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STORIA DELL’IMPRESA E DEL LAVORO

LE RIVOLUZIONI BORGHESI

Rivoluzione atlantica: impone cambiamenti radicali sulla politica, siccome è una rivoluzione che avviene
sulle due sponde dell’atlantico:

 rivoluzione americana 1776: passaggio dalle vecchie colonie inglesi alla nascita degli stati uniti
d’America. Nel periodo precedente sin dal 600 esistevano queste 13 colonie inglesi nelle quali vi era
un certo malcontento che cresceva nel corso del tempo nei confronti della madrepatria, soprattutto
per il pagamento delle tasse, infatti in Inghilterra c’era questo principio fondamentale del “no
taxation whitout rapresentation”, cioè nessuna tassazione doveva essere data senza
rappresentanza; i coloni infatti non si sentivano rappresentati e per questo motivo avevano un
malcontento crescente nei confronti della corona britannica. Ad un certo punto, siamo nel 1776,
negli stati uniti viene scritto un importante testo dall’intellettuale radicale americano Thomas
Paine, che prende il nome di Common Sense (senso comune). In questo testo veniva per la prima
volta teorizzato il diritto alla resistenza conto un potere che si comportava in maniera arbitraria,
come una vera e propria tirannia. Questa fu la sistemazione teorica di ciò che di fatto accadde da li
a breve infatti il 4 luglio 1776 ci fu la famosa dichiarazione d’indipendenza delle colonie inglesi,
delle ex colonie inglesi, che si autoproclamarono degli stati indipendenti dalla madre patria. Questi
stati si unirono ed ecco che vennero fuori gli stati uniti d’America. Ovviamente gli inglesi non
restarono a guardare, scoppiò infatti una guerra nella quale gli americani ebbero il sostegno
fondamentale dei francesi, così che negli anni 80 questa indipendenza andò in porto e nacque la
confederazione degli Stati Uniti d’America, una confederazione che era una struttura
sovranazionale da questi stati indipendenti, che si occupava fondamentalmente di due questioni, la
politica estera (politica di difesa) e politica militare. Per tutti gli stati valeva il principio del
federalismo, ovvero ogni stato aveva autonoma la propria politica interna. Tutto questo precipitò
all’interno di un testo fondamentale, la costituzione degli stati uniti d’America che venne approvata
nel 1787. Questa costituzione è stata talmente efficace che si è mantenuta uguale a quella attuale.
Passarono pochi anni e nel 1791 vennero votati i primi 10 emendamenti della costituzione
americana che andarono a costituire il bill of rights del 1791 (una sorta di dichiarazione dei diritti
fondamentali della persona che nessun tipo di potere potrà mai mettere in discussione).
Fondamentale capire che molti di questi emendamenti sono in vigore tuttora come il principio di
separazione dei poteri (esecutivo, legislativo e giudiziario). Questo principio è fondamentale
siccome permette il passaggio da una forma di potere assoluto di diritto divino ad un potere
costituzionale, che fa riferimento alla costituzione.
 Rivoluzione Francese 1789: ache in questo caso vi era un retroterra di forte malcontento all’interno
della popolazione e in particolare all’interno del terzo stato (gli stati erano i nobili, il clero e la
borghesia), soprattutto per l’elevata tassazione. Il sovrano difronte a tutto ciò decise di convocare
gli stati generali. Era da parecchio tempo che non venivano convocati, l’ultima convocazione risale
al 1614. I rappresentanti del terzo stato che sapevano che sarebbero stati svantaggiati in quanto
fossero in minoranza rispetto al clero e ai nobili, decisero d rifiutare queste regole, creando quindi
questa rottura rivoluzionaria, dando vita al famoso giuramento della pallacorda, col quale il terzo
stato si proclamò assemblea nazionale. Viene quindi fuori il concetto di nazione, col quale le
persone diventavano cittadini e acquistavano conseguentemente dei diritti fondamentali e dei
doveri senza sottostare ad un potere assoluto. Di fronte a questo giuramento il sovrano provò a
reagire inutilmente, sfociando poi nella presa della Bastiglia (carcere) del 14 luglio 1789. Passarono
pochi giorni e questa assemblea votò la dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino, un
documento che diede inizio alla storia contemporanea, nella quali si diceva che tutti gli uomini sono
uguali e che non devono sottostare a nessun potere assoluto ma devono sottostare solo alle leggi.
Questa dichiarazione la ritroviamo in un testo fondamentale che è la costituzione francese del
1791, che segna il passaggio dal potere assoluto a costituzionale.

Nello stesso momento in cui avvengono queste due grandi rivoluzione, accade un’altra grande rivoluzione
che è quella economica , che è quella industriale. Così come le rivoluzioni francese e americana, anche la
rivoluzione industriale inglese cambia completamente muta all’occidente.

Rivoluzione industriale inglese (a cavallo fra 700 e 800):

epicentro: Inghilterra

simbolo: macchina a vapore

Se prima la principale fonte di energia era l’uomo o gli animali adesso diventano le macchine (in particolare
il vapore). Muta completamente il modo di produrre, soprattutto in campo tessile (cotone, lana, filatura).
Un altro settore molto influenzato è quello metallurgico e successivamente quello dei trasporti
(locomotiva). Nascono le prime ferrovie all’inizio dell’800, così come i primi treni e le fabbriche che
producono ferrovie e treni, dando così una svolta all’economia. Cambia radicalmente il modo di lavorare: se
prima il lavoro era concentrato quasi esclusivamente nei cambi e sul lavoro della terra, con la rivoluzione
industriale il lavoro si sposta nelle industrie e nelle città. Si assiste infatti ad uno spostamento delle persone
dalle campagne alle città e ad una concentrazione della popolazione nelle prime fabbriche e imprese. È un
lavoro che diventa più subordinato, rispetto a quello più libero delle campagne. Ci sono lavoratori che
dipendono da altri soggetti (imprenditori) che sono i proprietari di queste prime fabbriche. Il settore più
importante diventa quello secondario, non più quello primario delle campagne. Questa rivoluzione
industriale che gli storici chiamano la prima rivoluzione industriale basata sulla macchina a vapore ha come
epicentro la Gran Bretagna e dura fino ai primi decenni dell’800, per poi pian piano trasferirsi negli altri
paesi d’Europa. Sul finire dell’800 inizierà la seconda rivoluzione industriale, il cui epicentro si concentrerà
negli Stati Uniti d’America diventati la maggiore potenza del mondo e si caratterizzerà per altre invenzioni
(lampadina, radio, telefono, motore a scoppio, esplosivi). Sempre più settori pesanti rispetto a quelli leggeri
della prima rivoluzione. Anche sul piano dei trasporti avremmo una grande invenzione, l’automobile alla
quale seguirà la navigazione a motore e l’aereonautica.

Ci sono diverse interpretazioni della rivoluzione industriale che portò si grandi benefici, ma anche molti
traumi (inquinamento, condizioni di lavoro, etc.…). Se si applica però un’ottica di lungo periodo è evidente
che i benefici si vedono prevalere sugli aspetti negativi, che esistevano anche numerosi prima della
rivoluzione industriale. David Landes rievoca la figura del Prometeo di Eschilo come paradigma simbolico
della maggiore trasformazione conosciuta dall’umanità: la rivoluzione industriale. Una svolta che ha
innescato una serie di mutamenti in grado di investire gli ambiti più diversi del reale, a partire dai sistemi di
produzione fino ad arrivare ai più vari aspetti della vita politica, sociale, culturale. Il Prometeo Liberato è
stato accolto come un’importate contributo in grado di fornire uno sguardo d’insieme, completo e
approfondito, sul processo di industrializzazione nel continente. Landes ha di fatto riscritto l’intera storia
dell’industria in Europa Occidentale. Come scrive Landes, questa rivoluzione industriale poteva avvenire in
Inghilterra siccome esistevano le condizioni ideali. Era infatti una società aperta sul piano economico e
culturale, nella quale veniva data molta importanza all’istruzione tecnica. A questa tesi di Landes se ne è
aggiunta nel corso degli anni un’altra, di uno storico americano che con i suoi studi storici sul territorio delle
fiandre (Belgio, paesi bassi) che non riguardavano il 700, ma il 600 e diceva che già nel 600 esisteva un tipo
di lavorazione che avveniva nei telai, nei momenti in cui non si poteva lavorare all’aperto nelle campagne,
nei quali venivano lavorati i tessuti. In Italia, come in molti paesi europei, la rivoluzione industriale fu più
lenta e meno traumatica ed ebbe uno dei maggiori epicentri nella zona di Biella con l’industria lamiera.
BORGHESIA E PROLETARIATO

La rivoluzione industriale è stata talmente dirompente che ha portato cambiamenti e novità non solo il
campo economico, ma anche sulla società. Il primo e più evidente cambiamento sociale è il fenomeno
dell’urbanizzazione, ovvero lo spostamento (la fuga, dicono gli storici) degli abitanti dalle campagne alle
città. Le città cominciano ad assumere un peso crescente e un numero elevato di cittadini. Londra passa da
mezzo milione di abitanti a 5 milioni di abitanti. Questo svuotamento delle campagne avvenne non solo a
causa della rivoluzione, ma anche per una profonda crisi agraria, che produce moltissima disoccupazione,
tanto che nelle campagne europee si verifica il fenomeno delle migrazioni, non solo verso le città, ma anche
verso altre nazioni e soprattutto verso l’America.

Il secondo grande evento sociale è la nascita di nuove classi sociali. In passato la maggior parte della
popolazione era composta da proprietari terrieri e da contadini, visto che la vita era soprattutto nelle
campagne. Con le rivoluzioni borghesi la società tende a diversificarsi, infatti accanto ai proprietari terrieri e
ai contadini, si affacciano due nuove classi sociali: la borghesia e il proletariato. Uno degli aspetti
fondamentali delle rivoluzioni è stata l’uguaglianza giuridica dei cittadini (non femminile), che fa si che la
società si riorganizzi economicamente.

LA BORGHESIA

La borghesia è la classe rivoluzionaria perché fa la rivoluzione e scalza dal potere chi in precedenza lo
possedeva (aristocrazia). Il lavoro della borghesia era un lavoro diretto, non viveva di rendita come avevano
fatto per secoli i proprietari terrieri, ma produceva e producendo realizzava direttamente la sua ricchezza.
La borghesia quindi a cavallo tra il 700 e 800 prende il potere. Cos’è la borghesia? Ci sono due importanti
interpretazioni di Carl Marx e Max Weber. L’interpretazione di Marx è di stampo economico e strutturale
della società. Per lui la borghesia è la classe sociale che detiene i capitali e la proprietà dei mezzi di
produzione. Grazie a questa proprietà riesce ad imporre un certo tipo di produzione con lo sfruttamento
del proletariato. Per Max Weber non conta tanto la struttura economica, bensì la dimensione culturale (che
a Marx non importava), i valori di abnegazione, risparmio, sacrificio. Marx era infatti un economista e
Weber un sociologo. Ciò che unifica tutte le borghesie mondiali sono tre aspetti:

 La proprietà privata, che detiene la borghesia e che serve per avviare iniziative e per la
produzione
 La libera iniziativa, fondamentale per lo svolgimento delle attività borghesi. Libertà di muoversi
liberamente
 Profitto, per Marx è il plusvalore. Il borghese ha le sue dipendenze (proletari) che
rappresentano un costo, ma che è un costo inferiore rispetto a quello che l’imprenditore
riscuote vendendo sul mercato. Per Weber il profitto era la remunerazione del rischio; infatti il
borghese secondo il sociologo rischiava sul mercato con affari e investimenti e se questi fossero
andati in porto vi sarebbe stato un profitto.

L’imprenditore è la figura per eccellenza del borghese che si è fatto da sé, che ha deciso di rischiare i suoi
capitali e produrre un determinato bene da vendere sul mercato.

PROLETARIATO

Il proletariato subisce l’azione e le iniziative della borghesia per tutta l’epoca delle rivoluzioni borghesi. Nel
1848, anno delle grandi rivoluzioni d’Europa che portano effettivamente la borghesia al potere, esce il
famoso manifesto del partito comunista di Marx, un’analisi economica, ma soprattutto politica in cui si
indica il proletariato come la nuova classe rivoluzionale, che farà la rivoluzione nei confronti della
borghesia. Il primo proletariato delle rivoluzioni borghesi ha una struttura sociale piuttosto diversificata.
Questo proletariato era composto dagli ex artigiani (ex perché vanno completamente in crisi con la
rivoluzione industriale, perdono la bottega e il lavoro e diventano proletari, lavoratori dipendenti all’interno
delle grandi fabbriche), ex contadini (costretti progressivamente ad abbandonare la terra, siccome la vita
nelle campagne era una vita molto dura, sofferta, esposta alle intemperie e ai di fenomeni naturali, mentre
il lavoro nelle fabbriche è un lavoro più sicuro. Perciò anche i contadini abbandonano le campagne e vanno
a lavorare nelle fabbriche) e dalla figura dell’operaio contadino che in certi periodi dell’anno lavora la terra
e quando questo non è possibile in altri periodi va a lavorare in fabbrica. Una caratteristica del primo
proletariato è l’enorme quantità di lavoro minorile e femminile, innanzitutto perché il lavoro delle
macchine è molto semplice e non necessita di qualificazioni e abilità, in secondo luogo perché queste due
categorie di lavoratori hanno una certa manualità che in alcuni settori come quello tessile e
dell’abbigliamento era assai richiesta. Quindi la composizione del primo proletariato era piuttosto
eterogenea. Le condizioni di vita del primo proletariato appaiono abbastanza dure, tanto che alcuni
rimpiangono il periodo precedente, non soltanto per i rigidi orari di lavoro, ma anche per le condizioni
insalubri delle fabbriche e delle città, dovute soprattutto al sovraffollamento. Nasce quella che gli studiosi
già in quel periodo chiamavano “questione sociale”, cioè il pensiero che la rivoluzione industriale genera sia
ricchezza per i borghesi che difficoltà per i proletari e condizioni disastrose per gli operai. L’interpretazione
di Marx del proletariato: come dice la parola stessa deriva da prole (figli), infatti questi lavoratori non hanno
altro che i figli; è quella nuova classe sociale che non detiene la proprietà privata di nulla, ma hanno
solamente le loro braccia e la famiglia e vivono di quello che viene definito salario (sono quindi lavoratori
salariati). Ecco quindi che da questo dislivello delle due classi sociali deriva ciò che Marx chiama lotta di
classe, secondo la quale c’è il proletariato che deve reagire nei confronti della borghesia. All’interno del
manifesto di Marx viene detto che il proletariato deve unirsi nella lotta contro la borghesia, per far si che si
crei una società non tanto basata sulla libertà sociale, ma soprattutto sull’uguaglianza di tutti gli uomini
(quella che sarà poi la società comunista).

Il proletariato può essere studiato nella sua collocazione di lavoro come fa il Marx economista, nella sua
dimensione politica come classe che diventerà la classe rivoluzionaria, ma anche nella dimensione sociale e
culturale come fa Thompson nel The Making of English Working Class, che ha cambiato la storia del lavoro,
dicendo che il proletariato va studiato non solo all’interno del luogo di lavoro ma anche fuori da esso, nei
quartieri, nelle piazze, nelle parentele, nei valori.

IL CONCETTO MODERNO DI LAVORO

Dalla vicenda storico, politica, economica, culturale, sociale della borghesia discende la storia dell’impresa e
da quella del proletariato discende la storia del lavoro. La storia dell’impresa nasce come una qualsiasi
storia economica di tipo fiscale, matematica, ma accanto a questo studio se ne affianca un altro sempre
sulla storia d’impresa (business history), ma di tipo micro, che non studia la politica fiscale o economica, ma
le singole aziende, le singole imprese ed enti, non solo attraverso fonti matematiche e statistiche, non solo
in termini quantitativi, ma anche qualitativi.

Il lavoro è sempre esistito. Definizione sostanziale: Il lavoro è qualsiasi attività che viene svolta dagli
uomini finalizzata alla sopravvivenza. Ma questa definizione non è sufficiente, siccome manca quella parte
che specifica la retribuzione dell’attività. Definizione formale: il lavoro è un’occupazione sistematica e
specializzata che produce un reddito. Non si guarda solo la sostanza ma anche ciò che circonda il lavoro. Le
casalinghe non sono considerate lavoratrici vere e proprie, siccome si lavorano in modo sistematico, ma
non sono stipendiate. Il concetto di lavoro passa da sostanziale a formale con la cesura della Rivoluzione
Industriale, siccome prima non si parlava di reddito (per la borghesia) e salario (per il proletariato). Tutte le
attività che non producono un reddito sono da considerare come hobby o tempo libero. Marx parla di
lavoro astratto, perché il lavoratore quando lavora nelle fabbriche e nelle aziende si astrae dalla merce che
produce. Il lavoro del lavoratore prescinde dal risultato finale, partecipa ad una catena che produrrà la
merce, che non verrà utilizzata dal lavoratore, ma verrà messa sul mercato

Franco Ramella, Terra e telai. Sistemi di parentela e manifattura nel biellese dell’Ottocento: il titolo
evidenzia il discorso della pluriattività, il fatto che questi primi lavoratori erano impiegati nell’industria
tessile, ma continuavano a lavorare i loro terreni. Il biellese fu uno dei tre principali centri lanieri italiani. Il
periodo preso in considerazione sono gli anni centrali dell’800, anni della rivoluzione industriale, che
travolse tutti i sistemi sociali. Nei territori in cui non c’erano i grandi centri industriali più che di rivoluzione
industriale bisogna parlare di un fenomeno più dilatato nel tempo, la proto-industria, grandi trasformazioni
in campo industriale che non avvennero dall’oggi al domani, ma nel corso degli anni. Questo volume ci
racconta una storia molto importante, considerata come un punto di partenza per l’avvenire, i tumulti del
1854, tumulti popolari in cui il popolo prese a protestare contro l’aumento del prezzo della farina e del
pane. I protagonisti di questi tumulti furono soprattutto i lavoratori del biellese, composti esclusivamente
da uomini adulti. Il termine finale della storia di Ramella è la vertenza del 1889 di tipo sindacale per
ottenere un aumento dei salari e una diminuzione degli orari. Le protagoniste di questa vertenza erano le
donne, siccome erano loro a lavorare per lo più nei telai meccanici. L’arma più utilizzata da queste
lavoratrici erano gli scioperi e i risultati per quella specifica comunità furono per lo più positivi. Tra il 54 e
l’89 ci furono soprattutto due grandi eventi, gli scioperi del 1864 e del 1877. Nel 1864 a Biella e in Italia si
ebbero i primi scioperi da parte dei lavoratori dell’industria, non tumulti popolari, ma dei veri e propri
movimenti di astensione collettiva dal lavoro. I protagonisti furono proprio quei tessitori a mano,
protagonisti anni prima dei tumulti del pane. Questi scioperi all’interno dei luoghi di lavoro servivano per
contrastare il sistema delle multe. Questi scioperi furono talmente sorprendenti che le autorità dell’epoca
decisero di muoversi. In particolare, si mosse un politico biellese Mancini che cercò di mediare tra gli
interessi dei lavoratori e quelli degli imprenditori e ne venne fuori un documento, il <<lodo Mancini>>, una
sorta di regolamento di fabbrica, frutto di una forma iniziale di contrattazione collettiva. Nel 1877 ci furono
nuovamente scioperi nel biellese, da parte dei soliti tessitori a mano sempre nei confronti delle multe che
andavano a colpire i già bassi guadagni dei lavoratori. Infatti, nel corso di questi 13 anni la situazione non
era praticamente cambiata, nonostante il <<lodo Mancini>>, si poteva forse ritenere peggiorata. Questa
volta le autorità politiche si mossero a livello nazionale, con il Parlamento italiano che nel 1877 decise
varare la prima Commissione parlamentare d’inchiesta della storia italiana incaricata di studiare questo
fenomeno degli scioperi. Questa commissione pubblicò i suoi risultati in una serie di documenti ancora oggi
importanti per studiare il fenomeno degli scioperi. Questa volta, la risposta degli imprenditori fu di tipo
economico, iniziò infatti un nuovo processo di ristrutturazione industriale, con il quale venne riorganizzato il
ciclo produttivo che portò all’eliminazione dei telai a mano, grazie al quale vennero eliminati i lavoratori dei
telai, che erano operai qualificati dell’aristocrazia operaia. Questi telai a mano vennero sostituiti da telai
meccanici più semplici da utilizzare, che non richiedevano una qualifica e una certa capacità per l’utilizzo e
potevano essere utilizzati da uomini non qualificati e soprattutto dalle donne. Gli operai qualificati che
avevano condotte le lotte di quegli anni rimasero disoccupati e furono costretti ad emigrare, per lo più negli
Stati Uniti. Subentrarono così le donne, che erano state sostituite agli uomini perché si pensava fossero più
docili e facili da subordinare, ma che nel 1889 erano ricorse anche loro agli scioperi, in maniera anche più
dura dei loro predecessori, scioperi più estesi nel numero e più qualitativi nell’organizzazione. Durante
questi scioperi del 64 e del 77 era stata molto attiva la società di mutuo soccorso che proprio in quel
periodo si trasformò in una vera e propria lega di resistenza che guidava le lotte sociali e sindacali. Ecco
perché il biellese è importante nella storia industriale italiana, siccome è stato l’epicentro di una prima
forma di capitalismo industriale nel nostro paese, di una serie di scioperi dei lavoratori e della nascita delle
prime organizzazione di lavoratori dal carattere stabile e duraturo. Dal libro di Ramella viene fuori
l’importanza della comunità, il making che costruisce un lavoratore, dai rapporti famigliari e di vicinato,
dalle condizioni e dal modo di vivere. I primi scioperi non erano tanto fatti per cambiare una situazione, ma
per conservare una certa condizione che andava peggiorando ogni giorno. Questi scioperi finivano in ogni
caso per portare un mutamento, sia esso positivo o negativo.

LA NASCITA DEL SINDACATO LEGHE DI RESISTENZA E CAMERE DEL LAVORO

Il sindacato è un’associazione composta da lavoratori dipendenti e para-autonomi che decidono di unirsi


collettivamente, ma in modo autonomo dagli imprenditori, a differenza di come accadeva prima che
lavoratori e imprenditori si associavano per trovare un compromesso. I lavoratori decidono di separarsi
dagli imprenditori, siccome hanno appreso la lezione che ogni uomo ha gli stessi diritti degli altri. Inoltre, la
rivoluzione industriale ha messo in luce nuove classi, con interessi sociali ed economici molto distanti tra
loro e distanti soprattutto dalla borghesia. Un sindacato, ancora oggi, rappresenta e tutela i lavoratori e
cerca di difendere quei diritti che sono uguali per tutta la società. Il sindacato non è né un circolo operaio,
né una società di mutuo soccorso, né una cooperativa tra lavoratori e imprenditori, ma è un soggetto che
tutela il lavoro, ovvero i lavoratori che ne fanno parte si autotutelano attraverso la resistenza organizzata.
Esistono molte forme di resistenza tra cui: sabotaggio, furti all’interno di una fabbrica o di un terreno
agricolo, boicottaggio nei confronti di un prodotto o di un’azienda, ma soprattutto lo sciopero, ovvero
l’astensione collettiva dal lavoro da parte di un gruppo di lavoratori, cercando di impedire inoltre che
qualcuno lo faccia al loro posto. Il sindacato è un’organizzazione costituita soltanto da lavoratori che
decidono di resistere ai datori di lavoro in modo organizzato. Tutto questo avviene alle origini dell’età
contemporanea, tra la fine del 700 e l’inizio dell’800 in Inghilterra, Francia, Stati Uniti e nelle nazioni più
avanzate. Nasce dal passaggio dal mutualismo alla resistenza. Il fenomeno del mutualismo in Italia entra in
crisi a fine Ottocento a causa dei problemi economici. Infatti, il capitalismo in Italia prende piede e
inizialmente peggiora notevolmente la condizione dei lavoratori che cominiano a chiedersi se queste
società di mutuo soccorso siano adatte a difendere i loro diritti e i loro interessi. Anche dal punto di vista
politico queste società sono influenzate pesantemente dal pensiero politico borghese. Ma col passare degli
anni arrivano in Italia nuove correnti di pensiero che sostengono che il mutualismo sia uno strumento
vecchio incapace di difendere i lavoratori. Il sindacato nasce in Italia sotto forma di <<leghe di resistenza>>,
che possono nascere come nuove o come evoluzione di precedenti organizzazioni di mutuo soccorso. Lo
strumento più utilizzato da queste leghe era lo sciopero. Le prime forme di scioperi in Italia avvengono in
campo agricolo, i moti de la Boje del 1880, ma i primi scioperi veri e propri avvengono in campo industriale,
i famosi scioperi dei tessitori del biellese del 1864, 1877, 1889. Infatti, è proprio intorno agli anni 80
dell’800 che questi scioperi iniziano a diffondersi nel paese e iniziano a nascere queste leghe di resistenza,
che vengono ad essere influenzate da diverse correnti politiche. Una prima corrente politica molto solida e
diffusa sono i cosiddetti operaisti, una corrente sindacale che inizia a prendere le distanze dal mondo
borghese e ad avvicinarsi ai puri interessi degli operai, ma non sono ancora correnti di resistenza. Un’altra
corrente che segna l’inizio del sindacato in Italia è quella anarchica, una corrente antiborghese. Un’altra
corrente ancora è quella del socialismo, che si scontra duramente con gli anarchici, siccome vogliono si
abbattere la società borghese, ma anche costruire un nuovo potere, il potere proletario, a differenza degli
anarchici che volevano la fine di ogni potere regnante. Le leghe di resistenza nacquero negli anni 70
dell’800, ma si diffusero negli anni 80 nella Pianura Padana e nel triangolo industriale, oltre che a Firenze,
Napoli, Roma, Bari. I settori principali in cui si affermano sono il campo agricolo tra i braccianti, il campo
industriale nel settore tessile, metallurgico, tipografi, etc… Queste prime leghe di resistenza erano
organizzate dall’aristocrazia operaia.

Queste leghe di resistenza capiscono di avere poca efficacia pratica e decidono perciò di unirsi tra di loro
per dare vita a strutture più ampie. Questo allargamento può andare in due direzioni: in una direzione
orizzontale o territoriale (come per esempio per una città o una regione) o in una direzione verticale o
settoriale (per esempio tutte le aziende tessili italiane).

La rappresentanza orizzontale: le leghe di resistenza cominciano ad unirsi per avere più potere e questa
unione avviene in modo territoriale. Ed è questo il momento in cui nascono in Italia le cosiddette Camere
del lavoro, negli anni 90 dell’800 (le prime nascono a Piacenza, a Milano e a Torino nel 1891). Queste
Camere del lavoro inizialmente furono moderate, per timore di essere chiuse e perdere i finanziamenti. Le
loro funzioni sono innanzitutto funzioni di collocamento (cercano di dare lavoro ai loro iscritti), assistenza,
istruzione (insegnano agli operai, spesso analfabeti, a leggere e scrivere e anche un atteggiamento civico) e
di arbitrato (la Camera del lavoro vuole comportarsi come una sorta di arbitro tra gli interessi di due parti).
Nel 1893 nasce la prima struttura nazionale del sindacato in Italia, la Federazione nazionale delle Camere
del lavoro a Parma. Iniziano così ad espandersi le camere del lavoro in tutta Italia eccetto che al sud,
ingigantendo ancora una volta quella che è la questione meridionale. Le camere del lavoro vivono la crisi di
fine secolo,1898-1899, venendo represse e disperse e inizieranno faticosamente a rilanciarsi nel 1901.

Nel 1900 a Genova, città molto importante nel triangolo industriale per il suo porto, ci fu lo sciopero
generale. Nel 1896 venne istituita a Genova la Camera del lavoro, ma pochi giorni dopo la sua nascita
iniziano i primi problemi e scioglimenti, siccome a Genova si stanno formando delle forme di solidarietà
internazionale. Nel 1898 ci fu il secondo scioglimento sempre da parte del prefetto. La Camera del lavoro
riapre nel 1900 e nel dicembre avviene il terzo scioglimento. Il motivo di questo continuo scioglimento sono
le vittorie della Camera del lavoro, come l’aumento dei salari e la lotta nei confronti del caporalato dei porti
di Genova. Il terzo scioglimento produce un effetto molto duro, la proclamazione di uno sciopero generale
di tutti i lavoratori, il primo sciopero generale nella storia italiana. Questo sciopero blocca la città, così come
il porto e i trasporti e così facendo anche il triangolo industriale. Questo sciopero durò 5 giorni e si concluse
con la prima grande vittoria sindacale siccome il prefetto proclamò la riapertura della Camera del lavoro.
Questo evento fu talmente importante che se ne parlò anche nel parlamento e si arrivò alle dimissioni del
governo, che di lì a poco verrà sostituito dal governo Giolitti col quale si verificherà un consolidamento
rilevante dei sindacati in Italia.

FEDERAZIONI CONFEDERAZIONI E PLURALISMO SINDACALE

Lo sviluppo della rappresentanza verticale si ha soprattutto durante l’età giolittiana, grazie al grande
cambiamento economico e alla nazionalizzazione del sindacato. Il sindacato esce dalla dimensione locale
delle leghe di resistenza e delle camere del lavoro per assumere un ruolo nazionale. È proprio durante l’età
giolittiana che si assiste alla grande diffusione in Italia delle strutture sindacali. A partire dal 1901-1902 le
camere del lavoro tornano a crescere in maniera notevole. Se ne costituirono tantissime in Italia, uscendo
dal limite della questione meridionale e diffondendosi in tutto il meridione. Un’altra grande caratteristica
dell’età giolittiana fu la nascita delle Federazioni nazionali di categoria; la prima fu la Federazione nazionale
del libro nel 1893 (tipografi), alla quale seguirono la Federazione nazionale dei ferrovieri nel 1894, la
Federazione nazionale degli edili nel 1900. Accanto alle prime Federazioni di mestiere di fine 800 inizio 900,
nacquero le prime Federazioni industriali, la più famosa che esiste ancora oggi è la FIOM, la federazione
italiana dei metallurgici nel 1901. L’Italia, che rimaneva un Paese ancora prevalentemente agricolo,
nonostante la rivoluzione industriale, vide nel 1901 la formazione della Federazione nazionale dei lavoratori
della terra (Federterra) a Bologna, il cui programma politico fu un programma socialista che aveva come
grande obbiettivo la socializzazione della terra (doveva essere sottratta ai grandi possedenti e resa
pubblica). Dal 1906 la Federterra venne ad essere guidata da una donna, Argentina Altobelli.

Il mondo sindacale andò organizzandosi attorno a due grandi aree molto eterogenee al loro interno:

 i riformisti, quei sindacalisti orientati soprattutto alla ridistribuzione del reddito a favore delle classi
meno abbienti e all’introduzione graduale di elementi di socialismo all’interno del sistema
democratico. I principali strumenti d’azione dei riformisti erano la legislazione sociale a sostegno
dei lavoratori e la contrattazione collettiva, sostenendo che unendosi insieme i lavoratori avrebbero
ottenuto maggiori risultati che rimanendo da soli. I riformisti spingevano quindi per una forte
centralizzazione di tipo contrattuale e organizzativo, consideravano importante lo sciopero ma solo
come ultima scelta nel caso in cui non si fosse riusciti ad ottenere un accordo contrattuale.
 I rivoluzionari avevano un atteggiamento fortemente antiborghese e anticapitalistico. Tra i
rivoluzionari vi erano i socialisti più fedeli al messaggio di Marx della lotta di classe, gli anarchici e i
sindacalisti rivoluzionari che rivendicavano l’autosufficienza del sindacato rispetto a tutte le altre
istituzioni di governo ottenibile attraverso la sua arma principale, lo sciopero generale. Per cui
niente legislazione sociale o contrattazione collettiva, ma solamente un’azione diretta contro gli
imprenditori e lo Stato, espressione del potere della borghesia.

Nell’età giolittiana ci fu un biennio di conflitti, lotte sociali e scioperi nel 1901-1902 che arrivo al culmine tra
il 1902-1903 con alcuni scioperi generali a livello cittadino, il primo dei quali a Torino e poi a Firenze e a
Roma.

In questo clima di scontri di scontro tra riformisti e rivoluzionari, tra Federazioni e Camere del lavoro, ci fu il
tentativo di unire e coordinare queste fazioni opposte. Così nel 1902 ci fu la costituzione del Segretariato
centrale della resistenza che aveva il compito di coordinare l’azione della rappresentanza <<verticale>> e di
quella <<orizzontale>>. Questo organismo fu piuttosto debole e saltò alla prima occasione nel 1904 quando
ci furono due uccisioni di lavoratori durante manifestazioni politiche e sindacali, che portarono i
rivoluzionari che avevano in quel momento il controllo sul segretariato a proclamare il primo sciopero
generale nazionale di tutte le categorie. Questo fu anche il primo sciopero generale nazionale in tutta
Europa. Fu uno sciopero molto organizzato ed efficace, tanto da preoccupare Giolitti, i liberali e i cattolici.
Fu così in quel momento che Giolitti ebbe l’intuizione di stringere un accordo tacito tra liberali e cattolici
che pose, alle elezioni proclamate poco tempo dopo, le sinistre in minoranza. In questo modo lo stesso
Segretariato entrò in crisi e venne sciolto di lì a poco. Infatti, nel 1906 ci fu il colpo decisivo quando i
riformisti stanchi della paralisi del segretariato decisero di andare avanti per la loro strada. Convocarono
quindi un congresso nel quale crearono la loro organizzazione sindacale, la Confederazione Generale del
Lavoro, guidato prevalentemente da riformisti e che girava quindi attorno alle idee della legislazione sociale
e alla contrattazione collettiva e vedeva nello sciopero una delle armi ultime da utilizzare, siccome il più
delle volte finivano in fallimento. Un apporto fondamentale per la nascita del CGDL fu il rapporto con il
partito socialista italiano. Il partito si occupava di tutte le questioni politiche riguardanti i movimenti operai,
il sindacato si occupava di tutte le questioni economiche riguardanti il proletariato. Per tutte le decisioni più
importanti vi era un confronto sistematico tra le due organizzazioni.

Nel 1906 si decise di dare vita alle confederazioni, siccome la <<confederalità>> era sia una soluzione
organizzativa per controllare la rappresentanza verticale ed orizzontale, ma anche un grande ideale
sindacale, siccome attraverso essa si cercava di frenare drasticamente i due pericoli principali sempre
presenti nell’azione sindacale: il corporativismo (l’egoismo delle categorie più forti rispetto a quelle più
deboli) e il localismo (l’egoismo dei lavoratori locali nei confronti dei lavoratori che vengono dall’esterno).
Dietro l’azione sindacale si cela quindi sempre il pericolo che i lavoratori più forti si impongano sugli altri più
deboli. Questo era vero un tempo come è vero ancora oggi.
Una delle caratteristiche principali del mondo sindacale italiano nell’età giolittiana era il fatto che vigeva un
sistema di pluralismo sindacale.

Ad un certo punto nella CGDL iniziò a farsi strada l’idea che il sindacato si dovesse creare una sua
rappresentanza parlamentare, un Partito del Lavoro. Questa idea venne lanciata nel 1910, ma non andò in
porto sia per l’opposizione del partito socialista, sia per l’opposizione della CGDL. Continuava intanto la
collaborazione tra CGDL e partito socialista che raggiunse il culmine nel 1911 quando proclamarono uno
sciopero generale contro la guerra in Libia decisa da Giolitti. Questo sciopero non andò benissimo, infatti la
guerra andò avanti e si concluse con la vittoria dell’Italia. Questo fu quindi un segnale d’allarme di
debolezza che si intensificò per i riformisti della CGDL quando nel 1912 al congresso del partito socialista, la
guida passò dai riformisti ai massimalisti (tra i quali c’era un giovanissimo Benito Mussolini), continuamente
in conflitto con i riformisti della CGDL. Quindi la CGDL visse una fase calante negli ultimi anni dell’età
giolittiana. Particolarmente critica era anche la situazione per i sindacalisti rivoluzionari, che utilizzarono la
loro arma principale per uscire dall’angolo, uno sciopero generale agricolo a Parma nel 1908, uno sciopero
duro e lungo contro gli agrari. Questi ultimi ebbero però la meglio grazie all’aiuto delle autorità pubbliche.
Questo fu quindi l’ennesima dimostrazione che questa strategia del sindacalismo rivoluzionario di scontro
frontale (lo sciopero) era una strategia fortemente perdente. Nel 1912 però i sindacalisti rivoluzionari che
guardavano con ostilità la CGDL, ma ne apprezzavano la forza organizzativa, diedero vita alla loro struttura
nazionale che assunse la forma di una confederazione, l’Unione Sindacale italiana. All’interno dell’USI vi
erano soprattutto le due fazioni degli anarchici e dei sindacalisti rivoluzionari, che furono i principali artefici
di quel duro scontro sociale che si verificò alla fine dell’età giolittiana, la <settimana rossa>> di durissimo
conflitto sociale. Di fronte allo scoppio della Prima guerra mondiale nel 1914 l’USI franò e si spaccò in due
parti contrapposte: gli anarchici (neutrali alla guerra) e i sindacalisti rivoluzionari (favorevoli all’intervento in
guerra). Questi ultimi lasciarono così l’USI e diedero vita alla loro confederazione sindacale nel ’18, la UIL.

I Cattolici si affacciarono sulla scena pre-sindacale con la Rerum Novarum, secondo la quale la rivoluzione
industriale doveva essere affrontata in modo cristiano, con armonia tra le classi sociali, escludendo quindi la
lotta di classe. Quindi i cattolici inizialmente si tennero lontani dal sindacalismo. Più avanti incominciarono a
nascere qua e là le prime leghe bianche, ovvero i cattolici iniziarono ad organizzarsi per offrire ai loro iscritti
servizi e aiuti e iniziarono anche i primi scioperi da parte dei lavoratori cattolici.

Anche i Repubblicani (gli eredi di Mazzini) arrivarono in ritardo nell’esperienza sindacale, proprio perché
questo nacque sotto l’idea della lotta di classe e della resistenza, mentre gli ideali repubblicani prevedevano
una collaborazione pacifica tra le classi sociali. I repubblicani vennero definiti sindacalisti gialli, siccome
facevano sindacato in modo del tutto inefficace, siccome non ricorrevano alla resistenza e agli scioperi.
Questo non vale però per tutti i repubblicani, siccome in alcune zone d’Italia, qualcuno di questi organizzò
eventi di resistenza e scioperi soprattutto con il passare degli anni. I repubblicani però non avrebbero mai
dato vita alla loro struttura sindacale, a differenza dei cattolici che nel 1918 diedero vita alla CIL.

LE ORIGINI DEL SECOLO AMERICANO TAYLORISMO E FORDISMO

Il 900 viene chiamato dagli studiosi, il secolo americano. Come già detto ciò che differenzia la prima
rivoluzione industriale dalla seconda sono le fonti di energia, i settori produttivi, i mezzi di trasporto, le
tipologie di aziende.

Il paese leader della seconda rivoluzione industriale che ha dominato tutto il 900 sono stati gli Stati Uniti
d’America. Dal 1861 al 65 ci fu in America una grande guerra civile tra nord e sud, la prima guerra
<<industriale>>, durante la quale ci fu una grande produzione di armi e armamenti militari, che provocò un
numero elevatissimo di vittime. La guerra si concluse con la vittoria del nord America e con l’abolizione
della schiavitù, fortemente utilizzata nel sud, essendo la parte del paese nel quale la maggior parte del
lavoro era agricolo, a differenza del nord più industrializzato. Da questo evento in poi, iniziò una nuova
stagione nella storia degli Stati Uniti, un’epoca di ricostruzione e crescita che culminò all’inizio del 900
nell’età progressista che ebbe come protagonisti Theodore Roosevelt e Thomas Wilson. Gli anni fra la fine
dell’800 e l’inizio dell’900 furono gli anni in cui costruì la famosa eccezionalità americana che permise agli
americani di affermarsi come la principale potenza economica e militare del mondo. Le caratteristiche
dell’eccezionalità americana sono molteplici:

 Carattere economico: economia capitalistica di mercato. La seconda rivoluzione industriale è


l’epoca della libera impresa, ovvero l’impresa deve essere lasciata libera all’interno del mercato,
con lo stato che si deve ritagliare un ruolo regolatore, ma secondario.
 Carattere sociale: Gli Stati Uniti dopo la guerra civile erano abitati da un numero basso di persone,
nonostante le immense dimensioni delle pianure americane, così iniziano ad arrivare da tutto il
mondo milioni di persone. La società americana si caratterizza perciò da questa immigrazione di
massa che trasforma la società americana in un melting pot (crogiolo di razze).
 La marginalità del socialismo: le idee di Marx non hanno mai attecchito più di tanto negli Stati Uniti,
proprio perché la classe operai americana si trova ad essere molto divisa al suo interno da enormi
fratture di natura etnica che impediscono l’unione contro la borghesia.
 Stabilità politica: sistema bipartitico: repubblicani e democratici

Ci fu inoltre una grande crescita militare, che esplose nel 1898 con una guerra contro la Spagna, sancita
dalla rapida vittoria americana e dalla conquista di Cuba e delle Filippine. È da qui in avanti che gli Stati Uniti
diventeranno la più grande potenza industriale.

Il simbolo dell’industria americana fu l’industria automobilistica, in particolare la Ford, da qui nacque il


Fordismo. Ma prima di questo ci fu un altro concetto fondamentale, il Taylorismo, che prende il nome da
Friedrick Taylor, un ingegnere di origini tedesche, che tra la fine dell’800 e l’inizio del 900 diventerà il padre
dello scientific management, una nuova modalità di produzione industriale. I principi fondamentali del
Taylorismo sono:

 La semplificazione massima del lavoro: prendere un lavoro e scomporre il ciclo di produzione in


tanti piccoli e semplici gesti in modo che tutte le persone siano in grado di compierli. Taylor
scompone il lavoro per poterlo misurare (da qui scientific management), per esempio
cronometrando i tempi di produzione e dei singoli passaggi, rendendo il lavoro sempre più
razionale e scientifico. Tutto questo per aumentare la produttività, arrivando ad una produzione di
massa degli oggetti e ad un maggior ricavo per le imprese.
 Effetti sui lavoratori: l’aristocrazia operaia di fonte ad un lavoro sempre più elementare finiscono
per perdere quella sapienza professionale e diventano sempre più limitati nelle loro libertà. I ritmi
di lavoro diventano più duri e faticosi, in quanto ripetitivi. In fabbrica si afferma una nuova
tipologia di lavoratori, i tecnici che si trovano a lavorare in uffici di analisi del lavoro e che si
trovano in una fascia intermedia tra la direzione aziendali e i lavoratori. Si accentua perciò questa
figura dei capi reparto che tengono sott’occhio e sotto il loro dominio i poveri lavoratori, sempre
più dequalificati e sfruttati. Lo sfruttamento è talmente elevato che iniziano i primi scioperi contro
questi nuovi metodi. Il 1911 è l’anno del primo grande sciopero contro i metodi tayloristi, lo
sciopero di Watertown Arsenal.

Il fordismo prende il nome da Henry Ford, un imprenditore che si buttò nella produzione di autovetture,
diventando ben presto il più importante produttore di auto non solo negli Stati Uniti, ma in tutto il mondo.
L’invenzione di Ford destinata a cambiare in maniera evidente il mondo della produzione industriale fu la
catena di montaggio, un nastro trasportatore che permette di accelerare la produzione industriale,
portando gli strumenti della produzione direttamente agli operai. Non sono più gli operai che si muovono,
ma i prodotti che arrivano direttamente nelle loro mani. La catena di montaggio fa la sua prima comparsa
nello stabilimento di Ford di Highlands Park nel 1914. Questa introduzione fu talmente importante che nel
giro di pochi giorni si ebbe una netta diminuzione dei tempi di lavorazione. Prima dell’introduzione della
catena per costruire una macchina Ford ci volevano 700 minuti, dopo la produzione solamente 100 minuti.
Quindi se Taylor semplicizzò il lavoro, Ford lo accelerò. Naturalmente l’azienda per mantenere quei livelli
così elevati di produzione di massa è evidente che non possa giocare più di tanto con certi aspetti come il
colore della macchina (infatti tutte le prime macchine che uscivano dagli stabilimenti della Ford erano di
colore nero). Nel 1914 Ford introduce un’altra novità. Decide di raddoppiare i salari dei suoi dipendenti
arrivando a 5 dollari all’ora. Questa innovazione quasi al pari livello della catena di montaggio, porta Ford
ad essere il primo imprenditore che guarda ai suoi operai non solo come dipendenti, ma come possibili
acquirenti dei propri prodotti di massa, in quel caso dell’automobile. Quindi il fordismo non è solo
produzione di massa, ma anche consumismo di massa. Ford aumentò infatti in maniera significativa
l’assistenza nei confronti dei suoi lavoratori: vennero costruite delle case riservate ai dipendenti, vennero
diffusi degli spacci e dei negozi nei quali questi lavoratori potevano rifornissi, venne istituita un’assistenza
sanitaria ed educativa nei confronti degli operai e delle loro famiglie.

Ci furono però anche diverse ombre nel fordismo come il grande sfruttamento umano, un maggior
controllo e una maggiore gerarchia all’interno delle fabbriche e quindi una maggiore repressione,
simboleggiata dalla presenza di una vera e propria polizia interna incaricata di tener l’ordine pubblico negli
stabilimenti. Il sindacato non era inoltre ammesso all’interno delle fabbriche Ford.

LA PRIMA GUERRA MONDIALE E LA MOBILITAZIONE INDUSTRIALE

Le cause che portano allo scoppio della guerra sono principalmente due:

 Il nazionalismo: deriva dalla nazione, il concetto innovativo che nasce con le rivoluzioni. Non è altro
che una comunità di persone libere, cittadini, che hanno doveri e diritti e sono guidati non più da un
potere assolutistico, ma da un potere costituzionale. Insieme a questo, si sviluppa anche il concetto
di ideologia della nazione (nazionalismo), che pone l’accento sugli aspetti biologici, di sangue,
culturali che accentuano la distanza e l’ostilità tra le diverse nazioni.
 L’imperialismo: derivazione del nazionalismo. Questi grandi stati nazionali si danno alla conquista di
enormi territori, soprattutto in Africa e in Asia che sono dotati di grandissime materie prime e
grandi quantità di forza lavoro, rischiando gioco forza di entrare in conflitto tra di loro. Si inizia
perciò ad assistere ad una serie di scontri armati sempre più significativi.

La Grande Guerra viene definita <<mondiale>> siccome per la prima volta viene combattuta una guerra che
coinvolge i Paesi di tutto il mondo. È anche la prima guerra di <<massa>> siccome coinvolge le grandi masse
di soldati dei singoli Paesi e le grandi masse di civili che rappresentano il fronte interno e sono mobilitate in
maniera attiva in questo scontro (per esempio anche con la propaganda). La guerra assume quindi le
dimensioni di uno scontro <<totale>>. La Prima guerra mondiale è combattuta da due grandi coalizioni
contrapposte: la Triplice Intesa (Gran Bretagna, Francia, Russia) e la Triplice Alleanza (Impero Austro-
Ungarico, Impero Tedesco, Italia). L’Italia però inizialmente nel 1914 decide di dichiararsi neutrale,
pensando di trarne vantaggi commerciali, non fermando l’economia e continuando ad avere rapporti con
tutte le nazioni. Ma è proprio nei mesi della neutralità che l’Italia inizia a prendere le distanze dalla Triplice
Intesa e ad avvicinarsi e poi ad allearsi segretamente con la Triplice Alleanza, data la grande distanza e
l’antico risentimento nei confronti dell’Austria. L’Italia entra così in guerra nel 1915. A spingere per l’entrata
dell’Italia in guerra furono soprattutto quei settori pesanti come i bellici e metallurgici, che avrebbero
guadagnato di più da un’entrata in guerra, finanziando quindi i quotidiani che avrebbero dovuto convincere
la popolazione ad entrare in guerra. Uno fra questi quotidiani fu l’Avanti diretto da Mussolini, che spingeva
per l’entrata in guerra. Per questo motivo venne espulso e fondò un suo quotidiano, il Popolo d’Italia, che
sarà il giornale del partito fascista, finanziato dai grandi gruppi industriali italiani che vorrebbero entrare in
guerra.

La Prima guerra mondiale è stata la prima guerra <<industriale>> di carattere mondiale (guerra civile
industriale in America).

Antonio Gibelli, L’officina della guerra: analisi della guerra attraverso la figura dei soldati, come <<soldati
senza qualità>>. Essi sono sì degli eroi, ma di un eroismo non positivo. Infatti, ai soldati delle trincee viene
richiesto un eroismo passivo, un’accettazione di una realtà drammatica, un atteggiamento passivo spinto
dal grande spirito nazionale inculcato alle masse nei decenni precedenti. Se infatti poco tempo prima non
esisteva il concetto di appartenenza alla nazione, durante la Prima guerra mondiale i cittadini si sentono
responsabili di combattere per il proprio paese, spesso offrendosi volontari, per diventare vera e propria
carne da macello nelle trincee. Gibelli dice che questo soldato senza qualità è la stessa tipologia di persona
dell’<<operaio senza qualità>> tipico della nuova società industriale.

L’Italia dopo la Prima guerra mondiale sarà ancora un paese prevalentemente agricolo, ma durante i 3 anni
di guerra diventerà sempre più industriale. Tre grandi aziende furono protagoniste della guerra: l’Ansaldo di
Genova, la più grande industria italiana di armamenti, l’Ilva l’acciaieria italiana per eccellenza indispensabile
per gli armamenti e la Fiat che riesce in poco tempo a passare dalla produzione di macchine alla produzione
di armi, navi aeroplani utilizzati in guerra. Queste aziende decuplicarono i loro guadagni e di conseguenza
assunsero un numero elevatissimo di operai. Tutto questo complesso meccanismo di crescita industriale del
Paese viene ad essere gestito dal meccanismo della Mobilitazione Industriale, che dirigeva la produzione
industriale finalizzata allo sforzo bellico e controllava e gestiva la manodopera all’interno delle fabbriche
ausiliarie all’esercito.

Se durante la guerra l’Italia vede una grande crescita industriale, nell’immediato dopoguerra vengono fuori
tutti gli squilibri economici e sociali che un evento come la guerra ha provocato in tutto il mondo. Da un
punto di vista economico lo squilibrio più evidente è l’enorme crescita del debito pubblico. Infatti, in un
periodo come la guerra, non viene aumentata la tassazione, ma vengono aumentate le uscite e ridotte le
entrate. Questo scenario di crisi, porterà in alcuni paesi il problema dell’inflazione, ma soprattutto una
grande disuguaglianza sociale tra i cittadini, soprattutto per chi come gli operai ricevevano un reddito fisso.
Su questo scenario già piuttosto difficile, si abbatté la grande crisi economica del 1921. Le grandi imprese
che avevano dominato in guerra vivono un fenomeno di riconversione, soprattutto l’Ansaldo e l’Ilva,
mentre la Fiat riuscirà a stare in piedi con le sue forze senza essere aiutata dallo Stato, tornando alla
produzione delle auto, con l’apertura di una nuova e più grande azienda. Durante il fascismo domineranno
in Italia le aziende elettriche, chimico e meccanico, oltre alle grandi aziende già esistenti dell’industria
pesante. Una mossa intelligente del primo fascismo fu quella di dare continuità alla politica economica
liberale, senza intervenire in modo duro e radicale, ma mantenendo ciò che c’era di positivo senza
sconvolgere l’intero sistema.

IL MONDO DEL LAVORO DURANTE LA GRANDE GUERRA

Una delle novità più importanti dell’Italia in guerra è il raggiungimento di una situazione di piena
occupazione per la prima volta dall’unità d’Italia. Questa fu una novità straordinaria dati gli elevati tassi di
disoccupazione che avevano da sempre caratterizzato la nazione. Questo picco di occupazione è dovuto alle
industrie, siccome ci si entra a lavorare in modo massiccio, essendo queste impegnate al massimo
soprattutto per i rifornimenti bellici e per gli abbigliamenti di guerra. Vi sono inoltre numerosi lavori militari
di cui necessita l’esercito nei fronti. Tra i settori produttivi quello che va maggiormente in crisi è quello
agricolo, siccome la maggior porte dei soldati che partono in guerra sono contadini e braccianti, lasciando le
campagne desolate. Per risolvere questo problema vengono istituite delle Commissioni agricole, che vanno
proprio alla ricerca di lavoratori che possano prendersi cura delle campagne, indispensabile per l’industria
militare e la nutrizione dei soldati. Vi è inoltre una sorta di lavoro a domicilio delle donne soprattutto nel
settore tessile e dell’abbigliamento, per rifornire l’esercito delle tute e dell’equipaggiamento.

Molto importante durante la guerra diventa il lavoro delle donne che svolgono un lavoro sostitutivo, dei
soldati costretti a partire per la guerra, nelle campagne e nelle fabbriche. Non è però soltanto un lavoro
sostitutivo, ma anche un lavoro integrativo per quanto riguarda alcuni settori, soprattutto all’interno delle
fabbriche. Questo porta dei cambiamenti sia sul piano sociale e culturale che su quello economico. Sul
piano sociale infatti, le donne escono dalle loro case nelle quali sono state per tanto tempo confinate ed
entrano nella società; cominciano così a mutare in modo evidente i rapporti di genere all’interno della
società. Con l’scita delle donne dalle case cambiano anche gli usi, i costumi, le tradizioni, portando ad una
modernizzazione dell’Italia e di tutto il mondo. Tutto questo porta al processo di emancipazione delle
donne, che avviene proprio attraverso il mondo del lavoro, siccome le donne diventano una necessità per la
nazione. Il percorso che porterà le donne a diventare cittadine a tutti gli effetti dei vari paesi sarà un
percorso lungo, che avrà un punto fondamentale nell’acquisizione del diritto di voto.

Il Warfare: nel 1917 in Italia si decide di procedere ad un’assicurazione obbligatoria per l’invalidità e la
vecchiaia, però rivolta solo ai lavoratori della Mobilitazione industriale, che verrà portata avanti anche nel
primo dopoguerra. Il Warfare sarà quindi un primo tentativo di dare vita ad un sistema di welfare (Sistema
sociale che vuole garantire a tutti i cittadini la fruizione dei servizi sociali ritenuti indispensabili), anche se
con finalità ed obbiettivi sociali diversi.

