestare il sistema economico e
politico, senza voler conquistare il potere e insediare un nuovo stato, ma volendolo trasformare. L’ideologia
di questo movimento era antiautoritaria, cioè contestava qualsiasi forma di autorità, in nome di una
maggiore libertà e uguaglianza, in senso sempre più democratico. Per raggiungere questi obiettivi, i
protagonisti introdussero delle pratiche conflittuali molto radicali, attraverso azioni dirette. La cosa che
sorprende di più di questo sessantotto fu il fatto di essere il primo movimento nella storia dell’umanità di
tipo generazionale in cui i protagonisti erano dei giovani. Proprio per questo causò grandi cambiamenti nel
modo di pensare e di vivere nella società. Un’altra grande caratteristica di questo sessantotto, fu il fatto di
essere un movimento di dimensione internazionale, pur essendo prevalentemente occidentale, arrivando
a coinvolgere tutta l’Europa, l’America e il mondo orientale, toccando anche i paesi del terzo mondo.
Ci furono diverse interpretazioni del movimento del sessantotto: alcuni lo vedono come un <<evento>>,
una cesura tra gli anni precedenti e gli anni a venire con grandi cambiamenti sul piano politico, economico,
sociale e culturale, altri lo vedono come un <<processo>> che ebbe inizio negli anni prima e che produsse
effetti e cambiamenti di ben più lungo periodo, quindi, non solamente una cesura importante della storia
contemporanea.
Un evento catalizzatore per gli Stati Uniti in questo periodo del <<lungo ‘68>>, fu la guerra nel Vietnam,
iniziata a metà degli anni ’60, di fronte alla quale si sviluppò nella società americana un movimento di
protesta contro la guerra, che vide come protagonisti i giovani. Fu per questo un esempio di movimento
del sessantotto. La guerra stava infatti provocando tantissimi morti e feriti, una vera e propria tragedia, una
delle più grandi tragedie della storia americana. Ma il ’68 italiano oltre che per questa protesta, si
caratterizza anche per il movimento per i diritti civili alle minoranze, soprattutto quella degli
afroamericani, che aveva in Martin Luther King il suo punto di riferimento, con la sua predicazione sulla
non violenza. King venne assassinato nel ’68 e poco tempo dopo ci fu anche l’assassinio di Bob Kennedy,
fratello di JFK, candidato alle elezioni.
Nel mondo orientale, in campo sovietico, il grande episodio del ’68 fu la <<primavera di Praga>>, una breve
stagione di riforme, che portarono poco tempo dopo alla repressione di questo movimento che voleva
affermare il tema dell’allargamento dei diritti, delle libertà e della democrazia. Ebbene venne soffocato nel
sangue dall’armata rossa.
In Francia ci fu una vera e propria fiammata rivoluzionaria nel ’68 e il <<maggio francese>> fu certamente
l’esempio più vistoso. In Francia si ebbe l’esempio più riuscito di questo protagonismo dei giovani,
soprattutto nelle università con l’occupazione delle scuole e delle fabbriche. Il caso francese si caratterizza
per una fortissima conflittualità sociale. Nel maggio francese ci fu la più importante saldatura del legame tra
studenti e giovani operai che portò ad uno sciopero operaio che ebbe come conseguenza la firma degli
accordi di Grenelle tra il governo e i sindacati che portavano ad una serie di miglioramenti soprattutto sul
piano salariale.
Il ’68 italiano mostro una serie di analogie con il caso francese, come il forte protagonismo del mondo
giovanile degli studenti e il legame con i giovani operai in nome dell’anticapitalismo. Vi erano poi evidenti
differenze: la Francia fu un esempio per eccellenza di breve ’68, mentre il caso italiano sul piano della
durata assomiglia più al caso americano, in quanto fu un lungo ’68. Inoltre, questo periodo fu caratterizzato
da una serie di specificità italiane, come il fortissimo movimento di migrazione dal sud al nord, la diffusione
dei metodi tayloristici, la piena occupazione che esasperarono ulteriormente le questioni sociali. Sul lungo
periodo questi movimenti raggiunsero risultati molto importanti. Verso la fine del periodo al movimento
studentesco si sostituì una nuova stagione politica dei gruppi della sinistra extraparlamentare, anche
diversi e variegati tra loro, che si posero come avanguardie di tipo rivoluzionario per segnalare il distacco
dalle masse studentesche, mettendo fine alla fase più genuina del ’68.
Le radici della crisi italiana possono essere osservate andando ad analizzare il deficit italiano, la differenza
tra entrate (le tasse dei cittadini) ed uscite (le spese dello stato).
Le uscite: dagli anni ’70 iniziarono a crescere le spese pubbliche, soprattutto le spese degli enti locali
(comuni e province) e delle Regioni (le regioni entrano in vigore nel 1970). Insieme a queste spese iniziò a
crescere in maniera significativa la spesa sociale, ovvero il welfare state, che comprendeva la previdenza, le
pensioni e la sanità. Ma ad aumentare notevolmente furono anche le spese legate alle politiche industriali
assistenzialiste e di crescita. Tutto questo aumento delle uscite con un PIL che entrava in una fase di
recessione portò ad un peggioramento della questione meridionale, con cui il divario tra nord e sud del
paese divenne sempre più grande ed inarrestabile, permettendo alla criminalità organizzata, la mafia in
Sicilia e l’Ndrangheta in Calabria di assumere una rilevanza politica e un peso economico enorme.
Le entrate: la prima grande riforma fiscale nel paese si ebbe nel 1972, la riforma Visentini, che introdusse
l’Iva (imposta sul valore aggiunto), la tassa indiretta ancora oggi più importante. Nel 1973 ci fu un altro
passaggio che riguardava questa volta la tassazione diretta, ovvero che colpisce direttamente le singole
persone e le singole aziende, che furono l’Irpef, Irpeg, Ilor. Il problema del sistema fiscale italiano era
innanzitutto l’altissimo livello di evasione fiscale che riguardava soprattutto l’Iva (che colpiva
indirettamente tutti i cittadini) e il fatto che la gran parte della tassazione si spostò gradualmente dalla
tassazione indiretta alla tassazione diretta (l’anno del sorpasso della tassazione diretta fu il 1979).
In un paese in cui vi erano uscite sempre più elevate e che aveva un numero sempre più ridotto di entrate si
decise di aumentare il carico fiscale, la tassazione. Oltre ad essere una tassazione caratterizzata da
un’elevata pressione fiscale era anche una tassazione squilibrata, siccome le tasse le pagano soprattutto i
lavoratori dipendenti che a causa della tassazione diretta pagano tutto il peso fiscale.
LE RELAZIONI INDUSTRIALI NELLA CRISI DEGLI ANNI '70, TRA ECONOMIA E POLITICA
La crisi economica degli anni ’70 viene definita come crisi del sistema e da questa crisi il capitalismo ne uscì
modificato a livello mondiale. Come già detto il primo atto drammatico di questa crisi di sistema fu lo shock
petrolifero del 1973 che causò in tutto il mondo una recessione economica e una stagnazione produttiva,
oltre che una iperinflazione. La stagflazione provocò una disoccupazione di massa soprattutto a livello
giovanile e un aumento dei prezzi, soprattutto del petrolio, della benzina e dell’energia. Il PIL italiano crollò,
molte aziende andarono in difficoltà, mentre altre sfruttarono questa occasione per cambiare ed innovarsi.
