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Capitolo 3

Humanitas

1. Personae

La Grecia classica viene considerata come la fonte ispiratrice del moderno concetto di democrazia. 
Questo è vero, ma entro certi limiti: la società greca era patriarcale, maschilista e basata sulla
schiavitù. Solo una minoranza degli abitanti della polis godeva dell'eguaglianza davanti alla legge
(isonomia) e di un eguale diritto a partecipare al governo della città (isegoria). L'idea
dell'eguaglianza universale era fuori dal senso comune. Perciò, la Grecia classica non conobbe una
teoria dei diritti umani.
Secondo Aristotele (384-322), l'umanità è per natura ordinata gerarchicamente. Ciò dipende dalla
struttura dell'anima, al cui interno esista una funzione superiore, caratteristica solo dell'uomo:
l'intelletto. Il maschio greco, in quanto dotato di capacità razionale, è destinato a comandare; le
donne, meno dotate di intelletto, sono subalterne. All'eguaglianza “aritmetica” (in cui ognuno ha lo
stesso valore e gode degli stessi diritti), Aristotele preferisce quella “geometrica”. Al padrone è
dovuto più che al servo, all'uomo più che alla donna. Se il modello di umanità è il cittadino greco,
allora non solo le donne ma anche gli schiavi e gli stranieri sono uomini con qualcosa in meno.
Il motivo della disparità tra greci e stranieri è, ancora una volta, naturale: si tratta dell'influenza che
il clima esercita sulle caratteristiche psicofisiche dei differenti popoli. I barbari, cioè gli stranieri,
che non parlano greco, ma balbettano suoni incomprensibili (“bar bar”) sono nati nei luoghi
sbagliati. Il barbaro viene reso inferiore dalle condizioni climatiche, la cui influenza determina
mutazioni ereditarie. I nordici sono coraggiosi, ma stupidi e incapaci di creare delle città; gli egizi
fin troppo civili, ed essendo incapaci di ribellarsi, si rendono schiavi di un re. Invece i greci, nati al
centro della fascia temperata ed esposti all'influenza benefica di un clima con stagioni ben
differenziate, sono sia coraggiosi che intelligenti. Quindi sono liberi, hanno le migliori istituzioni, e
potrebbero dominare il mondo, se riuscissero ad unificarsi politicamente.
Gli schiavi hanno la stessa funzione degli animali domestici e differiscono dai padroni sia
psichicamente che fisicamente: dunque la loro condizione subalterna è del tutto giustificata. Lo
schiavo è oggetto di proprietà (nulla di più lontano dall'articolo 4 della Dichiarazione Universale
che enuncia il principio che “nessun uomo potrà essere tenuto in stato di schiavitù o servitù”).
Per quanto queste concezioni fossero prevalenti ovunque, altre visioni del mondo, minoritarie ma
autorevoli, le sfidarono. Nel V sec. a.C. i Sofisti cercarono di dare un senso ai grandi rivolgimenti
sociali, etici e politici che accompagnavano la creazione delle istituzioni democratiche. Le norme
positive del nuovo ordine della polis sembravano contraddire un precedente e superiore sistema di
regole naturali.  Alcune correnti sofistiche sottolineavano la comune costituzione fisica degli esseri
umani, per sostenere il principio della loro naturale eguaglianza, violata dal diritto positivo.
Per altri, la natura voleva gli uomini diseguali: quindi la società risultava da una gigantesca
congiura dei deboli contro i forti, che aveva sovvertito la scala dei valori naturali.
Al di là delle profonde differenze di natura teorica e politica, le idee di molti dei sofisti dell'età di
Pericle e delle generazioni successive, convergono in un comune relativismo antropocentrico:
“l'uomo è misura di tutte le cose”, afferma Protagora. Anche le leggi sono un'invenzione dell'uomo.
non sono un'espressione di un'eterna e indiscussa verità, ma il frutto di una convenzione.