La condizione operaia cambia notevolmente in virtù della guerra. Il lavoro diventa sempre più <<coatto>>,
ovvero un lavoro che è costretto sempre più dentro regole e discipline rigide ed è come se perdesse
elementi nati con la rivoluzione industriale, che ha portato ad un passaggio definitivo da una condizione di
schiavismo ad una condizione di libertà. Questa restrizione della realtà è una restrizione che riguarda tutti
gli ambiti a partire dai salari. Infatti, non vi è tanto un abbassamento dei salari, ma un aumento dei prezzi e
del costo della vita in maniera esponenziale. Gli orari di lavoro si fanno particolarmente lunghi e i carichi di
lavoro intensi e faticosi. C’è inoltre una lenta introduzione dell’organizzazione scientifica del lavoro, che
produce un evidente peggioramento della salute delle classi lavoratrici. Vi è infatti un aumento delle
malattie professionali all’interno delle fabbriche che unite al problema degli infortuni sul lavoro hanno
prodotto nel corso della Prima guerra mondiale un significativo incremento dei tassi della mortalità operaia.

Il lavoro nelle fabbriche viene equiparato al lavoro dell’esercito. Le fabbriche vengono militarizzate, la
disciplina diventa di tipo militare, portando all’annullamento della libertà di sciopero (se si sciopera si
commette reato). Nel periodo di guerra viene istituito uno speciale Codice penale di guerra, che prevede
punizioni e sanzioni diverse dal comune Codice penale. Chi si rifiuta di lavorare può essere accusato di vera
e propria asserzione, come se fuggisse dall’esercito e si può arrivare anche alla pena di morte. Nel
momento in cui viene cancellata la resistenza, di fatto è come se cessasse la funzione del sindacato. In
realtà le cose sono diverse, in quanto il sindacato in una tale condizione riesce a ritagliarsi uno spazio
significativo. Infatti, il fatto che non si possa scioperare non esclude il fatto che ci possano essere delle
controversie di lavoro, di natura individuale o collettiva. Queste controversie vengono affrontate, come
detto, nei Comitati di Mobilitazione industriale.

Il sindacato rischia quindi di burocratizzarsi e di diventare un ruolo di tipo impiegatizio e


amministrativo, in cui la forza lavoro viene semplicemente gestita, più che essere rappresentata nei
suoi diritti e interessi. Esistono tuttavia forme di contrattazione del sindacato durante la guerra,
grazie alle quali la sua funzione e la sua figura riescono a mantenersi. Vi è poi un graduale
spostamento dell’azione sindacale dal livello confederale a quello federale, che gestiscono in
maniera più diretta la rappresentanza degli interessi dei lavoratori. Cresce in particolare la
federazione che protegge gli operai metalmeccanici, particolarmente attivi in guerra. La CGdL
durante la guerra resta nonostante tutte le difficoltà il sindacato federale più importante in Italia.
La CGdL essendo di natura socialista era totalmente contraria alla guerra e quindi sosteneva le
ragioni della neutralità. Ma nel momento del fallimento e dell’entrata dell’Italia in guerra, l’unica
strada possibile per la CGdL fu quella della collaborazione istituzionale, una scelta molto apprezzata
dallo Stato. Venne perciò confermato e in parte modificato il rapporto e la collaborazione tra CGdL
e Partito Socialista Italiano nel 1918 che riprendeva e confermava il contratto del 1907

Festa del lavoro

ACCORDI E CONFLITTI DI LAVORO DURANTE LA GRANDE GUERRA - VIDEO 2

IL BIENNIO ROSSO 1919-1920 - VIDEO 1

DAL BIENNIO NERO ALLA DITTATURA FASCISTA - VIDEO 2 STORIA DELL’IMPRESA E DEL LAVORO
LE RIVOLUZIONI BORGHESI
Rivoluzione atlantica: impone cambiamenti radicali sulla politica, siccome è una rivoluzione che avviene
sulle due sponde dell’atlantico:
 Rivoluzione Americana 1776: passaggio dalle vecchie colonie inglesi alla nascita degli stati uniti
d’America. Nel periodo precedente sin dal 600 esistevano queste 13 colonie inglesi nelle quali vi era
un certo malcontento che cresceva nel corso del tempo nei confronti della madrepatria, soprattutto
per il pagamento delle tasse, infatti in Inghilterra c’era questo principio fondamentale del “no
taxation whitout rapresentation”, cioè nessuna tassazione doveva essere data senza
rappresentanza; i coloni infatti non si sentivano rappresentati e per questo motivo avevano un
malcontento crescente nei confronti della corona britannica. Ad un certo punto, siamo nel 1776,
negli stati uniti viene scritto un importante testo dall’intellettuale radicale americano Thomas
Paine, che prende il nome di Common Sense (senso comune). In questo testo veniva per la prima
volta teorizzato il diritto alla resistenza conto un potere che si comportava in maniera arbitraria,
come una vera e propria tirannia. Questa fu la sistemazione teorica di ciò che di fatto accadde da lì
a breve, infatti, il 4 luglio 1776 ci fu la famosa dichiarazione d’indipendenza delle colonie inglesi,
delle ex colonie inglesi, che si autoproclamarono degli stati indipendenti dalla madre patria. Questi
stati si unirono ed ecco che vennero fuori gli stati uniti d’America. Ovviamente gli inglesi non
restarono a guardare, scoppiò infatti una guerra nella quale gli americani ebbero il sostegno
fondamentale dei francesi, così che negli anni 80 questa indipendenza andò in porto e nacque la
confederazione degli Stati Uniti d’America, una confederazione che era una struttura
sovranazionale da questi stati indipendenti, che si occupava fondamentalmente di due questioni, la
politica estera (politica di difesa) e politica militare. Per tutti gli stati valeva il principio del
federalismo, ovvero ogni stato aveva autonoma la propria politica interna. Tutto questo precipitò
all’interno di un testo fondamentale, la costituzione degli stati uniti d’America che venne approvata
nel 1787. Questa costituzione è stata talmente efficace che si è mantenuta uguale a quella attuale.
Passarono pochi anni e nel 1791 vennero votati i primi 10 emendamenti della costituzione
americana che andarono a costituire il Bill of Rights del 1791 (una sorta di dichiarazione dei diritti
fondamentali della persona che nessun tipo di potere potrà mai mettere in discussione).
Fondamentale capire che molti di questi emendamenti sono in vigore tuttora come il principio di
separazione dei poteri (esecutivo, legislativo e giudiziario). Questo principio è fondamentale
siccome permette il passaggio da una forma di potere assoluto di diritto divino ad un potere
costituzionale, che fa riferimento alla costituzione.
 Rivoluzione Francese 1789: anche in questo caso vi era un retroterra di forte malcontento
all’interno della popolazione e in particolare all’interno del terzo stato (gli stati erano i nobili, il
clero e la borghesia), soprattutto per l’elevata tassazione. Il sovrano difronte a tutto ciò decise di
convocare gli stati generali. Era da parecchio tempo che non venivano convocati, l’ultima
convocazione risale al 1614. I rappresentanti del terzo stato che sapevano che sarebbero stati
svantaggiati in quanto fossero in minoranza rispetto al clero e ai nobili, decisero d rifiutare queste
regole, creando quindi questa rottura rivoluzionaria, dando vita al famoso giuramento della
pallacorda, col quale il terzo stato si proclamò assemblea nazionale. Viene quindi fuori il concetto di
nazione, col quale le persone diventavano cittadini e acquistavano conseguentemente dei diritti
fondamentali e dei doveri senza sottostare ad un potere assoluto. Di fronte a questo giuramento il
sovrano provò a reagire inutilmente, sfociando poi nella presa della Bastiglia (carcere) del 14 luglio
1789. Passarono pochi giorni e questa assemblea votò la dichiarazione dei diritti dell’uomo e del
cittadino, un documento che diede inizio alla storia contemporanea, nella quali si diceva che tutti
gli uomini sono uguali e che non devono sottostare a nessun potere assoluto ma devono sottostare
 francese del 1791, che segna il passaggio dal potere assoluto a costituzionale.
Nello stesso momento in cui avvengono queste due grandi rivoluzione, accade un’altra grande rivoluzione
economica, che è quella industriale. Così come le rivoluzioni francese e americana, anche la rivoluzione
industriale inglese cambia completamente muta all’occidente.
Rivoluzione industriale inglese (a cavallo fra 700 e 800):
epicentro: Inghilterra
simbolo: macchina a vapore
Se prima la principale fonte di energia era l’uomo o gli animali adesso diventano le macchine (in particolare
il vapore). Muta completamente il modo di produrre, soprattutto in campo tessile (cotone, lana, filatura).
Un altro settore molto influenzato è quello metallurgico e successivamente quello dei trasporti
(locomotiva). Nascono le prime ferrovie all’inizio dell’800, così come i primi treni e le fabbriche che
producono ferrovie e treni, dando così una svolta all’economia. Cambia radicalmente il modo di lavorare: se
prima il lavoro era concentrato quasi esclusivamente nei cambi e sul lavoro della terra, con la rivoluzione
industriale il lavoro si sposta nelle industrie e nelle città. Si assiste infatti ad uno spostamento delle persone
dalle campagne alle città e ad una concentrazione della popolazione nelle prime fabbriche e imprese. È un
lavoro che diventa più subordinato, rispetto a quello più libero delle campagne. Ci sono lavoratori che
dipendono da altri soggetti (imprenditori) che sono i proprietari di queste prime fabbriche. Il settore più
importante diventa quello secondario, non più quello primario delle campagne. Questa rivoluzione
industriale che gli storici chiamano la prima rivoluzione industriale basata sulla macchina a vapore ha come
epicentro la Gran Bretagna e dura fino ai primi decenni dell’800, per poi pian piano trasferirsi negli altri
paesi d’Europa. Sul finire dell’800 inizierà la seconda rivoluzione industriale, il cui epicentro si concentrerà
negli Stati Uniti d’America diventati la maggiore potenza del mondo e si caratterizzerà per altre invenzioni
(lampadina, radio, telefono, motore a scoppio, esplosivi). Sempre più settori pesanti rispetto a quelli leggeri
della prima rivoluzione. Anche sul piano dei trasporti avremmo una grande invenzione, l’automobile alla
quale seguirà la navigazione a motore e l’aereonautica.
Ci sono diverse interpretazioni della rivoluzione industriale che portò si grandi benefici, ma anche molti
traumi (inquinamento, condizioni di lavoro, etc.…). Se si applica però un’ottica di lungo periodo è evidente
che i benefici si vedono prevalere sugli aspetti negativi, che esistevano anche numerosi prima della
rivoluzione industriale. David Landes rievoca la figura del Prometeo di Eschilo come paradigma simbolico
della maggiore trasformazione conosciuta dall’umanità: la rivoluzione industriale. Una svolta che ha
innescato una serie di mutamenti in grado di investire gli ambiti più diversi del reale, a partire dai sistemi di
produzione fino ad arrivare ai più vari aspetti della vita politica, sociale, culturale. Il Prometeo Liberato è
stato accolto come un’importate contributo in grado di fornire uno sguardo d’insieme, completo e
approfondito, sul processo di industrializzazione nel continente. Landes ha di fatto riscritto l’intera storia
dell’industria in Europa Occidentale. Come scrive Landes, questa rivoluzione industriale poteva avvenire in
Inghilterra siccome esistevano le condizioni ideali. Era infatti una società aperta sul piano economico e
culturale, nella quale veniva data molta importanza all’istruzione tecnica. A questa tesi di Landes se ne è
aggiunta nel corso degli anni un’altra, di uno storico americano che con i suoi studi storici sul territorio delle
fiandre (Belgio, paesi bassi) che non riguardavano il 700, ma il 600 e diceva che già nel 600 esisteva un tipo
di lavorazione che avveniva nei telai, nei momenti in cui non si poteva lavorare all’aperto nelle campagne,
nei quali venivano lavorati i tessuti. In Italia, come in molti paesi europei, la rivoluzione industriale fu più
lenta e meno traumatica ed ebbe uno dei maggiori epicentri nella zona di Biella con l’industria lamiera.

BORGHESIA E PROLETARIATO
La rivoluzione industriale è stata talmente dirompente che ha portato cambiamenti e novità non solo il
campo economico, ma anche sulla società. Il primo e più evidente cambiamento sociale è il fenomeno
dell’urbanizzazione, ovvero lo spostamento (la fuga, dicono gli storici) degli abitanti dalle campagne alle
città. Le città cominciano ad assumere un peso crescente e un numero elevato di cittadini. Londra passa da
mezzo milione di abitanti a cinque milioni di abitanti. Questo svuotamento delle campagne avvenne non
solo a causa della rivoluzione, ma anche per una profonda crisi agraria, che produce moltissima
disoccupazione, tanto che nelle campagne europee si verifica il fenomeno delle migrazioni, non solo verso
le città, ma anche verso altre nazioni e soprattutto verso l’America.
Il secondo grande evento sociale è la nascita di nuove classi sociali. In passato la maggior parte della
popolazione era composta da proprietari terrieri e da contadini, visto che la vita era soprattutto nelle
campagne. Con le rivoluzioni borghesi la società tende a diversificarsi, infatti accanto ai proprietari terrieri e
ai contadini, si affacciano due nuove classi sociali: la borghesia e il proletariato. Uno degli aspetti
fondamentali delle rivoluzioni è stata l’uguaglianza giuridica dei cittadini (non femminile), che fa si che la
società si riorganizzi economicamente.
LA BORGHESIA
La borghesia è la classe rivoluzionaria perché fa la rivoluzione e scalza dal potere chi in precedenza lo
possedeva (aristocrazia). Il lavoro della borghesia era un lavoro diretto, non viveva di rendita come avevano
fatto per secoli i proprietari terrieri, ma produceva e producendo realizzava direttamente la sua ricchezza.
La borghesia quindi a cavallo tra il 700 e 800 prende il potere. Cos’è la borghesia? Ci sono due importanti
interpretazioni di Carl Marx e Max Weber. L’interpretazione di Marx è di stampo economico e strutturale
della società. Per lui la borghesia è la classe sociale che detiene i capitali e la proprietà dei mezzi di
produzione. Grazie a questa proprietà riesce ad imporre un certo tipo di produzione con lo sfruttamento
del proletariato. Per Max Weber non conta tanto la struttura economica, bensì la dimensione culturale (che
a Marx non importava), i valori di abnegazione, risparmio, sacrificio. Marx era infatti un economista e
Weber un sociologo. Ciò che unifica tutte le borghesie mondiali sono tre aspetti:
 La proprietà privata, che detiene la borghesia e che serve per avviare iniziative e per la
produzione
 La libera iniziativa, fondamentale per lo svolgimento delle attività borghesi. Libertà di muoversi
liberamente
 Profitto, per Marx è il plusvalore. Il borghese ha le sue dipendenze (proletari) che
rappresentano un costo, ma che è un costo inferiore rispetto a quello che l’imprenditore
riscuote vendendo sul mercato. Per Weber il profitto era la remunerazione del rischio; infatti il
borghese secondo il sociologo rischiava sul mercato con affari e investimenti e se questi fossero
andati in porto vi sarebbe stato un profitto.
L’imprenditore è la figura per eccellenza del borghese che si è fatto da sé, che ha deciso di rischiare i suoi
capitali e produrre un determinato bene da vendere sul mercato.
PROLETARIATO
Il proletariato subisce l’azione e le iniziative della borghesia per tutta l’epoca delle rivoluzioni borghesi. Nel
1848, anno delle grandi rivoluzioni d’Europa che portano effettivamente la borghesia al potere, esce il
famoso manifesto del partito comunista di Marx, un’analisi economica, ma soprattutto politica in cui si
indica il proletariato come la nuova classe rivoluzionale, che farà la rivoluzione nei confronti della
borghesia. Il primo proletariato delle rivoluzioni borghesi ha una struttura sociale piuttosto diversificata.
Questo proletariato era composto dagli ex artigiani (ex perché vanno completamente in crisi con la
rivoluzione industriale, perdono la bottega e il lavoro e diventano proletari, lavoratori dipendenti all’interno
delle grandi fabbriche), ex contadini (costretti progressivamente ad abbandonare la terra, siccome la vita
nelle campagne era una vita molto dura, sofferta, esposta alle intemperie e ai di fenomeni naturali, mentre
il lavoro nelle fabbriche è un lavoro più sicuro. Perciò anche i contadini abbandonano le campagne e vanno
a lavorare nelle fabbriche) e dalla figura dell’operaio contadino che in certi periodi dell’anno lavora la terra
e quando questo non è possibile in altri periodi va a lavorare in fabbrica. Una caratteristica del primo
proletariato è l’enorme quantità di lavoro minorile e femminile, innanzitutto perché il lavoro delle
macchine è molto semplice e non necessita di qualificazioni e abilità, in secondo luogo perché queste due
categorie di lavoratori hanno una certa manualità che in alcuni settori come quello tessile e
dell’abbigliamento era assai richiesta. Quindi la composizione del primo proletariato era piuttosto
eterogenea. Le condizioni di vita del primo proletariato appaiono abbastanza dure, tanto che alcuni
rimpiangono il periodo precedente, non soltanto per i rigidi orari di lavoro, ma anche per le condizioni
insalubri delle fabbriche e delle città, dovute soprattutto al sovraffollamento. Nasce quella che gli studiosi
già in quel periodo chiamavano “questione sociale”, cioè il pensiero che la rivoluzione industriale genera sia
ricchezza per i borghesi che difficoltà per i proletari e condizioni disastrose per gli operai. L’interpretazione
di Marx del proletariato: come dice la parola stessa deriva da prole (figli), infatti questi lavoratori non hanno
altro che i figli; è quella nuova classe sociale che non detiene la proprietà privata di nulla, ma hanno
solamente le loro braccia e la famiglia e vivono di quello che viene definito salario (sono quindi lavoratori
salariati). Ecco quindi che da questo dislivello delle due classi sociali deriva ciò che Marx chiama lotta di
classe, secondo la quale c’è il proletariato che deve reagire nei confronti della borghesia. All’interno del
manifesto di Marx viene detto che il proletariato deve unirsi nella lotta contro la borghesia, per far si che si
crei una società non tanto basata sulla libertà sociale, ma soprattutto sull’uguaglianza di tutti gli uomini
(quella che sarà poi la società comunista).
Il proletariato può essere studiato nella sua collocazione di lavoro come fa il Marx economista, nella sua
dimensione politica come classe che diventerà la classe rivoluzionaria, ma anche nella dimensione sociale e
culturale come fa Thompson nel The Making of English Working Class, che ha cambiato la storia del lavoro,
dicendo che il proletariato va studiato non solo all’interno del luogo di lavoro ma anche fuori da esso, nei
quartieri, nelle piazze, nelle parentele, nei valori.

IL CONCETTO MODERNO DI LAVORO


Dalla vicenda storico, politica, economica, culturale, sociale della borghesia discende la storia dell’impresa e
da quella del proletariato discende la storia del lavoro. La storia dell’impresa nasce come una qualsiasi
storia economica di tipo fiscale, matematica, ma accanto a questo studio se ne affianca un altro sempre
sulla storia d’impresa (business history), ma di tipo micro, che non studia la politica fiscale o economica, ma
le singole aziende, le singole imprese ed enti, non solo attraverso fonti matematiche e statistiche, non solo
in termini quantitativi, ma anche qualitativi.
Il lavoro è sempre esistito. Definizione sostanziale: Il lavoro è qualsiasi attività che viene svolta dagli
uomini finalizzata alla sopravvivenza. Ma questa definizione non è sufficiente, siccome manca quella parte
che specifica la retribuzione dell’attività. Definizione formale: il lavoro è un’occupazione sistematica e
specializzata che produce un reddito. Non si guarda solo la sostanza ma anche ciò che circonda il lavoro. Le
casalinghe non sono considerate lavoratrici vere e proprie, siccome si lavorano in modo sistematico, ma
non sono stipendiate. Il concetto di lavoro passa da sostanziale a formale con la cesura della Rivoluzione
Industriale, siccome prima non si parlava di reddito (per la borghesia) e salario (per il proletariato). Tutte le
attività che non producono un reddito sono da considerare come hobby o tempo libero. Marx parla di
lavoro astratto, perché il lavoratore quando lavora nelle fabbriche e nelle aziende si astrae dalla merce che
produce. Il lavoro del lavoratore prescinde dal risultato finale, partecipa ad una catena che produrrà la
merce, che non verrà utilizzata dal lavoratore, ma verrà messa sul mercato. Ciò che astrae il lavoratore dalla
merce che realizza sono i soldi, il reddito, il lavoratore utilizzerà questo reddito per comprare altra merce.
Questo lavoro “astratto” lo chiamiamo “salariato”; io offro una parte del mio tempo sul mercato del lavoro
e questo tempo viene acquistato da un altro soggetto (il datore di lavoro) e in base al tempo di lavoro che
io svolgo, ricevo una retribuzione (stipendio, per gli impiegati, salario per gli operai). Marx quando studia
questo lavoro astratto o salariato, questo presenta delle caratteristiche ben precise:
 Mercificazione: il lavoratore produce una merce che alla fine del processo lavorativo non andrà al
lavoratore ma verrà messa sul mercato. Il lavoro e il lavoratore stesso diventa una merce.
 Specializzazione: per produrre in grandi quantità e per essere competitivi sul mercato, il lavoro
deve specializzarsi sempre di più, così come il lavoratore. Soltanto la specializzazione permetterà
l’abbassamento dei costi di produzione e quindi la competitività e l’efficacia sul mercato.
 Alienazione: il lavoratore non controlla la merce che produce. Si crea una distanza fra lavoratore e
merce prodotta.
 Subordinazione: il lavoratore non è più libero, ma deve seguire una serie di regole, trovandosi in
una posizione subordinata rispetto al datore di lavoro.
Il lavoro “libero” è il lavoro autonomo e l’esempio per eccellenza è l’imprenditore che non deve essere
subordinato a nessuno, mentre il lavoro “non libero” è il lavoro di coloro che devono sottostare ad una
figura sovrastante e l’esempio per eccellenza è il lavoro degli schiavi. Ci sono però delle vie di mezzo come il
“lavoro subordinato” tra lavoratore e datore di lavoro e “lavoro parasubordinato” in cui non c’è un vincolo
di dipendenza tra lavoratore e datore, ma dipende da una serie di commesse che il datore assegna.
Il lavoro” tipico” è il lavoro a tempo indeterminato, il posto fisso (nell’800 il lavoratore di fabbrica). Il
lavoro” atipico”, può essere a tempo determinato e senza il posto fisso, è un lavoro più frammentato, che
cambia sovente luogo e tempi di lavoro.
Aris Accornero, Era il secolo del lavoro: in questo libro, racconta il lavoro, in particolare il lavoro tipico, un
lavoro omogeneo, prevalentemente industriale e svolto da operai e impiegati. È un lavoro che dà una
precisa identità politica a questi lavoratori, è un lavoro salariato e di tipo manuale. In questo libro racconta
la storia del lavoro, una storia vincente. Parla inoltre delle condizioni di lavoro, inizialmente insalubri e poco
alla volta sempre migliori. Parla delle organizzazioni dei lavoratori, all’inizio clandestine e fuori legge e alla
fine del secolo del lavoro diventano promettenti e legali. Ma quando ci chiediamo se questo secolo del
lavoro è stato vincente, si pensa anche alle parti negative che questo lavoro ha portato e che definiscono
quindi la sua storia come chiaroscura. Accornero individua tre passaggi fondamentali nel secolo del lavoro:
1. Fase del Taylorismo (organizzazione scientifica del lavoro)
2. Fase del consumismo
Jeremy Rifkin, La fine del lavoro: parla delle tre rivoluzioni industriali. Afferma che la quarta rivoluzione
industriale che si sta verificando porterà alla fine del lavoro.
L'ASSOCIAZIONISMO BORGHESE E L'ASSOCIAZIONISMO POPOLARE
Il momento in cui gruppi di borghesi e di proletariato si riuniscono insieme dando vita alle cosiddette
associazioni.
La sociabilità borghese:
Maurice Agulhon, La Repubblica nel villaggio (1973): Compito principale del libro è quello di studiare la
diffusione delle idee rivoluzionarie, basate sulla sovranità popolare, in particolare nel sud della Francia.
Agulhon studia la sociabilitè (la sociabilità) ovvero la vita associativa quotidiana, il tempo libero. Studia la
formazione di queste prime associazioni borghesi che sono una sorta di evoluzione delle antiche
confraternite religiose. Durante il tempo libero i borghesi di Agulhon si incontrano e si riuniscono all’interno
di queste prime associazioni. I luoghi sono sia pubblici, nel caso dei primi caffè, teatri, o luoghi privati, come
salotti e club, società, circoli. Socializzazione: Nel tempo libero iniziano infatti oltre a bere, svagarsi, fumare,
divertirsi, anche a parlare di lavoro e di aspetti sociali come i primi problemi sociali. Politicizzazione: Si
comincia anche a parlare di politica, di questioni e rapporti di potere, ci si comincia a coalizzare, a creare i
primi club, i primi comitati elettorali e poi successivamente i primi partiti politici vedono proprio la nascita
all’interno di questo mondo, che abbiamo definito come associazionismo borghese. È un fenomeno
soprattutto di natura urbana, avviene quindi prevalentemente nelle grandi città e poi nei piccoli centri
urbani. È un fenomeno elitario, perché sono le fasce più alte della borghesia, l’alta borghesia, a
parteciparvi.

LA SOCIABILITÀ POPOLARE:
L’associazionismo popolare (d’imitazione) guarda alla borghesia e volendo anch’esso difendere e affermare
i propri diritti decide di fare qualcosa di simile. Con qualche decennio di ritardo anche le classi popolari
decidono di iniziare ad incontrarsi per condividere le proprie esperienze. Iniziano quindi ad avere i loro
luoghi di associazione, come osterie, taverne e luoghi privati come società, circoli operai. All’interno di
questi luoghi ci si vede per svagarsi, divertirsi, bere, mangiare. Avviene però qui, in questi luoghi anche il
fenomeno dell’alfabetizzazione, siccome la gran parte degli appartenenti a queste classi non sapeva né
leggere né scrivere. Imparano quindi a leggere e scrivere e imparano quali sono i loro interessi e i loro
diritti. Si svolgono inoltre la lettura dei giornali, manifestazioni sportive, inaugurazioni di imprese,
matrimoni. Anche in questo caso il fenomeno è urbano, avviene quindi prevalentemente nelle città. È un
fenomeno elitario che spettava alla cosiddetta aristocrazia popolare e un fenomeno maschile, siccome la
donna deve occuparsi soprattutto della casa, del marito, della prole, seppur spesso la donna lavorava anche
fuori casa. Tutto questo avviene anche in una città come Torino, città molto importante e avanzata sul
piano politico, economico e sociale. Nella Torino della seconda metà dell’800 nascono queste associazioni e
circoli. Gli operai di Torino (Musso): studio di carattere tradizionale, economico della classe operaia di
Torino. Mondo operaio e mito operaio (Gribaudi), studio sulla classe operaia torinese, nella sua collocazione
all’interno delle città, nei quartieri operai, le cosiddette “barriere”, chiamate così perché nel 1853 Torino si
dota di una cinta daziaria, quindi con nuove mura, che prevedono porte dalle quali avviene l’ingresso e
l’uscita delle merci (12 aperture). In corrispondenza di queste barriere vengono a formarsi i primi quartieri
operai. A volte nascono attorno alle industrie, mentre altre volte succede il procedimento opposto. Sono
tre i quartieri più importanti: la barriera di Milano, Borgo San Paolo e la barriera di Nizza (presso la quale
verrà formata la fiat). Quindi Gribaudi studia le classi operaie all’interno di questi luoghi. Questo fenomeno
di concentrazione operaia nelle barriere finisce per creare il fenomeno della divaricazione sempre più
ambia ed evidente che si viene a registrare rispetto all’altra grande classe sociale, la borghesia, che si
concentra sempre più nel centro cittadino.
La festa del Primo Maggio (Festa del Lavoro): rappresenta il simbolo per eccellenza di questi processi di
associazione popolari e borghesi nel corso dell’800. Questa festa viene istituita alla fine del 900. A causa
delle condizioni di vita e lavoro precarie (come la lunga durata del lavoro giornaliero) nascono le prime
associazioni per migliorare le condizioni di vita e di lavoro. Tra le prime rivendicazioni vi era quella di avere
giornate di lavoro più brevi, prima di 12 ore poi di 11 e infine di 8 ore di lavoro che assumono un valore
simbolico all’interno del movimento operaio (giornata di 24 divisa in 3 parti uguali: 8 ore di lavoro, 8 ore di
riposo, 8 ore di svago). Visto che queste prime richieste incontrano inizialmente delle difficoltà nascono i
primi scioperi, azioni collettive in cui ci si astiene dal lavoro per ottenere risultati. Uno dei primi e più
importanti scioperi è quello di Chicago maggio 1886, nel quale vi sono una serie di scontri fra dimostranti e
forze dell’ordine; i capi di queste dimostrazioni di Chicago vengono imprigionati e processati e condannati a
morte nel giro di un anno (i cosiddetti martiri di Chicago). Una volta condannati a morte la seconda
internazionale (insieme di movimenti socialisti, nasce nel 1889 in occasione del centenario della Rivoluzione
francese) inizia a ricordare questi martiri e da qui nasce una festa che viene ricordata e celebrata in tutto il
mondo. La prima Festa del Lavoro si svolge nel 1890, mentre in Italia nel 1891 negata l’anno precedente da
Crispi. Il primo maggio si festeggia quindi la fratellanza e l’uguaglianza dei diritti dei lavoratori.

LA STORIOGRAFIA DEL LAVORO


Lucien Febvre: insieme ad un suo amico, Febvre negli anni 30 ha dato vita ad una rivista, les annales,
che esiste tutt’ora e ad una vera e propria scuola storiografica, delle annales, importante perché da
quel momento la storia è diventata qualcosa di interdisciplinari e ha iniziato a confrontarsi con le altre
scienze sociali (economia, antropologia, sociologia, diritto). Lavoro: evoluzione di un termine e di
un’idea (1948): questo saggio ci dice che da quando gli uomini esistono il lavoro ha occupato sempre
la vita della maggior parte di loro. Febvre ripercorre la vicenda storica della parola lavoro, che in
francese si dice travail, che deriva dal latino Tripalium (un vero e proprio strumento di tortura). A
partire dal 1500 quindi, in Francia il termine lavoro inizia ad essere attribuito a questa parola,
diventando quindi sinonimo di sofferenza ed afflizione, fatica e spossatezza. Questo vale anche per la
parola spagnola, tedesca (lavoro in tedesco significa servitù), inglese (work= urgenza) e per quella
italiana (“lavoro” ha origine romana e deriva da labour che significa fatica). Questo significato della
parola lavoro va avanti per due secoli fino a quando nel 700 questa concezione negativa comincia a
modificarsi, grazie al movimento dell’illuminismo e alla rivoluzione industriale, che fa si che il lavoro
possa diventare qualcosa di positivo che contribuisce al progresso della nazione. “Non c’è, quindi, da
stupire se da allora finalmente le classi lavoratrici conquistarono il diritto alla storia perché operaie,
non più perché miserabili”. Da quel punto in poi la storia del lavoro diventa un magnifico argomento
da affrontare e proprio da quel momento inizia a svilupparsi una vera e propria storiografia sul lavoro
che in Francia porto nel 1907 presso il Collegio di France all’istituzione di una vera e propria cattedra
di storia del lavoro.
GLOBAL LABOUR HISTORY
Allargamento spaziale alla dimensione globale: fino alla fine de 900 si è studiato il lavoro in termini
nazionali, ovvero ogni nazione studiava la storia del lavoro all’interno della propria nazione. Solo negli
ultimi tempi si è deciso che una materia così importante e affascinante come la storia del lavoro
dovesse essere studiata in termini globali, studiando anche gli avvenimenti riguardanti il lavoro in
altre nazioni. Questo è il primo cambiamento che ha promosso la Global Labour History all’inizio degli
anni 2000. Il secondo allargamento è di tipo temporale. Il lavoro è sempre esistito quindi è giusto
studiarlo anche nelle epoche precedenti alla rivoluzione industriale. C’è poi un terzo cambiamento
promosso dalla GLH che è l’allargamento tematico ad altri argomenti che integrano la dimensione del
lavoro. I lavoratori venivano studiati solo nella loro realtà lavorativa, ma poi ci si è accorti che non
hanno solo questo tratto fondamentale, ma hanno anche altre caratteristiche che contribuiscono alla
loro identità sfaccettata, come le questioni di genere, di generazione, di religione, di etnia. Alcuni
risultati sono stati ottenuti da questi studi della GLH. Ade esempio prima si concentrava l’attenzione
soprattutto su questa centralità così forte della rivoluzione industriale. Così più che di una rivoluzione
industriale gli storici globali del lavoro parlano di una rivoluzione industriosa, intendendo che se per
alcune nazioni la rivoluzione ha avuto effetti stravolgenti sull’economia e sulla vita sociale, in altri
territori, anche più piccoli e periferici, più che di una rivoluzione industriale bisogna parlare di una
rivoluzione industriosa che avviene in un lasso di tempo più ampio e con imprese medio-piccole
spesso famigliari. Quindi a seconda dei territori e delle epoche storiche è più giusto parlare di
rivoluzione industriosa. Il secondo risultato ha riguardato la globalizzazione. Oggi siamo immersi da
questa globalizzazione, ma essa non arriva alla fine dell’età contemporanea. Ma per gli storici
globalisti bisogna parlare di diverse ondate di globalizzazione. Per esempio, la prima ondata fu alla
fine dell’800 nell’età degli imperi quando ci fu il primo grande processo di colonizzazione. La seconda
ondata fu alla fine della Prima guerra mondiale intorno agli anni 20, ma poi la crisi del 29 portò una
deglobalizzazione che culminò nella seconda guerra mondiale, così che alla fine di questa seconda
grande guerra ci fu una terza ondata di globalizzazione, la Golden Age dell’occidente. Ma questa Età
dell’Oro subì una dura battuta d’arresto in seguita ad una grande crisi economica internazionale negli
anni 70. Dopodiché in seguito alla caduta del muro di Berlino alla fine del 900 si affaccia un’epoca di
globalizzazione che è una nuova ondata di globalizzazione e non La Globalizzazione unica di cui tanto
oggi si parla attraverso i media.
Gli storici globali del lavoro ci dicono che quando procediamo in un confronto storiografico non
bisogna tanto procedere ad una comparazione nazionale, ma ad una trans-locale, comparando quindi
un caso locale come quello di Torino, con un caso industriale di un altro paese ad esempio Londra o
Detroit. In questo caso la comparazione funziona siccome si tratta di realtà industriali che presentano
analogie molto evidenti e dalle quali ricavare delle differenze.

L’ITALIA NELL’OTTOCENTO: LA POLITICA ECONOMICA DELLA DESTRA STORICA


Giovanni Arrighi scrive il “lungo” XX secolo in contrasto con Hobsbawm che scriveva del “breve
novecento”, perché la sua periodizzazione si basava soprattutto sulle vicende politiche e sulle rivoluzioni,
mentre quella di Arrighi si basava sul piano economico e sul capitalismo. Arrighi individua quattro “cicli
sistemici di accumulazione” all’interno di ognuno dei quali abbiamo una fase di accumulazione di capitali,
una fase di espansione produttiva e una fase di espansione finanziaria. Questi quattro cicli corrispondono
a 4 lunghi secoli: dei genovesi (500-600), degli olandesi (600-700), degli inglesi (700-800), degli americani
(800-giorni nostri). Vi è poi una terza interpretazione che rappresenta una sintesi delle precedenti, dello
storico Charles Mayer che non parla ne di un secolo breve ne di uno lungo del 900 ma parla di un epoca
lunga dell’800 e 900 che va dal 1860/70 circa fino alla fine del novecento, che si caratterizza e si poggia
su due grandi pilastri, uno di natura economica (diffusione del nuovo sistema industriale, produzione di
massa e consumismo) e uno di natura politica (diffusione degli stati nazionali nati alla fine del 700).
La nascita di questa grande epoca industriale e nazionale si situa tra gli anni 60 e 70 dell’Ottocento sia in
Europa che fuori, negli stati uniti con la famosa guerra civile, di secessione tra gli stati del nord e quelli
del sud (1861-65) sull’abolizione o no della schiavitù, al termine della quale gli Stati Uniti potranno
cominciare di loro lungo periodo di potenza economica e militare. Nello stesso tempo in Giappone nel
1868 inizia l’età illuminata, che è quel percorso di riforme che porterà alla fine del sistema feudale e alla
nascita nel sistema odierno del Giappone.
In Germania il secondo Reich tedesco si conclude tra il 1870 e il 1871 una volta sconfitta la Francia di
Napoleone III con l’instaurazione del nuovo impero. L’Italia nel 1870 ha già concluso il periodo di
unificazione nazionale iniziato nel 1861 e conclusosi con la conquista di Roma. Questo sarà il culmine di
quel processo culturale e politico che chiamiamo Risorgimento. Il Risorgimento italiano inizia dopo la
Rivoluzione Francese, durante le guerre napoleoniche, passa attraverso i famosi moti carbonari
rivoluzionari del 1820-21 e i moti del 1830-31, fa un primo passaggio importante nel 1848, l’anno delle
grandi rivoluzioni borghesi in Europa. Anche in Italia infatti si tenta una rivoluzione borghese tra la prima
guerra d’indipendenza contro l’Austria (con esito negativo nel 1848) e la seconda guerra d’indipendenza
(tra il 1859 e il 1860). L’Italia nascerà appunto con questa guerra e dopo una serie di confronti nazionali e
internazionali che porteranno l’Italia all’unificazione nazionale nel 1861 quando nasce il Regno d’Italia,
ancora però incompleto, ma che verrà completato in seguito alla terza guerra d’indipendenza sempre
contro l’Austria nel 1866, grazie alla sconfitta dell’Austria conto la Prussia, che permise la conquista del
Veneto e di Venezia. Il terzo passaggio fondamentale sarà la famosa Breccia di Porta Pia il 20 settembre
del 1870 e quindi l’ingresso dell’esercito italiano a Roma, sfruttando anche qui la debolezza della Francia
impegnata nella guerra contro la Prussia e incapace di difendere il papato e la conquista di Roma, che
potrà diventare la capitale del Regno d’Italia. In questo modo sui conclude il Risorgimento in Italia (1861-
1870).
Si entra così nel periodo della cosiddetta Destra Storica. Quando nasce il Regno d’Italia ci sono delle
questioni che bisogna fronteggiare, soprattutto due. La prima delle questioni aperte è la cosiddetta
questione del <<fare gli italiani>>: ovvero innescare quel processo di “nazionalizzazione delle masse”,
cioè queste masse che erano per lo più contadine prive di uno spirito nazionale che dovevano perciò
essere nazionalizzate, ovvero bisognava insegnare loro a far parte di una nuova comunità. Questo fu un
processo lungo e per metterlo in atto furono necessarie la nascita di simboli, come la bandiera nazionale
e l’inno, feste e riti nazionali. Furono poi fondamentali per il raggiungimento della nazionalizzazione,
l’instaurazione del sistema scolastico e l’esercito (la leva obbligatoria), oltre al suffragio universale.
L’altra grande questione aperta è quella del brigantaggio, seguente all’unificazione. Infatti, per alcuni
settori della società soprattutto nel centro-sud Italia questa viene vissuta come qualcosa di negativo.
Queste bande di briganti arrivati ad esser in gran numero (80-90 mila), compiono azioni criminali e
militari al limite di una guerra civile (così viene definita da molti) con livelli molto elevati di violenza. In
questa situazione molti storici vedono l’origine di quella che ancora oggi è la questione meridionale, di
un sud che presenta degli elementi di arretratezza rispetto al resto del paese.
In ogni caso nel 1861 l’Italia è fatta e bisogna perciò fare un governo nazionale, guidato dagli uomini
della cosiddetta Destra Storica che rimarranno al potere per 16 anni fino al 1876. Quando parliamo di
Destra e Sinistra storica non parliamo delle categorie che conosciamo oggi, ma parliamo di una destra e
una sinistra Storica in un ambito che è un ambito della stessa ideologia politica, ovvero quella liberale.
Questi liberali della destra storica sono gli eredi di fatto di Cavour, l’artefice per eccellenza del
Risorgimento e dell’unificazione nazionale, hanno posizioni politiche moderate e conservatrici, spesso
dei nobili, aristocratici e proprietari terrieri, mentre la borghesia in Italia agli inizi degli anni 60 dell’800 è
ancora una classe sociale molto debole e lontana dalla conquista del potere politico rispetto ad altre
realtà nazionali. La popolazione di quel periodo era poco più di un terzo di quella attuale, la crescita
demografica era moderata siccome c’erano tante nascite, ma altrettante morti, basti pensare che nel
1861 la speranza di vita si aggirava intorno ai 30 anni. Questo si riflette anche nelle vicende economiche
siccome l’Italia di quel periodo era prevalentemente un paese agricolo, siccome non c’era ancora stata la
rivoluzione industriale. La destra storica deve affrontare in quel periodo il problema della
nazionalizzazione delle masse, della costruzione dello stato nazionale, la lotta al brigantaggio, le guerre
contro l’Austria, la conquista di Venezia e la conquista di Roma. Tutto questo viene realizzato con una
forte dose di accentramento istituzionale sul modello francese basato sulla figura dei prefetti, i
rappresentanti del governo in una determinata provincia o territorio, il cui potere è molto elevato, tanto
che per alcuni anni i sindaci non verranno nominati dal popolo, ma direttamente dal prefetto.

POLITICA ECONOMICA DELLA DESTRA


Gli assi principali di questa politica economica sono fondamentalmente 3:
 Libero scambio commerciale: la prima cosa che fanno i governi della Destra è promuovere il
libero scambio commerciale tra diversi paesi. Un primo accordo di libero scambio dei beni
prodotti fu firmato nel 1863 col governo francese. Il libero scambio è finalizzato
prevalentemente a ridurre i dazi doganali in modo da permettere una più libera circolazione
delle merci per accrescere la ricchezza del paese. Per quanto riguarda l’Italia è un’esportazione
soprattutto di beni agricoli. In campo industriale si muove qualcosa nel campo dell’industria
tessile, soprattutto della seta, diventando uno dei leader principali nell’esportazione appunto
della seta.
 Dotare il paese delle infrastrutture, in modo che queste permettano la crescita economica del
paese. Parlare di infrastrutture nell’Italia di fine 800 significa soprattutto la costruzione e il
potenziamento dei porti, a partire dal principale, quello di Genova, oltre alla nascita delle prime
ferrovie con le quali si uniscono diverse parti del paese.
 Risanamento dei conti pubblici: siccome l’Italia quando nasce nel 1861 presenta un grande
debito pubblico di fatto del Piemonte e del Regno di Sardegna. La strada maestra per ricorrere
ad una diminuzione del debito pubblico è quella di aumentare il fisco e la tassazione. Da qui
l’istituzione della tassa sul pane, sulla farina, sul macinato, che provocherà grande malcontento e
alcune ribellioni a livello popolare. Si procede poi con l’unificazione monetaria, viene utilizzata la
lira, che era la vecchia lira sabauda che viene estesa nel resto del paese. Si procede con
l’unificazione finanziaria, anche se è un’unificazione parziale, siccome non nasce un'unica banca
centrale, ma sono previste ben cinque banche che possono stampare moneta (banca sarda,
toscana, romana, banco di Napoli e banco di Sicilia). La destra storica si trova di fronte ad un
bivio: da una parte si potrebbe tassare in maniera diretta la proprietà (a partire dalla proprietà
più importante che è quella terriera), ma questa tassazione andrebbe a colpire soprattutto i ceti
agrari e i grandi proprietari terrieri , dall’altra parte vi sarebbe una tassazione indiretta, che non
avviene sulla proprietà di un bene, ma nel campo dei consumi (il consumo per eccellenza in quel
periodo è quello del pane), come la tassazione sul pane, che differentemente dalla prima forma
di tassazione è una tassa di tipo regressivo che colpirebbe indirettamente tutti quanti e non a
seconda del reddito personale di ogni cittadino.
La strada è difficoltosa e impopolare e a pagarne sono soprattutto i ceti medi e bassi, ma alla fine si
conclude in maniera positiva perché finalmente nel 1876, l’Italia riesce a realizzare il famoso pareggio di
bilancio, che permetterà futuri sviluppi. Ma nello stesso anno in cui la Destra Storica riesce a realizzare
questo grande risultato, ci saranno delle elezioni politiche che porteranno la fine della Destra Storica e
all’arrivo al potere in Italia dei governi della cosiddetta Sinistra Storica.

LA POLITICA ECONOMICA DELLA SINISTRA STORICA


Con il passaggio alla sinistra storica le cose incominciano poco per volta a cambiare. Parliamo sempre di
una sinistra liberale, ma rispetto alla destra storica è un campo liberale decisamente più pragmatico,
riformista, più progressista, intenzionato a introdurre piccoli cambiamenti, espressioni dell’avanzata
della borghesia. Siamo infatti nel periodo delle grandi rivoluzioni borghesi e dell’avanzata della
borghesia, arrivata in ritardo in Italia, ma che pian piano inizia ad assumere poteri politici ed economici
proprio con la sinistra storica, che va al potere nel 1876, in seguito a quella che gli storici chiamano
rivoluzione parlamentare, siccome la sinistra riesce a conquistare ben il 70% dei seggi parlamentari.
L’esponente per eccellenza della ST è Agostino Depretis che detiene il potere dal 1876 al 1887. Gli anni
della sinistra sono caratterizzati da grandi riforme: ad esempio la legge coppino del 1877, che riforma
l’istruzione scolastica, varando una legge che prevede l’iscrizione gratuita e obbligatoria elementare per i
primi due anni. Un’altra grande riforma è quella elettorale del 1882, che elimina i limiti di censo, ma
mantiene limiti importanti che riguardano l’alfabetismo. Negli anni arriveranno anche il codice Zanardelli
e una insieme di leggi sul tema del decentramento amministrativo.
Inoltre l’epoca della sinistra storica fu caratterizzata dall’apparizione nel nostro sistema politico di una
piaga, che è la cosiddetta pratica del trasformismo, pratiche politiche non particolarmente limpide che
avvengono a livello di rappresentanza elettorale e parlamentare, come frequenti cambi di casacca, da
una formazione e da un gruppo politico all’altro. Ciò avviene attraverso una serie di politiche clientelari
che favoriscono un gruppo rispetto ad un altro. L’Italia comincia ad affacciarsi nell’ambito della politica
estera, tanto che nel 1882 i governi della sinistra si fecero promotori della firma della cosiddetta Triplice
Alleanza, che legava l’Italia alla Germania (alleato naturale dell’Italia che la aiuto contro l’Austria e la
Francia) e all’Austria. Negli anni della sinistra storica iniziarono anche le avventure coloniali dell’Italia.
Grande obbiettivo dell’Italia era la Turchia, che affacciava sulla Sicilia, ma che gli venne sottratta dalla
Francia, provocando così un irrigidimento tra le due nazioni. A quel punto l’interesse dell’Italia si rivolse
ad un’altra regione dell’Africa che chiamiamo ancora oggi del corno d’Africa, ma qui a sottolineare le
difficoltà coloniali iniziali dell’Italia ci fu un episodio, l’eccidio di Dogali in Etiopia, che mostro appunto
con la perdita di molti soldati italiani le difficoltà della nazione, ancora debole sul piano militare. Questo
episodio di Dogali fu determinante nel porre fine alla reggenza di Depretis nel 1887, presto sostituito da
Francesco Crispi, garibaldino, molto legato alla figura di Garibaldi con il quale ebbe inizio l’età crispina.
Con il suo comportamento impersonò questa figura nuova dell’uomo politico forte tanto nella politica
estera come interna, governando con mano forte, in modo da ottenere maggior consenso nella
comunità. Crispi si presentò infatti subito nel 1887 1888 con una serie di dazi protettivi nei confronti
dell’agricoltura e dell’industria italiana e questo irrigidì i rapporti con la Francia. Scoppiò quindi una
“guerra delle tariffe”, una guerra commerciale a colpi di dazi che comportò conseguenze politiche ed
economiche nel nostro paese. Crispi si buttò a capofitto nell’esperienza coloniale e infatti nel 1889 riuscì
a conquistare la prima colonia italiana in Africa, l’Eritrea, importante per la sua posizione strategica. Il
problema fu che questa effervescenza coloniale di Crispi gioco anche a suo svantaggio quando nel 1896
l’esercito italiano fu vittima di una durissima sconfitta militare in Etiopia, la sconfitta di Adua, talmente
tragica in termini di vittime e di immagine dell’Italia nei confronti delle altre nazioni che pose fine all’età
crispina e al periodo della Sinistra Storica. Ma questa dura politica di Crispi ebbe ripercussione anche
all’Interno della stessa penisola soprattutto in due occasioni: la repressione dei cosiddetti fasci siciliani
tra il 93 e 94 e la repressione dei moti anarchici in Lunigiana nel 94. I fasci siciliani erano le prime forme
di organizzazione di lavoratori che si mobilitarono e richiesero cambiamenti nelle loro terribili condizioni
di vita e lavoro soprattutto nelle miniere, ma Crispi decise di reprimere queste dimostrazioni provocando
numerosi morti e arresti.
La caratteristica principale in termini di politica economica della sinistra storica fu certamente la crescita
dell’industria, che si sviluppò soprattutto attraverso due direttrici:
 La crescita delle commesse pubbliche. Lo stato ordina ad alcune imprese una serie di commesse
per realizzare una serie di produzioni che servono appunto allo stato per il suo sviluppo. Le
aziende che ricevettero il maggio numero di commesse furono quelle siderurgiche,
metallurgiche, meccaniche e cantieristiche, situate sul mare (la Liguria infatti fu una delle più
sviluppate a livello industriale all’inizio) necessarie per le costruzioni di ferrovie, porti, ma
soprattutto nell’impiego militare.
 Protezionismo doganale: il governo decise di agevolare le imprese italiane attraverso una serie di
dazi, per difenderle dalla concorrenza straniera. Ci furono due ondate di dazi importanti, la
prima nel 1878 che riguardava il settore leggero, in particolare quello agricolo e tessile e la
seconda nel 1887 da cui poi si scatenò la guerra commerciale con la Francia che riguardava il
settore siderurgico.
Ma già tempo prima tra il 70 e il 74 ci fu un’inchiesta industriale che diceva che per la crescita e la
potenza della nazione era fondamentale il settore industriale, ma che era necessario proteggerla.
Con qualche anno di ritardo cominciarono a costituirsi le prime associazioni di imprese. Le prime
associazioni si venivano a creare in occasione di eventi come per esempio le expo e spesso si
scioglievano al loro termine. Queste prime associazioni potevano fare piccole azioni di lobbying, quindi di
pressione a livello governativo, parlamentare, ma non andavano oltre.
Le prime imprese italiane furono nel settore leggero, come quelle tessili che nascevano nelle zone alpine
siccome necessitavano di molta acqua per muovere i circuiti ed erano imprese soprattutto a conduzione
famigliare guidate dal capo famiglia. Ma nel giro di qualche anno cominciarono a formarsi anche le
grandi imprese, che detenevano capitali molto più grandi rispetto alle prime industrie. In questi primi
anni in cui nascevano le aziende si assistette anche ad una prima divisione, seppur ancora in una fase
embrionale, tra due modelli di imprese:
 Imprese romane: si rivolgevano soprattutto a Roma, necessitavano di un rapporto stretto con il
potere politico, attraverso la richiesta di commesse pubbliche o per ottenere dazi
 Imprese milanesi: a Milano non c’erano le industrie siderurgiche che avevano bisogno delle
commesse pubbliche, ma c’erano altre industrie come quelle tessili, della meccanica leggera, le
prime industrie elettriche, chimiche, industrie più autonome rispetto alla politica, più dinamiche
e tecniche.

LA SITUAZIONE ECONOMICA IN ITALIA, ALLA FINE, DELL’800


Gli anni della sinistra storica quasi si sovrappongono agli anni di una grandissima crisi, la crisi agraria (che
prende anche il nome di grande depressione) avvenuta tra il 1873 e il 1895, si caratterizza soprattutto
per una crisi agraria europea, dovuta alla concorrenza con l’America e l’Asia, dalle quali arrivano prodotti
come il grano a prezzi inferiori che mettono in crisi l’agricoltura italiana ed europea. Questa grande crisi
fa sì che in Italia nel 1881 si raggiunga il livello più basso di reddito pro-capite nella storia italiana. (In
quell’anno i cittadini non sono mai stati così poveri). Questa grande crisi porta quindi ad una fuga dalle
campagne e determina una disoccupazione di massa, con la popolazione che decide di spostarsi nelle
città o addirittura in altri paesi, iniziando una forte migrazione di massa soprattutto oltre oceano, in
America dove c’era tanto lavoro. Difronte a questa crisi non mancano assolutamente i tentativi di
riforma da parte della sinistra storica. Una legge molto importante, varata negli anni 80, la legge
Baccarini, che promuove da parte dello stato quindi con la spesa pubblica, la bonifica delle tante zone
paludose. Nell’84 viene cancellata la tassa sul macinato della destra storica.
Questa grande crisi agraria in Italia raggiunge il culmine con una grandissima crisi economica, che non
coinvolge quindi solo più l’agricoltura ma anche gli altri settori, che è la crisi del 1888-1894, una crisi che
si gioca soprattutto su due tempi:
1. Crisi edilizia, scoppia nel 1888, è la classica esplosione di una bolla speculativa. Ci sono stati
grandissimi investimenti nelle grandi città italiane che sono cresciute di smisura. Infatti, in
seguito di questo grande processo di urbanizzazione sono stati costruiti tantissimi edifici e
infrastrutture, che hanno aumentato il prezzo sulle case e sui palazzi che hanno fatto esplodere
questa bolla speculativa.
2. Crisi bancaria: e il fatto che le banche abbiano prestato soldi a questi costruttori edili, che non
riescono a ripagare i debiti provocando il fallimento delle imprese, vanno in sofferenza
provocando a loro volta una crisi bancaria. Intervengono così le 5 principali banche italiane (già
citate), alle quali viene chiesto di aumentare la liquidità (emettere più carta moneta) per venire
incontro a questi fallimenti. Ma c’è una di queste banche, che è la banca romana, che decide di
andare oltre i limiti di legge, emettendo una quantità eccessiva di moneta, facendo così
esplodere uno scandalo bancario. La banca romana viene messa in liquidazione e nel 1893 il
governo italiano vara una nuova legge bancaria che ha due punti fondamentali:
1. Istituisce la banca d’Italia nel 1893 che diventa la banca centrale d’Italia ed è l’unione di due
banche (la banca di Sardegna e quella fiorentina), anche se il banco di Napoli e quello di Sicilia
continuano ad emettere moneta, almeno fino al 1936 quando la banca d’Italia diventerà l’unica
ad emettere moneta.
2. Istituisce le banche miste, banche private che possono svolgere sia un’azione di raccolta e di
deposito bancario, sia un’azione creditizia, di erogazione di prestiti, sia nel breve periodo per i
cittadini che di lungo periodo per le imprese. Le più importanti sono due: la Banca Commerciale
italiana (COVIT) che nasce a Milano nel 1894 con capitali tedeschi e il Credito Italiano (Credit) che
nasce nel 1895 a Milano con capitali tedeschi, svizzeri e italiani. Si aggiungeranno poi il Banco di
Roma e la Banca Italiana di Sconto
Questa legge porterà quindi ad un decollo industriale italiano che di lì a poco partirà nel paese e darà
una spinta fondamentale alla prima Rivoluzione Industriale Italiana tra la fine dell’800 e i primi anni
del 900 (1896-Prima guerra mondiale).