A metà degli anni ’70 ci fu una piccola ripresa, ma poi nel 1979 si presentò un secondo shock petrolifero
per alcuni aspetti addirittura peggiore del primo, uno shock anche questa volta figlio degli eventi
drammatici bellici che avvenivano in Medioriente e nei paesi arabi (Iran in questo caso). Parallelamente a
questa nuova crisi di sistema in Italia si verificò una crisi politica. Nel paese vi era ancora un vero e proprio
pericolo fascista sottolineato da una grande crescita del terrorismo nero che si verificò negli anni ’70 e che
viene ricordato come stragismo nero. C’era già stato l’episodio di Piazza Fontana seguito da altre stragi in
tutta Italia, ma nel 1973 ci fu una crescita di queste stragi, la bomba alla Questura di Milano e nel 1974 la
Strage di Piazza della Loggia a Brescia e la strage sul treno Italicus. Soprattutto la strage di Brescia colpì il
mondo del lavoro, siccome durante una manifestazione sindacale promossa dalle tre sigle esplose una
bomba che causò sei morti e decine di feriti. L’obiettivo dei terroristi era di colpire i carabinieri anche se poi
alla fine vennero colpiti i lavoratori. Si vissero giorni di grande tensione politica e popolare. Negli stessi anni
iniziava ad emergere il terrorismo rosso che iniziò a colpire nel 1974 lasciandosi dietro una lunghissima scia
di sangue e che avrebbe raggiunto il culmine con l’omicidio di Aldo Moro nel 1978. L’obiettivo delle brigate
rosse era di far saltare quell’alleanza anomala tra democrazia cristiana (principale partito di governo) e
partito comunista (principale partito di opposizione).
Questa grave crisi di sistema degli anni ’70 impattò sul mondo delle relazioni industriali, che risentirono
pesantemente del terrorismo, contro il quale sia gli industriali sia i sindacati si schierarono duramente
(omicidi di Guido Rossa e Giuseppe Taliercio). Di fronte a questa terribile crisi economica, imprese e
lavoratori si accordarono per affrontarla insieme e l’esempio per eccellenza di questa alleanza fu il grande
accordo interconfederale Lama-Agnelli tra la federazione unitaria CGIL, CISL e UIL e la Confindustria nel
1975. Questo accordo prevedeva un estensione della cassa integrazione guadagni per proteggere il salario
di chi non riusciva a lavorare a causa della crisi economica e dette vita al cosiddetto punto unico di
contingenza, quel punto all’interno del salario in cui una quota era difesa dalla scala mobile e l’altra quota
era contrattata dai contratti di lavoro; ebbene questo punto venne trimestralizzato, mentre in precedenza
scattava ogni sei mesi, divenne un punto unico, unificato per tutte le categorie di lavoratori e venne
innalzato al punto più alto. Il punto di contingenza era l'importo (in lire) che veniva corrisposto come voce
del salario ogni volta che si determinava un aumento del costo della vita secondo il meccanismo della scala
mobile (economia). La scala mobile era stata introdotta nel 1945, e con un accordo interconfederale del
1975 si stabilì che il punto di contingenza dovesse essere unico per tutti i lavoratori (mentre prima gli
aumenti non erano gli stessi per tutti, a seconda dell'età e della qualifica del lavoratore). Questo accordo
ebbe anche due aspetti negativi: il primo fu che finì per esasperare la rincorsa tra i prezzi e i salari (i prezzi
crescevano, i salari rincorrevano i prezzi e si veniva a creare una spirale che finiva di alimentare l’inflazione),
il secondo fu l’appiattimento salariale, cioè il fatto che le qualifiche più basse avessero una quota del loro
salario maggiormente protetta dalla scala mobile che faceva si che i salari delle categorie più basse
tendevano a crescere più rapidamente dei salari delle categorie più basse. Questo nel corso degli anni creò
un crescente malcontento soprattutto per i lavoratori più specializzati e più qualificati. L’accordo del 1975
diede quindi inizio ad una parabola discendente del sindacato, che rimaneva comunque molto forte in quel
periodo. Infatti, nel 1976 si ebbero i rinnovi nazionali contrattuali che significarono una grande novità per
tutte le categorie, ovvero la conquista della cosiddetta <<prima parte>> dei contratti (o parte politica dei
contratti), all’interno della quale i sindacati e i lavoratori ottenevano i diritti di informazione. Quei diritti di
essere informati come lavoratori e come sindacati e di essere consultati periodicamente da parte delle
aziende, nel caso in cui quest’ultima avesse voluto compiere un determinato investimento, un’azione di
decentramento produttivo, ridurre o aumentare l’occupazione. In poche parole, ottenevano il diritto ad
essere informati e consultati in occasione delle grandi decisioni strategiche prese dalle aziende. Con questi
contratti cominciò ad incrinarsi il fronte unitario sindacale, che non fu una rottura tra CGIL, CISL e UIL, ma
una rottura trasversale tra i settori produttivi, soprattutto tra metalmeccanici e chimici.
La violenza politica di quegli anni attraverso anche un importante fenomeno, il movimento del ’77, un
movimento giovanile che presentava delle analogie col movimento del ’68, ma anche importanti differenze.
Col movimento del ’77, di fronte alla grande disoccupazione e allo sfruttamento del lavoro, la risposta dei
giovani fu il <<rifiuto del lavoro>> (non aveva più senso di parlare di etica del lavoro quando si aveva di
fronte un sistema che dava ai lavoratori un futuro di precarietà). Un esempio di questo atteggiamento
violento presente all’interno del movimento del ’77 si ebbe con l’episodio della cacciata di Lama
dall’Università della Sapienza. Vi erano delle occupazioni all’interno dell’università, il leader della CGIL si
era recato nella scuola per tenere un comizio, durante il quale ci fu un assalto da parte dei manifestanti che
costrinse Lama a fuggire che dimostrò come quel confronto tra il sindacato e i giovani non era possibile.
Sempre nel 1977 ci fu l’accordo sul costo del lavoro, sul tema del caro vita, della scala mobile e
dell’inflazione al quale si oppose la federazione dei metalmeccanici che decisero di fare una grandissima
manifestazione a Roma contro la solidarietà nazionale, ovvero l’alleanza tra democratici e comunisti. CGIL,
CISL e UIL decisero invece di andare incontro a questa collaborazione di governo, anticipando una
famosissima linea di politica sindacale che prese il nome di linea dell’Eur, che venne lanciata nel 1978
all’assemblea dell’Eur. Questa linea era una cosiddetta politica dei <<due tempi>>, in cui c’era un primo
tempo del risanamento dei conti pubblici e un secondo tempo in cui si sarebbe potuto concentrare lo
sforzo anche sui temi dello sviluppo. La solidarietà nazionale terminò pochi mesi dopo l’omicidio di Aldo
Moro nel 1979. La legge più importante creata da questa alleanza tra democratici e comunisti poco prima
dello scioglimento fu la legge che decretava il Servizio sanitario nazionale nel paese, il diritto alla salute
spettava a tutti i cittadini e doveva essere per quanto più possibile gratuito.