Finché la polis rimase il modello politico di maggiore successo del mondo classico, mancò il
terreno per una consistente diffusione di ideali universalistici e umanitari. Tutt’al più, la cultura
democratica del V e IV sec. si riconobbe nel valore della philantropia (letteralmente “l’amore per
l'uomo”). In realtà, si trattava della disponibilità ad agire per l'interesse della propria città: una virtù
civica molto apprezzata dai democratici ateniesi; ma perché diventasse un valore universale fu
necessario che l'ideale della piccola patria indipendente fosse messo in crisi dall'affermazione della
monarchia macedone. Il tentativo di Alessandro Magno (356-323) di creare un impero in grado di
integrare popoli, culture e mercati dell'Oriente e dell'Occidente, rese di colpo credibile la
prospettiva di uno stato universale retto da una legge universale. Le classi colte greche presero
consapevolezza dell'insostenibilità del modello della polis e aderirono all'ideale di uno stato
multietnico e tendenzialmente universale: prima il regno di Alessandro, subito frammentatosi in una
serie di monarchie greco-orientali, poi Roma. A quel punto, il cittadino greco (polites) poté sentirsi
prima cittadino del mondo (kosmopolites) e solo dopo ateniese o spartano.
Che il mondo fosse una sola grande città era una metafora proposta già da Democrito. I Cinici ne
fecero un’argomentazione polemica nei confronti dei valori cittadini, cui opponevano l'ideale del
ritorno alla natura e dell'autarchia, cioè della soppressione dei bisogni individuali. Essi proponevano
il ritorno a un’utopica società egualitaria, senza proprietà privata e senza conflitti, governata da un
re con poteri limitati, come quelli dei poemi di Omero. Il saggio cinico era una sorta di eroe
anarchico, distaccato dalla vita politica, in lotta con sé stesso e con il mondo per raggiungere la
completa autosufficienza. Egli viveva come un cane (da qui il nome), insofferente nei confronti
delle convenzioni morali, della proprietà privata, del potere. Tuttavia era legato ai suoi simili da un
sentimento di appartenenza alla specie, dalla consapevolezza di essere membro di una grande
“cosmopoli”, che andava al di là di ogni singola polis
Ma fu soprattutto la filosofia stoica, nata dalla riflessione di Zenone di Cizio (336-264 a.C.), a
diffondere nel mondo classico l'ideale cosmopolitico, legandolo al riconoscimento della comune
dignità umana, all'apertura nei confronti degli altri popoli e ad un atteggiamento illuminato nei
confronti delle classi subalterne.
La scuola Stoica si proponeva come un élite gli uomini colti e controllati, in lotta contro le passioni,
per raggiungere la libertà interiore.  I beni materiali e la posizione sociale che, nella prima fase della
scuola, erano visti come vincoli alla libertà del saggio, vennero considerati poi come indifferenti:
essere ricchi o poveri, liberi o schiavi, non è né bene né male. Quello che importa è essere liberi dal
punto di vista morale. Un filosofo di condizione servile, come Epitteto, è un uomo libero; un re,
come il grande Alessandro, è schiavo delle passioni. Le gerarchie sociali vengono relativizzate,
perché non dipendono da leggi naturali, e spesso nemmeno da particolari meriti.

2. L’ideale universalistico

Nel mondo antico, e in particolare per i romani, la Libertas viene concepita essenzialmente come
mancanza di un padrone, e quindi autonomia, sia personale che politica. Allo stesso modo di un
individuo, una città è libera se è autonoma, cioè se non è sottoposta a una dominazione straniera, né
ad un tiranno. Roma è una comunità di cittadini, che è libera grazie al fatto di essere organizzata in
forma repubblicana. La sua struttura costituzionale è pensata allo scopo di impedire il ritorno alla
dominazione di un re: al vertice si trova una coppia di consoli, eletti annualmente, e c'è un
equilibrio di poteri tra Senato, assemblee politiche e magistrature elettive.
La libertà personale è il fondamento di una più ampia Libertas, che coincide con la partecipazione a
una repubblica di eguali. La libertà politica e l'eguaglianza si implicano reciprocamente.
I cittadini Romani godevano di alcuni diritti fondamentali come la libertà personale, la cittadinanza,
l'inviolabilità del domicilio, la tutela giudiziaria, la possibilità di fare appello al popolo contro le
condanne capitali, la presunzione di innocenza, il giusto processo, l'esenzione dalla tortura,
l'integrità fisica, l'onorabilità. Il concetto di cittadinanza, come condizione giuridico-politica,
comprendeva anche l'elemento dell'appartenenza, intesa come soggezione permanente a uno stato, e
certi doveri tipici, come la leva militare. Gli stranieri erano tollerati e protetti ma non godevano di
veri e propri diritti.