I LAVORATORI DELLE CAMPAGNE: I CONTADINI


Si possono distinguere tre grandi tipologie di lavoratori: autonomi, dipendenti e parasubordinati. Tra i lavori
autonomi per eccellenza nelle campagne vi era il contadino, proprietario di un piccolo terreno
indipendente, ma insufficiente per garantirgli un buon livello di vita. Questi terreni servivano per un
autoconsumo, ma spesso accadeva che questi piccoli appezzamenti facessero parte di un terreno più
grande appartenente ai grandi proprietari terrieri e perciò il frutto da essi ricavato doveva essere smezzato
con il proprietario. Si era quindi nel pieno di un sistema feudale, capitalistico. Vi erano infatti i contadini
cosiddetti salariati fissi (equivalenti dei lavoratori a tempo indeterminato di oggi) che dipendevano in tutto
e per tutto dai loro capi. Un altro tipo di lavoratori dipendenti erano i braccianti, anche loro salariati, ma
non fissi, avevano la proprietà solo delle loro braccia che mettevano a disposizione per lavorare nei campi;
il bracciante lavorava a giornata per il suo imprenditore, dall’alba al tramonto, era infatti un lavoro molto
duro che percepiva un salario minimo. Una terza categoria di lavoratore un po’ autonomo e un po’
dipendente era il mezzadro, classico lavoratore della terra, lavoratore autonomo che poteva coltivare la sua
terra, ma allo stesso tempo la sua terra apparteneva ad un imprenditore e per questo motivo doveva
dividere il frutto del suo lavoro nella terra con il suo imprenditore. Questo era il lavoratore
parasubordinato.
Teofilo Patini: politicamente socialista, faceva una pittura che al tempo veniva definita realista. Dipingeva
quadri sui contadini (abruzzesi, la sua zona). I tre quadri in slide sono una trilogia sociale: il primo L’erede,
rappresenta la morte di un ragazzo erede di una famiglia contadina a causa delle condizioni di vita. Il
secondo vanga e latte, nel quale ci sono due soggetti, l’uomo con la vanga e la moglie in pausa che allatta il
bambino. Il terzo Bestie da soma rappresenta la fatica delle donne. Questi quadri rappresentano le
condizioni gravi della vita contadina e la grande fatica del lavoro. Condizioni abitative terribili, carenza di
cibo, acqua il più delle volte sporca, orari lunghissimi, dall’alba al tramonto, frutto della terra non
sufficiente per sfamare la famiglia, condizioni di lavoro terrificanti erano la condizione delle famiglie
contadine di quel periodo.
Il censimento del 1861 ci dice che il 70% dei lavoratori italiani lavorava la terra, il restante 30% erano coloro
che iniziavano a lavorare nelle industrie tessili e coloro che lavoravano nel terziario (mondo dei servizi). Di
quel 70% 1 lavoratore su 2 era un bracciante, il livello di maggior instabilità lavorativa e con le peggiori
condizioni di lavoro e di salute.
Adriano Prosperi, Un volgo disperso 2019: il tema principale è quello della salute contadina. Fa riferimento
inoltre alla figura dei medici, incaricati di prendersi cura delle malattie che attraversavano il mondo delle
campagne. Punto di partenza è la figura di Bernardino Ramazzini, il primo medico del lavoro della storia
italiana e non solo, uno scienziato e medico, il primo ad assumere il punto di vista dei contadini per
comprendere tutto il loro disagio e le loro difficoltà, da un punto di vista medico e sociale (estrema povertà,
essere costretti a lavorare e a vivere in condizioni dure e drammatiche). La cornice all’interno della quale si
situa la ricerca è quella cornice dei rapporti tra il mondo delle città e il mondo delle campagne. Da una
parte le città, nelle quali si vive un sentimento di profonda ostilità nei confronti delle campagne, si temono
le campagne, luoghi in cui possono scoppiare continue ribellioni nei confronti di colore che detengono il
potere nelle campagne e che spesso vivono nelle città. Dall’altra vi è la diffidenza del mondo contadino nei
confronti di chi vive nelle città. All’interno di questa cornice si situa il ruolo dei medici, che trovano un
alleato prezioso per penetrare nelle campagne, i parroci, siccome la chiesa cattolica in Italia permetteva a
questi parroci di controllare il mondo delle campagne, i quali conoscevano molto bene il mondo contadino
e le famiglie che ci vivevano. Questi parroci cercavano di convincere i contadini ad ubbidire alle autorità
siccome così andava il mondo e finivano perciò di diventare alleati di quelli stessi ceti possedenti.
L’unificazione nazionale rappresentò una cesura importante anche nel mondo delle campagne. Infatti, la
nascita dell’Italia pose fine al potere temporale della Chiesa. Ovviamente questo ridimensionava il potere
dei parroci nelle campagne, ma si cercò comunque di aumentare il ruolo dei medici, costretti a curare i
contadini nei comuni, che prendevano il nome di medici condotti. La loro funzione non era solo sanitaria,
quindi curare le malattie e l’igiene, ma avevano anche una funzione di conoscenza, potevano contribuire ad
accrescere le statistiche, quindi la conoscenza del mondo delle campagne. L’obbiettivo era quello di arrivare
ad una carta igienica nazionale che permettesse nel tempo di migliorare le condizioni di vita e di lavoro
nelle campagne italiane. Questo era perciò un mestiere fondamentale nell’Italia di fine 800, ma allo stesso
tempo molto difficile e malpagato.
La crisi agraria del 1873-1895 produsse una maggiore povertà economica, ma anche un peggioramento
delle condizioni di lavoro e di vita. Il simbolo di questa crisi agraria fu la diffusione di una malattia, la
pellagra, soprattutto al nord, dovuta alla carenza di vitamina B (il cibo principale dei contadini era il mais.
Carenza di frutta, verdura e carne). Al sud il problema era un altro, la malaria, dovuta alle zone paludose. La
pellagra fu più forte nelle zone più povere a causa delle disastrose condizioni di vita. Intorno a questa
malattia si sviluppò in quegli anni un importante dibattito scientifico. Da una parte (quella corretta) si
individuava il problema nel cibo, nelle carenze alimentari e questo discorso chiamava in causa un problema
più grande, un problema sociale, quello della ridistribuzione del cibo nella società. Una seconda scuola di
pensiero che prevalse in quel tempo fu quella che riconduceva le cause della pellagra ad un fungo tossico,
che rendeva malata la pianta del mais. Di conseguenza la risposta dello stato fu di tipo repressivo nei
confronti dei malati di pellagra, spesso ritenuti dei pazzi.
In realtà lo Stato conosceva bene le condizioni di lavoro e salute dei contadini. Ci furono importanti
inchieste parlamentari che i primi parlamenti italiani misero in campo per studiare la condizione dei
lavoratori della terra. La grande inchiesta parlamentare sul mondo contadino arrivò nel 1877, l’inchiesta
jacini che durò per 10 anni e in seguito ad una serie di indagini sul campo venne fuori l’immagine e la
sostanza delle campagne italiane, le condizioni, il lavoro, la pellagra. Un’altra inchiesta, l’inchiesta
Franchetti Sonnino, questa volta un’inchiesta regionale, mirava a studiare le condizioni di lavoro nelle
campagne siciliane negli anni successivi all’unità nazionale.
Dal libro di Adriano Prosperi veniva quindi fuori un mondo segnato da una profonda disperazione, un volgo
disperso, un popolo abbandonato dalle classi dirigenti, che non fu mai oggetto di una riforma agraria
(solamente nel 1950 in Italia) che si verificò in molti paesi

I LAVORATORI DELLE CAMPAGNE: SALARIATI E BRACCIANTI


Così come abbiamo un proletariato in campo industriale, abbiamo anche un proletariato agricolo nel
settore primario, per il quale si impongono due figure principali:
 Salariato fisso: quel lavoratore agricolo che è alle dipendenze di un’impresa e per quel lavoro che fa
nell’impresa riceve un contributo in denaro (salario), che è un salario fisso, nel senso che quel
dipendente lavora tutti i giorni per quell’impresa per un tempo indeterminato, non vive perciò alla
giornata.
 Bracciante: lavoratori dipendenti salariati, ma a giornata. Terminata la giornata lavorativa non
hanno la certezza di tornare a lavorare il giorno seguente. Sono di gran lunga superiori di numero ai
salariati fissi.
I caporali sono degli intermediari tra la domanda e l’offerta del lavoro che danno vita al fenomeno del
caporalato, in Italia quasi esclusivamente agricolo, anche se poteva essere definito anche in altri settori. I
caporali sono più duri nei confronti del lavoratore, anche con un atteggiamento ricattatorio, spesso
trattengono parte del salario destinato al proletario. Ha un grande potere in quanto di fatto decide chi
lavora e chi no. Quello del caporalato è un fenomeno che sussiste ancora oggi nelle campagne soprattutto
del sud Italia.
Guido Crainz, Padania: l’analisi di Crainz si concentra nella zona della Pianura Padana. Alla fine, dell’800 la
Padania poteva essere divisa in tre grandi zone, alle quali corrispondevano tre diverse colture e tre diverse
modalità di lavoro:
 Romagna e Polesine, zona paludosa, nella quale era diffusa la malaria, che venne bonificata con la
legge Baccarini nel 1882, che portò un grande aumento dei terreni coltivabili e ad un aumento dei
lavoratori in questi terreni. Queste bonifiche avevano determinato l’imposizione di una sola
coltura, la cerealicoltura. Ma il problema della produzione del grano e che il grano è concentrato
soprattutto in due o tre mesi estivi. Perciò in questi mesi dell’anno vi era una grandissima quantità
di lavoro, mentre per il restante periodo vi era una totale mancanza di lavoro. Per questo motivo in
queste zone vi era una maggioranza di lavoro bracciantile. Così i disoccupati si spostavano verso
ovest nella Bassa.
 La Bassa (zona più vicina al fiume Po) emiliana e lombarda. Qui non vi era una situazione di
monocoltura. C’era si la produzione di grano, ma accanto a questa c’era l’allevamento degli animali
(dai quali derivavano una serie di produzioni, latticini, carne), attività zootecniche e casearie nelle
cascine. Ciò rendeva più stabile il lavoro, siccome non si lavorava solo alcune stagioni l’anno, ma in
tutte le stagioni. In queste zone vi erano quindi salariati fissi, più che braccianti, che lavoravano
nelle aziende, nelle quali ebbe molto importanza il mondo della cooperazione.
 Tra Lombardia occidentale e Piemonte orientale: grazie ad una grande abbondanza di acqua, qui la
coltura prevalente era quella del riso. Si ritorna quindi ad una sorta di monocoltura, la risicoltura,
che come nella zona della Romagna fa si che il lavoro fosse incostante durante l’anno. I braccianti
che lavoravano in queste zone presentavano una specificità di genere. Infatti, le braccianti erano
soprattutto di genere femminile, le mondine, che prendevano il nome dall’operazione della monda
del riso, vale a dire la pulizia della piantina del riso che sta crescendo e che viene liberata dalle
erbacce. Queste mondine lavoravano in condizioni terribili, sotto il sole, con l’acqua alle ginocchia,
un’acqua infestata da zanzare e insetti.
Nel Meridione invece vi era una certa arretratezza anche nel mondo agricolo. Il fenomeno per eccellenza
dell’arretratezza del sud era il latifondo, un enorme terreno nelle mani di un proprietario terriero, che ne
abbandonava il controllo ai campieri o gabellotti (gabelle era il nome delle vecchie tasse), personaggi
piuttosto negativi, incaricati dai proprietari terrieri di ritirare i prodotti che producevano i lavoratori di
questi terreni. Questi gabellotti rappresentavano la base di quelli che sarebbero stati tra la fine dell’800 e
l’inizio del 900 la Mafia. In queste zone i lavoratori erano quasi tutti braccianti siccome non esistevano
aziende. Quindi, la caratteristica principale del mezzogiorno agricolo, fu l’assenza della borghesia.
Infine, vi erano i mezzadri, lavoratori a metà strada tra lavoratori autonomi e dipendenti, che si situano
prevalentemente nel centro Italia. La mezzadria si caratterizza per il fatto che il terreno, il podere, è di
proprietà di un grande proprietario, che non si occupa direttamente della gestione e della produzione
agricola, ma la affida ad un mezzadro e alla sua famiglia (famiglia mezzadrile, piuttosto allargata), che
lavorano in modo autonomo, ma sono vincolati a cedere la metà del prodotto coltivato al proprietario
terriero.

IL MERCATO DEL LAVORO AGRICOLO


Nelle campagne italiane di metà/fine 800 vi era una grandissima sovrabbondanza di manodopera. Questo
sovraffollamento e il fatto che il lavoro non fosse sempre abbondante provocavano una disoccupazione
cronica. A causa quindi della mancanza di lavoro, i lavoratori tendono a migrare in altre zone sia italiane che
fuori dalla penisola. Queste migrazioni potevano essere temporanee o definitive, dovute a fattori economici
o politici. I braccianti italiani furono dei grandi migranti. Nel lungo secolo delle migrazioni sono stati circa 30
milioni gli italiani che hanno migrato (dal 1861 fino agli anni 70 80 del 900 quando l’Italia è ormai diventato
un paese ricco). Questi migranti, che andarono soprattutto nelle Americhe del nord, ma anche del sud,
erano prevalentemente giovani maschi del Meridione, lavoratori della terra.
Spesso i lavoratori delle campagne praticavano più lavori insieme (fenomeno della pluriattività). La maggior
parte di questa tipologia di lavoratori erano gli operai contadini, coloro che lavorano una parte della
giornata o della settimana in fabbrica, ma passavano gran parte e il restante del loro tempo a lavorare nelle
campagne.
In un mercato del lavoro di questo genere, con tanta instabilità e disoccupazione i lavoratori avevano
necessità di controllare questo mercato del lavoro attraverso la cosiddetta funzione del collocamento, cioè
la possibilità di far accendere un particolare rapporto di lavoro. All’epoca il collocamento poteva essere di
due tipologie:
 collocamento misto, costituito sia dal proletariato che dalla borghesia, che insieme cercavano di
collocare le persone, cercando di garantire loro il numero di giornate di lavoro massimo possibile.
Questo tipo di collocamento era presente per lo più nelle zone bianche, in cui la politica cattolica,
interclassista finiva per prevalere.
 Collocamento di classe, gestito da una sola classe, quella proletaria. Questo tipo di collocamento si
instaurò soprattutto nelle zone rosse, in cui era più forte l’ideologia socialista della lotta di classe.
Più tardi ci fu un’altra grande rivendicazione promossa dai braccianti accanto al collocamento di classe,
l’imponibile di manodopera, ovvero una conquista ottenuta attraverso accorti collettivi, in cui i lavoratori
imponevano al datore di lavoro una quota fissa di lavoratori che l’imprenditore era costretto a far lavorare.
Ovviamente per avere rivendicazioni di questo genere e per ottenere dei risultati bisognava mettere sul
campo delle vere e proprie azioni di resistenza e scioperi. Tra le prime lotte agrarie per eccellenza ci sono i
moti de <<la Boje>> tra il 1884 e il 1885 nella zona del polesine (Lombardia più orientale, Veneto
meridionale), che prendono il nome da un’espressione dialettale (la pentola bolle, sta per scoppiare) e
furono una vera e propria esplosione di ribellione popolare, dovuta alle pessime condizioni di vita e di
lavoro. Furono i primi moti in cui si organizzarono in modo più o meno stabile i lavoratori. Furono però
duramente repressi dalle autorità pubbliche.
Il <<KRUMIRAGGIO>>, un fenomeno che non esiste solo nell’agricoltura, ma anche nel settore industriale e
dei servizi. Ma in quell’Italia prevalente agricola, questo fenomeno insiste soprattutto nel campo
dell’agricoltura. I krumiri sono quei lavoratori che sono chiamati a sostituire i lavoratori in sciopero. Più
tardi nel tempo, con krumiri si indicavano anche quei lavoratori di fabbrica che non partecipavano agli
scioperi e alle lotte dei loro compagni. Nell’origine del termine, i krumiri erano una tribù del nord dell’Africa
che in quegli anni compiva continuamente una serie di razzie nel territorio della Tunisia. Krumiri diventa
così un termine negativo. I krumiri erano quindi lavoratori che si trovavano in condizioni disperate che pur
di sopravvivere si prestavano a sostituire i lavoratori in sciopero, passando coì sotto i loro occhi come
personaggi estremamente negativi. Molti industriali fecero un uso spregiudicato di questi krumiri, che
iniziarono ad essere difesi con le armi dalla polizia che era alle dipendenze dell’imprenditore.
Le azioni di contrasto dei lavoratori di fronte a questo fenomeno furono la propaganda sui primi quotidiani
dei nomi dei krumiri, in modo da creare una situazione di rigetto sociale nei loro confronti. Avendo però la
propaganda uno spazio estremante limitato, si decise di andare oltre e iniziarono i cosiddetti picchetti,
quelle situazioni che si registravano nel momento dello sciopero per impedire ai lavoratori sostitutivi di
entrare nelle fabbriche, delle forme di resistenza anche fisiche e violente.

IL MUTUALISMO
Il fenomeno del mutualismo, ovvero quelle società di lavoratori e operai di mutuo soccorso che derivano
dalle vecchie confraternite o dalle prime vecchie associazioni popolari e circoli operai oppure nascono
come nuove, è caratterizzato dal fatto che queste società non si occupano più semplicemente alle questioni
legate allo svago, ma si occupano in maniera sistematica delle questioni sociali. Nelle società di mutuo
soccorso non si fa più semplice beneficienza dall’alto verso il basso, ma vi è un vero e proprio aiuto
reciproco tra pari. Il mutualismo è un fenomeno nato in Inghilterra, ma che si diffonde in tutto il mondo,
così come in Italia, un fenomeno inizialmente considerato illegale e respinto in Inghilterra e in Francia, ma
che con le rivoluzioni borghesi esce pienamente allo scoperto. Il fatto che questo fenomeno sia
internazionale è dimostrato da una famosa esposizione universale di Milano nel 1906, durante la quale
viene costituita la federazione internazionale delle società di mutuo soccorso, società che provengono da
buona parte dell’Europa e dell’America.
In Italia, queste società non sono società religiose, ma mantengono una caratteristica tipica del mondo
moderno, ovvero il fatto di essere laiche. Un’altra caratteristica è la sua dimensione interclassista, ovvero il
fatto che quelle prime società di mutuo soccorso non siano composte da una sola classe sociale, come
poteva essere quella del proletariato, ma sono costituite anche da borghesi più illuminati che cercano di
dare una mano alla risoluzione della cosiddetta questione sociale. Ed è proprio questa presenza dei
borghesi che determina una influenza politica del pensiero borghese all’interno di queste società. E sono
soprattutto tre le componenti della borghesia nell’Italia della metà dell’800:
 Componente moderata costituzionale (parliamo del gruppo di Cavour, quello che farà la
rivoluzione) che cercano di influenzare le società di mutuo soccorso
 Componente radicale, componente più democratica che ha come personaggio di riferimento
Giuseppe Garibaldi. Questa componente radicale ha posizioni più avanzate e progressiste, cercano
di tutelare e diffondere sempre più il fenomeno del mutualismo.
 Componente repubblicana, ancora più radicale di quella radicale, aveva come punto di riferimento
Giuseppe Mazzini. In un contesto monarchico, i repubblicani inizialmente sono considerati veri e
propri terroristi che devono essere perseguitati. Mazzini si appassiona al mutualismo, siccome a
causa del suo pensiero è costretto ad uscire dalla nazione e a viaggiare, situandosi per lunghi anni a
Londra, dove tocca con mano le gravi questioni sociali. Diventa così un grande fautore delle prime
società di mutuo soccorso.
Già prima dell’unità d’Italia, il regno più avanzato era quello di Sardegna, del Piemonte, dei Savoia che
garantiscono libertà civili e borghesi importanti e questo fa sì che in questi territori si possa sviluppare il
mutualismo. Quindi il Piemonte e la Liguria che fanno parte del regno di Sardegna sono le regioni in cui
nasce il movimento mutualista, che si diffonderà prevalentemente nel centro, ma soprattutto nel nord
Italia.
Una modalità per far socializzare e tenere insieme queste società di mutuo soccorso era quella di
organizzare dei congressi annuali, nei quali ci si incontra e si discute dei problemi comuni di quel
movimento. Il primo congresso in Italia avvenne nel 1853 ad Asti.
Queste funzioni non esercitano azioni di lotta e resistenza, ma hanno una funzione di tipo assistenziale,
ovvero i soci di queste società si assistono fra di loro in particolari casi di difficoltà, come per esempio in
caso di infortunio, vecchiaia, disoccupazione, morte. Le funzioni assistenziali più comuni sono quelle sugli
infortuni e sulla vecchiaia. Una seconda funzione è quella di carattere educativo, i lavoratori vengono
assistiti per imparare a leggere e a scrivere per meglio difendere i propri interessi e diritti, diritti che
vengono insegnati loro da queste società. Ci sono poi tutta un’altra serie di funzioni minori, come gli uffici di
collocamento, azioni creditizie (prestiti di denaro, e educazione al risparmio). All’interno di queste società
nascono anche i primi comitati elettorali. Questa assistenza si svolge attraverso un fondo, costituito dalla
quota di iscrizione dei soci del mutuo soccorso che vanno ad alimentare una cassa di solidarietà, che servirà
a venire incontro alle esigenze dei soci. È quindi un sistema di autotutela guidato dalla solidarietà e dalla
fratellanza.
Alcune di queste società hanno una struttura di tipo cumulativa, ovvero tengono insieme lavoratori di
diversi mestieri, ma la struttura più diffusa è quella di mestiere.
All’interno di queste organizzazioni vi sono due tipi di soci:
 Soci effettivi, che versano la loro quota e beneficiano dei servizi prestati dalla società. Erano
lavoratori che guadagnavano abbastanza bene, la cosiddetta aristocrazia operaia.
 Soci onorari, coloro che versano la quota d’iscrizione (talvolta anche maggiore in quanto se lo
potevano permettere), ma non beneficiano dei servizi perché non ne hanno bisogno grazie alla loro
ricchezza. Erano i borghesi, che oltre al sostegno economico, davano un sostegno anche
professionale, siccome svolgevano importanti lavori.
I soci erano prevalentemente maschi, in quanto il ruolo della donna era più di tipo domestico e famigliare.
Esistevano però delle donne iscritte e vi erano addirittura società esclusivamente femminili, che
aumentarono negli anni. In alcune di queste società femminili, nacquero servizi speciali, come i primi asili, o
crediti riservati alle donne per potersi emancipare e investire.
Nel 1861 il congresso annuale delle società di mutuo soccorso venne vinto da Mazzini, dalla corrente
mazziniana che divenne egemone in queste società, che si trasformarono in forze di opposizione, non però
nei confronti della borghesia di cui Mazzini faceva parte. Una delle questioni più rilevanti tra gli anni 60 e 70
dell’800 fu quella del riconoscimento giuridico, ovvero la volontà di voler essere riconosciuti dalla legge. In
ambito borghese ci fu una divisione su questa questione:
 Conservatori, che volevano il riconoscimento giuridico e una stretta regolamentazione
 Liberali, favorevoli al riconoscimento giuridico, ma a patto che queste società mantenessero una
certa autonomia
 Radicali, che volevano una piena autonomia, opponendosi al riconoscimento giuridico
Nel congresso del 1877 si discusse di questo problema e si affermò la posizione dei liberali, ma solamente
perché i mazziniani radicali non vollero partecipare a questa riunione. La legge sul riconoscimento giuridico
arrivò quindi nel 1886, ma non ebbe un grande risultato, siccome solo un decimo delle società di mutuo
soccorso in seguito alla legge erano registrate.
L’influenza di Mazzini sul mondo operaio calò drasticamente con la Comune di Parigi, un movimento di
governo rivoluzionario, contro il quale Mazzini ebbe una posizione molto dura che non piacque ai
lavoratori. L’anno seguente nel 1872, l’anno della morte di Mazzini, la corrente mazziniana viene sconfitta
dagli anarchici ed esclusa dalle conferenze annuali. Questi nuovi gruppi radicali consideravano insufficiente
il metodo mutualistico e per questo motivo lo respingevano e spingevano per sostituirlo con la lotta di
classe e la resistenza. Tra gli anni 70 e 90 alcune di queste società di mutuo soccorso incominciarono perciò
a cambiare atteggiamento seguendo una strada guidata dalla violenza. Verso la fine del 19 secolo inizia così
il declino del mutualismo dovuto a ragioni politiche, secondo le quali era necessario iniziare ad usare la
violenza per ottenere risultati e a motivi economici, siccome iniziano ad avere gravi problemi finanziari in
entrata.

LA COOPERAZIONE
La cooperazione rappresentò un passo in avanti nella storia dell’associazionismo popolare rispetto alle
società di mutuo soccorso. La cooperativa è una impresa originale che esercita attività economiche nei
diversi settori senza uno scopro diretto di lucro, ma con un approccio di tipo mutualistico. Considera quindi
gli aspetti sociali come predominanti su quelli economici. La storia della cooperazione ricopre un periodo
molto lungo, tanto è che anche oggi esistono le cooperazioni. Anche la cooperazione ha una storia di
carattere internazionale, e come le società mutualistiche, nacquero in Inghilterra. La prima cooperativa al
mondo fu quella dei probi pionieri di Rochdale del 1844, una cooperativa di consumo, un semplice negozio.
Qualche anno dopo la metà dell’800 nacquero le prime cooperative in Italia e gran merito lo ebbe ancora
una volta Giuseppe Mazzini. Infatti, le prime in Italia nacquero tra gli anni 70 e 90 dell’800 (ventennio della
grande crisi agraria), ebbero un’impronta puramente mazziniana e furono una conseguenza della crisi
agraria, siccome molti lavoratori iniziarono a trasferirsi nelle città ed ad associarsi tra di loro all’interno
delle prime imprese. Il movimento cooperativo andò ad insediarsi in alcune regioni italiane, soprattutto nel
centro-nord, in particolare nell’Emilia Romagna e nella Lombardia.
Tra la fine dell’800 e i primi anni del 900 arrivò “la stagione della maturità” per le cooperative, il grande
consolidamento del movimento cooperativo. Questa stagione fu una fase fortemente segnata dalla politica,
siccome quelli furono gli anni delle grandi ideologie politiche, tra cui se ne riscontrano soprattutto due:
 Il socialismo, derivante dall’ideologia marxista, si occupò a fondo della cooperazione (cooperazione
rossa) che ebbe il suo epicentro nella Lega Nazionale delle Cooperative (Lega Coop che esiste
tutt’ora), costituita nel 1886, una delle tante organizzazioni rosse. Favorevoli alla lotta di classe
 Cattolicesimo, sempre esistito in Italia, ma entrato direttamente in azione nel campo economico,
sociale e politico, quindi anche delle cooperative in questo periodo. Si parla infatti di cooperazione
<<bianca>>. Anche in questo caso vi era una struttura nazionale che dirigeva tutto il movimento
cooperativo bianco, fondata nel 1906 e prese il nome di Unione Cattolica delle istituzioni
economiche e sociali. Favorevoli all’armonia di classe.
Accanto a queste due ideologie, vi fu una terza realtà di stampo repubblicano e di derivazione mazziniana,
che ebbe però un’estensione ridotta sul territorio, ma molto concentrata nella regione della Romagna.
Questa realtà si posizionava nel mezzo tra la lotta e l’armonia di classe, ma parlava di una collaborazione di
classe.
Esistevano diverse tipologie di cooperazione. Le due per eccellenza, che ancora oggi esistono sono:
 Le cooperative di consumo, che si occupano del problema della distribuzione dei prodotti. Il campo
per eccellenza di queste cooperative di consumo è quello commerciale e altro non sono che negozi,
spacci e magazzini
 Le cooperative di produzione e lavoro. Si parla della produzione vera e propria presente in tutti i
campi e settori dell’economia. Un settore in cui tende a svilupparsi in maniera significativa è quello
dell’edilizia, che si occupa della costruzione delle case e dei quartieri popolari. Si ponevano alcuni
obbiettivi fondamentali: il primo era quello di dare lavoro, in un periodo di grande disoccupazione e
far si che questo una volta ottenuto fosse retribuito in maniera equa. La prima cooperativa di
lavoro in Italia fu creata a Bologna nell’Emilia rossa nel 1868, messa in piedi dai tipografi. Altre
cooperative vennero costituite in campo agricolo e solo più tardi tra gli operai dell’industria.
In campo agricolo le cooperative presero una forma particolare, quella delle affittanze collettive. Venivano
costituite per prendere in affitto grandi terreni dei proprietari terrieri. Vi erano diversi tipi di affittanze
collettive, in particolar modo due:
 Affittanze collettive a conduzione divisa. Queste cooperative prendevano in affitto un terreno lo
dividevano in diversi lotti e ciascun socio lavorava un lotto. Trovò spazio soprattutto tra la
cooperazione bianca e nel Meridione. Permise di colpire i grandi proprietari terrieri e i gabellotti,
ma non ebbe un gran successo sul mercato, in quanto la divisione in lotti non creava grandi
guadagni.
 Affittanze collettive a conduzione unita. Queste cooperative prendevano in affitto un terreno che
non veniva ripartito tra i singoli soci, ma veniva condotto in maniera unita. Questo tipo di
cooperazione fu soprattutto in voga nella parte rossa, nelle regioni del nord e il fatto di tenere uniti
questi terreni permise la realizzazione di grandi aziende moderne, in grado di competere nel
mercato capitalistico.

IL MODELLO EMILIANO
Nell’ambito della cooperazione, l’epicentro dal punto di vista geografico, spettava all’Emilia Romagna. La
capitale per eccellenza fu Reggio Emilia, siccome qui lavorarono due grandi teorici della cooperazione
integrale: Antonio Vergnanini e Camillo Prampolini. La cooperazione integrale era un sistema economico
territoriale in cui le cooperative avevano un ruolo centrale, ma intorno a queste si costruiva un sistema
armonico all’interno del quale ognuno faceva la sua parte. Il consiglio comunale rappresentava la regia di
questo modello emiliano.
Nullo Baldini fu il leader dell’Associazione generale degli operai braccianti di Ravenna, che per lunghi anni
fu la più importante cooperativa agricola in Italia. Questa cooperativa fu l’azienda che realizzò le grandi
bonifiche della Polesina e di Ferrara. E grazie al loro grande lavoro, queste aziende furono chiamate per
bonificare la zona romana attorno alla capitale. Le esperienze di Molinella a Bologna e di Fontanelle a
Parma dimostrarono la grande efficienza di queste cooperative. Il modello emiliano esplose nei primi anni
del 900 ed ebbe il suo periodo d’oro durante l’età giolittiana, quando queste cooperative riuscirono a
mettere in piedi una vera e propria rete alternativa e competitiva nel mercato capitalistico, portando avanti
un disegno sociale di grande rilievo (salari equi, profitto reinvestito nel sociale, prezzi dei prodotti bassi per
far accedere ai consumi anche chi guadagnava meno).
Nel dopoguerra le cooperative continuarono a crescere e a consolidarsi. Tra queste una forma di
cooperazione particolarmente interessante fu quella dei reduci di guerra, soldati che erano
prevalentemente contadini e ai quali fu promesso che una volta tornati dalla guerra avrebbero ottenuto
della terra, ma questo non avvenne mai. Nacquero inoltre in questi anni delle cooperative particolari, le
<<gilde>>, la cui proprietà spettava ai sindacati stessi. Questa esperienza della cooperazione libera e
democratica durò poco perché nei primi anni 20 arrivò il fascismo che prese il potere nel 1922 ed eliminò
tutte le forme di cooperazioni esistenti, dalle rosse alle bianche, creando un’unica grande cooperazione, la
cooperazione nera o fascista. Mussolini nel 1926 istituì l’ente nazionale della Cooperazione, un ente
pubblico, che più di occuparsi dei problemi della cooperazione, si occupava di costruire il consenso con le
buone e le cattive maniere per la dittatura totalitaria. Soltanto con la caduta del fascismo dopo la Seconda
guerra mondiale ci fu il rilancio della cooperazione libera, che entrò a far parte della costituzione
nell’articolo 45. Durante il periodo repubblicano dopo il 1946 rinacque il discorso del pluralismo politico
della cooperazione. Rinacque quindi la cooperazione rossa, quella bianca e quella di impronta mazziniana
repubblicana. Negli anni 70/80 il mondo dei partiti cominciò ad entrare in crisi e quando ci fu il naufragio
della repubblica dei partiti alla fine degli anni 80 e all’inizio degli anni 90 iniziò quindi una nuova storia nella
quale le cooperative italiane non avevano più la sponda dei partiti politici e per questo dovettero provare a
reggere da soli la concorrenza delle grandi imprese private.
Ciò che va sottolineato in conclusione è che alla fine dei conti resta il valore storico di questa esperienza di
solidarietà sociale e associativa, che ha cercato in tutti i modi di affermare i principi fondamentali dei diritti
sociali di cittadinanza.

ETA’ GIOLITTIANA
LA CRISI DI FINE SECOLO
Nel 1896 vi è un ritorno in Italia dei <<moderati>>, anche se il loro comportamento fu tutt’altro che
moderato; infatti, di fronte ad un grande dinamismo dell’economia che iniziò in quegli anni, la scelta dei
moderati fu di carattere repressivo nei confronti di quelle prime forme di mobilitazione popolare. Le
trasformazioni e lo sviluppo capitalistico di quegli anni avevano prodotto un notevole rafforzamento della
borghesia, ma anche un allargamento nelle schiere del proletariato, colpite nelle loro condizioni di vita e di
lavoro. Di fronte a questi episodi la borghesia si trovava di fronte ad un bivio: andare incontro al conflitto
sociale e non averne paura lasciando esprimere queste masse oppure vivere con terrore questo conflitto
sociale che avrebbe portato ad una repressione della minaccia.
Nel 1897 scoppiò una crisi economica a causa della dura concorrenza dei mercati stranieri e ad una pessima
annata agricola che determinò un peggioramento delle condizioni sociali che portarono a dei tumulti che
esplosero nel 1898 soprattutto a Milano. Questi sono passati alla storia come i tumulti del pane, causati dal
prezzo elevato della farina e del pane. Di fronte a questi tumulti, la reazione del potere moderato fu molto
dura; venne proclamato infatti lo stato d’assedio (usare la mano dura, quella militare), con limitazioni della
libertà di stampa e di organizzazione. Questo stato di assedio raggiunse il culmine nel maggio del 98
quando il governo diede l’ordine di sparare sulla folla protestante, provocando decine di morti e arresti.
Non ci fu soltanto uno scontro sociale, ma anche una durissima battaglia politica in particolare nella Camera
dei deputati, dove si distinsero soprattutto le formazioni dell’estrema sinistra, che avevano un
atteggiamento di tipo estremista (radicali, repubblicani e socialisti). Accanto alle formazioni di sinistra
estremista si avvicinò la componente della sinistra liberale costituzionale che rappresentava la costola della
vecchia sinistra storica. Dopo la repressione dei tumulti del pane era caduto il governo di Rudinì ed era
stato sostituito dal governo sempre moderato di Luigi Pellù, nei confronti del quale si cercò di ingaggiare
una battaglia parlamentare sulla base di atteggiamenti di tipo ostruzionistico. Gli estremisti rivendicavano il
fatto che l’Italia dovesse diventare una monarchia costituzionale, nella quale il governo non doveva avere
soltanto la fiducia del re, ma anche di una maggioranza parlamentare. Pellù cercò comunque di portare
avanti il suo governo ultraconservatore, adottando una serie di provvedimenti che puntavano ad una
limitazione dei poteri dei cittadini, ad un rafforzamento della pubblica sicurezza e alla modificazione del
regolamento parlamentare che disciplinava la Camera dei deputati in modo da dare maggiore potere al
governo e limitare i poteri del parlamento nei suoi confronti. Questo disegno conservatore non riuscì al
governo Pellù, a causa dell’efficace ostruzionismo delle opposizioni che portò anche alla chiusura del
parlamento per alcuni mesi, siccome il governo non poteva contare sulla maggioranza parlamentare.
Questa chiusura portò alle elezioni politiche nel 1900, dalle quali venne fuori una maggioranza dei governi
conservatori ancora più debole. La vittoria politica spettò alle forze di opposizione e alla nomina del
governo di Saracco, esponente dei vecchi moderati, ma che aveva un atteggiamento più collaborativo.
Questo nuovo governo si trovò a gestire due avvenimenti importanti: il primo fu il regicidio, ovvero
l’uccisione nel 1900 del re in carica Umberto I assassinato in strada da un anarchico. L’atteggiamento del
governo di fronte a questo episodio fu molto intelligente e permise al paese di non vivere con rancore e
come una sconfitta morale la morte del Re. Il secondo importante avvenimento fu il primo sciopero
generale cittadino della storia dell’Italia della città di Genova a causa della gestione repressiva del governo e
della chiusura della camera di lavoro di Genova. Questo sciopero, così come la morte del re suscitò una
forte ondata emotiva nel paese, un forte dibattito pubblico e una importante discussione in Parlamento nel
1901, alla fine del quale il governo Saracco non aveva più una maggioranza parlamentare e fu costretto così
alle dimissioni, che portarono al potere Zanardelli, un vecchio dirigente dell’antica sinistra storica, che
aveva come ministro degli interni Giovanni Giolitti.
L’età giolittiana iniziò nel 1901 e terminò nel 1914 quando scoppiò la Prima guerra mondiale. La prima
grande questione che Giolitti e Zanardelli si trovarono ad affrontare fu quella sociale. Ormai nel pieno della
rivoluzione industriale, Giolitti e Zanardelli affrontarono i problemi sociali in modo del tutto nuovo, ovvero
non utilizzando la forza e le repressioni, ma misure totalmente opposte assumendo un atteggiamento
neutrale tra capitale e lavoro. Ovviamente questa decisione avrebbe portato alla formazione di diverse
organizzazioni di lavoratori. La scommessa di Giolitti era quella di far integrare il più possibile le masse
popolari allo Stato, specie in una fase in cui l’Italia si stava trasformando da Paese agricolo a Paese agricolo-
industriale. Le masse popolari si andarono a posizionare all’interno di due formazioni ideali: i socialisti e i
cattolici. Giolitti inizialmente cercò di realizzare una collaborazione concreta soprattutto con i primi, mentre
i secondi mantennero una certa distanza dai governi. Nel 1903 in seguito alla morte del papa Leone XI, che
era stato molto sensibile alla questione sociale, divenne papa Pio X che aveva posizioni più conservatrici e
tendeva ad accentrare più il potere nelle mani delle gerarchie ecclesiastiche. Questa vicinanza di Giolitti ai
socialisti mutò nel 1904, quando venne proclamato in Italia il primo grande sciopero generale nazionale,
che provocò grande paura tra i liberali del governo e i cattolici. Giolitti ebbe l’abilità di proclamare nuove
elezioni e lo scioglimento del parlamento e per la prima volta si realizzò una vera e propria alleanza politica
fra i liberali e i cattolici, che interruppe il documento cattolico proclamato dal papa dopo la conquista di
Roma (Non expedit) che prevedeva che i cattolici non potessero partecipare alla vita politica del nuovo
regno. Giolitti divenne così protagonista di quella che si può definire politica del <<pendolo>>, che ogni
tanto oscillava verso sinistra (socialisti) e ogni tanto verso destra (cattolici, liberali conservatori, destra
nazionalista). Questa politica ebbe sia luci che ombre. Per quanto riguarda gli aspetti positivi, certamente
Gioititi fu un abile mediatore, che portò grandi vantaggi economici, fece approvare le prime leggi sociali che
tentarono di migliorare le dure condizioni di vita e di lavoro delle classi popolari e portò anche ad una serie
di riforme importanti, come le assicurazioni e soprattutto il varo del suffragio universale che entrò in vigore
nel 1912 e che prevedeva che potessero votare tutti i cittadini maschi che avessero compiuto i 30 anni e
avessero prestato il servizio di leva. Per quanto riguarda gli aspetti negativi dell’età giolittiana Giolitti era
riuscito a controllare tutto il Parlamento, si parlava infatti di una sorta di dittatura parlamentare; Giolitti
reprise nel sangue alcuni conflitti sociali ed iniziò ad abbracciare alcune posizioni della nuova destra
nazionalista di inizio 900, anche se furono poi gli stessi nazionalisti a respingere e dare contro a Giolitti. Ad
indebolire ulteriormente la politica di Giolitti ci furono due importanti crisi economiche nel 1907 e nel 1913.
In politica estera Giolitti non modificò più di tanto i rapporti con gli altri Paesi europei, ma decise di
intensificare la politica coloniale, come con la conquista della Libia nel 1912 che divenne la prima grande
colonia italiana in Africa. Questa avventura portò a Giolitti grandi consensi a Destra, ma gravi critiche a
Sinistra, dove tornarono al potere i rivoluzionari socialisti massimalisti, tra i quali ebbe un ruolo importante
un giovane Benito Mussolini che nel 1912 divenne direttore dell’Avanti, il periodico ufficiale del partito
socialista italiano. Nel 1913 si tennero in Italia le prime elezioni politiche a suffragio universale, che videro
un avanzamento dei socialisti e delle sinistre molto blando inferiore alle attese, ma che portarono alla
vittoria ancora una volta di quella coalizione composta da liberali giolittiani e cattolici che fecero tra di loro
un accordo, il patto Gentiloni, con cui si candidavano ufficialmente alla guida del Paese. Nel marzo del 1914
Giolitti lasciò momentaneamente il potere, quando al governo andò Antonio Salandra esponente del
mondo liberale con posizioni più moderate. In Italia nel giugno del 1914 ci fu la cosiddetta settimana rossa,
una settimana di grandi conflitti sociali contro la stretta militaristica del Paese che si concluse con una
grande repressione nel sangue, ma l’avvenimento epocale che pose termine all’età giolittiana in Italia fu lo
scoppio della Prima guerra mondiale nell’estate del 1914.

LA RIVOLUZIONE INDUSTRIALE IN ITALIA


Il simbolo della prima globalizzazione nell’ <<età degli Imperi>> fu il cosiddetto gold standard un sistema di
pagamenti a livello internazionale basato sull’oro; ogni moneta nazionale infatti essendo collegata
stabilmente all’oro andava a costituire un sistema di cambi fissi che finiva per favorire gli scambi
commerciali e i flussi capitali tra le varie nazioni. Si ebbe così un calo dei prezzi della produzione e un
miglioramento dei servizi import export.
L’Italia risentì di questo sistema che grazie al miglioramento della politica di export e all’arrivo di capitali
stranieri contribuì alla crescita italiana. L’epoca di Giolitti fu protagonista di molte riforme, come il suffragio
universale maschile, ma anche come la costituzione dell’INA (istituto nazionale di assicurazioni) e molte
riforme sul lavoro: la legge sul lavoro delle donne e dei fanciulli (per la loro protezione), la legge sul riposo
settimanale (almeno un giorno a settimana), la Cassa obbligatoria di maternità (sussidi economici per le
donne negli ultimi mesi di gravidanza), l’spettorato del lavoro (per verificare che le normative venissero
effettivamente rispettate dai datori di lavoro e dagli imprenditori). Un importante legge in campo
economico fu la nazionalizzazione delle ferrovie, ovvero la riappropriazione da parte dello Stato che fino ad
allora erano state concesse ai privati. Altre leggi importanti furono quelle varate per il sud Italia, tra le quali
una legge speciale per Napoli, che portò l’ILVA a costruire un secondo importante stabilimento siderurgico
proprio nella città di Napoli. Quindi questo periodo di crescita economica dei primi anni del 900 favorì una
crescita delle entrate attraverso la tassazione, siccome più le aziende lavoravano, più pagavano tasse allo
Stato. Vi erano però anche aspetti bui come nel campo dell’istruzione tecnica industriale e la questione
meridionale.
Il settore trainante della rivoluzione industriale era il settore manufatturiero per eccellenza, il tessile, ma
anche il settore metallurgico, settori tipici della PRIMA rivoluzione industriale, settori semplici. È poi con la
SECONDA rivoluzione industriale che cominciano a cambiare i settori trainanti della crescita economica,
come quello elettrico, siderurgico, meccanico, chimico, cantieristico, automobilistico (FIAT), gomme
(PIRELLI) e elettromeccanico (turbine per la produzione di energia elettrica). Amenta il divario tra Nord e
Sud, e a Nord soprattutto nella parte ovest dove si sviluppa il cosiddetto triangolo industriale Torino-
Milano-Genova nel quale si situano la maggior parte delle imprese industriali. Questa rivoluzione fu favorita
dal contesto internazionale della belle époque, caratterizzato dal gold standard, ma anche dalle politiche
interne dello stato e del settore redditizio delle banche miste.
All’interno del settore tessile, un ruolo fondamentale ebbe il settore della seta nella regione della
Lombardia, che impiegava molta manodopera femminile e fanciullesco, ma anche e soprattutto il settore
laniero (la prima grande azienda industriale del Paese fu sulla lana nel 1817 a Schio della famiglia Rossi) e
cotoniero, sviluppatosi con qualche anno di ritardo in Lombardia e in Piemonte soprattutto a Torino.
Proprio durante la maturazione del settore tessile iniziò a manifestarsi una crescita anche in quei settori che
caratterizzano la seconda rivoluzione industriale, in particolare quello elettrico (forma di energia sempre
più importante, che andava a poco a poco a sostituirsi al vapore) e siderurgico (acciaio simbolo mondiale
del 900 e ferro). Si parla di sovrapposizione tra prima e seconda rivoluzione industriale, siccome in Italia
arrivò tardi la rivoluzione rispetto agli altri Paesi europei e questo causò una forte accelerazione industriale
che fece sì che ai primi settori industriale come quello tessile si sovrapponessero nel giro di pochi anni i
nuovi settori industriali come l’elettrico e il siderurgico.
L’età giolittiana e la rivoluzione industriale coincisero con il periodo in cui si diffuse nel paese il cosiddetto
industrialismo, basato sulla centralità dell’impresa e della figura dell’imprenditore, il borghese per
eccellenza che aveva un ruolo non soltanto economico, ma che mirava ad averne uno altrettanto
importante in campo sociale. La figura dell’imprenditore che caratterizzò la prima rivoluzione Industriale fu
in parte diversa da quella successiva, siccome nella prima le imprese erano per lo più medio-piccole e
famigliari, mentre nella seconda le fabbriche si fecero più grandi e iniziarono ad allearsi per superare crisi
dei mercati, cominciarono infatti a contare molto i legami e i rapporti con il mondo della politica e della
finanza, a causa dei quali gli imprenditori cominciarono a farsi affiancare da altre figure (i primi manager).
Una delle più grandi novità in campo industriale fu la nascita delle prime organizzazioni che tutelavano gli
interessi degli industriali, già esistenti, ma limitate e poco tutelate. Una svolta si ebbe a Torino nel 1906
quando nacque la Lega industriale di Torino, la prima organizzazione veramente moderna nel Paese, sia da
un punto di vista organizzativo che politico. Dal 1907 in poi, anno di una grave crisi economica, il giolittismo
entrò un po’ in difficoltà anche a causa di numerosi conflitti sociali, in conseguenza dei quali gran parte
dell’imprenditoria italiana cominciò ad abbandonare le concezioni liberali e si spostò sempre più verso
destra (posizioni nazionaliste). Nel 1910 nacque così la Confederazione italiana degli industriali (CIDI)
confinata nel triangolo industriale. Vi erano poi piccole minoranze di industriali cattolici e tecnici
(consideravano la politica inutile nel sistema economico e imprenditoriale). Gli industriali non riuscirono ad
organizzarsi per dare vita ad un proprio partito, ma furono molto frammentati sul piano politico. I primi
industriali non dimostrarono volontà di modernizzazione, ma si ispiravano all’aristocrazia, che ancora
esisteva in Italia, essendo essa una monarchia.

I LAVORATORI DELL’INDUSTRIA
LA CLASSE OPERAIA
Thompson vede agli operai come uomini e donne in carne e ossa che non sono solo coloro che lavorano
nelle fabbriche (collocazione economica) e faranno la rivoluzione politica (maturazione politica), ma sono
persone che hanno un certo vissuto quotidiano e una vita sociale (famigliari, cibo, abitazioni, tempo libero,
vicinato, ambiente sociale, cultura).
Stefano Merli, Proletariato di fabbrica e capitalismo industriale Le condizioni di vita degli operai sono
segnate da una profonda miseria, dovuta a salari minimi. Abitano in abitazioni che sono per lo più tuguri, in
condizioni igieniche pessime, si alimentano con cibi scadenti, carenti di vitamine e sostanze vitali, vestono
di stracci. Anche le condizioni di lavoro sono particolarmente dure, oltre ad un numero esagerato di
disoccupati pronti a subentrare nelle fabbriche, vi è una migrazione di massa di uomini e donne disperate,
anche quando si lavora vi è una grande incertezza e instabilità lavorativa. I datori di lavoro e gli imprenditori
hanno una totale libertà di licenziamento (se un operaio non va a genio per qualsiasi motivo può essere
lasciato a casa dall’oggi al domani). Anche il tasso di assenteismo, ovvero di coloro che abbandonano il
lavoro è molto elevato, siccome il lavoro è molto faticoso e massacrante e molti uomini e donne non
riescono a resistere a quel carico di lavoro. Fenomeno della pluriattività: ci sono uomini e donne che
prestano parte dei loro giorni, settimana o mesi all’interno delle aziende lavorando come operai e il resto
della loro giornata, settimana, mese lavorano nei campi come contadini.
Il proletariato di fine 800 ha una composizione piuttosto eterogenea, ne fanno parte ex artigiani, le cui
botteghe sono state chiuse, ex contadini costretti ad abbandonare la terra e operai-contadini. Ciò che
emerge dallo scritto di Merli è la quantità elevatissima di donne e fanciulli che popolano il primo
proletariato, grazie al loro atteggiamento docile e di rassegnazione facile da controllare. Inoltre, queste
fabbriche si caratterizzano per il fatto di essere sempre più meccanizzate e perciò richiedono sempre meno
capacità lavorative e questi tipi di lavoratori risultano perciò funzionali, per la maggior manualità e
pazienza. Ci sono anche bambini dai 4 e 5 anni, destinati a vivere una vita di sofferenze. Nelle prime
fabbriche italiane e non solo esistono due tipologie di salari:
 Salario a economia, secondo il quale si viene retribuiti in base al tempo di lavoro. È una paga
giornaliera o settimanale, ma non mensile come oggi (solamente dagli anni 70). La scelta di
suddividere questo salario mensile in più volte era data dalla paura che questi operai, una volta
retribuiti corrano subito a spendere e dissipare questa paga, invece di conservarla per i bisogni
essenziali.
 Salario a cottimo, secondo il quale si viene retribuiti in base alla quantità di prodotto realizzata
dall’operaio. È evidente che gli operai per produrre di più tendano a lavorare di più per ottenere
una retribuzione maggiore. È però evidente che dietro a questo sistema si celi uno sfruttamento
maggiore, in quanto spesso, sfruttando l’ignoranza degli operai, i datori di lavoro e gli imprenditori,
con una sorta di raggiro arrivano a pagarli meno del dovuto.
Tra le prime rivendicazioni degli operai contro i datori di lavoro ci furono l’aumento dei salari e la
diminuzione degli orari di lavoro, che alla fine dell’800 non erano neanche ben definiti. L’idea era infatti
quella di iniziare all’alba e di finire al tramonto, come si dice <da sole a sole>. Merli documenta il fatto che
molti lavoratori tra i quali anche molti bambini arrivano a lavorare nei mesi estivi fino a 18 ore, mentre al
nord fino a 16 ore. In media a fine 800 si lavora nelle fabbriche 11-12 fino a 14 ore al giorno, che
diventeranno 10 ore per 6 giorni la settimana dopo le prime riforme del 900.
I luoghi di lavoro erano ambienti particolarmente nocivi e insalubri, nei quali erano numerosissimi gli
infortuni dovuti alle poche conoscenze sulle nuove macchine. Un tema importante che fece molte vittime
fu quello delle malattie professionali (saturnismo per i tipografi, avvelenamento da piombo, per i minatori
avvelenamento da mercurio). La malattia più diffusa in Italia nel 900 fu la Silicosi, una malattia polmonare,
diffusa soprattutto nel settore metalmeccanico ed estrattivo. Di conseguenza inizia anche la medicina del
lavoro, che studia le malattie professionali nei luoghi di lavoro. Queste prime fabbriche erano regolate da
una disciplina quasi militare in cui le regole erano molto dure e stringenti e le pause erano ridotte al
minimo. Vi erano una serie di punizioni per chi non rispettasse le regole sul lavoro che arrivavano fino a
delle punizioni corporali, anche se il sistema più utilizzato era quello delle multe. Merli usa un’espressione
molto forte per descrivere le dure condizioni di lavoro nelle fabbriche, <<Gli ergastoli nell’industria>>, per
intendere che questi lavoratori si trovavano nelle industrie come se fossero nelle carceri, come se
dovessero scontare una grave pena, come quella dell’ergastolo. Merli utilizza anche l’espressione di
<<genocidio pacifico>> come se in tutti i paesi ci fosse stato un altissimo numero di vittime a causa del
lavoro come se si stesse combattendo una guerra.
Il simbolo per eccellenza di questo genocidio che avviene nelle fabbriche alla fine del 1800 sono i
regolamenti di fabbrica, che sono i documenti migliori per studiare le condizioni di lavoro nelle fabbriche
italiane. A volte le regole vengono tramandate solo in forma orale, altre volte vengono messe per iscritto e
vanno a costituire il regolamento di fabbrica, la legge che domina all’interno della fabbrica preparata
dall’imprenditore che diventa una sorta di sovrano assoluto. Una parte di questi regolamenti diceva che
l’operaio doveva essere docile e subordinato ai suoi superiori ed eseguire senza indugi tutti i compiti che gli
verranno assegnati; doveva inoltre essere pulito nella persona ed usare modi corretti. Con l’abbandono del
lavoro (scioperi, sfinimenti, pause, fughe) l’operaio doveva ritenersi licenziato. Anche nella condotta
esterna gli operai dovevano condursi con moralità e decoro e non partecipare ad organizzazioni di
resistenza previo licenziamento.
A partire dall’età Giolittiana si passa dall’imposizione individuale di queste norme ad una dimensione
collettiva, in cui gli operai si organizzano e cercano di contrattare per non subire unilateralmente queste
regole di lavoro. La prima tipologia di contrattazione collettiva sono i cosiddetti concordati di tariffa, accordi
tra datori di lavoro e operai che riguardano esclusivamente i salari, con cui i lavoratori chiedevano di
ricevere un salario non inferiore ad una certa somma stabilita. Accanto a questi primi contratti iniziano a
comparire nel 900 contratti collettivi veri e propri che stabiliscono: i minimi tabellari salariali, la riduzione
dell’orario (60 ore settimanali. 10 ore al giorno per 6 giorni salvo casi eccezionali di lavoro straordinario che
deve essere pagato), il collocamento dei lavoratori attraverso delle sorti di sindacati organizzativi, forme di
rappresentanza operaia nelle fabbriche la cosiddetta <<Commissione interna>> che controlla che all’interno
dell’ambiente di lavoro vengano rispettati i contratti stipulati dai lavoratori. Viene perciò introdotta
all’interno dello Stato una legislazione sociale, di efficacia nazionale e non più differenziata per ciascuna
fabbrica.