IL NEOLIBERISMO IN OCCIDENTE
La crisi degli stati nazione di fronte alla globalizzazione economica suscitò molte critiche nei confronti del
Keynesismo, ovvero delle politiche keynesiane (pag.40). Il neoliberismo propose una teoria totalmente
opposta, ovvero se si voleva avere una crescita economica bisognava ridare nuova forza al mercato. I
mercati avevano la forza per autoregolarsi e lo Stato doveva perciò fare un passo indietro rispetto
all’economia, mettendo meno regole in un mercato che doveva essere lasciato libero di produrre e di
trovare i suoi equilibri tra domanda e offerta. Quindi non più la centralità dello Stato come dicevano le
politiche keynesiane, ma la centralità del mercato. Non bisognava tanto intervenire sul lato della domanda
e dei consumi, ma intervenire sul lato dell’offerta. Non bisognava perciò potenziare i consumatori, ma
potenziare gli imprenditori e i produttori, favorendo i loro investimenti. Questi investimenti potevano
essere favoriti riducendo la spesa pubblica. Questa riduzione veniva poi accompagnata da una riduzione
generale della tassazione, siccome minori entrate delle Stato significavano minori spese e tutto questo
avrebbe contribuito al rilancio della crescita economica. Tutte queste teorie erano nate all’interno di una
Scuola di economisti di Chicago. Questa ideologia neoliberista che nasce negli anni ’70 nella Scuola di
Chicago e si traduce in politica economica a partire dagli anni ’80 è pressoché ancora oggi utilizzata. I
principali esponenti di queste politiche neoliberiste degli anni ’80 sono la Gran Bretagna (Margaret
Thatcher) e gli Stati Uniti (Ronald Reagan), governi conservatori. Queste politiche si indirizzarono subito su
tre assi ben precisi:
La politica monetaria: per combattere l’inflazione venne aumentato il costo del denaro (un denaro
più costoso significa minor circolazione della moneta) innescando così un processo deflattivo.
La politica fiscale: vennero diminuite le tasse soprattutto per le fasce più ricche della popolazione
(per permettere loro di innescare quegli investimenti previsti nella teoria neoliberista), ma
aumentarono le tasse indirette, come quelle sui consumi.
Le politiche sociali: venne applicata una dura riduzione della spesa sociale (come per la sanità
pubblica e il sistema previdenziale) e una crescente privatizzazione di alcuni settori produttivi
fondamentali (settore dell’energia, trasporti, telecomunicazioni).
Tutto questo significava mettere in crisi il welfare state proprio nella patria dove era nato. Tutto questo
portò ad uno scontro duro con il mondo sindacale e ad una conseguente marginalizzazione dei sindacati.
Di fronte alla Gran Bretagna e agli Stati Uniti, il resto dell’Europa agì in modo diverso, seppur in parte
influenzata dal neoliberismo. Nel frattempo, l’Europa si stava allargando grazie all’ingresso della Grecia
(arrivando a 10) nel 1981 e a quello di Spagna e Portogallo (arrivando a 12) nel 1986, mentre la Gran
Bretagna iniziava ad avere una certa resistenza nei confronti dell’integrazione europea, rappresentando
perciò un freno per l’Europa, che veniva portata avanti soprattutto dall’asse franco-tedesco. Negli anni ’80
vi furono soprattutto due grandi proposte politiche sul futuro dell’integrazione europea:
Che il Parlamento europeo diventasse una vera e propria Assemblea costituente, che desse una
Costituzione all’Europa, in modo che potesse partire un processo di integrazione non solo
economica, ma anche politica.
Che facesse progredire l’integrazione europea a piccoli passi, siccome l’Europa non doveva essere
gli Stati Uniti d’Europa, ma una somma di tanti stati nazionali che mantenevano la loro autonomia
Sin dall’85, l’anno dell’insediamento della nuova commissione europea, avvennero degli importanti
cambiamenti:
La convenzione di Schengen: La convenzione tra i paesi europei per garantire la libera circolazione
dei cittadini europei all’interno dei confini dell’Europa
L’Atto Unito Europeo: un documento che si poneva l’obiettivo di rivedere i famosi trattati
costitutivi della CEE di Roma del 1957, superando quindi la CEE per dare vita ad una vera e propria
comunità politica. Questo atto mirava ad una serie di provvedimenti che nel giro di qualche anno
entro il 1992 avrebbe dovuto portare a realizzare l’integrazione europea, alla nascita di un Unione
europea economica e politica
Oltre a questi provvedimenti, si poneva anche il problema di accompagnare la crescita economica con il
benessere sociale dei cittadini. Questo benessere veniva soddisfatto con la redistribuzione dei redditi tra le
diverse fasce della popolazione e lo strumento utilizzato per garantire ciò fu naturalmente il sistema fiscale:
un sistema di tassazione che fosse il più possibile proporzionale per cui i ricchi pagano di più rispetto ai
poveri, permettendo così di finanziare i meccanismi di assistenza, di previdenza, la sanità pubblica e
l’istruzione pubblica. Questo modello sociale europeo comincia ad essere messo in discussione dal modello
neoliberista che inizia ad incrinare una serie di certezze. Da questo punto di vista, l’Italia rappresenta il
simbolo di un modello sociale europeo che cerca di resistere, ma è allo stesso tempo attratto dal
neoliberismo. Dagli anni ’80, falliti i tentativi di alleanza politica e di solidarietà nazionale, la formula politica
scelta dall’Italia nel momento in cui il PC torna definitivamente all’opposizione, non può che essere la
formula del <<pentapartito>>, che significa che cinque partiti politici si mettono insieme (democrazia
cristiana, socialisti, liberali, socialdemocratici e repubblicani) per la prima volta per contrastare
l’opposizione comunista (l’unica nel paese) e per una questione di mantenimento del potere. Il simbolo per
eccellenza di questa lunga crisi politica italiana che scoppia negli anni ’80 è il lento declino della
democrazia cristiana, che poco per volta comincia a perdere il consenso. Un altro segnale che sottolinea il
declino democristiano fu la nascita del nuovo Governo Spadolini repubblicano il primo dopo una lunga
serie di governi democristiani. Successivamente nel 1983 ci fu la nascita di un altro nuovo governo, il
Governo Craxi, in cui i socialisti assumono una posizione centrale. Gli anni del governo Craxi ebbero luci e
ombre e furono caratterizzati da una crescita economica, gli anni del piccolo è bello, del made in Italy, della
crescita del PIL, ma anche dell’aumento del debito pubblico. Nel 1986 venne lanciato un nuovo Piano del
Lavoro che presentava un aspetto molto importante: le politiche attive del lavoro, ovvero l’idea di
combattere la piaga della disoccupazione di massa, dando allo stato quegli strumenti come il rilancio del
collocamento pubblico e l’apertura ai privati (anche i privati potevano fare da intermediazione tra domanda
e offerta del lavoro) attraverso le future agenzie interinali. Altre novità del governo Craxi furono il lavoro
part-time e il lavoro a tempo determinato e indeterminato. Quindi è evidente come negli anni di Craxi ci fu
questa miscela tra il tentativo di tenere in piedi il welfare state e la spinta verso il neoliberismo, con la
centralità del mercato e degli imprenditori. Il pentapartito e il governo Craxi andarono in crisi a causa della
<<questione morale>>, il fatto di un potere nelle mani di una sola classe dirigente, che finì per subire un
processo di logoramento tra la fine degli anni ’80 e l’inizio degli anni ’90 che produsse la crisi della
democrazia italiana, la caduta della prima repubblica nata nel 1946 dai grandi partiti politici che avevano
fatto grande la democrazia italiana.
Questa vertenza aprì la strada a dei cambiamenti profondi in Italia, dove stava arrivando il Toyotismo che
intanto si stava espandendo in tutto l’occidente.
La scala mobile è quel meccanismo automatico che adegua le retribuzioni dei lavoratori al costo della vita,
ovvero all’inflazione. Questo meccanismo viene introdotto ufficialmente in Italia nel secondo dopoguerra
nel 1945. I lavoratori ricevevano questo vantaggio e in cambio dovevano concedere una tregua salariale alle
imprese, ovvero non dovevano richiedere degli aumenti salariati. Inoltre, venivano costituite zone salariali,
che facevano si che a seconda del territorio in cui si lavorava a parità di lavoro vi erano salari differenti. Il
superamento di queste zone salariali si ebbe poi nel 1969. Era stata inoltre stabilita una forte
centralizzazione dei salari, cioè dei minimi salariali a livello nazionale. Il problema arrivò negli anni ’70 con
la grande crisi economica e lo shock petrolifero quando venne firmato l’accordo Lama-Agnelli del 1975
(pag.66) che portò diverse riforme salariali. Questo sistema resse una decina di anni, anche se nel 1977 ci fu
un piccolo accordo interconfederale tra CGIL, CISL e UIL unite e la Confindustria sul costo del lavoro
(pag.67), che produsse grandi proteste.