L'eguaglianza tra i cittadini romani doveva essere temperata dal riconoscimento di diversi gradi di
dignità sociale. Il termine “Dignitas” aveva un senso diverso dalla nostra imprescrittibile ed
egualitaria “Dignità”.  Era un valore intrinsecamente aristocratico: ha dignità chi merita ossequio,
reverenza e onore, cioè, in primo luogo chi ha un rango sociale elevato o una carica politica. I
cittadini si dividevano in capi di famiglia o sottoposti, liberi per nascita o liberti (cioè ex schiavi),
domini e Donne. Partecipavano alle assemblee popolari divisi in classi di censo. Le famiglie più
influenti costituivano un particolare ordine sociale, la “Nobilitas”, che godeva di una posizione di
preminenza sociale e politica istituzionalizzata. Ma anche la cultura romana fu esposta all'influenza
del cosmopolitismo stoico. Giove, sovrano universale, era garante della buonafede, sia nei rapporti
tra individui che negli accordi internazionali. Su questo presupposto, il collegio sacerdotale dei
Feziali, addetto alle relazioni internazionali, aveva elaborato un sistema di regole giuridico-
religiose: lo Ius Fetiale, considerato da molti un antenato del Diritto Internazionale.  A partire dal III
sec. a.C, si era anche sviluppato il “Diritto delle Genti” (Ius Gentium), che aveva rappresentato
un'apertura dell’arcaico diritto romano alle esigenze del grande commercio transnazionale. I romani
distinguevano il diritto proprio della città di Roma (Ius Civile) dal “Diritto delle Genti” (Ius
Gentium). Quest'ultimo consisteva nei principi comuni a tutti i popoli civili e nelle pratiche
commerciali internazionali, accettate come norme interne dal popolo romano. 
Cicerone attribuiva ai Greci l'introduzione dell'idea di philantropia come apertura verso tutto ciò che
è umano, resa dai Romani della Tarda Repubblica, con il termine “Humanitas”. A suo avviso,
l’Humanitas poteva controbilanciare l'eccessivo rigore dei romani, che tendevano ad estremizzare il
valore tradizionale della serietà (Gravitas). L’Humanitas era in parte frutto di una spontanea
evoluzione culturale del mondo greco-romano, ma soprattutto era un prodotto provvidenziale della
ragione, operante nella società come nel cosmo.
Nella concezione ciceroniana, il genere umano è una società universale, basata sulla condivisione
della ragione e dell'uso del linguaggio. Qualunque persona intelligente e retta sa che esiste una
legge morale universale ed eterna, che è la vera fonte del diritto positivo. Perciò è giusto definirsi
“cittadini del mondo intero”.
L'ideale universalistico dell’Humanitas viene condiviso anche dallo stoicismo dell'Impero. Secondo
Lucio Anneo Seneca (I sec d.C.), “Siamo membri di un grande corpo. La natura ci ha fatto parenti”.
La “vera legge”, cioè la legge morale universale, per Cicerone come per Seneca, vieta la violenza
irragionevole, e consiglia la reciprocità, la solidarietà e la clemenza.
Nel mondo romano la categoria degli uomini che godevano della piena capacità giuridica era ancora
più ristretta che in Grecia. Non bastava essere libero, cittadino, maschio, ma occorreva anche non
essere sottoposto al pater familias (cioè al padre, o comunque al capostipite maschio). Né migliore
appare la situazione delle donne, soggette a perpetua tutela e prive di ogni capacità di diritto
pubblico. Eppure, era diffuso il concetto che ognuno era comunque una persona e che esistevano
dei “doveri dell'uomo” (Humanum Officium), che la natura imponeva a tutti, indipendentemente
dalla nazionalità e dalla condizione sociale. Per esprimere il concetto di uomo generico, i filosofi e i
giuristi ripresero la vecchia metafora stoica della “Maschera” (“Prosopon”), tradotta in latino con
“Persona”, un termine che si ipotizza fosse di origine etrusca. Ogni attore recitava più ruoli,
coprendo il volto con maschere diverse: il re, il servo, l'avaro, la prostituta... Il mondo è come un
teatro, nel quale ciascuno deve recitare il ruolo che il regista (Dio, la ragione universale) ci ha
assegnato. I ruoli sociali sono sovrastrutture, che non incidono sulla nostra vera essenza, perché per
natura tutti siamo uguali. Anche la schiavitù è un'istituzione non naturale, benché legale per il
diritto romano. Secondo Seneca, essa va, quindi, razionalizzata e umanizzata. 