TERRA E TELAI
Franco Ramella, Terra e telai. Sistemi di parentela e manifattura nel biellese dell’Ottocento: il titolo
evidenzia il discorso della pluriattività, il fatto che questi primi lavoratori erano impiegati nell’industria
tessile, ma continuavano a lavorare i loro terreni. Il biellese fu uno dei tre principali centri lanieri italiani. Il
periodo preso in considerazione sono gli anni centrali dell’800, anni della rivoluzione industriale, che
travolse tutti i sistemi sociali. Nei territori in cui non c’erano i grandi centri industriali più che di rivoluzione
industriale bisogna parlare di un fenomeno più dilatato nel tempo, la proto-industria, grandi trasformazioni
in campo industriale che non avvennero dall’oggi al domani, ma nel corso degli anni. Questo volume ci
racconta una storia molto importante, considerata come un punto di partenza per l’avvenire, i tumulti del
1854, tumulti popolari in cui il popolo prese a protestare contro l’aumento del prezzo della farina e del
pane. I protagonisti di questi tumulti furono soprattutto i lavoratori del biellese, composti esclusivamente
da uomini adulti. Il termine finale della storia di Ramella è la vertenza del 1889 di tipo sindacale per
ottenere un aumento dei salari e una diminuzione degli orari. Le protagoniste di questa vertenza erano le
donne, siccome erano loro a lavorare per lo più nei telai meccanici. L’arma più utilizzata da queste
lavoratrici erano gli scioperi e i risultati per quella specifica comunità furono per lo più positivi. Tra il 54 e
l’89 ci furono soprattutto due grandi eventi, gli scioperi del 1864 e del 1877. Nel 1864 a Biella e in Italia si
ebbero i primi scioperi da parte dei lavoratori dell’industria, non tumulti popolari, ma dei veri e propri
movimenti di astensione collettiva dal lavoro. I protagonisti furono proprio quei tessitori a mano,
protagonisti anni prima dei tumulti del pane. Questi scioperi all’interno dei luoghi di lavoro servivano per
contrastare il sistema delle multe. Questi scioperi furono talmente sorprendenti che le autorità dell’epoca
decisero di muoversi. In particolare, si mosse un politico biellese Mancini che cercò di mediare tra gli
interessi dei lavoratori e quelli degli imprenditori e ne venne fuori un documento, il <<lodo Mancini>>, una
sorta di regolamento di fabbrica, frutto di una forma iniziale di contrattazione collettiva. Nel 1877 ci furono
nuovamente scioperi nel biellese, da parte dei soliti tessitori a mano sempre nei confronti delle multe che
andavano a colpire i già bassi guadagni dei lavoratori. Infatti, nel corso di questi 13 anni la situazione non
era praticamente cambiata, nonostante il <<lodo Mancini>>, si poteva forse ritenere peggiorata. Questa
volta le autorità politiche si mossero a livello nazionale, con il Parlamento italiano che nel 1877 decise
varare la prima Commissione parlamentare d’inchiesta della storia italiana incaricata di studiare questo
fenomeno degli scioperi. Questa commissione pubblicò i suoi risultati in una serie di documenti ancora oggi
importanti per studiare il fenomeno degli scioperi. Questa volta, la risposta degli imprenditori fu di tipo
economico, iniziò infatti un nuovo processo di ristrutturazione industriale, con il quale venne riorganizzato il
ciclo produttivo che portò all’eliminazione dei telai a mano, grazie al quale vennero eliminati i lavoratori dei
telai, che erano operai qualificati dell’aristocrazia operaia. Questi telai a mano vennero sostituiti da telai
meccanici più semplici da utilizzare, che non richiedevano una qualifica e una certa capacità per l’utilizzo e
potevano essere utilizzati da uomini non qualificati e soprattutto dalle donne. Gli operai qualificati che
avevano condotte le lotte di quegli anni rimasero disoccupati e furono costretti ad emigrare, per lo più negli
Stati Uniti. Subentrarono così le donne, che erano state sostituite agli uomini perché si pensava fossero più
docili e facili da subordinare, ma che nel 1889 erano ricorse anche loro agli scioperi, in maniera anche più
dura dei loro predecessori, scioperi più estesi nel numero e più qualitativi nell’organizzazione. Durante
questi scioperi del 64 e del 77 era stata molto attiva la società di mutuo soccorso che proprio in quel
periodo si trasformò in una vera e propria lega di resistenza che guidava le lotte sociali e sindacali. Ecco
perché il biellese è importante nella storia industriale italiana, siccome è stato l’epicentro di una prima
forma di capitalismo industriale nel nostro paese, di una serie di scioperi dei lavoratori e della nascita delle
prime organizzazione di lavoratori dal carattere stabile e duraturo. Dal libro di Ramella viene fuori
l’importanza della comunità, il making che costruisce un lavoratore, dai rapporti famigliari e di vicinato,
dalle condizioni e dal modo di vivere. I primi scioperi non erano tanto fatti per cambiare una situazione, ma
per conservare una certa condizione che andava peggiorando ogni giorno. Questi scioperi finivano in ogni
caso per portare un mutamento, sia esso positivo o negativo.

LA NASCITA DEL SINDACATO LEGHE DI RESISTENZA E CAMERE DEL LAVORO


Il sindacato è un’associazione composta da lavoratori dipendenti e para-autonomi che decidono di unirsi
collettivamente, ma in modo autonomo dagli imprenditori, a differenza di come accadeva prima che
lavoratori e imprenditori si associavano per trovare un compromesso. I lavoratori decidono di separarsi
dagli imprenditori, siccome hanno appreso la lezione che ogni uomo ha gli stessi diritti degli altri. Inoltre, la
rivoluzione industriale ha messo in luce nuove classi, con interessi sociali ed economici molto distanti tra
loro e distanti soprattutto dalla borghesia. Un sindacato, ancora oggi, rappresenta e tutela i lavoratori e
cerca di difendere quei diritti che sono uguali per tutta la società. Il sindacato non è né un circolo operaio,
né una società di mutuo soccorso, né una cooperativa tra lavoratori e imprenditori, ma è un soggetto che
tutela il lavoro, ovvero i lavoratori che ne fanno parte si autotutelano attraverso la resistenza organizzata.
Esistono molte forme di resistenza tra cui: sabotaggio, furti all’interno di una fabbrica o di un terreno
agricolo, boicottaggio nei confronti di un prodotto o di un’azienda, ma soprattutto lo sciopero, ovvero
l’astensione collettiva dal lavoro da parte di un gruppo di lavoratori, cercando di impedire inoltre che
qualcuno lo faccia al loro posto. Il sindacato è un’organizzazione costituita soltanto da lavoratori che
decidono di resistere ai datori di lavoro in modo organizzato. Tutto questo avviene alle origini dell’età
contemporanea, tra la fine del 700 e l’inizio dell’800 in Inghilterra, Francia, Stati Uniti e nelle nazioni più
avanzate. Nasce dal passaggio dal mutualismo alla resistenza. Il fenomeno del mutualismo in Italia entra in
crisi a fine Ottocento a causa dei problemi economici. Infatti, il capitalismo in Italia prende piede e
inizialmente peggiora notevolmente la condizione dei lavoratori che cominiano a chiedersi se queste
società di mutuo soccorso siano adatte a difendere i loro diritti e i loro interessi. Anche dal punto di vista
politico queste società sono influenzate pesantemente dal pensiero politico borghese. Ma col passare degli
anni arrivano in Italia nuove correnti di pensiero che sostengono che il mutualismo sia uno strumento
vecchio incapace di difendere i lavoratori. Il sindacato nasce in Italia sotto forma di <<leghe di resistenza>>,
che possono nascere come nuove o come evoluzione di precedenti organizzazioni di mutuo soccorso. Lo
strumento più utilizzato da queste leghe era lo sciopero. Le prime forme di scioperi in Italia avvengono in
campo agricolo, i moti de la Boje del 1880, ma i primi scioperi veri e propri avvengono in campo industriale,
i famosi scioperi dei tessitori del biellese del 1864, 1877, 1889. Infatti, è proprio intorno agli anni 80
dell’800 che questi scioperi iniziano a diffondersi nel paese e iniziano a nascere queste leghe di resistenza,
che vengono ad essere influenzate da diverse correnti politiche. Una prima corrente politica molto solida e
diffusa sono i cosiddetti operaisti, una corrente sindacale che inizia a prendere le distanze dal mondo
borghese e ad avvicinarsi ai puri interessi degli operai, ma non sono ancora correnti di resistenza. Un’altra
corrente che segna l’inizio del sindacato in Italia è quella anarchica, una corrente antiborghese. Un’altra
corrente ancora è quella del socialismo, che si scontra duramente con gli anarchici, siccome vogliono si
abbattere la società borghese, ma anche costruire un nuovo potere, il potere proletario, a differenza degli
anarchici che volevano la fine di ogni potere regnante. Le leghe di resistenza nacquero negli anni 70
dell’800, ma si diffusero negli anni 80 nella Pianura Padana e nel triangolo industriale, oltre che a Firenze,
Napoli, Roma, Bari. I settori principali in cui si affermano sono il campo agricolo tra i braccianti, il campo
industriale nel settore tessile, metallurgico, tipografi, etc… Queste prime leghe di resistenza erano
organizzate dall’aristocrazia operaia.
Queste leghe di resistenza capiscono di avere poca efficacia pratica e decidono perciò di unirsi tra di loro
per dare vita a strutture più ampie. Questo allargamento può andare in due direzioni: in una direzione
orizzontale o territoriale (come per esempio per una città o una regione) o in una direzione verticale o
settoriale (per esempio tutte le aziende tessili italiane).
La rappresentanza orizzontale: le leghe di resistenza cominciano ad unirsi per avere più potere e questa
unione avviene in modo territoriale. Ed è questo il momento in cui nascono in Italia le cosiddette Camere
del lavoro, negli anni 90 dell’800 (le prime nascono a Piacenza, a Milano e a Torino nel 1891). Queste
Camere del lavoro inizialmente furono moderate, per timore di essere chiuse e perdere i finanziamenti. Le
loro funzioni sono innanzitutto funzioni di collocamento (cercano di dare lavoro ai loro iscritti), assistenza,
istruzione (insegnano agli operai, spesso analfabeti, a leggere e scrivere e anche un atteggiamento civico) e
di arbitrato (la Camera del lavoro vuole comportarsi come una sorta di arbitro tra gli interessi di due parti).
Nel 1893 nasce la prima struttura nazionale del sindacato in Italia, la Federazione nazionale delle Camere
del lavoro a Parma. Iniziano così ad espandersi le camere del lavoro in tutta Italia eccetto che al sud,
ingigantendo ancora una volta quella che è la questione meridionale. Le camere del lavoro vivono la crisi di
fine secolo,1898-1899, venendo represse e disperse e inizieranno faticosamente a rilanciarsi nel 1901.
Nel 1900 a Genova, città molto importante nel triangolo industriale per il suo porto, ci fu lo sciopero
generale. Nel 1896 venne istituita a Genova la Camera del lavoro, ma pochi giorni dopo la sua nascita
iniziano i primi problemi e scioglimenti, siccome a Genova si stanno formando delle forme di solidarietà
internazionale. Nel 1898 ci fu il secondo scioglimento sempre da parte del prefetto. La Camera del lavoro
riapre nel 1900 e nel dicembre avviene il terzo scioglimento. Il motivo di questo continuo scioglimento sono
le vittorie della Camera del lavoro, come l’aumento dei salari e la lotta nei confronti del caporalato dei porti
di Genova. Il terzo scioglimento produce un effetto molto duro, la proclamazione di uno sciopero generale
di tutti i lavoratori, il primo sciopero generale nella storia italiana. Questo sciopero blocca la città, così come
il porto e i trasporti e così facendo anche il triangolo industriale. Questo sciopero durò 5 giorni e si concluse
con la prima grande vittoria sindacale siccome il prefetto proclamò la riapertura della Camera del lavoro.
Questo evento fu talmente importante che se ne parlò anche nel parlamento e si arrivò alle dimissioni del
governo, che di lì a poco verrà sostituito dal governo Giolitti col quale si verificherà un consolidamento
rilevante dei sindacati in Italia.

FEDERAZIONI CONFEDERAZIONI E PLURALISMO SINDACALE


Lo sviluppo della rappresentanza verticale si ha soprattutto durante l’età giolittiana, grazie al grande
cambiamento economico e alla nazionalizzazione del sindacato. Il sindacato esce dalla dimensione locale
delle leghe di resistenza e delle camere del lavoro per assumere un ruolo nazionale. È proprio durante l’età
giolittiana che si assiste alla grande diffusione in Italia delle strutture sindacali. A partire dal 1901-1902 le
camere del lavoro tornano a crescere in maniera notevole. Se ne costituirono tantissime in Italia, uscendo
dal limite della questione meridionale e diffondendosi in tutto il meridione. Un’altra grande caratteristica
dell’età giolittiana fu la nascita delle Federazioni nazionali di categoria; la prima fu la Federazione nazionale
del libro nel 1893 (tipografi), alla quale seguirono la Federazione nazionale dei ferrovieri nel 1894, la
Federazione nazionale degli edili nel 1900. Accanto alle prime Federazioni di mestiere di fine 800 inizio 900,
nacquero le prime Federazioni industriali, la più famosa che esiste ancora oggi è la FIOM, la federazione
italiana dei metallurgici nel 1901. L’Italia, che rimaneva un Paese ancora prevalentemente agricolo,
nonostante la rivoluzione industriale, vide nel 1901 la formazione della Federazione nazionale dei lavoratori
della terra (Federterra) a Bologna, il cui programma politico fu un programma socialista che aveva come
grande obbiettivo la socializzazione della terra (doveva essere sottratta ai grandi possedenti e resa
pubblica). Dal 1906 la Federterra venne ad essere guidata da una donna, Argentina Altobelli.
Il mondo sindacale andò organizzandosi attorno a due grandi aree molto eterogenee al loro interno:
 i riformisti, quei sindacalisti orientati soprattutto alla ridistribuzione del reddito a favore delle classi
meno abbienti e all’introduzione graduale di elementi di socialismo all’interno del sistema
democratico. I principali strumenti d’azione dei riformisti erano la legislazione sociale a sostegno
dei lavoratori e la contrattazione collettiva, sostenendo che unendosi insieme i lavoratori avrebbero
ottenuto maggiori risultati che rimanendo da soli. I riformisti spingevano quindi per una forte
centralizzazione di tipo contrattuale e organizzativo, consideravano importante lo sciopero ma solo
come ultima scelta nel caso in cui non si fosse riusciti ad ottenere un accordo contrattuale.
 I rivoluzionari avevano un atteggiamento fortemente antiborghese e anticapitalistico. Tra i
rivoluzionari vi erano i socialisti più fedeli al messaggio di Marx della lotta di classe, gli anarchici e i
sindacalisti rivoluzionari che rivendicavano l’autosufficienza del sindacato rispetto a tutte le altre
istituzioni di governo ottenibile attraverso la sua arma principale, lo sciopero generale. Per cui
niente legislazione sociale o contrattazione collettiva, ma solamente un’azione diretta contro gli
imprenditori e lo Stato, espressione del potere della borghesia.
Nell’età giolittiana ci fu un biennio di conflitti, lotte sociali e scioperi nel 1901-1902 che arrivo al culmine tra
il 1902-1903 con alcuni scioperi generali a livello cittadino, il primo dei quali a Torino e poi a Firenze e a
Roma.
In questo clima di scontri di scontro tra riformisti e rivoluzionari, tra Federazioni e Camere del lavoro, ci fu il
tentativo di unire e coordinare queste fazioni opposte. Così nel 1902 ci fu la costituzione del Segretariato
centrale della resistenza che aveva il compito di coordinare l’azione della rappresentanza <<verticale>> e di
quella <<orizzontale>>. Questo organismo fu piuttosto debole e saltò alla prima occasione nel 1904 quando
ci furono due uccisioni di lavoratori durante manifestazioni politiche e sindacali, che portarono i
rivoluzionari che avevano in quel momento il controllo sul segretariato a proclamare il primo sciopero
generale nazionale di tutte le categorie. Questo fu anche il primo sciopero generale nazionale in tutta
Europa. Fu uno sciopero molto organizzato ed efficace, tanto da preoccupare Giolitti, i liberali e i cattolici.
Fu così in quel momento che Giolitti ebbe l’intuizione di stringere un accordo tacito tra liberali e cattolici
che pose, alle elezioni proclamate poco tempo dopo, le sinistre in minoranza. In questo modo lo stesso
Segretariato entrò in crisi e venne sciolto di lì a poco. Infatti, nel 1906 ci fu il colpo decisivo quando i
riformisti stanchi della paralisi del segretariato decisero di andare avanti per la loro strada. Convocarono
quindi un congresso nel quale crearono la loro organizzazione sindacale, la Confederazione Generale del
Lavoro, guidato prevalentemente da riformisti e che girava quindi attorno alle idee della legislazione sociale
e alla contrattazione collettiva e vedeva nello sciopero una delle armi ultime da utilizzare, siccome il più
delle volte finivano in fallimento. Un apporto fondamentale per la nascita del CGDL fu il rapporto con il
partito socialista italiano. Il partito si occupava di tutte le questioni politiche riguardanti i movimenti operai,
il sindacato si occupava di tutte le questioni economiche riguardanti il proletariato. Per tutte le decisioni più
importanti vi era un confronto sistematico tra le due organizzazioni.
Nel 1906 si decise di dare vita alle confederazioni, siccome la <<confederalità>> era sia una soluzione
organizzativa per controllare la rappresentanza verticale ed orizzontale, ma anche un grande ideale
sindacale, siccome attraverso essa si cercava di frenare drasticamente i due pericoli principali sempre
presenti nell’azione sindacale: il corporativismo (l’egoismo delle categorie più forti rispetto a quelle più
deboli) e il localismo (l’egoismo dei lavoratori locali nei confronti dei lavoratori che vengono dall’esterno).
Dietro l’azione sindacale si cela quindi sempre il pericolo che i lavoratori più forti si impongano sugli altri più
deboli. Questo era vero un tempo come è vero ancora oggi.
Una delle caratteristiche principali del mondo sindacale italiano nell’età giolittiana era il fatto che vigeva un
sistema di pluralismo sindacale.
Ad un certo punto nella CGDL iniziò a farsi strada l’idea che il sindacato si dovesse creare una sua
rappresentanza parlamentare, un Partito del Lavoro. Questa idea venne lanciata nel 1910, ma non andò in
porto sia per l’opposizione del partito socialista, sia per l’opposizione della CGDL. Continuava intanto la
collaborazione tra CGDL e partito socialista che raggiunse il culmine nel 1911 quando proclamarono uno
sciopero generale contro la guerra in Libia decisa da Giolitti. Questo sciopero non andò benissimo, infatti la
guerra andò avanti e si concluse con la vittoria dell’Italia. Questo fu quindi un segnale d’allarme di
debolezza che si intensificò per i riformisti della CGDL quando nel 1912 al congresso del partito socialista, la
guida passò dai riformisti ai massimalisti (tra i quali c’era un giovanissimo Benito Mussolini), continuamente
in conflitto con i riformisti della CGDL. Quindi la CGDL visse una fase calante negli ultimi anni dell’età
giolittiana. Particolarmente critica era anche la situazione per i sindacalisti rivoluzionari, che utilizzarono la
loro arma principale per uscire dall’angolo, uno sciopero generale agricolo a Parma nel 1908, uno sciopero
duro e lungo contro gli agrari. Questi ultimi ebbero però la meglio grazie all’aiuto delle autorità pubbliche.
Questo fu quindi l’ennesima dimostrazione che questa strategia del sindacalismo rivoluzionario di scontro
frontale (lo sciopero) era una strategia fortemente perdente. Nel 1912 però i sindacalisti rivoluzionari che
guardavano con ostilità la CGDL, ma ne apprezzavano la forza organizzativa, diedero vita alla loro struttura
nazionale che assunse la forma di una confederazione, l’Unione Sindacale italiana. All’interno dell’USI vi
erano soprattutto le due fazioni degli anarchici e dei sindacalisti rivoluzionari, che furono i principali artefici
di quel duro scontro sociale che si verificò alla fine dell’età giolittiana, la <settimana rossa>> di durissimo
conflitto sociale. Di fronte allo scoppio della Prima guerra mondiale nel 1914 l’USI franò e si spaccò in due
parti contrapposte: gli anarchici (neutrali alla guerra) e i sindacalisti rivoluzionari (favorevoli all’intervento in
guerra). Questi ultimi lasciarono così l’USI e diedero vita alla loro confederazione sindacale nel ’18, la UIL.
I Cattolici si affacciarono sulla scena pre-sindacale con la Rerum Novarum, secondo la quale la rivoluzione
industriale doveva essere affrontata in modo cristiano, con armonia tra le classi sociali, escludendo quindi la
lotta di classe. Quindi i cattolici inizialmente si tennero lontani dal sindacalismo. Più avanti incominciarono a
nascere qua e là le prime leghe bianche, ovvero i cattolici iniziarono ad organizzarsi per offrire ai loro iscritti
servizi e aiuti e iniziarono anche i primi scioperi da parte dei lavoratori cattolici.
Anche i Repubblicani (gli eredi di Mazzini) arrivarono in ritardo nell’esperienza sindacale, proprio perché
questo nacque sotto l’idea della lotta di classe e della resistenza, mentre gli ideali repubblicani prevedevano
una collaborazione pacifica tra le classi sociali. I repubblicani vennero definiti sindacalisti gialli, siccome
facevano sindacato in modo del tutto inefficace, siccome non ricorrevano alla resistenza e agli scioperi.
Questo non vale però per tutti i repubblicani, siccome in alcune zone d’Italia, qualcuno di questi organizzò
eventi di resistenza e scioperi soprattutto con il passare degli anni. I repubblicani però non avrebbero mai
dato vita alla loro struttura sindacale, a differenza dei cattolici che nel 1918 diedero vita alla CIL.
LE ORIGINI DEL SECOLO AMERICANO TAYLORISMO E FORDISMO
Il 900 viene chiamato dagli studiosi, il secolo americano. Come già detto ciò che differenzia la prima
rivoluzione industriale dalla seconda sono le fonti di energia, i settori produttivi, i mezzi di trasporto, le
tipologie di aziende.
Il paese leader della seconda rivoluzione industriale che ha dominato tutto il 900 sono stati gli Stati Uniti
d’America. Dal 1861 al 65 ci fu in America una grande guerra civile tra nord e sud, la prima guerra
<<industriale>>, durante la quale ci fu una grande produzione di armi e armamenti militari, che provocò un
numero elevatissimo di vittime. La guerra si concluse con la vittoria del nord America e con l’abolizione
della schiavitù, fortemente utilizzata nel sud, essendo la parte del paese nel quale la maggior parte del
lavoro era agricolo, a differenza del nord più industrializzato. Da questo evento in poi, iniziò una nuova
stagione nella storia degli Stati Uniti, un’epoca di ricostruzione e crescita che culminò all’inizio del 900
nell’età progressista che ebbe come protagonisti Theodore Roosevelt e Thomas Wilson. Gli anni fra la fine
dell’800 e l’inizio dell’900 furono gli anni in cui costruì la famosa eccezionalità americana che permise agli
americani di affermarsi come la principale potenza economica e militare del mondo. Le caratteristiche
dell’eccezionalità americana sono molteplici:
 Carattere economico: economia capitalistica di mercato. La seconda rivoluzione industriale è
l’epoca della libera impresa, ovvero l’impresa deve essere lasciata libera all’interno del mercato,
con lo stato che si deve ritagliare un ruolo regolatore, ma secondario.
 Carattere sociale: Gli Stati Uniti dopo la guerra civile erano abitati da un numero basso di persone,
nonostante le immense dimensioni delle pianure americane, così iniziano ad arrivare da tutto il
mondo milioni di persone. La società americana si caratterizza perciò da questa immigrazione di
massa che trasforma la società americana in un melting pot (crogiolo di razze).
 La marginalità del socialismo: le idee di Marx non hanno mai attecchito più di tanto negli Stati Uniti,
proprio perché la classe operai americana si trova ad essere molto divisa al suo interno da enormi
fratture di natura etnica che impediscono l’unione contro la borghesia.
 Stabilità politica: sistema bipartitico: repubblicani e democratici
Ci fu inoltre una grande crescita militare, che esplose nel 1898 con una guerra contro la Spagna, sancita
dalla rapida vittoria americana e dalla conquista di Cuba e delle Filippine. È da qui in avanti che gli Stati Uniti
diventeranno la più grande potenza industriale.
Il simbolo dell’industria americana fu l’industria automobilistica, in particolare la Ford, da qui nacque il
Fordismo. Ma prima di questo ci fu un altro concetto fondamentale, il Taylorismo, che prende il nome da
Friedrick Taylor, un ingegnere di origini tedesche, che tra la fine dell’800 e l’inizio del 900 diventerà il padre
dello scientific management, una nuova modalità di produzione industriale. I principi fondamentali del
Taylorismo sono:
 La semplificazione massima del lavoro: prendere un lavoro e scomporre il ciclo di produzione in
tanti piccoli e semplici gesti in modo che tutte le persone siano in grado di compierli. Taylor
scompone il lavoro per poterlo misurare (da qui scientific management), per esempio
cronometrando i tempi di produzione e dei singoli passaggi, rendendo il lavoro sempre più
razionale e scientifico. Tutto questo per aumentare la produttività, arrivando ad una produzione di
massa degli oggetti e ad un maggior ricavo per le imprese.
 Effetti sui lavoratori: l’aristocrazia operaia di fonte ad un lavoro sempre più elementare finiscono
per perdere quella sapienza professionale e diventano sempre più limitati nelle loro libertà. I ritmi
di lavoro diventano più duri e faticosi, in quanto ripetitivi. In fabbrica si afferma una nuova
tipologia di lavoratori, i tecnici che si trovano a lavorare in uffici di analisi del lavoro e che si
trovano in una fascia intermedia tra la direzione aziendali e i lavoratori. Si accentua perciò questa
figura dei capi reparto che tengono sott’occhio e sotto il loro dominio i poveri lavoratori, sempre
più dequalificati e sfruttati. Lo sfruttamento è talmente elevato che iniziano i primi scioperi contro
questi nuovi metodi. Il 1911 è l’anno del primo grande sciopero contro i metodi tayloristi, lo
sciopero di Watertown Arsenal.
Il fordismo prende il nome da Henry Ford, un imprenditore che si buttò nella produzione di autovetture,
diventando ben presto il più importante produttore di auto non solo negli Stati Uniti, ma in tutto il mondo.
L’invenzione di Ford destinata a cambiare in maniera evidente il mondo della produzione industriale fu la
catena di montaggio, un nastro trasportatore che permette di accelerare la produzione industriale,
portando gli strumenti della produzione direttamente agli operai. Non sono più gli operai che si muovono,
ma i prodotti che arrivano direttamente nelle loro mani. La catena di montaggio fa la sua prima comparsa
nello stabilimento di Ford di Highlands Park nel 1914. Questa introduzione fu talmente importante che nel
giro di pochi giorni si ebbe una netta diminuzione dei tempi di lavorazione. Prima dell’introduzione della
catena per costruire una macchina Ford ci volevano 700 minuti, dopo la produzione solamente 100 minuti.
Quindi se Taylor semplicizzò il lavoro, Ford lo accelerò. Naturalmente l’azienda per mantenere quei livelli
così elevati di produzione di massa è evidente che non possa giocare più di tanto con certi aspetti come il
colore della macchina (infatti tutte le prime macchine che uscivano dagli stabilimenti della Ford erano di
colore nero). Nel 1914 Ford introduce un’altra novità. Decide di raddoppiare i salari dei suoi dipendenti
arrivando a 5 dollari all’ora. Questa innovazione quasi al pari livello della catena di montaggio, porta Ford
ad essere il primo imprenditore che guarda ai suoi operai non solo come dipendenti, ma come possibili
acquirenti dei propri prodotti di massa, in quel caso dell’automobile. Quindi il fordismo non è solo
produzione di massa, ma anche consumismo di massa. Ford aumentò infatti in maniera significativa
l’assistenza nei confronti dei suoi lavoratori: vennero costruite delle case riservate ai dipendenti, vennero
diffusi degli spacci e dei negozi nei quali questi lavoratori potevano rifornissi, venne istituita un’assistenza
sanitaria ed educativa nei confronti degli operai e delle loro famiglie.
Ci furono però anche diverse ombre nel fordismo come il grande sfruttamento umano, un maggior
controllo e una maggiore gerarchia all’interno delle fabbriche e quindi una maggiore repressione,
simboleggiata dalla presenza di una vera e propria polizia interna incaricata di tener l’ordine pubblico negli
stabilimenti. Il sindacato non era inoltre ammesso all’interno delle fabbriche Ford.

LA PRIMA GUERRA MONDIALE E LA MOBILITAZIONE INDUSTRIALE


Le cause che portano allo scoppio della guerra sono principalmente due:
 Il nazionalismo: deriva dalla nazione, il concetto innovativo che nasce con le rivoluzioni. Non è altro
che una comunità di persone libere, cittadini, che hanno doveri e diritti e sono guidati non più da un
potere assolutistico, ma da un potere costituzionale. Insieme a questo, si sviluppa anche il concetto
di ideologia della nazione (nazionalismo), che pone l’accento sugli aspetti biologici, di sangue,
culturali che accentuano la distanza e l’ostilità tra le diverse nazioni.
 L’imperialismo: derivazione del nazionalismo. Questi grandi stati nazionali si danno alla conquista di
enormi territori, soprattutto in Africa e in Asia che sono dotati di grandissime materie prime e
grandi quantità di forza lavoro, rischiando gioco forza di entrare in conflitto tra di loro. Si inizia
perciò ad assistere ad una serie di scontri armati sempre più significativi.
La Grande Guerra viene definita <<mondiale>> siccome per la prima volta viene combattuta una guerra che
coinvolge i Paesi di tutto il mondo. È anche la prima guerra di <<massa>> siccome coinvolge le grandi masse
di soldati dei singoli Paesi e le grandi masse di civili che rappresentano il fronte interno e sono mobilitate in
maniera attiva in questo scontro (per esempio anche con la propaganda). La guerra assume quindi le
dimensioni di uno scontro <<totale>>. La Prima guerra mondiale è combattuta da due grandi coalizioni
contrapposte: la Triplice Intesa (Gran Bretagna, Francia, Russia) e la Triplice Alleanza (Impero Austro-
Ungarico, Impero Tedesco, Italia). L’Italia però inizialmente nel 1914 decide di dichiararsi neutrale,
pensando di trarne vantaggi commerciali, non fermando l’economia e continuando ad avere rapporti con
tutte le nazioni. Ma è proprio nei mesi della neutralità che l’Italia inizia a prendere le distanze dalla Triplice
Intesa e ad avvicinarsi e poi ad allearsi segretamente con la Triplice Alleanza, data la grande distanza e
l’antico risentimento nei confronti dell’Austria. L’Italia entra così in guerra nel 1915. A spingere per l’entrata
dell’Italia in guerra furono soprattutto quei settori pesanti come i bellici e metallurgici, che avrebbero
guadagnato di più da un’entrata in guerra, finanziando quindi i quotidiani che avrebbero dovuto convincere
la popolazione ad entrare in guerra. Uno fra questi quotidiani fu l’Avanti diretto da Mussolini, che spingeva
per l’entrata in guerra. Per questo motivo venne espulso e fondò un suo quotidiano, il Popolo d’Italia, che
sarà il giornale del partito fascista, finanziato dai grandi gruppi industriali italiani che vorrebbero entrare in
guerra.
La Prima guerra mondiale è stata la prima guerra <<industriale>> di carattere mondiale (guerra civile
industriale in America).
Antonio Gibelli, L’officina della guerra: analisi della guerra attraverso la figura dei soldati, come <<soldati
senza qualità>>. Essi sono sì degli eroi, ma di un eroismo non positivo. Infatti, ai soldati delle trincee viene
richiesto un eroismo passivo, un’accettazione di una realtà drammatica, un atteggiamento passivo spinto
dal grande spirito nazionale inculcato alle masse nei decenni precedenti. Se infatti poco tempo prima non
esisteva il concetto di appartenenza alla nazione, durante la Prima guerra mondiale i cittadini si sentono
responsabili di combattere per il proprio paese, spesso offrendosi volontari, per diventare vera e propria
carne da macello nelle trincee. Gibelli dice che questo soldato senza qualità è la stessa tipologia di persona
dell’<<operaio senza qualità>> tipico della nuova società industriale.
L’Italia dopo la Prima guerra mondiale sarà ancora un paese prevalentemente agricolo, ma durante i 3 anni
di guerra diventerà sempre più industriale. Tre grandi aziende furono protagoniste della guerra: l’Ansaldo di
Genova, la più grande industria italiana di armamenti, l’Ilva l’acciaieria italiana per eccellenza indispensabile
per gli armamenti e la Fiat che riesce in poco tempo a passare dalla produzione di macchine alla produzione
di armi, navi aeroplani utilizzati in guerra. Queste aziende decuplicarono i loro guadagni e di conseguenza
assunsero un numero elevatissimo di operai. Tutto questo complesso meccanismo di crescita industriale del
Paese viene ad essere gestito dal meccanismo della Mobilitazione Industriale, che dirigeva la produzione
industriale finalizzata allo sforzo bellico e controllava e gestiva la manodopera all’interno delle fabbriche
ausiliarie all’esercito.
Se durante la guerra l’Italia vede una grande crescita industriale, nell’immediato dopoguerra vengono fuori
tutti gli squilibri economici e sociali che un evento come la guerra ha provocato in tutto il mondo. Da un
punto di vista economico lo squilibrio più evidente è l’enorme crescita del debito pubblico. Infatti, in un
periodo come la guerra, non viene aumentata la tassazione, ma vengono aumentate le uscite e ridotte le
entrate. Questo scenario di crisi, porterà in alcuni paesi il problema dell’inflazione, ma soprattutto una
grande disuguaglianza sociale tra i cittadini, soprattutto per chi come gli operai ricevevano un reddito fisso.
Su questo scenario già piuttosto difficile, si abbatté la grande crisi economica del 1921. Le grandi imprese
che avevano dominato in guerra vivono un fenomeno di riconversione, soprattutto l’Ansaldo e l’Ilva,
mentre la Fiat riuscirà a stare in piedi con le sue forze senza essere aiutata dallo Stato, tornando alla
produzione delle auto, con l’apertura di una nuova e più grande azienda. Durante il fascismo domineranno
in Italia le aziende elettriche, chimico e meccanico, oltre alle grandi aziende già esistenti dell’industria
pesante. Una mossa intelligente del primo fascismo fu quella di dare continuità alla politica economica
liberale, senza intervenire in modo duro e radicale, ma mantenendo ciò che c’era di positivo senza
sconvolgere l’intero sistema.

IL MONDO DEL LAVORO DURANTE LA GRANDE GUERRA


Una delle novità più importanti dell’Italia in guerra è il raggiungimento di una situazione di piena
occupazione per la prima volta dall’unità d’Italia. Questa fu una novità straordinaria dati gli elevati tassi di
disoccupazione che avevano da sempre caratterizzato la nazione. Questo picco di occupazione è dovuto alle
industrie, siccome ci si entra a lavorare in modo massiccio, essendo queste impegnate al massimo
soprattutto per i rifornimenti bellici e per gli abbigliamenti di guerra. Vi sono inoltre numerosi lavori militari
di cui necessita l’esercito nei fronti. Tra i settori produttivi quello che va maggiormente in crisi è quello
agricolo, siccome la maggior porte dei soldati che partono in guerra sono contadini e braccianti, lasciando le
campagne desolate. Per risolvere questo problema vengono istituite delle Commissioni agricole, che vanno
proprio alla ricerca di lavoratori che possano prendersi cura delle campagne, indispensabile per l’industria
militare e la nutrizione dei soldati. Vi è inoltre una sorta di lavoro a domicilio delle donne soprattutto nel
settore tessile e dell’abbigliamento, per rifornire l’esercito delle tute e dell’equipaggiamento.
Molto importante durante la guerra diventa il lavoro delle donne che svolgono un lavoro sostitutivo, dei
soldati costretti a partire per la guerra, nelle campagne e nelle fabbriche. Non è però soltanto un lavoro
sostitutivo, ma anche un lavoro integrativo per quanto riguarda alcuni settori, soprattutto all’interno delle
fabbriche. Questo porta dei cambiamenti sia sul piano sociale e culturale che su quello economico. Sul
piano sociale, infatti, le donne escono dalle loro case nelle quali sono state per tanto tempo confinate ed
entrano nella società; cominciano così a mutare in modo evidente i rapporti di genere all’interno della
società. Con l’scita delle donne dalle case cambiano anche gli usi, i costumi, le tradizioni, portando ad una
modernizzazione dell’Italia e di tutto il mondo. Tutto questo porta al processo di emancipazione delle
donne, che avviene proprio attraverso il mondo del lavoro, siccome le donne diventano una necessità per la
nazione. Il percorso che porterà le donne a diventare cittadine a tutti gli effetti dei vari paesi sarà un
percorso lungo, che avrà un punto fondamentale nell’acquisizione del diritto di voto.
Il Warfare: nel 1917 in Italia si decide di procedere ad un’assicurazione obbligatoria per l’invalidità e la
vecchiaia, però rivolta solo ai lavoratori della Mobilitazione industriale, che verrà portata avanti anche nel
primo dopoguerra. Il Warfare sarà quindi un primo tentativo di dare vita ad un sistema di welfare (Sistema
sociale che vuole garantire a tutti i cittadini la fruizione dei servizi sociali ritenuti indispensabili), anche se
con finalità ed obbiettivi sociali diversi.
La condizione operaia cambia notevolmente in virtù della guerra. Il lavoro diventa sempre più <<coatto>>,
ovvero un lavoro che è costretto sempre più dentro regole e discipline rigide ed è come se perdesse
elementi nati con la rivoluzione industriale, che ha portato ad un passaggio definitivo da una condizione di
schiavismo ad una condizione di libertà. Questa restrizione della realtà è una restrizione che riguarda tutti
gli ambiti a partire dai salari. Infatti, non vi è tanto un abbassamento dei salari, ma un aumento dei prezzi e
del costo della vita in maniera esponenziale. Gli orari di lavoro si fanno particolarmente lunghi e i carichi di
lavoro intensi e faticosi. C’è inoltre una lenta introduzione dell’organizzazione scientifica del lavoro, che
produce un evidente peggioramento della salute delle classi lavoratrici. Vi è infatti un aumento delle
malattie professionali all’interno delle fabbriche che unite al problema degli infortuni sul lavoro hanno
prodotto nel corso della Prima guerra mondiale un significativo incremento dei tassi della mortalità operaia.
Il lavoro nelle fabbriche viene equiparato al lavoro dell’esercito. Le fabbriche vengono militarizzate, la
disciplina diventa di tipo militare, portando all’annullamento della libertà di sciopero (se si sciopera si
commette reato). Nel periodo di guerra viene istituito uno speciale Codice penale di guerra, che prevede
punizioni e sanzioni diverse dal comune Codice penale. Chi si rifiuta di lavorare può essere accusato di vera
e propria asserzione, come se fuggisse dall’esercito e si può arrivare anche alla pena di morte. Nel
momento in cui viene cancellata la resistenza, di fatto è come se cessasse la funzione del sindacato. In
realtà le cose sono diverse, in quanto il sindacato in una tale condizione riesce a ritagliarsi uno spazio
significativo. Infatti, il fatto che non si possa scioperare non esclude il fatto che ci possano essere delle
controversie di lavoro, di natura individuale o collettiva. Queste controversie vengono affrontate, come
detto, nei Comitati di Mobilitazione industriale.
Il sindacato rischia quindi di burocratizzarsi e di diventare un ruolo di tipo impiegatizio e amministrativo, in
cui la forza lavoro viene semplicemente gestita, più che essere rappresentata nei suoi diritti e interessi.
Esistono tuttavia forme di contrattazione del sindacato durante la guerra, grazie alle quali la sua funzione e
la sua figura riescono a mantenersi. Vi è poi un graduale spostamento dell’azione sindacale dal livello
confederale a quello federale, che gestiscono in maniera più diretta la rappresentanza degli interessi dei
lavoratori. Cresce in particolare la federazione che protegge gli operai metalmeccanici, particolarmente
attivi in guerra. La CGdL durante la guerra resta nonostante tutte le difficoltà il sindacato federale più
importante in Italia. La CGdL essendo di natura socialista era totalmente contraria alla guerra e quindi
sosteneva le ragioni della neutralità. Ma nel momento del fallimento e dell’entrata dell’Italia in guerra,
l’unica strada possibile per la CGdL fu quella della collaborazione istituzionale, una scelta molto apprezzata
dallo Stato. Venne perciò confermato e in parte modificato il rapporto e la collaborazione tra CGdL e Partito
Socialista Italiano nel 1918 che riprendeva e confermava il contratto del 1907.
Molto più evidenti erano le difficoltà dell’altro importante campo del sindacalismo italiano, il campo
rivoluzionario che nel 1912 aveva dato vita all’USI, durato solo due anni fino allo scoppio della guerra che
ne provocò una rottura tra anarchici neutralisti (che rimasero nell’USI) e rivoluzionari interventisti (che
abbandonarono l’USI e partirono volontari per il fronte). Proprio uno di questi rivoluzionari interventisti
diede vita all’Unione Italiana del Lavoro (UIL) nel 1918.
Fatto sta che in questo modo il pluralismo sindacale si arricchiva ulteriormente:
 CGdL riformista socialista
 USI anarchica neutralista
 UIL rivoluzionaria interventista
In questo contesto ricco del sindacalismo italiano si rafforzarono anche i cattolici, che erano neutralisti e si
opponevano all’ingresso dell’Italia in guerra. Ma nel momento dell’entrata anche loro offrono subito la
disponibilità a collaborare. Nonostante questa volontà a partecipare, i cattolici vengono esclusi dalla
Mobilitazione industriale nel periodo della guerra. Nel 1917 le cose cambiano, dopo la sconfitta di
Caporetto l’Italia va in crisi e quindi c’è bisogno di un’unione nazionale ancora più forte e quindi di un
allargamento delle maglie della Mobilitazione industriale che si aprono anche ai cattolici. Questa cosa
favorirà una crescita sindacale del mondo cattolico, che nel 1918 darà vita alla sua struttura sindacale, la
Confederazione Italiana dei Lavoratori (CIL), che nel dopoguerra diventerà la seconda più grande
confederazione dopo la CGdL. La posizione politico sindacale dei cattolici e della CIL era una posizione di
collaborazione a favore degli interessi della nazione.
In questo modo il pluralismo sindacale si arricchiva ulteriormente:
 CGdL riformista socialista
 USI anarchica neutralista
 UIL rivoluzionaria interventista
 CIL cattolica
ACCORDI E CONFLITTI DI LAVORO DURANTE LA GRANDE GUERRA
Il caso di Torino: la città di Torino durante con la Prima guerra mondiale divenne la capitale industriale del
paese, affiancandosi a Milano, la capitale economica italiana. Molte aziende torinesi parteciparono infatti
alla Mobilitazione industriale, a partire dalla più grande azienda della città, la Fiat. Durante la guerra si
consuma a Torino il passaggio definitivo dalla prima rivoluzione industriale alla seconda rivoluzione
industriale, incentrata sull’industria metalmeccanica.
L’esempio della Fiat: la Fiat venne fondata nel 1899 da Giovanni Agnelli. La Prima guerra mondiale fu così
importante per la Fiat, che scalò le classifiche dell’industria italiana, infatti se nel 1915 si collocava al 30
posto nelle classifiche tra le più importanti industrie italiane, tre anni dopo nel 1918 passava al 3 posto,
dopo l’Ansaldo di Genova (il più impegnato nella produzione bellica) e gli stabilimenti dell’ILVA a Piombino
e a Napoli. Il capitale aziendale aumentò di 7 volte e la manodopera operai di 10 volte (da 4000 a 40000). Il
grande punto di forza fu la diversificazione produttiva. Arrivò infatti a costruire il 90% dei veicoli militari che
si producevano in Italia, l’80% dei motori per l’aviazione, arrivando a produrre ben 70000 vetture per la
guerra. Produceva inoltre i motori per le navi e per i primi sottomarini. La sua forza fu così grande che la
Fiat nel 1918 riuscì ad assorbire la Diatto, l’altra grande azienda metalmeccanica torinese.
La classe operaia torinese rimase una vera e propria aristocrazia composta da maschi adulti con grande
esperienza che permetteva loro di essere grandi operai specializzati. Ma è anche vero che la guerra provocò
dei cambiamenti all’interno della classe operai troinese, in particolare nella composizione. Infatti, entrarono
a lavorare molte donne, cambiò poi dal punto di vista generazionale, iniziarono a lavorare molti giovani che
non erano stati chiamati nell’esercito. Questi operai non avevano gli stessi livelli di specializzazione
dell’aristocrazia operaia, ma era una nuova classe dequalificata. L’organizzazione del lavoro divenne
sempre più scientifica, in serie, caratterizzata da gesti semplici e ripetitivi. La nuova classe operaia era per la
maggior parte alfabeta e si pensava poter essere più docile e passiva di fronte agli ordini. Inoltre, non
avrebbe creato problemi quando, finita la guerra, sarebbe in parte stata rimandata a casa.
Nel pieno della guerra nell’agosto del 1917 si assistette ad una grande rivolta operaia a Torino, una delle
più grandi rivolte operaie europee nel periodo della guerra. Pochi giorni prima della rivolta, ci fu la visita di
alcuni rivoluzionari russi che avevano fatto la rivoluzione del 1917 (questi rivoluzionari finita la rivoluzione
in Russia fecero il giro delle grandi capitali europee). Ci fu quindi una grande manifestazione popolare che
osannava i rivoluzionari russi, ma non quelli che avevano fatto visita, bensì i seguaci di Lenin, che di lì a poco
avrebbero fatto la Rivoluzione d’ottobre comunista in Russia. Le cause della rivolta torinese furono la
mancanza di farina e pane (causa materiale) e l’esempio russo (causa politica). durante i pochi giorni di
rivolta, ci fu l’assalto ai forni, ai negozi, la creazione di barricate nelle strade, si cercava di controllare pezzi
della città e dei quartieri, si ebbero scontri tra manifestanti e autorità. I protagonisti di questa rivolta furono
le classi lavoratrici (non quelle della Mobilitazione industriale alle quali era stata proibita la resistenza), in
particolare i disoccupati, gli operai delle fabbriche che non producevano per l’esercito, gli operai che
lavoravano nei trasporti e moltissime donne (le più accese). I luoghi della rivolta erano i quartieri, le
barriere popolari. Gli eventi e gli scontri sociali furono particolarmente duri, così come la reazione delle
classi dirigenti. Venne infatti chiamato l’esercito che sparò sulle barricate e sui manifestanti provocando
circa 50 morti, 200 feriti e un migliaio di arresti. Si creò infatti un distacco e un risentimento, tra i soldati e
gli operai, che erano ritenuti privilegiati per non aver assistito agli scenari del fronte e che per lo più
protestavano per le loro condizioni.
Durante la Prima guerra mondiale ci furono sì tanti conflitti, ma anche una grande crescita delle possibilità
di raggiungere accordi per arrivare ad avere un sistema in cui le intese potessero essere istituzionalizzate.
La rifondazione dell’Europa borghese (Maier): Maier propone un confronto tra tre paesi tra guerra e dopo
guerra: Francia, Germania e Italia. La tesi di Maier è che durante la guerra e nel primo dopo guerra ci fu un
tentativo di fare come la Russia, ma fallì e trionfò il modello conservatore. Maier usa la parola
<<rifondazione>> per sottolineare il fatto che il potere tornò a stabilizzarsi dopo la tragedia della guerra, ma
in un contesto economico-politico-sociale talmente diverso che quella stabilizzazione del potere non poteva
ripristinarsi meccanicamente. Quindi si assiste al tramonto definitivo dello stato liberale e si afferma un
nuovo meccanismo di potere. Da un lato ci sono gli industriali sempre più organizzati tra loro, dall’altra
sindacati sempre più grandi e potenti e in fine vi è lo Stato, il vertice di questo triangolo che opera un ruolo
di regia. Maier inventa la categoria del <<corporatismo>> che richiama il corporativismo e si tratta di un suo
aggiornamento. Maier per corporatismo intende quel processo di inserimento delle masse all’interno di un
sistema di regole e garanzie che avviene sotto la supervisione dello Stato. Il Parlamento comincia a perdere
alcune importanti funzioni e le sedi nelle quali vengono prese le decisioni dello Stato sono quelle del
governo. Quindi il Parlamento diventa solo l’ultimo passaggio di ratifica delle decisioni che sono già state
prese da altri organi. Maier da una grande importanza all’uso politico che viene fatto dell’inflazione
(aumento dei prezzi) con la quale sono i grandi industriali ad aumentare i loro profitti, ma anche gli operai
riescono a far aumentare i loro salari grazie ai sindacati. Chi ci rimette e quella fascia mediana tra
imprenditori e operai, la piccola borghesia e i ceti medi. Maier distingue due tipi di corporatismo:
 Corporatismo <<pluralista>>: avviene sempre all’interno di canoni democratici ben definiti, quindi
l’ultima parola spetta sempre al Parlamento. Questo è il tipo di corporatismo che secondo Maier si
applica nella Francia e nella Germania. Diverso è il discorso italiano ͢
 Corporatismo <<autoritario>>: questo schema di interessi organizzati non avviene all’interno di uno
schema democratico che ha come perno centrale il parlamento, ma all’interno di una dittatura che
sarà il fascismo di Mussolini, che fonderà il suo consenso popolare su quei ceti medi che erano stati
penalizzati dallo schema corporatista

Il caso tedesco: la Germania di Weimar


Nasce nel 1918 dopo la durissima sconfitta in guerra. La Germania passa nel giro di pochi giorni da un
regime autoritario ad un sistema democratico che crea una nuova costituzione, la costituzione di Weimar,
molto avanzata sul piano sociale. Il problema della Germania è però quello economico, a causa delle
penalizzazioni e dei risarcimenti richiesti dai paesi vincitori. Quattro giorni dopo l’armistizio due importanti
personaggi (un rappresentante sindacale dei lavoratori e uno degli imprenditori) tedeschi firmano un
accordo che ha come obbiettivo la nascita di una <<Comunità di lavoro>>, un’organizzazione all’interno
della quale si trovassero sia imprenditori che lavoratori. Questa comunità si basava su valori molto forti, di
unità, di collaborazione di classe, di responsabilità. Gli obiettivi principali erano quelli di dare lavoro ai
soldati che tornavano dal fronte, potenziando gli uffici di collocamento, fare in modo che questo lavoro
avesse delle regole e dei principi sempre più umani. Vennero ottenute le 8 ore giornaliere di lavoro. Ci
furono però molti limiti, che limitarono appunto l’efficienza di questa comunità di lavoro. Ma ben presto
tornò a presentarsi la lotta di classe e i conflitti sociali, oltre alla grave crisi economica che posero fine alla
Comunità di lavoro in Germania durata pochi anni, ma che ancora oggi insegna importanti valori.

