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COLLANA DEL DIPARTIMENTO DI SOCIOLOGIA E DIRITTO DELL’ECONOMIA

UNIVERSITÀ DI BOLOGNA

Sezione giuridica – 7
Volumi pubblicati

Sezione giuridica
1. B. Bertarini, Tutela della salute, principio di precauzione e mercato del medicina-
le. Profili di regolazione giuridica europea e nazionale, 2016.
2. M. Belletti, Corte costituzionale e spesa pubblica. Le dinamiche del coordinamen-
to finanziario ai tempi dell’equilibrio di bilancio, 2016.
3. E. Menegatti, Il salario minimo legale. Aspettative e prospettive, 2017.
4. B. Bertarini, La riqualificazione delle aree di crisi industriale complessa. L’inter-
vento pubblico tra mercato e persona, 2017.
5. C. Golino, L’intervento pubblico per lo sviluppo economico delle aree depresse tra
mercato e solidarietà, 2018.
6. F. Cicognani - F. Quarta (a cura di ), Regolazione, attività e finanziamento delle
imprese sociali. Studi sulla riforma del terzo settore in Italia, 2018.
7. G. Marchianò, Regolamentazione amministrativa delle libertà economiche nel mer-
cato comune, 2018.

Sezione sociologica
1. S. Sicurella, Da quel giorno mia madre ha smesso di cantare. Storie di mafia,
2017.
Giovanna Marchianò

Regolamentazione
amministrativa
delle libertà economiche
nel mercato comune

G. Giappichelli Editore – Torino


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La Collana

Ubi societas, ibi jus. Questo antico adagio romano dimostra oggi tutta la sua
validità nell’indicarci quanto sia cruciale, per la scienza e per l’agire pratico, col-
legare fra loro i cambiamenti sociali studiati dalla sociologia e il diritto che cerca
di dare loro una regolazione normativa. I contatti e l’influenza reciproca tra diritto
e sociologia stanno crescendo di continuo ed i docenti dell’una come dell’altra
disciplina sono scientificamente persuasi della loro scelta. L’auspicio è che il di-
partimento di sociologia e diritto dell’economia possa esercitare un influsso non
trascurabile su alcuni campi della ricerca e della riflessione scientifica di settore,
talora soddisfatti del loro status quo (con un atteggiamento spesso isolazionista),
talora troppo ancorati alla distinzione tra conoscenza dei principi astratti e cono-
scenza e fruizione dei fatti e delle pratiche sociali. Già da tempo sono emerse con-
nessioni e mediazioni tra principi e realtà in una proficua reciproca fertilizzazione
che è il contrassegno essenziale della posizione culturale del dipartimento; vale a
dire una concezione della conoscenza che non è puro e semplice rispecchiamento
di una realtà statica fuori ed indipendentemente dall’uomo-cittadino ma attività,
non solo teorica, essa stessa aspetto della realtà in trasformazione. È così che la
conoscenza dei nessi reali, nella dialettica fra le diverse forze umane e le forme di
società, assume una sua dignità autonoma, caratteristica del dipartimento. Contro
ogni assolutizzazione del metodo di ogni scienza particolare, contro ogni restri-
zione degli orizzonti e l’impoverimento contenutistico di certa scienza ufficiale.
Ciò non toglie che il diritto e la sociologia possano rivendicare la diversità dei
metodi di indagine e degli strumenti conoscitivi propri ma al contempo comporta
che nella sussidiarietà reciproca possano ‘vivere’ all’interno dei contesti socio-
economici imprimendo il loro rispettivo impulso.
Entrambi possono estroflettere le proprie forze per riconoscere e concorrere a
superare le necessità delle collettività ed i loro impulsi indifferibili. Si pensi ad
esempio alle materie di studio come l’autorità e la famiglia, l’impresa e la società,
il lavoro e l’economia, l’imposizione fiscale e la solidarietà sociale, la società
attiva e la società acquiescente, l’industria e l’ambiente con i relativi contrasti,
il potere della comunità e quello del singolo, il sistema bancario-creditizio e le
relative connessioni.
Oggi sembra stiano per cadere o per lo meno oscillano pericolosamente i pre-
supposti di ogni legge eppure la legge risulta una condizione cronica della società
contemporanea, dando luogo a situazioni talora paradossali talora sfuggenti all’in-
terno delle quali l’uomo continua a vivere. Sembra essere messo in discussione
il legame della legge con il territorio, ma al contempo il legame ritorna quasi in
un moto perpetuo sicché il diritto continua ad irradiarsi con ordini, condiziona-
menti, decisioni mentre la società tenderebbe a sottrarsene o a rovesciarli, perché
la legge pretende una sorta di eternità dei principi che la sottendono mentre la
società non vorrebbe essere sottratta ai flussi del tempo con intenzioni infuturanti
progettuali autonome. È questa una delle tipiche occasioni in cui scienze socio-
logiche e giuridiche consentono di affrontare ‘insieme’ e contemporaneamente
nuovi campi di possibilità costruttive, in una molteplicità ordinata che assicura
la non contraddittorietà logica della possibilità della sua costruzione. Il diritto e
la sociologia non sono ricavabili uno dall’altra ma possono riscontrarsi coinci-
denze proficue nell’equilibrio continuo delle procedure di libera scelta, pensando
simultaneamente gli apparenti opposti, ordine-arbitrarietà, possibilità-necessità,
affermazione-negazione. Costituiscono l’uno l’altrimenti dell’altra e al contempo
la prossimità dell’altra al primo, senza mai sentirsi identici, pur integralmente
affidati al lavoro di restaurazione degli istituti. Dispersioni e disaggregazioni pos-
sono assillarli, essendo entrambi essenza di se stessi, ciò che rende raro equivo-
carli, ma si influenzano reciprocamente nell’esposizione con cui si fanno cono-
scere e con cui sono stati.
Entrambi superano l’astratta separazione tra tempo vero e tempo apparente e
sono dediti al presente per comprenderlo e sostanziarlo, abbracciando la vita in sé
con la chiarezza che ne divide e ne rapporta le diverse dimensioni.
Sono discipline che realizzano ‘il possibile’, oltre ogni errante radice, nell’i-
dea del dover essere della pienezza del presente e quindi entrambe contengono
principi universali disincarnati da ogni terra e da ogni luogo, liberi dalla crescente
instabilità del termine stesso di Stato.
Gli studiosi del dipartimento conoscono la necessità delle domande e la dif-
ficoltà frequente delle risposte, ma il domandare e il rispondere sono per loro
elementi di una stessa dimensione e quotidiana abitudine di assumerli come un
unico contesto.
Domanda e risposta sono due termini incommensurabili, e gli studiosi del di-
partimento lo sanno, perciò sono attenti a non sprofondare nella dimensione della
domanda, quando è riconosciuta priva di scopo e perciò inutile, avendo come fine
la verità in quanto próblema. Così non percorrono vie di fuga, auspicando che la
verità prenda forma, se non oggi, un’altra volta, con la pazienza di ottenerla.
È così che il dipartimento di sociologia e diritto dell’economia può essere
inteso come labirinto protettivo degli studiosi rivolti al possibile delle risposte,
anche se spesso si celano.
Nella fondamentale proposizione di far coincidere esistenza e costruibilità di
cose nuove, con approfondito vaglio critico, nell’equilibrio delle due discipline,
aperte una all’altra con lucidità.
Il dipartimento è dunque la forma di accoglienza che facilita e nutre il succes-
so della ricerca, attività istintiva e fertile dei suoi componenti che insieme reagi-
scono al controllo esercitato sulle questioni dall’abitudine; con le loro narrazioni
plurali tra il caos dei diritti, le istituzioni, le tradizioni giuridiche e sociali, i sog-
getti politici in cerca di legittimazione, i poteri nascosti che così tanto ricordano
la crisi attuale, le nuove patrie, le tendenze isolazioniste, l’essere in relazione.
Ed è il luogo dell’ascesa di giovani intraprendenti che con le loro intuizioni
creano una grande realtà, né impaludata né burocratica, vero riferimento in una
globalità sempre più frammentata, in attesa del futuro, con coraggio morale in
tempi squilibrati e storti di società subalterne e dilatate.
Sociologia e diritto dell’economia si sono accostate l’una all’altro nell’am-
bito di un nuovo dipartimento per la specifica funzione morale e sociale delle
discipline e del ruolo dei loro studiosi. L’idea del ‘compito’ delle due discipline
è stata centrale per il loro accostamento; tanto da sembrare strettamente legata
e finanche suggerita da un’idea morale della società e del sistema giuridico. A
questa idea si è affiancata poi la volontà di una intensa attività pubblica e di una
altrettanto viva produzione scientifica.
La prossimità tra sociologi e giuristi ha messo in luce il valore politico delle
norme e definita la loro funzione in relazione al sistema sociale ed economico e
ha sottolineato il differente grado di adeguatezza pubblico-politica in vista della
loro applicazione. Si sono trovati così a lavorare gomito a gomito numerosi intel-
lettuali, in una schiera che ha riunito nella figura dello studioso attitudini di vita
e vocazioni in una misura in parte anche lontana dalla tradizione accademica.
Le due discipline hanno una propria unità intrinseca, guidate da propri principi
originali ma le accomuna uno spirito che è lo sforzo di contrastare con puntuali
riferimenti e analisi ogni decadenza, ogni sincretismo sui tempi attuali, articolan-
do un senso nuovo dell’uomo in sé, del mondo, del dualismo tra l’uno e l’altro,
del dinamismo societario, della conoscenza della verità sulla condizione umana
individuale e collettiva.
L’accostamento delle due discipline può rappresentare l’opportunità di pos-
sibili novità nel metodo o nella attualità delle ricerche che sono gli elementi che
intendono caratterizzare la Collana, aperta ai lavori anche di sperimentazione,
o nella messa a fuoco del proprium di ogni disciplina, tutti considerati come
compito e come responsabilità di ogni studioso. È questa la risposta a studi mi-
stificatori e sedicenti scientifici di alcuni anni passati che enunciavano il crollo
di tutti i principi e di tutte le regole. Questa Collana ha una funzione ordinante,
regolatrice e costruttiva nel nostro sistema sociale, economico e giuridico, e vuo-
le essere espressione di un sistema di valori economici, giuridici e sociali subito
associati al concetto di persona umana senza restringere l’orizzonte scientifico ad
una sola epoca storica. È così che le cose possono ‘svelare’ la loro esistenza a chi
le interroga seriamente, visitandole più volte, senza tuttavia svelare del tutto da
dove vengono.
Risulta chiaro che la Collana contiene due punti di vista, entrambi necessari,
nella comprensione della realtà, ma differenti e vuole superare le difficoltà o le
perplessità che un loro avvicinamento ha più volte suscitato, soprattutto per la dif-
fidenza di alcuni studiosi, nonostante siano coscienti della ormai imprescindibile
natura interdisciplinare della ricerca, che si tratti di interdisciplinarietà interna o
esterna; anche perché soltanto così si evita sicuramente che ogni scienza rifletta
esclusivamente su se stessa e sul proprio ruolo e non prenda in considerazione
riflessi, relazioni, interferenze che non possono non stimolare.
La Collana del dipartimento costituisce perciò il punto d’incontro speculativo
tra le culture degli studiosi afferenti alla struttura e ha l’ambizione di avvalorare
i loro apporti dediti al ritrovamento del senso vero della realtà; così ad esempio
il giurista va oltre i classici confini dell’interpretazione della legge che non ne
esauriscono obbligatoriamente il compito scientifico e il sociologo va oltre i con-
fini delle regole sociali vigenti in una certa collettività, analizzandone il senso, le
funzioni e le finalità di cambiamento della collettività stessa.
Risulta così che le due discipline, diritto e sociologia, possono affrontare nuo-
vi argomenti tra scienza e politica, sottolineando la centralità del concreto rispetto
all’astratto in una concludenza armoniosa.
IX

INDICE

pag.

INTRODUZIONE
PREMESSA METODOLOGICA E OBIETTIVI DELLA RICERCA 1

CAPITOLO I
IL PROCESSO DI AMMINISTRATIVIZZAZIONE
DEL DIRITTO EUROPEO

1. La regolamentazione del mercato unico: tra discipline normative e di-


sposizioni amministrative, comunitarie e nazionali 9
1.1. La regolamentazione amministrativa diretta e la regolamentazione
indiretta 17
1.1.1. L’emersione della funzione «quasi legislativa»: i comitati 22
1.1.2. Le reti e le agenzie 32
1.2. L’esercizio congiunto delle funzioni amministrative: la «coam-
ministrazione» o «regolazione parallela» 46

CAPITOLO II
EVOLUZIONE DEL PRINCIPIO DI CONCORRENZA ED
EFFETTI NELLA REGOLAMENTAZIONE
AMMINISTRATIVA DELLE LIBERTÀ ECONOMICHE

1. Principio di concorrenza: quale cornice giuridico-amministrativa delle


libertà economiche 53
1.1. Diritto antitrust: amministrazione parallela e/o contestuale 65
1.2. Le concentrazioni e i cartelli: amministrazione indiretta 79
1.3. La regolamentazione delle politiche comunitarie a favore delle
PMI: il tipo di amministrazione e il ruolo degli Stati membri 86
1.4. Aiuti di Stato: effetto diretto orizzontale e ruolo delle amministra-
zioni nazionali 96
X

pag.

1.5. I servizi d’interesse economico generale e la concorrenza 108


1.6. Il dilemma della regolazione nel settore della «domanda pub-
blica» 131

CAPITOLO III
PROFILI AMMINISTRATIVI DELLA LIBERA
CIRCOLAZIONE DI PERSONE, DEI LAVORATORI
AUTONOMI E DEI LAVORATORI SUBORDINATI

1. Principi generali della libera circolazione delle persone nel quadro


delle libertà economiche 145
1.1. L’interesse pubblico e le deroghe al diritto di circolazione 151
1.2. Aspetti generali sulla libertà di circolazione dei lavoratori e dei
prestatori di servizi 165

CAPITOLO IV
PROFILI AMMINISTRATIVI DELLA LIBERA
CIRCOLAZIONE DEI BENI CON PARTICOLARE
RIFERIMENTO ALLE DOGANE

1. La libertà di circolazione dei beni rectius: delle merci e l’unione do-


ganale 179

RIFLESSIONI CONCLUSIVE 195

BIBLIOGRAFIA 201
1

INTRODUZIONE
PREMESSA METODOLOGICA
E OBIETTIVI DELLA RICERCA

Col presente lavoro ci si è posti l’obiettivo di ricostruire i principi del-


l’amministrazione europea in rapporto alle libertà economiche ovvero riflet-
tere su quegli organi o organismi che, sia pure rapportandosi in modo diffe-
rente con le istituzioni pubbliche degli Stati membri vengono, oggi, a dare
attuazione alle politiche comunitarie.
È ormai acquisito che il diritto europeo incide sulle amministrazioni dei
singoli Stati membri condizionandole non tanto o meglio, non solo, per i
«modelli» da porre in essere, quanto per gli obiettivi a cui queste devono
ispirarsi; si tratta di un processo ancora in fieri che comporta sviluppi diversi
ma rispondente all’esigenza di garantire le libertà, soprattutto economiche,
dei cittadini europei in nome degli interessi sovra nazionali determinati a li-
vello comunitario.
Come ha rilevato S. Cassese, bisogna premettere che il diritto ammini-
strativo comunitario, non derivando da una Costituzione, è frutto di quella
che viene definita «adhoccrazia» ovvero dalla sommatoria di decisioni as-
sunte caso per caso: pertanto nell’attuale momento è possibile solo prendere
atto di come la fase esecutiva, derivante da una Comunità diversa dallo stato
di diritto, riesca tuttavia ad incidere sulle amministrazioni degli Stati membri
e che tale percorso tende ad ampliarsi via via che l’Unione «assorbe» princi-
pi di democrazia propri degli Stati che ad essa hanno dato legittimazione.
Basti pensare come a fronte del c.d. «deficit democratico» siano diventati
ugualmente elementi portanti della Comunità europea, il principio di legali-
tà, il principio di uguaglianza di fronte alla legge, il principio del controllo
giurisdizionale indipendente ed effettivo, la tutela dei diritti inviolabili dei
cittadini 1.

1
Tale tesi trova una concreta critica da parte di F. BASSANINI, nella Prefazione a M.P.
CHITI-A. NATALINI (a cura di), Lo Spazio amministrativo europeo, Il Mulino, 2012, il quale
osserva a p. 13, nota 23, che nonostante l’inarrestabile forza espansiva del diritto comunita-
2

Ci si propone quindi di tratteggiare le figure «organizzative e funzionali»


«per comprendere di quali materiali sia composta la fabbrica del diritto
amministrativo europeo» 2.
A tal fine bisogna prendere atto che, l’amministrazione europea (intesa in
senso ampio) è orientata verso strutture e atti variegati in quanto s’intende
includere in tale espressione sia i vari uffici sia i profili funzionali dell’agire
dell’amministrazione ovvero i procedimenti «compositi» e condivisi tra
l’Unione e i Paesi membri. L’ordinamento comunitario ha ormai sviluppato
accanto alla fase legislativa, la fase amministrativa e a nulla vale mettere in
discussione tale principio sulla base di un presunto deficit democratico della
Comunità poiché, col Trattato di Lisbona, si è imposto se non in modo com-
piuto un principio di legittimazione dell’Unione derivante dal rapporto tra
gli Stati e le istituzioni europee. Com’è stato osservato la «legittimazione at-
traverso il diritto rappresenta uno degli esiti più tipici dell’età contempora-
nea, che porta a compensare la crisi di legittimazione politica; per altri a
razionalizzarla» 3, ma in ogni caso a riconoscere l’essenza della costruzio-
ne europea e delle sue istituzioni anche se ancora non compiutamente rea-
lizzate.
È ben noto che l’idea originale di Jean Monnet 4 era quella di costruire

rio non si può pensare che «… queste regole comuni comportino automaticamente una con-
formazione della disciplina delle amministrazioni nazionali a quella dell’amministrazione
europea, in ispecie se dovesse prevalere una interpretazione “forte” del principio dell’indi-
pendenza dell’amministrazione europea, stabilito dall’art. 298 TFUE: interpretazione forse
accettabile nel contesto dell’attuale assetto istituzionale dell’Unione (di cui si auspica il su-
peramento verso una più forte integrazione politica e una più robusta legittimazione demo-
cratica); ma – a mio avviso – non compatibile con i principi della democrazia rappresenta-
tiva, che non può non affidare alle istituzioni politiche amministrative il compito di stabilire
gli obiettivi delle politiche pubbliche e dunque delle attività delle amministrazioni, fermo il
rispetto dell’imparzialità della loro azione e dell’autonomia dei dirigenti nella loro gestione».
2
S. CASSESE, La signoria comunitaria sul diritto amministrativo, in Riv. dir. it. pubbl.
comunitario, pp. 292 ss.
3
M. P. CHITI, La legittimazione per risultati dell’Unione europea quale “Comunità di
diritto amministrativo”, in Riv. it. dir. pubbl., 2016, pp. 416-417.
4
Occorre far riferimento a Jean Monnet, al quale si deve riconoscere l’avvio verso l’Eu-
ropa unita; tuttavia egli riteneva che non si potesse ipotizzare una federazione europea di
Stati se non in modo graduale, avviando un’integrazione in alcune funzioni e potestà pubbli-
che. A J. Monnet si contrapponeva Altiero Spinelli, il quale era, con altri, l’autore del Mani-
festo di Ventotene e proponeva il superamento dello Stato-Nazione e una struttura europei-
stica di tipo più politico, mirando ad uno Stato federale. Nel “Manifesto di Ventotene”, scrit-
to a due mani da Altiero Spinelli ed Ernesto Rossi, si delineava una nuova democrazia euro-
pea e la fine dello Stato-Nazione. Il concetto di “integrazione europea” si inseriva all’interno
di un contesto che aveva caratterizzato l’Europa post-secondo conflitto mondiale: unire gli
3

una federazione di Stati europei proponendo un’integrazione graduale di al-


cune funzioni, da qui la previsione di un apparato amministrativo leggero, il
quale avrebbe dovuto avvalersi delle strutture amministrative degli Stati
membri. «Si trattava, cioè, di una amministrazione “di missione” dotata di
potestà di direzione e indirizzo, pur se capace di acquisire in via autonoma,
ancorché limitata, le conoscenze indispensabili per l’adozione delle decisio-
ni e di procedere, salvo che in alcune ipotesi particolari, alla esecuzione dei
propri provvedimenti» 5; diversamente, secondo Altiero Spinelli, l’idea fon-
damentale era quella di superare il concetto di Stato-nazione, mirando
all’unione dei popoli nell’ambito di uno Stato federale: delle due anime eu-
ropeistiche, come noto, ha prevalso quella di Monnet, con la creazione della
Comunità europea del carbone e dell’acciaio ovvero di un’Unione legittima-
ta per risultati e finalizzata ad un determinato obiettivo. Entrambe queste

Stati tra di loro in un contesto cooperativo affinché sia garantito il concetto di pace e di de-
mocrazia. Veniva istituito un Coordinamento internazionale tra i movimenti europeisti e il
congresso fu incentrato sulle diverse idee di unità europea: federalisti, che volevano un’Eu-
ropa sulla base del federalismo americano con la creazione di organizzazioni di poteri sovra-
nazionali; unionisti, che volevano sviluppare intese intergovernative ed erano cauti verso
l’ipotizzare limitazioni alle sovranità nazionali. In ogni caso, tra le due tesi all’inizio ha pre-
valso quella di Monnet, attraverso la creazione della Comunità europea del carbone e
dell’acciaio, di seguito, con la Comunità europea dell’energia atomica e con la Comunità
europea economica. Pertanto, diversamente da quanto si ritiene, l’ordinamento europeo na-
sce non solo con finalità economiche ma anche con l’obiettivo politico quanto meno di man-
tenere la pace e attivarsi per la promozione del benessere. Nella celebre dichiarazione di
Schuman, del 9 maggio 1950, emergeva la necessità di mettere in comune le produzioni di
base dei vari Paesi e istituire una nuova Alta Autorità, le cui decisioni vincolavano i Paesi
membri. L’Alta Autorità era incaricata del funzionamento dell’intero sistema ed era compo-
sta di personalità indipendenti, scelti in comune accordo dai Governi. La progressiva evolu-
zione del progetto d’integrazione che si fondava su basi economiche mirava, tuttavia, ad
un’unione politica. Scriveva Schuman nel 1963: «I nostri Stati europei sono una realtà sto-
rica; sarebbe psicologicamente impossibile farli scomparire. In realtà la loro diversità è un
pregio […] la politica europea non è assolutamente in contraddizione con l’ideale patriotti-
co che nutre ognuno di noi». Il vero è che, pur non potendo in questa sede approfondire gli
apporti che ciascuno dei Padri fondatori dell’Europa proponevano, una caratteristica che li
accomunava nelle loro diversità, compreso Adenauer e De Gasperi, è rappresentata dalla
consapevolezza che, con la seconda guerra mondiale, si è pervenuti al crollo dei vecchi si-
stemi statali i quali non avevano saputo fungere da barriera soprattutto alla seconda guerra
mondiale. Per una ricostruzione di questa fase, si rinvia a J.H.H. WEILER, La Costituzione
europea, Il Mulino, 2003, p. 93.
5
G. DELLA CANANEA, I principi dell’amministrazione europea, Giappichelli, 2017, p.
15. Si veda altresì M.S. GIANNINI, Brevi considerazioni sul trattato della Comunità europea
di difesa ora in Scritti 1949-1954, Giuffrè, 2004; S. MICOSSI-G.L. TOSATO (a cura di)
L’Unione europea nel XXI secolo. “Nel dubbio per l’Europa”, Il Mulino, 2007. In senso
conforme, M.P. CHITI, Diritto amministrativo europeo, III ed., Giuffrè, 2008, p. 520.
4

prospettive, apparentemente in antitesi, possono oggi desumersi nella rico-


struzione degli elementi che costituiscono o dovrebbero contribuire a costi-
tuire, un diritto amministrativo europeo. Ciò in quanto, il diritto amministra-
tivo, non è solo frutto di un presupposto economico bensì è frutto di un’e-
voluzione di natura politica dell’Unione 6. Il disegno politico che si è svilup-
pato attraverso le crisi che hanno investito l’Unione porta, oggi, ad afferma-
re che l’Europa è un’istituzione a formazione progressiva sia da un punto di
vista politico sia da un punto di vista legislativo e amministrativo. Agli albo-
ri del percorso europeo venne a realizzarsi un’autorità sovranazionale in
grado di assumere decisioni da far attuare ai Paesi aderenti alla Comunità; è
proprio questo rapporto che presuppone che la nuova autorità abbia un appa-
rato amministrativo leggero poiché la fase esecutiva delle decisioni dell’au-
torità centrale è rinviata, nella sua applicazione, agli apparati amministrativi
dei singoli Stati membri 7. Tutto ciò trova origine nella teoria in base alla
quale «era difficile accettare l’idea [dell’] esistenza di un’amministrazione e
di un diritto non statale» 8; ciò in quanto, a differenza degli ordinamenti sta-
tali, nell’Unione europea si doveva prendere atto dell’assenza di potestà su-

6
G. DELLA CANANEA, L’amministrazione europea e il suo diritto, in G. DELLA CANA-
NEA-C. FRANCHINI (a cura di), I principi dell’amministrazione europea, II ed., Giappichelli,
2013, cap. 1, p. 8.
7
Come osservato da S. CASSESE, La signoria comunitaria sul diritto amministrativo, in
Riv. it. dir. comunit., 2002, pp. 292 ss. Rileva l’A. che, in un primo momento l’ordinamento
europeo, mentre ha sviluppava il potere legislativo e il potere giudiziario, tralasciava quello
esecutivo poiché l’esecuzione era propria degli apparati amministrativi statali. Ciò è dovuto
al fatto che il potere amministrativo ha rappresentato e rappresentava una delle prerogative
più sensibili degli Stati. Quando questa prima esperienza rilevò la sua insufficienza, non te-
nendo conto delle necessarie continuità tra legislazione e amministrazione, furono istituiti
organi e procedimenti chiamati a controllare l’esecuzione nazionale del diritto comunitario;
si trattava per lo più di organi misti composti da rappresentanti nazionali e da funzionari co-
munitari. In epoca più recente l’Unione non si limita a vigilare sull’esecuzione nazionale del
diritto europeo, ma assume direttamente compiti esecutivi per l’esecuzione diretta e l’eser-
cizio congiunto comunitario-nazionale dei compiti pubblici, secondo il modello dell’utiliz-
zazione degli uffici d’altro ente per lo sviluppo di funzioni amministrative proprie. Ecco per-
ché è in questa fase che Cassese inserisce il fenomeno definito «arena pubblica» ovvero la
formazione di rapporti triangolari privati – amministrazioni nazionali – Commissione euro-
pea senza peraltro dover anche tener conto dell’influenza del diritto comunitario sul diritto
nazionale.
8
S. CASSESE, op. loc. ult. cit. Si deve proprio a Cassese l’utilizzo della nozione di «orga-
nizzazione composita» in rapporto all’Unione europea e gli studi del profilo amministrativo
dell’«ordinamento» europeo. Si veda S. CASSESE, La crisi dello Stato, Laterza, 2002, p. 71.
Si veda, altresì, S. CASSESE, Territori e potere. Un nuovo ruolo per gli Stati?, Il Mulino,
2016, p. 41.
5

preme che, convenzionalmente, sono incluse nel concetto di «sovranità».