A Roma è frequente che gli schiavi esercitino professioni di rilievo, come il medico, il maestro di
scuola o persino il banchiere. È normalissimo che vengano liberati dopo un certo numero di anni di
servizio, diventando stimati cittadini. Perciò, per quale motivo rifiutare agli schiavi la dignità di
esseri umani? Seneca andò oltre, convincendo Nerone a consentire agli schiavi che fossero fuggiti
perché ridotti alla fame, torturati o prostituiti, di fare ricorso contro i propri padroni. Rifugiarsi
presso le statue e i luoghi sacri, chiedendo di essere venduti ad un altro padrone, era una prassi
autorizzata dal “Diritto Comune degli Esseri Viventi” (Ius Commune Animantium).
Precettore del giovane Nerone, poi suo consigliere, e infine sua vittima; dal 54 al 62 Seneca diresse
di fatto la politica imperiale, cercando di realizzare una forma di Dispotismo Illuminato
corrispondente agli ideali cosmopolitici ed umanitari dello stoicismo. Egli vedeva nella figura del
“Re Filosofo”, identificata nel suo allievo Nerone, il garante di un nuovo ordine, più giusto e
razionale. Egli poteva tutto, addirittura possedeva tutto, ma il suo immenso potere era esercitato
nell'interesse della collettività, con moderazione e clemenza.
Un elemento ulteriore di legittimazione del Buon Re era rappresentato, secondo Seneca, dal
clientelismo. Tutta la società è percorsa da una catena di favori reciproci (“Beneficia”), più o meno
disinteressati. Questo vale anche nei confronti degli schiavi, perché un potere unicamente fondato
sulla coercizione trasformerebbe tutti i sottoposti in nemici. Sbaglia perciò chi non riconosce anche
ai servi le stesse capacità morali degli uomini liberi, in nome della loro presunta inferiorità naturale.
Per Seneca, la schiavitù è un’afflizione del corpo, ma lo spirito è libero. 

3. L’Humanitas nella giurisprudenza romana

L'élite culturale di un grande impero multietnico doveva riconoscersi nell'etica tollerante e razionale
dell'Humanitas. Secondo la propaganda imperiale dell'età degli Antonini (96-193), ispirata
all'ideologia cinico-stoica, era anacronistico concepire Roma come una potenza occupante: ormai
era la patria comune a tutti. Trascorsi vari secoli dal tentativo di Alessandro Magno di creare un
impero universale, l'ideale politico della cosmopoli sembrava infine realizzarsi. Esisteva un Impero
universale che si ispirava al Diritto Naturale.
Per i giuristi Romani influenzati dalle idee stoiche, il Diritto Naturale era un paradigma di giustizia.
Nel II sec, Gaio distingueva il Diritto Positivo da quello delle Genti, prodotto da una “Naturalis
Ratio”, capace di offrire a tutti i popoli dell'impero un terreno di valori condivisi, all'interno di una
visione cosmopolitica. Di questi valori faceva anche parte la libertà.
Fiorentino sosteneva che la Libertas era una facoltà naturale che consentiva di fare ciò che non
fosse impedito dalla forza o dal diritto. Perciò la schiavitù non era naturale, ma era stata creata dal
Diritto delle Genti .
Perciò, la “ragione naturale”, cui si riferivano Gaio ed altri esperti di diritto, poteva essere
interpretata in due modi:
  come i principi e le regole vigenti di fatto a Roma e presso tutti i popoli civili;
  oppure come una legge universale e naturale.