L’inizio della battaglia politica e sindacale vera e propria della scala mobile si ebbe nel 1982, quando la
Confindustria decise di disdire unilateralmente (senza accordarsi con i sindacati) l’accordo sulla scala
mobile del 1975, siccome stava alimentando l’inflazione. La risposta dei sindacati fu molto dura e decisero
di convocare uno sciopero generale per la difesa dell’accordo del ’75. Seguirono mesi di botta e risposta,
ma la Confindustria mantenne un atteggiamento fermo e risoluto rifiutandosi di sedere ai tavoli delle
trattative per i rinnovi dei contratti collettivi nazionali di lavoro. A causa del blocco della contrattazione
collettiva nazionale che durò tutto il 1982 fu necessario un intervento del governo nel 1983, un accordo di
mediazione, il <<Lodo Scotti>>, con cui i sindacati garantivano la possibilità di un piccolo taglio della scala
mobile, ovvero che una parte del salario protetto diminuisse un po’ e in cambio il governo interveniva con
una serie di misure fiscali e tariffarie, cercando di portare un miglioramento dei prezzi, degli assegni
famigliari e di flessibilità degli orari di lavoro. Tutto questo doveva rientrare nei nuovi contratti che
andavano rinnovati e che avrebbero rappresentato una nuova tipologia di contratto, i contratti di
solidarietà. Pur di impedire il licenziamento dei lavoratori si dava la possibilità di procedere a questi
contratti di solidarietà, contratti in cui i lavoratori mantenevano un livello salariale più basso,
semplicemente per permettere anche ad altri lavoratori di lavorare. Il lodo Scotti rappresentò l’avvio di un
nuovo metodo, ovvero per la prima volta in Italia gli accordi non erano solo più bilaterali tra imprese e
sindacati, ma grazie all’ingresso del governo le parti diventavano tre. Nel 1983 vennero rinnovati i contratti
nazionali di lavoro e ci furono anche nuove elezioni politiche che segnalarono ancora una volta un
indebolimento della democrazia cristiana e un avanzamento del partito socialista con la nascita del
Governo Craxi. Tra l’83 e l’84 avanzò l’ipotesi di un ulteriore e nuovo taglio della scala mobile al quale il
governo, la Confindustria e una parte del sindacato (UIL, CISL e una parte di CGIL socialista) erano
d’accordo. Si arrivò così alla firma dell’accordo separato di San Valentino del 1984, separato ovvero un
accordo firmato dal governo, dalla Confindustria e dalla CISL e UIL, ma non dalla CGIL a causa della
maggioranza comunista che si opponeva. La CGIL si spaccò in tre parti, tra comunisti, socialisti e la terza
componente (la parte più radicale delle sinistre). Di fronte a questo accordo triangolare, il governo decise di
emanare un decreto-legge (il decreto-legge viene utilizzato per le emergenze) che trasformava l’accordo di
San Valentino in un decreto-legge che entrava subito in vigore. L’altro grande avvenimento che avvenne lo
stesso giorno di questo accordo del 1984 fu la fine della Federazione unitaria CGIL-CISL-UIL nata nel 1972.
Sempre nel 1984 tutta la maggioranza comunista della CGIL avviò una grandissima manifestazione di
popolo e di lavoratori contro questo decreto-legge sulla scala mobile, una delle manifestazioni più grandi
nella storia del Paese che posticipò il decreto di qualche mese, senza però riuscire ad eliminarlo. Si
iniziarono allora a raccogliere le firme per arrivare ad un referendum che cancellasse questo decreto di
Craxi. La battaglia referendaria durò per diversi mesi tra l’84 e l’85, il referendum si tenne nel 1985 ed
ebbe un esito che per molti sembrò scontato: vinsero i no, ovvero la maggioranza del popolo italiano
votava contro l’ipotesi di un referendum abrogativo contro la legge sul taglio della scala mobile. Con la
sconfitta referendaria la strada per la definitiva cancellazione della scala mobile sembrava spianata, ormai
l’obiettivo, soprattutto per la Confindustria, era quello non di tagliare, ma di eliminare la scala mobile.
Vennero così firmati due accordi transitori nel 1986 e nel 1990, transitori nel senso che non ponevano fine
alla scala mobile, ma la limitavano ulteriormente. Nel 1992 la Confindustria, CGIL-CISL-Uil e il governo
raggiunsero l’accordo per porre fine al meccanismo della scala mobile. Grazie alla fine della scala mobile
l’Italia poté finalmente voltare pagina e avviare una nuova stagione economica, politica e sindacale.
Innanzitutto, la vertenza sulla scala mobile fu soprattutto una vertenza sindacale che causò come
conseguenza più grave a livello sindacale, la fine della federazione unitaria CGIL-CISL-UIL del 1972, dovuta
soprattutto ai disaccordi tra le confederazioni sul merito dell’accordo, ma anche sulle differenti posizioni
che esistevano tra CGIL da un lato e CISL-UIL dall’altro sul metodo con cui doveva essere condotta
l’azione sindacale. Per tutta la durata della vertenza, la CGIL cercò di portare avanti il tema della
democrazia sindacale, ovvero ai lavoratori doveva spettare l’ultima parola, mentre per gli altri sindacati,
CISL e UIL, il problema dell’inflazione era una cosa estremante urgente, talmente urgente che poteva anche
essere affrontata attraverso uno strumento d’urgenza, che era appunto il decreto-legge, che non
permetteva perciò di procedere con i vecchi metodi del passato che richiedevano un continuo confronto
con i lavoratori. Quindi, se da una parte vi era l’intento democratico sindacale della CGIL che metteva al
primo posto il volere dei lavoratori, dall’altra parte vi era la visione di un sindacato moderato, collaborativo
che avesse un atteggiamento di maggiore responsabilità all’interno del sindacato anche a costo di arrivare
ad una forte centralizzazione delle decisioni, rischiando di passare sopra alla testa dei lavoratori. Chi uscì
fortemente rafforzato da questa vicenda della scala mobile furono certamente le imprese e la
Confindustria. Così dal 1985 si tornò ad un modello di relazioni industriali scarsamente istituzionalizzato (al
suo interno c’era poche regole e queste regole spesso venivano violate da una delle parti in campo), molto
politicizzato ( il ruolo della politica e dei partiti era parecchio presente), molto conflittuale segnato da una
forte conflittualità sociale e soprattutto dal fatto che a dominare questo sistema di relazioni industriali non
erano delle regole con cui si cercava di gestire il conflitto, ma era l’idea che a prevalere alla fine fossero i
rapporti di forza. Tornavano così a prevalere gli interessi delle imprese ai danni di quelli dei lavoratori.
La politica giocò un ruolo essenziale nella vertenza sulla scala mobile. Una vicenda che colpisce molto fu il
silenzio che la democrazia cristiana, il maggiore partito, espresse nei confronti di questa importante
vertenza sindacale, dimostrando il suo declino. Di questa situazione approfittò il partito socialista che
cercava di guadagnare posizioni stringendo un’alleanza stretta con la CISL (sindacato della democrazia
cristiana) e avvicinando quelle minoranze socialiste all’interno della CGIL e della UIL. Quindi il PSI fu
protagonista di quelle vicende e fu occupato da una forte competizione interna nei confronti della DC ed
esterna nei confronti del Partito Comunista. Il grande limite del PC durante la vertenza fu certamente il
ritorno di una sua tipica posizione culturale che vedeva il sindacato essere un soggetto secondario
subordinato ai partiti politici, mentre il grave errore del PC fu la scelta dello strumento referendario sul
tema della scala mobile.