L’Unione è retta dal principio di attribuzione nel senso che esercita la pro-
pria attività in base e nei limiti delle competenze che vengono a essa attri-
buite dagli Stati; all’opposto, sono le istituzioni politiche nazionali che han-
no una competenza generale propria tipica del modello monistico degli Stati
in senso tradizionale 9. Tale ragionamento spiega perché per molto tempo si
è ritenuto che il diritto amministrativo stentasse o addirittura non potesse in-
dividuarsi al di fuori dello Stato sovrano, secondo le tradizionali dottrine in
materia. Mentre le amministrazioni statali dipendono da un unico centro di
potere, nell’amministrazione europea non è individuabile un unico apparato
«legittimato», poiché tale funzione può essere esercitata dalla Commissione,
dal Consiglio o dagli Stati membri 10.
Tuttavia, non si può sottovalutare il fatto che le limitazioni riguardanti le
competenze dell’Unione europea, quale diretta derivazione del principio di
attribuzione, si siano via via attenuate, sia mediante l’interpretazione esten-
siva per merito della Corte di giustizia, sia ricorrendo sempre più spesso al
principio di sussidiarietà che ha certamente ampliato la presenza in taluni
settori dell’Unione. Con l’ampliarsi delle competenze dell’Unione e con
l’integrazione di buona parte della legislazione tra gli Stati membri, la fase
esecutiva, in altre parole l’amministrazione europea per quanto contestata,
limitata, negata, è venuta invece a emergere a tal punto che, per alcune ma-
terie, la competenza sia legislativa sia amministrativa, è direttamente ricono-
sciuta in capo all’Europa sottraendola alla disciplina statale. Pare superfluo

9
Tutto nasce dal declino della nozione di Stato e dalle difficili relazioni tra autorità e so-
cietà civile. Richiama S. CASSESE, nello scritto Territori e potere. Un nuovo ruolo per gli
Stati?, cit., pp. 31 ss., che, l’indebolimento della nozione di Stato trovò prima in Léon Du-
guit, l’affermazione del declino dello Stato. In Italia, S. Romano, arrivò a proporre di sosti-
tuire al concetto di Stato quello di ordinamento giuridico. Il terzo fu C. Schmitt, che sostituì
il concetto di democrazia con quello di «policrazia». Per Léon Duguit si rinvia a Le trasfor-
mazioni dello Stato, in A. BARBERA-C. FARALLI-M. PANARARI (a cura di), Antologia di scrit-
ti, Giappichelli, 2004, pp. 147 ss. Per S. ROMANO, si rinvia allo scritto L’ordinamento giuri-
dico (1917-18), Sansoni, 1946, pp. 25 ss; si veda altresì C. SCHMITT, Dialogo sul potere,
Adelphi, 2012, pp. 52 ss. Tali Autori vengono ripresi nello scritto, G. MARCHIANÒ, Il diritto
oltre lo Stato: effetti positivi e negativi della globalizzazione, in Collana del Dipartimento di
Sociologia e Diritto dell’Economia, Università di Bologna, Cedam, 2017.
10
Si veda ancora, S. CASSESE, Territori e potere, cit., p. 41, dove l’A. offre un quadro
puntuale mediante l’esame dei tratti che distinguono l’organizzazione amministrativa euro-
pea rispetto a quella tradizionale statale. Tuttavia, si osservi come l’A. rilevi che l’Europa
«vive di crisi» che non riguarda un potere pubblico «nella sua fase di maturità ormai stabi-
lizzato ma un potere pubblico in fase di crescita … [trattasi] di un’istituzione a formazione
progressiva»; tale processo evolutivo ha consegnato una legittimazione «politica» all’Unio-
ne attraverso l’assorbimento dei valori dello stato di diritto.
6

dover sottolineare che, ad avviso di chi scrive, ciò derivi dall’inscindibile


connessione tra funzione legislativa e funzione esecutiva: il vero è che, da
un’«amministrazione di missione» si è pervenuti a un’amministrazione che
ancora non può definirsi in modo compiuto (basti pensare alle varie espres-
sioni adottate dagli studiosi della materia, quale «amministrazione multi-
livello» 11 o a «geometria variabile») ma che, tuttavia, esercita i suoi effetti
sui Paesi membri per il raggiungimento di risultati condivisi e dalle istitu-
zioni comunitarie e dagli Stati membri. Così, per ciò che attiene la fase ese-
cutiva, per molto tempo sono state le autorità amministrative nazionali a do-
ver dare esecuzione alle scelte politiche normative europee, al fine di perse-
guire in modo effettivo e uniforme gli obiettivi dell’Unione derivando da ciò
la reciproca integrazione tra gli Stati membri e l’apparato comunitario. Pe-
raltro, tutto ciò ha fatto sì (tanto da confermare la legittimazione acquisita
dall’amministrazione europea) che s’instaurino rapporti non soltanto con le
amministrazioni nazionali degli Stati membri ma anche direttamente con i
cittadini: a livello sovranazionale si sviluppano, a differenza di quanto acca-
de nel diritto amministrativo statale dove le relazioni sono prevalentemente
bilaterali (amministrazione-privato cittadino) relazioni trilaterali: Unione-
Stati membri-cittadini europei.
Anche a livello procedimentale la trasformazione dell’amministrazione
comunitaria è di tutta evidenza; si sono, infatti, diffuse non solo in numero
maggiore forme di amministrazione «indiretta» o quella che è definita forma
di amministrazione «diretta» ma altresì forme di «cogestione» e di «compar-
tecipazione» che non si esauriscono nell’amministrazione «diretta» che tut-
tavia hanno determinato un forte aumento delle procedure amministrative,
articolate tra la sfera sovranazionale e la sfera nazionale. È vero, tuttavia,
che l’evoluzione dell’apparato amministrativo europeo è sovente ondivaga,

11
Sul concetto di amministrazione multi livello, la dottrina si è posta in modo critico ri-
spetto a questa definizione in quanto, con tale termine, si potrebbe presupporre una connota-
zione gerarchica dei vari livelli di amministrazione. Valga per tutti, G. DELLA CANANEA,
L’amministrazione europea e il suo diritto, cit., pp. 27 ss.: «L’attitudine della formula dot-
trinale dell’organizzazione multi-livello a fornire una connotazione morfologica dell’Unione
europea solleva dubbi. Nel tentativo di cogliere un tratto saliente dell’Unione europea, essa
impiega il termine “livello”, che, però, è criticabile. Nella scienza politica si è giustamente
osservato che il termine “livello” ha una “decisa connotazione gerarchica”. Nell’Unione,
piuttosto, vi è una pluralità di arene, più o meno ampie. In esse, inoltre, si realizza una va-
rietà di forme di interazione tra i vari pubblici poteri: integrazione, cooperazione, competi-
zione». In verità, talvolta il termine è utilizzato solo per indicare il livello statale e il livello
comunitario, senza tuttavia connotazioni gerarchiche bensì di funzione amministrativa co-
mune (ex art. 197 TFUE) tra i vari soggetti istituzionalmente chiamati ad attuare la fase ese-
cutiva ed è questo il profilo che viene nel testo ripreso.
7

connessa peraltro all’armonizzazione dei singoli settori d’intervento da parte


dell’Unione, anche in considerazione dell’interpretazione che la Corte di
giustizia fornisce agli articoli del TFUE, ma sicuramente, oggi, non se ne
può negare l’esistenza 12.
La definizione di pubblica amministrazione nell’ordinamento europeo re-
sta tuttavia incerta e soprattutto, com’è stato osservato, a «geometria variabi-
le» 13.
In questo quadro l’obiettivo del presente lavoro, dopo un rapido esame
degli organismi comuni che sono rinvenibili nella fase esecutiva (comitati,
agenzie, autorità amministrative indipendenti), ha la pretesa di verificare i
profili amministrativi che emergono con particolare riferimento per alcune
libertà economiche sulle quali si fonda l’Unione.
Non è possibile ovviamente far riferimento a tutti gli aspetti che le libertà
di circolazione di persone, capitali e servizi offrono, pertanto solo alcuni di
essi sono stati presi in esame in base a talune specificità del profilo ammini-
strativo; la mancata trattazione a tutto tondo, dipende da una scelta sostan-
ziale che si auspica sia compresa dal lettore.

12
Usualmente il termine armonizzazione è usato in senso non tecnico, infatti, come ri-
corda L. TORCHIA, Il Governo delle differenze, Il Mulino, 2006, p. 55, nota 4, nella formula-
zione originaria del Trattato di Roma non ricorreva il termine armonizzazione, rinvenibile
soltanto in relazione alle imposte indirette (art. 99) mentre nell’art. 100 si utilizzava il termi-
ne riavvicinamento fra legislazione nazionale al fine di eliminare le distorsioni della concor-
renza. Il termine armonizzazione è stato invece introdotto nell’Atto Unico ed è ora usato fre-
quentemente anche in senso non tecnico. La stessa A. peraltro richiama la complementarietà
fra armonizzazione e mutuo riconoscimento, p. 67, nota 29. Detta tesi viene fatta propria nel
presente lavoro.
13
S. CASSESE, Diritto amministrativo comunitario e diritti amministrativi nazionali, in
M.P. CHITI-G. GRECO (a cura di), Trattato di diritto amministrativo europeo, Giuffrè, 2007,
p. 9; M.P. CHITI, La costruzione del sistema amministrativo europeo, in M.P. CHITI (a cura
di), Diritto amministrativo europeo, Giuffrè, 2013, pp. 50 ss. Rileva l’A. che le amministra-
zioni nazionali non si presentano come uffici decentrati della Comunità bensì come apparati
che trovano il proprio ancoraggio negli ordinamenti nazionali e che operano solo indiretta-
mente in funzione della Comunità stessa. «Quest’ultima, in effetti, si presenta al momento
della sua istituzione, come un organismo ibrido, che combina tratti tipici di un’organiz-
zazione internazionale (ad esempio l’istituzione di un Consiglio a composizione intergover-
nativa) con istituti che potrebbero preludere a un sistema federale o confederale (ad esem-
pio l’Assemblea parlamentare)».
8
9

CAPITOLO I
IL PROCESSO DI AMMINISTRATIVIZZAZIONE
DEL DIRITTO EUROPEO

SOMMARIO: 1. La regolamentazione del mercato unico: tra discipline normative e disposizio-


ni amministrative, comunitarie e nazionali. – 1.1. La regolamentazione amministrativa
diretta e la regolamentazione indiretta. – 1.1.1. L’emersione della funzione «quasi legi-
slativa»: i comitati. – 1.1.2. Le reti e le agenzie. – 1.2. L’esercizio congiunto delle fun-
zioni amministrative: la «coamministrazione» o «regolazione parallela».

1. LA REGOLAMENTAZIONE DEL MERCATO UNICO: TRA DISCIPLINE NORMA-


TIVE E DISPOSIZIONI AMMINISTRATIVE, COMUNITARIE E NAZIONALI

Nell’analisi della regolamentazione nei mercati dell’Unione relative alle


libertà economiche – libera circolazione di persone, di merci, di capitali e di
servizi – viene sempre più a delinearsi l’emergere di strutture amministrative
connesse ai principi d’integrazione normativa, che trovano fondamento nella
«leale cooperazione» e nel «divieto di discriminazione» tra gli Stati mem-
bri 1. Tutto ciò ha favorito la «europeizzazione» dei modelli amministrativi
nazionali agevolando la collaborazione tra autorità amministrative interne e
sovranazionali, intendendo per essa, la conformazione nell’ordinamento na-
zionale al sistema dei valori proposti dagli organi politici europei e finisce
pertanto ad avere un impatto e un effetto condizionante, ulteriore rispetto a

1
Sostiene la tesi che il concetto di «integrazione» sia un concetto giuridico, P.M. HUBER,
Recht der Europaischen Integration, Vahlen, 2002, p. 1. Si veda altresì L. TORCHIA, Il Go-
verno delle differenze, Il Mulino, 2006, p. 55, nota 4, nella quale l’A. sottolinea come il ter-
mine di armonizzazione sia un termine usato in modo atecnico in quanto il Trattato di Roma,
nell’art. 100, oggi art. 94, prevedeva il riavvicinamento delle legislazioni nazionali al fine di
eliminare le distorsioni della concorrenza; vedi, a tal proposito, R. BARATTA, L’equivalenza
delle normative nazionali ai sensi dell’art. 100 B del Trattato Ce, in Riv. dir. eur., 1993, pp.
727 ss., il quale rileva che il termine armonizzazione è stato introdotto nell’Atto Unico, ed è
oggi usato frequentemente.
10

quello della mera applicazione della normativa europea 2.


Lo stesso obiettivo di liberalizzare il maggior numero possibile di mercati
ha reso evidente, ove ce ne fosse bisogno, la natura regolatoria del diritto eu-
ropeo cosicché ne è derivato un complesso di prescrizioni sia di natura legi-
slativa ma soprattutto di carattere amministrativo che si pongono in un rap-
porto dialettico tra regola ed eccezione 3. Gli atti attraverso i quali il diritto
europeo definisce il contenuto delle regole e delle relative eccezioni, riflet-
tono il processo decisionale comunitario; in tal modo si evidenzia come
l’«europeizzazione» impone l’armonizzare dei regimi applicabili agli Stati
membri nei settori economici in virtù degli obiettivi d’integrazione e concor-
renza; il ché porta di conseguenza ad ammettere un numero sempre più limi-
tato di deroghe al regime comunitario 4.

2
S. TORRICELLI, L’europeizzazione del diritto amministrativo italiano, in L. DE LUCIA-
B. MARCHETTI (a cura di), L’amministrazione europea e le sue regole, Il Mulino, 2015, pp.
247 ss. Sul punto la dottrina si è variamente espressa, basti richiamare, non con volontà
esaustive, S. CASSESE La costituzione europea, in Quad. costituzionali, 1991, nonché G.
DELLA CANANEA, L’organizzazione amministrativa della Comunità europea, in Riv. dir.
pubbl. comunit., 1993; F. MERUSI, Le leggi del mercato, Il Mulino, 2002, nonché E. CHITI-
C. FRANCHINI, L’integrazione amministrativa europea, Il Mulino, 2003; S. CASSESE, Lo spa-
zio giuridico globale, Laterza, 2003; G. ZAGREBELSKY Diritti e Costituzione dell’Unione
Europea, Laterza, 2003; M.P. CHITI-A. NATALINI, Lo spazio amministrativo europeo,
Astrid-Il Mulino, 2012; S. CASSESE, Territori e potere. Un nuovo ruolo per gli Stati?, Il Mu-
lino, 2016.
3
G. BELLANTUONO, La regolazione dei mercati europei: verso una nuova distinzione fra
diritto pubblico e diritto privato, in Atti del IV Congresso nazionale SIRD, Trento, 24-26
settembre 2015, in G.A. BENACCHIO-M. GRAZIADEI (a cura di), Il declino della distinzione tra
diritto pubblico e diritto privato, Editoriale Scientifica, 2016. L’A. nella sua relazione, osserva
come la regolamentazione dei mercati europei, chiami in causa la distinzione pubblico/privato
sotto due profili: obiettivi perseguiti e strumenti utilizzati. La regolamentazione europea lascia, in
casi limitati, spazio alla regolamentazione nazionale che rappresenta sostanzialmente l’eccezione
alla regola generale. Meritano di essere sottolineate la diversità tra gli obiettivi e gli strumenti
della regolamentazione a livello europeo rispetto a quella nazionale: il diritto europeo adotta la
«tecnica regola-eccezione» lì dove i diritti nazionali fanno riferimento al rapporto «diritto
pubblico-diritto privato». È questo uno scenario nel quale, pur non addentrandosi nel presente
lavoro, non può non rappresentare un punto particolarmente interessante e di assoluto rilievo.
Sulle trasformazioni della regolamentazione, si veda altresì, S. AMOROSINO, Trasformazioni dei
mercati, nuovi modelli regolatori e mission del diritto dell’economia, in Il Diritto dell’economia
Vol. 29, n. 90, (2/2006), pp. 339 ss. il quale, dopo aver messo in evidenza i tratti che costituiscono
i minimi comuni denominatori delle discipline delle attività economiche, rileva come si debba
tener conto delle variabili, ovvero delle diverse configurazioni che caratterizzano i vari mercati
nonché della pluralità delle fonti soggettive della regolamentazione e dell’eterogeneità e struttura
degli organi pubblici.
4
In verità l’affermarsi di uno Stato regolatore e l’incremento dell’attività regolativa, de-
rivano dal declino dello «Stato gestore». «A quest’ultimo veniva attribuita la missione di
11

Tutto ciò ha favorito l’abbandono dei modelli, affermatisi nel secondo


dopoguerra, definiti genericamente di «economia mista» caratterizzati dalla
presenza invasiva di enti pubblici a favore di modelli neoliberali di econo-
mia sociale «nei quali la struttura, costituita dai vari mercati, è temperata
da correttivi volti da un lato a tutelare l’efficiente e regolare funzionamento
dei mercati aperti e concorrenziali e, dall’altro a ridurre gli squilibri eco-
nomici, territoriali e sociali che ostacolano la loro coesione» 5. Anche in
funzione di una sempre maggiore coesione – finalità che rimane all’ombra
rispetto a esigenze più urgenti quale la ricerca di una maggiore efficienza
nell’applicazione delle regole normative – si è fatta strada una regolamenta-
zione con aspetti di un sempre più accentuato decentramento tra Unione e
Stati membri, in quanto impatta, nella fase esecutiva, le modalità dell’agire
degli apparati amministrativi dei singoli Stati.
Preliminarmente, occorre riflettere su quale contenuto si voglia dare
all’abusato termine «regolatori comunitari» rammentando che (in linea di
massima esemplificazione) con tale espressione si vuole far riferimento a
quell’insieme di organi e organismi, sia di natura pubblicistica sia di natura

combinare e conseguire simultaneamente gli obiettivi della crescita economica (stimolata


tramite politiche di sostegno della domanda), della piena occupazione, del potenziamento
dei diritti di cittadinanza (tramite l’offerta di servizi previdenziali e sociali quanto più pos-
sibili rispondenti ai bisogni della popolazione) di una maggiore uguaglianza di reddito e di
ricchezza, e infine della correzione, programmazione, regolazione appunto di un vasto in-
sieme di politiche socio-economiche che diversamente sarebbero restate abbandonate alla
logica del mercato … l’attività regolatrice dello Stato, inteso [oggi] come un terzo super
partes munito di poteri normativi e autoritativi, dal quale ci si attende un impiego di tali po-
teri efficace e pubblicamente giustificabile, in quanto sorretto da buone ragioni … può par-
larsi di regolamentazione quando si ha una restrizione intenzionale nell’ambito di scelta
nell’attività di un soggetto operato da un’entità non direttamente parte in causa o coinvolta
in quell’attività … la regolamentazione è la guida con mezzi amministrativi pubblici (public
administrative policing), di un’attività privata secondo una regola statuita nell’interesse
pubblico … Tra le definizioni correnti, una delle più convincenti è stata formulata da un so-
ciologo del diritto, Philip Selznick [1985] secondo il quale per regulation deve intendersi
“un controllo prolungato e focalizzato, esercitato da una agency pubblica, su un’attività cui
una comunità attribuisce una rilevanza sociale”». Così, G. MAJONE Il declino dello Stato
gestore, in A. LA SPINA-G. MAJONE (a cura di), Lo Stato regolatore, Il Mulino, 2010, cap. I,
par. 1, pp. 10 ss.
5
G. MAJONE, op. ult. cit., p. 23. A tal proposito, M. MARESCA (nell’articolo Diritto
dell’Unione europea: attualità e falsi miti della regolazione dei trasporti: alcune proposte
concrete per cambiare l’organizzazione delle infrastrutture e dei trasporti, dal Rapporto
dell’Advisory Board, 3/2015, Autorità di regolazione dei trasporti, p. 5, Istituzioni e regola-
mentazione dei trasporti: temi di riflessione), il quale analizza le deviazioni del neoliberismo
rilevando come dal neoliberismo si è avuta un’evoluzione verso un profilo sociale superando
il modello originario.
12

privatistica, preposti contestualmente e/o alternativamente all’attuazione del-


le regole e al controllo della conformità ai principi dei trattati e delle norma-
tive derivate da parte dei soggetti che operano nei diversi mercati 6. «A tali
organismi sono attribuiti, da fonti pubbliche o da accordi privati, poteri
pubblici o poteri privati di intervento, più o meno ampi ed articolati» 7.
La fase esecutiva degli atti dell’Unione ha creato la necessità di dover
porre al centro degli studi giuridici il «diritto amministrativo europeo»; ciò
in quanto si assiste ad un’accentuazione del potere esercitato dalle strutture
dell’amministrazione sovranazionale nonché all’emergere di moduli ammi-
nistrativi comuni all’Unione europea e agli Stati membri, aventi funzioni
complementari fra loro. Se è vero che l’amministrazione europea è un’am-
ministrazione senza Stato, è tuttavia vero che ciò non implica che sia un’am-
ministrazione senza diritto amministrativo, come si vedrà nel prosieguo del
lavoro 8.

6
Sullo Stato regolatore si rinvia a G. MAJONE op. ult. cit., p. 22, in cui si evidenzia come
l’attività regolatrice dello Stato «[…] inteso come terzo super partes munito di poteri norma-
tivi e autoritativi, dal quale ci si attende un impegno di tali poteri efficace pubblicamente
giustificabile, in quanto sorretto da buone ragioni, risponde ad esigenze che appartengono a
tutte le società politiche, o almeno a tutte le società politiche liberal-democratiche, e non
soltanto alle società occidentali odierne […]». Si rinvia altresì a R. PINI, Amministrazione
pubblica e comunità. Intese perdute, limiti varcati e possibile cooperazione per il bene co-
mune, Cedam, 2007.
7
S. AMOROSINO, op. cit., p. 341: «Passando dalle regolations al ramo della scienza giu-
ridica che tenta di dare di esse [variabili] una visione sistemica – il diritto dell’economia –
viene a rilevare ch’esso è connotato da “tre elementi peculiari”, anche se non esclusivi:
a) la “mutevolezza” vale a dire l’estrema “rapidità di evoluzione” diacronica delle atti-
vità economiche – a causa dei fattori tecnologici, economico sociali e geopolitici – e, “a ca-
scata” dei rispettivi mercati e delle relative regolazioni; con tali tumultuose evoluzioni de-
vono fare i conti i giuristi dell’economia;
b) la “tecnicità”, vale a dire la massiccia presenza – nelle regolazioni di settore – di
norme, criteri e parametri tecnici, o di derivazione tecnica e “filtrati” dal linguaggio giuri-
dico, relativi a ciascun ambito di attività economica (ad esempio: i disciplinari di produzio-
ne di vini) e di tipo di mercato (ad esempio i mercati regolamentati, internazionalizzati o
multilaterali di negoziazione di prodotti o strumenti finanziari); l’interazione tra categorie
giuridiche e parametri tecnici è un secondo elemento di complicazione per i giuristi;
c) il “sincretismo strutturale”, vale a dire la “compresenza costitutiva” di materiali giuri-
dici – nozioni, istituti, figure soggettive, forme organizzatorie, procedure, atti precettivi – di
diversa provenienza: privatistica, pubblicistica, o anche di teoria generale (ad esempio il con-
cetto di: “potere”, “funzione”, “autonomia”, “accordo”, ”figura soggettiva”, “fattispecie”)».
8
G. DELLA CANANEA, I principi dell’amministrazione europea, cit., p. 16. «… Non era
certo intenzione dei politici creare un’amministrazione ampia, sul modello di quelle proprie
dell’esperienza degli unici ordinamenti che esercitavano il controllo sul territorio, sulle per-
sone e sui beni che in esso si trovavano, cioè quelli statali: non di Monnet e neppure di De
13

Che il diritto amministrativo non sia estraneo all’Unione europea, trova


fondamento nel Trattato di Lisbona ove, all’art. 197 TFUE, si fa riferimento
al modello di amministrazione comune e, all’art. 298 TFUE, si fa riferimen-
to alle istituzioni, organi e organismi dell’Unione che si basano su un’am-
ministrazione europea aperta efficiente e indipendente.
Tutto ciò porta all’evidente conseguenza di dover prendere atto dell’af-
fermarsi di una sorta d’interdipendenza tra gli apparati burocratici del-
l’Unione e quelli degli Stati membri, con uno scambio reciproco di compiti
di promozione e di realizzazione delle decisioni assunte a livello di politica
comunitaria. Tuttavia, l’evoluzione del sistema sopra descritto non risulta
sempre lineare in quanto la diversità dei sistemi amministrativi di ciascuno
Stato, che tendenzialmente si frappongono a tali mutamenti, rende difficile
individuare uno scenario univoco ma ciò non può rappresentare un esimente
per sottovalutare le varie contaminazioni sulle modalità d’azione, sia verti-
cali sia orizzontali, che le amministrazioni statali hanno subito in virtù del
fenomeno sopra richiamato. Da qui l’osservazione, secondo una parte della
dottrina, che dovendosi tener conto delle differenze esistenti tra i vari poteri
amministrativi di ciascun Stato membro, si dovrà far riferimento per trovare
un «filo rosso» avente ad oggetto l’esecuzione della normativa europea al
c.d. «principio di equivalenza», volto ad individuare sistemi equivalenti tra
gli Stati membri nonché tra Stati e Unione europea che tuttavia garantiscano
una corretta e uniforme applicazione del diritto europeo 9.
Sul versante amministrativo l’obiettivo dell’integrazione, il quale inevi-
tabilmente trova talune frizioni con i preesistenti regimi nazionali, si assiste
da un lato all’emergere di politiche europee che stentano a riconoscere e va-
lorizzare le differenze dei singoli Stati, dall’altro proprio attraverso il «prin-
cipio di equivalenza», si tenta di bypassare ogni differenza nazionale che
verrebbe così a perdere la caratteristica di elemento ostativo alla progressiva
quanto inesorabile integrazione dei sistemi giuridici amministrativi.
La ripartizione dei compiti organizzativi si presenta articolata in una plu-
ralità di centri funzionalmente collegati tra loro, in parte diversi da Stato e
Stato e in parte comune per tutti gli Stati membri. L’Unione sviluppa la fase