IL BIENNIO ROSSO 1919-1920


Abbiamo visto come la Prima guerra mondiale portò grandi cambiamenti in campo politico (per esempio la
Germania di Weimar), grandi trasformazioni economiche (come la crescita industriale) che portarono anche
enormi cambiamenti sociali (tra i quali il ruolo inedito delle donne). Provocò però anche un grande trauma
dovuto alle numerosissime vittime e della violenza raggiunta durante i combattimenti, innescando un
cambio di mentalità e una trasformazione culturale.
In Italia, uscita vittoriosa dalla guerra, tra il 1918 e il 1919 si visse la stagione del corporatismo pluralista
(presente anche in Francia e in Germania), una stagione breve durata solo pochi mesi. Il corporatismo era
una diretta conseguenza del sistema di Mobilitazione industriale, che era stata quella sorta di
triangolazione tra Stato, industriali e lavoratori finalizzata ad integrare le masse lavoratrici all’interno dello
stato attraverso una sorta di contrattazione che unisse tutti gli interessi sociali a favore di un
potenziamento della nazione. In questa nuova stagione di contrattazione e collaborazione l’esempio per
eccellenza fu il concordato nazionale dei metalmeccanici (1919) con il quale i lavoratori riuscirono a
ottenere importanti conquiste, come le 8 ore giornaliere di lavoro per 6 giorni settimanali (venne poi
introdotto il sabato inglese durante il quale si lavorava solo la mattina. Ma per fare ciò bisognava lavorare
un po’ di più gli altri giorni della settimana per arrivare alle 48 ore settimanali), il salario minimo (sotto il
quale non si poteva scendere) e le Commissioni interne (come la rappresentanza dei lavoratori nei luoghi di
lavoro, che aveva il compito di risolvere all’interno degli stabilimenti le controversie attraverso lo
strumento dell’arbitrato). Queste conquiste verranno poi estese anche agli altri settori industriali e poi in
tutta la nazione.
Il ruolo dello Stato fu quello di dare vita nei mesi centrali del 1919 ad una stagione riformista, con la quale
lo Stato decise di promuovere una serie di riforme a livello lavorativo e sociale. Furono soprattutto tre i
grandi interventi promossi:
 La nascita della Cassa nazionale per le assicurazioni sociali: Riguardava soprattutto i temi di
invalidità e vecchiaia dei lavoratori. All’interno di questa cassa venivano versati dei contributi
obbligatori da parte dei lavoratori e delle imprese per poter pagare assegni di sostegno dei
lavoratori in caso di infortuni o vecchiaia. (Vedi pagina 34 il Warfare)
 L’assicurazione obbligatoria contro la disoccupazione: per venire incontro ai disoccupati, gli altri
lavoratori dovevano versare un piccolo contributo obbligatorio che diede vita alla cassa di
disoccupazione. Con questa cassa si riuscirono a mettere in piedi i primi uffici pubblici di
collocamento gestiti dallo Stato. Con questa cassa si poterono pagare anche i primi sussidi di
disoccupazione per permettere ai disoccupati di sopravvivere ed ostentarsi.
 L’istituzione del Ministero del Lavoro e della Previdenza sociale che si occupasse di tutte le
questioni del mondo del lavoro.
Tutta questa stagione durò pochi mesi siccome venne travolta da un’ondata di conflittualità sociale in
ambito industriale e agricolo, il <<biennio rosso>> che si verificò in Italia tra il 1919 e il 1920.
Le cause sono spiegate nel libro di Roberto Bianchi, Il 1919 in Italia. Pace, pane, terra. il biennio rosso fu
soprattutto un movimento che mobilitò i lavoratori agricoli, i contadini e i braccianti. La maggior parte dei
soldati italiani provenivano dalle campagne e a questi furono fatte delle promesse, come per esempio la
terra ai contadini (sarebbero diventati proprietari della terra che lavoravano). Quando finì la guerra furono
tanti i contadini che richiesero ciò che gli spettava. Le classi dirigenti decisero di non soddisfare queste
richieste causando questo grande movimento di lotta. Le terre cominciarono ad essere contese. Ci furono
una serie di scioperi, conflitti all’interno delle campagne. Molte di queste terre vennero occupate e si provò
a governarle, portando avanti la produzione agricola. Il movimento contadino crebbe al punto di ottenere i
primi contratti collaborativi, i patti agrari, con i quali si raggiunsero molte conquiste:
 Il collocamento di classe: il collocamento doveva essere gestito direttamente dalle organizzazioni
dei lavoratori (dai sindacati).
 L’imponibile di manodopera: la capacità di imporre una certa quantità di manodopera agricola nei
confronti dei proprietari terrieri.
Nel dopoguerra ci fu anche un grande rafforzamento del sindacalismo bianco che diede vita alla CIL. I patti
agrari firmati dalla CIL non chiedevano tanto il collocamento di classe e l’imponibile di manodopera, ma
chiedevano soprattutto la partecipazione dei lavoratori agli utili delle imprese e alla conduzione dei fondi.
Per ottenere queste conquiste i lavoratori cattolici promossero tanti scioperi e occupazioni delle terre.
Uno dei grandi problemi del dopoguerra fu l’aumento dei prezzi, il fenomeno dell’inflazione anche tra i beni
di prima necessità tra cui il pane e la farina. Così nel 1919 cominciarono a scoppiare grandi moti popolari, i
tumulti annonari, contro il caro-vivere e soprattutto contro l’aumento della farina. Questi tumulti portarono
a controllare quartieri, città e campagne. Lo <<scioperissimo>> fu uno sciopero generale sindacale a livello
europeo in solidarietà della Russia sovietica contro l’intervento continuo delle potenze occidentali a
sostegno dei bianchi. Fu il primo sciopero generale europeo, la cui parola d’ordine era pace, bisognava
porre fine alla guerra che stava facendo tantissime vittime in Russia.
Il 1920 fu l’anno in cui venne toccato l’apice del biennio rosso, ma anche l’anno della decadenza. Il 1920 fu
l’anno in cui le lotte sociali cominciarono ad allentarsi nelle campagne per trasferirsi a livello industriale. La
causa dell’esplosione di queste lotte da parte degli operai, oltre al caro-vivere, fu la situazione di grande
sfruttamento e le condizioni gravose che i lavoratori vivevano nelle fabbriche.
Nella Fiat nacquero i Consigli di fabbrica, che avrebbero segnato un’intera stagione di lotte operaie. Questi
consigli erano una nuova forma di rappresentanza operaia all’interno dei luoghi di lavoro, che si
posizionarono a fianco alle Commissioni interne, pur essendo profondamente diversi. I consigli di fabbrica
erano infatti eletti da tutti i lavoratori, quindi sia dagli iscritti ai sindacati che dai non iscritti. La seconda
grande differenza era che i Consigli si ponevano un obiettivo molto più radicale (la commissione interna
mirava a cambiare la condizione operaia nel tempo, poco alla volta), la conquista del potere politico. La
reazione delle grandi forze socialiste del Paese fu piuttosto negativa. La CGdL ebbe una reazione molto
negativa, siccome puntava molto sul suo sistema creato nelle fabbriche, secondo il quale i suoi iscritti
pagavano la quota sindacale per essere difesi dal sindacato. Perciò questa idea dei Consigli di non
distinguere tra organizzati e non organizzati non gli andava a genio.
Nel 1920 ci fu uno sciopero a Torino, lo <<sciopero delle lancette>> ( Lo sciopero delle lancette fu il nome
dato ad una agitazione operaia scoppiata a Torino nell'aprile del 1920, che si opponeva all'applicazione dell'ora
legale, evento che costringeva gli operai a uscire di casa per recarsi in fabbrica col buio anche in primavera ed
estate). Gli operai della fiat infatti decisero di andare contro la decisione dell’azienda di introdurre l’ora
legale nello stabilimento. Per questo decisero di bloccare le lancette dell’orologio della fabbrica. Se il gesto
era piccolo, il significato fu enorme: chi comandava in fabbrica, chi aveva il potere. La reazione dell’azienda
fu molto dura e ci fu quindi la proclamazione di uno sciopero generale dell’intera città di Torino che dopo
pochi giorni si trasformò in uno sciopero generale regionale del Piemonte. Ma dal momento in cui si chiese
con forza alla CGdL di fare lo sciopero generale nazionale la CGdL si oppose. Decise di scendere a patti, di
applicare le regole del corporatismo pluralista stringendo un accordo con gli industriali. Si raggiunse quindi
l’accordo che pose fine allo sciopero delle lancette e con il quale l’azienda riconosceva la vecchia
commissione interna, ma non i nuovi Consigli di fabbrica, mentre il tema dell’organizzazione del lavoro, dei
turni e degli orari continuava ad essere gestito dalla direzione aziendale. Quindi questo sciopero si concluse
negativamente per i Consigli di fabbrica, che di lì a poco iniziarono a sciogliersi. Ma i metalmeccanici di
fronte a questa sconfitta decisero di rilanciare la loro iniziativa con una vertenza nazionale che aveva come
obbiettivo il rinnovo del contratto nazionale dei metalmeccanici. Prevedeva che i minimi salariali passassero
da un livello regionale ad uno nazionale e prevedeva inoltre aumenti salariali per gli operai meno qualificati
nei confronti dei più qualificati. Le imprese si opposero e i lavoratori risposero con l’ostruzionismo (andare
in fabbrica ma non lavorare). Di fronte a ciò le imprese serrarono gli stabilimenti e in risposta gli operai
occuparono le fabbriche (occupazione militare). La paura della borghesia fu tale che alla fine di questa
occupazione si pose fine al biennio rosso. La CGdL pose fine all’occupazione delle fabbriche con la firma di
un accordo sindacale con la Confindustria (la rappresentanza degli industriali nata nel 1919) con la
mediazione del governo (nel quale tornò per breve tempo Giolitti). Con l’atto del <<lodo Giolitti>> (accordo
sindacalesi che poneva l’ipotesi di discutere il tema del controllo operaio nelle fabbriche tra i
rappresentanti dei lavoratori e i rappresentanti delle imprese in modo da poter migliorare i rapporti di
potere nei luoghi di lavoro allentando le forme più estreme di sfruttamento e valorizzando le
rappresentanze dei lavoratori. Tutto ciò fallì) pose fine all’occupazione delle fabbriche e così anche al
biennio rosso.

DAL BIENNIO NERO ALLA DITTATURA FASCISTA


Lo storico George Mosse afferma che la guerra causò la <<brutalizzazione della politica>>, c’era stata così
tanta violenza in guerra che questa rimase anche nel dopoguerra quando le armi iniziarono a tacere e la
politica riprendeva le sue funzioni originarie. Ma questa politica non riuscì a depurarsi del tutto da quella
violenza. Una violenza per cui l’avversario politico non era un semplice rivale, ma un vero e proprio nemico
che andava combattuto anche fisicamente, fino all’idea di eliminarlo fisicamente. Questa può essere
considerata l’essenza del fascismo.
Fabio Fabbri, Le origini della guerra civile: la violenza iniziò a venire fuori durante lo scioperissimo nel quale
per la prima volta si presentarono delle vere e proprie squadre paramilitari che agivano in forma violenta
per colpire le formazioni e le organizzazioni rosse (socialisti), considerate antinazionali. Tra il 19 e il 20
questo fenomeno della violenza cominciò a dilagare, soprattutto nelle campagne dove iniziarono fenomeni
di squadrismo agrario che consisteva in vere e proprie spedizioni con finalità punitive da parte degli inviati
dei proprietari terrieri e degli agrari nei confronti dei lavoratori mobilitati. Accanto a questa violenza privata
ci fu anche una violenza di tipo pubblico che coinvolgeva direttamente lo Stato. Lo Stato mise in atto quella
solita azione di tipo repressivo che prevedeva di contrastare gli scioperi e le manifestazioni. Ci furono due
momenti particolarmente cruenti nella storia del dopoguerra italiano che furono:
 La <<Primavera di sangue>> (1920), primavera segnata da tanti eccidi proletari da parte delle
autorità pubbliche e dello squadrismo agrario.
 La <<Pasqua di sangue>> (1921), nel pieno delle elezioni politiche, segnate da numerosi atti di
squadrismo e una violenza montante.
Con questa Pasqua si conclude il libro di Fabbri
Nelle campagne, dove vi era il problema dell’assegnazione delle terre, venne commesso l’errore più grave
da parte delle classi dirigenti che non fecero mai una riforma agraria nel dopoguerra. Questa mancata
<<terra ai contadini>> fece si che lo scontro di classe dilagasse in maniera particolarmente cruenta. La
reazione degli agrari nei confronti dei contadini fu talmente drammatica che gli storici parlano di un
<<conflitto irrisolvibile>>.
Così tra il 1920 e il 1921 iniziò il cosiddetto <<biennio nero>>(1921-1922) che partì dalle campagne e arrivò
nelle città. Le cause che portarono all’inizio della dittatura fascista furono chiare:
 Crisi economica: il 1921 fu un anno di grande crisi economica internazionale, dovuta alla
riconversione delle industrie postbelliche. Molte industrie si liberarono infatti di moltissima
manodopera che non fece altro che aumentare la disoccupazione.
 Causa politica: tutte le forze antifasciste dovevano mantenere una forte unità per colpire il
fascismo, ma tutto questo non si realizzò. Le divisioni nel campo antifascista furono molto evidenti
e profonde, per esempio, tra riformisti e rivoluzionari, tra anarchici e comunisti, tra socialisti e
cattolici. A complicare ulteriormente il quadro vi erano una serie di Federazioni autonome,
soprattutto le categorie dei ferrovieri e dei marittimi che decisero di mantenersi neutrali nello
scontro antifascista. Tutte queste correnti erano diverse tra loro, ma presentavano gli stessi limiti e
difetti: problemi di scarsa democrazia interna, scarsa autonomia nei confronti dei partiti di
riferimento. Ci fu un tentativo di unità politica nel 1922, l’Alleanza del Lavoro che tenne insieme la
gran parte delle forze antifasciste. Questa Alleanza decise di proclamare uno sciopero generale, lo
<<sciopero legalitario>>, per la legalità, per il rispetto delle leggi, ma fallì a causa delle violenze del
fascismo. L’Alleanza arrivo troppo tardi per poter raggiungere il successo, siccome il fascismo era
ormai già troppo forte.
I protagonisti della violenza squadrista-fascista erano gli interventisti (coloro che avevano votato per l’Italia
in guerra), i nazionalisti e alcuni rivoluzionari delusi dal modo in cui si erano svolti i trattati di Pace. Le
vittime di questa violenza erano prevalentemente i socialisti e l’universo rosso in generale. Questa violenza
fu resa possibile soltanto grazie alla complicità del mondo istituzionale, ovvero dei piani alti delle classi
dirigenti, come se la borghesia dopo la grande paura del biennio rosso avesse compiuto la sua scelta
politica.
Ecco che ci furono quindi tutti i presupposti per l’inizio vero e proprio del fascismo che si verificò con la
<<marcia su Roma>> del 28 ottobre 1922. Il re affidò il potere di mettere su governo a Mussolini, il capo del
fascismo. Questo nuovo governo non fece nulla per contrastare le squadracce che continuavano ad
imperversare nel paese e da questo punto di vista un esempio terribile fu la <<strage di Torino>> del 18
dicembre 1922: nel corso di una manifestazione erano morti due fascisti e per reazione la squadraccia nera
di Torino decise di assalire la Camera del Lavoro con la morte di ben 24 persone.
La violenza fascista si scatenò soprattutto sui comunisti rossi, che arrivarono al punto di essere dichiarati
fuorilegge e costretti a vivere in clandestinità, ma anche sui socialisti e sui principali oppositori. La
caratteristica del fascismo fu quella di indossare la camicia nera della violenza e allo stesso tempo di
indossare il doppiopetto, cioè di presentarsi con uno volto istituzionale. Da qui una serie di tentativi di
coinvolgere il mondo sindacale nella gestione del potere. Queste avance di Mussolini venero però respinte,
in particolar modo dalla CGdL.
La cesura per eccellenza di questo periodo fu il delitto Matteotti del 1924. Le elezioni politiche del 1924 si
svolgono all’insegna di grandi violenze e brogli, che vengono denunciate da Giacomo Matteotti, il leader del
partito socialista dei riformisti, che come conseguenza venne rapito, torturato e infine ucciso da una
squadraccia fascista. Il suo corpo venne trovato soltanto tre mesi dopo in una campagna. Un gesto di tale
violenza nei confronti di un leader nazionale scatenò una grande reazione all’interno del fascismo che visse
la sua fase di maggiore crisi interna. Il gesto era stato talmente cruento che anche il fascismo per alcuni
mesi rischiò di barcollare, anche perché la risposta delle opposizioni per un momento sembrò prendere il
sopravvento. Queste abbandonarono il parlamento che rimase chiuso per circa 6 mesi, per poi essere
riaperto con un celebre discorso di Mussolini che annunciava la svolta totalitaria del regime, che diventava
una dittatura di tipo nuovo. Nel periodo della crisi fascista si assistette ad una ripresa del mondo sindacale e
dei conflitti sociali. Il timore che ricominciasse nuovamente una situazione di conflittualità sociale spinse
anche gli industriali a fare la scelta del fascismo. Siamo all’inizio del nuovo biennio nero (1925-1926) che
segno la svolta totalitaria del fascismo, che divenne una dittatura totalitaria che si poneva in controllo
totale della popolazione, della violenza e dei media. La svolta totalitaria a livello sindacale ebbe
principalmente due atti:
 La firma del patto di Palazzo Vidoni del 1925, che diceva che la confederazione degli industriali
(Confindustria), accettava una sua totale fascistizzazione, accettava il sindacato fascista come suo
unico rappresentante dei lavoratori e venivano abolite le Commissioni interne. I lavoratori non
avevano più la loro rappresentanza all’interno dei luoghi di lavoro.
 La <<legge sindacale Rocco>>. Rocco era il giurista del fascismo, colui che preparò la maggior parte
dei provvedimenti normativi del fascismo. Questa legge stabiliva che soltanto il sindacato fascista
poteva avere il riconoscimento giuridico della legge. Tutti gli altri sindacati erano di fatto costrette
all’autoscioglimento. Questo pose fine alla libertà sindacale e impose la cancellazione del diritto di
sciopero.

LA GRANDE CRISI DEL '29 CAUSE ED EFFETTI


L’evento simbolico per eccellenza che segna lo spartiacque della crisi tra le due guerre mondiali e che
cambiò radicalmente gli equilibri in campo fu la <<grande crisi>> del ’29, la più grande crisi vissuta dal
capitalismo nella storia.
IL CROLLO DI WALL STREET:
Nel 1921 ci fu una grande crisi economica internazionale, una classica crisi di riconversione post-bellica.
Accanto a questa crisi ad aggravare la situazione mondiale, ci fu la gestione dei trattati di pace tra le
potenze vincitrici nei confronti dei paesi vinti. Alla Germania vennero imputate tutte le responsabilità della
guerra mondiale e gli si rese impossibile la formazione di un nuovo esercito. Inoltre, i tedeschi dovevano
pagare delle riparazioni di guerra enormi. Queste scelte di Versailles portarono inevitabilmente alla grande
crisi economica della Germania del 1923. Infatti, la Germania riuscì faticosamente a pagare i debiti nel 21-
22 e nel 23 di fatto crollò, stampando moneta in quantità enormi che provocò un crollo del suo valore e un
aumentò vertiginoso dell’inflazione.
Nel 1924 ci fu un primo piano finanziario predisposto da Dawes con cui i capitali statunitensi venivano
inviati in Europa, in particolare nella Germania distrutta dalla guerra, per far ripartire l’economia europea,
siccome di questo ne avrebbero beneficiato l’intera Europa, ma anche l’intera economia capitalistica
mondiale e gli Stati Uniti. Questo Piano Dawes funzionò bene tanto che cinque anni dopo nel 1929 venne
replicato il piano finanziario con il Piano Young che prevedeva ancora una volta l’invio di importanti capitali
statunitensi, in modo che la Germania si potesse rialzare e ripagare le importanti riparazioni economiche,
che vennero inoltre ridotte. Questi piani dimostrarono che ormai gli Stati Uniti erano la più grande potenza
mondiale, la prima per eccellenza. Però pur essendo diventati i più potenti del mondo si rifiutavano di
diventare i banchieri del mondo. In questo modo si arrivò al crollo di Wall Street. Negli Stati Uniti che
crescevano sempre più sul piano economico c’era stata una grande crescita dei mercati finanziari, ovvero
una grande crescita del valore delle azioni delle principali aziende americane che era stata però ben
superiore alla crescita dell’economia reale. Perciò il fatto che il valore in borsa fosse nettamente superiore
al valore reale delle imprese provocò l’esplosione della bolla speculativa. E così nel <<giovedì nero>> della
Borsa di New York (24 ottobre 1929) ci fu il primo crollo della borsa che spiazzò tutti con una grande perdita
di soldi, di risorse e di valore della borsa, alla quale seguì dopo pochi giorni un secondo crollo, nel
<<martedì nero>> (29 ottobre). In questi due crolli ci fu la perdita di un quarto del valore della Borsa di New
York che causò la sua più drammatica crisi nella storia. Perciò tantissimi cittadini che avevano investito
tantissimo i loro risparmi in questo mercato azionario, nel giro di pochi giorni videro ridursi drasticamente i
loro soldi. Ciò causò scene drammatiche, cittadini che si riversarono per strada e iniziarono a protestare. Ad
essere colpita più duramente fu la piccola e media borghesia americana che aveva investito sul miracolo
americano. Si creò quindi una gigantesca crisi del sistema economico americano, cominciarono a fallire le
prime banche e le prime industrie, il lavoro cominciò a scarseggiare, ci furono tassi altissimi di
disoccupazione e un crollo dei prezzi e dei consumi. Si diffuse una situazione di povertà estrema. I capitalisti
americani come prima cosa dovendo salvare sé stessi e la propria economia nazionale, ritirarono i prestiti
per l’Europa e la Germania. L’effetto fu a catena a livello mondiale, soprattutto in Germania e in questo
modo milioni di disoccupati tedeschi andarono ad ingrossare le file del nascente partito nazista. La crisi del
29 gettò quindi definitivamente la Germania nelle braccia del Nazismo. Ovunque ci furono fallimenti ed
iniziò una fase di recessione, caratterizzata da una grande diffusione della disoccupazione e della povertà.

IL NEW DEAL
Una crisi eccezionale come quella del 29 richiedeva delle risposte di carattere straordinario. In tutti i grandi
Paesi del mondo queste risposte furono molto simili. Il significato più profondo di queste risposte fu un
ruolo decisivo dello Stato in campo economico. Era quindi la <<mano pubblica>> che interveniva
pesantemente nei mercati per salvare l’economia, siccome il mercato da solo non riusciva a soddisfare
questi bisogni. Serviva quindi la politica, l’intervento dei governi. Nacque quindi la politica economica
(l’intervento dello Stato in campo economico), in risposta alla crisi del ’29. L’uomo simbolo di questa
risposta fu Franklin D. Roosevelt, il leader dei democratici negli anni 30. Non fu soltanto colui che salvò gli
Stati Uniti dalla crisi del ’29, ma fu anche colui che sconfisse il nazismo durante la Seconda guerra mondiale.
La caratteristica del programma elettorale di Roosevelt fu quella di abbracciare delle teorie economiche
nuove, la Teoria Keynesiana e di realizzare questo nuovo piano che prese il nome di New Deal (Nuovo
patto). Il New Deal non era altro che l’intervento della mano pubblica, un piano straordinario di intervento
pubblico che seguiva queste nuove teorie Keynesiane. Una teoria che rigettava la centralità del mercato e
tutte le teorie economiche precedenti del liberismo. L’idea rivoluzionaria di questa teoria fu quella di
introdurre delle politiche anticicliche (di fronte ad un ciclo economico negativo, la politica doveva assumersi
le sue responsabilità e mettere in atto delle teorie anticicliche, cioè che frenassero la recessione e facessero
cambiare il segno alla crescita economica). Queste teorie anticicliche consistevano nell’espansione della
moneta, quindi, politiche monetarie che permettessero una maggiore circolazione della moneta,
immettendo più soldi all’interno del mercato che avrebbero provocato sì un aumento dell’inflazione, ma
controllato. Accanto a ciò bisognava anche immettere più denaro pubblico attraverso una maggiore spesa
pubblica, che doveva essere concentrata soprattutto nei lavori pubblici. In questo modo con più soldi in giro
a favore delle imprese queste potevano riprendere a produrre e a fare profitti, che avrebbero provocato un
miglioramento dei salari dei lavoratori, che avrebbero portato un aumento dei consumi per cui le aziende
avrebbero potuto collocare più facilmente i loro prodotti all’interno del mercato. Si innescava così un
circolo virtuoso: agendo sulla leva monetaria e sulla spesa pubblica avrebbe portato ad una ripresa dei
consumi, della produzione, dei salari e dei profitti. Roosevelt si presentò con il famoso programma dei
cento giorni (oggi lo sentiamo spesso ripetere dai politici italiani) e nei primi cento giorni Roosevelt svalutò
il dollaro in modo da poter fare ripartire l’economia americana, stabilì che chi aveva debiti per un
determinato periodo di tempo poteva smettere di pagarli e insieme a questa politica monetaria cominciò a
far partire una politica di lavori pubblici, che significava far si che il governo decidesse un imponente ciclo di
investimenti pubblici per la costruzione di infrastrutture, strade, ferrovie, ponti.
A tutto ciò si affiancarono anche delle politiche del lavoro molto importanti che per la prima volta
permettevano agli Stati Uniti di creare un vero e proprio sistema di relazioni industriali. In particolar modo
due provvedimenti nel 1933 e nel 1935 in cui si introduceva questo sistema di relazioni industriali
attraverso la contrattazione collettiva tra i rappresentanti dei lavoratori e i rappresentanti delle imprese.
Questa contrattazione doveva favorire una crescita dei salari e in cambio le imprese avrebbero ottenuto
una crescita della produttività. Siamo quindi nel pieno di quello che abbiamo chiamato uno schema di
corporatismo pluralista, per cui una triangolazione tra il governo, i lavoratori e il capitale che permise una
ripresa dell’economia americana, che non tornò comunque ai livelli precrisi, almeno fino alla Seconda
guerra mondiale.
Quasi tutte le potenze mondiali risposero a questa crisi nello stesso modo in cui aveva risposto Roosevelt,
vale a dire con un maggiore intervento dello Stato nell’economia, sviluppando la contrattazione collettiva.
Per modello scandinavo o svedese si intende il peculiare sistema socioeconomico affermatosi
progressivamente in Svezia e negli altri Paesi nordici. Questo sistema intende proteggere i propri cittadini
durante l'intero arco di vita, attraverso uno stato sociale equo ed efficiente che garantisca un livello elevato
di qualità della vita ed un livello elevato di protezione sociale; tale spesa è sostenuta tramite una elevata
contrattazione collettiva tra imprenditori e sindacati e una corposa tassazione, pur in contesto di mercato
fortemente liberalizzato e disintermediato dallo Stato.
Con il modello svedese si cominciò a realizzare quello che diventerà poi il Welfare State (Stato sociale)
nell’Inghilterra della Seconda guerra mondiale. L’intuizione di Lord Beveridge con la sua Social Insurance fu
di unificare in un unico sistema statale (con una forte gestione della mano pubblica) tutto quello che poteva
essere definito Welfare State. In un unico sistema di sicurezza sociale vi rientrarono sia le pensioni, sia
l’assistenza sanitaria e tutte quelle forme di assistenza delle categorie più svantaggiate, come potevano
essere i disoccupati e le donne in maternità. Da questo rapporto venne fuori un vero e proprio piano, il
piano Beveridge che venne applicato per la prima volta in Gran Bretagna nel 1945. Lo stato si sarebbe
occupato di proteggere i propri cittadini "dalla culla alla tomba", cioè durante l'intero arco di vita del
benessere sociale.
Questa soluzione di maggior intervento dello Stato in campo economico non fu una prerogativa soltanto
delle democrazie, ma anche delle grandi dittature. La crisi del ’29 portò ad una tale caduta economica oltre
che politica nella Germania di Weimar che di lì a due tre anni la politica di Weimar crollò sotto i colpi e le
violenze del nazismo. Hitler andò al potere nel 1933 e di fronte alla situazione economica drammatica fece
in parte la stessa cosa che si fece nelle grandi democrazie, ma trattandosi di una dittatura, il metodo era lo
stesso, ma gli obiettivi erano diversi. Nel caso delle democrazie si cercava un benessere economico, ma
anche un benessere della cittadinanza. Hitler non aveva alcun interesse sociale, ma voleva mettere in piedi
delle vere e proprie politiche di riarmo per espandersi e riconquistare ciò che si era perso con il trattato di
Versailles. Perciò milioni di cittadini tedeschi disoccupati vennero reimpiegati nelle industrie belliche
tedesche. Anche in Italia si fece la stessa scelta bellica del nazismo, non a caso il fascismo italiano
rappresentò una sorta di modello per Hitler. Infatti, l’Italia per uscire dalla crisi, oltre alle tante cose che
mise in campo ci fu anche una politica imperialista verso l’estero, da qui la famosa guerra di Etiopia del
1935 che permise all’Italia di avere una nuova colonia. In Italia c’era lo slogan tipico dell’ideologia fascista
che era lo slogan della terza via: né capitalismo, ne socialismo, ma il corporativismo <<latino>>. In realtà
questo pensiero rimase un pensiero piuttosto debole e l’Italia rimase pienamente all’interno di un quadro
di economia capitalistica.
Chi invece uscì da un sistema economico capitalista fu l’Unione Sovietica di Stalin. Da un punto di vista
economico il comunismo sovietico significò due grandi cose:
 la collettivizzazione agricola forzata: venne abolita la proprietà privata e nacquero grandi aziende
pubbliche. I Kulaki erano i contadini che vivevano in una situazione di maggiore agiatezza rispetto ai
contadini più poveri. Stalin colpì duramente questi kulaki, eliminandoli anche fisicamente o
inviandoli nei campi di lavoro forzato, i Gulag, dove spesso trovavano la morte, date le condizioni di
lavoro estreme.
 Pianificazione industriale: l’URSS voleva imporsi come grande stato industriale e per fare ciò
dovette potenziare fortemente la produzione industriale. Ciò avvenne con due piani quinquennali e
nel giro di soli dieci anni l’URSS venne trasformato da paese agricolo povero in una grande potenza
industriale e militare.

LA POLITICA ECONOMICA DEL FASCISMO


Sul piano economico anche la Gran Bretagna soffri notevolmente i grandi effetti della crisi del ’29. Questo si
notò nella scelta molto sofferta, per il prestigio inglese, della svalutazione della sterlina che fino a pochi
anni prima era la moneta di riferimento di tutti gli scambi commerciali, ma che dovette cedere lo scettro
della moneta principale commerciale al dollaro statunitense. Questa caduta della sterlina pose fine a quel
sistema del Gold Exchange standard.
Anche l’Italia visse i suoi momenti duri dovuti alla crisi del ’29, dove il fascismo era ormai in piedi da molti
anni ed era diventato un vero e proprio regime totalitario, che si poneva l’obiettivo di esercitare un
controllo totale sulla popolazione, che non erano più cittadini ma sudditi. Per realizzare questo potere
assoluto si ricorse al monopolio della forza e della comunicazione (i media: giornali, cinema, radio, rai).
Questa svolta totalitaria si ebbe nel biennio di leggi fascistissime tra il 25 e il 26 e completata con la legge
che proclamava il gran consiglio del fascismo, una sorta di organo direttivo costituzionale e con la firma dei
patti lateranensi nel 1929 con la chiesa, in cui la religione cattolica veniva riconosciuta come religione
ufficiale dello stato. Nella seconda metà degli anni 20, dopo anni di grande crescita economica, l’Italia visse
la prima crisi economica importante, la crisi di <<quota 90>> (90 era il valore della lira italiana in cambio di
una sterlina. Per avere una sterlina inglese occorrevano 90 lire italiane). Questa fu una scelta del fascismo
che per avere una moneta forte (visto che prima valeva 153) e quindi un paese stabile e di prestigio che
potesse attrarre più capitali dagli altri paesi volle rivalutare la moneta. Il problema fu che il costo
economico e sociale fu pagato. Fu pagato attraverso la restrizione del credito (far circolare meno moneta
nel paese) che provocò una caduta dei prezzi che portò una prima recessione dell’economia e una
diminuzione dell’export italiano e delle importazioni. Tutto questo fu anche accompagnato da una
riduzione dei salari. Questa crisi fu particolarmente dura per i settori tradizionali dell’industria, come il
tessile e l’abbigliamento che furono protagoniste di una serie di critiche. In risposta a queste critiche,
Mussolini ridusse i salari di tutti i settori produttivi italiani del 20/30%. Quindi questa crisi di quota 90 fece si
che quando scoppiò la crisi del 29 l’Italia si trovava in situazioni economiche già particolarmente critiche,
che aumentò con il fallimento delle banche e delle industrie e con la diminuzione della produzione
industriale del 25%. Il primo grande provvedimento che venne preso nell’Italia della grande crisi fu la
costituzione dell’IMI (Istituto Mobiliare Italiano) nel 1931. L’obiettivo fu quello che venne ricercato anche
negli altri paesi, ovvero quello di salvare le principali banche. Vennero infatti salvate le tre principali banche
italiane. Due anni dopo la nascita dell’IMI ci fu un altro grande provvedimento, forse il più importante del
fascismo, la nascita dell’IRI (Istituto per la Ricostruzione Industriale). Con la nascita dell’IRI nasceva lo Stato
imprenditore, quindi, anche lo stato assumeva i panni dell’imprenditore. Nel giro di pochi mesi lo stato finì
per controllare circa il 20% dell’industria italiana e indirettamente un altro 20%. Lo Stato divenne
proprietario dell’Ansaldo, dell’ILVA, delle acciaierie di Terni, entrò nel settore delle comunicazioni, ecc.
tutto ciò dette vita ad un nuovo regime di economia <<mista>>, in cui accanto alle aziende private come la
Fiat, vi erano le aziende pubbliche dello Stato. All’interno dell’Iri si formò una nuova classe dirigente, molto
tecnica e poco politica. il terzo grande provvedimento dopo l’IMI e l’IRI riguardò ancora una volta il sistema
creditizio e fu la legge bancaria del 1936 che stabiliva due grandi novità:
 un grande accentramento del potere nelle mani della Banca d’Italia, che divenne l’unico istituto
pubblico a poter emettere moneta.
 la fine delle <<banche miste>>. Bisognava tornare alla logica delle specializzazioni delle banche
secondo cui ogni banca si specializzava su un determinato ambito.
Le imprese private dovettero un po’ cavarsela da sole e approfittarono della crisi per ammodernarsi,
modernizzando le proprie tecnologie e i propri macchinari, in modo da poter riprendere vigore una volta
terminata la crisi.
Per quanto riguarda la politica agricola, il fascismo decise di difendere i produttori di grano attraverso alti
dazi. Ma di fatto il fascismo non riuscì a risolvere quei problemi che l’Italia si portava dietro fin dalla sua
unificazione, come la questione meridionale e il problema nelle campagne del latifondo che impediva una
trasformazione agraria dal punto di vista capitalistico. Ci fu un importante novità che fu la questione delle
bonifiche, molti terreni vennero bonificati ed affidati alla coltivazione. Il problema fu che fino a quando la
bonifica rimase nelle mani dello Stato funzionò molto bene, ma quando dagli anni 30 passarono nelle mani
dei privati la situazione cambiò e si fermò.
Negli anni 30 in seguito alla crisi economica, la leva utilizzata dai governi per rialzarsi sul piano dei consumi,
fu la leva della spesa pubblica, che aumentò anche se non in maniera evidente come negli altri paesi. Ci
furono tanti interventi, ma mancò una visione organica che permettesse al paese di superare i problemi
economici. Esempi di spesa pubblica:
 politiche sociali e assistenziali (assegni famigliari soprattutto).
 politica sanitaria (costruzioni di strutture sanitarie PRIVATE).
 politica educativa (riforma Gentile che innalzò l’obbligo scolastico a 14 anni e diede più soldi alle
scuole).
 i lavori pubblici (sicuramente la voce più importante: costruzione di intere città, riorganizzazione di
centri storici e urbani, costruzione di strade e ferrovie).
 le spese militari (il grosso della spesa pubblica venne indirizzato soprattutto nelle spese militari),
permise la conquista dell’Etiopia anche se questa colonia dal punto di vista economico non portò
alcun vantaggio.
La campagna di Etiopia portò all’Italia delle sanzioni internazionali stabilite dalla Società delle Nazioni, in
quanto aveva aggredito un paese membro della Società delle Nazioni. Di fronte a queste sanzioni, il
fascismo decise di interrompere i rapporti commerciali con i paesi stranieri. Quindi l’import e l’export si
rivolse solo a paesi alleati come la Germania. Venne quindi lanciata la parola d’ordine di autarchia, che però
fu un vero e proprio bluff, siccome l’Italia, priva di materie prime doveva per forza importare dall’estero.
Ciò che fu evidente in campo economico in quegli anni fu il fallimento del sistema corporativo. Le
corporazioni vennero costituite intorno al 1934. Erano dei raggruppamenti che tenevano insieme i
rappresentanti dei lavoratori, delle imprese e dello Stato, ma non ebbero nessun peso e nessun potere sul
campo economico. Furono dei semplici organi consultivi senza poteri decisionali.
Facendo un bilancio della situazione economica italiana dopo la crisi del ’29, i dati mostrano come la
crescita economica fu molto ridotta, quasi stagnate, il PIL crebbe di un ritmo dell’1% all’anno, quindi, molto
poco e molto meno degli altri paesi, l’occupazione si mantenne piuttosto stabile. Un aspetto positivo nel
1938 fu il sorpasso dell’industria sull’agricoltura, trasformando l’Italia in un Paese industriale-agricolo. Vi fu
inoltre una nuova geografia industriale: il triangolo industriale mantenne la sua centralità, ma altre zone del
paese videro nuovi insediamenti industriali molto importanti sia al nord che al sud. Ci fu anche una sorta di
cambiamento degli equilibri interni al mondo industriale: si ebbe un passaggio dell’epicentro industriale del
paese dalla Liguria alla Lombardia, dove stavano nascendo e crescendo nuovi poli industriali. La Fiat rimase
però sempre sulla cresta dell’onda in qualsiasi periodo e situazione.
Alla fine degli anni 30 l’evento più importante per le sorti del fascismo fu l’alleanza con Hitler e la Germania
nazista, che iniziò nel ‘36 con il famoso Asse Roma-Berlino finalizzandosi nel ‘39 con la firma del Patto
d’Acciaio (patto militare). Il 1° settembre del 1939 con l’attacco della Germania alla Polonia ci fu lo scoppio
della Seconda guerra mondiale. L’Italia arrivò totalmente impreparata alla guerra, dopo la campagna in
Etiopia. Fece quindi la scelta della non belligeranza e poi nel 1940 quando sembrava che la guerra stesse
per finire con la grande vittoria tedesca, fece la scelta di dichiarare guerra alla Francia e di entrare a tutti gli
effetti all’interno della guerra mondiale. Il problema fu che la guerra non finì e iniziò quindi il disastro
italiano. In corrispondenza di una lunga serie di sconfitte militari, iniziarono anche i bombardamenti sulle
città italiane, che causarono oltre che a moltissime vittime anche un crollo economico (perdita di materie
prime, blocco del commercio, crollo della produzione industriale, aumento delle divisioni sociali). Si iniziò
così a spargere il pensiero che il fascismo non aveva più futuro e si iniziò a preparare una via di fuga nel
‘42-‘43

IL LAVORO OPERAIO DURANTE IL FASCISMO


La classe operaia durante il fascismo, Sapelli: il fascismo mostrò un regime di elevata omogeneità politica,
ma di bassa omogeneità sociale. Il fascismo fu una dittatura di classe, dato il legame molto stretto con la
borghesia, in particolare l’alta borghesia. Questa definizione è però troppo riduttiva, siccome il fascismo
non fu semplicemente il regime della borghesia, fu certamente usato dalla borghesia per affermare il
potere sui ceti popolari, ma furono proprio le masse stesse che decisero di seguire il fascismo, che più che
una dittatura può essere definito come un regime reazionario di massa. Il consenso popolare ci fu negli anni
centrali della dittatura (20/30) e si ebbe soprattutto in una fascia sociale ben precisa, i ceti medi: lavoratori
pubblici, impiegati dello stato, i contadini, piccoli proprietari terrieri, piccoli artigiani, commercianti. I ceti
medi che dopo la guerra avevano vissuto la paura di finire in un processo di proletarizzazione, quindi di
impoverimento crescente, ma il fascismo era riuscito a bloccarlo. L’atteggiamento operaio nei confronti del
regime non fu né totalmente passivo e rassegnato ne può essere definito un’avanguardia pronta a
combattere contro il regime. La categoria di <<anomia>> è quella categoria che definisce la classe operaia
durante il fascismo, una classe caratterizzata dall’accettazione della realtà delle cose, in attesa che queste
cose potessero cambiare.
Operai e nazione De Bernardi: durante la Prima guerra mondiale ci fu un grande processo di cambiamento
economico che portò ad una maggiore razionalizzazione produttiva all’interno delle fabbriche con l’arrivo
del taylorismo. Questa razionalizzazione portò la dequalificazione degli operai. Quando il fascismo prese il
potere cercò di realizzare processi di integrazione delle masse soprattutto per la classe operaia. Durante il
fascismo ci fu però un evidente peggioramento delle condizioni di lavoro della classe operaia, con
l’aumento della libertà di licenziamento, una drastica riduzione dei salari, un aumento dei tempi, dei ritmi e
dei carichi di lavoro.
Il taylorismo arrivò in Italia negli anni 20 durante il fascismo contribuì fortemente a peggiorare le condizioni
di lavoro. Il più grande cambiamento che si associò a questa grande trasformazione dell’organizzazione del
lavoro fu il sistema Bedaux. Il Bedaux era un tipo particolare di cottimo, ovvero quel tipo di paga che non si
basava sulla quantità di tempo che si lavorava in fabbrica, ma si basava sul rendimento dei lavoratori quindi
sulla quantità di prodotto che veniva realizzato. L’incontro del cottimo con il taylorismo produsse il sistema
Bedaux che funzionava così: veniva calcolata dai tecnici una quantità di lavoro che veniva prodotta in
condizioni normali da parte dell’operaio. Un operaio in un minuto produceva una quantità X che veniva
chiamata Bedaux. Quindi se un minuto corrispondeva ad un Bedaux, un’ora di lavoro corrispondeva a 60
unità Bedaux. Se nel corso di un ora l’operaio riusciva ad ottenere un punteggio superiore ai 60 Bedaux,
avrebbe ottenuto una maggiorazione salariale, che non sarebbe però stata data tutta nelle mani del
lavoratore, ma solo il 75% siccome il restante 25% si doveva spartire agli altri membri della squadra in
particolare ai capi reparto di un particolare settore. Questo sistema divenne subito un sistema
particolarmente brutale di sfruttamento del lavoro. Prima le politiche di cottimo erano decise direttamente
dagli operai che decidevano la tariffa giusta per le ore di lavoro svolte, con l’arrivo del taylorismo tutte
queste libertà svanivano. Questo sistema venne applicato per la prima volta in Italia nella Fiat. Nel 1932 con
un contratto nazionale si decise di applicare il sistema Bedaux a tutte le industrie metalmeccaniche.
Iniziarono così una serie di proteste contro questo sistema che portarono lo Stato fascista nel 1934 ad
intervenire. Venne così cancellato quel 25% di paga destinata ingiustamente ai capi reparto e così i 100%
della maggiorazione finiva nelle tasche del lavoratore. A parte questo cambiamento il sistema Bedaux non
venne toccato e continuò anche dopo la Seconda guerra mondiale.
Il paternalismo era quella forma di organizzazione dell’impresa in cui l’imprenditore tendeva a comportarsi
e a fornire la sua immagine come se fosse il padre di famiglia di tutta quanta l’impresa. E tutte le figure e i
ruoli di lavoratori che vi erano all’interno era come se facessero parte della famiglia. E così come accade in
una famiglia, che ci devono essere regole e piani da seguire, la stessa cosa doveva succedere all’interno
dell’azienda. Il paternalismo nasce con la rivoluzione industriale nell’800, ma non era altro che il tentativo
di educare e di imporre la disciplina corretta all’interno dei luoghi di lavoro per lavoratori che non avevano
mai visto un’azienda e venivano dai campi. Nel ‘900 dopo la crisi del ’29, cambiò il paternalismo, che non
era solo più un sistema di regole rigide ed autoritarie, ma fu un vero e proprio sistema di riorganizzazione
aziendale, proprio perché la crisi diffuse un vero e proprio bisogno di innovazione, dovuto all’introduzione
del taylorismo. il paternalismo aveva anche una faccia buona e positiva per gli operai a cui venivano
concesse una serie di politiche aziendali di carattere sociale, che potevano riguardare un’assistenza di tipo
sanitario, un’assistenza nella ricerca di un’abitazione, un aiuto per i figli dei dipendenti nelle scuole.

IL SINDACATO FASCISTA
L’unica organizzazione dei lavoratori consentita ai tempi della dittatura fascista fu il sindacato fascista. Per
studiare le origini del sindacato fascista bisogna risalire al 1914 l’anno in cui l’USI si spaccò in due. Una delle
due parti, i sindacalisti rivoluzionari interventisti furono il nucleo originario che andò a formare il sindacato
fascista. Questo nucleo di sindacalisti nel 1918 decise di dare vita ad un proprio sindacato, la UIL, che si
spezzò subito in due, da una parte gli antifascisti e dall’altra coloro che consideravano preminenti gli
interessi della nazione su quelli delle singole persone o di un gruppo di persone come potevano essere gli
operai. Dall’incontro di un pezzo del sindacalismo rivoluzionario fascista, un pezzo del sindacalismo
autonomo economico (colore che si preoccupavano solo dell’aspetto economico del sindacalismo e non di
quello politico) e l’insieme degli ambienti nazionalisti venne fuori il nucleo del sindacalismo fascista. La
Confederazione nazionale dei sindacati fascisti nacque nel 1922. Il capo del nuovo movimento sindacalista
appoggiato dal partito unico fascista di Mussolini fu Edmondo Rossoni, che si pose un obiettivo principale,
quello di dare vita al fenomeno di <<sindacalismo integrale>>, ovvero di inserire all’interno di uno stesso
nucleo sindacale tutti i rappresentanti delle imprese. Questo modello di Rossoni non si riuscì a realizzare, a
causa delle forti resistenze della Confindustria. Si arrivò alla firma del patto di Palazzo Chigi nel 1923 con il
quale iniziava una stretta collaborazione tra la Confindustria e il mondo dei sindacati fascisti, ma il disegno
di sindacalismo integrale di Rossoni in realtà non andò a compimento. (Nel dicembre del 1923 venne siglato
a Palazzo Chigi un patto tra Confederazione nazionale delle Corporazioni sindacali e Confindustria, in cui si
affermava la volontà di entrambi di impegnarsi alla reciproca collaborazione tra industriali e lavoratori, evitando
di esasperare il conflitto di classe, che ebbe però più un effetto positivo nei confronti delle prossime elezioni
del 1924 che uno pratico nell'azione rossoniana. In quest'ottica appare anche la mozione del Gran Consiglio del
Fascismo del 15 novembre 1923, con la quale si riconoscenza che la maggioranza degli industriali faceva parte di
Confindustria, della quale si riconosceva così indirettamente l'indipendenza).
Dopo il caso Matteotti anche i sindacalismi fascisti iniziarono alcune forme di protesta contro gli industriali, ma
mai contro lo Stato fascista. Tutto questo fino a quando Mussolini decise di ridimensionare il sindacato unico
fascista con il patto di Palazzo Vidoni (pag. 41 DAL BIENNIO NERO ALLA DITTATURA FASCISTA) e con la Legge
Rocco (stessa pagina). Il sindacato fascista divenne quindi l’unico sindacato nel 1926 riconosciuto dalla
legge. A sancire questo riconoscimento arrivò nel 1927 un documento essenziale nell’ideologia sindacalista
che fu la Carta del Lavoro, nella quale vi erano tutti i principi fondamentali dell’ideologia sindacale fascista.
All’interno di questa carta si parlava della centralità del lavoro all’interno del fascismo per il benessere
primario della nazione e l’importanza del sistema corporativo, organismi che avevano al loro interno
rappresentanti del lavoro, delle imprese e dello stato finalizzati alla collaborazione e alla contrattazione.
Nonostante ciò, gli eventi per il sindacato fascista presero subito una piega negativa. Il simbolo per
eccellenza di questa parabola negativa fu nel 1928 il provvedimento dello sbloccamento confederale, il
tentativo di indebolire il sindacato fascista che veniva perciò smembrato in 13 organizzazioni, che
divennero poi 6 rispetto all’unica precedente. Un’altra azione fu la riforma di collocamento, che istituiva il
collocamento pubblico, che significava che il collocamento spettava direttamente ai ministeri del lavoro e al
governo (il collocamento veniva perciò allontanato dalle mire dei sindacalisti). Il terzo provvedimento che
segno la fase negativa del sindacato fascista fu il passaggio del controllo dell’Opera nazionale dopolavoro
nelle mani del partito. Quest’opera era un organismo di massa che inquadrava e controllava i lavoratori
fuori dagli orari di lavoro. Tutto ciò aggravò ulteriormente le condizioni già tragiche dei lavoratori che non
avevano più un sindacato sul quale fare affidamento. Nonostante ciò, ci furono durante il fascismo alcuni
elementi di modernizzazione, come la contrattazione collettiva nazionale di lavoro (ancora oggi molto
importante) (il primo contratto collettivo nazionale fu quello dei metalmeccanici del 1928) e
l’ufficializzazione di quattro categorie di lavoratori operai (in ordine di importanza: operai specializzati,
operai qualificati, manovali specializzati e manovali comuni).
Dal 1934 iniziò una lenta stagione di ripresa sindacale che portò a cogliere alcuni importanti risultati.
All’interno del sindacato cominciava ad assumere un peso sempre più forte il mondo delle Federazioni di
categoria, siccome venne stabilito che il potere di contrattazione collettiva non sarebbe più appartenuto
alle grandi confederazioni, ma alle Federazioni di categoria. Il secondo fondamentale passaggio che segnò
la ripresa del mondo sindacale fu l’accordo interfederale Cianetti-Pirelli, con il quale lavoratori ed imprese
si accordarono affinché l’orario di lavoro settimanale scendesse dalle 48 ore alle 40. Un altro aspetto di
modernizzazione fu il varo degli assegni famigliari che spettavano ai lavoratori con figli. Nel 1937 ci fu la
firma di un importante contratto collettivo nazionale, dedicato alla categoria degli impiegati dell’industria
di tutti i settori. Ultima grande conquista per il sindacato fascista fu la ripresa del controllo sul
collocamento e sul dopolavoro. Un’ultima importante conquista fu l'istituzione dei fiduciari di fabbrica
cioè di quella figura che avrebbe dovuto trattare i rapporti sindacali interni alle fabbriche e mantenere i
contatti con le stesse.

ANTIFASCISMO, SINDACATO E CAMPI DI LAVORO


L’ultimo momento di convergenza antifascista prima dell’impianto del regime totalitario si ebbe nella
stagione della crisi Matteotti quando si dette vita al Comitato di difesa intersindacale che comprendeva la
CGdL, la UIL, l’USI e per la prima volta anche la CIL (cattolici) che fino a quel momento era stata fuori dal
movimento antifascista. Il problema fu che era troppo tardi e il 1925 fu l’anno della svolta, l’anno in cui
vennero emanate le leggi fascistissime con cui nacque lo stato totalitario fascista. Fu anche l’ultimo anno in
cui si ebbero nel paese degli scioperi e l’ultimo anno delle elezioni delle commissioni interne, ovvero dei
rappresentanti degli operai nelle fabbriche (l’ultima si tenne proprio nel 1925). Mussolini accortosi della
pericolosità delle commissioni e dei sindacati storici eliminò entrambi. Il caso della CGdL fu il più
interessante, innanzitutto, perché era il sindacato più importante e seconda cosa perché di fronte
all’eliminazione delle libertà sindacali si divise in due organizzazioni:
 CGdL riformista, strettamente collegata al mondo socialista che scelse la strada dell’esilio,
emigrando in Francia
 CGdL comunista, che scelse la strada della clandestinità e della resistenza interna nei confronti della
dittatura fascista
 Vi era poi un terzo troncone che fu l’Associazione Problemi del Lavoro (o meglio Associazione
nazionale di studio Problemi del Lavoro) che nacque nel 1927 quando si sciolse la CGdL e si divise in
due parti. Questa associazione di studio poteva essere tollerata dal regime siccome si limitava a
studiare. Aveva una propria rivista. La sua funzione era quella di convivere con il fascismo,
studiandolo da un punto di vista del lavoro e ipotizzando forme di collaborazione con il regime
Il periodo fra la fine degli anni ’20 e l’inizio degli anni ’30 fu il più difficile per gli antifascisti per diversi
motivi. Innanzitutto, la crisi economica del ’29 e successivamente il raggiungimento del picco del consenso
da parte del fascismo.
Spostandoci sulle sinistre, lo stalinismo ebbe il periodo più buio, quando Stalin impose a tutti i comunisti a
livello internazionale la teoria del socialfascismo, secondo la quale i socialisti erano uguali ai fascisti in
quanto entrambi erano succubi di un sistema borghese. Iniziò quindi uno scontro feroce che portò
all’eliminazione fisica dell’opposizione interna sia di destra che di sinistra nel caso della Russia. Lo stesso
accadde in Italia con i comunisti clandestini che tentarono alcune eliminazioni politiche (non fisiche come in
Russia) a destra e a sinistra. Questa formazione politica sarebbe stata quella che nel dopoguerra avrebbe
ottenuto la maggioranza dei consensi tra i lavoratori italiani a livello sindacale. Il punto forte dei comunisti
era la democrazia, siccome tennero sempre legami stretti con i lavoratori. Talmente stretti erano questi
legami che i comunisti clandestini cercarono di entrare in contatto con i lavoratori fascisti e fraternizzare
con loro, per potere avere accesso alla società di massa. Questa fu una posizione che frutto molto ai
comunisti che nel giro di pochi anni avrebbero ottenuto il consenso.
In Francia, il fronte popolare composto da comunisti, socialisti, radicali, liberali e cattolici progressisti,
ovvero dagli antifascisti, nel 1936 avvenne un incontro molto importante tra Buozzi (socialista segretario
della CGdL riformista) e Di Vittorio (comunista segretario della CGdL comunista) durante il quale venne
sottoscritto un documento <<Piattaforma d’azione della CGdL unica>> che rappresento l’inizio di un
percorso unitario tra socialisti e comunisti anche se non subito facile. Solo durante la Seconda guerra
mondiale, l’unità si sarebbe allargata anche ai cattolici.
Dopo la consacrazione dell’asse Roma Berlino del 1936, a partire dal ’37 iniziò anche l’invio di lavoratori
italiani in Germania, fenomeno molto significativo dal punto di vista storico. Si trattava di un invio
volontario di lavoratori che in Germania percepivano salari molto più elevati. L’inizio della seconda guerra
limitò l’invio di questi lavoratori che servivano alle fabbriche italiane per sostenere lo sforzo bellico.
All’inizio della guerra l’Italia dichiarò uno stato di non belligeranza, siccome terminata da poco la campagna
in Etiopia non era pronta a sostenere uno sforzo bellico importante, entrando in guerra solo un anno dopo
nel 1940, intravedendo l’occasione di una guerra breve a fianco della Germania che le avrebbe permesso di
sedere al tavolo dei vincitori. La cesura avvenne l’8 settembre del 1943. Infatti, nel 1943 il Gran consiglio
del fascismo, divenuto un organo costituzionale, aveva votato contro Mussolini per l’andamento disastroso
della guerra. Questo portò il Re ad arrestare Mussolini e a sostituirlo con Badoglio che l’8 settembre firmò
l’armistizio con gli americani e gli inglesi. Il rapporto con la Germania, di conseguenza, peggiorò ed ebbe
delle ripercussioni anche sugli italiani che erano nel paese nazista (circa un milione tra lavoratori e soldati).
Molti di questi italiani vennero deportati nei campi di lavoro e nei campi di sterminio.
Il campo di lavoro di Starachowice fu in funzione per due anni. Sorse vicino ad un ghetto ebraico composto
da 4000 ebrei. 100 di questi tra cui anziani e bambini vennero subito eliminati, 4000 vennero mandati nei
campi di sterminio, i restanti 1500 circa vennero mandati nel campo di lavoro di Starachowice. Qui gli ebrei
venivano spremuti di ogni energia durante il lavoro nei campi di concentramento, fino alla loro morte.
Molte imprese sfruttarono il lavoro degli ebrei.