I vincitori della vertenza sulla scala mobile furono ovviamente CISL e UIL, mentre gli sconfitti furono la CGIL,
ma in parte anche tutti i sindacati in generale. Nella seconda metà degli anni ’80 i tre principali sindacati
tentarono di recuperare quell’unità perduta, ma la crisi di fiducia reciproca poté essere recuperata
solamente alcuni anni dopo. Questi sindacati ebbero così l’occasione dopo la vertenza di risistemare le idee
e riorganizzare le principali questioni.: la CISL si riconfermò <<il sindacato dell’autonomia>>, la UIL si
rilanciò come <<sindacato dei cittadini>> (era nella società ormai, più che nei luoghi di lavoro che si
vivevano le maggiori difficoltà economiche, le ingiustizie della mafia e della corruzione, le grandi
inefficienze della politica e della pubblica amministrazione) e la CGIL cercò di ripartire dalla sconfitta e dalla
rottura interna tra socialisti e comunisti come <<sindacato dei diritti>>. Questa riforma della CGIL arrivò
con tre passaggi fondamentali:
L’autoriforma della CGIL: soprattutto sul piano organizzativo, ma ancora di più su quello politico
La Conferenza di programma di Chianciano del 1989: il momento in cui la CGIL teorizzò l’idea di un
sindacato dei diritti. L’idea era quella di puntare molto sulla società oltre che sui luoghi di lavoro,
sulla questione dei diritti fondamentali dei lavoratori e della persona umana.
La fine delle correnti di partito all’interno della CGIL
Con queste riforme la CGIL poteva presentarsi negli anni ’90 con una nuova situazione di uscita da quella
crisi che l’aveva caratterizzata per tutti gli anni ’80. Ciò che alla fine accomunava le tre correnti sindacali era
l’interesse principale per la persona umana e per i suoi diritti fondamentali che rappresentavano l’unica
variabile indipendente.
LA GLOBALIZZAZIONE ECONOMICA
L’ultima globalizzazione è iniziata negli anni ’70, si rafforza negli anni ’80, ma il passaggio chiave di questa
globalizzazione mondiale fu la fine del comunismo, che portò anche alla fine della guerra fredda. La crisi del
comunismo era già in corso da diverso tempo. L’URSS negli anni ’80 attraversava una fase di grande crisi
che diede inizio ad una stagione di riforme dopo la quale si comprese che il sistema dell’URSS era un
sistema irriformabile a causa dei livelli troppo rigidi di dittatura, dei livelli eccessivi di burocrazia e
soprattutto dei gravi problemi economici. Il malumore e il malcontento di tutte le popolazioni non solo
sovietiche, ma anche di tutti gli stati assoggettati dall’Unione Sovietica, sfociarono nel famosissimo evento
di cesura che fu la caduta del Muro di Berlino (le manifestazioni popolari del 1989 portarono
all’abbattimento del muro, il simbolo per eccellenza della cortina di ferro e quindi della guerra fredda), che
significò iniziare un processo di liberazione e di democratizzazione di tutti questi paesi dell’est Europa
comunisti, fino all’ultima caduta, quella dell’Unione Sovietica che avvenne nel 1991.
Tra la fine degli anni ’80 e l’inizio degli anni ’90 con la fine del comunismo, il processo di globalizzazione
economica subì una grandissima accelerazione all’insegna del capitalismo, che si era affermato in maniera
definitiva su tutto il mondo. Tutto questo si dimostra con la nascita che avvenne subito di nuovi mercati:
l’Apec (1989), Mercosur (1991) e Nafta (1992). I paesi firmatari miravano a creare nuovi mercati sempre
più grandi in cui ci fossero maggiori possibilità di consumo e quindi di produzione e scambi. Tra tutti queste
novità, la più importante fu l’Uruguay Round, un ciclo di incontri che si tennero in Uruguay dal 1986 per
allargare sempre di più gli scambi commerciali a livello mondiale e nel 1994 ci fu una grande novità in
campo economico, il simbolo per eccellenza della globalizzazione economica, la nascita dell’Organizzazione
mondiale del commercio (WTO), l’idea che il mondo fosse un unico mercato capitalistico globale. Il WTO
svolse il compito di fissare le regole del commercio internazionale e di seguire l’applicazione di queste
regole. Tutto questo portò una grande crescita a livello mondiale, se guardiamo tutte le persone che
uscirono dallo stato di povertà, soprattutto nei paesi più arretrati. Oltre alle tante luci ci sono anche delle
ombre: spesso queste regole sono state imposte, senza essere discusse in quei paesi maggiormente in
difficoltà, inoltre sono nati una serie di movimenti <<no global>> che si oppongono alla globalizzazione
attraverso movimenti di contestazioni giovanili (tipo Greta Thumberg) in nome di principi di equità sociale,
di difesa dei diritti della persona umana e dei popoli.
In questo processo di globalizzazione economica una posizione centrale l’ha occupato l’Asia e in particolar
modo la Cina. Oltre alla Cina, dopo gli anni ’80 accanto al Giappone si presentano delle nuove potenze, le
<<tigri>> del Sud-est asiatico (Corea del sud, l’isola di Taiwan, Hong Kong e Singapore) che vissero un vero
e proprio boom economico, crescendo in maniera improvvisa. Nel 2001 la Cina entra a far parte del WTO.
Nel 2000 nacque il G8 grazie all’ingresso della Russia di Putin. Sempre più importanti sono le riunioni del
G20 in cui ai grandi paesi del G8 si aggiungono le potenze emergenti (Cina, Brasile, India, Sudafrica, ecc.).
Il simbolo della globalizzazione per eccellenza degli ultimi anni è il World Wide Web (WWW), quella rete
globale di scambi informatici che permette una connessione a livello mondiale. Una rivoluzione informatica
di questo genere incide pesantemente nel mondo economico, tanto che si è iniziato a parlare di economia
2.0. Internet ha portato anche cambiamenti rivoluzionari in campo industria, tanto che si parla di industria
4.0 (quarta rivoluzione industriale). Questo periodo di trionfo tecnologico si porta dietro anche diverse
ombre, come l’attacco alle torri gemelle dell’11 settembre 2001 da parte dei terroristi islamici. La crisi del
2008 partita dagli USA è stata la nuova grande crisi economica dagli anni ’70, una crisi finanziaria che ha
provocato un crollo dell’economia, una recessione economica e globale. Questa crisi è arrivata poi in
Europa dando inizio alla crisi dei debiti sovrani, mettendo in difficoltà soprattutto quelle nazioni, come
Grecia e Italia, caratterizzate da un forte debito pubblico. Oggi siamo di fronte ad una nuova grande crisi, la
crisi del Coronavirus.
Tra la fine degli anni ’80 e l’inizio degli anni 2000 fino ai giorni nostri:
Caduto il muro di Berlino, poté iniziare il processo di riunificazione della Germania tra ovest ed Est nel
1990 che rappresentò un fattore di grande accelerazione del processo di integrazione europea che durava
ormai da circa 30/40 anni. Si poté così lanciare l’Atto Unico Europeo, ovvero dare vita all’Unione Europea
dal 1992 con il Trattato di Maastricht che sancì ufficialmente il passaggio dalla CEE alla UE. Il primo
obiettivo dell’UE era quello di arrivare ad avere una moneta unica, il futuro euro del 2002. Ogni paese
membro dell’Unione Europea doveva rispettare i <<parametri di Maastricht>> nel periodo compreso tra il
1992 al 1998. Se in questo periodo, uno stato non fosse stato in regola con quei parametri non sarebbe
potuto entrare nella zona euro. I parametri più importanti erano essenzialmente tre:
Anche chi non riusciva a centrare in pieno questi parametri, ma avesse dimostrato la volontà e l’impegno
nel raggiungerli sarebbe potuto entrare a far parte della zona euro (come nel caso dell’Italia che non riuscì a
raggiungere il parametro del debito pubblico).