Gaulle e degli altri governanti europei, preoccupati come erano di conservare le proprie
prerogative».
9
Sotto questo profilo, L. TORCHIA, op. cit., pp. 19 ss. «… In quello spazio è possibile la
coesistenza (e l’applicazione) di regole nazionali diverse, equivalenti ai fini della protezione
degli interessi tutelati dal diritto europeo. La determinazione delle condizioni di equivalenza
è, questa sì, centralizzata e desumibile direttamente dalle norme primarie o specificata con
la normativa secondaria, oltre che articolata quanto ai profili applicativi, dalla giurispru-
denza della Corte di giustizia».
14

amministrativa, ora con propri organi ora avvalendosi degli organi degli Sta-
ti membri, ora attraverso organi misti giacché appartenenti a entrambi i li-
velli istituzionali. «In tal modo, si raggiunge [o meglio si tende al raggiun-
gimento di] un equilibrio fra istanze distinte: quella della pluralizzazione
delle strutture organizzative in conseguenza della peculiarità delle funzioni
europee, quella della unitarietà di riferimento delle relative attività
all’Unione e quella della snellezza della struttura dell’amministrazione so-
vranazionale» 10.
I modelli, rectius: i rispettivi moduli di organizzazione europea, pur pre-
sentandosi assai diversi tra loro, trovano legittimazione nei principi fondanti
dell’ordinamento comunitario contenuti nei trattati che hanno dato luogo,
anche grazie alla giurisprudenza della Corte di giustizia, all’acquis comuni-
ter. Primo fra tutti, il principio di legalità, il quale, prescrivendo l’obbligo
della conformità dell’attività amministrativa a quella di regolamentazione
«normativa», secondo quanto previsto nella maggior parte degli Stati mem-
bri, assume tuttavia connotati molto ampi, in quanto è volto alla verifica che,
le istituzioni, gli organi e gli organismi che emanano atti singolari, ne abbia-
no la competenza e siano state osservate le regole procedurali. In questi ter-
mini, il principio di legalità viene a concatenarsi ad altri principi che posso-
no assumere contenuti più specifici: basti pensare al principio d’imparzialità
che, sancendo la separazione dei regolatori amministrativi rispetto alle scelte
politiche, si propone quale criterio organizzatorio volto a imporre, proprio in
tema di libertà economiche, la piena concorrenza e l’effettività del mercato
comune; a questo si aggiunga che l’azione dei regolatori deve ispirarsi al
principio del buon andamento che impone anche alle istituzioni comunitarie

10
C. FRANCHINI, L’organizzazione amministrativa dell’Unione europea, in M.P. CHITI (a
cura di), Diritto amministrativo europeo, Giuffrè, 2013, pp. 209 ss. Il principio di legalità,
com’è noto, rappresenta un principio fondamentale dell’Unione europea appartenente alla
tradizione costituzionale comune degli Stati membri, codificato dalla Carta dei Diritti Fon-
damentali dell’Unione, già elaborato dalla giurisprudenza della CGCE, ulteriormente previ-
sto dall’art. 7 della CEDU. Ma per ciò che attiene la differenza tra il principio di legalità tra-
dizionalmente inteso, il principio di legalità, nel quadro dei poteri amministrativi europei, si
veda S. BATTINI, L’Unione europea quale origine del potere pubblico, in M.P. CHITI (a cura
di), Diritto amministrativo europeo. Principi e istituti, II ed., Giuffrè, 2008, pp. 27 ss.: «Il
diritto europeo si ispira alle medesime istanze, riconducibili al concetto di Stato di diritto
(anche in rapporto alla legalità delle pen: C. Giust. Ce, sentenza Advocateen voor de We-
reld Vzw c. Leden van de Ministerraad del 2007, C-303/059,ma con alcune varianti. Anziché
far discendere dal principio di legalità un ulteriore vincolo all’azione amministrativa, nel
senso che i provvedimenti dai quali discendano effetti sfavorevoli nei confronti dei privati
debbano corrispondere ai tipi previsti dalle norme, il giudice comunitario non esclude la
validità degli atti hors nomenclauture, ossia innominati o misti».
15

i doveri di diligenza e di efficienza dell’azione 11. Il principio sottostante de-


sumibile dalla disciplina nazionale e sovranazionale in materia di regola-
mentazione, presuppone che, qualunque sia lo status del regolatore, que-
st’ultimo dovrà agire secondo il criterio d’imparzialità o neutralità; la fun-
zione di regolamentazione per quanto affidata ad autorità di tipo diverse, che
possono godere di un’indipendenza più o meno ampia, implica tuttavia che
queste siano sempre tenute all’attuazione degli indirizzi politici espressi dal-
le istituzioni a cui spetta l’indirizzo politico 12.
Nell’ambito dei principi comunitari sopra richiamati, merita il rinvio al
principio di proporzionalità, il quale assume carattere generale degli inter-
venti in quanto obbliga le istituzioni comunitarie al divieto di apporre obbli-
ghi e restrizioni ai soggetti facenti parte delle amministrazioni in misura su-
periore a quelle strettamente necessarie per la realizzazione degli interessi
pubblici loro affidati, sicché il principio di proporzionalità più volte richia-
mato dalla giurisprudenza comunitaria, diventa il parametro relativo alla ve-
rifica della coerenza delle misure nazionali con gli obiettivi perseguiti dal
legislatore europeo 13. A quest’ultimo si aggancia il principio di sussidiarietà
il quale, imponendo l’intervento del potere in grado di assicurare la realizza-
zione più efficace degli obiettivi comuni, viene a incidere sulla ripartizione
dei compiti tra i vari livelli territoriali di amministrazione e sulle modalità
del loro svolgimento. Dalla pluralità dei soggetti coinvolti nello svolgimento
di tali compiti, assume rilievo il principio della leale cooperazione, sancito
dall’art. 4 TUE, che rappresenta uno di quei punti caratterizzanti l’attività di
esecuzione, sì da diventare un tratto comune sia dei modelli organizzativi
statali che comunitari. Gli Stati membri devono adottare tutte le misure di

11
Corte giust., I grado, sez. III, 17 febbraio 1989, C-105/96.
12
E. CHITI, I principi dell’integrazione amministrativa, in E. CHITI-C. FRANCHINI (a cura
di), L’integrazione amministrativa europea, cit., pp. 112 ss. L’A. rileva che accanto ai prin-
cipi richiamati anche nel testo, vi sono poi quelli specifici dell’equilibrio istituzionale, di
competenza, di autonomia nonché di distribuzione delle funzioni e di divisione del lavoro tra
soggetti differenti.
13
Sul principio di proporzionalità si rinvia a F. TRIMARCHI BANFI, Canone di proporzio-
ne e test di proporzionalità nel diritto amministrativo, in Dir. proc. amm., n. 2/2016, pp. 361
ss. In particolare osserva l’A. che, analizzato nel suo percorso logico, il principio di propor-
zionalità è scandito in tre stadi che corrispondono rispettivamente alla verifica della misura
in esame: «1. Sia idonea allo scopo perseguito; 2. Sia necessaria nel senso di non sostituibi-
le con altra misura, non meno efficace allo scopo e meno incisiva per gli interessi contrap-
posti; 3. Sia proporzionata in senso stretto in quanto non impone all’interesse antagonista
un sacrificio eccessivo se confrontato con il vantaggio conseguito dall’altro. Nel terzo sta-
dio ha luogo la verifica del bilanciamento degli interessi che entrano in conflitto nel caso di
specie».
16

carattere generale e particolare che siano idonee ad assicurare l’esecuzione


delle politiche del diritto comunitario, agevolando le istituzioni dell’Unione
europea nello svolgimento dei compiti a essi attribuiti il ché implica l’ob-
bligo di astenersi dall’assumere qualsivoglia misura che ne comprometta la
realizzazione. Com’è noto, il principio in parola ha in verità una duplice va-
lenza: da un verso pone a carico degli Stati membri una serie di obblighi,
anche di natura amministrativa ai fini del perseguimento degli obiettivi co-
muni, dall’altro risulta essere il fondamento della pretesa degli Stati stessi
per adottare quelle decisioni che essi ritengono più idonee per assicurare la
corretta/legittima applicazione degli atti normativi (qualora non sia previsto
un differente modo di esecuzione) 14.
La disciplina «fondante» sopra richiamata è formata da «principi» di por-
tata generale che, in quanto tali, incidono sia pure talvolta solo in via indiret-
ta, anche su quello che potremmo definire l’«apparato esecutivo» o i «mo-
delli di esecuzione» (secondo un’espressione più corretta) idonei a condizio-
nare le scelte organizzative. In questo senso è evidente che il termine ammi-
nistrazione europea dev’essere inteso in un’accezione ampia poiché include
vari uffici e procedimenti «compositi» dei quali l’Unione si serve per conse-
guire le proprie finalità. Ciò deriva dal fatto che, diversamente dagli altri or-
dinamenti ultra statali, le norme dell’Unione europea hanno effetti diretti e
immediati negli ordinamenti statali anche senza l’interposizione dei rispetti-
vi organi politici; di conseguenza, possono essere invocate in giudizio anche
davanti alle Corti nazionali; vengono a mutare le condizioni dei privati nei
confronti delle autorità nazionali, in quanto il privato che voglia far valere
una pretesa fondata sul diritto comunitario può rivolgersi alla Corte di giu-
stizia chiamando in causa lo Stato inadempiente. Nei modelli organizzativi
rectius: nei procedimenti attuati sono rinvenibili altri «principi», ascrivibili
in modo più diretto all’organizzazione amministrativa poiché disciplinano
l’aspetto funzionale dei modelli di esecuzione dell’Unione; così, come ha
rilevato la prevalente giurisprudenza, l’equilibrio istituzionale che regola i
rapporti intercorrenti fra le varie istituzioni europee, si concretizza nell’im-
posizione a ciascuno di essi del rispetto delle attribuzioni proprie. Stretta-
mente collegati a quest’ultimo, risultano essere il «principio di competenza»
e il «principio di autonomia»: il primo, a ben vedere, individua il limite al-

14
C. FRANCHINI, L’organizzazione amministrativa dell’Unione europea, cit., p. 210.
«Come è evidente, si tratta di un insieme di concetti di portata universale. Tuttavia, essi in-
cidono, se pure in via indiretta, anche sull’organizzazione: infatti, tenuto conto che presup-
pongono un ragionevole adeguamento dei mezzi rispetto ai fini, risultano determinanti an-
che per la individuazione dei modelli di volta in volta più convenienti, affermandosi come
elementi di condizionamento delle scelte organizzative».
17

l’esercizio dei poteri spettanti alle diverse istituzioni, sia a livello interorga-
nico sia a livello intersoggettivo; il secondo invece consente il riconosci-
mento alle istituzioni europee della potestà di darsi indirizzi propri al fine di
adottare le scelte organizzative interne in funzione dei loro compiti istituzio-
nali.
Nel complesso detti principi incorporano «valori» che, per effetto del-
l’azione di adeguamento operata nel corso degli anni anche in sede giuri-
sprudenziale, devono considerarsi come propri dell’ordinamento europeo;
gli stessi danno luogo a un higher law che prevale rispetto ai diritti naziona-
li. Inoltre, tali valori determinano conseguenze rilevanti sul complesso degli
uffici che sono preposti alla cura degli interessi dell’Unione europea con
particolare riferimento ai settori che hanno sviluppato una maggiore attività
esecutiva tramite un decentramento che vede coinvolti gli apparati degli Sta-
ti membri.
Sicché, nella stessa regolamentazione, è possibile riconoscere globalmen-
te una forma di bilanciamento degli interessi in gioco: si tratta di un bilan-
ciamento non solo influenzato dal grado di armonizzazione delle normative
comunitarie che ne sono ovviamente il presupposto ma anche da considera-
zioni relative all’apparato pubblico di ciascuno Stato membro, in quanto le-
gate alla struttura «multi-livello» della regolamentazione europea, di cui si
parlerà in seguito.

1.1. LA REGOLAMENTAZIONE AMMINISTRATIVA DIRETTA E LA REGOLAMENTA-


ZIONE INDIRETTA

Con la nascita della CEE e per il raggiungimento degli obiettivi politici


ed economici che ci si erano prefissati, il problema prevalente risultava esse-
re l’omogenizzazione delle discipline normative in tutti gli Stati membri; co-
sì, in un primo momento si può dire che, mentre la Comunità poneva atten-
zione ai propri compiti legislativi, l’esecuzione di detti compiti era decentra-
ta ai singoli Stati i quali erano chiamati ad applicarli.
Occorre rammentare, come l’evoluzione dei rapporti amministrativi tra
ordinamento comunitario e ordinamento interno, nasca in conformità a un
modello per così dire «servente» poiché l’obiettivo principale dell’intero si-
stema era quello dell’omogenizzazione delle normative mentre la scelta poli-
tica era delle istituzioni europee; pertanto, l’esecuzione di tali atti è caratte-
rizzata da una posizione ancillare degli Stati membri rispetto all’obiettivo
primario relativo all’omogenizzazione delle norme, dando luogo così a una
«amministrazione indiretta». Le funzioni affidate ai singoli Stati, in verità,
contemplano due profili: viene attribuito a livello nazionale la cura dell’in-
18

teresse comunitario ma, detta cura, avviene secondo criteri e modalità tipi-
che di ciascuno Stato membro. «La funzione amministrativa, proprio perché
comune, non è più esclusivamente nazionale, anche quando affidata ai sin-
goli Stati membri, e tuttavia non è solamente comunitaria» 15. Nell’ottica del
profilo funzionale l’esecuzione diretta è individuabile in alcuni ambiti che,
per loro stessa natura o meglio per la natura degli interessi in gioco, richie-
devano una gestione condivisa, spettante quindi anche alla Commissione;
l’esecuzione indiretta prevede che l’esecuzione dell’atto venga attribuita alle
amministrazioni dei singoli Paesi. In tal modo, si attua una divisione dei
compiti tra le istituzioni sovranazionali e le amministrazioni degli Stati
membri, secondo un criterio collegiale e orizzontale. «Si tratta di un’inter-
pretazione funzionalmente complementare al principio di esecuzione indiret-
ta, poiché in entrambi i casi, l’obiettivo consiste nel tutelare l’indipendenza
di due ordini di autorità: delle amministrazioni nazionali dalle autorità co-
munitarie, nel primo caso; della Commissione dalle incursioni dei Governi e
delle istituzioni interne degli Stati membri, nel secondo» 16.
I modelli amministrativi che affiorano in questo quadro – nonché in que-
sto periodo – sono rinvenibili per lo più negli uffici collegiali istituiti presso
l’Unione, composti da rappresentanti nazionali e da autorità europee: si assi-
ste alla creazione di uffici istituiti o individuati, per effetto di un obbligo di-
sposto in sede nazionale e diretto allo Stato, al quale sono assegnati determi-
nati compiti stabiliti dalla normativa europea.
La nascita dell’amministrazione europea deve quindi inquadrarsi nella ti-
pologia del sistema istituzionale dell’Unione il cui elemento caratterizzante
era rappresentato dalla condivisione dei poteri tra Consiglio e Commissione:
di conseguenza anche la fase per così dire amministrativa del diritto euro-
peo, era condivisa tra Commissione e Consiglio 17. Nel Trattato CE l’esecu-

15
P. CHIRULLI, Amministrazione nazionale ed esecuzione del diritto europeo, in L. DE LU-
CIA-B. MARCHETTI (a cura di), L’amministrazione europea e le sue regole, Il Mulino, 2015.
16
E. CHITI, I principi dell’integrazione amministrativa, cit., p. 17. Si sottolinea che «…
l’esigenza di salvaguardare l’autonomia delle istituzioni delle amministrazioni nazionali è
implicita sia nelle scelte di Hallstein con riguardo alla Commissione, sia in quelle di Mon-
net sull’Alta autorità nel periodo 1952-1953, che dell’esperienza comunitaria rappresenta il
modello e la fonte di ispirazione».
17
Si veda Atto Unico europeo, 1986, nonché la disposizione contenuta negli artt. 145,
155, Trattato CEE. Il potere di decisione è concentrato nella mani del Consiglio (art. 145
del Trattato CEE) al quale spetta adottare le decisioni primarie della Comunità e decidere
se conferire alla Commissione «le competenze […] per l’attribuzione delle norme ad esso
attribuite». L. DE LUCIA-B. MARCHETTI, L’amministrazione europea e le sue regole, Il Mu-
lino, 2015, p. 141.
19

tivo europeo si presentava come entità «bicefala»: da una parte la Commis-


sione, istituzione di tipo sovranazionale portatrice dell’interesse europeo,
chiamata a esercitare la maggior parte delle competenze esecutive, dall’altra
il Consiglio, istituzione di tipo intergovernativo, in quanto rappresentativo
degli interessi degli Stati membri, collocato in una posizione di supremazia e
di controllo rispetto alla Commissione; ciò in coerenza alla struttura degli
organi politici dell’Unione, in particolare la Commissione, dovendo vigilare
sull’applicazione del trattato, veniva ad accentuare il suo carattere politico,
indipendente, collegiale e orizzontale 18. Nonostante che la Commissione
preveda nella sua struttura la presenza di un commissario per ogni Stato (i
quali godevano del potere di influenzare la scelta del commissario di propria
nazionalità) deve tuttavia garantire la propria indipendenza. Oltre all’indi-
pendenza delle decisioni, carattere precipuo di queste, è il principio di colle-
gialità che impregna i processi decisionali. La collegialità diventa rilevante
per i soggetti colpiti dagli effetti giuridici delle decisioni della Commissione
perché assicura che tali decisioni siano state effettivamente adottate dal Col-
legio e rispondano esattamente alla sua volontà 19.
La sua struttura interna burocratica fa sì che la Commissione, per agire in
modo competente, debba fare affidamento su conoscenze specialistiche
esterne, fermo restando la volontà di preservare la propria indipendenza.
Ben presto sono emersi i limiti propri dell’esercizio dell’attività della Com-
missione, soprattutto riguardo a taluni settori essenziali del progetto econo-
mico europeo, come la concorrenza e gli aiuti di Stato. A tal proposito si è

18
C. FRANCHINI, L'organizzazione amministrativa dell'Unione Europea, in E. CHITI-C.
FRANCHINI (a cura di), L’integrazione amministrativa europea, cit., cap. II, par. 2, p. 59: «…
in relazione alla continua diffusione di forme e di momenti di cooperazione tra autorità na-
zionali di settore e autorità comunitarie e, più specificamente, allo sviluppo di una comples-
sa attività di partecipazione delle singole amministrazioni sia alla fase di formazione che a
quella di applicazione delle decisioni comunitarie, si sono affermate nuove esigenze di col-
legamento con le istituzioni dell’Unione europea. Conseguentemente, si è resa necessaria la
creazione di uffici con competenza specifica, che intrattengono direttamente relazioni giuri-
diche con gli organi comunitari».
19
Corte giust., C-137/1992, Hüls/Commissione, P-DEP. Nella sentenza si legge: «A que-
sto fine, l’art. 12, primo comma, del regolamento interno in vigore all’epoca dei fatti preve-
deva che “gli atti adottati dalla Commissione, in riunione o mediante procedura scritta, so-
no autenticati, nella o nelle lingue in cui fanno fede, dalle firme del Presidente e del Segre-
tario esecutivo”. Lungi dall’essere, come sostiene la Commissione, una semplice formalità
destinata ad assicurarne la memoria, l’autenticazione degli atti, prevista dall’art. 12, primo
comma, mira a garantire la certezza del diritto fissando, nelle lingue che fanno fede, il testo
adottato dal Collegio. Essa permette così di controllare, in caso di contestazione, la perfetta
corrispondenza dei testi notificati o pubblicati con il testo adottato dal Collegio e, quindi, la
loro corrispondenza con la volontà dell’autore dell’atto».
20

rilevato come 20, l’esperienza concreta della Commissione faccia emergere


da un verso, che il Collegio dei commissari non riesca a svolgere l’intero
processo decisionale e, dall’altro, che gli organi interessati acquistino sem-
pre una maggiore autonomia rispetto al Collegio, finendo per diventare da
pura amministrazione servente a uffici aventi rilevanza fin anche esterna.
Basti pensare che, secondo la procedura introdotta nel 1963 con il Regola-
mento interno della Commissione 21, viene prevista la c.d. «procedura scrit-
ta» secondo la quale ogni commissario prepara una versione preliminare
dell’atto per sottoporlo agli altri commissari; procedura concepita evidente-
mente quale semplificazione del normale procedimento decisionale, al fine
di alleggerire il carico di lavoro della Commissione. Si tratta di un modus
operandi funzionalmente complementare al principio di «esecuzione indiret-
ta», poiché l’obiettivo implicito era quello di tutelare l’indipendenza dei due
ordini di autorità delle amministrazioni nazionali rispetto alle autorità comu-
nitarie e della Commissione rispetto ai singoli Stati membri. Il vero è che
l’avvio delle istituzioni di organizzazione amministrative, è posto al servizio
della Commissione sulla base della considerazione che la Commissione,
stante le funzioni a essa assegnate, necessita d’un apparato burocratico «leg-
gero», anche se rigidamente strutturato, preordinato al servizio del singolo
commissario. Tale apparato amministrativo era concepito inizialmente quale
pura amministrazione interna operante in via strumentale al collegio, al fine
di rendere più rapido il lavoro nei vari settori d’intervento della Commissio-
ne stessa. Va da sé che questa impostazione trovi fondamento in una visione
radicalmente centralistica della Commissione sicché da un lato, i lavori di
tale istituzione devono rispondere alla logica della collegialità, dall’altro, gli

20
E. CHITI, I principi dell’integrazione amministrativa, cit., p. 23: «Le linee essenziali
dell’originaria concessione dell’istituzione sovranazionale, dunque, divengono rapidamente
obsolete, sicché all’inizio degli anni sessanta il disegno di una Commissione strutturata co-
me un collegio ed operante come puro governo comunitario non corrisponde più alla realtà
dei fatti. Per un verso l’istituzione sovranazionale ha assunto in via definitiva i tratti di isti-
tuzione multifunzionale, chiamata a partecipare all’esercizio della funzione legislativa e
dell’attività di controllo, ma titolare anche di attribuzioni amministrative. Per l’altro, la sua
organizzazione interna si è complicata ed è divenuta più autonoma rispetto al collegio dei
commissari».
21
Regolamento Interno della Commissione n. 63/41, art. 11, in GUCE, 1963, n. 817, Ri-
correndo alla procedura scritta in un certo senso si pone un’eccezione rispetto al principio
della collegialità che usualmente è il tratto caratteristico del funzionamento della Commis-
sione. Secondo tale procedura, infatti, ogni commissario prepara una versione preliminare
dell’atto e la invia agli altri membri in forma scritta, indicando l’accordo dei vari uffici, i
motivi della proposta ed i suoi tratti essenziali. Entro una settimana i commissari possono
porre il veto, sospendono la procedura di approvazione, altrimenti l’atto si intende adottato.
21

apparati amministrativi devono operare solo in funzione servente dell’istitu-


zione. Si tratta evidentemente di un’impostazione che riflette la concezione
della Commissione come policy-maker dell’Unione «cui corrisponde una
minimizzazione delle sue attribuzioni amministrative ed una marcata accen-
tuazione del carattere collegiale ed orizzontale dell’istituzione [stessa]» 22.
L’attuazione delle decisioni del Consiglio compete in via esclusiva alle am-
ministrazioni nazionali perché pertinente alla sovranità dei singoli Stati e
questo principio è rimasto inamovibile per un lungo periodo di tempo.
In verità, fin al 1962, le decisioni comunitarie erano adottate dal Consi-
glio su proposta della Commissione; in quegli anni, soprattutto a causa del-
l’espansione della politica agricola, il Consiglio venne a trasferire alla
Commissione il potere di adottare decisioni di dettaglio. La base giuridica è
rinvenibile nel Trattato CEE, lì dove l’art. 155 prevede che la Commissione
possa esercitare le competenze che le sono conferite dal Consiglio «per
l’attuazione delle norme da esso stabilite». In particolare, la Commissione
esercita i poteri assegnati dal Consiglio, sottoponendo le misure che inten-
dono adottare (regolamenti o atti amministrativi) all’approvazione di comi-
tati specializzati, composti dai funzionari di amministrazioni nazionali che
sono poi, in ultima istanza, chiamati a darvi attuazione. Così, con l’andare
del tempo sono rinvenibili, in capo alla stessa Commissione, compiti di
«esecuzione diretta» in taluni settori di particolare rilievo nell’ambito della
politica comunitaria: si pensi alla concorrenza, alla previsione di amministra-
re il Fondo sociale europeo, al Fondo europeo di orientamento e garanzia e al
Fondo europeo di sviluppo regionale; interventi tuttavia, marginali rispetto a
un’effettiva esecuzione delle norme proprie delle politiche comunitarie.
La chiave di volta del sistema è che dai trattati emerge un criterio genera-
le di divisione dei compiti tra istituzioni sovrannazionali e amministrazione
degli Stati membri che si condensa nella più volte già richiamata «ammini-
strazione indiretta». Una siffatta impostazione presuppone che la fase esecu-
tiva inizi lì dove finisce la fase legislativa, sicché si hanno due sfere di azio-
ne cui rispondono, apparentemente soggetti diversi ma, sempre in esecuzio-
ne delle decisioni della Commissione.
Tuttavia, proprio dai trattati, è possibile rinvenire anche un’interrelazione
o meglio un’interdipendenza tra norme comunitarie ed esecuzione ammini-

22
E. CHITI, op. ult. cit., p. 21. «Al riguardo, va evidenziato come il funzionamento reale
dell’istituzione sovrannazionale abbia rivelato ben presto i limiti del modello descritto, so-
prattutto con riferimento a quei casi in cui la Commissione è dotata di compiti di esecuzione
diretta, i quali, se pur concepiti come eccezioni al principio dell’esecuzione decentrata, ri-
guardano taluni settori essenziali del progetto economico europeo, come la concorrenza e
gli aiuti di Stato».
22

strativa delle stesse; un impegno comune dei due ordini di autorità (ordina-
mento nazionale e ordinamento comunitario) volti entrambi al rispetto delle
norme elaborate in sede comunitaria. Detta interdipendenza implica tuttavia
l’accettazione che i membri dell’ordinamento comunitario non solo siano le-
gati a quest’ultimo dagli obblighi assunti, ma che si facciano carico degli
impegni comuni in merito anche alla fase esecutiva. In verità l’impostazione
sopra richiamata deve ascriversi al più ampio disegno originario dei rapporti
tra ordinamento interno e ordinamento comunitario che, inevitabilmente, ha
subito un’evoluzione significativa via via che l’azione comunitaria veniva
«di fatto» a incidere anche nella fase di esecuzione degli atti comunitari per
il raggiungimento degli interessi di quest’ultimo.
Si è assistito così al fenomeno dell’«amministrativizzazione» della Com-
missione che ha portato alla nascita dei «comitati» col compito di affiancare
le istituzioni nei processi decisionali, sempre più tecnici e complessi, dando
luogo a quel processo di «costituzionalizzazione della Comunità» che, a ca-
scata, ha inciso sull’integrazione amministrativa degli Stati.
Di questo secondo profilo non si può sottacere il ruolo determinante as-
sunto dalla giurisprudenza dell’Alta Corte di giustizia che, nelle sue varie
pronunce, non ha seguito l’ordinaria tecnica interpretativa del diritto inter-
nazionale in base al quale i trattati vincolano solo gli Stati contraenti, ha ri-
tenuto di dover optare, invece, per un’interpretazione di tipo finalistico, pro-
pria degli ordinamenti federali. In questa evoluzione vi è in verità l’evolu-
zione non solo dell’Unione ma altresì della stessa Commissione, la quale,
quant’anche dotata come si era detto in precedenza, di esecuzione diretta in
specifici settori, è venuta inevitabilmente ad ampliare la sua funzione esecu-
tiva con particolare riferimento a taluni settori essenziali del processo eco-
nomico europeo. Così, la Commissione è venuta ad acquisire poteri esecuti-
vi in gangli propri della politica europeistica.