GLI SCIOPERI OPERAI DEL 1943-45


Claudio Pavone, Una guerra civile. Saggio sulla moralità della Resistenza: presenta una tesi innovativa
secondo cui la guerra di Resistenza fu una guerra civile (combattuta dai cittadini di uno stesso paese) tra
due minoranze di italiane, una di fascisti e l’altra di antifascisti con in mezzo la larga parte di popolazione
definita come zona grigia, in quanto non aveva avuto il coraggio di schierarsi su uno dei due fronti. In
questa guerra prevalsero poi le forze antifasciste. Durante questa Resistenza non si combatté una sola
guerra, ma ben tre diverse:
 La guerra civile, già citata.
 La guerra di liberazione nazionale, combattuta dagli italiani antifascisti per la liberazione nazionale
contro gli stranieri, in particolare i tedeschi. A combattere questa guerra fu soprattutto l’esercito e
le forze politiche di orientamento liberale.
 La guerra di classe tra proletariato e borghesia, soprattutto quella parte della borghesia che aveva
sostenuto i fascisti.
Durante la guerra a causa delle disastrose condizioni di vita e di lavoro tra la popolazione, iniziò a
diffondersi un certo malcontento, di fronte al quale il fascismo cercò di rimediare con la firma di tre accordi
interconfederali tra sindacato fascista e Confindustria nel 1941 con i quali il fascismo decideva di stanziare
un premio: decise di raddoppiare gli assegni famigliari e di istituire la Cassa integrazione guadagni (la
garanzia di mantenere il proprio lavoro e di non essere licenziati e di ricevere una integrazione ai propri
guadagni. Si riceve una quota del salario anche quando non si lavora.). nel 1942 Mussolini promise nuovi
premi che non arrivarono mai e alimentarono ulteriormente il malcontento. Gli scioperi scoppiarono nel
1943 e il primo stabilimento a muoversi fu la Fiat di Torino. Le motivazioni erano di carattere economico, si
voleva il pane, un aumento dei salari, si voleva salvaguardata la propria abitazione contro i rischi di
bombardamenti. Questi scioperi andarono avanti per alcuni giorni, dopo i quali presero a scioperare anche i
lavoratori di Milano, che spostarono l’epicentro degli scioperi dal Piemonte alla Lombardia. Un terzo
momento riguardò gli stabilimenti di Biella in Piemonte, dove ci fu l’appendice finale di questi scioperi. Se
le motivazioni degli scioperi furono economiche, gli esiti furono politici, in quanto involontariamente
rappresentarono una sorta di atto di accusa contro il regime, anche da parte dei comunisti che vi
partecipavano. Caduto Mussolini, il commissario dei sindacati industriali Bruno Buozzi e il capo della nuova
Confindustria firmarono un accordo che ripristinava nelle fabbriche italiane le Commissioni Interne.
L’accordo concedeva inoltre alle Commissioni Interne il potere di contrattare all’interno delle fabbriche.
Nel 1943 a Roma nasce il Cln, il Comitato di liberazione nazionale, composto da sei partiti politici antifascisti
(democrazia cristiana, partito socialista e partito comunista erano tre di questi). Con il Cln nacquero anche
le prime bande di partigiani che portavano avanti la guerra contro il fascismo. Con l’inizio della Resistenza
nel 1943 ripresero vigore gli scioperi operai. Nel frattempo, Mussolini era stato fatto liberare da Hitler e la
risposta dei fascisti e dei nazisti a questa resistenza e a questi scioperi fu molto dura. Nel febbraio del 1944
ci fu l’episodio più clamoroso nella storia della resistenza italiana in rapporto al mondo del lavoro, lo
sciopero generale italiano organizzato dal Cln, durato per circa una settimana, contro il fascismo. Durante
questo sciopero emerse clamorosamente il ruolo dei comunisti all’interno della resistenza. I numeri di
questo sciopero furono elevatissimi e compresero quasi tutte le regioni italiane e moltissimi settori
industriali. Ancora una volta la reazione nazista e fascista fu particolarmente spietata, molti lavoratori
vennero arrestati e deportati nei campi di concentramento. La stessa fine fecero gli operai di Genova che
una settimana dopo il grande sciopero iniziarono uno sciopero cittadino. Questo avvenimento viene
ricordato ancora oggi siccome si tratto della più grande deportazione operaia durante la guerra di
resistenza. Questi scioperi delle un grande slancio al movimento di resistenza, che aveva ottenuto un
grande sostegno sul piano sociale e non solo più su quello politico antifascista. Iniziarono ad essere liberati
alcuni territori, dove si insediarono delle vere e proprie repubbliche partigiane. Accordi della Montagna: il
caso di Biella (parità salariali tra uomini e donne nei lanifici di Biella).
Nella primavera del 1945 ci fu uno sciopero generale che finì per diventare un vero e proprio sciopero
insurrezionale. Il Cln non chiama solamente a scioperare, ma chiede l’insurrezione finale contro il fascismo.
Lo sciopero durò una settimana e si chiuse il 25 aprile con la liberazione delle grandi città del Nord
(soprattutto Genova Milano e Torino) e quindi con la liberazione dell’intero paese dal nazifascismo.
Durante questo sciopero insurrezionale venne fuori tutta l’intelligenza e la creatività dei lavoratori. Le
fabbriche ripresero infatti a produrre, in particolare armi, ma questa volta non più per i fascisti, ma per le
forze partigiane. Gli operai difesero con la vita le fabbriche, di fronte alle incursioni fasciste, per salvare le
macchine e la produzione. Ci furono infatti molti episodi di vendetta e di grande violenza sia operaia che
fascista.

L'ETÀ DELL'ORO IN OCCIDENTE


Il trentennio successivo alla grande guerra fu un periodo di grande floridezza e ricchezza fino alla grande
crisi economica scoppiata prima del 1975. All’interno di questa Golden Age si situa il <<miracolo
economico>> in Italia, il boom economico.
L’età dell’oro riguardò soltanto una parte del pianeta, l’occidente. La grande coalizione antifascista
mondiale che sconfisse il fascismo e il nazismo durante la guerra mondiale, dopo il conflitto durò solo pochi
mesi, dando vita al fenomeno della guerra fredda, ovvero della contrapposizione tra ovest ed est. Il mondo
si divise in due non solo sul piano territoriale, ma anche su quello economico (capitalismo e comunismo) e
politico (democrazia e dittatura del proletariato). In questo boom economico furono l’Italia e la Germania a
raggiungere la maggior crescita e a colmare un po’ il divario con le altre nazioni, sebbene più avanzate. Ma
il paese che crebbe di più fu il Giappone, uscito sconfitto e raso al suolo dalla guerra, ma aiutato dalle altre
potenze mondiali, essendo in una posizione strategica importante nel pacifico per contrastare le mire
comuniste della Cina e della Russia. Questo periodo si caratterizzò per una grande stabilità monetaria e dei
prezzi, che portarono un alto tasso di occupazione. Si verificò inoltre una redistribuzione dei redditi, con la
quale anche i più poveri videro un aumento dei loro guadagni. In questo periodo molto lungo di trenta anni
non ci furono tracce di crisi economiche, fatto molto importante e più che unico. La prima causa che portò
alla crescita economica fu la cooperazione internazionale. Dopo la Seconda guerra mondiale si creò
un’organizzazione vincente, l’ONU nato nel 1945, con il compito di unire e tenere unite le nazioni che ne
fanno parte. In secondo luogo, per fare in modo che non si ripetesse una crisi come quella del ’29, vennero
firmati nel 1944 gli Accordi di Bretton Woods da parte delle maggiori potenze antifasciste (in particolare
Stati Uniti e Inghilterra) che dettero vita alla straordinaria architettura economica che avrebbe
rappresentato un caposaldo della Golden Age. Con questi accordi vennero prese due grandi decisioni:
 Dare vita ad un fondo monetario internazionale (ancora oggi esistente) che garantisse il più
possibile una stabilità monetaria ovvero dei cambi. Ovviamente tutto questo favorisce la
cooperazione internazionale, soprattutto nel commercio e negli scambi internazionali.
 Dare vita alla Banca mondiale, finalizzata ad aiutare attraverso prestiti e finanziamenti quelle aree
più arretrate economicamente. Questa banca ebbe però più difficoltà rispetto al fondo monetario
nel far crescere queste nazioni più arretrate, ma raggiunse comunque buoni risultati.
Questi accordi furono talmente decisivi ed importanti che quando vennero meno nel 1971 finirà anche la
Golden Age.
La terza causa di questo boom economico fu il ruolo dagli Stati Uniti che divennero i banchieri del mondo,
trasformando il dollaro nella moneta ufficiale negli scambi internazionali e nel cambio in oro. Un secondo
grande contributo degli Stati Uniti fu il Piano Marshall, un piano di ricostruzione europea avviato nel 1948,
basato su grandi prestiti economici per allontanare i paesi europei dal rischio di nuove dittature. Un altro
grande episodio nel 1947 fu la firma di un accordo, il General Agreement on Tariffs and Trade, che diede
uno slancio significativo al commercio internazionale.
Questa crescita economica produsse effetti rilevanti politici, economici e sociali. Al primo posto ci fu la
partenza del processo di integrazione europea. A Parigi nacque nel 1948 la OECE (organizzazione per la
cooperazione economica europea) che era l’organizzazione incaricata di gestire, spartire ed indirizzare i
finanziamenti del Piano Marshall. Quando i finanziamenti finirono la OECE si trasformò nella OCSE
(organizzazione per la coordinazione e lo sviluppo economico). Nel 1950, 5 anni dopo la liberazione della
Germania da Hitler, ci fu una famosa dichiarazione, la dichiarazione Shuman con cui ci si veniva incontro
(soprattutto fra Francia e Germania, grandi rivali) per mettere in piedi una comunità europea. Nel 1951
nacque la prima effettiva istituzione europea, la CECA (comunità europea del carbone e dell’acciaio) e sei
anni più tardi nel 1957 vi fu la nascita della CEE (comunità economica europea) che di fatto sostituì la CEC. I
Paesi a formare la comunità europea furono sei: Italia, Francia, Germania, Belgio, Olanda e Lussemburgo.
Questo permise all’inizio degli anni ’90 la nascita dell’Unione Europea.
Intanto in Italia continuava con numeri sempre più alti l’abbandono delle campagne, che accompagnava in
quegli anni il culmine della seconda rivoluzione industriale. Questa rivoluzione significava Taylorismo e
fordismo e quindi un’epoca di consumismo di massa. Ma l’effetto più importante di questa età dell’oro fu
la diffusione del Welfare State, ovvero dello stato sociale che nasce ufficialmente durante la Seconda
guerra mondiale. (vedi pag. 43). Uno stato sociale si finanzia attraverso le tasse. I pilastri di uno stato
sociale sono tre: la previdenza (il fatto di diventare vecchi e vivere nel miglior modo possibile la fase finale
della vita. Tema delle pensioni), la salute e l’assistenza (donne, disoccupati, ecc.). in questi anni dell’oro, ci
sono però anche alcuni lati negativi, come le disuguaglianze economiche territoriali tra nord e sud del
mondo e la questione ambientale, ovvero il problema dell’inquinamento dovuto alla grande crescita
industriale.

IL MIRACOLO ECONOMICO IN ITALIA


L’Italia uscita in macerie dalla guerra a causa degli scontri e soprattutto dei bombardamenti iniziò presto la
fase della ricostruzione. La stagione per eccellenza di collaborazione per avviare al meglio la ricostruzione
del paese fu la stagione della costituente, cioè quell’assemblea votata nel 1946 che produsse la
Costituzione repubblicana che entrò in vigore nel 1948. Nel 1947 iniziò anche in Italia il fenomeno della
guerra fredda che pose fine ai governi della CLN con l’uscita di scena delle sinistre comuniste e socialiste dal
governo del Paese. Iniziò così una stagione di grandi divisioni politiche che culminarono nel 1948 con la
vittoria delle elezioni da parte della democrazia cristiana che portavano all’elezione del primo Parlamento
nella storia democratica repubblicana del paese. La democrazia cristiana inaugurò la stagione del centrismo
ovvero il potere nelle mani del principale partito che collabora con altri partiti minori, come il partito
liberale, repubblicano, social-democratico. Il centrismo fu quella formula politica che governò dal ’47 fino
alla fine degli anni ’50. Dal punto di vista economico la prima mossa del centrismo fu l’adozione di una
nuova politica monetaria Einaudi-Pella, una politica di restrizione del credito, quindi minore circolazione
della moneta nel Pese, per controllare l’inflazione, mantenere bassi i prezzi e il carovita e mantenere bassi i
salari. Questa scelta di politica monetaria fu uno degli elementi decisivi per il boom economico in Italia. Ci
fu poi un processo di riconversione industriale postbellica. Occorreva perciò procedere ad una
smobilitazione di molti reparti e aziende, che causarono ribellioni operaie destinate inevitabilmente a
fallire. Venne però portata avanti una politica di rilancio di alcuni settori industriali, fondamentali per il
lancio del boom economico. Nacque in quegli anni, nel 1953, l’ENI. Un importante azione in campo agricolo
da parte del centrismo chiamò in causa il mezzogiorno e la famosa questione meridionale. Nel 1950 venne
lanciata una riforma agraria che pose fine alla piaga del latifondismo nel meridione, una riforma troppo
tardiva in quanto molti contadini e lavoratori si stavano già trasferendo a nord per trovare lavoro nelle
fabbriche. Un secondo importante provvedimento per fare fronte a questa questione fu il varo della Cassa
per il Mezzogiorno nel 1952 con cui lo Stato cercava di finanziare lo sviluppo industriale nel meridione. Un
altro grande intervento del centrismo fu nella spesa pubblica, cercò quindi di portare avanti finanziamenti
pubblici importanti in settori decisivi come quello edile (finalizzato alla costruzione di tante case e quartieri
popolari) e delle infrastrutture, con la creazione di acquedotti, reti fognarie, canali per l’irrigazione,
ferrovie, ponti, strade e autostrade.
Ma la scelta strategica più importante di tutte fu quella di ancorare saldamente l’Italia nel campo
occidentale che aveva come punto di riferimento gli Stati Uniti d’America. Il simbolo più importante di
questo ancoraggio dell’Italia all’occidente fu il Piano Marshall.
Fu quindi grazie al centrismo che si posero le premesse fondamentali del boom economico.
Gli anni del boom in Italia furono quelli a cavallo tra la fine degli anni ’50 1957-58 e l’inizio degli anni ’60
1963. In quegli anni l’Italia crebbe ad un livello enorme, mai più visto (il PIL crebbe con una media annua
superiore al 6%). La crescita fu trainata soprattutto dalle esportazioni e il risultato di questa situazione
provocò sul piano sociale una piena occupazione. I territori che trainarono questo boom furono quelli del
solito triangolo industriale, mentre i settori principali di questo sviluppo furono la meccanica, la siderurgia,
metalmeccanica, chimica. Per portare avanti uno sviluppo economico era necessario anche il credito, i
finanziamenti e il sistema bancario. Vie era un accrescimento generale della ricchezza, ma dietro questo si
nascondevano anche alcuni squilibri sociali come il basso costo della manodopera a cui abbiamo già
accennato (salari bassi) e squilibri territoriali che portarono all’emigrazione dal sud al nord con
l’abbandono delle terre. Questo boom economico trasformò il paese in una potenza industriale, una delle
più importanti al mondo.
La politica intervenne per cercare di mettere un freno agli squilibri sociali mettendo in atto il centrismo,
come abbiamo già visto. Per ampliare la maggioranza politica ci fu un allargamento a sinistra. Un’alleanza
con i socialisti di sinistra diede vita nel 1962 al centrosinistra programmatico, in cui il partito socialista, che
praticava una funzione di sostegno esterno al governo, presentò un programma radicale di riforme, alcune
molto importanti come quella sulla scuola media unificata e la nazionalizzazione delle industrie elettriche,
molto importanti per lo sviluppo industriale del paese. Nacque così l’ENEL (ente nazionale per l’energia
elettrica). Il primo documento in cui si lanciò l’ipotesi di una programmazione economica fu la Nota
aggiuntiva di La Malfa, nel quale si leggeva che il governo voleva governare questo sviluppo economico
straordinario, ma anche squilibrato attraverso una serie di politiche industriali e agricole, attraverso uno
sviluppo dei consumi pubblici e cercando di mettere fine alla questione meridionale. Ma di fronte a questi
provvedimenti ci fu una dura reazione da parte delle imprese, dando inizio ad una stagione dello sciopero
del capitale, la fuga all’estero dei capitali. La linea Carli-Colombo del 1963-64 era una linea che proponeva
una restrizione del credito finalizzata a contenere l’aumento dei prezzi e ad allentare le questioni sociali
causate dalla piena occupazione e dagli squilibri sociali innescati dal boom economico. Questa politica
incise sulla congiuntura economica che iniziò a frenare la crescita economica e di fatto il boom italiano finì
nel 1963. Questo del rallentamento della crescita economica fu un prezzo da pagare pur di rallentare le
tensioni sociali e politiche innescati dalla nuova stagione del centro sinistra. Iniziò così una nuova stagione
del centrosinistra, questa volta organico, in un periodo di difficoltà economica dopo la fiammata del boom.
Il governo non rinunciò alla programmazione economica, anzi la rilanciò con il Piano Pieraccini del 1967,
senza però incidere sui destini del paese.
All’inizio del boom negli anni ’50 si situarono soprattutto due settori chiave: l’energia (ENI, fondamentale
nel mettere a disposizione delle aziende le sue risorse elettriche e a diffondere la benzina per le automobili
dei cittadini) e la siderurgia (Acciaio in particolare lo SCI e tanti altri nuovi stabilimenti). Questi due settori
furono fondamentali per lo sviluppo del settore principale e trainante del boom economico che fu quello
della metalmeccanica, in particolare il settore dell’automobile (FIAT di Torino fu il simbolo del boom
economico. In quel periodo nacquero molti marchi e stabilimenti automobilistici italiani). Altri importanti
settori meccanici furono l’aereonautica, elettrodomestici, motociclistico. Settori invece che subirono una
decrescita furono il settore chimico e l’elettronica (Olivetti. Proprio l’Olivetti inventò il primo PC, ma il
paese non comprese l’importanza di questo strumento e non volle investirci capitali e vendette così il
brevetto agli americani, perdendo una grande occasione di accrescimento).

LAVORO E COSTITUZIONE (FORMALE)


La Costituzione italiana entrò in vigore il 1° gennaio 1948, votata da un’assemblea costituente, eletta da
tutto il popolo italiano (anche le donne). Il 2 Giugno 1946 venne votata con un referendum costituzionale la
repubblica a sfavore della monarchia (Festa della Repubblica).
“L’Italia è una repubblica democratica fondata sul lavoro (art. 1 comma 2)”. Questo articolo rappresentò
una forte cesura nell’Italia dell’epoca, una cesura di tipo istituzionale (repubblica) e politico (democratica).
Da questo articolo è evidente la rottura con il periodo precedente, la dittatura fascista, che era stato un
regime totalmente antidemocratico. Inoltre, dando tanto risalto al tema del lavoro significava fare altre
cesure:
 Una cesura temporale rispetto all’epoca liberale: durante l’Italia liberale dell’800 si era affermato
un principio fondamentale e tipicamente liberale secondo cui tutti gli uomini (solo uomini e non
donne) erano uguali di fronte alla legge. Poi durante la Prima guerra mondiale ci fu un'altra cesura,
in cui si capì l’importanza e la centralità del lavoro per la forza e la potenza della nazione. Nel
dopoguerra prima del biennio rosso in Italia era stato fatto un tentativo di corporatismo pluralista
(dare vita ad un triangolo sociale, stato, imprese e lavoratori).
 Una cesura temporale rispetto all’epoca fascista: il fascismo agì in modo molto duro nei confronti
dei lavoratori e dei loro sindacati (Palazzo Vidoni, Legge Rocco).in questo periodo era stato
edificato un corporatismo autoritario, il cui simbolo per eccellenza fu la Carta del Lavoro redatta da
Mussolini, in cui vi era un’esaltazione del lavoro per raggiungere il benessere supremo della
nazione.
 Una cesura spaziale nell’Europa del dopoguerra: con la Costituzione l’Italia realizzò un unicum a
livello europeo, diversa dalla costituzione francese e dalle leggi costituzionali della Germania. Il caso
più simile fu quello della vecchia Costituzione di Weimar in Germania. Ancora oggi la Costituzione
Italiana rappresenta un unicum a livello Europeo, siccome solamente in questa costituzione viene
sottolineato con forza quel nesso tra lavoro e democrazia.
Secondo la Costituzione ogni uomo ha dei diritti inviolabili, tra i quali il diritto al lavoro. Soltanto con il
lavoro un cittadino può considerarsi pienamente tale, completamente libero. Il lavoro è quel valore che
permette a ciascun cittadino di ottenere la dignità sociale che ognuno deve avere. Tutti i cittadini hanno
pari dignità.
All’interno della costituente non mancavano però i dibattiti e i disaccordi, siccome al suo interno sedevano
diversi gruppi politici con diverse culture politiche: cattolici della democrazia cristiana, un raggruppamento
molto variegato di sinistre (comunisti, socialisti, ecc.), liberali. A causa di queste culture politiche diverse,
occorreva un compromesso nella stesura della Costituzione. Si deve a Fanfani il compromesso finale che i
costituenti riuscirono a raggiungere per la stesura dell’articolo 1. Il comma 2 dell’articolo 1 dice che la
sovranità appartiene al popolo. Il voto rappresenta una forma di esercizio della sovranità. Il lavoratore ha
inoltre diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e alla qualità del suo lavoro e in ogni caso
sufficiente ad assicurare a sé e alla sua famiglia un’esistenza libera e dignitosa. I diritti fondamentali dei
lavoratori sono:
 La retribuzione proporzionata
 Il riposo settimanale
 Le ferie annuali
 La malattia e l’infortunio
 La libertà sindacale
 Il diritto di sciopero
Accanto al diritto al lavoro vi è anche il dovere del lavoro: ogni cittadino ha il dovere di svolgere, secondo le
proprie possibilità e la propria scelta un’attività che concorra al progresso materiale o spirituale della
società (art. 4 comma 2)

LAVORO E COSTITUZIONE (MATERIALE)


La strage di Portella della Ginestra (1° gennaio 1947):
l’eccidio di Portella della Ginestra in Sicilia provocò la morte di 11 persone tra lavoratori e famiglie durante
la Festa del Lavoro del 1° maggio. I lavoratori, che erano prevalentemente contadini e braccianti
festeggiavano la festa del 1°maggio attorno ad un sasso, il sasso di Barbato (grande dirigente socialista,
leader dei fasci siciliani). Dieci giorni prima della strage in Sicilia si tengono le prime elezioni regionali, nelle
quali le forze della sinistra, socialisti e comunisti ottennero un a grande avanzata elettorale che mise in
repentaglio il potere democristiano all’interno dell’isola. Si verifica perciò questa strage da parte di una
banda di banditi. Attorno a questo avvenimento si scatena un grande dibattito e per questo viene subito
organizzato un processo tra il ’52 e il ’54 alla fine del quale vengono condannati i banditi. Il centro sinistra
porta all’istituzione di una Commissione antimafia, siccome si credette che quei banditi avessero avuto una
sorta di protezione per compiere la strage. Mancano però documenti precisi che individuino la vera natura
dei mandanti della banda, creduti alle volte parte della mafia, altre di un’organizzazione neofascista, altre
volte ancora di un contesto internazionale che comprendeva anche l’America. La strage di Portella della
Ginestra fu un eccidio commesso il 1º maggio 1947 in località Portella della Ginestra, nel comune di Piana
degli Albanesi in provincia di Palermo, da parte della banda criminale di Salvatore Giuliano che sparò contro
la folla di contadini riuniti per celebrare la Festa del Lavoro, provocando undici morti e numerosi feriti. I
motivi per cui venne compiuto e, nei giorni successivi, vennero assaltate sedi dei partiti di sinistra e delle
camere del lavoro della zona risiedono, oltre che nella dichiarata avversione del bandito nei confronti dei
comunisti, anche nella volontà dei poteri mafiosi, dell'autonomismo siciliano e delle forze reazionarie di
mantenere i vecchi equilibri nel nuovo quadro politico e istituzionale nato dopo la seconda guerra mondiale
e, nonostante non siano mai stati individuati i mandanti, sono certe le responsabilità degli ambienti politici
siciliani e americani interessati a intimidire la popolazione contadina che reclamava la terra.
i giuristi chiamano Costituzione <<materiale>> quel modo di applicare la costituzione che però non può
essere subito applicata in maniera generale, ma può avere evidenti ritardi. La Corte costituzionale, per
esempio, composta da giudici incaricati di fare rispettare la costituzione, di fatto venne istituita solamente
nel 1956 quindi 8 anni dopo l’entrata in vigore della costituzione. Giuseppe Di Vittorio, segretario generale
della CGDL, nonché uno di coloro che scrisse la Costituzione italiana, nel 1952 accorgendosi che nei luoghi
di lavoro, fabbriche e campagne, questi diritti sanciti dalla Costituzione non venivano applicati, lanciò una
proposta molto forte: fare una legge in Parlamento, lo Statuto dei diritti dei lavoratori, che tramutasse
quei principi fondamentali stabiliti dalla Costituzione in modo che potessero finalmente essere applicate nei
luoghi di lavoro. Passarono però 18 anni prima dell’applicazione di questa legge nel 1970.
Quindi il periodo dell’immediato dopoguerra fu un periodo molto complicato per il paese anche sul terreno
economico e sociale. Un primo problema importante che i lavoratori si trovarono ad affrontare fu quello
dell’occupazione, dell’aumento della disoccupazione causato dalle riconversioni industriali post-belliche.
Questi anni furono quindi caratterizzati da grandi lotte sindacali e operaie.
Ci fu una stagione in particolare tra il ’48 e il ’50 in cui vennero compiuti diversi eccidi proletari, anche da
parte delle forze dell’ordine, soprattutto in occasione di manifestazioni sindacali e politiche, arrivando
alcune volte allo scontro fisico e persino a sparatorie sulla folla manifestante. All’interno di questa stagione
si possono distinguere due tipologie di eccidi:
 Nelle campagne, specie nel Meridione, dove lo scontro sociale era particolarmente duro per la
presenza molto ingombrante e possessiva del latifondo. Vi furono occupazioni delle terre
abbandonate e lasciate incolte dai latifondisti. Questi funzionavano come scioperi al rovescio,
ovvero contadini disoccupati andavano ad occupare e a lavorare le terre abbandonate. Tutto ciò
provocò grandi eccidi proletari
 Nelle città industriali del Centro-Nord, soprattutto le città più piccole. Le grandi città non videro
invece traccia di eccidi proprietari che si concentravano appunto nelle piccole città e nelle
campagne.
Quest’epoca di eccidi proletari è nota anche con la definizione di età dello <<scelbismo>>, (deriva dal
ministro degli interni Scelba), che fu una tipologia di gestione dell’ordine pubblico basata su una risposta
dura, su una repressione costante che portava a tanti arresti e provocò anche tante vittime.
Anche gli anni 50 furono anni molto duri, non per la situazione economica siccome iniziavano a manifestarsi
le premesse del boom economico, ma sul piano politico. Ma questa situazione politica si tradusse presto in
una situazione economica e sociale problematica all’interno dei luoghi di lavoro, dovuta anche
all’indebolimento delle Commissioni interne. Furono anni duri anche per la Fiat. In molte aziende
cominciarono ad apparire i reparti-confino, dove venivano confinati i lavoratori più combattivi e
politicizzati. In questo periodo si registrarono tanti licenziamenti per rappresaglia politica e sindacale. Le
rivendicazioni dei lavoratori erano molto generiche (aumento dei salari e riduzione dell’orario). Vi era poi
l’informalità dei diritti, da una parte c’era la Costituzione con i diritti scolpiti ed inviolabili, ma dall’altra
l’applicazione di questi nei luoghi di lavoro era praticamente nulla e irrilevante. Vi era inoltre un fenomeno
sempre più crescente di migrazione di massa da Sud a Nord del paese, che portò ostilità nei cittadini locali
e grandi difficoltà nell’integrazione. Un altro grande problema fu la diffusione del Taylorismo nelle
fabbriche italiane. Il simbolo della diffusione del Taylorismo fu la job evaluation, un sistema di
classificazione dei lavoratori in azienda, un sistema di analisi e di valutazione del lavoro, attraverso una
serie di interviste e questionari sottoposti ai lavoratori, che venivano valutati sulla base di 12 fattori da cui
scaturiva un punteggio che si traduceva nella determinazione di 24 zone salariali (chiamate dai lavoratori
paghe di classe). Questo sistema non classificava i lavoratori in base a ciò che sapevano fare, ma su ciò che
gli veniva fatto fare e che gli veniva assegnato. A partire dagli anni ’60 i sindacati riuscirono a contrattare
questo sistema della job evaluation.
Le schedature della Fiat (1984) Bianca Guidetti Serra: racconta che all’inizio degli anni ’70 iniziò a
diffondersi la voce che all’interno della Fiat i dipendenti venivano sistematicamente schedati da anni da
parte dell’azienda, segno della differenza tra la Costituzione materiale e formale. Da queste voci iniziarono
le prime indagini, che portarono all’apertura dei processi. Io dirigenti della Fiat vennero condannati per il
reato di controllare in maniera illegale la vita dei loro dipendenti, non solo nelle fabbriche, ma anche al di
fuori. Quei reati andarono però in prescrizione e per questo motivo i dirigenti della fiat vennero assolti nel
1979. Dal libro vengono fuori una serie di documentazioni inoppugnabili che dimostrano che negli anni
’50-’60 all’interno della Fiat si ebbe un vero e proprio autoritarismo nei confronti dei dipendenti.
Questi fatti avvenivano però anche in altre importanti aziende italiane.

Alcune schedature da parte della Fiat:


 C.G. Operaio Mirafiori dal 1951, schedato, a comprova della sua tendenza verso il Pci tutti gli anni
quando passa il sacerdote per la benedizione delle case gli viene vietata l’entrata
 F.V. reputazione pessima, trattasi di capellone, di elemento che esige vivere indipendentemente e
non offre sufficienti garanzie per eventuale assunzione
 B.A.: non si interessa di politica ed è orientata, come i genitori, verso i partiti di centro; reputazione
buona; di ottima moralità, seria e riflessiva, amante della casa e della famiglia
 P.Z. vive sola, di reputazione mediocre, è notoria una sua relazione con uomo sposato, che sovente
l’accompagna a bordo di autovettura

CULTURE SINDACALI E RELAZIONI INDUSTRIALI TRA ANNI '50 E '60


Il sindacalismo della CGIL di Di Vittorio (il sindacato con il maggior numero di adesioni) può essere definito
come <<il sindacato del popolo lavoratore>>, in quando la CGdL voleva essere un sindacato <<generale>>,
con l’obbiettivo di rappresentare tutto il popolo, non soltanto i suoi iscritti. Essendo un sindacato <<di
tutti>> non si poneva soltanto il problema della tutela degli interessi economici (salari, orari...), ma mirava
ad essere anche un soggetto politico, cercando di tutelare i diritti e le libertà, finendo per relazionarsi con i
partiti politici. E nel caso della CGdL essendo un sindacato di sinistra non poteva che rapportarsi con il
partito comunista italiano e il partito socialista. In questo rapporto, la CGdL aveva poca autorità nelle scelte
(per esempio su chi doveva seguire la categoria dei metalmeccanici), ma era il partito spesso a dare le
direttive al sindacato. Essendo un sindacato per tutti è ovvio che da un punto di vista organizzativo finiva
per prediligere le cosiddette strutture orizzontali del sindacato, che a livello territoriale sono le Camere del
lavoro (più importanti delle strutture verticali, ovvero delle federazioni nazionali di categoria). Nel caso
della contrattazione, la CGdL preferiva il contratto collettivo nazionale di lavoro perché era lo strumento
che a livello nazionale unificava tutto il mondo del lavoro, lo regolava e tendeva a omogeneizzarlo, cioè le
condizioni di lavoro e salariali dal nord al sud dovevo essere più ravvicinate possibile. Era un sindacato di
opposizione negli anni del centrismo, era un sindacato molto conflittuale e radicale che puntava molto sul
conflitto e sugli scioperi sia economici che politici. Quindi la CGIL era caratterizzata da una solidarietà di
classe che guardava soprattutto agli interessi preminenti delle classi lavoratrici.
Il simbolo per eccellenza di questa cultura sindacale della CGIL fu soprattutto una rivendicazione, il Piano
del Lavoro del 1949-50, che prevedeva una massiccia presenza dello Stato e della mano pubblica a livello
economico (struttura tipicamente keynesiana) e quindi un piano di investimenti pubblici per combattere
soprattutto la piaga della disoccupazione di massa che si stava riaffacciando nell’Italia del dopo guerra.
Questi investimenti dovevano riguardare l’agricoltura e le industrie, ma anche l’edilizia e le infrastrutture. Il
Piano doveva essere finanziato soprattutto con le tasse della popolazione e da una serie di prestiti
internazionali (soprattutto Stati Uniti e Unione Sovietica). Un esempio tipico di un’azione di massa a
sostegno del piano del Lavoro, furono gli scioperi al rovescio del 1949-50 (di cui abbiamo già parlato pag.
56).
L’altro grande sindacato che si impose dopo gli anni ’50 fu la CISL (confederazione italiana sindacati dei
lavoratori) che non era un sindacato generale, ma <<associativo>>. Voleva essere un sindacato <<nuovo>>,
ovvero un sindacato dei <<soci>> che guardava solo alla tutela dei propri iscritti, dato che essi versavano
una quota sindacale. Essendo un soggetto esclusivamente economico, senza alcun interesse politico, aveva
una maggiore autonomia, anche se poi la CISL essendo prevalentemente il sindacato dei cattolici e dei
democristiani finiva inevitabilmente per avere un legame più o meno organico con la democrazia cristiana.
All’interno della democrazia cristiana vi erano correnti politiche diverse, una delle quali, una corrente di
sinistra era di fatto la corrente della CISL all’interno della democrazia cristiana. Da un punto di vista della
struttura organizzativa la distanza con la CGIL non poteva che essere più ampia. La CISL si occupava di
questioni specifiche dei diversi settori produttivi e quindi assegnava il primato a livello verticale: prima
venivano le categorie poi le strutture locali. Era una confederazione di sindacati e non di lavoratori come
era la CGIL. La CISL mirava ad interventi a forme di tutela e rappresentanza dei lavoratori di natura
contrattuale. In campo contrattuale, l’importanza della contrattazione non era tanto quella del contratto
collettivo nazionale del lavoro, ma la cosa principale per la CISL era soprattutto decentrare l’attività
contrattuale, soprattutto a livello di singola azienda. Quindi più importante per la CISL era il contratto
aziendale, perché era all’interno dell’azienda che si poteva contrattare e discutere il nodo principale di ogni
impresa, la produttività, ovvero come accrescere la produzione senza accrescere lo sfruttamento dei
lavoratori. La CISL cercò quindi di tenere lontano l’aspetto conflittuale, rimanendo un sindacato
collaborativo con le aziende e con il governo. Quindi anche in questo caso, come per gli altri sindacati vale
il valore della solidarietà, ma a differenza della CGIL, era una solidarietà interclassista e non di classe
(bisogna difendere i lavoratori, ma bisogna pensare anche agli interessi delle imprese).
La terza confederazione era la UIL, che per numero di iscritti e impatto politico era la <<terza via>>, siccome
non voleva essere né la via cristiana cattolica della CISL, né la via conflittuale marxista della CGIL. Da un
punto di vista organizzativo era molto più vicina alla CIUSL che alla CGIL, nel senso che anche la UIL si
poneva come un sindacato <<associativo>> che guardava alla tutela e alla rappresentanza dei suoi
lavoratori iscritti. Anche politicamente era un sindacato moderato, quindi, più vicino alla CISL, ma allo
stesso tempo rimproverava alla CISL questo forte legame con la Chiesa cattolica e la democrazia cristiana.
La UIL voleva mantenere invece un atteggiamento laico, di distanza rispetto alla religione, sia dalla chiesa
cattolica che dalla chiesa comunista. La UIL era inoltre un sindacato riformista, che puntava appunto alle
riforme, sia attraverso le leggi che con la contrattazione collettiva, con l’obiettivo di migliorare in modo
graduale le condizioni di vita e di lavoro delle classi lavoratrici, senza stravolgere gli equilibri come voleva la
CGdL. Ma anche la UIL nella vita concreta dovette subire dei condizionamenti molto forti da parte della
politica, non da parte dei comunisti o della democrazia cristiana, ma da parte dei piccoli partiti, quello
repubblicano e quello socialdemocratico.
Quindi in sintesi queste culture sindacali degli anni ’50 risentivano delle ideologie politiche, oltre che della
guerra fredda internazionale e nazionale locale a livello economico e sociale che provocava divisioni.
L’autonomia sindacale era molto limitata.
Queste confederazioni avevano inoltre il grande problema di confrontarsi con le controparti, vale a dure la
Confindustria. Siamo all’inizio degli anni ’50, all’inizio del boom economico. Negli anni ’50 il sindacato che
ebbe più difficoltà, anche a livello di calo degli iscritti, fu la CGIL. Ci furono soprattutto due momenti in cui
emerse la crisi della CGIL, che restava comunque il sindacato più grande:
 L’accordo separato sul <<conglobamento>>: il conglobamento significava il conglobamento
salariale, cioè bisognava fare un accordo per unire le diverse indennità salariali e quindi
conglobarle. La decisione sulle scelte dei minimi sindacali tornò in capo alle federazioni e di fonte a
questo accordo tra sindacati e Confindustria, la CGIL decise di non firmare, rimanendone esclusa.
Questo fu certamente un segno di debolezza di quella confederazione
 Nel 1955 ci furono delle elezioni per il rinnovo delle Commissioni interne in tante aziende,
soprattutto alla Fiat e per la prima volta dopo il dopoguerra la CGIL e la FIOM persero quelle
elezioni. Non solo ci fu un crollo dei voti per la CGIL passando dal 70% al 35%, ovvero dei consensi
da parte degli operai, ma ci fu anche il sorpasso della CISL e della sua federazione dei
metalmeccanici la FIM.
I motivi di questo crollo, che ammise lo stesso Di Vittorio, erano dovuti alla grande repressione padronale
attraverso le rappresaglie politiche, i licenziamenti, i reparti-confino, ma anche ad una serie di errori
compiuti dalla CGIL, soprattutto la volontà di accentrare in maniera forte sul piano politico e contrattuale.
Alla fine degli anni ’50 arrivarono grandi cambiamenti, il grande cambiamento economico del boom
industriale e il grande cambiamento politico che portò alla fine del centrismo. Iniziò una nuova legislatura
nel ’58- ’63 che fu una legislatura centrale nella storia italiana, in cui si ebbe il passaggio dal centrismo al
centrosinistra. In mezzo a questo passaggio ci fu una parentesi legata al Governo Tambroni, un governo
democristiano, che per sopravvivere in Parlamento ottenne i voti del Partito Sociale Italiano, partito
neofascista. Questo provocò grandi proteste popolari, che culminarono nello sciopero generale della
Camera del Lavoro di Genova nel 1960 e nella sparatoria in Reggio Emilia da parte delle autorità contro una
folla di protestanti. Di fronte a ciò la CGIL proclamò lo sciopero generale nazionale contro il governo
Tambroni, che fu costretto alle dimissioni e alla fine del suo governo. Iniziò così quel percorso che nel 1962
portò al centrosinistra programmatico e nel 1963 al centrosinistra organico, con l’ingresso dei socialisti
nell’area di governo.
Tra il ’62 e il ’63 si ebbe una stagione contrattuale molto importante, che portarono a numerose lotte e
rivolte operaie. Nel 1962 venne così firmato un accordo unitario molto importante da parte delle tre
federazioni dei metalmeccanici, con cui all’interno delle imprese pubbliche si riconosceva il diritto alla
contrattazione articolata: non c’era solo il contratto nazionale, ma ci poteva essere anche una
contrattazione di settore, di gruppo o aziendale. Questa conquista sindacale venne poi estesa alle aziende
private nel 1963.
Dopo la morte di Di Vittorio, la CGIL che aveva perso un numero importante di iscritti, divenne più aperta
alle novità. A differenza della CGIL, la CISL rimase ferma sulle proprie convinzioni, senza apportare
cambiamenti rilevanti, ma quella che rimase più attardata di tutte su vecchie posizioni fu la UIL.
I grandi cambiamenti sociali e politici tra gli anni ’50 e ’60 favorirono una ritessitura unitaria all’interno del
mondo sindacale, quindi fecero in modo che quelle divisioni così radicate e ideologiche degli anni’50, nel
corso degli anni ’60 si sarebbero certamente allentate.

LA CGIL UNITARIA E LE SCISSIONI SINDACALI


La CGIL venne costituita il 3 giugno 1944, alcuni giorni dopo la liberazione della capitale con il Patto di
Roma messo in piedi dai comunisti (Di Vittorio), socialisti (Buozzi) e cattolici (Grandi). I contenuti del Patto
di Roma furono:
 Il Patto di Roma stabiliva che in Italia esisteva un solo sindacato italiano: infatti non era più la CGdL
prefascista, ma diventava la CGIL italiana (confederazione generale ITALIANA del lavoro). Al suo
interno vi doveva essere una sola federazione nazionale per ogni settore produttivo e una sola
Camera del Lavoro per ciascuna provincia. E all’interno di queste strutture, la direzione doveva
essere paritaria, una divisione per tre tra gruppi socialisti, comunisti e cattolici.
 Il valore principale che veniva sottolineato in questo Patto era l’unità sindacale. Ma unità è diversa
da unicità: Il sindacato unico è tipico di una dittatura, mentre in un contesto democratico la CGIL si
poneva come un’organizzazione unitaria che cercava di tenere insieme tutte le correnti del
sindacalismo. Ma questo non era un obbligo, in quanto si potevano costituire altri sindacati al suo
fianco.
 Ovviamente la liberazione dell’Italia sarebbe avvenuta solo nel 1945, quindi con il Patto di Roma si
dava grande importanza anche all’azione militare, all’attività di Resistenza dei partigiani e al ruolo
decisivo degli allenati anglo-americani per la Liberazione del paese. Quindi fino al momento della
Liberazione questo fu la priorità, ma una volta liberato il paese si poteva procedere a discutere i
temi più controversi.
 Veniva ribadita l’importanza dell’autonomia sindacale, rispetto ai partiti politici e l’importanza della
democrazia sindacale, cioè il legame forte che doveva stabilirsi tra i dirigenti e i lavoratori.
Questi furono i grandi ideali intorno ai quali si costituì la CGIL unitaria, ma ci furono anche punti di
disaccordo tra le diverse componenti politiche che risalivano a epoche precedenti. Un punto di disaccordo
era se l’adesione al sindacato dovesse essere volontaria o obbligatoria. Un altro punto di disaccordo era la
distinzione tra scioperi politici e scioperi economici.
Dopo la firma del patto di Roma si tenne il primo Congresso della CGIL nel 1945 ancora prima della
liberazione, quindi riguardante solo la parte italiana liberata fino a quel momento. Dopo la liberazione si
tenne a Milano un congresso di tutte le camere del lavoro del nord in cui si stabiliva di entrare nella CGIL
italiana, completando quindi la sua unificazione che si affermò come la più grande organizzazione di massa
d’Italia del secondo dopoguerra.
Finita la guerra era fondamentale ridare al paese delle regole condivise. Nelle elezioni del 2 giugno 1946 per
l’Assemblea costituente vennero eletti anche dei politici-sindacalisti (tra cui Di Vittorio) che stesero
materialmente la Costituzione. Questi sindacalisti si occupavano soprattutto di quelle parti della
Costituzione che riguardavano il mondo del lavoro. L’articolo 39 e l’articolo 40 della Costituzione si
occupavano dei sindacati, sancendo la libertà sindacale, la libertà di sciopero, la contrattazione collettiva e
un principio secondo il quale la rappresentanza sindacale si costruiva non in forme maggioritarie, ma
proporzionali, permettendo anche alle minoranze di partecipare alla stesura e alla firma di un contratto
collettivo.
Per ricostruire il paese serviva oltre alla politica, anche una collaborazione costruttiva tra la CGIL, la
rappresentanza dei lavoratori e la Confindustria, la rappresentanza delle imprese. Questa collaborazione si
diresse verso alcuni ambiti precisi:
 La questione salariale: cercare in un contesto in cui i prezzi tendevano a crescere di proteggere i
salari. Per questo CGIL e Confindustria firmarono nel 1945-46 l’accordo della <<scala mobile>>, un
meccanismo automatico di protezione dei salari rispetto al costo della vita, ovvero all’aumento dei
prezzi. Questo accordo garantiva perciò che una quota del salario dovesse essere adeguata a
questo aumento del costo della vita. Vennero previste però anche due limitazioni: il paese veniva
diviso in <<zone salariali>>, in particolare 7 zone salariali che faceva si che se un lavoratore facesse
lo stesso lavoro a Torino e a Palermo, a Palermo venisse pagato di meno siccome il costo della vita
era più basso. Veniva poi stabilito il principio della tregua salariale, cioè è vero che una parte del
salario veniva protetta dall’accordo della scala mobile, ma il sindacato doveva impegnarsi a non
esagerare troppo con le rivendicazioni salariali.
 Le Commissioni Interne potevano essere elette da tutti i lavoratori, ma gli venne sottratto il potere
di contrattazione
 La revisione delle norme corporative. L’Italia riceveva dal fascismo una serie di norme, ma non
tutte erano da scartare, ma alcune andavano riscritte e aggiornate, come la Cassa integrazione
guadagni o la gratifica natalizia, l’allungamento delle ferie degli operai o gli assegni famigliari.
 Il tema dei licenziamenti: la Confindustria riconobbe alla CGIL per un periodo limitato di tempo il
blocco dei licenziamenti. Quindi per qualche tempo gli industriali ebbero l’impedimento di
licenziare gli operai, ma quando la situazione economica iniziò a stabilizzarsi, tornò la piena libertà
di licenziamenti.

Ci fu così una forte centralizzazione a livello contrattuale da parte dei capi della CGIL e della Confindustria,
necessaria per la rapida ricostruzione del paese. Ma nel lungo periodo una centralizzazione contrattuale
così forte rischiava di essere molto soffocante per le federazioni di categoria.
I problemi per la CGIL unitaria iniziarono nel 1947 a causa dello scoppio della guerra fredda e con l’inizio
dell’epoca del centrismo. Nello stesso anno la CGIL tiene un congresso unitario in cui si ebbe uno scontro
molto forte dei tre partiti politici principali (socialisti, comunisti, democristiani) sull’articolo 9, ovvero sugli
scioperi economici o politici (si potevano fare entrambi?). I democratici erano contrari agli scioperi politici. I
socialisti e i comunisti presentarono un documento alla democrazia cristiana, il modus vivendi, un tentativo
di fissare delle regole all’interno della CGIL per potere andare avanti. Con questa proposta i socialisti e i
comunisti permettevano ai democristiani di far sentire la loro voce, ma quest’ultimi dovevano cessare
l’ostruzionismo e permettere alla maggioranza di sinistra di governare la confederazione nel modo più
sereno possibile. Questa proposta sembrò essere accolta, ma nel 48 ci fu il primo incidente diplomatico
all’interno della confederazione: venne convocata a Londra una conferenza sindacale internazionale con
l’obiettivo di discutere il Piano Marshall, ovvero la spartizione dei prestiti. La CGIL italiana decise di non
partecipare, ma i democristiani decisero di violare questa scelta e volare a Londra.
La vera e propria svolta arrivò nel 1948, quando una volta conclusa la Costituzione, ci furono le elezioni che
vennero vinte dalla Democrazia cristiana. Il nuovo governo decise che bisognava procedere ad una sorta di
<<18 aprile sindacale>>, uno scontro decisivo per porre fine all’esperienza della CGIL unitaria che veniva
vissuta dalla democrazia cristiana come troppo limitante e soffocante. Il pretesto per la scissione sindacale
arrivò il 14 luglio del 1948 quando ci fu l’attentato a Palmiro Togliatti, il capo del partito comunista, in
seguito al quale ci fu uno sciopero generale dei lavoratori, con l’intervento delle forze dell’ordine per
calmare e reprimere l’insurrezione. Questo sciopero venne preso come pretesto e occasione per la
minoranza democristiana per lasciare la CGIL. Si tennero così in quel giorno delle riunioni infuocate al suo
interno, che portarono all’uscita della democrazia cristiana. (lo sciopero che c’era stato era stato uno
sciopero politico, la democrazia cristiana era contraria a questo tipo di sciopero e quindi lasciò la CGIL).
Nacque così nel 1948 la Libera CGIL composta dai democristiani. Anche repubblicani e socialdemocratici
decisero di uscire dalla CGIL e fondarono la FIL (federazione italiana dei lavoratori). Nel 1950 nasceva la UIL
(unione italiana del lavoro) che non c’entrava nulla con la UIL del 1918, ma era l’erede di un pezzo della FIL,
ovvero quella componente di repubblicani e socialdemocratici. Poco tempo dopo nacque la CISL
(confederazione italiana sindacati dei lavoratori) composta dalla minoranza più grande, quella cattolica
democristiana uscita dalla CGIL unitaria e che un anno e mezzo dopo creava la sua confederazione.
Si concluse così la straordinaria stagione della CGIL unitaria durata quattro anni dal 44 al 48, aprendo una
stagione di sindacalismo ordinario che vedeva come protagonisti la CGIL, la CISL e la UIL.

IL SESSANTOTTO
Il movimento del sessantotto fu il movimento più importante che si verificò durante la stagione dei
movimenti (come viene chiamata dagli storici) tra fine anni 60 e anni 70. Questo movimento fu un
movimento politico (con obiettivi politici), che vide come protagonisti i giovani, studenti e operai, che
lottavano per ottenere riforme riguardanti le scuole, le università e il mondo del lavoro. Ma l’obiettivo
politico di questo movimento era quello di arrivare a cambiare il sistema capitalistico che determinava un
certo tipo di democrazia rappresentativa, che all’epoca veniva ancora definita come una democrazia
borghese. Fu infatti un movimento <<antisistema>>, con l’obiettivo di contestare il sistema economico e
politico, senza voler conquistare il potere e insediare un nuovo stato, ma volendolo trasformare. L’ideologia
di questo movimento era antiautoritaria, cioè contestava qualsiasi forma di autorità, in nome di una
maggiore libertà e uguaglianza, in senso sempre più democratico. Per raggiungere questi obiettivi, i
protagonisti introdussero delle pratiche conflittuali molto radicali, attraverso azioni dirette. La cosa che
sorprende di più di questo sessantotto fu il fatto di essere il primo movimento nella storia dell’umanità di
tipo generazionale in cui i protagonisti erano dei giovani. Proprio per questo causò grandi cambiamenti nel
modo di pensare e di vivere nella società. Un’altra grande caratteristica di questo sessantotto, fu il fatto di
essere un movimento di dimensione internazionale, pur essendo prevalentemente occidentale, arrivando
a coinvolgere tutta l’Europa, l’America e il mondo orientale, toccando anche i paesi del terzo mondo.
Ci furono diverse interpretazioni del movimento del sessantotto: alcuni lo vedono come un <<evento>>,
una cesura tra gli anni precedenti e gli anni a venire con grandi cambiamenti sul piano politico, economico,
sociale e culturale, altri lo vedono come un <<processo>> che ebbe inizio negli anni prima e che produsse
effetti e cambiamenti di ben più lungo periodo, quindi, non solamente una cesura importante della storia
contemporanea.
Un evento catalizzatore per gli Stati Uniti in questo periodo del <<lungo ‘68>>, fu la guerra nel Vietnam,
iniziata a metà degli anni ’60, di fronte alla quale si sviluppò nella società americana un movimento di
protesta contro la guerra, che vide come protagonisti i giovani. Fu per questo un esempio di movimento
del sessantotto. La guerra stava infatti provocando tantissimi morti e feriti, una vera e propria tragedia, una
delle più grandi tragedie della storia americana. Ma il ’68 italiano oltre che per questa protesta, si
caratterizza anche per il movimento per i diritti civili alle minoranze, soprattutto quella degli
afroamericani, che aveva in Martin Luther King il suo punto di riferimento, con la sua predicazione sulla
non violenza. King venne assassinato nel ’68 e poco tempo dopo ci fu anche l’assassinio di Bob Kennedy,
fratello di JFK, candidato alle elezioni.
Nel mondo orientale, in campo sovietico, il grande episodio del ’68 fu la <<primavera di Praga>>, una breve
stagione di riforme, che portarono poco tempo dopo alla repressione di questo movimento che voleva
affermare il tema dell’allargamento dei diritti, delle libertà e della democrazia. Ebbene venne soffocato nel
sangue dall’armata rossa.
In Francia ci fu una vera e propria fiammata rivoluzionaria nel ’68 e il <<maggio francese>> fu certamente
l’esempio più vistoso. In Francia si ebbe l’esempio più riuscito di questo protagonismo dei giovani,
soprattutto nelle università con l’occupazione delle scuole e delle fabbriche. Il caso francese si caratterizza
per una fortissima conflittualità sociale. Nel maggio francese ci fu la più importante saldatura del legame tra
studenti e giovani operai che portò ad uno sciopero operaio che ebbe come conseguenza la firma degli
accordi di Grenelle tra il governo e i sindacati che portavano ad una serie di miglioramenti soprattutto sul
piano salariale.
Il ’68 italiano mostro una serie di analogie con il caso francese, come il forte protagonismo del mondo
giovanile degli studenti e il legame con i giovani operai in nome dell’anticapitalismo. Vi erano poi evidenti
differenze: la Francia fu un esempio per eccellenza di breve ’68, mentre il caso italiano sul piano della
durata assomiglia più al caso americano, in quanto fu un lungo ’68. Inoltre, questo periodo fu caratterizzato
da una serie di specificità italiane, come il fortissimo movimento di migrazione dal sud al nord, la diffusione
dei metodi tayloristici, la piena occupazione che esasperarono ulteriormente le questioni sociali. Sul lungo
periodo questi movimenti raggiunsero risultati molto importanti. Verso la fine del periodo al movimento
studentesco si sostituì una nuova stagione politica dei gruppi della sinistra extraparlamentare, anche
diversi e variegati tra loro, che si posero come avanguardie di tipo rivoluzionario per segnalare il distacco
dalle masse studentesche, mettendo fine alla fase più genuina del ’68.