La prima accezione risaliva alla giurisprudenza repubblicana. La seconda si affermò
definitivamente con i giuristi della dinastia dei Severi. Essi, tra la fine del II sec e l'inizio del III sec,
si avvicinarono a posizioni apertamente giusnaturaliste. Il diritto sembrava fondato su un modello
ideale di ordinamento giuridico: lo “Ius Naturale” ovvero “Ius Commune”. Esso venne così definito
da Elio Marciano:
“La legge è sovrana di tutte le cose, divine e umane. presiede al bene e al male. è comandante e
capo, e quindi costituisce il parametro del giusto e dell'ingiusto per gli esseri socievoli per natura,
ordina quello che va fatto e vieta quello che non va fatto”.
Ma non era detto che il Diritto delle Genti e lo Ius Civile proprio dei romani si dovessero
necessariamente adattare a quello Naturale. In fondo, Roma era nata dalla decisione di uscire dallo
Stato di Natura e di darsi leggi proprie. Tuttavia, i principi del Diritto Naturale rimanevano
perennemente vigenti. In particolare, questa concezione venne sostenuta da Ulpiano, uno dei
maggiori giuristi dell'età dei Severi. Secondo Ulpiano, alla tradizionale dicotomia “Ius civile/ Ius
gentium”, si doveva aggiungere un terzo elemento: lo “Ius Naturale”, comune a tutte le specie
animate. Per il Diritto Naturale, tutti nascono liberi: è il Diritto delle Genti a creare la schiavitù,
adottata da tutti gli ordinamenti conosciuti.
Il “Diritto Naturale alla Libertà”, benché derogato dalle norme positive che regolano la schiavitù,
non scompare mai del tutto. Questa teoria giusnaturalistica sporadicamente poteva arrivare fino a
riconoscere dei diritti naturali. Ad esempio, nei processi sulla libertà o schiavitù prevale il principio
del “Favor Libertatis”. Inoltre, esistono forme di tutela della dignità e dell'incolumità dello schiavo.
Anche per il conservatore Cicerone, “Qualunque sia la definizione di uomo, essa è uguale per tutti”.
Per quanto ci si sforzi di considerare gli schiavi nient'altro che oggetti di proprietà, la loro umanità
non può essere ignorata. Essi sono responsabili penalmente, comprano e vendono, possiedono una
specie di “patrimonio”, se i padroni lo consentono: le loro azioni hanno conseguenze giuridicamente
rilevanti. Dallo Ius Naturale, i giuristi romani non ricavano l'esistenza di diritti soggettivi a carattere
universale, elevati a finalità essenziale del sistema giuridico. Ma la diseguaglianza giuridica
comincia ad apparire un dato storico, non universale e non razionale.
Nelle fonti giuridiche del Basso Impero (compreso il codice teodosiano, la grande codificazione
ufficiale del V sec), la natura viene raramente menzionata; una ripresa del diritto naturale si ha,
invece, nel VI sec, con il “Corpus Iuris Civilis”, la collana di compilazioni giuridiche promossa
dall'imperatore Giustiniano. La tripartizione ulpianea in “Ius Civile”, “Ius Gentium” e Ius Naturale”
venne elevata al rango di teoria giuridica ufficiale, perfettamente in grado di integrare i dettami
della fede cristiana con la razionalità del diritto romano.

4. L’universalismo delle religioni di Abramo

La Bibbia, il Vangelo e più tardi il Corano esprimono una teoria dei doveri dell'uomo, non dei
diritti. Ma tutte le religioni del ceppo di Abramo hanno in comune un’etica della dignità umana, che
si presta perfettamente a sostenere una teoria dei diritti umani.  Il rispetto per lo straniero, la
solidarietà nei confronti dei poveri e il grande tema della liberazione degli oppressi ne sono prove
evidenti. Secondo la legge, direttamente emanata dalla divinità, l'uomo ha diritto alla vita, al
possesso dei mezzi di sussistenza, alla giusta retribuzione, all'onore. Anche i poveri hanno degli
speciali diritti, che derivano dal fatto che, in linea di principio, Dio è padrone di ogni cosa.