1.1.1. L’emersione della funzione «quasi legislativa»: i comitati


Con l’entrata in vigore del Trattato di Lisbona la funzione amministrativa
si scinde tra «atti delegati» e «atti di esecuzione». Occorre prendere le mosse
dal dato normativo ovvero dal disposto contenuto nell’art. 290 TFUE, il qua-
le definisce gli atti delegati come «atti non legislativi di portata generale
che integrano o modificano determinati elementi non essenziali dell’atto le-
gislativo” 23. Questa disposizione viene a trasformare le misure «quasi legi-

23
Sul dibattito dei problemi sollevati dall’applicazione degli artt. 290 e 291 TFUE, si ve-
da M. SAVINO, La comitologia dopo Lisbona: alla ricerca dell’equilibrio perduto, in Giorn.
23

slative» in un’autonoma tipologia rappresentata dagli «atti delegati». Detti atti


si collocano a metà via tra gli atti legislativi e gli atti esecutivi qualificati come
«atti non legislativi di portata generale …», in evidente rapporto con quella
che vedremo, essere la procedura di regolamentazione con controllo 24.
Per avere un quadro cronologico dell’evoluzione della comitologia, che
ha accompagnato lo sviluppo della fase esecutiva fino al Trattato di Lisbona,
occorre partire dal 1962, quando tutte le decisioni comunitarie erano affidate
al Consiglio su proposta della Commissione mentre la fase attuativa delle
decisioni del Consiglio erano di competenza, in via esclusiva, delle ammini-
strazioni nazionali 25. In quell’anno, tuttavia, lo sviluppo della politica agri-
cola (cui si accennava nel paragrafo precedente) costringeva il Consiglio a
trasferire alla Commissione il potere di adottare decisioni di dettaglio, pre-
vedendosi tuttavia che, prima dell’adozione delle stesse, queste acquisissero
il parere positivo di un «comitato di gestione».

dir. amm., n. 10/2010, pp. 1041 ss. «Avversata dal Parlamento europeo, che la considera il
retaggio di un equilibrio istituzionale anacronisticamente sbilanciato in senso intergoverna-
tivo. Trattata con sospetto dal Consiglio per ragioni opposte, ovvero per la sua attitudine a
de-politicizzare le decisioni e a colludere con quegli stessi funzionari europei che dovrebbe
controllare. Tradita persino da questi ultimi, cioè dalla Commissione, pronta a sacrificare il
principale strumento di cooperazione con le amministrazioni nazionali pur di assecondare
la nouvelle vague della “democratizzazione” della governance europea, da cui la Commis-
sione stessa si sente minacciata. L’Unione sembra aver, così, individuato uno dei capri
espiatori della sua crisi di consensi nella comitologia, arcano sistema di collegi amministra-
tivi (266 nel 2009) attraverso il quale funzionari nazionali co-decidono con la Commissione
i contenuti delle circa duemila misure secondarie annualmente approvate dall’Unione».
Sempre di M. SAVINO, per un quadro più generale del problema si rinvia al volume I co-
mitati nell’Unione europea. La collegialità amministrativa negli ordinamenti compositi,
Giuffrè, 2005, pp. 105 ss.
24
Sull’individuazione concreta degli «elementi essenziali», secondo la giurisprudenza
consolidata, l’essenzialità è predicato di taluni elementi specifici riscontrabili nell’atto di ba-
se e in quello delegato. «L’apprezzabile tentativo, da parte della Corte, di rafforzare i pa-
rametri valutativi di una nozione cardinale nei rapporti tra le fonti, non può impedire di
considerare la “oggettività” di tali requisiti nel quadro di un rapporto dinamico tra legisla-
zione ed esecuzione, che, al di là delle mere clausole di stile, tenga conto non già delle for-
me di cui i rispettivi atti devono il nomen, ma dell’ampiezza e quantità degli interessi rap-
presentati nella sede in cui, volta per volta, ci si accinge a modificare la disciplina della ma-
teria». G. VOSA, “Nuovi elementi essenziali” ovvero nel posto della normativa delegata nel-
la sistematica delle fonti del diritto europeo, in Riv. it. dir. pubbl. comp., nn. 3-4/2014, p. 619.
25
Il sistema politico amministrativo dell’Unione europea è composto non soltanto dalle
istituzioni e dai loro apparati burocratici ma anche dagli apparati amministrativi e/o buro-
cratici degli Stati membri, che vengono sempre più ad essere chiamati a partecipare al
processo di elaborazione nella fase esecutiva-applicativa delle disposizioni normative euro-
pee di carattere derivato.
24

Pertanto, alcune misure secondarie venivano sottoposte al vaglio di un


comitato così da costituire «in termini funzionali» uno strumento volto a
strutturare e a istituzionalizzare i rapporti tra amministrazioni interne e
amministrazioni sovranazionali nella fase di preparazione della normativa
– generalmente secondaria – o di misure amministrative 26. Anche questo
profilo trova una base giuridica rinvenibile nel vecchio art. 155 del Tratta-
to CEE, ai sensi del quale la Commissione «esercita le competenze che le
sono conferite dal Consiglio per l’attuazione delle norme da esso stabili-
te». Nascono così i primi «comitati», con funzione di regolamentazione e/o
consultivi che si diffondono in modo rapido diventando dei veri e propri
centri di regolamentazione di settori specifici sino ad assumere competen-
ze generali e, quindi, un ruolo di estremo rilievo nel processo regolatorio
comunitario 27.
Il vero è che, com’è stato osservato la «de-nazionalizzazione di questa
quota di potere decisionale richiedeva una compensazione, prontamente in-
dividuata nella comitologia: la Commissione esercita i poteri ad essa asse-
gnati dal Consiglio sottoponendo i progetti di misura (regolamentari o am-
ministrativi) all’approvazione di comitati specializzati, composti da funzio-
nari di quelle stesse amministrazioni nazionali, che sono poi, in ultima
istanza, chiamati a darvi attuazione» 28. In ogni caso, nell’ipotesi di parere
negativo del comitato, la proposta della Commissione viene sottoposta allo

26
E. CHITI, op. ult. cit., p. 33.
27
M. SAVINO, La comitologia dopo Lisbona, cit., p. 1042. «La comitologia nasce nel
1962, in un contesto nel quale la distinzione tra legislazione ed esecuzione – come spesso
accade nelle organizzazioni internazionali – è assente. Nel disegno originario, “la Commis-
sione propone e il Consiglio dispone” mentre l’attuazione delle decisioni del Consiglio com-
pete in via esclusiva alle amministrazioni nazionali. L’attività esecutiva rientra nella sfera
di sovranità degli Stati membri».
28
M. SAVINO, op. ult. cit. pp. 1042 ss. Si veda altresì, C. FRANCHINI, L’organizzazione
amministrativa dell’Unione europea, cit., pp. 217 ss. «[…] vengono introdotti nei primi anni
sessanta dello scorso secolo per sopperire all’eccessivo carico di lavoro nel settore del-
l’agricoltura e, nonostante le resistenze iniziali della Commissione … superate peraltro dal-
la giurisprudenza […] si diffondono abbastanza rapidamente […] I principali sono tre in-
nanzi tutti i comitati definiti dalla comitologia, istituiti dal Consiglio nel contesto della dele-
ga della Commissione di una serie di poteri discrezionali, composti da funzionari e dalle
autorità coinvolte e soggetti a una parziale razionalizzazione con decisione del Consiglio n.
1987/373 del 13 luglio 1987 e con successiva decisione del Consiglio n. 1999/468 del 28
giugno 1999; poi, i comitati del Consiglio, incaricati della presentazione della preparazione
delle decisioni dei ministri; infine i comitati di esperti istituiti talora dal Consiglio, talaltra
dalla Commissione, composti normalmente da un funzionario di quest’ultima e da esperti
nazionali, che sono regolati da norme settoriali».
25

scrutinio diretto del Consiglio, detentore ultimo – per conto degli Stati – del
potere decisionale.
I «comitati» si configurano sostanzialmente quali uffici comunitari ai
quali è attribuita un’attività specialistica di natura tecnico-scientifica; com-
posti da membri designati dalle amministrazioni centrali-nazionali e dal-
l’amministrazione centrale comunitaria, diversamente da quanto si vedrà a
proposito delle agenzie. Si tratta in sostanza di organismi a composizione
mista con competenze specializzate ai quali è affidato il compito di favorire
la composizione degli interessi tra le amministrazioni nazionali e quelle so-
vranazionali, nella fase di preparazione della decisione dell’Unione. All’ori-
gine, la «comitologia» non si poneva in conflitto rispetto all’equilibrio isti-
tuzionale dell’Unione, tanto nel processo decisionale primario così come in
quello secondario. Il proliferare dei comitati ha fatto però sorgere numerose
incertezze in merito al rapporto con la Commissione e col Consiglio: si deve
tuttavia tener conto che, nel conferire le competenze di esecuzione agli stes-
si, la Commissione detiene sempre il potere di sottoporre l’esercizio della
funzione «a determinate modalità» e, parallelamente, lo stesso Consiglio
conserva sempre la facoltà di «… riservarsi in casi specifici, di esercitare
direttamente competenze di esecuzione». Elementi, questi, che mirano a
mantenere inalterato il sistema istituzionale; non a caso tale osservazione ha
rappresentato la motivazione che in una delle prime sentenze della Corte di
giustizia funge da base per legittimare gli interventi dei comitati 29.
Gli organismi in questione sono caratterizzati da una «doppia ausiliari-
tà» 30, sia nei confronti della Commissione sia nei confronti degli Stati mem-
bri, ciò in quanto i comitati coadiuvano la Commissione ma, nello stesso
tempo, essendo formati da rappresentanti degli Stati membri, hanno una
funzione di orientamento anche verso questi ultimi 31.

29
Einfuhr – und Vorratsstelle fur Getreide und Futtermittel c. Köster, Berodt & Co.,
C-25/70, in Raccolta, 1970, p. 1161. La Corte, chiarita la distinzione tra norme primarie e
secondarie in ambito comunitario, stabilisce che il procedimento del comitato di gestione
rientra tra le condizioni alle quali, secondo l’art. 155 (ora art. 211), il Consiglio può subordi-
nare l’esercizio, da parte della Commissione, dei poteri ad essa attribuiti. In particolare,
«senza alterare la struttura della Comunità né i rapporti fra le istituzioni, il comitato di ge-
stione consente [...] al Consiglio di attribuire alla Commissione dei poteri di attuazione no-
tevolmente estesi, pur riservandosi, se del caso, di avocare a sé la decisione».
30
C. FRANCHINI, L’organizzazione amministrativa dell’Unione europea, cit., pp. 218 ss.
31
Occorre rammentare come un primo importante cambiamento risalga al 2006 allorché
venne inserita nella disciplina della comitologia una procedura speciale che differenziava, in
modo netto, gli atti quasi legislativi dagli atti esecutivi. Su pressione del Parlamento europeo
l’approvazione degli atti secondari, aventi requisiti di portata generale e l’incidenza su atti
26

In via di massima approssimazione, sono individuabili tre tradizionali


procedure di comitologia: consultiva, di gestione, di regolamentazione. Oc-
corre rammentare che detti comitati sono istituiti dal Consiglio nel quadro
della delega della Commissione che affida ad essi, taluni poteri (Decisione
del Consiglio 1987/373 del 13.7.1987 e la successiva Decisione del Consi-
glio 1999/468 del 28.6.1999) 32. A questi si aggiunga che in seguito, nel
2006, è previsto un quarto tipo di comitato, avente ad oggetto la procedura
di regolamentazione con controllo 33. Tale ultima procedura assunta dopo il
Trattato di Lisbona, si differenzia in modo netto dagli altri comitati poiché
si applica alle «misure di portata generale, intese a modificare elementi
non essenziali di un atto» legislativo oppure a «completa[rlo] con l’ag-
giunta di nuovi elementi non essenziali». In ragione della rilevanza qualita-
tiva e quantitativa del fenomeno dei comitati non stupisce che la legittimità
dell’istituzione degli stessi sia stata posta all’attenzione del Giudice comuni-
tario. Nella causa Gemeente 34, la Corte di giustizia stabilisce che, il proce-
dimento del comitato di gestione, rientrerebbe tra le condizioni alle quali,
secondo la normativa primaria, il Consiglio può subordinare l’esercizio di
poteri amministrativi da parte della Commissione, senza che ciò implichi

legislativi, viene sottoposta alla c.d. procedura di regolamentazione con controllo. La proce-
dura contempla un duplice controllo sulle misure quasi legislative proposte dalla Commis-
sione: al parere del comitato, previsto per tutte le misure esecutive dettate dalla Commissio-
ne ai sensi dell’art. 102 TCE, si aggiunge il controllo diretto da parte delle autorità legislati-
ve. A esse è assegnato il potere di veto che consente di bloccare l’approvazione della misura
secondaria proposta dalla Commissione.
32
E. CHITI, L'organizzazione amministrativa dell'Unione Europea, in M. CHITI-C. FRAN-
CHINI (a cura di), op. cit., cap. I, par. II, p. 34. In tempi relativamente brevi si è pervenuti co-
sì all’istituzione, da parte del Consiglio, di Comitati di gestione in taluni settori nonostante le
resistenze della stessa Commissione mediante la previsione di un numero quantitativamente
più significativo di quelli che vengono usualmente definiti comitati di «regolamentazione»,
rispetto a quelli c.d. «consultivi» – corrispondenti ai comitati di gestione quanto alla compo-
sizione ma dotati di poteri di condizionamento delle decisioni della Commissione stessa.
33
In forza di quanto dispone la Decisione del Consiglio, 2006/512 CEE del 17 luglio
2006. Si veda in particolare l’art. 1, comma 2, della decisione si legge: «È necessario ricor-
rere alla procedura di regolamentazione con controllo per le misure di portata generale in-
tese a modificare elementi non essenziali di un atto adottato secondo la procedura di cui
all’articolo 251 del trattato, anche sopprimendo taluni di questi elementi, o completandolo
con l’aggiunta di nuovi elementi non essenziali. Tale procedura deve consentire ai due rami
dell’autorità legislativa di effettuare un controllo preliminare all’adozione di siffatte misure.
Gli elementi essenziali di un atto legislativo possono essere modificati soltanto dal legislato-
re in base al trattato».
34
Gemeente Anhem, Gemeente Rheden e BFI Holding BV, 10 novembre 1998, C-360/96,
in Raccolta [1998] 1-73.
27

uno stravolgimento dell’equilibrio delle istituzioni europee.


Con l’entrata in vigore del Trattato di Lisbona si è inteso mettere un freno
alla comitologia ma, in verità, questa è stata soltanto modificata a seguito
della divisione dei due livelli del potere esecutivo europeo e in conseguenza
dei poteri del Parlamento quale colegislatore. A ben vedere, proprio l’attri-
buzione al Parlamento del ruolo di colegislatore, fa venir meno la simmetria
tra decion making primario e quello secondario; la comitologia è emanazio-
ne del Consiglio ma non del Parlamento e quest’ultimo è ovviamente restio
a delegare un potere materialmente legislativo.
Dal Trattato di Lisbona è individuabile, nella fase esecutiva/attuativa, un
livello «alto», costituito dagli atti delegati, atti non legislativi di portata ge-
nerale che hanno funzione di integrare o modificare determinati elementi
non essenziali dell’atto legislativo; a tale situazione si contrappone il c.d. li-
vello «basso» costituito dagli atti esecutivi, necessari per l’attuazione degli
atti giuridici vincolanti dell’Unione. Tutto ciò, con l’intento esplicito di ri-
conoscere il Parlamento europeo, quale colegislatore su un piano di parità
rispetto al Consiglio a seguito del nuovo quadro istituzionale. I comitati so-
no quindi estromessi dalla sfera degli atti «quasi legislativi» tra i quali rien-
trano gli atti delegati, sicché la comitologia è relegata nell’ambito degli atti
di mera esecuzione. D’altro canto, in base all’art. 290 TFUE, le misure
«quasi legislative» diventano un’autonoma tipologia di atti delegati: colloca-
ti a metà via tra gli atti legislativi e gli atti esecutivi 35.
Il vero è che, diversamente dal periodo anteriore all’entrata in vigore del
Trattato di Lisbona, gli artt. 290 e 291 TFUE 36, disponevano che i comitati

35
M. SAVINO, La comitologia dopo Lisbona, cit., p. 1044. Osserva nella nota 15 l’A. che,
ove si volesse tentare un parallelismo con le fonti di diritto interno, gli atti delegati del-
l’Unione potrebbero essere assimilati ai decreti legislativi (data l’assenza di una legge dele-
ga) più che ai regolamenti governativi «delegificanti» o integrativi.
36
Comparando la nozione di delega contenuta nell’art. 76 della nostra Costituzione si
deve tener conto della linea seguita dalla Corte costituzionale che ha modellato l’istituto
della delega secondo una concezione non formalistica bensì sostanzialistica, volta a valoriz-
zare la continuità regolativa tra normazione parlamentare e normazione governativa. Com’è
stato osservato, «l’indizio principale di una costruzione ibrida, che emerge fin dalle prime
pronunce, notoriamente si radica nella teoria della norma interposta, in base alla quale la
Corte ammette – a dispetto dei criteri generali di risoluzione delle antinomie – che una fonte
di diritto sia vincolata da altra fonte gerarchicamente equiordinata e cronologicamente
anteriore. La motivazione formale che la sostiene si rivela da sola insufficiente dinanzi alla
constatazione che limiti ulteriori – non direttamente riconducibili al disposto costituzionale
– siano parimenti ritenuti vincolanti per il decreto delegato, nonostante la natura formale
non sovraordinata della legge di delega che li contiene. Ulteriore spia dell’introduzione di
una gerarchia di contenuti nei rapporti tra delega e decreto legislativo, sulla falsa riga del
28

della comitologia potessero intervenire soltanto partecipando alla formazio-


ne degli atti esecutivi e non anche agli atti delegati, sulla base di quanto di-
sciplinato nel Regolamento europeo del Consiglio n. 182/2011, del 16 feb-
braio 2011 37. In tale regolamento, dopo aver delineato i vari tipi di procedu-
re cui sono chiamati i comitati, si stabiliva in modo preciso all’art. 10, come
fosse obbligatoria una continua informazione della Commissione in merito
ai lavori dei comitati, in modo tale che essa fosse in grado di redigere una
relazione annuale sui lavori degli stessi. Viene così a codificarsi sia la prassi
informale desumibile dagli accordi istituzionali sia la prevalente giurispru-
denza relativa alla comitologia, venendosi a riconoscere al Parlamento euro-
peo il diritto all’informazione sui lavori dei comitati e un diritto di controllo
che, tuttavia, si esaurisce nella mera facoltà di segnalazione alla Commis-
sione, alla quale consegue un riesame del progetto. Tutto ciò trova la propria
legittimazione negli artt. 290 e 291 TFUE, stante il fatto che quest’ultimo
sancisce il c.d. «federalismo di esecuzione»: l’attuazione delle norme euro-
pee spetta in linea di principio alle amministrazioni degli Stati membri ma,
qualora siano necessarie condizioni uniformi per l’esecuzione di atti giuridi-
camente vincolanti, è da ritenersi necessaria l’adozione di atti di esecuzione
a livello sovranazionale. Di conseguenza in questa ipotesi il legislatore eu-
ropeo conferisce competenze di esecuzione alla Commissione o, in casi de-
bitamente motivati, al Consiglio (ex art. 291, par. 2, TFUE).
In seguito la comitologia, ormai consolidata in tutti i settori d’intervento
della Comunità, pone crescenti difficoltà decisionali in seno al Consiglio,
imputabili prevalentemente alla ferrea regola dell’unanimità, così come pre-
vista dall’art. 238, par. 3, TFUE, e richiamata nell’art. 5 del Regolamento n.
182/2011. Ciò è venuto ad imporre che il Consiglio conferisse alla Commis-
sione poteri sempre più ampi riservando alla comitologia una disciplina spe-
cifica in particolari settori, come emerge dalla decisione del Consiglio che
stabilisce le regole per l’esercizio delle competenze di esecuzione conferite
alla Commissione 38. Il vero è che, dopo l’entrata in vigore del sopra citato

modello europeo, è senz’altro la modulazione dei “principi e criteri direttivi”, che ha as-
sunto nel tempo, come noto, una conformazione assai elastica». Così, testualmente, G.
VOSA, op. cit., p. 286.
37
M. SAVINO, Il nuovo esecutivo europeo: dalla bicefalia alla polisinodia, in M.P.
CHITI-A. NATALINI (a cura di), Lo spazio amministrativo europeo. Le pubbliche ammi-
nistrazioni dopo il Trattato di Lisbona, Il Mulino, 2012, p. 119. Com’è stato osservato «nei
decenni successivi, questo disegno – fondato sulla in distinzione tra legislazione ed
esecuzione e sulla “rinazionalizzazione” attraverso la comitologia dei poteri affidati alla
Commissione – si consolida e si diffonde in tutti i settori di intervento della Comunità».
38
Decisione del Consiglio, 1987/373 del 13 luglio 1987: «– Considerando che il Consi-
29

Regolamento n. 182/2011, in particolare si prevedono una procedura consul-


tiva e una procedura d’esame. La procedura consultiva, secondo quanto di-
spone l’art. 2, trova applicazione: per gli atti di esecuzione di portata genera-
le e per gli atti di esecuzione riguardanti programmi con implicazioni so-
stanziali, politica agricola e politica comune della pesca, ambiente, sicurezza
e protezione della salute, politica commerciale comune e per la fiscalità. Nei
casi in cui sia utilizzata la procedura consultiva, il comitato esprime il pro-
prio parere procedendo eventualmente a votazione. La Commissione decide
sul progetto di atto di esecuzione da adottare tenendo «nella massima consi-
derazione» le conclusioni raggiunte in seno al comitato nonché del parere ivi
espresso. Nella procedura d’esame il comitato assume, infatti, un proprio pa-
rere secondo quanto stabilito dall’art. 238, par. 3, TFUE, per gli atti che de-
vono essere adottati su proposta della Commissione; anche i voti dei rappre-
sentanti degli Stati membri all’interno del comitato sono ponderati secondo i
criteri stabiliti dal TFUE. Nel caso di procedura d’esame, ove il comitato
non esprima alcun parere, la Commissione svolge consultazione con gli Stati
membri e sottopone al comitato d’appello un progetto di esecuzione. Il pun-
to è che, con l’entrata in vigore del Trattato di Lisbona, il sistema della co-
mitologia è venuto a essere profondamente modificato ma non annullato:
certo è che correttamente la comitologia viene considerata il retaggio di un
equilibrio istituzionale anacronistico sbilanciato in senso intergovernativo,
di cui è espressione la Commissione. L’equilibrio istituzionale, assunto pri-
ma dell’entrata in vigore del Trattato di Lisbona, s’incrina proprio a causa

glio conferisce alla Commissione, negli atti che esso adotta, le competenze di esecuzione
delle norme che stabilisce; Considerando che il Consiglio può sottoporre l’esercizio di tali
competenze a determinate modalità e che può anche riservarsi, in casi specifici, di esercita-
re direttamente competenze di esecuzione; – Considerando che per rendere più efficace il
processo decisionale della Comunità occorre limitare i tipi di procedure cui il Consiglio può
ricorrere in futuro; che occorre di conseguenza stabilire determinate regole cui devono con-
formarsi tutte le nuove disposizioni che prevedono modalità per l’esercizio delle competenze
conferite dal Consiglio alla Commissione; – Considerando che la presente decisione non
deve pregiudicare le modalità di esecuzione delle competenze della Commissione contem-
plate negli atti anteriori alla sua entrata in vigore e che deve essere possibile, all’atto della
modalità o della proroga di detti atti, adattare queste modalità per conformarle a quelle
previste dalla presente decisione o mantenere le modalità esistenti. Articolo 1: Tranne in
casi specifici per i quali si riserva di esercitare direttamente competenze di esecuzione, il
Consiglio conferisce alla Commissione, negli atti che esso adotta, le competenze di esecu-
zione delle norme che esso stabilisce. Il Consiglio precisa gli elementi essenziali di tali com-
petenze. Il Consiglio può sottoporre l’esercizio di tali competenze a determinate modalità
che devono essere conformi alle procedure elencate agli articoli 2 e 3», col che è evidente
che Commissione e comitati possono integrare e persino modificare le norme approvate dal
Consiglio venendo a svolgere un’attività materialmente legislativa.
30

del ruolo del Parlamento europeo quale colegislatore; talché la procedura di


codecisione accentua la complessità del processo legislativo ma ciò rende
meno agevole il coinvolgimento del rapporto Commissione/comitati.
La crisi della comitologia non deriva di per sé dalla funzione dei comitati
ma dal rapporto tra i comitati e l’apparato istituzionale.
In definitiva, a seguito dell’entrata in vigore del Trattato di Lisbona, si
assiste all’emergere di una sorta di autonomia del potere esecutivo, formato
da atti delegati e atti esecutivi veri e propri. In esso, le misure «quasi legisla-
tive» diventano una specifica tipologia di fonti del diritto europeo: gli atti
delegati. Tutto ciò ha implicato che, da una parte le misure «quasi legislati-
ve» fuoriescano dall’ambito della comitologia (viene a mancare il controllo
originario rappresentato dal parere del comitato) dall’altro, il venir meno di
questo strumento di accauntability verso le amministrazioni nazionali, è
compensato dal rafforzamento del controllo diretto esercitato dalle autorità
legislative, Parlamento e Commissione 39.
Occorre osservare che, come emerge non solo dalle disposizioni del
TFUE ma anche dal regolamento precitato, il principale «controllore» è rap-
presentato dagli Stati membri mentre l’«agente» controllato è la Commis-
sione 40 il ché indubbiamente assume un rilievo specifico su tutta la fase ese-