LA CRISI ECONOMICA DEGLI ANNI SETTANTA - VIDEO 2


La crisi economica degli anni ’70 fu un avvento di natura epocale.
E.J. Hobsbawm: secondo Hobsbawm dopo l’età dell’oro ci fu l’inizio dell’età della <<frana>> negli anni ’70.
Fu una frana soprattutto per il mondo comunista e l’unione sovietica, l’inizio della loro fine. Inoltre, in
questo periodo il capitalismo, che aveva vinto la battaglia in occidente con il comunismo, iniziò a venire
meno alle sue promesse e ai suoi ideali e al suo obiettivo di accorciare le distanze sociali, frenando le
disuguaglianze.
G. Arrighi: secondo Arrighi gli anni ’70 rappresentano l’inizio della fine del secolo americano. Gli americani
si trovano infatti dagli anni ’70 ad oggi a dover contrastare e subire la concorrenza di altri paesi sempre più
forti e sviluppati come Giappone, Europa occidentale, Germania e le potenze asiatiche degli ultimi anni.
C. Maier. Secondo Maier gli anni ’70 rappresentano l’inizio della fine dell’età industriale. Infatti, gli Stati
nazionali non sono più in grado di gestire i cambiamenti economici che assumono una forza e una rilevanza
sempre più globale (la famosa globalizzazione economica). Maier non sottolinea solamente la debolezza
degli Stati di fronte a questi processi economici, ma evidenzia che ciò che inizia a diventare sempre più
fragile è il fordismo (caratterizzato dalla produzione e dai consumi di massa), la crisi del fordismo, che resta
si una produzione su larga scala, di massa, ma non è più una produzione in serie di pezzi tutti uguali tra di
loro, ma tende a diversificarsi notevolmente e anche i consumi rimangono consumi di massa, ma cambiano
la loro natura.
Milward: individua l’anno di svolta nell’età contemporanea nel 1974, il primo anno dell’età contemporanea
in cui avvengono tre grandi fenomeni storici contemporaneamente:
 Il Working poors (lavoro povero): i working poors sono i lavoratori poveri, le classi lavoratrici più
deboli che pur continuando a lavorare diventano sempre più poveri. Nonostante le loro paghe
siano stabili e costanti da un punto di vista formale, di fronte al costo della vita tendono
effettivamente a ridursi sempre di più.
 La disoccupazione giovanile
 Il trionfo del settore terziario: in questi anni avviene il sorpasso del settore terziario su quello
secondario. Il settore dei servizi porta ad una maggiore produzione di ricchezza e ad una maggiore
occupazione dei lavoratori.
Si entra così in una fase di rivoluzione post-industriale, segnata dalla diffusione e dall’aumento delle
tecnologie, dall’aumento dell’automazione, della robotica, dell’informatica e dei PC.
Perché il 1974: il 1974 si pone a valle di due avvenimenti che produssero questo drastico cambiamento
economico:
 La fine degli accordi di Bretton Woods nel 1971 (pag.48. dettero vita alla straordinaria architettura
economica che avrebbe rappresentato un caposaldo della Golden Age. Con questi accordi vennero
prese due grandi decisioni: Dare vita ad un fondo monetario internazionale (ancora oggi esistente)
che garantisse il più possibile una stabilità monetaria ovvero dei cambi. Ovviamente tutto questo
favorisce la cooperazione internazionale, soprattutto nel commercio e negli scambi internazionali.
Dare vita alla Banca mondiale, finalizzata ad aiutare attraverso prestiti e finanziamenti quelle aree
più arretrate economicamente. Questa banca ebbe però più difficoltà rispetto al fondo monetario
nel far crescere queste nazioni più arretrate, ma raggiunse comunque buoni risultati). Una delle
ragioni per cui finirono questi accordi fu la guerra del Vietnam, che portò grandi spese sia umane
che economiche. La fine degli accordi portò anche una grande instabilità monetaria e la fine della
Golden Age.
 Il grande shock petrolifero del 1973: nel 1973 scoppia una guerra in Medioriente, la Guerra dello
Yom Kippur (durante una festività ebraica i paesi arabi attaccato Israele, il quale reagisce).
All’indomani della guerra i paesi produttori di petrolio decidono di ridurre drasticamente la
circolazione di petrolio in Occidente e di aumentare in maniera esponenziale il prezzo del petrolio
(aumenta di quattro volte). Ciò provoca una grande inflazione in occidente, con un aumento a
catena dei prezzi prima del petrolio, poi dell’energia, poi dei prodotti industriali. Si crea così un
fenomeno economico inedito <<stagflazione>> (la stagnazione insieme all’inflazione. Stagnazione
della produzione).
Le radici della crisi ancora attuale dell’Italia vanno ricercate negli anni ’70. La fine degli accordi di Bretton
Woods finisce per indebolire anche la moneta italiana, la lira, che diventa sempre meno competitiva e inizia
la possibilità continua di svalutare la moneta. Cioè per far sì che l’Italia rimanesse competitiva sui mercati
internazionali si decideva di svalutare continuamente la moneta nazionale fino all’arrivo dell’euro. Poi
arrivò lo shock petrolifero che portò stagnazione produttiva e recessione produttiva, caratterizzata da un
enorme crisi industriale. L’aumento del prezzo della benzina impediva alle persone di muoversi con le
automobili, portando ad un periodo di grande austerità, il cui simbolo per eccellenza furono le
<<domeniche a piedi>>. Fu proprio una scelta politica, secondo cui la domenica non si poteva circolare in
macchina, ma bisognava girare a piedi per far risparmiare ai cittadini e allo stato. Questo periodo in Italia si
accompagnò ad una iperinflazione. Così, negli anni 70 si affermò un modello italiano che si basava su due
scelte: la continua decisione di svalutare la moneta nazionale e l’elevatissima inflazione.

Le radici della crisi italiana possono essere osservate andando ad analizzare il deficit italiano, la differenza
tra entrate (le tasse dei cittadini) ed uscite (le spese dello stato).
Le uscite: dagli anni ’70 iniziarono a crescere le spese pubbliche, soprattutto le spese degli enti locali
(comuni e province) e delle Regioni (le regioni entrano in vigore nel 1970). Insieme a queste spese iniziò a
crescere in maniera significativa la spesa sociale, ovvero il welfare state, che comprendeva la previdenza, le
pensioni e la sanità. Ma ad aumentare notevolmente furono anche le spese legate alle politiche industriali
assistenzialiste e di crescita. Tutto questo aumento delle uscite con un PIL che entrava in una fase di
recessione portò ad un peggioramento della questione meridionale, con cui il divario tra nord e sud del
paese divenne sempre più grande ed inarrestabile, permettendo alla criminalità organizzata, la mafia in
Sicilia e l’Ndrangheta in Calabria di assumere una rilevanza politica e un peso economico enorme.
Le entrate: la prima grande riforma fiscale nel paese si ebbe nel 1972, la riforma Visentini, che introdusse
l’Iva (imposta sul valore aggiunto), la tassa indiretta ancora oggi più importante. Nel 1973 ci fu un altro
passaggio che riguardava questa volta la tassazione diretta, ovvero che colpisce direttamente le singole
persone e le singole aziende, che furono l’Irpef, Irpeg, Ilor. Il problema del sistema fiscale italiano era
innanzitutto l’altissimo livello di evasione fiscale che riguardava soprattutto l’Iva (che colpiva
indirettamente tutti i cittadini) e il fatto che la gran parte della tassazione si spostò gradualmente dalla
tassazione indiretta alla tassazione diretta (l’anno del sorpasso della tassazione diretta fu il 1979).
In un paese in cui vi erano uscite sempre più elevate e che aveva un numero sempre più ridotto di entrate si
decise di aumentare il carico fiscale, la tassazione. Oltre ad essere una tassazione caratterizzata da
un’elevata pressione fiscale era anche una tassazione squilibrata, siccome le tasse le pagano soprattutto i
lavoratori dipendenti che a causa della tassazione diretta pagano tutto il peso fiscale.

IL SECONDO BIENNIO ROSSO (1968-1969)


Autunno caldo. Il secondo biennio rosso 1968-1969 (Bruno Trentin segretario generale della FIOM): in
questo libro si avanza la tesi importante che ci sia stato un secondo biennio rosso nel ’68-’69. Il 1968 è per
eccellenza l’anno degli studenti (caratterizzato da informalità composita e non strutturata), mentre il 1969
è l’anno degli operai (che assumono le vesti di piccoli partitini, piccole formazioni organizzate, i cosiddetti
gruppi della sinistra extraparlamentare). Nel 1969 gli studenti sembrano quasi scomparire e gli operai
diventano i protagonisti per eccellenza. In questi due anni ci fu una contaminazione reciproca tra
movimento studentesco e movimento operaio che si caratterizzano per delle lotte molto dure e radicali,
per una spinta diretta che mette in secondo piano le strutture di rappresentanza. C’è uno stesso approccio
anticapitalistico che unisce questi due movimenti, oltre ad un grande antiautoritarismo. Il simbolo per
eccellenza di questo legame tra studenti e operai fu lo strumento dell’assemblea. Secondo una tesi forte e
provocatoria gli operai tendono a liberarsi, non tanto del movimento studentesco, ma da quei gruppi
rivoluzionari che hanno un atteggiamento molto ostile nei confronti dei rappresentanti sindacali dei
lavoratori. Gli avversari che si troveranno ad affrontare i lavoratori saranno i datori di lavoro e i gruppi della
sinistra rivoluzionaria, il potere operaio e l’avanguardia operaia, per esempio, che si porranno in un’azione
di duro contrasto nei confronti dei tentativi operati dal sindacato nel ’69 di ottenere conquiste rilevanti per
i lavoratori.
Analisi quantitativa delle lotte operaie: il parametro utilizzato dagli studiosi è il volume degli scioperi, la
somma delle ore perdute dai lavoratori a causa di queste astensioni collettive dal lavoro. Dal 1968 questo
volume degli scioperi è particolarmente significativo, ma la vera cesura si ha nel 1969 in cui si ha un picco
verso l’alto della curva della conflittualità, in cui si ha un valore 4 volte superiore al ’68 di ore di sciopero. Il
’69 fu quindi l’anno in cui si ebbe il maggior numero in assoluto di ore di sciopero in tutta la storia italiana.
Analisi qualitativa delle lotte operaie: significa andare ad analizzare per ciascuna lotta i contenuti
rivendicativi, le forme di lotta, gli esiti e i risultati.
Le principali vertenze aziendali del ’68:
 La Fiat di Torino (primavera): gli operai rivendicano la diminuzione degli orari di lavoro ed una
miglior gestione collettiva del cottimo. È il primo vero e proprio sciopero all’interno della Fiat su
questioni strettamente aziendali, siccome i precedenti scioperi furono o scioperi politici oppure
scioperi legati al rinnovo del contratto nazionale nel ’62. Si raggiunse un accordo che migliorava
alcuni aspetti all’interno dell’azienda. Ci furono alcuni strumenti innovatori all’interno di questo
sciopero come l’assemblea e l’utilizzo del referendum durante la vertenza aziendale.
 La Marzotto di Valdagno (primavera): nel corso di una durissima vertenza aziendale ci fu
l’abbattimento della statua del conte Marzotto, fondatore dell’azienda. Questo fu un segnale
significativo per il tentativo di porre fine a un sistema di forte subordinazione in nome di
quell’antiautoritarismo che caratterizzò le lotte del ’68.
 La Montedison di Marghera (estate): durante questa vertenza ci furono due novità molto
importanti: la rivendicazione dei lavoratori degli aumenti salariali uguali per tutti i lavoratori e la
nascita all’interno dell’azienda del CUB (comitato unitario di base) che si poneva in antagonismo
della struttura tradizionale di rappresentanza dei lavoratori in fabbrica, la Commissione interna.
 La Pirelli di Milano (autunno): un CUB comparve anche all’interno della Pirelli e costrinse il
sindacato a rilanciare la lotta che culminò in una nuova vertenza nel 1968.
Queste vertenze dimostrano come nel ’68 non ci furono solo movimenti studenteschi, ma molto viva fu
anche la classe operaia.
Questi operai si ponevano l’obiettivo primario di rompere il preambolo contrattuale, quella parte del
contratto nazionale in cui si riconosceva ai lavoratori il diritto alla contrattazione integrativa, che poteva
essere per esempio un contratto aziendale. In questo preambolo c’era anche scritto che se si fosse fatto un
contratto aziendale all’interno di uno stabilimento, questo contratto non avrebbe potuto trattare materie
che non fossero indicate nel contratto nazionale e non poteva dare luogo a delle situazioni locali che erano
migliorative del contratto nazionale. Cioè un contratto aziendale poteva chiarire alcuni aspetti legati alla
specificità di uno stabilimento, ma non poteva superare i paletti fissati dal contratto nazionali. Quindi
queste lotte avevano l’obiettivo di superare ed eliminare questo preambolo, in modo che i lavoratori nelle
loro vertenze aziendali potessero ottenere delle condizioni economiche e normative migliori rispetto ai
limiti fissati dal contratto nazionale.
Nel periodo ’68-’69 all’interno del sindacato ci furono delle differenze tra federazioni e confederazioni. Le
federazioni industriali nel ’68, in particolare i metalmeccanici, si posero all’avanguardia di queste lotte
operaie. Ma la più grande novità che caratterizzò queste federazioni nelle lotte del ’68 fu soprattutto la
rottura di un grande tabù che ci si trascinava da anni, il fatto che l’organizzazione del lavoro spettasse
unilateralmente sempre e comunque all’imprenditore e né i lavoratori, né il sindacato potevano discutere
questo tema. Questo aspetto venne completamente ribaltato nel ’68, ovvero all’oggettività capitalistica
degli imprenditori venne sostituita la soggettività degli operai, che avevano il diritto di intervenire
nell’organizzazione del lavoro e tra i temi più discussi, il più importante fu quello sull’ambiente di lavoro, la
questione della salute e della sicurezza dei lavoratori nei luoghi di lavoro. Un passo importante su questo
tema era già stato fatto nel 1967 quando la FIOM pubblicò una dispensa formativa per i sindacalisti
all’interno dei luoghi di lavoro, dove promosse un nuovo modello di inchiesta operaia, <<i quattro fattori di
nocività>>. Le inchieste compiute all’interno delle fabbriche da parte dei lavoratori dovevano essere
condotte attraverso questo modello dei quattro fattori di nocività:
1. La luminosità, la rumorosità e tutti quegli elementi che sono presenti sia in fabbrica che nel mondo
esterno
2. Gli aspetti specifici di quella fabbrica: se si utilizzavano determinate polvero o determinati fumi o
gas o prodotti chimici nocivi per la salute operaia
3. La fatica fisica, quanto era duro il lavoro dal punto di vista fisico
4. La fatica mentale, lo stress legato ad alcune lavorazioni
Quindi con queste inchieste il sindacato e le federazioni di categoria si ponevano l’obiettivo di rompere la
precedente situazione basata sulla monetizzazione del lavoro, per cui se un lavoro era più nocivo dell’altro
bisognava solo pagarlo di più. Invece l’obiettivo nel ’68 fu quello di eliminare questi lavori nocivi e non
soprappagarli.
Le Confederazioni arrivarono piuttosto in ritardo nelle lotte del ’68, provocando una certa contestazione da
parte di studenti e lavoratori. Da questo punto di vista c’è una vicenda, la vicenda della lunga vertenza
delle pensioni particolarmente significativa in cui si vede proprio questo capovolgimento del ruolo del
sindacato, inizialmente oggetto di contestazione e poi protagonista della contestazione studentesca e
operaia. CGIL, CISL e UIL firmano un accordo sulle pensioni molto moderato, a causa del quale arriva
un’ondata di protesta nei confronti di queste confederazioni. La CGIL è così costretta a chiamare uno
sciopero generale per una nuova riforma delle pensioni, al quale partecipano molti membri della CISL e
della UIL. Di fronte a questi scontri delle confederazioni con la base (lavoratori e rappresentati), UIL, CISL e
CGIL decidono di provare a riallacciare nuovamente un dialogo unitario. Si inizia così un dialogo unitario sul
tema delle pensioni che portò ad una grande svolta, dopo anni di separazione ideologica e rottura tra CGIL,
CISL e UIL si riesce a proclamare uno sciopero generale unitario sul tema delle pensioni. Per la prima volta
dopo la rottura della GCIL unitaria, le tre sigle proclamano insieme uno sciopero generale. Grazie a questo
sciopero viene raggiunto un accordo sindacale che porta all’approvazione della nuova riforma delle
pensioni, la riforma <<Brodolini>>, una riforma talmente importante che per la prima volta in Italia si può
parlare di Stato Sociale.
Accanto a questa vertenza sulle pensioni, l’altra grande vertenza che viene a compimento in quegli anni fu
l’abolizione delle <<gabbie salariali>> (zone salariali pag. 57).
Simbolo dell’arretratezza del meridione in quel periodo fu il fatto che si verificarono due eccidi proletari,
cioè l’uccisione di lavoratori durante manifestazioni politiche sindacali. Questi eccidi si ebbero ad Avola e a
Battipaglia. Questi furono gli ultimi morti di un lunghissimo periodo di eccidi proletari (che vi erano già
nell’Italia giolittiana) nella storia nazionale italiana.

L'AUTUNNO CALDO DEL 1969


Il terreno principale in cui avvenne il processo di sindacalizzazione della contestazione (gruppi di studenti e
lavoratori movimentati iniziano ad essere rappresentati e difesi dai sindacati) fu quello della
rappresentanza nei luoghi di lavoro. Tra gli anni ’60 e ’70 le Commissioni interne non vennero rinnovate e
scomparirono dalle fabbriche per essere sostituite dalle Sezioni sindacali aziendali che avevano una
funzione di tipo prevalentemente organizzativo (tesseramento, propaganda, riscuotere le quote
d’adesione). Perciò come le Commissioni interne, anche le Sezioni non avevano potere contrattuale.
Questo potere rimaneva esterno alla fabbrica. Quando scoppiò il movimento del ’68 nelle fabbriche si
viveva una vera e propria crisi della rappresentanza sindacale, che portò ad altri strumenti di
rappresentanza. Nacquero così i Comitati unitari di base (CUB pag. 62), lontani dai sindacati tradizionali
(CGIL, UIL, CISL) ed ostili a questi sindacati considerati troppo moderati.
Nel 1969 ci fu una svolta decisiva che portò alla nascita dei delegati. I delegati erano delle nuove forme di
rappresentanza dei lavoratori nei luoghi di lavoro. I primi delegati vennero conquistati con una serie di
lotte, scioperi e mobilitazioni. Questi delegati erano di vario genere: delegati di cottimo, delegati di reparto,
delegati di linea o di squadra, ecc. in ogni caso questi delegati erano rappresentanti di quello che veniva
chiamato gruppo operaio omogeneo, operai che vivevano nelle stesse condizioni di vita e di lavoro. Questi
delegati erano eletti da tutti i lavoratori su scheda bianca (nel momento dell’elezione veniva data ai
lavoratori una scheda bianca sulla quale bisognava scrivere il nome del proprio delegato che si voleva). Fu
un vero trionfo della democrazia diretta sulla democrazia rappresentativa molto indebolita senza i propri
corpi sindacali intermedi. Una volta eletti questi delegati erano revocabili direttamente dai lavoratori. La
grande novità concessa ai delegati fu il potere contrattuale, che non fu una concessione da parte dei
sindacati o dei dirigenti, ma fu una conquista da parte dei lavoratori. Questa fu la grande differenza con le
Commissioni Interne. Così nel momento in cui furono gli stessi delegati e lavoratori a contrattare le loro
condizioni di lavoro, iniziarono a cambiare anche i temi rivendicativi. Non solo più i temi dei salari e degli
orari, ma temi nuovi.
Fu proprio tra il ’69 e il ’70 che dall’unione all’interno delle fabbriche dei delegati di tutte le categorie e
reparto nacquero i Consigli di fabbrica. Ma la vera e propria svolta si ebbe nel 1970 quando una parte del
sindacato decise di fare dei delegati le loro strutture di base, dando vita al <<sindacato dei Consigli>>.
Queste forme di rappresentanza vennero riconosciute dal governo come RSA, ovvero come
Rappresentanze sindacali aziendali, all’interno delle quali vi erano le vecchie Commissioni interne
congelate, le vecchie Sezioni sindacali, i nuovi delegati e i nuovi Consigli di fabbrica.
L’<<autunno caldo>> si ebbe soprattutto tra la primavera e l’estate del 1969 che furono la stagione di una
vera e propria democrazia sindacale. In vista del rinnovo dei contratti nazionali questo autunno fu calco
soprattutto perché capitò che nello stesso momento una serie di categorie vedevano scadere il proprio
rinnovo contrattuale. In vista del rinnovo furono soprattutto le tre principali federazioni dei metalmeccanici
che decisero di aprire nelle fabbriche metalmeccaniche una vera e propria consultazione di massa su
questa piattaforma contrattuale. I sindacati prepararono la piattaforma di consultazione di massa che durò
tre mesi, nel corso dei quali vennero fatte molte assemblee e ci fu un vero e proprio esempio di democrazia
sindacale con la quale ei lavoratori spettava sempre l’ultima parola. Alla fine di questa grande consultazione
di massa si votò finalmente questa piattaforma che ebbe come contenuti sostanzialmente cinque punti:
1. Aspetto salariale: paghe salariali uguali per tutti
2. Riduzione degli orari da 48 a 40 ore settimanali (non si lavorava né la domenica né il sabato)
3. Parità di trattamento tra operai e impiegati in caso di malattia e infortunio (in merito all’indennizzo
monetario in caso di malattia e infortunio)
4. Diritto di assemblea con i propri rappresentanti sindacali
5. Totale libertà dei lavoratori nei luoghi di lavoro (libertà di azione, di espressione, di associazione, di
vita)
Durante l’autunno caldo ci furono moltissimi scioperi, manifestazioni nazionali e persino lotte operaie nel
corso della trattativa (fino a quel momento quando iniziava la trattativa si cessava di scioperare). Ci furono
anche assemblee all’interno delle fabbriche (le assemblee venivano fatte abusivamente per legalizzare le
assemblee in fabbriche) e un importante unità sindacale tra CGIL, CISL e UIL. L’autunno caldo si concluse
con una grande vittoria da parte degli operai che riuscirono a far approvare i 5 punti fondamentali della
piattaforma.
Dopo l’autunno caldo gli operai vissero una stagione positiva piena di luci anche se non mancarono le
ombre. Uno degli aspetti controversi fu il tema della violenza. Innanzitutto, lo scontro di classe fu uno
scontro molto duro che provocò diversi feriti e portò a molte denunce contro gli operai scioperanti. L’apice
della violenza dell’autunno caldo si ebbe alla fine con la strage di Piazza Fontana del 1969 quando a Milano
venne fatta scoppiare una bomba all’interno di una banca che causò molte morti e feriti. Questa strage
rappresentò l’inizio di quella che viene chiamata ancora oggi la <<strategia della tensione>>, una strategia
finalizzata a creare il panico nella popolazione, in modo che questi cittadini sentendosi in una situazione
drastica si spostassero sempre più a favore di quegli ambienti che avrebbero potuto ripristinare con la forza
la legge dell’ordine (destabilizzare l’ordine pubblico per ristabilire l’ordine politico in chiave autoritaria).
Coloro che misero la bomba appartenevano a gruppi neofascisti e il bersaglio principale era il mondo del
lavoro che stava per la prima volta ottenendo straordinari risultati sul terreno economico, sociale e
giuridico. Il periodo dell’autunno caldo fu un periodo di supplenza sindacale, in cui i sindacati avevano un
peso politico e sociale superiore a quello dei partiti politici. Una grande conquista che rappresentò ancora
una volta la svolta economica e giuridica dei lavoratori, fu la legge 300 del 1970, la legge più importante in
assoluto nel mondo del lavoro che portò alla nascita dello Statuto dei diritti dei lavoratori che si divide in
due parti fondamentali che garantiscono la libertà d’opinione dei lavoratori, il diritto alla salute, la difesa
dalle azioni disciplinari ingiustificate, il diritto di associazione e di rappresentanza sindacale.

LA SFIDA DEL SINDACATO DEI CONSIGLI


All’interno del sindacato c’erano soprattutto due schieramenti che andavano oltre le tre sigle sindacali,
erano trasversali alla CGIL, CISL e UIL. Vi era una corrente sindacale più tradizionale, più conservatrice e una
corrente più progressista e aperta a nuovi scenari, attratta da un rapporto positivo con i movimenti operai.
Questa seconda corrente divenne poco alla volta sempre più maggioritaria soprattutto all’interno dei
movimenti e delle strutture. Questa componente fu la <<sinistra sindacale>>, nata negli anni ’60 quando si
diffuse l’ideologia dell’operaismo sindacale che vedeva nella fabbrica il centro del potere capitalistico e
della lotta di classe e faceva del sindacato il principale protagonista di quella lotta per il potere. La svolta
decisiva per l’affermazione della sinistra sindacale arrivò nel ’68. La sinistra sindacale si impose infatti di
portare la contestazione all’interno del sindacato con l’obiettivo di governare questa contestazione e di
indirizzarlo verso sbocchi positivi. Fu merito di questa sinistra sindacale se tra il ’68 e il ’69 si allargarono gli
spazi di democrazia diretta da parte dei lavoratori che portarono alle conquiste già citate come la conquista
della piattaforma. La sinistra si poneva l’obiettivo di una vera e propria democrazia <<deliberativa>>, con la
quale le scelte finali spettavano sempre e comunque alla base dei lavoratori e non ai loro rappresentanti.
Una seconda grande conquista fu l’autonomia sindacale nei confronti del mondo politico esterno, dei
partiti e delle imprese, che desse al sindacato un potere e una rilevanza politica al pari degli altri organi
politici. Accanto a queste due sfide, ce ne fu una terza, la sfida dell’unità sindacale <<organica>>. Per la
sinistra sindacale l’unità non doveva essere solo la somma delle tre sigle principali, ma una vera e propria
fusione che riportasse alla rifondazione unitaria di un nuovo sindacato. Questo funzionò bene tra le tre
federazioni dei metalmeccanici che durante l’autunno caldo si organizzarono e si mossero come un unico
grande sindacato.
Nei primi mesi del 1970 ci fu la costituzione ufficiale di questo nuovo sindacato trasversale che prese il
nome di <<sindacato dei Consigli>>.
Quindi a partire dal 1970 iniziò all’interno del sindacato la battaglia per realizzare una vera e propria unità
sindacale e per sciogliere le tre sigle principali. Questo sindacato a partire dal 1970 lanciò una serie di
scioperi per ottenere una serie di riforme importanti nel piano della casa, dei trasporti e della sanità, di
fronte ai quali il governo in carica decise di dimettersi. Il nuovo governo varò un decreto col quale veniva
portato avanti il tentativo di raffreddare attraverso gli strumenti della politica la crescita dell’economia
(restrizione del credito, riduzione dei prezzi e dei salari) per raffreddare a sua volta la situazione sociale
molto calda.
Nel 1972 dopo la fine degli accordi di Bretton Woods e in una situazione economica instabile si tennero le
prime elezioni politiche anticipate per anticipare lo scioglimento del parlamento di centrosinistra. Queste
elezioni furono particolarmente importante perché videro la sconfitta del centrosinistra e l’affermazione di
un nuovo schieramento di centrodestra, il partito liberale. Intanto continuavano i tentativi di strategia della
tensione, che portò ad altre stragi. In questo contesto complicato, la sinistra sindacale provò a lanciare la
sfida definitiva per la realizzazione di un sindacato il più democratico, autonomo e unitario possibile.
Questo difficile cammino verso l’unità sindacale venne condotto tra il ’70 e il ’72, quando si contrapposero
queste due visioni: quella dell’unità <<a pezzi>>, nel senso che i metalmeccanici spingevano per realizzare
l’unita sindacale con chi era in grado di seguire questa strada e non con chi non era ancora pronto, ma che
sarebbe potuto entrare nel momento in cui lo sarebbe stato e quella parte che considerava l’unità a pezzi
(ovvero prima uno e poi l’altro) come un’unità che avrebbe fatto a pezzi il mondo sindacale.
Quindi fu una battaglia interna al sindacato che portò a tre diverse riunioni nella città di Firenze, Firenze
uno, Firenze due e Firenze tre in cui si cominciò a parlare di unità sindacale organica e nella riunione di
Firenze tre si stabilì lo scioglimento delle tre sigle e la nascita di un nuovo soggetto unitario. Ma quando
sembrava ad un passo l’affermazione dell’unità sindacale ecco che scoppiò una vera e propria crisi che
portò ad una svolta nel 1972. Accadde che in alcuni ambienti sindacali iniziarono delle scissioni e venne a
crearsi un’alleanza molto forte tra socialdemocratici e repubblicani che dichiararono che l’unità sindacale in
quelle condizioni non si poteva realizzare. Il segretario generale della CGIL decise di lanciare una soluzione
di mediazione, la firma del patto federativo nel 1972 che diede vita non ad una confederazione unitaria, ma
ad una Federazione delle tre confederazioni CGIL, CISL e UIL. Questa unità federativa oltre ai grandi
vantaggi, aveva anche dei limiti interni come, ad esempio, il fatto che le tre sigle mantenevano una loro
integrità organizzativa. Di fatto questa federazione unitaria non accettò mai i delegati e i Consigli di fabbrica
come le loro strutture di base, ma riuscì comunque in parte a realizzare quell’unità che si cercava di
affermare da anni, seppur in modo più completo. Nel 1972 nacquero tutte le Federazioni unitarie a livello
di categoria tra le quali la FLM, cioè la Federazione Lavoratori Metalmeccanici, ovvero la Federazione più
importante.
Tra il 1972 e il 1973 si ebbe la fine di questo ciclo conflittuale iniziato nel 1968, quando venne firmato
l’ultimo grande contratto collettivo nazionale di lavoro dai metalmeccanici nel 1973. Fu un contratto molto
importante siccome pose fine alla job evaluation (i lavoratori venivano pagati non per quello che sapevano
fare, ma per quello che facevano pag.53) che venne sostituito con un nuovo modello di classificazione del
personale che prese il nome di <<inquadramento unico>>, che stabiliva che i lavoratori venissero pagati
per quello che sapevano fare e non per quello che avrebbero effettivamente svolto e inoltre metteva sullo
stesso livello sia gli operai, sia gli impiegati coloro che non lavoravano manualmente. Un’altra novità di
questo nuovo contratto furono le <<150 ore>> per il diritto allo studio concesse dalle aziende, all’interno
delle quali i lavoratori potevano apprendere nozioni sia funzionali al lavoro sia per farsi una maggiore
cultura generale, che avrebbe portato ad un rafforzamento culturale del singolo lavoratore e un beneficio
indiretto all’azienda. Ci fu poi un’altra grande innovazione che fu lo straordinario volontario, ovvero chi
faceva un lavoro straordinario oltre l’orario di lavoro beneficiava di un supplemento salariale, ma questo
straordinario non poteva essere imposto al lavoratore, ma deciso volontariamente.
Accanto alle grandi conquiste contrattuali in quegli anni ci furono anche diverse riforme come la legge per
la tutela delle lavoratrici madri e la tutela del lavoro a domicilio.
Sempre in questo periodo ci fu la nascita del sindacato europeo, la Confederazione europea dei sindacati
(CES).

LE RELAZIONI INDUSTRIALI NELLA CRISI DEGLI ANNI '70, TRA ECONOMIA E POLITICA
La crisi economica degli anni ’70 viene definita come crisi del sistema e da questa crisi il capitalismo ne uscì
modificato a livello mondiale. Come già detto il primo atto drammatico di questa crisi di sistema fu lo shock
petrolifero del 1973 che causò in tutto il mondo una recessione economica e una stagnazione produttiva,
oltre che una iperinflazione. La stagflazione provocò una disoccupazione di massa soprattutto a livello
giovanile e un aumento dei prezzi, soprattutto del petrolio, della benzina e dell’energia. Il PIL italiano crollò,
molte aziende andarono in difficoltà, mentre altre sfruttarono questa occasione per cambiare ed innovarsi.
A metà degli anni ’70 ci fu una piccola ripresa, ma poi nel 1979 si presentò un secondo shock petrolifero
per alcuni aspetti addirittura peggiore del primo, uno shock anche questa volta figlio degli eventi
drammatici bellici che avvenivano in Medioriente e nei paesi arabi (Iran in questo caso). Parallelamente a
questa nuova crisi di sistema in Italia si verificò una crisi politica. Nel paese vi era ancora un vero e proprio
pericolo fascista sottolineato da una grande crescita del terrorismo nero che si verificò negli anni ’70 e che
viene ricordato come stragismo nero. C’era già stato l’episodio di Piazza Fontana seguito da altre stragi in
tutta Italia, ma nel 1973 ci fu una crescita di queste stragi, la bomba alla Questura di Milano e nel 1974 la
Strage di Piazza della Loggia a Brescia e la strage sul treno Italicus. Soprattutto la strage di Brescia colpì il
mondo del lavoro, siccome durante una manifestazione sindacale promossa dalle tre sigle esplose una
bomba che causò sei morti e decine di feriti. L’obiettivo dei terroristi era di colpire i carabinieri anche se poi
alla fine vennero colpiti i lavoratori. Si vissero giorni di grande tensione politica e popolare. Negli stessi anni
iniziava ad emergere il terrorismo rosso che iniziò a colpire nel 1974 lasciandosi dietro una lunghissima scia
di sangue e che avrebbe raggiunto il culmine con l’omicidio di Aldo Moro nel 1978. L’obiettivo delle brigate
rosse era di far saltare quell’alleanza anomala tra democrazia cristiana (principale partito di governo) e
partito comunista (principale partito di opposizione).
Questa grave crisi di sistema degli anni ’70 impattò sul mondo delle relazioni industriali, che risentirono
pesantemente del terrorismo, contro il quale sia gli industriali sia i sindacati si schierarono duramente
(omicidi di Guido Rossa e Giuseppe Taliercio). Di fronte a questa terribile crisi economica, imprese e
lavoratori si accordarono per affrontarla insieme e l’esempio per eccellenza di questa alleanza fu il grande
accordo interconfederale Lama-Agnelli tra la federazione unitaria CGIL, CISL e UIL e la Confindustria nel
1975. Questo accordo prevedeva un estensione della cassa integrazione guadagni per proteggere il salario
di chi non riusciva a lavorare a causa della crisi economica e dette vita al cosiddetto punto unico di
contingenza, quel punto all’interno del salario in cui una quota era difesa dalla scala mobile e l’altra quota
era contrattata dai contratti di lavoro; ebbene questo punto venne trimestralizzato, mentre in precedenza
scattava ogni sei mesi, divenne un punto unico, unificato per tutte le categorie di lavoratori e venne
innalzato al punto più alto. Il punto di contingenza era l'importo (in lire) che veniva corrisposto come voce
del salario ogni volta che si determinava un aumento del costo della vita secondo il meccanismo della scala
mobile (economia). La scala mobile era stata introdotta nel 1945, e con un accordo interconfederale del
1975 si stabilì che il punto di contingenza dovesse essere unico per tutti i lavoratori (mentre prima gli
aumenti non erano gli stessi per tutti, a seconda dell'età e della qualifica del lavoratore). Questo accordo
ebbe anche due aspetti negativi: il primo fu che finì per esasperare la rincorsa tra i prezzi e i salari (i prezzi
crescevano, i salari rincorrevano i prezzi e si veniva a creare una spirale che finiva di alimentare l’inflazione),
il secondo fu l’appiattimento salariale, cioè il fatto che le qualifiche più basse avessero una quota del loro
salario maggiormente protetta dalla scala mobile che faceva si che i salari delle categorie più basse
tendevano a crescere più rapidamente dei salari delle categorie più basse. Questo nel corso degli anni creò
un crescente malcontento soprattutto per i lavoratori più specializzati e più qualificati. L’accordo del 1975
diede quindi inizio ad una parabola discendente del sindacato, che rimaneva comunque molto forte in quel
periodo. Infatti, nel 1976 si ebbero i rinnovi nazionali contrattuali che significarono una grande novità per
tutte le categorie, ovvero la conquista della cosiddetta <<prima parte>> dei contratti (o parte politica dei
contratti), all’interno della quale i sindacati e i lavoratori ottenevano i diritti di informazione. Quei diritti di
essere informati come lavoratori e come sindacati e di essere consultati periodicamente da parte delle
aziende, nel caso in cui quest’ultima avesse voluto compiere un determinato investimento, un’azione di
decentramento produttivo, ridurre o aumentare l’occupazione. In poche parole, ottenevano il diritto ad
essere informati e consultati in occasione delle grandi decisioni strategiche prese dalle aziende. Con questi
contratti cominciò ad incrinarsi il fronte unitario sindacale, che non fu una rottura tra CGIL, CISL e UIL, ma
una rottura trasversale tra i settori produttivi, soprattutto tra metalmeccanici e chimici.
La violenza politica di quegli anni attraverso anche un importante fenomeno, il movimento del ’77, un
movimento giovanile che presentava delle analogie col movimento del ’68, ma anche importanti differenze.
Col movimento del ’77, di fronte alla grande disoccupazione e allo sfruttamento del lavoro, la risposta dei
giovani fu il <<rifiuto del lavoro>> (non aveva più senso di parlare di etica del lavoro quando si aveva di
fronte un sistema che dava ai lavoratori un futuro di precarietà). Un esempio di questo atteggiamento
violento presente all’interno del movimento del ’77 si ebbe con l’episodio della cacciata di Lama
dall’Università della Sapienza. Vi erano delle occupazioni all’interno dell’università, il leader della CGIL si
era recato nella scuola per tenere un comizio, durante il quale ci fu un assalto da parte dei manifestanti che
costrinse Lama a fuggire che dimostrò come quel confronto tra il sindacato e i giovani non era possibile.
Sempre nel 1977 ci fu l’accordo sul costo del lavoro, sul tema del caro vita, della scala mobile e
dell’inflazione al quale si oppose la federazione dei metalmeccanici che decisero di fare una grandissima
manifestazione a Roma contro la solidarietà nazionale, ovvero l’alleanza tra democratici e comunisti. CGIL,
CISL e UIL decisero invece di andare incontro a questa collaborazione di governo, anticipando una
famosissima linea di politica sindacale che prese il nome di linea dell’Eur, che venne lanciata nel 1978
all’assemblea dell’Eur. Questa linea era una cosiddetta politica dei <<due tempi>>, in cui c’era un primo
tempo del risanamento dei conti pubblici e un secondo tempo in cui si sarebbe potuto concentrare lo
sforzo anche sui temi dello sviluppo. La solidarietà nazionale terminò pochi mesi dopo l’omicidio di Aldo
Moro nel 1979. La legge più importante creata da questa alleanza tra democratici e comunisti poco prima
dello scioglimento fu la legge che decretava il Servizio sanitario nazionale nel paese, il diritto alla salute
spettava a tutti i cittadini e doveva essere per quanto più possibile gratuito.

IL TOYOTISMO IN UN SISTEMA ECONOMICO MULTIPOLARE


Tra gli anni ’70 e ’80 il mondo si presentò in forma sempre più multipolare, ovvero con tanti poli economici,
politici, militari. Fino agli anni ’60 il mondo era stato un sistema bipolare con la democrazia da una parte e il
comunismo dall’altra. Dagli anni ’60 iniziarono dei cambiamenti in campo geopolitico e geoeconomico, che
portarono una crisi del bipolarismo su entrambi i lati. Dagli anni ’60 iniziò infatti il declino della potenza
americana, più precisamente dal 1971. Nel 1971 ci fu la fine degli accordi di Bretton Woods voluta dagli
americani che rappresentò il primo segnale di debolezza degli Stati Uniti che non avevano più la forza di
governare tutto il mondo. A questo si aggiunse la crisi del petrolio che portò gli americani a finanziare la
ricerca di petrolio nel proprio paese. Nella guerra del Vietnam di metà ani ’60 ci fu un grandissimo
dispendio di forze e risorse da parte degli americani culminato con la sconfitta militare che determinò un
po’ l’inizio di questo declino. Una altra causa fu anche la politica di contenimento nei confronti del
comunismo durante la guerra fredda, che aveva provocato un grande esborso di denaro. Dall’altro fronte,
l’Unione Sovietica iniziò il suo declino con la dura repressione della primavera di Praga e la repressione
delle rivolte operaie in Polonia. Infatti, queste due rivolte dimostrarono come l’Unione Sovietica faticasse
sempre più a mantenere il controllo dei paesi satelliti. Divenne inoltre sempre più complicata la
concorrenza della Cina comunista (che intanto stava crescendo e innovando, fino ad arrivare ai livelli di
oggi), che stava stringendo rapporti sempre più stretti con gli Stati Uniti. La dipendenza verso il mondo
mediorientale e i produttori di petrolio rappresentò un ulteriore fattore di complessità degli equilibri
geopolitici mondiali. Intanto si affacciava un nuovo pericolo in Medioriente per l’occidente che era l’Iran.
Negli anni ’70 nel mondo occidentale si andò ad affermare un nuovo protagonista, il processo di
integrazione europea, cresciuto negli anni ’50 con la nascita della CECA e della Comunità europea,
indebolitosi negli anni ’60 e in rilancio nel ’70. Questa ripartenza si esplicitò con l’allargamento del
processo di integrazione europea a tre nuovi stati - la Gran Bretagna, l’Irlanda e la Danimarca- arrivando a
nove stati totali. All’interno di questi nove paesi venne fuori l’egemonia della Germania che prese le redini
del processo di integrazione europea che portò un rafforzamento delle istituzioni europee: divenne sempre
più stabile il Consiglio europeo, venne eletto il primo Parlamento europeo nel 1979 dal popolo europeo e ci
fu la nascita del Sistema Monetario Europeo (SME), che teneva insieme tutte le monete europee con il
marco tedesco considerato la moneta più forte. A partire dagli anni ’70 il simbolo per eccellenza del
multipolarismo fu la nascita dapprima del G6 e poi del G7. Il G6 era il cosiddetto Gruppo dei Sei (Stati Uniti,
Gran Bretagna, Francia, Germania, Italia, Giappone) che iniziò ad unirsi in maniera sempre più stabile fino
ad arrivare al G7 (Canada), un‘organizzazione intergovernativa che teneva insieme i governi di questi paesi,
che erano i più industrializzati del mondo e che si riunivano periodicamente per discutere e decidere su
alcuni dei problemi economici e industriali a livello globale più importanti.
All’interno di questo mondo multipolare si situa una nazione in particolare, il Giappone, che si stava sempre
più occidentalizzando. Durante la Seconda guerra mondiale il Giappone fascista fu decisivo nella Seconda
guerra mondiale per la battaglia di Pearl Harbour che permise l’entrata in guerra degli Stati Uniti e lo
scoppio di due bombe atomiche in Giappone. Nel 1951 ci fu la firma del trattato di San Francisco con cui si
poneva definitivamente fine alla questione nipponica e al protettorato statunitense sul Giappone, con cui
iniziò una nuova stagione di rilancio del Giappone che tornava ad essere una pedina fondamentale per
contenere il comunismo. Anche in Giappone tra gli anni ’50 e ’60 ci fu il boom economico superiore a quello
europeo, il più superiore al mondo. Il simbolo di questa grande crescita economica del Giappone fu
l’azienda automobilistica della Toyota. Qui nacque un nuovo modo di produrre che prese il nome di
Toyotismo, il Toyota Production System, che si basava su tre pilastri fondamentali:
 La produzione snella: quella produzione che si basava su una sincronia quasi perfetta tra le diverse
operazioni che avvenivano all’interno di un reparto o della fabbrica, che non doveva determinare
nessuno spreco di tempo che doveva svilupparsi nelle isole di montaggio (non la catena di
montaggio). La produzione si basava sul modello Just in Time, secondo il quale bisognava avere le
materie prime e i pezzi sempre a disposizione nei vari reparti e isole nelle quantità richieste.
 La fabbrica integrata: tutti i reparti dovevano essere integrati tra loro e non divisi. Era la cosiddetta
fabbrica a “sei zeri”: zero scorte, zero difetti, zero conflitto, zero burocrazia, zero tempi morti di
produzione e zero tempi di attesa per il cliente.
 La qualità totale: poteva essere realizzata solamente con l’automazione, cioè col progresso
tecnologico, con l’automazione tecnologica e la robotizzazione.
Il miracolo della Toyota si ebbe negli anni ’70 e a inizio anni ’80 era diventata la seconda grande azienda di
produzione di automobili dopo la Ford americana. I risultati vennero raggiunti grazie ai lunghissimi orari di
lavoro dei dipendenti, ma soprattutto grazie alla straordinaria organizzazione del lavoro più flessibile e
automatizzata. Così il toyotismo iniziò a partire dagli anni ’80 a sostituirsi al modello del fordismo,
portando un beneficio nel mondo delle imprese. Le differenze principali tra fordismo e toyotismo:
 Il rapporto con il mercato: il fordismo si basa sul taylorismo che è una linea di organizzazione
scientifica della produzione, tutto è messo in sequenza seguendo la linea di montaggio, non si può
bloccare la linea di montaggio se no si blocca tutta la produzione, i difetti possono essere corretti
solamente alla fine del processo produttivo e di fatto è la Ford che fa il mercato (tutti i clienti
possono richiedere un auto con un colore diverso, purché quest’auto fosse nera). Il fordismo è
infatti caratterizzato da una rigidità di mercato, dalla produzione di massa e dai consumi di massa
che non erano fatti dal mercato, ma dall’azienda. Il Toyotismo non significa catena di montaggio,
ma isole di montaggio, non tutto in sequenza, ma tutto deve essere perfettamente sincronizzato, se
si registra un difetto questo viene subito risolto e non è l’azienda a fare mercato, ma l’azienda si
adatta alle richieste del mercato. Se viene richiesto un particolare coloro o caratteristica, l’azienda
deve avere quella flessibilità interna per rispondere in tempi rapidi alla richiesta. Non è l’azienda
che fa il mercato, ma è il mercato che fa le aziende.
 La comunità d’impresa: nel sistema toyotista, il conflitto è considerato una perdita di tempo e di
energie, non bisogna alienare i propri dipendenti, ma bisogna collaborare con loro come una
grande comunità.
Anche il toyotismo presenta però dei lati negativi:
 Le divisioni tra i lavoratori: chi è all’interno del sistema è protetto, mentre chi rimane fuori non ha
lo stesso livello di protezione e garanzie
 Il ruolo dei sindacati: Il toyotismo ha peggiorato la posizione del sindacato, che all’interno del
mondo toyotista non può essere un agente conflittuale, ma solo un elemento collaborativo, previa
eliminazione
 L’integralismo aziendale: premia la fedeltà del dipendente al datore di lavoro, premia l’anzianità
del dipendente. Favorisce il sistema di welfare aziendale finalizzato esclusivamente ai dipendenti di
quell’azienda, mentre tutto ciò che è fuori non interessa nel sistema toyotista.

LA TERZA ITALIA E I DISTRETTI INDUSTRIALI


A. Bagnasco, Tre Italie: Bagnasco fa una distinzione tra tre zone d’Italia diverse corrispondenti a tre diverse
Italie. La prima Italia era ovviamente quella corrispondente al triangolo industriale che aveva permesso al
paese di diventare una delle prime potenze mondiali. La seconda Italia era il Meridione da Roma in giù,
protagonista della questione meridionale mai risolta e delle profonde differenze economiche con il nord. Vi
era poi una terza Italia, un’Italia industriale in crescita, ma fuori dal triangolo industriale che scoppia dagli
anni ’70 e che comprende il nord est e parte dell’Italia centrale (Toscana, Emilia-Romagna, Umbria)
arrivando negli anni a comprendere sempre più paesi del sud con l’Abruzzo, le Marche, il Molise e la Puglia.
Nella terza Italia vi era una centralità della una piccola e media impresa a differenza dei grandi stabilimenti
del nord della prima Italia. Dagli anni 70 queste piccole medie imprese iniziano ad unirsi non a livello di
proprietà, ma a livello produttivo di determinati beni. Ciò che viene a realizzarsi è un vero e proprio
reticolo, un legame tra piccole e medie imprese che all’interno di un singolo territorio vanno a costituire un
vero e proprio polo industriale che viene chiamato <<distretto industriale>>. Quindi il distretto industriale
è un sistema di piccole e medie imprese specializzate nella produzione di un determinato bene, orientate
all’esportazione che hanno come punto di forza il fatto di essere inserite all’interno di un territorio
virtuoso, un territorio piccolo e ristretto in cui queste imprese hanno la disponibilità di beni collettivi come
infrastrutture, trasporti, banche che aiutano a ridurre i costi e ad aumentare la produttività.
Il decentramento produttivo fu un sistema di politica aziendale escogitato soprattutto dalle grandi imprese
capitalistiche nel pieno della crisi petrolifera per esternalizzare sempre più la produzione, ovvero cercando
di creare piccole e medie imprese all’interno del territorio in cui si situano le grandi fabbriche. L’obiettivo di
questo decentramento produttivo è quello di ridurre i costi di produzione e di migliorare l’organizzazione
della produzione e del lavoro. Ma vi è anche un obiettivo nascosto di natura sindacale e politica, siccome
qualsiasi esternalità mira a ridurre la manodopera all’interno di una grande fabbrica e la conflittualità
sociale. Quindi la crisi economica degli anni 70 rappresenta anche un’occasione storica per le imprese di
ristrutturare la loro organizzazione interna, dando vita a nuove soluzioni come il decentramento produttivo.
Tra gli anni ’70 e ’80 si ha in Italia il boom dei cosiddetti distretti industriali. I settori produttivi che hanno
caratterizzato la terza Italia e il fenomeno dei distretti industriali sono le industrie alimentari, della carta,
chimiche, della plastica, della gomma, meccanica, oreficeria, calzature, pelli, settore immobiliare, tessile e
dell’abbigliamento. Tutti questi settori vanno a costituire il famoso made in Italy, l’insieme di quei prodotti
industriali che hanno fatto grande il nome dell’Italia sul piano dell’immagine e della qualità. Negli anni ’80
viene coniato lo slogan <<piccolo è bello>>, cioè l’idea che riducendo le dimensioni delle aziende e degli
impiegati oltre che della scala economica, non è detto che si riducano anche i profitti e il capitale, ma
sicuramente si ridurranno i costi di produzione e aumenterà la produttività. La flessibilità delle piccole e
medie imprese della terza Italia rispecchia in parte quella del Toyotismo, ma in un contesto più piccolo e
contenuto. In questi distretti industriali si diffuse velocemente la tecnologia e quell’automazione tipica del
Toyotismo che permise lo sviluppo della terza Italia, oltre a quella flessibilità necessaria per soddisfare i
mercati che richiedevano sempre più prodotti personalizzati lontani da quell’idea del fordismo. Nel caso
dell’esplosione di questi distretti industriali, giocano un ruolo di primo piano tanto le tradizioni locali
quanto la solidarietà territoriale. Tradizioni locali in quanto questi distretti vanno a svilupparsi e a insediarsi
proprio dove c’è una tradizione industriale già presente alle spalle. La solidarietà territoriale è la
conseguenza delle subculture politiche che nel caso dell’Italia sono state la cultura cattolica e quella
socialista comunista, lontane da quell’approccio individuale liberale maggiormente presente nel triangolo
industriale che aveva fatto grande l’Italia durante la prima e la seconda rivoluzione industriale. Questi
distretti industriali hanno anche dei punti di debolezza: il fatto di essere delle piccole imprese che insistono
su un piccolo territorio a livello locale genera il fenomeno del localismo e del familismo (Il vincolo di
solidarietà tra i membri di una stessa famiglia, quando prevale su quello riguardante il gruppo sociale in
generale).
Tra anni ’70 e ’80 l’Italia in virtù della drammatica crisi economica e petrolifera vive un grande problema di
inflazione che giorno dopo giorno erode i redditi e i salari di lavoratori e imprenditori. Inizia quindi una
lotta contro l’inflazione e uno dei primi atti di questa lotta fu il divorzio tra il Ministero del tesoro e la
Banca d’Italia. Con questo divorzio, la Banca d’Italia torna ad avere una maggiore autonomia che può
utilizzare per combattere l’inflazione. Con questo provvedimento la Banca d’Italia non ha più l’obbligo di
acquistare tutti quei titoli di Stato emessi dal governo per potere finanziare la spesa pubblica e sociale. La
strada maestra per combattere l’inflazione continuava ad essere la svalutazione della lira per favorire
l’export pur essendo più esposta alle tempeste finanziarie e facendo più fatica ad acquistare dai mercati
stranieri. Inoltre, questa lira debole impedisce dei grandi investimenti tecnologici. Nonostante questo, lo
sviluppo della terza Italia è talmente forte che intorno alla metà degli anni ’80 si arriva a vivere in Italia un
secondo miracolo economico, dimostrato dallo storico sorpasso dell’economia italiana e del PIL ai danni
della Gran Bretagna (diventando la quinta potenza industriale al mondo). Nel frattempo, vi sono però dei
fenomeni che dimostrano come la situazione economica in Italia è tutt’altro che lineare. Un primo
problema che si verifica negli anni ’80 è il continuo declino dell’industria pubblica, incrementato dallo
sviluppo dell’industria della cooperazione (forte nell’ambito dell’alimentazione e del commercio) che fa
capire come l’Italia stia entrando in una nuova fase economica segnata dalla grande crescita del terziario. Vi
è infatti negli anni ’80 un sorpasso del settore terziario nei confronti del settore secondario. È però difficile
parlare di vero e proprio miracolo italiano soprattutto a causa della crescita del debito pubblico che inizia
proprio in quegli anni e che continua ancora ai giorni nostri, dovuto all’aumento della spesa pubblica, alla
diminuzione delle entrate, all’evasione fiscale e al grande peso della mafia.