La teologia cristiana, come quella ebraica e quella islamica, ricava l’Humana dignitas dal fatto che
l'uomo è una persona, cioè una sostanza pensante e libera, essenzialmente simile a Dio.
il cristianesimo si distinse nell'eliminare la terribile usanza romana dei giochi gladiatori e
nell’addolcire la condizione degli schiavi; ma, la schiavitù venne in genere legittimata come una
punizione del Peccato Originale e un utile mezzo di disciplina sociale.
Come per lo stoico, anche per il Cristiano la vera libertà è quella interiore.
L'ideale umanitario e universalistico del Cristianesimo venne radicalmente contraddetto
dall'atteggiamento nei confronti di chi non faceva parte della chiesa. Prima della cristianizzazione
dell'impero, la posizione dei Cristiani era stata spesso tollerante. Quest’atteggiamento di tolleranza
venne completamente abbandonato quando, sotto Costantino, l'impero stabilì uno strettissimo
accordo con la chiesa, che portò il cristianesimo a divenire religione di Stato. Il non Cristiano e
l'eretico furono considerati come nemici da sterminare.
Alla fine del XI secolo, il fondatore dello studio del diritto canonico, il monaco Graziano, affermava
che il genere umano è governato dalle consuetudini e dal diritto naturale, che coincide con la legge
divina e i dettami del Vangelo. Queste norme naturali, riconosciute da tutti i popoli, prevalgono su
quelle positive. In esse si possono trovare le giustificazioni del fatto che l'uomo gode di
“Iura Naturalia”, cioè di diritti condivisi da tutti. 
Le ricerche di Bryan Tierney hanno dimostrato l’infondatezza di due luoghi comuni: che il concetto
di diritto soggettivo sia stato introdotto da Guglielmo di Ockham; e che Thomas Hobbes abbia dato
vita all'idea dei diritti naturali. Il concetto di diritti soggettivi e l’esistenza di diritti naturali erano
già delle teorie presenti nel diritto canonico, almeno dalla metà del XII secolo. Tra gli istituti del
diritto naturale - come l'unione di uomo e donna, la procreazione, l'allevamento della prole, la
possibilità di pescare e cacciare, la restituzione della cosa data in deposito e del denaro prestato, la
resistenza alla forza- ci sono la proprietà comune di tutte le cose e la libertà comune per tutti
(“communis omnium possessio et omnium una libertas”). 
Dopo il peccato originale, era nata la proprietà privata, quindi le cose originariamente comuni erano
state occupate. Ma il principio della proprietà collettiva era rimasto sempre in vigore, perché le
regole del diritto naturale sono eterne. La proprietà andava, dunque, limitata e resa funzionale al
benessere collettivo.  Se il ricco veniva meno al dovere naturale della condivisione, il povero
riacquistava il diritto naturale di usare le cose altrui. Ma l’esistenza di veri e propri diritti umani -nel
senso di diritti fondamentali effettivamente attribuiti ad ogni essere umano su base paritaria,
compresi i non cristiani e le donne- richiederà l'avvento della società moderna, drammatiche
divisioni anche religiose e un lungo conflitto contro le gerarchie ecclesiastiche.
Come nota M.  Ventura, “La storia dei diritti umani è in gran parte storia della lotta di cristiani
contro cristiani”.

5. Privilegi e libertà

Nel Medioevo, la cristianità riconosce due capi supremi: quello religioso, che è ovviamente il Papa,
e quello politico, che è teoricamente l’imperatore germanico, erede di quello romano. Sotto di lui
c'è una grande varietà di monarchie, repubbliche e altri ordinamenti, più o meno autonomi. In ogni
monarchia, il re è il vertice di una gerarchia feudale di nobili. Il fenomeno del Feudalesimo nasce,
in linea di principio, dalla volontaria sottoposizione di un libero guerriero a uno superiore. Il
rapporto che lega il re ai nobili, e ciascuno di essi al suo superiore e ai suoi vassalli, si stabilisce
mediante un accordo, in base al quale ciascuno può vantare diritti e obblighi nei confronti della
controparte. Esso si può risolvere quando il superiore attenti alla vita, all'onore, alla libertà
personale del vassallo, o venga comunque meno ai suoi impegni.