39
Tuttavia, tale distinzione non sempre è stata avallata dalla Corte di giustizia tant’è che
nelle famose sentenze C/427/12, c.d. Biocidi e nella sentenza C/65/13 Parlamento c. Com-
missione, la Corte, privilegiando una lettura contenutistica, ha desunto l’impossibilità di se-
parare nettamente l’ambito legislativo o quasi legislativo (ex art. 290 TFUE) dall’ambito
esecutivo (ex art. 291 TFUE). Resiste invece la tradizionale condivisione verticale delle
competenze esecutive accentrate per il tramite della comitologia. Infatti la Commissione
continua a condividere quella quota di potere con le amministrazioni che ne sono titolari in
via primaria. Tuttavia, assumono sempre più rilievo gli atti quasi legislativi o atti delegati ex
art. 290 TFUE; l’esclusione della comitologia comporta il venir meno della condivisione con
gli Stati membri del potere delegato alla Commissione e d’altro canto gli atti delegati vengo-
no ascritti ad una funzione legislativa: solo gli atti di esecuzione implicano l’esercizio di
competenze di natura propriamente esecutiva.
40
J. BAST, Tipologie di atti dell’amministrazione europea, in L. DE LUCIA-B. MARCHET-
TI (a cura di), L’amministrazione europea e le sue regole, cit., pp. 74 ss. «Le istituzioni inte-
ressate hanno quindi ritenuto che il nuovo regime stabilito dall’art. 291 TFUE per gli atti di
esecuzione della Commissione, potesse essere applicato soltanto dopo l’entrata in vigore
delle regole previste dal paragrafo 3. Nel febbraio del 2011 il Parlamento europeo e il Con-
siglio hanno quindi adottato il c.d. regolamento comitologia (Reg. 182/2011). Esso ha sosti-
tuito la c.d. decisione comitologia adottata ai sensi dell’art. 202 TCE ed entrato in vigore il
1° marzo 2011. Ogni riferimento alle procedure di controllo disciplinate dalla decisione
comitologia si intende quindi automaticamente riferito alle procedure che sono succedute a
esse ai sensi del regolamento. La nuova procedura tipica dei comitati è la “procedura
d’esame” che combina vari elementi dei precedenti comitati di gestione e regolamentazione».
31

cutiva/amministrativa degli atti dell’Unione nei singoli Stati membri. Tutta-


via non va sottovalutato il fatto che la Commissione per lungo tempo ha
continuato a interpellare sistematicamente «organi collegiali» molto simili ai
comitati anche per gli atti delegati, facendo sì che si venisse a limitare
l’innovazione introdotta dal Trattato di Lisbona, poiché l’uniformità della
fase esecutiva e l’intervento degli Stati membri in questa fase, era ed è ne-
cessitata dallo sviluppo dell’azione dell’Unione.
Si perviene così, all’indomani dell’entrata in vigore del trattato, a un «ac-
cordo» tra Consiglio e Commissione, nel quale viene sottolineata la necessi-
tà di coinvolgere le amministrazioni nazionali anche nella fase di elabora-
zione degli atti delegati, attraverso consultazioni mediante i c.d. gruppi di
esperti governativi o collegi trans governativi. Detto «accordo», formalizza-
to con il Common Understanding on Delegated Axts nel marzo 2011, a ben
vedere contraddice l’esclusione della comitologia operata dall’art. 290
TFUE, poiché la dimensione trans governativa permane, anzi, forse ne esce
rafforzata al di là dei comitati 41.
Sicuramente il Trattato di Lisbona è venuto a consolidare la centralità
della Commissione nella sfera esecutiva e di conseguenza degli Stati mem-
bri, in due direzioni: «in orizzontale, in quanto riduce il ruolo del Consiglio
e delinea una più nitida separazione orizzontale dei poteri, superando la bi-
cefalia tradizionale; in verticale perché affida alla Commissione il compito
di adottare misure regolamentari mediante atti delegati (competenza prima-
ria) o mediante atti di esecuzione (competenza secondaria)» 42.

41
Art. 290 TFUE: «1. Un atto legislativo può delegare alla Commissione il potere di
adottare atti non legislativi di portata generale che integrano o modificano determinati
elementi non essenziali dell’atto legislativo. Gli atti legislativi delimitano esplicitamente gli
obiettivi, il contenuto, la portata e la durata della delega di potere. Gli elementi essenziali di
un settore sono riservati all’atto legislativo e non possono pertanto essere oggetto di delega
di potere. 2. Gli atti legislativi fissano esplicitamente le condizioni cui è soggetta la delega,
che possono essere le seguenti: a) il Parlamento europeo o il Consiglio possono decidere di
revocare la delega; b) l’atto delegato può entrare in vigore soltanto se, entro il termine
fissato dall’atto legislativo, il Parlamento europeo o il Consiglio non sollevano obiezioni. Ai
fini delle lettere a) e b), il Parlamento europeo delibera a maggioranza dei membri che lo
compongono e il Consiglio delibera a maggioranza qualificata. 3. L’aggettivo “delegato” o
“delegata” è inserito nel titolo degli atti delegati».
42
M. SAVINO, L’organizzazione amministrativa dell’Unione europea, in L. DE LUCIA-B.
MARCHETTI (a cura di), L’amministrazione europea e le sue regole, cit., pp. 41 ss. Anche di
recente il disegno regolatorio generale del mercato unico/interno è stato nuovamente tratteg-
giato nella «strategia del mercato unico» attraverso un’analisi presentata alla Commissione
sullo stato di integrazione dei mercati e sulla competitività dell’Unione europea.
32

1.1.2. Le reti e le agenzie


All’esperienza dei comitati segue l’istituzione di modelli diversi in primis
le «agenzie»; mediante atti di diritto derivato o atti delegati, si vengono a
costituire organismi ausiliari atipici, a composizione tecnico-scientifici ai
quali vengono conferite latu sensu attività esecutive.
La trattazione implica un discorso generale sulle agenzie ma occorre
rammentare che hanno un regime diverso le c.d. «agenzie esecutive», in
quanto sono organi della Commissione nell’ambito della sua competenza di
esecuzione del bilancio dell’Unione e sono state create per esternalizzare i
compiti di gestione finanziaria per i quali la Commissione era meno attrez-
zata, come si legge nel considerando 5 del Regolamento n. 58/2003. Inoltre,
le agenzie esecutive non sono titolari di competenze proprie e la Commis-
sione esercita su di esse una tutela amministrativa che si estende al controllo
di legittimità dei suoi atti.
Ciò detto, in linea generale e valevole per tutti i tipi di agenzie, trattasi di
organismi che presentano specifiche peculiarità poiché la loro stessa costitu-
zione viene a determinarsi in base a fattori contingenti; tuttavia, le agenzie
europee vengono progressivamente a dotarsi di «caratteristiche specifiche
diverse da quelle proprie delle altre amministrazioni dell’Unione» 43. Nono-
stante l’opinione contraria delle istituzioni politiche europee, che sovente ne
sottolineava l’incerta natura e l’eccessiva differenziazione 44, le agenzie eu-
ropee «sono state create a ondate successive per soddisfare esigenze speci-
fiche caso per caso», soprattutto ad esse vengono attribuiti compiti di coor-
dinamento informativo fra le amministrazioni nazionali dotate di competen-
ze operative nel medesimo ambito ed è questo il tratto che le distingue dalle
agenzie esecutive.
Possono individuarsi tre fasi di sviluppo della politica di agentificazione,
ciascuna delle quali rappresenta una risposta a fattori contingenti senza che,
tuttavia nonostante tesi diverse, si possa desumere una ratio circa l’«evo-
luzione» dalla quale poter ricavarne tratti comuni; fermo restando che la co-
stituzione delle agenzie deve inquadrarsi nel più ampio processo
d’integrazione europeo, ciò che rileva nella presente trattazione, è che il fe-
nomeno genericamente detto delle agenzie, s’inquadra nel potere esecutivo

43
E. CHITI, Le trasformazioni delle agenzie europee, in Riv. trim. dir. pubbl., 2010, p. 1.
44
Comunicazione della Commissione del 2005 nel progetto di accordo inter istituzionale
relativo all’inquadramento della agenzie europee di regolazione, in esso si rileva che, in
mancanza di un coordinamento e di un quadro comune il ricorso, a tali agenzie «rischia di
sfociare in una situazione poco trasparente e poco comprensibile per il cittadino, che po-
trebbe inoltre compromettere la certezza del diritto».
33

comunitario non solo nella situazione odierna ma anche in prospettiva.


Una prima fase del sistema delle agenzie europee è individuata nel 1975
attraverso la costituzione di due agenzie: la prima, il «Centro europeo per lo
sviluppo della formazione professionale» (CEDEFOP), la seconda la «Fon-
dazione europea per il miglioramento delle condizioni di vita e di lavoro»
(EUROFOUND). Dette agenzie all’origine esercitavano attività di raccolta
dati e informazioni aggregate a livello europeo, strumentali all’esecuzione
della politica comune. In definitiva esse rispondevano all’esigenza di assi-
stere la Commissione nell’adempimento della funzione esecutiva diretta
mediante compiti sussidiari di carattere consultivo. La seconda fase di svi-
luppo del sistema viene individuata con la costituzione dell’«Agenzia Euro-
pea Ambiente» (EEA) del 1990; tale seconda fase poggia soprattutto sulle
novità introdotte dall’Atto Unico Europeo, il quale subordinava il conferi-
mento di competenze di esecuzione del diritto comunitario a favore della
Commissione, al rispetto di principi e di determinate modalità di esercizio,
previsti in via preliminare dal Consiglio, previo parere del Parlamento euro-
peo. Quindi, tale seconda fase, si distingue più che altro sotto l’aspetto della
creazione delle agenzie, che vede coinvolto in prima persona il Parlamento
europeo.
L’Atto Unico Europeo, inoltre, aveva codificato nella c.d. clausola d’ar-
monizzazione, ex art. 100, TCEE (art. 95 TCE, attuale art. 114 TFUE), il po-
tere del Consiglio di adottare «misure relative al riavvicinamento delle di-
sposizioni legislative, regolamentari ed amministrative degli Stati membri»
aventi ad oggetto «l’instaurazione ed il funzionamento del mercato interno».
Proprio le novità introdotte nell’Atto Unico Europeo hanno segnato la gra-
duale emersione d’una gestione condivisa o coamministrazione: è evidente
che si è pervenuti a un compromesso tra un processo di centralizzazione dei
poteri esecutivi, nettamente avversato dagli Stati membri, e l’esigenza di una
uniforme attuazione del diritto europeo anche a livello decentrato 45. A mo’
di semplice rammentazione, sempre nel 1993, fu fondata l’Agenzia europea
dei medicinali (EMA) mentre con caratteri parzialmente diversi, nel 1999,
venne creato l’Ufficio europeo di Polizia (EUROPOL).
L’avvio del processo d’istituzione di numerose agenzie europee, vedeva
conferiti alle stesse, compiti e poteri decisamente diversi rispetto alle passate

45
C. FRANCHINI, Amministrazione italiana e amministrazione comunitaria: la coammini-
strazione nei settori d’interesse comunitario, Cedam, 1992, p. 37; E. CHITI, Le agenzie eu-
ropee. Unità e decentramento nell’amministrazione comunitaria, Cedam, 2002, pp. 56 ss.
Non è questa la sede ma merita di essere ricordato che in questo periodo che vengono altresì
istituite l’agenzia europea
34

esperienze ma non da farle assurgere al ruolo di autorità indipendenti come


una parte della dottrina ipotizza, permanendo invece una posizione istituzio-
nale di ausiliarietà piuttosto che indipedenza rispetto alla Commissione e ai
Governi nazionali.
Ciò che preme invece mettere in evidenza è che, a seguito della creazione
di quelle che genericamente vengono chiamate agenzie, si è dato luogo ad
un dibattito che ha per molto tempo impegnato la Commissione, basti pensa-
re alla Commissione Sentar del 1999, che aveva come obiettivo l’adozione
di una riforma di carattere generale sulle agenzie e soprattutto volta a co-
struire i rapporti e gli strumenti necessari ad una loro legittimazione. Tale
Commissione non approdò a nulla e solo con il Libro Bianco del 2001 si
cominciò ad approfondire il tema della «externalisation policy» (Libro
Bianco del 2000) incentrato su un processo riformatore dei poteri della
Commissione, basato sulla devoluzione dei compiti ad organismi comunita-
ri, il ché viene ripreso nel successivo Libro Bianco sulla governance europea
del 2001, che individuava negli «organi» ed «organismi» comunitari proprio
le agenzie, qualificate come enti dotati di un certo grado d’indipendenza,
sotto il profilo tecnico. Infatti, sia nel Libro Bianco del 2000 che nel Libro
Bianco del 2001, nonché nella successiva Comunicazione del 2002, le agen-
zie restano ancorate al rispetto di precisi «limiti» derivanti dalla loro istitu-
zione (materiali, formali, procedurali, ecc.) volti a garantire l’osservanza
dell’equilibrio dei poteri definito dai trattati: quant’anche venga riconosciuto
alle stesse il potere di assumere decisioni con un certo grado di autonomia,
dette decisioni devono sempre rapportarsi a quel determinato ambito loro as-
segnato, venendo a mancare alle stesse un’investitura in merito all’adozione
di misure generali di regolazione in determinati settori.
La terza fase di agentificazione, che si conclude con l’adozione del Trat-
tato di Lisbona, vede l’istituzione di ben 18 agenzie europee, caratterizzate
dal fatto di rappresentare una risposta a numerose emergenze nel campo del-
la prevenzione e della regolazione dei rischi a livello comunitario: si pensi
ad esempio all’Autorità europea per la sicurezza alimentare (EFSA), al-
l’Agenzia europea per la sicurezza marittima (EMSA) e alla creazione del
Centro europeo per la prevenzione e il controllo delle malattie (ECDC). An-
che in questo caso si pone il problema nei regolamenti istitutivi circa il livel-
lo della loro autonomia ma, ancora una volta, si tratta di autonomia tecnico-
scientifica, mentre il rapporto di queste con la Commissione, rimane di ca-
rattere subordinato, tant’è che la Commissione può influenzare il funziona-
mento delle agenzie, sia intervenendo ad esempio nella procedura di adozio-
ne del loro programma di lavoro sia indirettamente, attraverso i suoi rappre-
sentanti nel Consiglio d’amministrazione.
35

Sotto il profilo giuridico questa terza fase di sviluppo del sistema di


agenzie, si caratterizza, tuttavia, dall’emergere dell’esigenza di dotare le
agenzie stesse di alcune regole di funzionamento comuni e delineare, in via
generale, il controllo sul loro esercizio. Ciò è dovuto anche ad un’ampia de-
clinazione dell’obbligo di leale collaborazione, previsto nel TUE all’art. 4,
che presuppone che l’Unione e gli Stati membri si assistano reciprocamente
nell’adempimento dei compiti derivanti dai trattati. In questo caso i compiti
non derivano se vogliamo dai trattati, ma da atti derivati dai trattati e d’altro
canto gli Stati membri sono chiamati a facilitare l’Unione nell’adempimento
dei suoi compiti per la realizzazione degli obiettivi dell’Unione.
In verità emerge con sempre maggiore forza la necessità di creare organi-
smi con caratteristiche diverse rispetto alle organizzazioni precedenti, aventi
come obiettivo quello di mettere a punto una serie di modelli giuridici di rac-
cordo e d’integrazione fra le diverse autorità individuate come competenti 46.
La creazione delle agenzie europee è significativa in quanto è indice della
parabola che, da un lato ha dimostrato la necessità degli organi ed organismi
necessari sotto il profilo tecnico, dall’altro è indice del fatto che tali organi-
smi con l’andare del tempo e con l’aumento delle attività amministrative, as-
sumono contorni sempre più autonomi rispetto alle scelte politiche. Tant’è
che accanto ai suoi compiti consuntivi e di coordinamento, alcune agenzie
hanno compiti decisionali, sia pure in ambiti molto specifici (vedi Regola-

46
Nel Regolamento n. 58/2003: «Per poter assumere pienamente le sue responsabilità
dinanzi ai cittadini, la commissione deve concentrarsi in via prioritaria sulle sue missioni
istituzionali. È quindi opportuno che essa possa delegare a terzi alcuni compiti relativi alla
gestione di programmi comunitari. L’esternalizzazione di taluni compiti di gestione può
inoltre costituire un modo per realizzare con maggiore efficacia gli obiettivi perseguiti da
detti programmi comunitari. […] L’esternalizzazione dei compiti di gestione deve tuttavia
restare entro i limiti del sistema istituzionale creato dal trattato. Ciò significa che non pos-
sono essere esternalizzate le missioni che il trattato assegna alle istituzioni e che comporta-
no un margine di discrezionalità per tradurre in atto scelte politiche […] Il ricorso
all’esternalizzazione è, del resto, possibile solo dopo un’analisi costi-benefici […] Una for-
ma di esternalizzazione consiste nel fare ricorso ad organismi di diritto comunitario dotati
di personalità giuridica, denominati qui di seguito “agenzie esecutive”». Da qui la nascita
della agenzie esecutive istituite per svolgere determinati programmi comunitari aventi sede a
Bruxelles o a Lussemburgo vicino alla Commissione europea. Diverse invece sono le agen-
zie che non rientrano nella precedente fattispecie. Con Comunicazione della Commissione
europea al Parlamento europeo e al Consiglio, in data 11 marzo 2008, vengono disciplinate
le c.d. «agenzie decentrate» sostanzialmente soggetti di diritto pubblico europeo dotati di
personalità giuridica istituiti con atto di diritto derivato e incaricati di svolgere compiti speci-
fici in ambito tecnico-scientifico. Pur tuttavia, a parere di chi scrive, non esiste una vera e
propria distinzione in quanto anche le agenzie decentrate sovente hanno funzione di agenzie
esecutive; per cui se è vero che all’inizio si poteva ben delineare la diversità tra agenzie ese-
cutive ed agenzie decentrate, oggi risulta particolarmente difficoltoso.
36

mento n. 713/2009) che ha creato l’agenzia per la cooperazione fra i regola-


tori nazionali dell’energia (ACER).
Quindi, se in origine si trattava di organismi ausiliari rispetto alla Com-
missione, strutturati in modo tale da realizzare, attraverso propri uffici di
vertice, una pluralità di relazioni fra le amministrazioni nazionali e tra
quest’ultime e la Commissione, l’evoluzione sopra richiamata ha portato a
conferire ad esse, poteri preordinati all’esercizio di specifiche attività delle
amministrazioni, sia nazionali sia europee; in tal modo le agenzie hanno
operato in veste di coordinatori di sistemi amministrativi comuni in quanto
riferite a tutte le amministrazioni la cui attività era resa interdipendente at-
traverso specifiche tecniche d’integrazione amministrativa 47.
Via via si è assistito al fatto che le agenzie siano chiamate a operare come
uffici ausiliari non solo della Commissione ma anche degli altri organi e or-
ganismi europei, dovendo porre in essere una cooperazione amministrativa
tra le amministrazioni nazionali e tutti gli altri organismi europei 48.

47
E. CHITI, Le trasformazioni delle agenzie europee, in Riv. trim. dir. pubbl., n. 1/2010,
p. 57: «Il processo di agentification nell’ordinamento europeo, in effetti, rappresenta un
segmento particolarmente significativo dell’organizzazione amministrativa dell’Unione, sia
sotto il profilo quantitativo sia sotto quello qualitativo: sotto il profilo quantitativo, perché
la crescita delle agenzie europee negli ultimi due decenni è stata costante e le agenzie euro-
pee sono ormai il tipo di figura organizzativa complessa, non meramente collegiale, preva-
lentemente nell’amministrazione europea; sotto il profilo qualitativo perché il gioco di forze
che governa le agenzie europee è assai complesso e coinvolge le diverse istituzioni politiche
e le amministrazioni nazionali, oltre che i privati». Si veda, altresì, C. FRANCHINI, L’orga-
nizzazione amministrativa dell’Unione europea, cit., p. 220. «La scelta del modello del-
l’agenzia è riconducibile a quattro esigenze diverse. In primo luogo, quella di razionalizzare
l’esercizio di alcune funzioni, talvolta assicurando un regime giuridico sovranazionale che
si affianca, con modalità differenti, a quelli propri degli Stati membri, talaltra modificando
la disciplina europea preesistente e migliorando la distribuzione dei compiti tra le autorità
dell’Unione, talaltra ancora prevedendo un regime che consente la realizzazione a livello
europeo di attività precedentemente svolte dalle autorità nazionali in modo tra loro non
coordinato. In secondo luogo, quella di lasciare immutato il ruolo e la posizione della
Commissione, in quanto attraverso le agenzie si realizza un decentramento di attività che,
per motivi di ordine politico e tecnico, non possono essere svolti direttamente dalle ammini-
strazioni centrali. In terzo luogo, quella di realizzare moduli organizzativi che consentano la
partecipazione, oltre che di funzionari europei, anche di esperti e di rappresentanti dei set-
tori interessati, similmente a quanto accade nell’esperienza dei comitati, così da consentire
l’integrazione, per un verso, e il coordinamento, per l’altro, tra i vari uffici titolari di attri-
buzione che operano a differenti livelli».
48
Secondo C. TOVO, Le agenzie decentrate dell’Unione europea, in Collana Centro In-
ternazionale di Ricerche sul Diritto Europeo dell’Università di Bologna (CIRDE), Editoriale
Scientifica, 2016, p. 34, quest’ultima caratteristica sarebbe proprio delle agenzie decentrate
ma in verità le agenzie nascono per svolgere compiti esecutivi del diritto dell’Unione.
37

Il modello di agenzia si è imposto, soprattutto in quest’ultimo decennio,


come modulo organizzativo di natura complessa che coinvolge diverse isti-
tuzioni politiche e le amministrazioni nazionali nonché i soggetti privati,
tant’è che si parla di processo di «agenzificazione» europea, caratterizzata
dalla proliferazione di tali organismi accompagnata dalla progressiva acqui-
sizione di una sempre maggiore autonomia funzionale.
Ma ciò, a nostro avviso, non è un dato che può creare stupore almeno sot-
to il profilo della funzione; il vero è che l’aumento delle agenzie dipende,
come si è già visto per i comitati, dal fatto che più aumentano gli interventi
dell’Unione in particolare sotto il profilo amministrativo, più detti organi sia
pure nella loro diversità, proliferano a sostegno della politica europea. La le-
gittimazione di tale processo merita una particolare attenzione poiché
nell’ordinamento giuridico dell’Unione non è dato rinvenire uno specifico
riferimento a tali figure. Il Trattato di Lisbona, come si diceva in preceden-
za, ha riformato la materia relativa all’attuazione del diritto dell’Unione pro-
prio con gli artt. 290 e 291 TFUE, codificando quel sistema di «federalismo
esecutivo» di cui si è detto in precedenza. Tuttavia, proprio in base al federa-
lismo esecutivo, spetta agli Stati membri garantire l’attuazione del diritto
dell’Unione, secondo il tradizionale modello di amministrazione indiretta e
in ossequio al principio della leale cooperazione. Ovviamente, vale anche
per le agenzie tutto il dibattito, già richiamato nel paragrafo precedente, sor-
to tra gli atti di mera esecuzione e gli atti delegati, adottati in base agli artt.
290 e 291 TFUE, ciò in quanto le agenzie, come i comitati, devono rispetta-
re gli equilibri delle istituzioni. Numerose disposizioni di regolamenti istitu-
tivi delle agenzie attribuiscono a tali organi poteri decisionali e di regola-
mentazione riconducibili ad una prima lettura, agli atti di esecuzione e/o de-
legati che trovano ancoraggio nei precitati articoli del TFUE, tuttavia, a un
più approfondito esame, occorre tener presente che tale distinzione non è
sempre chiara in quanto il discrimine tra atti delegati integrativi della fonte
legislativa e atti di mera esecuzione, non si presenta con un confine certo
«né la portata della misura né il nomen juris delle stesse possono contribui-
re a sciogliere tale ambiguità» 49. Il vero è che i confini tra poteri delegati e
di esecuzione, sono determinati dal legislatore mediante l’esercizio di una

49
C. TOVO, op. cit., p. 74. Si veda la nota 40, p. 75, ove l’A. riporta: «Si può ritenere
infatti che gli atti mediante i quali le agenzie esercitano poteri di esecuzione e delegati
figurino tra quelli adottati con procedura sui generis, i quali a loro volta insieme agli atti
delegati ad alcuni degli atti di esecuzione, compongono il novero delle misure non
legislative aventi portata generale, secondo la puntuale categorizzazione proposta dalle
conclusioni dell’Avvocato generale Kokott del 17 gennaio 2013 Inuit e a./Parlamento e
Consiglio».
38

valutazione discrezionale: l’oggetto di tale valutazione è il fatto che le di-


sposizioni s’inseriscano in un quadro normativo definito dall’atto legislativo
di base o si limitino a precisarne il contenuto. In assenza di tale chiarimento
da parte del legislatore, è difficile caratterizzare a priori gli atti di esecuzione
dagli atti delegati, pur dovendo riconoscere a quest’ultimi una particolare
specialità procedimentale.
La Corte di giustizia non è riuscita a risolvere la questione pur cercando
di offrire un’interpretazione degli artt. 290 e 291 TFUE, che lasciasse figura-
re una differenza quantitativa tra i due tipi di funzione delle Commissioni: i
poteri esecutivi servirebbero solo a precisare il contenuto dell’atto di base
(punto 39) mentre i poteri delegati servono all’emanazione di prescrizioni
che s’inseriscono nel quadro normativo, come definito dall’atto di base
(punto 38) 50.
Merita segnalare che da un punto di vista funzionale, per ciò che attiene
le agenzie, non va sottovalutato il loro ruolo di coordinatore di sistemi am-
ministrativi comuni, soggetti peraltro a meccanismi di controllo di vario ge-
nere che vanno a intersecarsi con il Rule of Law e quindi con il controllo da
parte delle istituzioni politiche. Tutto ciò trova fondamento nell’art. 4 TUE,
che stabilisce che gli Stati membri devono adottare ogni misura di carattere
generale o particolare volta ad assicurare l’esecuzione degli obblighi deri-
vanti dai trattati o conseguenti dagli atti delle istituzioni dell’Unione, sulla
base di quello che viene definito il «principio della leale collaborazione». In
tal modo detto principio, soprattutto nel settore che rileva, è divenuto una
clausola generale del controllo dell’operato degli Stati rispetto alle disposi-
zioni dei poteri centrali. In questo quadro, occorre rammentare che l’eser-