IL NEOLIBERISMO IN OCCIDENTE
La crisi degli stati nazione di fronte alla globalizzazione economica suscitò molte critiche nei confronti del
Keynesismo, ovvero delle politiche keynesiane (pag.40). Il neoliberismo propose una teoria totalmente
opposta, ovvero se si voleva avere una crescita economica bisognava ridare nuova forza al mercato. I
mercati avevano la forza per autoregolarsi e lo Stato doveva perciò fare un passo indietro rispetto
all’economia, mettendo meno regole in un mercato che doveva essere lasciato libero di produrre e di
trovare i suoi equilibri tra domanda e offerta. Quindi non più la centralità dello Stato come dicevano le
politiche keynesiane, ma la centralità del mercato. Non bisognava tanto intervenire sul lato della domanda
e dei consumi, ma intervenire sul lato dell’offerta. Non bisognava perciò potenziare i consumatori, ma
potenziare gli imprenditori e i produttori, favorendo i loro investimenti. Questi investimenti potevano
essere favoriti riducendo la spesa pubblica. Questa riduzione veniva poi accompagnata da una riduzione
generale della tassazione, siccome minori entrate delle Stato significavano minori spese e tutto questo
avrebbe contribuito al rilancio della crescita economica. Tutte queste teorie erano nate all’interno di una
Scuola di economisti di Chicago. Questa ideologia neoliberista che nasce negli anni ’70 nella Scuola di
Chicago e si traduce in politica economica a partire dagli anni ’80 è pressoché ancora oggi utilizzata. I
principali esponenti di queste politiche neoliberiste degli anni ’80 sono la Gran Bretagna (Margaret
Thatcher) e gli Stati Uniti (Ronald Reagan), governi conservatori. Queste politiche si indirizzarono subito su
tre assi ben precisi:
 La politica monetaria: per combattere l’inflazione venne aumentato il costo del denaro (un denaro
più costoso significa minor circolazione della moneta) innescando così un processo deflattivo.
 La politica fiscale: vennero diminuite le tasse soprattutto per le fasce più ricche della popolazione
(per permettere loro di innescare quegli investimenti previsti nella teoria neoliberista), ma
aumentarono le tasse indirette, come quelle sui consumi.
 Le politiche sociali: venne applicata una dura riduzione della spesa sociale (come per la sanità
pubblica e il sistema previdenziale) e una crescente privatizzazione di alcuni settori produttivi
fondamentali (settore dell’energia, trasporti, telecomunicazioni).
Tutto questo significava mettere in crisi il welfare state proprio nella patria dove era nato. Tutto questo
portò ad uno scontro duro con il mondo sindacale e ad una conseguente marginalizzazione dei sindacati.
Di fronte alla Gran Bretagna e agli Stati Uniti, il resto dell’Europa agì in modo diverso, seppur in parte
influenzata dal neoliberismo. Nel frattempo, l’Europa si stava allargando grazie all’ingresso della Grecia
(arrivando a 10) nel 1981 e a quello di Spagna e Portogallo (arrivando a 12) nel 1986, mentre la Gran
Bretagna iniziava ad avere una certa resistenza nei confronti dell’integrazione europea, rappresentando
perciò un freno per l’Europa, che veniva portata avanti soprattutto dall’asse franco-tedesco. Negli anni ’80
vi furono soprattutto due grandi proposte politiche sul futuro dell’integrazione europea:
 Che il Parlamento europeo diventasse una vera e propria Assemblea costituente, che desse una
Costituzione all’Europa, in modo che potesse partire un processo di integrazione non solo
economica, ma anche politica.
 Che facesse progredire l’integrazione europea a piccoli passi, siccome l’Europa non doveva essere
gli Stati Uniti d’Europa, ma una somma di tanti stati nazionali che mantenevano la loro autonomia
Sin dall’85, l’anno dell’insediamento della nuova commissione europea, avvennero degli importanti
cambiamenti:
 La convenzione di Schengen: La convenzione tra i paesi europei per garantire la libera circolazione
dei cittadini europei all’interno dei confini dell’Europa
 L’Atto Unito Europeo: un documento che si poneva l’obiettivo di rivedere i famosi trattati
costitutivi della CEE di Roma del 1957, superando quindi la CEE per dare vita ad una vera e propria
comunità politica. Questo atto mirava ad una serie di provvedimenti che nel giro di qualche anno
entro il 1992 avrebbe dovuto portare a realizzare l’integrazione europea, alla nascita di un Unione
europea economica e politica
Oltre a questi provvedimenti, si poneva anche il problema di accompagnare la crescita economica con il
benessere sociale dei cittadini. Questo benessere veniva soddisfatto con la redistribuzione dei redditi tra le
diverse fasce della popolazione e lo strumento utilizzato per garantire ciò fu naturalmente il sistema fiscale:
un sistema di tassazione che fosse il più possibile proporzionale per cui i ricchi pagano di più rispetto ai
poveri, permettendo così di finanziare i meccanismi di assistenza, di previdenza, la sanità pubblica e
l’istruzione pubblica. Questo modello sociale europeo comincia ad essere messo in discussione dal modello
neoliberista che inizia ad incrinare una serie di certezze. Da questo punto di vista, l’Italia rappresenta il
simbolo di un modello sociale europeo che cerca di resistere, ma è allo stesso tempo attratto dal
neoliberismo. Dagli anni ’80, falliti i tentativi di alleanza politica e di solidarietà nazionale, la formula politica
scelta dall’Italia nel momento in cui il PC torna definitivamente all’opposizione, non può che essere la
formula del <<pentapartito>>, che significa che cinque partiti politici si mettono insieme (democrazia
cristiana, socialisti, liberali, socialdemocratici e repubblicani) per la prima volta per contrastare
l’opposizione comunista (l’unica nel paese) e per una questione di mantenimento del potere. Il simbolo per
eccellenza di questa lunga crisi politica italiana che scoppia negli anni ’80 è il lento declino della
democrazia cristiana, che poco per volta comincia a perdere il consenso. Un altro segnale che sottolinea il
declino democristiano fu la nascita del nuovo Governo Spadolini repubblicano il primo dopo una lunga
serie di governi democristiani. Successivamente nel 1983 ci fu la nascita di un altro nuovo governo, il
Governo Craxi, in cui i socialisti assumono una posizione centrale. Gli anni del governo Craxi ebbero luci e
ombre e furono caratterizzati da una crescita economica, gli anni del piccolo è bello, del made in Italy, della
crescita del PIL, ma anche dell’aumento del debito pubblico. Nel 1986 venne lanciato un nuovo Piano del
Lavoro che presentava un aspetto molto importante: le politiche attive del lavoro, ovvero l’idea di
combattere la piaga della disoccupazione di massa, dando allo stato quegli strumenti come il rilancio del
collocamento pubblico e l’apertura ai privati (anche i privati potevano fare da intermediazione tra domanda
e offerta del lavoro) attraverso le future agenzie interinali. Altre novità del governo Craxi furono il lavoro
part-time e il lavoro a tempo determinato e indeterminato. Quindi è evidente come negli anni di Craxi ci fu
questa miscela tra il tentativo di tenere in piedi il welfare state e la spinta verso il neoliberismo, con la
centralità del mercato e degli imprenditori. Il pentapartito e il governo Craxi andarono in crisi a causa della
<<questione morale>>, il fatto di un potere nelle mani di una sola classe dirigente, che finì per subire un
processo di logoramento tra la fine degli anni ’80 e l’inizio degli anni ’90 che produsse la crisi della
democrazia italiana, la caduta della prima repubblica nata nel 1946 dai grandi partiti politici che avevano
fatto grande la democrazia italiana.

LA VERTENZA DEI 35 GIORNI ALLA FIAT E I SUOI EFFETTI


Per comprendere la situazione industriale degli anni ’80 bisogna fare un passo indietro e concentrarsi su un
evento che accadde a Torino nel 1980 e che assunse un’importanza nazionale. Questo evento fu i cosiddetti
<<35 giorni>> alla Fiat, una vertenza sindacale che divenne il simbolo del passaggio dagli anni dei
movimenti e del lungo ’68 ad una nuova fase di relazioni industriali e vicende economiche e politiche. Per
comprendere questi grandi cambiamenti è necessario capire la situazione economica e sociale della Fiat
negli anni ’70. La Fiat era stata l’epicentro di quella lotta di classe di fine anni ’60 e aveva subito la crisi
economica di metà anni ’70 che se da un lato portò gravi danni economici, dall’altro fu l’occasione storico
di innovare e riprogettare il futuro. A questi problemi si aggiunse per ultimo la piaga del terrorismo che
aveva colpito anche la Fiat. Di fronte a tutto questo la Fiat nel 1979 aveva deciso di iniziare una stagione di
duro contrasto a queste azioni legali, inviando 61 lettere di licenziamento a 61 lavoratori della Fiat che
erano stati accusati di aver tenuto in passato atteggiamenti violenti individuali e collettivi. L’intento
dell’azienda fu quello di colpire quelle 61 persone violente, ma anche quello di far capire ad eventuali
terroristi che sarebbero potuti stare senza lavoro. Una parte del sindacato si oppose a questa decisione per
difendere questi 61 lavoratori, mettendo insieme un vero e proprio Collegio di difesa. Gran parte di queste
61 persone si rivelarono innocenti e vinsero la causa. Questa vicenda dei 61 licenziati fu un’anticipazione
dei <<35 giorni >> alla Fiat, un processo di innovazione aziendale e di ridimensionamento del potere
sindacale. Questo progetto cominciò a manifestarsi qualche mese dopo la vicenda dei 61 nel 1980 quando
la Fiat propose ai dipendenti e al sindacato un piano che prevedeva la cassa integrazione per 24 mila
dipendenti al termine della quale 13 mila di questi avrebbero dovuto trovarsi un altro lavoro o andare in
pensione. A questa prima proposta seguì la prima risposta sindacale che avanzò alcune richieste: l’ipotesi
dei prepensionamenti per le persone che erano vicino alla pensione, il blocco delle assunzioni a patto che
nessuno venisse mandato via. In seguito a questa risposta venne rilanciata una nuova proposta da parte
della Fiat ancora più ambiziosa, dura e selettiva che diede inizio ai <<35 giorni>> alla Fiat. Questa seconda
proposta non prevedeva più la cassa integrazione, ma il licenziamento immediato di 14 mila dipendenti. Il
sindacato respinse questo disegno, causando un vero e proprio scontro sociale tra impresa e sindacato. Si
aprì così questa vertenza dei <<35 giorni>> iniziata il 10 settembre e terminata il 14 ottobre 1980 all’inizio
della quale il sindacato si presentò diviso soprattutto tra confederazioni e federazioni. Di fronte ad una
proposta come quella della Fiat di licenziare 14 mila lavoratori, ci fu subito un intervento delle istituzioni
(parlamentari, prefetto, governo, ecc.) e in particolare del governo che cercò la mediazione tra imprese e
lavoratori presentando a sua volta un piano di mediazione. Questo piano prevedeva innanzitutto il ritiro dei
licenziamenti in cambio dei quali il governo si sarebbe impegnato ad offrire degli incentivi anche di natura
economica per permettere delle dimissioni volontarie da parte dei lavoratori e dei prepensionamenti e
anche per procedere ad un sostegno economico da parte dello Stato all’azienda se si fosse arrivati alla
dichiarazione di crisi aziendale (se la Fiat ammetteva di essere un azienda in crisi e richiedeva un aiuto
pubblico da parte dello Stato, il governo l’avrebbe aiutata). Ma ben presto, nel giro di poche ore il Governo
cadde e non poté quindi intervenire più sulla vicenda. La Fiat approfittò di questa situazione di vuoto
politico avanzando una terza proposta, l’ultima e definitiva proposta: la Fiat rinunciava ai licenziamenti e al
posto di questi tornava la Cassa integrazione per 23 mila dipendenti, ma una Cassa integrazione a zero ore
(L’impresa che decide di attuare la cassa integrazione ha la possibilità di ridurre l’attività di lavoro dei
propri dipendenti dal limite dell’orario di lavoro contrattuale fino ad un massimo delle zero ore. Ciò
significa che, nel periodo di fruizione della cassa integrazione, possono esserci dei lavoratori la cui attività
di lavoro viene completamente sospesa. Questi lavoratori, sospesi a zero ore, non dovranno più recarsi al
lavoro e saranno, dunque, esonerati dal rendere la prestazione lavorativa. Viceversa, l’azienda potrebbe
decidere, con riferimento ad alcuni lavoratori, di non sospendere completamente la loro attività ma di
ridurne la quantità, riducendo di un certo numero di ore l’orario di lavoro settimanale. il lavoratore
sospeso a zero ore riceverà unicamente il trattamento di integrazione salariale erogato dallo Stato e non
anche la paga salariale per il lavoro svolto, come invece succede per chi non è in Cassa integrazione a
zero ore), che rappresentava quindi l’anticamera del licenziamento. All’interno di questa lista c’erano
soprattutto donne, personale che si ammalava o infortunava spesso, delegati e tutti quei lavoratori più
sindacalizzati e politicizzati. Accrebbero così le tensioni sociali per una vertenza che stava diventando
sempre più drammatica, di fronte alla quale il sindacato mise in piedi una grande campagna a livello
nazionale e dichiarò uno sciopero nazionale generale di solidarietà per quei lavoratori della Fiat. A quel
punto il sindacato si era convinto che si sarebbe raggiunto un nuovo accordo che prevedeva una cassa
integrazione a rotazione e non più a zero ore che avrebbe interessato 13 mila lavoratori per i quali erano
previsti dei piani di riqualificazione professionale per farli rientrare gradualmente nei disegni della Fiat nel
1981. Ma in realtà si era capito che il sindacato non aveva più in mano la situazione e furono perciò i
lavoratori e gli operai i protagonisti di quella famosa <<marcia dei quarantamila>> che si ebbe a Torino nel
1980 che scesero in campo per manifestare a favore e a sostegno dell’azienda con l’obiettivo di
marginalizzare quei soggetti più facinorosi all’interno del sindacato e con la forte richiesta al sindacato di
tornare a svolgere un ruolo di mediazione e contrattazione, che avrebbe fatto bene all’azienda e ai
lavoratori. Venne quindi raggiunto l’accordo finale con i 23 mila lavoratori in cassa integrazione a zero, che
l’azienda si sarebbe impegnata a riassumere entro il 1983. Solamente 6 mila lavoratori riuscirono però
effettivamente a rientrare in fabbrica. Questo fu il risultato storico di questa vertenza che ristabilì una
piena libertà e potere dell’azienda nel quadro di quella centralità di mercato che nasceva da quei governi
conservatori e che si stava espandendo sempre più.

Questa vertenza aprì la strada a dei cambiamenti profondi in Italia, dove stava arrivando il Toyotismo che
intanto si stava espandendo in tutto l’occidente.

LA VERTENZA SULLA SCALA MOBILE: I PRINCIPALI AVVENIMENTI

La scala mobile è quel meccanismo automatico che adegua le retribuzioni dei lavoratori al costo della vita,
ovvero all’inflazione. Questo meccanismo viene introdotto ufficialmente in Italia nel secondo dopoguerra
nel 1945. I lavoratori ricevevano questo vantaggio e in cambio dovevano concedere una tregua salariale alle
imprese, ovvero non dovevano richiedere degli aumenti salariati. Inoltre, venivano costituite zone salariali,
che facevano si che a seconda del territorio in cui si lavorava a parità di lavoro vi erano salari differenti. Il
superamento di queste zone salariali si ebbe poi nel 1969. Era stata inoltre stabilita una forte
centralizzazione dei salari, cioè dei minimi salariali a livello nazionale. Il problema arrivò negli anni ’70 con
la grande crisi economica e lo shock petrolifero quando venne firmato l’accordo Lama-Agnelli del 1975
(pag.66) che portò diverse riforme salariali. Questo sistema resse una decina di anni, anche se nel 1977 ci fu
un piccolo accordo interconfederale tra CGIL, CISL e UIL unite e la Confindustria sul costo del lavoro
(pag.67), che produsse grandi proteste.

L’inizio della battaglia politica e sindacale vera e propria della scala mobile si ebbe nel 1982, quando la
Confindustria decise di disdire unilateralmente (senza accordarsi con i sindacati) l’accordo sulla scala
mobile del 1975, siccome stava alimentando l’inflazione. La risposta dei sindacati fu molto dura e decisero
di convocare uno sciopero generale per la difesa dell’accordo del ’75. Seguirono mesi di botta e risposta,
ma la Confindustria mantenne un atteggiamento fermo e risoluto rifiutandosi di sedere ai tavoli delle
trattative per i rinnovi dei contratti collettivi nazionali di lavoro. A causa del blocco della contrattazione
collettiva nazionale che durò tutto il 1982 fu necessario un intervento del governo nel 1983, un accordo di
mediazione, il <<Lodo Scotti>>, con cui i sindacati garantivano la possibilità di un piccolo taglio della scala
mobile, ovvero che una parte del salario protetto diminuisse un po’ e in cambio il governo interveniva con
una serie di misure fiscali e tariffarie, cercando di portare un miglioramento dei prezzi, degli assegni
famigliari e di flessibilità degli orari di lavoro. Tutto questo doveva rientrare nei nuovi contratti che
andavano rinnovati e che avrebbero rappresentato una nuova tipologia di contratto, i contratti di
solidarietà. Pur di impedire il licenziamento dei lavoratori si dava la possibilità di procedere a questi
contratti di solidarietà, contratti in cui i lavoratori mantenevano un livello salariale più basso,
semplicemente per permettere anche ad altri lavoratori di lavorare. Il lodo Scotti rappresentò l’avvio di un
nuovo metodo, ovvero per la prima volta in Italia gli accordi non erano solo più bilaterali tra imprese e
sindacati, ma grazie all’ingresso del governo le parti diventavano tre. Nel 1983 vennero rinnovati i contratti
nazionali di lavoro e ci furono anche nuove elezioni politiche che segnalarono ancora una volta un
indebolimento della democrazia cristiana e un avanzamento del partito socialista con la nascita del
Governo Craxi. Tra l’83 e l’84 avanzò l’ipotesi di un ulteriore e nuovo taglio della scala mobile al quale il
governo, la Confindustria e una parte del sindacato (UIL, CISL e una parte di CGIL socialista) erano
d’accordo. Si arrivò così alla firma dell’accordo separato di San Valentino del 1984, separato ovvero un
accordo firmato dal governo, dalla Confindustria e dalla CISL e UIL, ma non dalla CGIL a causa della
maggioranza comunista che si opponeva. La CGIL si spaccò in tre parti, tra comunisti, socialisti e la terza
componente (la parte più radicale delle sinistre). Di fronte a questo accordo triangolare, il governo decise di
emanare un decreto-legge (il decreto-legge viene utilizzato per le emergenze) che trasformava l’accordo di
San Valentino in un decreto-legge che entrava subito in vigore. L’altro grande avvenimento che avvenne lo
stesso giorno di questo accordo del 1984 fu la fine della Federazione unitaria CGIL-CISL-UIL nata nel 1972.
Sempre nel 1984 tutta la maggioranza comunista della CGIL avviò una grandissima manifestazione di
popolo e di lavoratori contro questo decreto-legge sulla scala mobile, una delle manifestazioni più grandi
nella storia del Paese che posticipò il decreto di qualche mese, senza però riuscire ad eliminarlo. Si
iniziarono allora a raccogliere le firme per arrivare ad un referendum che cancellasse questo decreto di
Craxi. La battaglia referendaria durò per diversi mesi tra l’84 e l’85, il referendum si tenne nel 1985 ed
ebbe un esito che per molti sembrò scontato: vinsero i no, ovvero la maggioranza del popolo italiano
votava contro l’ipotesi di un referendum abrogativo contro la legge sul taglio della scala mobile. Con la
sconfitta referendaria la strada per la definitiva cancellazione della scala mobile sembrava spianata, ormai
l’obiettivo, soprattutto per la Confindustria, era quello non di tagliare, ma di eliminare la scala mobile.
Vennero così firmati due accordi transitori nel 1986 e nel 1990, transitori nel senso che non ponevano fine
alla scala mobile, ma la limitavano ulteriormente. Nel 1992 la Confindustria, CGIL-CISL-Uil e il governo
raggiunsero l’accordo per porre fine al meccanismo della scala mobile. Grazie alla fine della scala mobile
l’Italia poté finalmente voltare pagina e avviare una nuova stagione economica, politica e sindacale.

LA VERTENZA SULLA SCALA MOBILE: PROTAGONISTI ED EFFETTI

Innanzitutto, la vertenza sulla scala mobile fu soprattutto una vertenza sindacale che causò come
conseguenza più grave a livello sindacale, la fine della federazione unitaria CGIL-CISL-UIL del 1972, dovuta
soprattutto ai disaccordi tra le confederazioni sul merito dell’accordo, ma anche sulle differenti posizioni
che esistevano tra CGIL da un lato e CISL-UIL dall’altro sul metodo con cui doveva essere condotta
l’azione sindacale. Per tutta la durata della vertenza, la CGIL cercò di portare avanti il tema della
democrazia sindacale, ovvero ai lavoratori doveva spettare l’ultima parola, mentre per gli altri sindacati,
CISL e UIL, il problema dell’inflazione era una cosa estremante urgente, talmente urgente che poteva anche
essere affrontata attraverso uno strumento d’urgenza, che era appunto il decreto-legge, che non
permetteva perciò di procedere con i vecchi metodi del passato che richiedevano un continuo confronto
con i lavoratori. Quindi, se da una parte vi era l’intento democratico sindacale della CGIL che metteva al
primo posto il volere dei lavoratori, dall’altra parte vi era la visione di un sindacato moderato, collaborativo
che avesse un atteggiamento di maggiore responsabilità all’interno del sindacato anche a costo di arrivare
ad una forte centralizzazione delle decisioni, rischiando di passare sopra alla testa dei lavoratori. Chi uscì
fortemente rafforzato da questa vicenda della scala mobile furono certamente le imprese e la
Confindustria. Così dal 1985 si tornò ad un modello di relazioni industriali scarsamente istituzionalizzato (al
suo interno c’era poche regole e queste regole spesso venivano violate da una delle parti in campo), molto
politicizzato ( il ruolo della politica e dei partiti era parecchio presente), molto conflittuale segnato da una
forte conflittualità sociale e soprattutto dal fatto che a dominare questo sistema di relazioni industriali non
erano delle regole con cui si cercava di gestire il conflitto, ma era l’idea che a prevalere alla fine fossero i
rapporti di forza. Tornavano così a prevalere gli interessi delle imprese ai danni di quelli dei lavoratori.

La politica giocò un ruolo essenziale nella vertenza sulla scala mobile. Una vicenda che colpisce molto fu il
silenzio che la democrazia cristiana, il maggiore partito, espresse nei confronti di questa importante
vertenza sindacale, dimostrando il suo declino. Di questa situazione approfittò il partito socialista che
cercava di guadagnare posizioni stringendo un’alleanza stretta con la CISL (sindacato della democrazia
cristiana) e avvicinando quelle minoranze socialiste all’interno della CGIL e della UIL. Quindi il PSI fu
protagonista di quelle vicende e fu occupato da una forte competizione interna nei confronti della DC ed
esterna nei confronti del Partito Comunista. Il grande limite del PC durante la vertenza fu certamente il
ritorno di una sua tipica posizione culturale che vedeva il sindacato essere un soggetto secondario
subordinato ai partiti politici, mentre il grave errore del PC fu la scelta dello strumento referendario sul
tema della scala mobile.

I vincitori della vertenza sulla scala mobile furono ovviamente CISL e UIL, mentre gli sconfitti furono la CGIL,
ma in parte anche tutti i sindacati in generale. Nella seconda metà degli anni ’80 i tre principali sindacati
tentarono di recuperare quell’unità perduta, ma la crisi di fiducia reciproca poté essere recuperata
solamente alcuni anni dopo. Questi sindacati ebbero così l’occasione dopo la vertenza di risistemare le idee
e riorganizzare le principali questioni.: la CISL si riconfermò <<il sindacato dell’autonomia>>, la UIL si
rilanciò come <<sindacato dei cittadini>> (era nella società ormai, più che nei luoghi di lavoro che si
vivevano le maggiori difficoltà economiche, le ingiustizie della mafia e della corruzione, le grandi
inefficienze della politica e della pubblica amministrazione) e la CGIL cercò di ripartire dalla sconfitta e dalla
rottura interna tra socialisti e comunisti come <<sindacato dei diritti>>. Questa riforma della CGIL arrivò
con tre passaggi fondamentali:

 L’autoriforma della CGIL: soprattutto sul piano organizzativo, ma ancora di più su quello politico
 La Conferenza di programma di Chianciano del 1989: il momento in cui la CGIL teorizzò l’idea di un
sindacato dei diritti. L’idea era quella di puntare molto sulla società oltre che sui luoghi di lavoro,
sulla questione dei diritti fondamentali dei lavoratori e della persona umana.
 La fine delle correnti di partito all’interno della CGIL

Con queste riforme la CGIL poteva presentarsi negli anni ’90 con una nuova situazione di uscita da quella
crisi che l’aveva caratterizzata per tutti gli anni ’80. Ciò che alla fine accomunava le tre correnti sindacali era
l’interesse principale per la persona umana e per i suoi diritti fondamentali che rappresentavano l’unica
variabile indipendente.

LA GLOBALIZZAZIONE ECONOMICA

L’ultima globalizzazione è iniziata negli anni ’70, si rafforza negli anni ’80, ma il passaggio chiave di questa
globalizzazione mondiale fu la fine del comunismo, che portò anche alla fine della guerra fredda. La crisi del
comunismo era già in corso da diverso tempo. L’URSS negli anni ’80 attraversava una fase di grande crisi
che diede inizio ad una stagione di riforme dopo la quale si comprese che il sistema dell’URSS era un
sistema irriformabile a causa dei livelli troppo rigidi di dittatura, dei livelli eccessivi di burocrazia e
soprattutto dei gravi problemi economici. Il malumore e il malcontento di tutte le popolazioni non solo
sovietiche, ma anche di tutti gli stati assoggettati dall’Unione Sovietica, sfociarono nel famosissimo evento
di cesura che fu la caduta del Muro di Berlino (le manifestazioni popolari del 1989 portarono
all’abbattimento del muro, il simbolo per eccellenza della cortina di ferro e quindi della guerra fredda), che
significò iniziare un processo di liberazione e di democratizzazione di tutti questi paesi dell’est Europa
comunisti, fino all’ultima caduta, quella dell’Unione Sovietica che avvenne nel 1991.
Tra la fine degli anni ’80 e l’inizio degli anni ’90 con la fine del comunismo, il processo di globalizzazione
economica subì una grandissima accelerazione all’insegna del capitalismo, che si era affermato in maniera
definitiva su tutto il mondo. Tutto questo si dimostra con la nascita che avvenne subito di nuovi mercati:
l’Apec (1989), Mercosur (1991) e Nafta (1992). I paesi firmatari miravano a creare nuovi mercati sempre
più grandi in cui ci fossero maggiori possibilità di consumo e quindi di produzione e scambi. Tra tutti queste
novità, la più importante fu l’Uruguay Round, un ciclo di incontri che si tennero in Uruguay dal 1986 per
allargare sempre di più gli scambi commerciali a livello mondiale e nel 1994 ci fu una grande novità in
campo economico, il simbolo per eccellenza della globalizzazione economica, la nascita dell’Organizzazione
mondiale del commercio (WTO), l’idea che il mondo fosse un unico mercato capitalistico globale. Il WTO
svolse il compito di fissare le regole del commercio internazionale e di seguire l’applicazione di queste
regole. Tutto questo portò una grande crescita a livello mondiale, se guardiamo tutte le persone che
uscirono dallo stato di povertà, soprattutto nei paesi più arretrati. Oltre alle tante luci ci sono anche delle
ombre: spesso queste regole sono state imposte, senza essere discusse in quei paesi maggiormente in
difficoltà, inoltre sono nati una serie di movimenti <<no global>> che si oppongono alla globalizzazione
attraverso movimenti di contestazioni giovanili (tipo Greta Thumberg) in nome di principi di equità sociale,
di difesa dei diritti della persona umana e dei popoli.

In questo processo di globalizzazione economica una posizione centrale l’ha occupato l’Asia e in particolar
modo la Cina. Oltre alla Cina, dopo gli anni ’80 accanto al Giappone si presentano delle nuove potenze, le
<<tigri>> del Sud-est asiatico (Corea del sud, l’isola di Taiwan, Hong Kong e Singapore) che vissero un vero
e proprio boom economico, crescendo in maniera improvvisa. Nel 2001 la Cina entra a far parte del WTO.
Nel 2000 nacque il G8 grazie all’ingresso della Russia di Putin. Sempre più importanti sono le riunioni del
G20 in cui ai grandi paesi del G8 si aggiungono le potenze emergenti (Cina, Brasile, India, Sudafrica, ecc.).

Il simbolo della globalizzazione per eccellenza degli ultimi anni è il World Wide Web (WWW), quella rete
globale di scambi informatici che permette una connessione a livello mondiale. Una rivoluzione informatica
di questo genere incide pesantemente nel mondo economico, tanto che si è iniziato a parlare di economia
2.0. Internet ha portato anche cambiamenti rivoluzionari in campo industria, tanto che si parla di industria
4.0 (quarta rivoluzione industriale). Questo periodo di trionfo tecnologico si porta dietro anche diverse
ombre, come l’attacco alle torri gemelle dell’11 settembre 2001 da parte dei terroristi islamici. La crisi del
2008 partita dagli USA è stata la nuova grande crisi economica dagli anni ’70, una crisi finanziaria che ha
provocato un crollo dell’economia, una recessione economica e globale. Questa crisi è arrivata poi in
Europa dando inizio alla crisi dei debiti sovrani, mettendo in difficoltà soprattutto quelle nazioni, come
Grecia e Italia, caratterizzate da un forte debito pubblico. Oggi siamo di fronte ad una nuova grande crisi, la
crisi del Coronavirus.

L'UNIONE EUROPEA E LA SCOMPARSA DELL'ITALIA INDUSTRIALE

Tra la fine degli anni ’80 e l’inizio degli anni 2000 fino ai giorni nostri:

Caduto il muro di Berlino, poté iniziare il processo di riunificazione della Germania tra ovest ed Est nel
1990 che rappresentò un fattore di grande accelerazione del processo di integrazione europea che durava
ormai da circa 30/40 anni. Si poté così lanciare l’Atto Unico Europeo, ovvero dare vita all’Unione Europea
dal 1992 con il Trattato di Maastricht che sancì ufficialmente il passaggio dalla CEE alla UE. Il primo
obiettivo dell’UE era quello di arrivare ad avere una moneta unica, il futuro euro del 2002. Ogni paese
membro dell’Unione Europea doveva rispettare i <<parametri di Maastricht>> nel periodo compreso tra il
1992 al 1998. Se in questo periodo, uno stato non fosse stato in regola con quei parametri non sarebbe
potuto entrare nella zona euro. I parametri più importanti erano essenzialmente tre:

 L’inflazione: l’inflazione doveva essere tenuta molto bassa


 Rapporto deficit/PIL: il rapporto tra le entrate dello stato e le uscite /PIL doveva essere sotto un
certo numero
 Rapporto debito pubblico/PIL doveva stare sotto un certo numero

Anche chi non riusciva a centrare in pieno questi parametri, ma avesse dimostrato la volontà e l’impegno
nel raggiungerli sarebbe potuto entrare a far parte della zona euro (come nel caso dell’Italia che non riuscì a
raggiungere il parametro del debito pubblico).

La nascita dell’Unione Europea significava non solo dare un’unificazione monetaria, ma anche una serie di
politiche comunitarie e una crescita costante della politica europea e della cultura giuridica europea basata
sul primato dei diritti umani e di cittadinanza e sancita dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione
Europea di Nizza. Nel 1995 si aggiunsero tre nuovi paesi ai dodici iniziali: Austria, Finlandia e Svezia.

Tra la fine degli anni ’80 e l’inizio degli anni ’90 in Italia, il Pc, il Partito comunista, ovvero il principale
partito d’opposizione uscì di scena e cessò di esistere. Gli anni dell’integrazione europea e dei cosiddetti
parametri di Maastricht furono anni molto duri, in quanto imposero duri sacrifici ad un’economia nazionale
che viveva una situazione molto difficile, con un debito pubblico altissimo. Per questo motivo il governo fu
costretto a introdurre una politica economica molto dura e restrittiva. Venne quindi emanata una manovra
correttiva del Governo Amato che andava ad intaccare pesantemente nel bilancio statale e che serviva ad
iniziare quel difficile percorso di rientro dei parametri italiani all’interno dei parametri di Maastricht. I
cittadini sembravano venire incontro alle richieste dello Stato, ma non si riuscì ad impedire una vera e
propria tempesta valutaria sulla lira (colpì anche la moneta spagnola) che costrinse l’Italia ad abbandonare
momentaneamente il sistema monetario europeo (SME) nel 1992 rientrandoci solamente nel 1997. In
quegli anni venne notevolmente svalutata la lira per poter far ripartire l’economia nazionale. Sempre nel
1992 ci fu il terzo e ultimo passaggio di questo anno drammatico, ovvero venne varata una nuova legge
finanziaria, la <<Finanziaria>> che portò ad una serie di dure riforme e sacrifici. L’Italia riuscì così
finalmente ad entrare nella zona dell’euro nel 1998 dovendo quindi rinunciare per sempre alla
svalutazione monetaria, ma mettendosi al riparo dai grandi shock economici e finanziari che avvengono
continuamente all’interno del mercato capitalistico globale. Restano comunque nel paese grandi problemi
strutturali come l’inefficienza della pubblica amministrazione, i pochi investimenti pubblici destinati alla
ricerca e all’innovazione, la corruzione e la criminalità organizzata.

L’Italia vive nel periodo della nascita dell’Unione Europea una fase di profonda crisi industriale, soprattutto
la crisi del triangolo industriale, all’interno del quale la città che è andata più gravemente in crisi è Genova
(crisi dell’acciaio e del petrolio). Anche Torino e Milano hanno vissuto un processo di deindustrializzazione e
di terziarizzazione. Le cause di questo declino industriale sono parecchie: in generale sono l’assenza di
politiche industriali adeguate (investimenti fallimentari nell’industria chimica), privatizzazioni errate (che
servono a risanare i conti pubblici italiani, ma è anche vero che sottraggono al paese una serie di imprese
fondamentali che spesso vengono acquistate da multinazionali straniere) e l’ingresso prepotente di tante
industrie multinazionali che si impadroniscono di pezzi del sistema industriale italiano. Quindi l’Italia perde
la proprietà di grandi pezzi del suo sistema industriale, perde il quinto posto di potenza industriale (settimo
posto). In Italia vi è una grande importanza delle multinazionali <<tascabili>>, aziende capaci di stare nei
mercati internazionali, ma allo stesso tempo hanno una grandezza media (Benetton, Luxottica). Nell’Italia di
oggi tra le aziende più importanti ci sono 5 aziende pubbliche nelle prime dieci: Enel, Eni, Finmeccanica,
Poste e Ferrovie pubbliche e Fiat FCA, Pirelli, le Generali, Benetton, Luxottica private. Queste sono le
aziende con il maggior numero di dipendenti e con il più alto fatturato in Italia. Poi vi è l’azienda illegale
della criminalità organizzata, soprattutto l’ndrangheta calabrese che occupa la quarta posizione come
fatturato. Questo è uno degli aspetti che impedisce al paese di crescere in maniera continuativa e virtuosa.
LA SVOLTA DEL 1992 E LA FINE DELLA PRIMA REPUBBLICA

La concertazione è un metodo di confronto sistematico tra le parti sociali, tra la rappresentanza delle
imprese e la rappresentanza dei lavoratori al quale partecipa in maniera molto attiva lo Stato e l’obiettivo
principale è quello di provare a governare l’economia, ma anche quei problemi sociali e politici.

In Italia nei primi anni ’90 si assisté alla fine della Prima Repubblica del 1946 durata fino al 1992 e definita
anche come Repubblica dei partiti, i veri protagonisti di questa repubblica su tutti gli altri soggetti politici
(sindacati, Parlamento, istituzioni, ecc.). Il primo partito a scomparire è stato il PC, il Partito Comunista nel
1991. Da questo partito nacquero due partiti, il maggioritario PDS (partito democratico di sinistra) e il
minoritario Partito della rifondazione comunista. Alle elezioni del ’92 fallirono i vecchi partiti della prima
Repubblica, compresi i due nuovi partiti di sinistra, mentre si affacciarono alcune nuove formazioni come la
Lega Nord e l’MSI (Movimento sociale italiano). I grandi partiti subirono un grande tracollo politico nelle
elezioni del 1992 siccome dall’inizio dell’anno era scoppiata in Italia la famosa Tangentopoli, la famosa
inchiesta giudiziaria per far venire a galla tutti i fenomeni di corruzione presenti pesantemente all’interno
della politica italiana. Tangentopoli iniziò con un famoso arresto, l’arresto di Mario Chiesa, un dirigente
socialista nel 1992 e nel giro di pochi giorni si ebbero una serie di conseguenze giudiziarie per cui ci fu un
voto di protesta molto duro da parte dei cittadini italiani nei confronti di queste forze di governo corrotto.
Così tra il 1992 e il 1993 si assistette alla fine di tutto il sistema dei partiti politici della Prima Repubblica,
con la relativa fine della Democrazia cristiana, del Partito socialista italiano e dei partiti minori come il
Partito repubblicano, il Partito socialdemocratico e il Partito liberale. Così lo scenario politico italiano
cambiò totalmente. Il secondo grande avvenimento di questo biennio fu il <<vincolo esterno>> di
Maastricht che costrinse l’Italia ad un forte cambiamento nella politica economica, che nel tempo avrebbe
avuto effetti positivi. Il Governo Amato che vinse alle elezioni era un governo di natura socialista e viene
considerato l’ultimo governo della Prima repubblica e il primo governo della Seconda repubblica. A
complicare questo piano politico, istituzionale ed economico già complicato arrivò il duro attacco della
mafia con le uccisioni dei giudici dell’antimafia Falcone e Borsellino uccisi entrambi da una bomba a due
mesi di distanza, ai quali seguirono una lunga serie di vittime politiche e popolari. Sempre nel 1992 ci fu la
crisi della lira che costrinse la lira ad uscire dallo SME (Sistema monetario europeo) e a svalutarsi
notevolmente, portando delle conseguenze benefiche nel breve periodo, ma piuttosto gravi nel lungo
periodo. Se questo biennio causò una caduta dei partiti politici, dall’altra parte fu caratterizzato da una
nuova stagione di <<supplenza sindacale>>, un nuovo protagonismo dei sindacati e delle imprese. Un
primo evento che spiega questo protagonismo fu la firma di un accordo triangolare del 31 luglio 1992 con il
quale si pose fine al meccanismo della scala mobile. Il motivo principale che portò all’eliminazione della
scala mobile fu il bisogno urgente di diminuire l’inflazione per rientrare nei parametri di Maastricht. Per
diminuire la spesa pubblica, sempre per entrare nei parametri, il governo dovette intaccare il Welfare State
con due decreti:

1. La riforma sanitaria: veniva prima l’economia, poi i cittadini a differenza di quanto avveniva prima.
Con questa riforma ci fu la trasformazione delle USL (unità sociosanitarie locali) in ASL (Aziende
sociosanitarie locali), con la quale gli ospedali divennero vere e proprie aziende ospedaliere.
2. La riforma pensionistica: questa riforma portò aumento dell’età pensionabile, rendeva più
complicati quei requisiti attraverso i quali si poteva raggiungere una pensione di vecchiaia e di
anzianità, veniva stabilito il divieto di cumulo tra pensione e forme di lavoro

LA SVOLTA DEL 1993 E LA CONCERTAZIONE

I processi di Tangentopoli andarono avanti anche nel 1993. Sempre in questo anno fu necessario un cambio
di governo, con il passaggio dal Governo Amato al Governo <<tecnico >> Ciampi, tecnico siccome fu
composto da politici non di professione, ma da intellettuali e studiosi. Il primo gesto del nuovo governo fu
quello di ricercare l’intesa con le parti sociali, i rappresentanti delle imprese e dei lavoratori, con l’obiettivo
comune di salvare il paese da quella situazione economica, istituzionale, politica e sociale drammatica.
Venne raggiunto un importantissimo accordo triangolare col quale per la prima volta in Italia si arrivò
all’istituzionalizzazione delle relazioni industriali (prima non vi erano mai state regole generali da seguire
nelle relazioni industriali). Questo accordo si componeva di tre parti principali:

 La politica dei redditi: mirava a lottare contro l’inflazione attraverso un metodo nuovo: la
concertazione, ovvero significava che le parti sociali con la regia del governo dovevano collaborare
e confrontarsi continuamente.
 La riforma del sistema contrattuale attraverso l’adozione di un doppio livello di contrattazione
collettiva: un primo livello di dimensione nazionale (il contratto collettivo nazionale di lavoro) che
durasse quattro anni e un secondo livello di contrattazione decentrata che poteva avvenire o a
livello aziendale o a livello territoriale si singola azienda che non doveva ripetere quando già
stabilito dal contratto nazionale e che era finalizzato alla questione del rafforzamento e alla crescita
della produttività.
 Le politiche attive del lavoro: dare vita ad un sistema di intervento sia pubblico che privato nel
mercato del lavoro, che fosse finalizzato soprattutto a combattere la piaga della disoccupazione,
con un potenziamento degli uffici pubblici di collocamento.

In questo periodo complicato nel ’93 la mafia tornò nuovamente a farsi sentire alzando il tiro contro lo
Stato, con le bombe su Firenze, Milano e Roma.

In quell’anno ci fu anche un’importante novità, un accordo interconfederale tra CGIL-CISL-UIL e


Confindustria con il quale si decise di stabilire una nuova forma di rappresentanza dei lavoratori nei luoghi
di lavoro le RSU, ovvero le Rappresentanze sindacali unitarie, ancora oggi esistenti. Le RSU avevano potere
di contrattazione all’interno dei luoghi di lavoro, ma non avevano la possibilità di uscire fuori dai paletti
stabiliti dalle grandi confederazioni a livello nazionale.

Nel 1994 ci furono nuove elezioni politiche che fecero entrare definitivamente l’Italia nella Seconda
Repubblica, seconda siccome fu caratterizzata da nuove forze politiche, soprattutto del centrodestra, dove
nacque Forza Italia guidata ancora oggi da Berlusconi. Forza Italia si alleò con la Lega Nord e con il
movimento sociale italiano del sud e vinse le elezioni del 1994 dando inizio all’epoca del bipolarismo, cioè
vi erano due poli, uno di centrodestra e uno di centrosinistra che potevano essere ugualmente
all’opposizione o alla maggioranza, cosa che non poteva accadere nella Prima Repubblica. Il governo di
Berlusconi durò pochi mesi, in seguito al quale nacque un nuovo governo <<tecnico>>, il governo Dini, che
decise di procedere ad una nuova riforma delle pensioni, ancora più netta della Riforma di Amato
(Berlusconi fallì proprio sul tema della riforma delle pensioni), non tanto per le risorse sottratte al sistema
previdenziale, ma per il mutamento generale che venne fatto. Venne decisa l’abolizione graduale delle
pensioni di anzianità, venne introdotta la flessibilità dell’età pensionabile (si poteva andare in pensione da
un minimo di 57 ad un massimo di 65 anni), si stabilirono delle finestre di uscita (si poteva andare in
pensione solamente in alcuni periodi dell’anno), venne ridotta l’entità degli assegni sia delle pensioni di
invalidità, sia delle pensioni di vecchiaia. Ma soprattutto la riforma Dini sancì il passaggio definitivo da un
sistema di calcolo di tipo retributivo (calcola l’entità della pensione sulla base delle ultime retribuzioni che
il lavoratore aveva avuto prima di andare in pensione. Garantisce pensioni più elevate) ad un sistema di
calcolo di tipo contributivo (le pensioni non venivano calcolate sulla base delle ultime retribuzioni, ma sulla
base dei contributi previdenziali effettivamente versati nel corso della carriera lavorativa). Ù

L’ingresso dell’Italia nel 1998 nell’euro fu quindi dovuto a tre passaggi:

1) 1992: cancellazione della scala mobile


2) 1993: Accordo sulla concertazione e sulla politica dei redditi
3) 1994: la riforma delle pensioni

Nel 1996 ci furono nuove elezioni che sancirono un nuovo governo, questa volta di centrosinistra, i
cosiddetti governi dell’Ulivo, quella coalizione elettorale che teneva insieme i partiti centristi e i partiti di
sinistra. L’Ulivo era guidato da Romano Prodi che fu capo del governo dal 1996 al 1998. Nel 2000
nuovamente sotto il governo amato ci fu un’importantissima legge, la legge sull’assistenza, che
rappresentò il terzo grande pilastro del Welfare State. (il primo pilastro era stato nel 1969 la legge
Brodolini sulle pensioni, il secondo pilastro era stato il sistema sanitario nazionale con la legge del 1978).
Questo terzo pilastro stabiliva un fondo sociale che aveva la funzione di assistere le persone in difficoltà.

Nel 1998 iniziarono nuovamente dei problemi in occasione del rinnovo contrattuale dei metalmeccanici, il
più importante nel sistema industriale del paese. Nel 1998 non si riuscì a finire il contratto e a raggiungere
l’intesa, che venne raggiunta solamente nel 1999 grazie alla mediazione del governo. L’ultimo atto di
concertazione fu il <<patto di Natale>> del 1998 sotto il Governo di Massimo Dalema (sinistra), un patto
che si poneva l’obiettivo dello sviluppo economico, della lotta alla disoccupazione, di diminuire il costo del
lavoro e di portare avanti politiche attive sul lavoro.

Nel 2001 ci fu nuovamente un cambio di maggioranza, con la vittoria del centrodestra e di Berlusconi che
diede vita a quello che sarebbe stato il <<decennio berlusconiano>> durato fino al 2011. Il centrodestra si
caratterizzò soprattutto per scendere nel campo delle relazioni industriali con il patto del <<manifesto di
Parma>>, orientato a collegare sempre di più il programma politico del centrodestra con le richieste della
Confindustria. Dall’altra parte il centrodestra diede inizio ad una serie di politiche che miravano a dividere il
mondo sindacale. Il simbolo per eccellenza di questa manovra politica fu l’attacco all’articolo 18 dello
statuto dei lavoratori, che stabiliva il diritto del lavoratore al reintegro del posto di lavoro nel caso avesse
subito un licenziamento senza giusta causa. L’obiettivo di Berlusconi era quello di cancellare l’articolo 18.
Contro questa ipotesi la CGIL fece una grande manifestazione nel 2002 al Circo Massimo. Tutto questo
dimostro come il meccanismo della concertazione fosse in rapido declino.

Negli ultimi 20 anni della storia italiana il ruolo dei sindacati si è piuttosto indebolito, non soltanto per le
divisioni all’interno dei sindacati tra CGIL, CISL e UIL, ma anche per una serie di problemi come il forte peso
della burocrazia all’interno dei sindacati, una forte concorrenza nei confronti di CGIL, CISL e Uil da parte
delle tante sigle autonome, un rapporto lavoratori attivi/pensionati molto squilibrato (negli ultimi anni
all’interno dei sindacati il numero di pensionati è cresciuto in maniera esponenziale. Oggi compongono la
metà degli iscritti) e la presenza di un mondo del lavoro sempre più precario (rappresentare i precari è un
compito molto difficile).

IL LAVORO ATIPICO E PRECARIO

Perché l’Italia non cresce più?

Lo scenario attuale della crisi italiana, fuori dall’esperienza covid che peggiorerà ulteriormente la situazione,
si colloca all’interno di due cornici precise, una di carattere economico e una di carattere politico. La cornice
economica nasce con la crisi degli anni ‘70 che ha aperto le porte della globalizzazione economica, a causa
della quale l’Italia ha iniziato a soffrire la concorrenza sia dei paesi emergenti, sia delle ormai affermate
potenze mondiali come la Cina, paesi dove i costi del lavoro e della produzione sono più bassi e con i quali
quindi è più difficile competere. La cornice politica riguarda l’Europa che ha portato tante luci, ma anche
tantissime ombre di una gestione difficile che da troppo tempo penalizza l’Italia. Il problema numero 1
dell’Italia è il frutto di errori e scelte sbagliate, il debito pubblico, cresciuto notevolmente negli anni ’80 e
stabilizzatosi a livelli altissimi negli ultimi trent’anni e che peggiorerà ancora a causa del coronavirus. Altri
problemi dell’Italia sono: la debolezza degli investimenti pubblici e privati sull’innovazione e sulla
formazione dei lavoratori, il peso della burocrazia che finisce per frenare la costruzione delle infrastrutture,
per ingolfare la giustizia (i processi sono lentissimi e lunghissimi) e per rallentare il lavoro pubblico e
privato. Negli anni non sono mancati i tentativi di riforma della burocrazia, ma spesso si è finiti per
scivolare nella corruzione e nella criminalità organizzata. Dietro a questi mali, si celano spesso i grandi
problemi del mondo del lavoro, come la grande questione del lavoro in nero e del lavoro sommerso, che è
una via di mezzo tra lavoro legale e illegale (una parte di questo lavoro emerso è legale, mentre la parte
sommersa è illegale).

Tra i motivi principali per cui l’Italia non cresce più c’è certamente la presenza delle mafie, il problema
dell’inefficienza della pubblica amministrazione, il problema della burocrazia, il problema del debito
pubblico e anche la questione centrale del lavoro <<ferito>>, ovvero il modo in cui viene trattato male il
lavoro, sempre più sottopagato e privo di alcuni diritti fondamentali.

Negli ultimi anni il mondo del lavoro appare sempre più ferito a causa della diffusione del lavoro atipico. Le
cause di questa diffusione che ha colpito la crescita economica italiana sono:

 Cause economiche: l’imposizione di quella flessibilità produttiva, fondamentale per le aziende per
competere sui mercati, è certamente un problema, siccome si trasferisce sul mondo del lavoro
diventando precarietà del lavoro. L’esempio per eccellenza è la grande automazione tecnologica
che ha facilitato il lavoro, ma che lo ha anche notevolmente ridotto dal punto di vista quantitativo.
 Cause politiche: le teorie neoliberiste hanno imposto la centralità del mercato, subordinando i costi
umani e sociali

Il tema della precarietà del lavoro iniziò negli anni’80 con le prime forme di lavoro atipico: il lavoro part-
time, il lavoro a tempo determinato e la diffusione dei cococo (collaboratori coordinati continuativi), ovvero
quei lavoratori che non hanno vincolo di orario e vincoli di subordinazione (sono anche chiamati lavoratori
subordinati o parautonomi), ma che dipendono da incarichi di lavoro da parte di un committente di lavoro.

Il provvedimento simbolo della flessibilità del lavoro degli anni ’90 per combattere la disoccupazione era lo
strumento di allargamento delle maglie della flessibilità del lavoro, il cosiddetto <<pacchetto Treu>> del
1997 che potenziava il ricorso al lavoro a tempo determinato, potenziava la formula dell’apprendistato
(rafforzare i meccanismi di formazione all’interno dei luoghi di lavoro), introduceva la figura dei cococo,
introduceva il job sharing (lavoro condiviso. Un unico posto di lavoro nel quale si alternano due lavoratori),
introdusse i lavori socialmente utili, ma soprattutto introdusse una tipologia contrattuale che avrebbe
rappresentato il simbolo del lavoro flessibile, il lavoro interinale (il lavoro temporaneo e provvisorio, in cui
il lavoratore veniva preso in affitto da un datore di lavoro attraverso un’agenzia di intermediazione, le
agenzie interinali). All’inizio degli anni 2000 questo pacchetto Treu viene allargato ulteriormente con una
nuova legge, la Riforma Biagi del 2003, che ampliava ulteriormente l’elenco dei lavori atipici, introducendo
il lavoro somministrato al posto del lavoro interinale (l’agenzia per il lavoro oltre a trovare il lavoro ad una
persona stipula addirittura il contratto con l’azienda, cosa che l’agenzia interinale non faceva, dedicandosi
solamente alla mediazione), le collaborazioni occasionali, le collaborazioni continuative a progetto cocopro
(che prendevano il posto dei cococo), il lavoro su chiamata.

Una novità è anche l’economia dei lavoretti, la gig economy. I lavoretti sono quei piccoli lavori in cui si
guadagna molto poco e con cui si è esposti alle leggi del mercato, in balia del mercato e di imprenditori
spregiudicati. Il simbolo della gig economy sono i cosiddetti riders, i fattorini del cibo a domicilio per
esempio. Questi riders sono lavoratori autonomi, ma che di fatto dipendono dalle chiamate che ricevono
dai loro cellulari e dalle loro app. Questo lavoro prevede il fenomeno del caporalato digitale, in cui ci sono
persone che controllano gli account di questi lavoratori, che vengono definiti come i braccianti
metropolitani. Questi lavoratori devono poi fare ulteriormente i conti con la complicità del consumatore,
che decide se lasciare un messaggio, un commento o una valutazione sul servizio che è stato ricevuto, una
valutazione positiva o negativa. I principi del taylorismo sono ancora ben presenti in questi tipi di lavoro,
come la separazione tra la creazione del lavoro e l’esecuzione del lavoro, la ripetitività del lavoro, la rigidità
della subordinazione di questi lavoratori alla direzione aziendale.

Siamo nell’epoca del cosiddetto lavoro alla spina e del Welfare à la carte. Il lavoro alla spina è il lavoro on
demand, quel lavoro che viene effettuato solo su chiamata (se si riceve una chiamata si può lavorare, non
c’è alcuna continuità lavorativa). I voucher rappresentano la forma contrattuale per eccellenza della
precarietà, l’idea che questo tipo di lavoro possa essere pagato attraverso dei buoni lavoro. Al pilastro del
welfare state si sta sostituendo sempre di più il welfare aziendale, una serie di benefits che le aziende
offrono ai loro dipendenti per sostenerli in un momento di difficoltà. Restano esclusi da questo welfare
aziendale, coloro che un lavoro non ce l’hanno o che lavorano per un’azienda che non prevede questo tipo
di welfare. In questo modo viene meno l’dea centrale del welfare state, di un intervento sociale universale
rivolto a tutti i cittadini.

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