In una società così strutturata, non era concepibile la moderna libertà del cittadino, ma “le” libertà
(cioè i privilegi e le prerogative), concesse dalle autorità superiori a specifici individui, ceti sociali o
enti. I “diritti e libertà”, concessi da Alfonso IX di Leon alle Cortes nel 1188, o la più famosa
“Magna Charta Libertatum Ecclesiae et Regni Angliae” - considerata addirittura l'antenata della
Dudu- erano privilegi concessi a particolari ceti.
La Magna Charta fu frutto di un accordo cui Giovanni Senza Terra (fratello di Riccardo Cuor di
Leone) fu costretto nel 1215 dai baroni inglesi in rivolta. Il documento riconosceva ai Lords, alla
chiesa e ai borghesi di Londra “Iura” (privilegi) e “Libertates” (libertà) riguardanti il possesso dei
beni, l'imposizione fiscale e la libertà personale. Tali garanzie si estendevano, in alcuni articoli,
anche ai Liberi Homines in generale: ad esempio, la proporzionalità della pena rispetto al reato (art.
20), il giusto processo davanti a una giuria di pari e il divieto di detenzione ingiustificata, che fu più
tardi detto “ Habeas Corpus” (art.39).
Il potere del monarca inglese risultò, da allora, definitivamente diviso in due aspetti: da un lato il
comando dell'esercito e della pubblica amministrazione, e dall'altro il potere legislativo, da
esercitare col consenso del Parlamento. In effetti, veniva rafforzato il sistema feudale e corporativo
contro l'autorità del monarca. Nei secoli successivi, i “Rights and liberties” della Magna Charta
alimentarono il mito politico dell'esistenza di antichi diritti e libertà del popolo inglese e favorirono,
nel XVII secolo, l'avvio del costituzionalismo inglese. In nome di questi “Rights and liberties”, i
rivoluzionari inglesi insorsero contro il tentativo dei Tudor e poi degli Stuart di trasformare il
Regno d'Inghilterra in una monarchia assoluta sul modello di quelle dell'Europa continentale. 
Un altro importante provvedimento in materia di libertà e diritti è lo statuto del Comune di Bologna
con il quale venne abolita la servitù: la “Legge Paradiso”, del 1257.
Il “Liber paradisus”, pubblicato nel 1257, era la lista ufficiale dei 5855 servi di ogni tipo riscattati
dai loro padroni a spese del Comune. Presentando la lista dei servi e delle serve emancipate dal
Comune di Bologna, si sviluppa un audacissimo ragionamento che fonda le motivazioni del
Comune su un piano teologico. Il Signore Iddio Onnipotente piantò un paradiso di delizia nel
principio, nel quale collocò l’uomo che aveva creato, e adornò il suo corpo di una veste splendida,
donandogli una perfetta e perpetua libertà.
Dimentico della sua dignità, l'uomo cadde in schiavitù del diavolo. Vedendo il mondo rovinato, Dio
mandò Gesù a redimerlo dalla schiavitù e restituirlo alla libertà originaria. Perciò è cosa meritevole
combattere la schiavitù, che è invenzione del Diritto delle Genti, contraria alla natura.
La servitù era legata al peccato originale. Ma da questo, i bolognesi non deducevano che dovesse
essere accettata come giusta espiazione. L'uomo era stato cacciato dal Paradiso terrestre perché si
era reso servo. Quindi, il Comune, avendo abolito la schiavitù, ripristinava le condizioni originarie
del Paradiso Terrestre nel territorio bolognese.

7. I diritti naturali nella prima modernità


Un secolo prima delle rivoluzioni inglesi, una corrente di studi teologici, filosofici e giuridici
ispirata al pensiero di Tommaso d'Aquino, il cui centro di diffusione era l'università di Salamanca,
aveva contestato il preteso diritto di conquista dei cristiani. I rappresentanti di questa
“Seconda Scolastica”, avevano riconosciuto, in nome dell'eguaglianza naturale e del Diritto delle
Genti, la proprietà degli infedeli sulle proprie terre, e persino la legittimità delle loro istituzioni
politiche. 