50
Sentenza della Corte (Grande Sezione) del 18 marzo 2014, «Ricorso di annullamento –
Scelta della base giuridica – Articoli 290 TFUE e 291 TFUE – Atto delegato e atto di esecu-
zione – Regolamento (UE) n. 528/2012 – Articolo 80, paragrafo 1 – Biocidi – Agenzia euro-
pea per le sostanze chimiche – Determinazione delle tariffe da parte della Commissione»,
nella causa C-427/12, ove al punto 38 si legge: «Quando il legislatore dell’Unione conferi-
sce alla Commissione, in un atto legislativo, un potere delegato in virtù dell’articolo 290,
paragrafo 1, TFUE, quest’ultima è chiamata ad adottare norme che integrano o modificano
determinati elementi non essenziali di tale atto. Conformemente al secondo comma di tale
disposizione, gli obiettivi, il contenuto, la portata nonché la durata della delega di potere
devono essere esplicitamente delimitati dall’atto legislativo che conferisce una tale delega.
Detto requisito implica che l’attribuzione di un potere delegato mira all’adozione di norme
che si inseriscono nel quadro normativo quale definito dall’atto legislativo di base». Pari-
menti al punto 39 si legge: «Quando invece lo stesso legislatore conferisce un potere di ese-
cuzione alla Commissione sulla base dell’articolo 291, paragrafo 2, TFUE, quest’ultima è
chiamata a precisare il contenuto di un atto legislativo, per garantire la sua attuazione a
condizioni uniformi in tutti gli Stati membri».
39

cizio della competenza delle agenzie è subordinato a due tipi di limiti che
operano ex ante ed ex post rispetto all’esercizio della delega: il primo riserva
al legislatore comunitario sia la definizione degli elementi essenziali della
materia e l’esplicita delimitazione degli obiettivi, contenuto e portata della
delega (criterio sostanziale) nonché la determinazione della durata di tale de-
lega (criterio temporale); il secondo ordine di limite all’esercizio di poteri
delegati è individuabile nella facoltà, da parte del Consiglio o del Parlamen-
to, di porre in essere la revoca della delega sia esercitando un potere di veto
sia un diritto di opposizione: si tratta, in verità, di strumenti meramente fa-
coltativi che possono essere conferiti dal legislatore al Parlamento europeo o
al Consiglio o a entrambi. Da un punto di vista sostanziale è evidente che,
per ciò che attiene gli atti di esecuzione, la loro adozione è sempre subordi-
nata alla verifica dell’esigenza «di condizioni uniformi di esecuzione» di
«atti giuridicamente vincolanti dell’Unione». Ciò trova conferma nell’orien-
tamento assunto dal giudice comunitario fin dal 1958, con riferimento al
Trattato istitutivo della Comunità europea del carbone e dell’acciaio 51; nella
giurisprudenza di tale periodo la Corte di giustizia aveva escluso la legittimi-
tà della delega di poteri che attribuissero ad organismi terzi una «libertà
d’apprezzamento» tale da concretarsi in un vero e proprio potere discrezio-
nale. La ragion d’essere di una siffatta limitazione, secondo la più accredita-
ta dottrina alla quale si aderisce 52, va rinvenuta nel «principio dell’equilibrio
istituzionale», che costituisce la garanzia fondamentale prevista dal trattato,
così come richiamata in precedenza. Gli obiettivi comunitari, infatti, «non
sono imposti alla sola Alta Autorità» bensì alle «istituzioni della Comunità
... nell’ambito delle loro rispettive attribuzioni e nell’interesse comune».
Così, se in base al principio di «effetto utile» non è consentito escludere la
possibilità di porre in essere una delega di poteri a organismi terzi – purché

51
Meroni & co. Industrie metallurgiche c. Alta Autorità, C-9/56; e Meroni & co. Indu-
strie metallurgiche c. Alta autorità, C-10/56. Nella sentenza in esame si legge che gli obiet-
tivi comunitari «non vengono imposti alla sola Alta Autorità» bensì «alle istituzioni della
Comunità … nell’ambito delle loro rispettive attribuzioni e nell’interesse comune».
52
E. CHITI, Le trasformazioni delle agenzie europee, loc. cit., p. 6, nota 7. Rileva l’A.
come «se il principio di effetto utile non consente di escludere la possibilità di una delega di
poteri ad organismi terzi, purché sia necessaria la realizzazione degli obiettivi individuati
dalla disposizione rilevante, rispetto all’equilibrio dei poteri circoscrive il possibile ambito
della delega ai poteri di mera esecuzione. Sulla base di questo orientamento, la scienza giu-
ridica e le varie istituzioni europee, tra cui la Commissione, hanno concluso che l’istituzione
di nuovi organismi europei potrebbe considerarsi legittima ai sensi del Trattato solo là dove
essa risulti necessaria per la realizzazione degli obbiettivi che i poteri attribuiti alla Comu-
nità intendono realizzare e non siano delegati poteri che comportino un reale margine di
apprezzamento».
40

ciò sia necessario per la realizzazione degli obiettivi individuati dalla dispo-
sizione rilevante – il rispetto dell’equilibrio dei poteri implica circoscrivere
il possibile ambito della delega a poteri di mera esecuzione. In conformità a
quest’orientamento, la scienza giuridica e le varie istituzioni europee, tra cui
la Commissione, hanno concluso che la creazione di nuovi organismi euro-
pei potrebbe considerarsi legittima ai sensi del trattato solo là dove essa ri-
sulti necessaria per la realizzazione degli obiettivi che i poteri attribuiti alla
Comunità intendono realizzare e non siano delegati poteri che comportino
un reale margine di apprezzamento 53. Anche quest’aspetto, fa propendere a
definire gli atti posti in essere dalle agenzie atti di «amministrazione indiret-
ta», in quanto i limiti previsti nell’atto di delega risultano o dovrebbero risul-
tare particolarmente incisivi. Pur tuttavia, rispetto ai comitati, si assiste a un
maggior coinvolgimento delle amministrazioni nazionali, dato questo che
rappresenta quel «filo rosso» che dalle prime forme di «amministrazione di-
retta e indiretta» porteranno, poi, alla coamministrazione.
Vi è da osservare che gli atti di esecuzione, a differenza degli atti delega-
ti, ex art. 291 TFUE, attribuiscono ai soli Stati membri il potere di controllo
sull’esercizio delle competenze di esecuzione da parte della Commissione.
Nonostante che l’art. 291, par. 3, TFUE, equipari Parlamento e Consiglio in
merito al controllo dell’esercizio delle competenze di esecuzione attribuite
alla Commissione, a ben vedere, tale controllo è riconosciuto dalla stessa
norma di diritto primario in via esclusiva agli Stati membri; con Regolamen-
to (UE) n. 182/2011 del Parlamento e del Consiglio 54, è nata l’esigenza di
disciplinare i principi generali relativi alle modalità di controllo da parte de-
gli Stati membri, in merito all’esercizio delle competenze di esecuzione at-
tribuite alla Commissione. Si deve tener presente che quest’ultima ha cerca-
to un accordo con le altre istituzioni politiche su un modello generale di

53
Sul punto si rinvia a K. LENAERTS, Regulating the Regulatory Process: “Delegation of
Powers” in the European Community, in European Law Review, 1993, p. 23 ss.; X.A.
YATAGANAS, Delegation of Regulatory Authority in the European Union – The relevance of
the American Model of Independent Agencies, Harvard Jean Monnet Working Papers, n.
3/2001 e G. DE BÚRCA, The Institutional Development of the EU: a Constitutional Analysis,
in P. CRAIG-G. DE BÚRCA (a cura di), The Evolution of EU Law, Oxford University Press,
1998, pp. 55 ss., 77.
54
Regolamento (UE) n. 182/2011 del Parlamento europeo e del Consiglio del 16
febbraio 2011, nel quale sono stabiliti i principi generali relativi alle modalità di controllo da
parte degli Stati membri dell’esercizio delle competenze di esecuzione attribuite alla
Commissione. Nel considerando 10 si legge: «È opportuno stabilire i criteri intesi a definire
la procedura da seguire per l’adozione degli atti di esecuzione da parte della Commissione.
Per conseguire una maggiore coerenza, i requisiti procedurali dovrebbero essere propor-
zionati alla natura e all’impatto degli atti di esecuzione da adottare».
41

agenzia europea basato su una valutazione condivisa; pur tuttavia, come si


vedrà in seguito, non si è colta la possibilità di creare un modello univoco di
agenzia.
In linea generale si possono enucleare taluni tratti caratteristici comuni a
tutte le agenzie: il primo è rinvenibile nella personalità giuridica di cui tali
organi sono titolari, secondariamente, in tutte è dato rinvenire un certo grado
di autonomia insieme a un’organizzazione stabile e, infine, l’attribuzione
dell’esercizio di compiti di esecuzione del diritto dell’Unione. In particolare,
il fatto che dette agenzie siano dotate in genere di personalità giuridica,
espressamente conferita da norme di diritto derivato 55, ha come conseguen-
za che le stesse acquistino un profilo distinto e autonomo in ciascun ordina-
mento nel quale operano, venendosi così a distinguersi sia dall’ordinamento
giuridico dello Stato membro sia da quello dell’Unione nonché da quello in-
ternazionale. Merita soffermarsi su alcuni profili concernenti il riconosci-
mento della personalità giuridica, perché essa, all’interno del diritto comuni-
tario, deve essere intesa come autonoma titolarità di situazioni giuridiche
soggettive attive e passive, rette dal diritto dell’Unione e funzionalmente
orientate al conseguimento degli obiettivi statutari. Il vero è che la soggetti-
vità giuridica comunitaria delle agenzie discende dalla titolarità di poteri e
obblighi nell’ordinamento giuridico europeo in ossequio all’impostazione
funzionalistica. È stato osservato come tra gli obblighi che gravano sulle
agenzie, figurino ad esempio quelli disciplinati dal combinato disposto del-
l’art. 15, par. 3, TFUE e dall’art. 42 della Carta dei Diritti Fondamentali 56;
tali norme infatti impongono, agli organismi dell’Unione, di ottemperare al
diritto di accesso dei documenti, garantendone l’esercizio in capo ad ogni
persona fisica o giuridica residente in uno degli Stati membri, mediante
l’azione di specifiche disposizioni regolamentari interne. La soggettività
comunitaria delle agenzie deriva inevitabilmente dai poteri esercitati da tali
organi, si veda ad esempio, quelli conferiti all’autorità investita di potere di
nomina dello Statuto dei funzionari.
Il riconoscimento della personalità giuridica di diritto comunitario delle

55
La caratteristica in parola, consente di distinguere le agenzie dalle istituzioni europee
ma anche dalle direzioni generali.
56
C. TOVO, op. cit., p. 38: «Tutti gli atti istitutivi delle agenzie decentrate, fatta eccezio-
ne per gli statuti delle prime due agenzie costituite nel 1975 (CEDEFOP ed EUROFOUND),
attribuiscono espressamente personalità giuridica a tali enti. Qualora tali atti avessero inte-
so conferire alle agenzie la sola personalità giuridica di diritto nazionale, le norme di diritto
derivato non avrebbero attribuito agli organismi – in tutti gli Stati membri e in aggiunta alla
personalità giuridica – la più ampia capacità giuridica riconosciuta alle persone giuridiche
delle rispettive legislazioni nazionali.
42

agenzie europee, è desumibile anche da un’interpretazione logico-letterale,


rinvenibile nei rispettivi regolamenti istitutivi e che fa leva sulla c.d. «eco-
nomicità della normazione». Ad essa si aggiunga che le agenzie, in genere,
godono d’una certa autonomia, prima di tutto derivante dal mandato conferi-
to nell’atto istitutivo delle stesse ma anche da un’autonomia funzionale di-
namica che si manifesta nell’assunzione del procedimento relativo all’eser-
cizio dei compiti a esse attribuite. Trova conferma quanto finora detto, il fat-
to della mancata sottoposizione delle agenzie al quadro procedurale previsto
per l’esercizio di funzioni analoghe da parte delle altre istituzioni europee.
Merita un approfondimento, l’usuale affermazione che tali agenzie ab-
biano un elevato grado d’indipendenza; il vero è che, sovente la dimensione
dinamica è espressamente riconosciuta negli atti istitutivi delle agenzie che
utilizzano il termine «indipendenza» ma, a parere di chi scrive detta indi-
pendenza, fa riferimento all’attività prevalentemente scientifica da queste
svolta, risultando strumentale a garantire la fiducia degli interlocutori del-
l’organismo rispetto alla qualità e all’imparzialità dell’apporto tecnico forni-
to dall’agenzia. Sicché il carattere d’indipendenza si connette sia ai compiti
da esse svolti nonché ai soggetti componenti dell’agenzia stessa ma non può
identificarsi, come un parte della dottrina interpreta, in un’indipendenza in
senso tecnico.
Il vero è che l’avvio del processo d’istituzione di numerose agenzie rien-
tra in una prospettiva essenzialmente normativa, incentrata sulla rappresen-
tanza dell’Unione in termini di uno Stato regolatore che richiede il dotarsi di
autorità indipendenti. Tuttavia tale disegno non si è rivelato, se non per
sommi capi, coerente con le esigenze europee talché le agenzie sono state
collocate in una posizione istituzionale di ausiliarietà e non di indipenden-
za 57. Infatti, anche la distribuzione delle sedi delle agenzie (decentrate) nei
diversi Stati membri, conferisce come è stato sottolineato, «visibilità» al-
l’Unione, contribuendo ad avvicinarla ai cittadini europei ma non a creare

57
E. CHITI, Le trasformazioni delle agenzie europee, cit., p. 60: «Questo nuovo tipo di
agenzie europee, peraltro, non dovrebbe essere confuso con altre figure dell’organizzazione
amministrativa europea incentrate sulla formula della indipendenza. Esso si differenzia, an-
zitutto, dalla figura in cui l’indipendenza trova la sua massima forza ed estensione, quella
del sistema europeo della banche centrali coordinato dalla Banca centrale europea, giacché
in quel caso la Commissione, quale organismo indipendente dai governi nazionali ma legato
alla maggioranza politica espressa dal Parlamento europeo, è del tutto esclusa dall’eser-
cizio della funzione. Altrettanto netta è la distinzione dalle ipotesi nelle quali l’esecuzione
della regolazione europea è affidata ad un sistema comune composto da autorità indipen-
denti nazionali e coordinate dalla sola Commissione, senza che sia istituita un’agenzia euro-
pea, come avviene nel settore della concorrenza». Si rinvia anche a C. TOVO, op. cit., pp. 48 ss.
43

una categoria di agenzie diverse. In tal modo il decentramento viene ad as-


sumere una forma di contropartita per l’espansione dell’amministrazione eu-
ropea e l’accentramento delle funzioni esecutive derivanti dalle istituzioni
delle nuove agenzie.
Pertanto, come si diceva, il modello delle autorità indipendenti nel qua-
dro europeo, emerge man mano che arretra il peso specifico delle agenzie:
l’indipendenza viene, infatti, sempre più a caratterizzare tutti gli uffici, com-
presi quelli nazionali, in funzione esecutiva-amministrativa europea. Invece,
il riconoscimento dell’autonomia delle agenzie, come sancito dalla giuri-
sprudenza della Corte di giustizia, è quella che definisce le agenzie come
«regolatore indipendente» pur dovendo tener conto che l’indipendenza di cui
si parla è, come si diceva in precedenza, un’indipendenza funzionalmente
orientata all’efficace perseguimento degli obiettivi statutari, volta a proteg-
gere le istituzioni e i suoi organi decisionali da influenze esterne che potreb-
bero interferire con l’assolvimento dei loro compiti 58. La Corte ha sovente
sostenuto che, in virtù di tale natura funzionale, il riconoscimento della per-
sonalità giuridica e delle disponibilità delle risorse proprie in capo ad un de-
terminato ente, costituiscono fattori in grado di attribuire e rafforzare
l’indipendenza sancite dalle norme istitutive. Si deve tuttavia tener presente
che la nozione europea d’indipendenza e la dimensione istituzionale dell’au-
tonomia sono sempre subordinate a quella funzionale, il ché conferma la tesi
assunta. Si veda, a conferma di ciò, come nell’allegato alla risoluzione del
Parlamento europeo del 15.1.2013, avente a oggetto raccomandazioni alla
Commissione sul diritto dell’Unione europea in materia di procedimenti
amministrativi (2012/2024 (INL)), il requisito di indipendenza delle ammi-
nistrazioni dell’Unione è coniugato col principio di imparzialità che può es-
sere sintetizzato su quattro punti: la non arbitrarietà dell’azione pubblica, la
sua finalizzazione all’interesse dell’Unione, l’assenza di condizionamenti
derivanti da interessi personali o nazionali e la promozione del giusto equili-

58
Si rinvia sul punto a G. AMATO, Autorità semi-indipendente ed autorità di garanzia, in
Riv. trim. dir. pubbl., n. 3/1997, pp. 659 ss. Fin da allora osservava Amato che l’esercizio dei
poteri da parte delle agenzie decentrate, analogamente a quanto avviene nel caso delle auto-
rità amministrative indipendenti, è inquadrabile in procedure disciplinate nei loro elementi
fondamentali da atti legislativi e presuppone una precedente attività di indirizzo generale e il
conferimento di ambiti di regolazione da parte del legislatore. Secondo l’A. questo potere di
derivazione espone l’autorità al rischio di correzioni legislative da parte del Parlamento che
potrebbero far venir meno l’indipendenza funzionale. Sul punto si rinvia anche a C. TOVO,
op. cit., p. 56, il quale, sulla base delle pronunce della Corte di giustizia che hanno confer-
mato il carattere strumentale relativo della nozione comunitaria d’indipendenza, ritiene che
detta nozione faccia sì che la dimensione istituzionale dell’autonomia sia subordinata a quel-
la funzionale «il carattere dell’imparzialità in altri termini prevale sulla separatezza».
44

brio fra gli interessi delle diverse parti. Proprio da tale risoluzione emerge il
carattere «funzionalmente orientato» che la nozione d’indipendenza acquista
nell’Unione, incentrata sul concetto di terziarietà e di neutralità degli inte-
ressi coinvolti nei quali tali agenzie operano, in modo da garantire il regolare
funzionamento del sistema.
Si appalesa che la nozione di autonomia e quella della personalità giuri-
dica, hanno carattere biunivoco: l’attribuzione della personalità implica il
riconoscimento dell’autonomia ma quest’ultima costituisce, al tempo stesso,
uno degli elementi costitutivi della prima 59. L’autonomia istituzionale delle
agenzie si manifesta, tuttavia, con il conferimento di competenze di organiz-
zazione interna all’ente, mediante l’adozione di un regolamento interno.
Infine, stante la mancata previsione da parte dei trattati ci si è posti il
problema del rapporto tra le agenzie e le nozioni di «organo» ed «organi-
smo», sovente utilizzati nell’ordinamento comunitario. Si osservi che, per
organo in genere, s’intende un centro di potere il cui esercizio dà luogo ad
atti e rapporti imputabili alla Comunità; la nozione di organismo, invece,
presuppone un ente distinto dall’organizzazione comunitaria, sotto il profilo
dell’imputazione giuridica della propria attività ma caratterizzato da una
«funzione di sussidiarietà rispetto a essa». Prendendo a parametro i sopra
esposti concetti, si perviene all’affermazione che le agenzie possono essere
definite come organismi dell’Unione; il legislatore europeo ha, infatti, inteso
espressamente far riferimento alla loro natura di centro d’imputazione distin-
to dall’apparato dell’Unione stessa, quant’anche strumentale al consegui-
mento dell’esercizio dei compiti affidati alla Comunità.
Fatte queste premesse, non certo con intenti esaustivi, in merito ai carat-
teri propri che in genere sono rinvenibili nelle agenzie esecutive, occorre os-
servare che, l’assetto delle stesse, apparentemente consolidato, è venuto via
via a modificarsi: ciò è imputabile alla spinta delle agenzie ad accentuare la
loro indipendenza rispetto alle istituzioni politiche, compresa la Commissione.
Negli ultimi anni, a seguito della crisi finanziaria del 2008, il modello di
agenzia europea è andato a implementarsi e a differenziarsi; ciascuna di que-
ste agenzie, istituite con regolamento, presenta caratteri precipui e non sem-
pre connessi all’esecuzione.
Pertanto, ciò che s’intendeva e s’intende evidenziare, è appunto lo sche-
ma generale delle agenzie quale modulo collegato all’esecuzione in materia

59
C. TOVO, op. cit., p. 50. «Così l’ordinanza 14 Novembre 1963, Lassalle/Parlamento,
15/63, EU:C:1963:47, nel secondo punto delle motivazioni, secondo la quale tra gli elementi
che “costituiscono il fondamento” della personalità giuridica “vanno in ispecie annoverati
l’autonomia e la responsabilità, sia pure entro un ambito limitato”».
45

comunitaria: da qui è evidente la connessione tra il modello dell’agenzia e la


figura organizzativa della rete 60. L’Unione europea partecipa sempre più ai
processi d’azione delle proprie politiche non solo in modo continuativo ma
anche diretto; il maggior coinvolgimento delle autorità sovranazionali nella
fase di esecuzione è un dato di fatto che incide soprattutto sulla funzione
amministrativa. Pur dovendo prendere atto di una parziale fusione tra i due
livelli di competenza, sono venute a implementarsi, soprattutto nell’ultimo
periodo, soggetti di diversa estrazione e natura operanti a diversi livelli terri-
toriali con differenti funzioni e responsabilità, tutte però ontologicamente
rivolte alla realizzazione dell’obiettivo comune. L’esempio più noto è quello
dell’informazione ambientale prevista nel Regolamento n. 1210/1990, in se-
guito modificato in base oggi agli artt. 191 ss. TFUE, dove l’assunzione a
livello comunitario della funzione della tutela dell’ambiente ha fatto sì che si
venisse a creare un’organizzazione denominata «Rete europea di informa-
zione e di osservazione ambientale» (Eionet) nella quale, in collegamento
con l’agenzia europea per l’ambiente, opera una pluralità di uffici e di sog-
getti, sia di natura sovranazionale sia di natura nazionale, che concorrono
all’attività di acquisizione dell’informazione in materia. Com’è stato osser-
vato 61, attraverso la figura organizzativa della rete si realizza una comparte-
cipazione di vari soggetti, compresi gruppi d’interesse, attori sociali, ammi-
nistrazioni nazionali e agenzie europee, i quali vengono aggregati in una
funzione che non è né sovranazionale né nazionale ma diretta alla soluzione
di problemi tecnici che sorgono per la realizzazione del mercato comune e
quindi in funzione della collettività. Così si crea un collante che riunisce
amministrazioni separate, operanti nello stesso settore, realizzando un’inte-
grazione di natura strutturale incidente sulla funzione amministrativa in mo-
do da assicurare il migliore ed uniforme rapporto tra i diversi livelli di Go-
verno.
L’elemento caratterizzante delle reti è che di esse fanno parte anche sog-
getti portatori d’interessi specifici in materia che, tuttavia, attraverso uno
scambio d’informazioni, perseguono una loro aggregazione funzionale per il
raggiungimento del fine comune. Non è individuabile un centro organizzati-
vo in quanto esse operano come modelli di coordinamento; il fatto stesso

60
Si veda M. PERASSI, Regolatori comunitari e nazionali nello scenario europeo. Model-
li decentrati e a rete, in Analisi giur. econ., Rivista web, n. 2/2002, p. 505. Rileva l’A. come
«… talvolta la rete può essere vista come un soggetto unitariamente responsabile della rac-
colta e analisi di dati e successivamente dell’elaborazione di dati affidabili e comparabili;
un soggetto che opera per effetto dell’attività di coordinamento dell’agenzia».
61
C. FRANCHINI, L’organizzazione amministrativa dell’Unione europea, cit., pp. 223 ss.
46

che l’esercizio delle funzioni venga attribuito a soggetti non solo pubblici
ma anche privati, comporta una concezione plurilaterale dell’attività pubbli-
ca venendo ad evidenziarsi la perdita del centro della titolarità della funzio-
ne. Alcuni caratteri di questa figura organizzativa possono essere rinvenuti
anche nei sistemi comuni formati da autorità indipendenti nazionali che si
aggregano a livello ultra statale per condividere la funzione di regolamenta-
zione e di vigilanza dei mercati, incidendo sul processo sia di formazione sia
di attuazione (ed è questo l’aspetto che più ci interessa) del diritto europeo.