La nascita dell’Unione Europea significava non solo dare un’unificazione monetaria, ma anche una serie di
politiche comunitarie e una crescita costante della politica europea e della cultura giuridica europea basata
sul primato dei diritti umani e di cittadinanza e sancita dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione
Europea di Nizza. Nel 1995 si aggiunsero tre nuovi paesi ai dodici iniziali: Austria, Finlandia e Svezia.
Tra la fine degli anni ’80 e l’inizio degli anni ’90 in Italia, il Pc, il Partito comunista, ovvero il principale
partito d’opposizione uscì di scena e cessò di esistere. Gli anni dell’integrazione europea e dei cosiddetti
parametri di Maastricht furono anni molto duri, in quanto imposero duri sacrifici ad un’economia nazionale
che viveva una situazione molto difficile, con un debito pubblico altissimo. Per questo motivo il governo fu
costretto a introdurre una politica economica molto dura e restrittiva. Venne quindi emanata una manovra
correttiva del Governo Amato che andava ad intaccare pesantemente nel bilancio statale e che serviva ad
iniziare quel difficile percorso di rientro dei parametri italiani all’interno dei parametri di Maastricht. I
cittadini sembravano venire incontro alle richieste dello Stato, ma non si riuscì ad impedire una vera e
propria tempesta valutaria sulla lira (colpì anche la moneta spagnola) che costrinse l’Italia ad abbandonare
momentaneamente il sistema monetario europeo (SME) nel 1992 rientrandoci solamente nel 1997. In
quegli anni venne notevolmente svalutata la lira per poter far ripartire l’economia nazionale. Sempre nel
1992 ci fu il terzo e ultimo passaggio di questo anno drammatico, ovvero venne varata una nuova legge
finanziaria, la <<Finanziaria>> che portò ad una serie di dure riforme e sacrifici. L’Italia riuscì così
finalmente ad entrare nella zona dell’euro nel 1998 dovendo quindi rinunciare per sempre alla
svalutazione monetaria, ma mettendosi al riparo dai grandi shock economici e finanziari che avvengono
continuamente all’interno del mercato capitalistico globale. Restano comunque nel paese grandi problemi
strutturali come l’inefficienza della pubblica amministrazione, i pochi investimenti pubblici destinati alla
ricerca e all’innovazione, la corruzione e la criminalità organizzata.
L’Italia vive nel periodo della nascita dell’Unione Europea una fase di profonda crisi industriale, soprattutto
la crisi del triangolo industriale, all’interno del quale la città che è andata più gravemente in crisi è Genova
(crisi dell’acciaio e del petrolio). Anche Torino e Milano hanno vissuto un processo di deindustrializzazione e
di terziarizzazione. Le cause di questo declino industriale sono parecchie: in generale sono l’assenza di
politiche industriali adeguate (investimenti fallimentari nell’industria chimica), privatizzazioni errate (che
servono a risanare i conti pubblici italiani, ma è anche vero che sottraggono al paese una serie di imprese
fondamentali che spesso vengono acquistate da multinazionali straniere) e l’ingresso prepotente di tante
industrie multinazionali che si impadroniscono di pezzi del sistema industriale italiano. Quindi l’Italia perde
la proprietà di grandi pezzi del suo sistema industriale, perde il quinto posto di potenza industriale (settimo
posto). In Italia vi è una grande importanza delle multinazionali <<tascabili>>, aziende capaci di stare nei
mercati internazionali, ma allo stesso tempo hanno una grandezza media (Benetton, Luxottica). Nell’Italia di
oggi tra le aziende più importanti ci sono 5 aziende pubbliche nelle prime dieci: Enel, Eni, Finmeccanica,
Poste e Ferrovie pubbliche e Fiat FCA, Pirelli, le Generali, Benetton, Luxottica private. Queste sono le
aziende con il maggior numero di dipendenti e con il più alto fatturato in Italia. Poi vi è l’azienda illegale
della criminalità organizzata, soprattutto l’ndrangheta calabrese che occupa la quarta posizione come
fatturato. Questo è uno degli aspetti che impedisce al paese di crescere in maniera continuativa e virtuosa.
LA SVOLTA DEL 1992 E LA FINE DELLA PRIMA REPUBBLICA
La concertazione è un metodo di confronto sistematico tra le parti sociali, tra la rappresentanza delle
imprese e la rappresentanza dei lavoratori al quale partecipa in maniera molto attiva lo Stato e l’obiettivo
principale è quello di provare a governare l’economia, ma anche quei problemi sociali e politici.
In Italia nei primi anni ’90 si assisté alla fine della Prima Repubblica del 1946 durata fino al 1992 e definita
anche come Repubblica dei partiti, i veri protagonisti di questa repubblica su tutti gli altri soggetti politici
(sindacati, Parlamento, istituzioni, ecc.). Il primo partito a scomparire è stato il PC, il Partito Comunista nel
1991. Da questo partito nacquero due partiti, il maggioritario PDS (partito democratico di sinistra) e il
minoritario Partito della rifondazione comunista. Alle elezioni del ’92 fallirono i vecchi partiti della prima
Repubblica, compresi i due nuovi partiti di sinistra, mentre si affacciarono alcune nuove formazioni come la
Lega Nord e l’MSI (Movimento sociale italiano). I grandi partiti subirono un grande tracollo politico nelle
elezioni del 1992 siccome dall’inizio dell’anno era scoppiata in Italia la famosa Tangentopoli, la famosa
inchiesta giudiziaria per far venire a galla tutti i fenomeni di corruzione presenti pesantemente all’interno
della politica italiana. Tangentopoli iniziò con un famoso arresto, l’arresto di Mario Chiesa, un dirigente
socialista nel 1992 e nel giro di pochi giorni si ebbero una serie di conseguenze giudiziarie per cui ci fu un
voto di protesta molto duro da parte dei cittadini italiani nei confronti di queste forze di governo corrotto.
Così tra il 1992 e il 1993 si assistette alla fine di tutto il sistema dei partiti politici della Prima Repubblica,
con la relativa fine della Democrazia cristiana, del Partito socialista italiano e dei partiti minori come il
Partito repubblicano, il Partito socialdemocratico e il Partito liberale. Così lo scenario politico italiano
cambiò totalmente. Il secondo grande avvenimento di questo biennio fu il <<vincolo esterno>> di
Maastricht che costrinse l’Italia ad un forte cambiamento nella politica economica, che nel tempo avrebbe
avuto effetti positivi. Il Governo Amato che vinse alle elezioni era un governo di natura socialista e viene
considerato l’ultimo governo della Prima repubblica e il primo governo della Seconda repubblica. A
complicare questo piano politico, istituzionale ed economico già complicato arrivò il duro attacco della
mafia con le uccisioni dei giudici dell’antimafia Falcone e Borsellino uccisi entrambi da una bomba a due
mesi di distanza, ai quali seguirono una lunga serie di vittime politiche e popolari. Sempre nel 1992 ci fu la
crisi della lira che costrinse la lira ad uscire dallo SME (Sistema monetario europeo) e a svalutarsi
notevolmente, portando delle conseguenze benefiche nel breve periodo, ma piuttosto gravi nel lungo
periodo. Se questo biennio causò una caduta dei partiti politici, dall’altra parte fu caratterizzato da una
nuova stagione di <<supplenza sindacale>>, un nuovo protagonismo dei sindacati e delle imprese. Un
primo evento che spiega questo protagonismo fu la firma di un accordo triangolare del 31 luglio 1992 con il
quale si pose fine al meccanismo della scala mobile. Il motivo principale che portò all’eliminazione della
scala mobile fu il bisogno urgente di diminuire l’inflazione per rientrare nei parametri di Maastricht. Per
diminuire la spesa pubblica, sempre per entrare nei parametri, il governo dovette intaccare il Welfare State
con due decreti:
1. La riforma sanitaria: veniva prima l’economia, poi i cittadini a differenza di quanto avveniva prima.
Con questa riforma ci fu la trasformazione delle USL (unità sociosanitarie locali) in ASL (Aziende
sociosanitarie locali), con la quale gli ospedali divennero vere e proprie aziende ospedaliere.