In particolare, il domenicano Francisco Da Vitoria, con la sua “Lezione sugli Indios” (1539), aveva
sostenuto che, per natura, l'umanità è una sola “Societas Gentium”, cioè una confederazione legata
da vincoli di socialità e carità, e da diritti naturali dei popoli, Quindi anche i popoli extraeuropei
avevano diritto alla vita, alla libertà, alla proprietà. Tuttavia, benché gli Indios fossero umani e
avessero diritto di vivere liberi in stati indipendenti, la guerra contro di loro era giusta. Infatti, essi
impedivano la circolazione degli uomini (Ius Communicationis) e delle merci, che erano diritti
naturali. Peggio ancora, rifiutavano l'evangelizzazione, che per i cristiani era un diritto di origine
divina. D'altra parte, imporre a quegli “Hebetes” il dominio cristiano era un bene, perché li liberava
dalla superstizione e da pratiche ripugnanti come l'antropofagia.
A favore degli Indios del Sudamerica si era battuto anche il dominicano Bartolomè De Las Casas.
Egli contestò la teoria che gli Indios fossero subumani, che potevano essere sterminati dagli
spagnoli, depredati, ridotti in schiavitù o uccisi dal lavoro forzato.  Las Casas partecipò ad un
convegno per discutere delle tesi dell'umanista Juan Ginès De Sepulveda. Questi sosteneva, sulla
base di Aristotele, che gli Indios erano inferiori agli spagnoli tanto quanto i bambini, le donne o le
scimmie lo erano rispetto agli uomini. La vittoria della posizione di Las Casas, secondo cui esisteva
una sola razza umana, e quindi del fatto che gli Indios non erano subumani, allontanò la prospettiva
dello sterminio degli indiani d'America. Purtroppo l'alternativa fu subito trovata: gli spagnoli si
convinsero a sostituire il lavoro degli Indios con quello dei Neri importati dall'Africa.
La concezione del diritto naturale dell'epoca classica si basava soprattutto sull'osservazione
empirica degli ordinamenti dei diversi popoli. Cicerone affermava: “La legge di natura è in ogni
caso il consenso di tutti i popoli: il consenso generale è la voce della natura”. Nella tradizione
scolastica medievale, la “Lex Naturalis” aveva un fondamento teologico, dal momento che la natura
stessa è stata creata da Dio. Il giusnaturalismo moderno, invece, tendeva a fare astrazione
dall'esperienza e dalla storia: i popoli potevano anche sbagliare, ma la ragione no. Essa bastava a
dimostrare i fondamenti dell'etica e del diritto, senza necessariamente ricorrere alla teologia, al
costume, all'autorità della tradizione.
A partire dal “Diritto di pace di guerra” di Grozio del 1625, il giusnaturalismo dell'epoca che
precede le rivoluzioni assume l'ipotesi che il diritto naturale basterebbe da solo a fondare la
giustizia, anche se, per assurdo, non esistesse Dio. Secondo Grozio, il diritto naturale è
essenzialmente un sistema di diritti soggettivi (vita, libertà, onore, proprietà, ecc), dedotti da una
serie di doveri naturali: rispettare la proprietà privata, restituire i beni altrui, adempiere alle
promesse, riparare i danni causati dalle proprie colpe, sottostare alle pene meritate. Il
giusnaturalismo razionalista della prima modernità fornì argomenti ai programmi politici liberali e
democratici, dalla Rivoluzione Inglese in avanti. Per il tedesco Samuel Pufendorf, ad esempio,
poiché tutti hanno la stessa dignità, è ragionevole attribuire a tutti gli stessi diritti.
I diritti naturali furono uno strumento ideologico efficacissimo, utilizzato dai ceti borghesi, per
piegare l'organizzazione notabiliare e feudale delle monarchie assolute ai propri fini: la tutela della
proprietà privata e del commercio, la libertà di impresa, la possibilità di far valere il potere del
denaro. Il sostenitore più noto dei diritti fondamentali come prodotto di leggi di natura fu John
Locke. il suo “Secondo trattato sulla Politica” (1689) divenne il fondamento della dottrina politica
liberale inglese e un testo autorevole per i costituenti americani e francesi. Ma il diritto naturale
funzionava altrettanto bene per i sostenitori dell'assolutismo, come Hobbes, o per i conservatori,
come l'inglese Edmund Burke, in “Reflections on the revolution in France” (1790), che denunciava
il carattere innaturale del principio di eguaglianza.

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