1.2. L’ESERCIZIO CONGIUNTO DELLE FUNZIONI AMMINISTRATIVE: LA «COAM-


MINISTRAZIONE» O «REGOLAZIONE PARALLELA»

Dagli anni ’90 vengono a crearsi da parte delle istituzioni, nuovi uffici,
incaricati di gestire e coordinare sistemi amministrativi composti di autorità
nazionali e sovranazionali, operanti sia nei vari settori economici sia nel
campo dei settori sociali. Si osservi come, sotto il profilo funzionale queste
strutture, si caratterizzano per l’esercizio di specifici compiti di natura tecni-
ca e non discrezionale (come nelle esperienze precedenti) con l’obiettivo di
migliorare la cooperazione tra il livello nazionale e quello europeo; la novità
sta nel fatto che, sotto il profilo istituzionale, tali organi si pongono come
amministrazioni interne all’ordinamento europeo che agiscono in via auto-
noma giacché poste al di fuori dell’apparato amministrativo della Commis-
sione in senso stretto, quant’anche a essa collegate. La scelta di modelli di
«coamministrazione» è quella di razionalizzare l’esercizio di talune funzio-
ni, talvolta assicurando un regime giuridico sovranazionale che si affianca,
con modalità differenti, a quella propria degli Stati membri, altre volte modi-
ficando la disciplina europea preesistente e migliorando la distribuzione dei
compiti tra le varie autorità. Il vero è che, attraverso tali modelli, si viene a
operare un decentramento dell’attività della Commissione per la gestione di
taluni settori, richiedenti un’integrazione tra funzionari europei e i vari uffici
titolari di attribuzioni a diversi livelli 62. A differenza del modello di esecu-

62
Si osservi come a seguito della crisi finanziaria, con regolamenti del Parlamento euro-
peo e del Consiglio n. 1093/2010, 1094/1010 e 1095/2010 del 24 novembre 2010, sono state
istituite rispettivamente l’Autorità bancaria europea, l’Autorità europea delle assicurazioni,
delle pensioni aziendali e professionali e l’Autorità europea degli strumenti finanziari del
mercato. Queste nuove autorità sono tendenzialmente autonome rispetto alle istituzioni poli-
tiche; hanno potere di vigilanza micro prudenziale, fanno parte del sistema europeo di Auto-
rità di vigilanza finanziaria, composta dal Comitato europeo per il rischio sistemico CERS,
costituito dal Regolamento del Parlamento europeo e dal Consiglio n. 1092/2010 del 24 no-
vembre 2010.
47

zione indiretta per l’attuazione delle politiche comunitarie, in questo caso si


ha un’autorità interna che esercita un’attività per conto di un’istituzione
dell’Unione; nella coamministrazione è un soggetto nazionale al quale viene
attribuito in modo formale il compito di svolgere in proprio una determinata
azione che si rivela necessaria per lo svolgimento della funzione comunita-
ria. Si perviene cioè alla necessità di ampliare le strutture idonee a favorire
l’integrazione tra ordinamenti, di conseguenza, a livello nazionale è emersa
l’esigenza di adeguare il sistema amministrativo interno a quello sovranazio-
nale, sia con riferimento agli aspetti organizzativi sia a quelli procedimentali.
Il modello che viene ad emergere in questi ultimi anni, è un modello di
«coamministrazione» nel quale si viene a riconoscere una contitolarità delle
competenze tra amministrazione europea e quella nazionale; si dà luogo ad
una struttura regolatoria indipendente, volta a realizzare l’esercizio congiun-
to delle funzioni amministrative che coinvolge più livelli. Anche questo svi-
luppo, o meglio questo modello, deriva dalla espansione delle funzioni
dell’Unione europea nonché dalla conseguente espansione del diritto comu-
nitario che si riverbera sia sul livello organizzativo sia sul livello procedi-
mentale. Con riferimento a quest’ultimo, si deve prendere atto della sempre
maggiore diffusione di sistemi che impongono l’osservanza di regole comu-
ni alle amministrazioni nazionali sicché, verrebbero a dover essere disappli-
cate le disposizioni normative interne che contrastino col livello comunita-
rio 63. Sotto il profilo organizzativo questi modelli di «coamministrazione» si

63
Si veda quanto disposto dalla Corte di giustizia nel caso Simmenthal C-106/1977. Con
questa pronuncia, la Corte stabiliva che «in forza del principio della preminenza del diritto
comunitario le disposizioni del Trattato e gli atti delle istituzioni, qualora siano direttamente
applicabili, hanno l’effetto, nei loro rapporti col diritto interno degli Stati membri, non solo
di rendere ipso iure inapplicabile, per il fatto stesso della loro entrata in vigore, qualsiasi
disposizione contrastante della legislazione nazionale preesistente, ma anche – in quanto
dette disposizioni e detti atti fanno parte integrante, con rango superiore rispetto alle norme
interne, dell’ordinamento giuridico vigente nel territorio dei singoli Stati membri – di impe-
dire la valida formazione di nuovi atti legislativi nazionali, nella misura in cui questi fossero
incompatibili con norme comunitarie». In altre parole, la disposizione europea, giacché fonte
direttamente applicabile, prevale sulla norma interna, anche se successiva; di conseguenza il
giudice nazionale ha «… l’obbligo di applicare integralmente il diritto comunitario e di tute-
lare i diritti che questo attribuisce ai singoli, disapplicando le disposizioni eventualmente
contrastanti della legge interna, sia anteriore sia successiva alla norma comunitaria».
l’estensione del principio della superiorità del diritto comunitario anche sotto il profilo am-
ministrativo con la sentenza Ciola C-224/1997; La Corte di giustizia ha infatti precisato, in
tale ultima sentenza, che il diritto dell’Unione è idoneo a imporsi, in generale, su qualsiasi
atto o fatto avente valore «normativo», rispetto alle norme costituzionali degli Stati membri
ma anche sugli atti amministrativi a carattere particolare. Sul punto, C. FRANCHINI, Ammini-
strazione italiana e amministrazione comunitaria. La coamministrazione nei settori di inte-
48

caratterizzano per l’istituzione di strutture che consentono lo svolgimento


congiunto di attività le quali, pur essendo espressione di una medesima fun-
zione, sono tuttavia ripartite tra più soggetti per il perseguimento di un fine
realizzabile soltanto in virtù del loro contestuale intervento. Tutto ciò ha de-
terminato la diffusione dei c.d. «procedimenti compositi» che si articolano
in fasi nazionali e comunitarie consentendo anche alle istituzioni dell’Unio-
ne europea di assumere un ruolo più incisivo circa l’esecuzione del dettato
normativo rispetto alle passate esperienze; tale modello si caratterizza per la
presenza simultanea di più elementi: innanzi tutto vi deve essere un’attribu-
zione della titolarità della funzione a soggetti distinti che operano in stretta
connessione tra loro nonché un rapporto di necessarietà in quanto l’attività
di un soggetto è essenziale per gli altri. Ci si trova di fronte a una distribu-
zione della funzione su due livelli: quello comunitario e quello nazionale,
che sono inscindibilmente collegati in quanto «funzionalmente connessi» 64.
Un secondo elemento che caratterizza detto modello, è quello «finalistico»,
infatti, la contitolarità della funzione risponde alle esigenze di conseguire
uno scopo unitario poiché volto a soddisfare l’interesse sia della Comunità
sia degli Stati membri. Tuttavia, occorre sempre rammentare che il modello
della coamministrazione si caratterizza per la necessità di un’espressa previ-
sione normativa comunitaria, che predisponga l’affidamento a un’autorità di
livello nazionale dei compiti previsti per l’effettiva realizzazione degli obiet-
tivi da perseguire.
L’affermazione del modello di «coamministrazione» ha favorito la diffu-
sione di regole e principi uniformi che investono tutte le pubbliche ammini-
strazioni cosicché, anche sotto questo profilo, si assiste all’integrazione dei
diversi sistemi amministrativi. Va da sé che la gestione congiunta degli in-
terventi comunitari comporta tendenzialmente l’utilizzo di una disciplina
comune e unitaria, che raccoglie in un rapporto d’integrazione, fonti e attivi-
tà di diversa estrazione: «se da un lato, l’azione comunitaria si realizza an-
che mediante la partecipazione delle autorità nazionali e, dall’altro, struttu-

resse comunitario, in A. D’ATENA (a cura di), Studi in onore di Pierfrancesco Grossi, Ce-
dam, 2012, p. 178.
64
E. CHITI-C. FRANCHINI (a cura di), L’integrazione amministrativa europea, cit., pp. 66
ss. «Oltre che per la contitolarità della funzione e per il fine unitario, il modello della
coamministrazione si distingue per la necessità di una espressa previsione normativa comu-
nitaria che sancisca l’affidamento ad un’autorità a livello nazionale dei compiti previsti per
l’effettiva realizzazione degli obiettivi da perseguire. La scelta di costituire ex novo un or-
ganismo specifico serve a mantenere l’unicità della funzione ai fini della tutela dell’in-
teresse comunitario, evitando oltretutto qualsiasi contrasto, anche solo potenziale, con si-
tuazioni nazionali già consolidate».
49

re degli Stati membri vengono usate dalle istituzioni dell’Unione europea,


diventa difficile operare qualsiasi separazione tra il sistema comunitario e
quelli nazionali» 65.
Secondo la dottrina prevalente, le principali forme d’integrazione risulta-
no sostanzialmente tre: «l’istituzione di strutture generali rivolte verso la
Comunità a livello centrale e la previsione di forme di cooperazione a livel-
lo decentrato, nella fase preparatoria delle misure comunitarie; l’afferma-
zione di un modello di esercizio congiunto delle funzioni comunitarie, defi-
nibili di coamministrazione, che riguarda la fase discendente, di esecuzione
delle misure adottate; l’emersione nei casi più avanzati di integrazione am-
ministrativa, che danno luogo ad un secondo e più sofisticato modello di
esercizio congiunto delle funzioni comunitarie, distinto dalla coamministra-
zione e qualificabile di integrazione decentrata» 66. A questi vanno oggi ag-
giunti fenomeni quali quelli della costituzione di «autorità amministrative
indipendenti» e dell’integrazione tra le «autorità amministrative indipendenti
nazionali» e quelle comunitarie: una volta fenomeni embrionali, successi-
vamente divenuti fenomeni che, in taluni settori del mercato interno, assu-
mono rilievo specifico. Infatti, accanto [se non al posto] del tipo tradizionale
di «agenzia ausiliaria» si assiste a un nuovo tipo di organismo nel quale «la
cooperazione amministrativa si svolge tra Autorità indipendenti nazionali e
lo stesso organismo comunitario chiamato ad operare indipendentemente
tanto dai privati quanto dalle istituzioni politiche dell’Unione, inclusa la
Commissione» 67. La questione di chi adotti atti puntuali nell’ambito dell’or-
ganizzazione europea va in definitiva risolta secondo quanto stabilisce il
TUE: a secondo della materia è facilmente riscontrabile una potestà esecuti-
va, sia per la Commissione che per le agenzie, nelle materie di competenza
esclusiva. Com’è stato osservato ciò vale innanzi tutto in quelle materie che
afferiscono l’organizzazione e il funzionamento delle istituzioni europee,
quale ad esempio le varie disposizioni dello Statuto dei Funzionari nonché il
regime applicabile agli agenti dell’Unione. Rimane poi il ruolo esecutivo at-
tribuito alla Commissione nella materia della concorrenza. Tuttavia, anche

65
C. FRANCHINI, op. cit., p. 71.
66
E. CHITI, op. cit., p. 50. «Inoltre, il completo svolgimento dell’attività dell’organismo
ultra statale ha posto in piena evidenza la natura anche amministrativa della Commissione,
mentre l’inventiva istituzionale delle autorità comunitarie ha prodotto la prima significativa
forma di integrazione amministrativa tra ordinamenti degli Stati membri e ordinamenti delle
Comunità europee, quella dei comitati che affiancano le istituzioni in processi decisionali
sempre più tecnici e complessi, esprimendo la competenza riunita della burocrazia degli
Stati membri di fronte alla Commissione».
67
E. CHITI, op. ult. loc. cit.
50

per tale materia la tradizionale impostazione in termini di «amministrazione


diretta» tende a sfumare (stante il carico dei lavori della Commissione) in
forme di riparto di competenza tra i terminali europei e nazionali dell’am-
ministrazione.
In altre materie, apparentemente di competenza esclusiva dell’Unione, il
ruolo dell’amministrazione nei Paesi membri, rimane tuttavia preponderante.
Non esiste quindi una correlazione tra competenze esclusive dell’Unione e
amministrazione diretta. In via di massima semplificazione, il peso e il ruolo
delle amministrazioni degli Stati membri è senz’altro prevalente nelle mate-
rie di competenza concorrente ma la regola non è una regola assoluta.
A ben vedere la regola sopra richiamata non esclude che molto spesso
l’art. 114 TFUE, costituisca la base giuridica per l’adozione di direttive, le
quali richiedono un’attuazione normativa prima che amministrativa a livello
nazionale. In ogni caso l’esercizio delle competenze, anche amministrative,
stante il fatto che le clausole attributive di competenza dei trattati normal-
mente non distinguono tra tipologia di competenze, è sottoposto a una serie
di vincoli di diversa natura; i principi di sussidiarietà e proporzionalità, ri-
chiamati già nelle disposizioni del TUE per definire le competenze delle isti-
tuzioni europee, introducono ulteriori garanzie per gli Stati membri in quan-
to applicabili anche al settore amministrativo.
Il fulcro del problema oggi è che il diritto europeo richiede criteri di valu-
tazione volti a stabilire se i modelli nazionali di attuazione e le regole di ese-
cuzione siano coerenti con gli obiettivi dell’Unione. Va da sé ad esempio
che l’integrazione dei mercati europei deve predisporre al completamento
del mercato unico, tuttavia tale determinazione, presuppone un consenso dif-
fuso sulle distribuzioni di competenza tra il livello europeo e quello naziona-
le. Risulta inevitabile la ricerca di un equilibrio tra regole ed eccezioni rin-
venibile nell’interpretazione dei trattati europei da parte della Corte di giu-
stizia, soprattutto sotto il profilo dell’espansione/applicazione dei criteri di
sussidiarietà e proporzionalità nonché nella negoziazione dei margini di di-
screzionalità per l’attuazione delle direttive. Le soluzioni regolatorie più in-
novative, come le varie forme di co-regolamentazione, sembrano al momen-
to l’unica risposta volta a garantire una distribuzione di competenze tra livel-
lo nazionale e livello europeo. Se la regolamentazione europea non può fare
a meno di modificare il ruolo dei regolatori nazionali, la portata di tale cam-
biamento dovrebbe essere calibrata sulle capacità istituzionali dei due livelli
e sulla loro flessibilità. Un siffatto ragionamento implica l’identificazione
dei fattori che impediscono alle istituzioni europee di regolare efficacemente
un determinato mercato.
Proprio con riferimento a tale ultimo aspetto, varie sono le linee di pen-
51

siero emergenti dalla dottrina: in primo luogo le teorie della governance


multi-livello che pongono l’accento sul fatto che l’elaborazione e attuazione
delle politiche europee dipendono sostanzialmente dalla modalità di coordi-
namento fra i diversi attori istituzionali; in secondo luogo si è sottolineato
che la capacità di regolare efficacemente i mercati, dipende da meccanismi
che consentono di evitare paralisi decisionali sia a livello nazionale sia a li-
vello europeo. Con l’imporsi del diritto amministrativo europeo lo stesso si
riverbera in modo specifico nella regolamentazione relativa alle libertà eco-
nomiche in generale o meglio nei mercati aventi ad oggetto la libertà di cir-
colazione di beni, persone, servizi e capitali. Tali libertà si presentano oggi
disciplinate non solo da normative europee ma da atti amministrativi che
trovano la loro legittimazione nella stessa normativa europea e che impon-
gono modelli amministrativi per l’applicazione-esecuzione nelle materie in
cui ha inciso l’Unione europea. Si è ben consci che ognuna delle quattro li-
bertà racchiude tematiche e/o mercati aventi profili peculiari, peraltro carat-
terizzati da un livello di omogenizzazione normativa differente implicando,
di conseguenza, differenti moduli amministrativi, per cui non è possibile
analizzarli in modo totalizzante ma si vuole, alla luce dell’evoluzione della
fase esecutiva di matrice comunitaria, verificare come questa si ponga in al-
cuni dei profili che sono racchiusi nelle singole libertà.
52
53

CAPITOLO II
EVOLUZIONE DEL PRINCIPIO DI CONCORRENZA
ED EFFETTI NELLA REGOLAMENTAZIONE
AMMINISTRATIVA DELLE LIBERTÀ ECONOMICHE

SOMMARIO: 1. Principio di concorrenza: quale cornice giuridico-amministrativa delle libertà


economiche. – 1.1. Diritto antitrust: amministrazione parallela e/o contestuale. – 1.2. Le
concentrazioni e i cartelli: amministrazione indiretta. – 1.3. La regolamentazione delle
politiche comunitarie a favore delle PMI: il tipo di amministrazione e il ruolo degli Stati
membri. – 1.4. Aiuti di Stato: effetto diretto orizzontale e ruolo delle amministrazioni
nazionali. – 1.5. I servizi d’interesse economico generale e la concorrenza. – 1.6. Il di-
lemma della regolazione nel settore della «domanda pubblica».

1. PRINCIPIO DI CONCORRENZA: QUALE CORNICE GIURIDICO-AMMINISTRA-


TIVA DELLE LIBERTÀ ECONOMICHE

Nell’analizzare l’evoluzione delle libertà di circolazione di beni, servizi e


capitali, evidenziando il profilo esecutivo, occorre tener presente come le li-
bertà economiche debbano essere trattate nel quadro di un principio di con-
correnza ovvero di un’economia aperta e di mercato. Il principio di concor-
renza, di per sé, rappresenta lo sfondo nel quale devono essere inseriti tutti i
profili, anche di carattere esecutivo, relativi all’esercizio delle libertà eco-
nomiche; ciò, peraltro, non smentisce il carattere «politico» della costruzio-
ne dell’Unione europea, tuttavia, nell’ambito di tale disegno, il principio di
concorrenza è elemento che connota l’economia del mercato unico. A tal fi-
ne, pare opportuno richiamare sia pure per sommi capi, lo sviluppo storico
di detto principio, il quale rappresenta la struttura e le fondamenta della poli-
tica europea della concorrenza risalente agli anni ’50 e ’60. In verità, nono-
stante si voglia accomunare la disciplina della concorrenza con l’esperienza
nata nell’USA, necessita di essere sottolineato come in Europa il diritto alla
concorrenza porta in sé una moltitudine di tensioni che rende detto principio
«diverso» rispetto agli Stati Uniti. Basti pensare che inizialmente l’applica-
zione della disciplina della concorrenza era connessa con l’obiettivo dell’in-
54

tegrazione del mercato comune e quindi con una finalità di natura politica e
non di natura meramente economica 1; nello stesso tempo l’accento veniva
posto sulla salvaguardia del processo competitivo nonché sulla tutela della
libertà economica. Questi ultimi due obiettivi sono influenzati dalle prospet-
tive della scuola ordoliberale 2, che costituisce un approccio giuridico eco-
nomico del diritto della concorrenza sostanzialmente diverso dalla disciplina
antitrust americana. Solo negli anni successivi il diritto comunitario sulla
concorrenza si è gradualmente evoluto verso finalità efficientistiche, venen-
dosi a sottolineare soprattutto l’obiettivo di accrescere il benessere dei con-
sumatori; ma accanto a questo obiettivo non si può non prendere in esame
l’ampio spettro di finalità politiche che rimane presente nello sviluppo della
materia 3. Il vero è che esiste una netta interdipendenza tra la politica della
concorrenza e le altre politiche, quale ad esempio la politica ambientale e
quella sociale; cosicché i soli modelli economici, basati sulla teoria dei prez-
zi e dei giochi, non sono in grado di fornire un adeguato orientamento al-
l’Unione.
Il primo riferimento normativo è rinvenibile negli artt. 65 e 66 del Tratta-
to sulla Comunità europea per il carbone e l’acciaio-CECA (1951); il secon-
do e più incisivo richiamo a tale principio è rinvenibile nell’art. 3, lett. f) del
Trattato istitutivo delle Comunità europee CEE (1957) che prevedeva, tra gli
altri obiettivi, quello di «garantire una libera concorrenza nel mercato co-
mune». A questa finalità erano originariamente dedicati gli artt. 85 e 94 del
Trattato CEE «che, fortemente influenzati dalla legge antitrust americana,

1
G. AMATO, Il potere e l’antitrust, Il Mulino, 1998, p. 13. Si veda, altresì, R. VAN DEN
BERGHE-A. GIANNACCARI, L’approccio più economico nel diritto comunitario della concor-
renza, in Mer., conc., reg., anno XVI, n. 3/2014, p. 395.
2
Le autorità alleate di occupazione decisero nel dopoguerra di importare in Europa la di-
sciplina antitrust nordamericana; da qui la tesi, sovente sostenuta che le norme comunitarie
sulla concorrenza siano state modellate sulla scorta dei divieti previsti dallo Sherman Act. I
principi di concorrenza nell’ordinamento comunitario, sono stati in verità influenzati dalla
scuola ordoliberale di Friburgo elaborando un approccio originale per individuare la forma
più consona di politica di concorrenza e proponendo linee guida per definire le norme giuri-
diche più appropriate. Secondo la scuola di Friburgo la concorrenza avrebbe dovuto proteg-
gere gli individui dal potere economico privato e tale libertà, insieme alle libertà politiche,
dovevano rappresentare il punto centrale della costituzione economica della società. Così era
condivisa la prospettiva fondante del liberalismo classico: la concezione della libertà econo-
mica quale corollario della libertà politica. Tuttavia, si discostano dal pensiero liberale tradi-
zionale per la mancanza di fiducia in un mercato non regolamentato, al fine di conseguire i
benefici della concorrenza. Da qui la necessità di disporre d’un quadro giuridico che disci-
plinasse le condotte scaturenti dal mercato che si ponessero in contrasto col principio stesso.
3
Si rinvia a N. IRTI, L’ordine giuridico del mercato, Laterza, 2004, pp. 31 ss.
55

avrebbero dovuto combattere i cartelli, gli accordi restrittivi, e l’abuso di


posizione dominante» 4. Occorre rammentare che nel 1957 nessun Paese
membro disponeva d’una normativa interna a tutela della concorrenza, al-
meno nel senso di divieto delle intese e di abuso di posizione dominante
quale comportamento anti concorrenziale; solo nel 1958 la Germania si dotò
di una normativa antitrust nazionale. Com’è stato osservato, la situazione
culturale europea in quel momento, risentiva dell’impostazione che vedeva i
cartelli tra le imprese come modalità usuale di esercizio di iniziativa econo-
mica privata; impostazione, questa, consequenziale allo sviluppo industriale
europeo e di «cartellizzazione» dell’economie nazionali che ha avuto nel pe-
riodo della seconda guerra mondiale, il suo massimo sviluppo. «… Concre-
tamente il sistema del Reg. 17/62 creò nel 1962, a poco più di quindici anni
dalla conclusione della seconda guerra mondiale, un sistema che permise
questo cambiamento “culturale”» 5. In ogni caso, i divieti a tutela della con-
correnza, contenuti sia nel Trattato CECA sia nel Trattato CEE – sia pure in
modo differente – rappresentano il primo caso in cui la concorrenza tra le
imprese è individuata come principio base dello spazio europeo, quant’an-
che frutto di compromessi soprattutto tra Germania e Francia. Non sorpren-
de quindi che uno degli scopi principali dell’Unione sia l’instaurazione di un
mercato interno imperniato sul corretto gioco della concorrenza.
Dalla centralità attribuita all’integrazione dei mercati dal Trattato di Ro-
ma, la politica della concorrenza è venuta ad assumere il ruolo di pre-
requisito fondamentale per la creazione del mercato unico; ciò in quanto si è
ritenuto che, in un sistema di mercato aperto, la libera concorrenza produca
innanzi tutto l’effetto di indurre le imprese a compiere ogni sforzo per forni-
re innovazione e miglioramento della qualità dei prodotti. La concorrenza
altresì ha la funzione di escludere dal mercato le imprese inefficienti, pro-
muovere la differenziazione dei prodotti, arricchendo le alternative fruibili
dal consumatore nonché evitare un’eccessiva concentrazione del potere eco-

4
L. MC GOWANS, La politica della concorrenza, in S. FABBRINI-F. MORATA (a cura di),
L’Unione europea. Le politiche pubbliche, Laterza, 2002, pp. 58 ss. Merita di essere osserva-
to che l’influenza americana non è stata solo un’influenza derivante da una disciplina anti-
trust già emanata, ma si è trattato di una vera e propria influenza politica anche da parte dei
giuristi statunitensi, presenti nella sede dell’ambasciata americana di Parigi, che fornirono
aiuto nella redazione dei divieti. Si veda L.F. PACE, I fondamenti del diritto antitrust euro-
peo: norme di competenza e disciplina applicativa dalle origini alla costituzione euoropea,
Giuffrè, 2005, p. 52.
5
L.F. PACE, La nascita del diritto della concorrenza in Europa: la redazione degli arti-
coli 85 e 86 CEE e il Reg. 17/1962, in L.F. PACE (a cura di), Dizionario sistematico del dirit-
to della concorrenza, Jovene, 2013, pp. 4 ss. La redazione del Regolamento n. 17/1962, rap-
presenta il primo regolamento di attuazione delle norme di concorrenza della CEE.
56

nomico in capo a pochi soggetti, favorendo così l’accesso al mercato e l’af-


fermazione degli operatori più efficienti. È evidente come tali principi siano
desunti dalle teorie economiche neo-classiche anzi, proprio da queste il dirit-
to europeo mutua, in un primo momento, l’idea della concorrenza come va-
lore primario idoneo a garantire l’efficiente funzionamento del mercato 6.
Coerente con tale impostazione è l’attribuzione di un ruolo attivo delle auto-
rità regolative nell’assicurare il buon funzionamento del mercato stesso.
La politica della concorrenza implica un intervento di regolazione per-
manente contro le tendenze naturali dei mercati a mantenere le posizioni di
potere acquisite dalle imprese. Tale obiettivo può essere raggiunto esclusi-
vamente con l’introduzione di regole efficaci, ovvero una serie di norme atte
a garantire che le imprese si facciano concorrenza in maniera leale; secondo
quest’impostazione, le imprese che svolgono la loro attività all’interno di un
mercato devono lavorare sullo stesso piano, senza che l’attività di una possa
influenzare le azioni delle altre 7. Questo, da un lato, ha sicuramente stimola-
to l’iniziativa e lo spirito imprenditoriale: un potenziale imprenditore do-
vrebbe sentirsi più tutelato nell’operare in un mercato disciplinato in cui gli
sia garantito che nessun operatore possa distorcere la domanda dei consuma-
tori, inoltre anche gli stessi consumatori, verrebbero a ottenere taluni van-
taggi quali la riduzione dei prezzi e il controllo della qualità.
Col Trattato di Lisbona si assiste al fatto che la concorrenza non è conte-
nuta nel testo del trattato bensì «relegata» nel protocollo (sulla scorta di
quanto prevedeva la c.d. Costituzione europea); da qui nascono, da parte de-
gli studiosi, alcune riflessioni in quanto, prendendo atto della nuova colloca-

6
M. LIBERTINI, voce Concorrenza, in Enc. dir., Milano, 2010, pp. 191 ss. (specifica-
mente, pp. 222 ss.). Occorre osservare come l’influenza di queste teorie, si diffusero in Ger-
mania presso la Scuola di Friburgo, dopo la seconda guerra mondiale, trovando la propria
principale esposizione in F. BÖHM, Freiheit und Ordnung, Baden-Baden, 1980; W. EUCKEN,
Die Grundlagen der Nationalökonomie, Springer Verlag Berlin, Heidelberg, 1989. Il Volu-
me fu pubblicato per la prima volta nel 1940 e fin da allora vennero indicate le basi della
Scuola di Friburgo; W. RÖPKE, Die Krise des Kollektivismus, München, 1947. Esse si fon-
dano sull’idea che «la politica della concorrenza» si debba spostare dalla dimensione
«dell’intervento punitivo» – deviante «dall’ordine naturale delle cose» – verso «un interven-
to amministrativo permanente di promozione, contro le tendenze naturali dei mercati a irri-
gidirsi nella difesa delle posizioni di potere». Così M. LIBERTINI, op. cit., p. 216.
7
Il ruolo attivo delle autorità regolative è assunto in assonanza ai dettami del pensiero ordoli-
berale della scuola di Friburgo. In ogni caso, occorre sottolineare come il mercato, «da mero luo-
go deputato allo svolgimento dell’attività economica e di scambio, è divenuto una istituzione, con
finalità e mezzi propri». M. LIBERTINI, op. cit., p. 192. Parallelamente occorre far riferimento a N.
IRTI, op. cit., p. 99, il quale sottolinea come «[…] il mercato è un locus naturalis, ma un locus
artificialis, ossia un sistema di relazioni governato dal diritto: insomma non un istituto originario
e spontaneo, ma un istituto giuridico. Il mercato non è trovato, ma costruito dal diritto».
57

zione, desumono che detto principio sia divenuto un «mero mezzo» e non il
«fine» dell’economia europea 8: il passaggio da mezzo a obiettivo ha avuto
effetti rilevanti come si vedrà in seguito 9. In verità parrebbe, dalle sentenze
della Corte di giustizia, che si possa sostenere che nulla è cambiato non po-
tendo intravedersi alcun ridimensionamento del principio della concorrenza
rispetto alle precedenti statuizioni, fermo restando che la concorrenza man-
tiene il ruolo di punto focale per porre in essere tutti gli strumenti necessari a
limitare le c.d «asimmetrie informative» del mercato, secondo quell’impo-
stazione richiamata dalla scuola di Friburgo. Indubbiamente, le regole della
concorrenza sono rimaste il fulcro nel quale l’Europa intende operare
nell’ambito del mercato unico, come si desume testualmente dal Trattato di
Lisbona: «L’Unione instaura un mercato interno. Si adopera per lo sviluppo
sostenibile dell’Europa, basato su una crescita economica equilibrata e sul-
la stabilità dei prezzi, su un’economia sociale di mercato fortemente compe-
titiva, che mira alla piena occupazione e al progresso sociale, e su un eleva-
to livello di tutela e di miglioramento della qualità dell’ambiente …». È evi-
dente che l’accento è stato posto alla salvaguardia del processo competitivo
e sulla tutela delle libertà economiche evolvendosi, non solo in direzione di