2. La riforma pensionistica: questa riforma portò aumento dell’età pensionabile, rendeva più
complicati quei requisiti attraverso i quali si poteva raggiungere una pensione di vecchiaia e di
anzianità, veniva stabilito il divieto di cumulo tra pensione e forme di lavoro
I processi di Tangentopoli andarono avanti anche nel 1993. Sempre in questo anno fu necessario un cambio
di governo, con il passaggio dal Governo Amato al Governo <<tecnico >> Ciampi, tecnico siccome fu
composto da politici non di professione, ma da intellettuali e studiosi. Il primo gesto del nuovo governo fu
quello di ricercare l’intesa con le parti sociali, i rappresentanti delle imprese e dei lavoratori, con l’obiettivo
comune di salvare il paese da quella situazione economica, istituzionale, politica e sociale drammatica.
Venne raggiunto un importantissimo accordo triangolare col quale per la prima volta in Italia si arrivò
all’istituzionalizzazione delle relazioni industriali (prima non vi erano mai state regole generali da seguire
nelle relazioni industriali). Questo accordo si componeva di tre parti principali:
La politica dei redditi: mirava a lottare contro l’inflazione attraverso un metodo nuovo: la
concertazione, ovvero significava che le parti sociali con la regia del governo dovevano collaborare
e confrontarsi continuamente.
La riforma del sistema contrattuale attraverso l’adozione di un doppio livello di contrattazione
collettiva: un primo livello di dimensione nazionale (il contratto collettivo nazionale di lavoro) che
durasse quattro anni e un secondo livello di contrattazione decentrata che poteva avvenire o a
livello aziendale o a livello territoriale si singola azienda che non doveva ripetere quando già
stabilito dal contratto nazionale e che era finalizzato alla questione del rafforzamento e alla crescita
della produttività.
Le politiche attive del lavoro: dare vita ad un sistema di intervento sia pubblico che privato nel
mercato del lavoro, che fosse finalizzato soprattutto a combattere la piaga della disoccupazione,
con un potenziamento degli uffici pubblici di collocamento.
In questo periodo complicato nel ’93 la mafia tornò nuovamente a farsi sentire alzando il tiro contro lo
Stato, con le bombe su Firenze, Milano e Roma.
Nel 1994 ci furono nuove elezioni politiche che fecero entrare definitivamente l’Italia nella Seconda
Repubblica, seconda siccome fu caratterizzata da nuove forze politiche, soprattutto del centrodestra, dove
nacque Forza Italia guidata ancora oggi da Berlusconi. Forza Italia si alleò con la Lega Nord e con il
movimento sociale italiano del sud e vinse le elezioni del 1994 dando inizio all’epoca del bipolarismo, cioè
vi erano due poli, uno di centrodestra e uno di centrosinistra che potevano essere ugualmente
all’opposizione o alla maggioranza, cosa che non poteva accadere nella Prima Repubblica. Il governo di
Berlusconi durò pochi mesi, in seguito al quale nacque un nuovo governo <<tecnico>>, il governo Dini, che
decise di procedere ad una nuova riforma delle pensioni, ancora più netta della Riforma di Amato
(Berlusconi fallì proprio sul tema della riforma delle pensioni), non tanto per le risorse sottratte al sistema
previdenziale, ma per il mutamento generale che venne fatto. Venne decisa l’abolizione graduale delle
pensioni di anzianità, venne introdotta la flessibilità dell’età pensionabile (si poteva andare in pensione da
un minimo di 57 ad un massimo di 65 anni), si stabilirono delle finestre di uscita (si poteva andare in
pensione solamente in alcuni periodi dell’anno), venne ridotta l’entità degli assegni sia delle pensioni di
invalidità, sia delle pensioni di vecchiaia. Ma soprattutto la riforma Dini sancì il passaggio definitivo da un
sistema di calcolo di tipo retributivo (calcola l’entità della pensione sulla base delle ultime retribuzioni che
il lavoratore aveva avuto prima di andare in pensione. Garantisce pensioni più elevate) ad un sistema di
calcolo di tipo contributivo (le pensioni non venivano calcolate sulla base delle ultime retribuzioni, ma sulla
base dei contributi previdenziali effettivamente versati nel corso della carriera lavorativa). Ù
Nel 1996 ci furono nuove elezioni che sancirono un nuovo governo, questa volta di centrosinistra, i
cosiddetti governi dell’Ulivo, quella coalizione elettorale che teneva insieme i partiti centristi e i partiti di
sinistra. L’Ulivo era guidato da Romano Prodi che fu capo del governo dal 1996 al 1998. Nel 2000
nuovamente sotto il governo amato ci fu un’importantissima legge, la legge sull’assistenza, che
rappresentò il terzo grande pilastro del Welfare State. (il primo pilastro era stato nel 1969 la legge
Brodolini sulle pensioni, il secondo pilastro era stato il sistema sanitario nazionale con la legge del 1978).
Questo terzo pilastro stabiliva un fondo sociale che aveva la funzione di assistere le persone in difficoltà.
Nel 1998 iniziarono nuovamente dei problemi in occasione del rinnovo contrattuale dei metalmeccanici, il
più importante nel sistema industriale del paese. Nel 1998 non si riuscì a finire il contratto e a raggiungere
l’intesa, che venne raggiunta solamente nel 1999 grazie alla mediazione del governo. L’ultimo atto di
concertazione fu il <<patto di Natale>> del 1998 sotto il Governo di Massimo Dalema (sinistra), un patto
che si poneva l’obiettivo dello sviluppo economico, della lotta alla disoccupazione, di diminuire il costo del
lavoro e di portare avanti politiche attive sul lavoro.
Nel 2001 ci fu nuovamente un cambio di maggioranza, con la vittoria del centrodestra e di Berlusconi che
diede vita a quello che sarebbe stato il <<decennio berlusconiano>> durato fino al 2011. Il centrodestra si
caratterizzò soprattutto per scendere nel campo delle relazioni industriali con il patto del <<manifesto di
Parma>>, orientato a collegare sempre di più il programma politico del centrodestra con le richieste della
Confindustria. Dall’altra parte il centrodestra diede inizio ad una serie di politiche che miravano a dividere il
mondo sindacale. Il simbolo per eccellenza di questa manovra politica fu l’attacco all’articolo 18 dello
statuto dei lavoratori, che stabiliva il diritto del lavoratore al reintegro del posto di lavoro nel caso avesse
subito un licenziamento senza giusta causa. L’obiettivo di Berlusconi era quello di cancellare l’articolo 18.
Contro questa ipotesi la CGIL fece una grande manifestazione nel 2002 al Circo Massimo. Tutto questo
dimostro come il meccanismo della concertazione fosse in rapido declino.
Negli ultimi 20 anni della storia italiana il ruolo dei sindacati si è piuttosto indebolito, non soltanto per le
divisioni all’interno dei sindacati tra CGIL, CISL e UIL, ma anche per una serie di problemi come il forte peso
della burocrazia all’interno dei sindacati, una forte concorrenza nei confronti di CGIL, CISL e Uil da parte
delle tante sigle autonome, un rapporto lavoratori attivi/pensionati molto squilibrato (negli ultimi anni
all’interno dei sindacati il numero di pensionati è cresciuto in maniera esponenziale. Oggi compongono la
metà degli iscritti) e la presenza di un mondo del lavoro sempre più precario (rappresentare i precari è un
compito molto difficile).
Lo scenario attuale della crisi italiana, fuori dall’esperienza covid che peggiorerà ulteriormente la situazione,
si colloca all’interno di due cornici precise, una di carattere economico e una di carattere politico. La cornice
economica nasce con la crisi degli anni ‘70 che ha aperto le porte della globalizzazione economica, a causa
della quale l’Italia ha iniziato a soffrire la concorrenza sia dei paesi emergenti, sia delle ormai affermate
potenze mondiali come la Cina, paesi dove i costi del lavoro e della produzione sono più bassi e con i quali
quindi è più difficile competere. La cornice politica riguarda l’Europa che ha portato tante luci, ma anche
tantissime ombre di una gestione difficile che da troppo tempo penalizza l’Italia. Il problema numero 1
dell’Italia è il frutto di errori e scelte sbagliate, il debito pubblico, cresciuto notevolmente negli anni ’80 e
stabilizzatosi a livelli altissimi negli ultimi trent’anni e che peggiorerà ancora a causa del coronavirus. Altri
problemi dell’Italia sono: la debolezza degli investimenti pubblici e privati sull’innovazione e sulla
formazione dei lavoratori, il peso della burocrazia che finisce per frenare la costruzione delle infrastrutture,
per ingolfare la giustizia (i processi sono lentissimi e lunghissimi) e per rallentare il lavoro pubblico e
privato. Negli anni non sono mancati i tentativi di riforma della burocrazia, ma spesso si è finiti per
scivolare nella corruzione e nella criminalità organizzata. Dietro a questi mali, si celano spesso i grandi
problemi del mondo del lavoro, come la grande questione del lavoro in nero e del lavoro sommerso, che è
una via di mezzo tra lavoro legale e illegale (una parte di questo lavoro emerso è legale, mentre la parte
sommersa è illegale).
Tra i motivi principali per cui l’Italia non cresce più c’è certamente la presenza delle mafie, il problema
dell’inefficienza della pubblica amministrazione, il problema della burocrazia, il problema del debito
pubblico e anche la questione centrale del lavoro <<ferito>>, ovvero il modo in cui viene trattato male il
lavoro, sempre più sottopagato e privo di alcuni diritti fondamentali.
Negli ultimi anni il mondo del lavoro appare sempre più ferito a causa della diffusione del lavoro atipico. Le
cause di questa diffusione che ha colpito la crescita economica italiana sono:
Cause economiche: l’imposizione di quella flessibilità produttiva, fondamentale per le aziende per
competere sui mercati, è certamente un problema, siccome si trasferisce sul mondo del lavoro
diventando precarietà del lavoro. L’esempio per eccellenza è la grande automazione tecnologica
che ha facilitato il lavoro, ma che lo ha anche notevolmente ridotto dal punto di vista quantitativo.
Cause politiche: le teorie neoliberiste hanno imposto la centralità del mercato, subordinando i costi
umani e sociali
Il tema della precarietà del lavoro iniziò negli anni’80 con le prime forme di lavoro atipico: il lavoro part-
time, il lavoro a tempo determinato e la diffusione dei cococo (collaboratori coordinati continuativi), ovvero
quei lavoratori che non hanno vincolo di orario e vincoli di subordinazione (sono anche chiamati lavoratori
subordinati o parautonomi), ma che dipendono da incarichi di lavoro da parte di un committente di lavoro.
Il provvedimento simbolo della flessibilità del lavoro degli anni ’90 per combattere la disoccupazione era lo
strumento di allargamento delle maglie della flessibilità del lavoro, il cosiddetto <<pacchetto Treu>> del
1997 che potenziava il ricorso al lavoro a tempo determinato, potenziava la formula dell’apprendistato
(rafforzare i meccanismi di formazione all’interno dei luoghi di lavoro), introduceva la figura dei cococo,
introduceva il job sharing (lavoro condiviso. Un unico posto di lavoro nel quale si alternano due lavoratori),
introdusse i lavori socialmente utili, ma soprattutto introdusse una tipologia contrattuale che avrebbe
rappresentato il simbolo del lavoro flessibile, il lavoro interinale (il lavoro temporaneo e provvisorio, in cui
il lavoratore veniva preso in affitto da un datore di lavoro attraverso un’agenzia di intermediazione, le
agenzie interinali). All’inizio degli anni 2000 questo pacchetto Treu viene allargato ulteriormente con una
nuova legge, la Riforma Biagi del 2003, che ampliava ulteriormente l’elenco dei lavori atipici, introducendo
il lavoro somministrato al posto del lavoro interinale (l’agenzia per il lavoro oltre a trovare il lavoro ad una
persona stipula addirittura il contratto con l’azienda, cosa che l’agenzia interinale non faceva, dedicandosi
solamente alla mediazione), le collaborazioni occasionali, le collaborazioni continuative a progetto cocopro
(che prendevano il posto dei cococo), il lavoro su chiamata.
Una novità è anche l’economia dei lavoretti, la gig economy. I lavoretti sono quei piccoli lavori in cui si
guadagna molto poco e con cui si è esposti alle leggi del mercato, in balia del mercato e di imprenditori
spregiudicati. Il simbolo della gig economy sono i cosiddetti riders, i fattorini del cibo a domicilio per
esempio. Questi riders sono lavoratori autonomi, ma che di fatto dipendono dalle chiamate che ricevono
dai loro cellulari e dalle loro app. Questo lavoro prevede il fenomeno del caporalato digitale, in cui ci sono
persone che controllano gli account di questi lavoratori, che vengono definiti come i braccianti
metropolitani. Questi lavoratori devono poi fare ulteriormente i conti con la complicità del consumatore,
che decide se lasciare un messaggio, un commento o una valutazione sul servizio che è stato ricevuto, una
valutazione positiva o negativa. I principi del taylorismo sono ancora ben presenti in questi tipi di lavoro,
come la separazione tra la creazione del lavoro e l’esecuzione del lavoro, la ripetitività del lavoro, la rigidità
della subordinazione di questi lavoratori alla direzione aziendale.
Siamo nell’epoca del cosiddetto lavoro alla spina e del Welfare à la carte. Il lavoro alla spina è il lavoro on
demand, quel lavoro che viene effettuato solo su chiamata (se si riceve una chiamata si può lavorare, non
c’è alcuna continuità lavorativa). I voucher rappresentano la forma contrattuale per eccellenza della
precarietà, l’idea che questo tipo di lavoro possa essere pagato attraverso dei buoni lavoro. Al pilastro del
welfare state si sta sostituendo sempre di più il welfare aziendale, una serie di benefits che le aziende
offrono ai loro dipendenti per sostenerli in un momento di difficoltà. Restano esclusi da questo welfare
aziendale, coloro che un lavoro non ce l’hanno o che lavorano per un’azienda che non prevede questo tipo
di welfare. In questo modo viene meno l’dea centrale del welfare state, di un intervento sociale universale
rivolto a tutti i cittadini.