8
F. DENOZZA, La concorrenza come mezzo e come fine, in P. BILANCIA-M. D’AMICO (a
cura di), La nuova Europa dopo il Trattato di Lisbona, Giuffrè, 2009, pp. 166 ss. «In ogni
caso merita di essere sottolineato come la concorrenza, che nei Trattati antecedenti faceva
parte dei mezzi principali di azione dell’Unione, nel Trattato di Lisbona si osserva in genere
che detto principio regolatorio dell’attività economica sia stato “relegato” nel Protocollo.
Questa è la mera descrizione, comunemente esposta, di ciò che è avvenuto, diversa tuttavia,
dal merito della questione ovvero dalle reali implicazioni di tale evoluzione. Sul punto si è
aperto un acceso dibattito dottrinale: i “sostenitori” (in prima linea la Commissione e i suoi
Funzionari) della concorrenza quale principio imminente, fanno leva sul fatto che il Trattato
di Lisbona non ha cambiato l’impostazione dei precedenti Trattati poiché anche il Protocol-
lo è vincolante come il trattato stesso. Su un piano formale la concorrenza menzionata nel
Protocollo anziché nel testo principale non può essere interpretata come una sorta di “de-
classamento” del principio in parola, tuttavia su un piano sostanziale si osserva che nella
legislazione europea la concorrenza non è mai stata considerata un obiettivo per l’Unione
ma solo un mezzo e la nuova collocazione sembra sostenere tale tesi».
9
F. DENOZZA, La concorrenza come mezzo o come fine, cit., p. 166: «Il vero è che nella
giurisprudenza della Corte di giustizia, la concorrenza rimane uno degli strumenti di rea-
lizzazione del Trattato, strumento che soprattutto negli anni precedenti aveva dato alla di-
sciplina della concorrenza una forza espansiva, anche per ragioni di tipo ideologico-siste-
matico e non solo per ragioni tecnico-esegetiche. In ogni caso l’art. 119, TFUE, richiede
che la politica economica dell’Unione sia condotta conformemente al principio di un’eco-
nomia di mercato aperta e in libera concorrenza ma soprattutto della concorrenza fa il ful-
cro della propria trattazione il Protocollo n. 27, il quale prevede che il mercato interno
comprenda un sistema che assicuri che la concorrenza non sia falsata aggiungendo che
l’Unione si impegna ad adottare tutte le misure necessarie a tal fine».
58

finalità efficientistiche, ma ponendosi l’obiettivo di accrescere il benessere


dei consumatori. Allo stesso tempo, viene sempre più sottolineata l’interdi-
pendenza della politica della concorrenza rispetto alle altre politiche quali la
politica ambientale e la politica sociale 10.
Il principio ribadito tra gli obiettivi dell’Unione, prevede l’instaurazione
di un regime teso a garantire che la concorrenza non sia falsata, da tale os-
servazione discende il divieto imposto agli Stati membri di concedere alle
imprese aiuti suscettibili di alterare le condizioni di concorrenza in un de-
terminato mercato (sez. II, dello stesso capo, artt. 107-109 TFUE, disciplina
degli aiuti di Stato) nonché il parallelo divieto per le imprese di realizzare
intese ed esercitare una posizione dominante pregiudizievole per la concor-
renza nel mercato (sez. I dei suddetti capi, artt. 101-105 TFUE, c.d. discipli-
na antitrust in senso stretto).
In definitiva, il concetto di «concorrenza» o più precisamente «regole di
concorrenza» è venuto ad assumere, anche in virtù della giurisprudenza
della Corte di giustizia, la funzione per così dire di «contenitore» poiché lo
stesso può avere a oggetto gli interventi più disparati, tutti però volti a ga-
rantire l’effettività del principio in parola nell’ottica comunitaria 11. Per
questa via si deve riconoscere, secondo la prevalente tesi prospettata dalla
dottrina, che l’espressione «regola di concorrenza» ex art. 106, comma 2,
TFUE, ha assunto, negli ultimi tempi, i contorni di una solida disciplina sia
sotto il profilo degli interessi coinvolti sia delle dinamiche gestionali in
un’ottica concorrenziale 12. Così, ad esempio la previsione delle procedure
di un concorso per l’accesso alla domanda pubblica, deve essere ascritta

10
R. VAN DEN BERGH-A. GIANNACCARI, op. cit., pp. 395 ss.
11
Si deve riconoscere anche nel settore in questione, l’estremo rilievo della giurisprudenza
della Corte di giustizia che «è chiamata da un lato, ad individuare i principi applicabili;
dall’altro a plasmarne il contenuto»; D. MINIUSSI, La nozione di servizio pubblico locale tra
diritto europeo e ordinamento nazionale, in Il diritto dell’economia, vol. 26, n. 80/2013, p. 129.
12
Si rammenti, senza alcun tipo di volontà esaustiva, che le misure a tutela della concor-
renza possono essere suddivise in tre tipi d’intervento: 1. Le misure antitrust, qualificate
come «misure legislative di tutela in senso proprio»; 2. Le misure che prescrivono l’apertura
dei mercati e le eliminazioni delle restrizioni dell’accesso ai medesimi, qualificate come mi-
sure dirette a tutelare la concorrenza «nel mercato»; 3. Le misure che perseguono i fini di
assicurare procedure concorsuali di garanzia mediante la strutturazione di tali procedure in
modo da realizzare la più ampia apertura del mercato a tutti gli operatori economici, qualifi-
cati con le misure dirette a tutela della concorrenza «per il mercato». Si osservi che l’ottica
concorrenziale deve inserirsi nella prospettiva di un miglioramento della qualità delle presta-
zioni erogate a garanzia dell’utente. Si veda F. MERUSI, La regolazione dei servizi di interes-
se economico generale nei mercati (parzialmente) liberalizzati: una introduzione, in La re-
golazione dei servizi di interesse economico generale, Giappichelli, 2010, p. 10.
59

alla c.d. «concorrenza per il mercato» diventando in tal modo, presupposto


antecedente alla c.d. «concorrenza nel mercato»; parimenti, deve porsi l’ac-
cento come la «concorrenza per il mercato» possa essere ritenuta strumen-
to idoneo ma non esclusivo, volto a ridurre le situazioni di monopolio di
fatto o di diritto.
Alla luce di tali premesse occorre segnalare che la regolamentazione giu-
ridica, che per lungo tempo ha disciplinato il mercato dell’Unione al fine di
garantire un’economia aperta alla concorrenza, è individuabile proprio nella
fonte primaria, ciò in quanto gli artt. 82 ss. dell’allora Trattato CEE – oggi
artt. 101 e 102 TFUE, in materia di divieto di intese restrittive della concor-
renza e abuso di posizione dominante – hanno fatto sì che venisse introdotto
un corpo normativo volto a disciplinare in modo organico il settore, visto
che nei Paesi membri tra cui l’Italia, solo a partire dagli anni ’90 (con la leg-
ge n. 287/1990) è individuabile una regolamentazione nazionale specifica
necessitata non solo dall’evoluzione ed integrazione dei principi comunitari.
Si rammenti inoltre che da ultimo, in Italia, è stata emanata la legge 4 agosto
2017, n. 124, nella quale all’art. 1, comma 1, così si legge: «la presente leg-
ge reca disposizioni finalizzate a rimuovere ostacoli regolatori all’apertura
dei mercati, a promuovere lo sviluppo della concorrenza e a garantire la tu-
tela dei consumatori, anche in applicazione dei principi del diritto del-
l’Unione europea, in materia di libera circolazione, concorrenza e apertura
dei mercati, nonché delle politiche europee in materia di concorrenza». Il
ché dimostra la forza espansiva del «principio» della concorrenza per il mer-
cato adottato dall’Unione e incidente sui singoli Paesi membri.
Oltre al dato normativo, si deve prendere atto che lo sviluppo della mate-
ria è attribuibile al contributo dei Giudici della Corte di giustizia, in quanto
la Corte, in questo settore (come in altri) non si è limitata ad una mera attivi-
tà di interpretazione dei trattati ma ha contribuito «in modo decisivo all’ela-
borazione di quei principi fondamentali della materia che hanno concorso e
concorrono a definire i fondamenti della costituzione economica dell’Unio-
ne» 13. Si deve proprio alla Corte di giustizia l’espressa previsione che le
norme comunitarie sulla concorrenza prevalgano su quelle nazionali, non so-
lo in base al generale principio del primato del diritto dell’Unione ma pre-
valgono in tutte quelle fattispecie che presentino una rilevanza comunitaria
venendosi così a riportare, sotto l’egida della disciplina comunitaria, tutta la
materia anche quella derivante dagli interventi legittimati dalla disciplina

13
A. TIZZANO, La Corte di giustizia e lo sviluppo del diritto antitrust, in G. TESAURO (a
cura di), Concorrenza ed effettività della tutela giurisdizionale tra ordinamento dell’Unione
europea e ordinamento italiano, Editoriale Scientifica, 2013, pp. 25 ss.
60

nazionale degli Stati membri 14. È evidente che la base del principio in paro-
la poggia su un criterio economico che riconosce l’insostituibile ruolo della
concorrenza per soddisfare i bisogni dei soggetti e la sua capacità di coordi-
nare l’economia alla politica, secondo la c.d. «economia sociale del merca-
to», ciò fa sì che «… tale tradizione, muovendo da questi presupposti è co-
munque giunta a ritenere necessario – come si esprimeva Luigi Einaudi sul-
la scorta delle riflessioni di Wilhelm Röpke – intervenire sulle modalità con-
crete di funzionamento del capitalismo storico per realizzare l’uguaglianza
dei punti di partenza» 15. Tanto più che è ormai acquisito che non sempre i
mercati possono auto correggersi soprattutto quando un’impresa acquista
una posizione privilegiata o dominante sì da ostacolarne l’ingresso alle nuo-
ve imprese; né è possibile che un’eventuale distorsione della concorrenza,
possa essere corretta, intervenendo sul piano della domanda «per esempio,
di fronte al bisogno di un farmaco salvavita la disponibilità a pagare trova
un limite solamente nella capacità economica di chi ha bisogno di quel far-
maco. In casi come questi, i prezzi eccessivi aggravano le disuguaglianze e
sono particolarmente odiosi sul piano dell’equità sociale» 16.
Senza pretese di approfondimento in merito agli studi economici in mate-
ria di concorrenza, ai fini del presente lavoro rileva che l’impostazione di
fondo della regolamentazione comunitaria è quella secondo la quale detene-
re una posizione dominante nel mercato costituisce, in alcuni casi, un allar-
me oggettivo sull’equilibrio dello stesso (restrizioni per oggetto), altre volte

14
Corte giust., 13 febbraio 1969, causa 14/68, Walt Wilbelm, ove la Corte di giustizia
aveva riconosciuto la possibilità di un’applicazione parallela delle norme dell’Unione e di
quelle nazionali rispetto ad una stessa intesa, ma ciò solo nell’ipotesi in cui non ne venisse
pregiudicata l’uniforme applicazione all’interno del mercato comune delle norme dell’Unio-
ne sulle intese e il pieno effetto dei provvedimenti adottati in applicazione delle stesse.
15
Relazione annuale del Presidente dell’Autorità Garante della Concorrenza e del Mer-
cato, G. PITRUZZELLA, Roma, 16 maggio 2017. Si deve a Röpke l’analisi e il progetto politi-
co ordoliberale della «terza via» il quale si snoda attraverso una valutazione delle logiche di
cui sono portatori i principali attori individuati nel pensiero politico moderno: l’individuo e
lo Stato. La «terza via» viene a creare un «pluralismo sano» basato sulla teoria della società
articolata in cerchie diverse (giuridica, politica ed economica), ognuna delle quali è connessa
alle altre. L’articolazione sociale è data da un lato dalla connessione reciproca dell’ambito
economico giuridico e politico e, dall’altro, dall’assenza di primato assiologico e ontologico
di una cerchia rispetto alle altre. Tutto ciò porta alla nozione di «interventismo liberale» ov-
vero, lo Stato s’impegna a fornire un quadro giuridico nel quale l’economia di mercato possa
funzionare secondo giustizia e modo conforme alla natura umana. Lo Stato non interviene in
senso stretto nella sfera economica ma influenza il mercato. L’ordine giuridico economico è
l’ambito nel quale lo Stato deve istituire, gestire e proteggere un’economia di mercato affin-
ché possa dare spazio all’esercizio della libertà economica.
16
G. PITRUZZELLA, op. loc. cit.
61

non è tanto il comportamento ex se anticoncorrenziale ma lo diventa allor-


quando si abusi di tale posizione per eliminare gli altri concorrenti contrav-
venendo al principio di concorrenza nel mercato e per il mercato (restrizioni
per effetto). Eliminare i concorrenti sul mercato può provocare conseguenze
negative, non solo sotto il profilo della concorrenzialità ma può tradursi in
un aumento generale dei prezzi o in una riduzione della scelta per il consu-
matore 17. Per intervenire sulle «disfunzioni» del mercato l’indagine deve
avere a oggetto il c.d. «mercato rilevante» e/o «di riferimento». Si dovrà te-
ner conto a tal fine non solo del numero e della dimensione dei produttori
presenti su quel determinato mercato ma anche il grado di saturazione dello
stesso nonché la fedeltà dei consumatori alle marche esistenti, tenuto conto
che risulta più difficile penetrare in un mercato saturo caratterizzato dalla
fedeltà dei consumatori rispetto a un gruppo di produttori, che non in un
mercato in piena espansione nel quale opera un gran numero di piccoli pro-
duttori che non dispongono di marche note. «Se l’esame dell’insieme dei
contratti analoghi conclusi sul mercato di riferimento e degli altri elementi
del contesto economico e giuridico del contratto considerato mette in evi-
denza che questi contratti non producono l’effetto cumulativo di chiudere a
nuovi concorrenti nazionali e stranieri […] gli accordi non sono in grado di
ledere il gioco della concorrenza ai sensi dell’art. 85, n. 1 del Trattato. Di
conseguenza essi non ricadono nel divieto contemplato da detta disposizio-
ne» 18. In questo caso la Corte di giustizia ha utilizzato il «criterio degli ef-

17
Nella Relazione di G. Pitruzzella, si fa l’esempio dell’intervento antitrust del settem-
bre 2016, in merito a un abuso per prezzi eccessivi, nel quale sarebbe incorsa la multinazio-
nale Sudafricana Aspen. Il caso riguarda i prezzi di un gruppo di farmaci antitumorali, utiliz-
zato soprattutto da bambini e anziani, individuati con la denominazione complessiva di
«farmaci Cosmos». Aspen, dopo aver acquisito i diritti di commercializzazione di tali farma-
ci, dal loro originario titolare (GlaxoSmithKline), ha avviato una negoziazione con l’AIFA
per ottenere un incremento del loro prezzo. Dopo una lunga trattativa conclusasi nel 2014,
l’Aspen ha conseguito un aumento dei prezzi di circa il 300%, aumenti del tutto ingiustificati
e sganciati dai costi di produzione sostenuti, cosicché l’eccessiva sproporzione tra costi e
prezzo, nonché lo specifico contesto in cui devono essere inserite le condotte delle imprese,
hanno portato a ravvisare «un abuso di sfruttamento” e a sanzionare l’impresa.
18
Così, espressamente, nella sentenza Corte giust., C-234/89, Delimitis, nella quale, al
punto 17 così si esprime «Ne consegue che il mercato di riferimento, corrisponde in questa
causa, a quello della distribuzione della birra nei pubblici esercizi non osta questa constata-
zione la circostanza che fra le due reti di distribuzione esiste una certa interferenza, e cioè
che le rendite nel commercio al dettaglio consentono ai nuovi concorrenti di far conoscere
le loro marche e di fruire della loro reputazione per accedere al mercato dei pubblici eserci-
zi. In secondo luogo, il mercato considerato è delimitato dal punto di vista geografico … per
valutare se l’esistenza di più contratti di fornitura di birra ostacoli l’accesso al mercato così
delimitato si deve passare successivamente all’esame della natura e della impostazione del
62

fetti» quale indice rilevatore del comportamento anticoncorrenziale; per in-


dividuare i comportamenti idonei a restringere o falsare la concorrenza, rile-
vano due opzioni metodologiche: la prima presuppone un approccio a casi
specifici volti a rinvenire gli effetti anticoncorrenziali, reali o potenziali del-
le imprese, la seconda, meno individualizzata, attiene all’oggetto del com-
portamento, ritenendo che il comportamento ex se, sia sanzionabile. Tale
approccio è confermato dalla Commissione e da un’ormai consolidata giuri-
sprudenza 19, talché la Commissione, al par. 20, delle linee direttrici in meri-
to all’applicazione dell’art. 81 del Trattato, afferma che «una volta stabilito
che un accordo ha per oggetto di restringere la concorrenza, non è necessa-
rio tenere conto dei suoi effetti concreti. In altre parole, ai fini
dell’applicazione dell’articolo 81, paragrafo 1, non è necessario che venga
dimostrata l’esistenza di effetti anticoncorrenziali se l’accordo ha per og-
getto una restrizione della concorrenza». In particolare al par. 21, la Com-
missione distingue le restrizioni «per oggetto» rinvenendole in quelle che,
per la loro stessa natura, possono restringere la concorrenza: «si tratta di re-
strizioni che alla luce degli obiettivi delle regole di concorrenza comunita-
rie, hanno una potenzialità talmente alta da produrre effetti negativi sulla
concorrenza che è inutile ai fini dell’applicazione dell’art. 81, par. 1, dimo-
strare l’esistenza di effetti specifici sul mercato». In genere si fa riferimento
ai c.d. «accordi verticali» nei quali assumono rilievo gli effetti sul mercato
di riferimento e che sono stati oggetto di numerosi interventi normativi fino
al Regolamento n. 2790/1998. Nonostante le difficoltà di delineare il merca-
to di riferimento, nell’ultimo regolamento ci si basa sulle quote del mercato
sia del fornitore che dell’acquirente, per attestare la contrarietà alle c.d. «re-

complesso di questi contratti … l’esistenza di un complesso di contratti analoghi, anche se


la sua incidenza sulla possibilità di accesso al mercato è rilevante, non può tuttavia essere
sufficiente per concludere che il mercato considerato è inaccessibile in quanto non si tratta
di una circostanza che, assieme ad altre, può costituire il contesto economico e giuridico nel
quale il contratto deve essere valutato …».
19
Sentenze della Corte giust., 30 maggio 1966, C-56/65, Société Technique Minière
(L.T.M.) c. Société Maschinenbau Ulm GmbH (M.B.U.), in Raccolta, p. 00262; 13 luglio
1966, C-56 e 58/64, Établissements Consten S.à.R.L. e Grundig-Verkaufs-GmbH c. Commis-
sione, in Raccolta, p. 00458; 11 gennaio 1990, C-277/87, Sandoz prodotti farmaceutici c.
Commissione, in Raccolta, p. I-45; 28 febbraio 1991, C-234/89, Stergios Delimitis c. Hen-
ninger Braü AG, in Raccolta, p. I-935; 17 luglio 1997, C-219/95 P, Ferriere Nord c. Com-
missione, in Raccolta, p. I-4411; 8 luglio 1999, C-49/92 P, Commissione c. Anic Partecipa-
zioni, in Raccolta, p. I-4125; 23 ottobre 2003, T-65/98, Van den Bergh Foods c. Commissio-
ne, in Raccolta, p. II-4653. Recentemente la Corte di giustizia ha nuovamente ribadito che
esistono intese che per loro natura minacciano la normale concorrenza sul mercato in modo
così evidente da rendere superfluo indagare sulle reali intenzioni delle parti.
63

strizioni verticali», rispetto al contratto. Per restrizioni verticali s’intendono


quegli accordi che intercorrono fra imprese operanti in mercati situati in di-
versi livelli della filiera produttiva, anche se l’avvento della rete ha ripristi-
nato opportunità d’incontro diretto che sembravano consegnate al passato, è
normale che i produttori non provvedano in proprio alla distribuzione dei lo-
ro prodotti, ma raggiungano i consumatori attraverso intermediari professio-
nisti, grossisti e distributori 20. La nuova formulazione del Regolamento n.
330/2010, sembra allinearsi più che nelle passate esperienze, alle risultanze
di un’analisi economica; pur tuttavia, è stata proprio tale tesi a portare alcuni
autori «ad evidenziare che non esiste una perfetta armonia tra l’economia
della concorrenza e la disciplina della concorrenza» 21.
Così, tra gli esempi di comportamenti definibili «abusivi» quindi vietati
dall’art. 102 TFUE, occorre tener presente che la giurisprudenza richiama
anche i c.d. «accordi orizzontali» ovvero quelli che fissano i prezzi e/o che
ripartiscono il mercato; l’impresa che vende a prezzi irragionevolmente ele-
vati o irragionevolmente bassi al fine di danneggiare o escludere concorrenti
dal mercato, pone in essere un comportamento anticoncorrenziale 22. Qualora
l’impresa detenga una posizione dominante, i consumatori sono indotti in
ogni caso all’acquisto degli stessi, anche se a prezzi elevati, venendosi così a
escludere per essi la possibilità di scelta verso eventuali prodotti alternativi a
danno del consumatore; ciò comporta che le imprese che godono d’una po-
sizione dominante sul mercato, detengano una posizione di potere anche nei
confronti dei propri fornitori, potendo impedire, anche solo in via di fatto,
che quest’ultimi possano avere rapporti di fornitura con gli altri concorrenti
che operano sullo stesso mercato. Anche gli accordi che fissano i prezzi so-
no classificati come restrizioni per oggetto dalla Commissione la quale, nelle

20
R. PARDOLESI, voce Le intese verticali, in L.F. PACE (a cura di), Dizionario sistemati-
co del diritto della concorrenza, cit., p. 80.
21
R. VAN DEN BERGH-A. GIANNACCARI, op. cit., p. 405. Gli A. hanno altresì osservato
come le restrizioni verticali possano avere effetti ambivalenti sia sui prezzi sia sui costi di
transazione.
22
Sentenza del Tribunale di I grado, 15 settembre 1998, Cause riunite T-374, T-375, T-
384 e T-388/94, European Night Services Ltd (ENS), Eurostar (UK) Ltd, Union internatio-
nale des chemins de fer (UIC), NV Nederlandse Spoorwegen (NS) e Société nationale des
chemins de fer français (SNCF) c. Commissione delle Comunità europee, in Raccolta, p. II-
03141. Si vedano, tra l’altro, ex multis, anche le sentenze del Tribunale, 9 luglio 2003, C-T-
224/00, Archer Daniels Midland c. Commissione, in Raccolta, p. II-2597; del 12 luglio
2001, cause riunite T-202, T-204 e T-207/98, Tate & Lyle c. Commissione, in Raccolta, p.
II-2035; del 11 marzo 1999, C-T-141/94, Thyssen Stahl A.G. c. Commissione, in Raccolta, p.
II-347; del 6 aprile 1995, C-T-148/89, Trèfilunion c. Commissione, in Raccolta, p. II-1063.
64

già citate Linee direttrici sull’applicazione dell’art. 81, par. 3, del Trattato,
sancisce al paragrafo 20 che: «Le restrizioni per oggetto, quali la fissazione
dei prezzi e la ripartizione del mercato, provocano riduzioni della produzio-
ne ed aumenti dei prezzi, determinando una cattiva allocazione delle risor-
se, in quanto i beni e i servizi richiesti dai consumatori non vengono prodot-
ti. Tali restrizioni determinano inoltre una riduzione del benessere dei con-
sumatori, i quali devono pagare un prezzo più elevato per i beni e i servizi
in questione». Nelle sentenze della Corte di giustizia, le due metodologie
vengono entrambe richiamate talvolta valutando gli effetti dei comporta-
menti anticoncorrenziali, altre volte invece, sanzionando il comportamento
ex se 23.
Il regolatore istituzionale più rilevante relativo al controllo della concor-
renza, o se si vuole del «contenitore concorrenza», è rappresentato dalla Di-
rezione Generale che conobbe il suo maggiore sviluppo solo dopo la secon-
da metà degli anni ’80, nonostante che la sua istituzione risalga al Regola-
mento n. 17/1962. Tra i vari poteri della Direzione Generale pare opportuno
rammentare quello della condanna al pagamento di ammende e multe per
mancata osservanza delle regole della concorrenza, che possono ammontare
fino al 10% del volume degli affari realizzati dall’impresa durante l’ultimo
esercizio commerciale. Com’è stato rilevato, nonostante le norme europee
sulla concorrenza abbiano seguito modelli americani e tedeschi da un punto
di vista della gestione amministrativa, la DG Concorrenza presenta un’im-
pronta squisitamente francese. L’agente predispone un draft da sottoporre a
cinque membri della DG al Gabinetto della Commissione e al servizio legale
e ciascuno di tali membri predispone un proprio parere da inviare all’agente
responsabile. Solo dopo l’agente responsabile può agire, il ch’è indice della
collegialità ma anche dell’autonomia di cui si avvale la DG.
L’evoluzione di detto organo è significativa poiché nel corso dei primi

23
S. PELLERITI, L’art. 101 TFUE e la rule of reason europea: nuovi spunti della Corte di
giustizia dell’Unione europea, in Dir. comm. internaz., n. 1/2016, p. 298. «In conclusione, se
da un lato è inevitabile rinvenire nelle sentenze del giudice europeo alcune analogie con i
metodi statunitensi di valutazione delle intese, non sembra, per questo, corretto classificare
le restrizioni “per oggetto” e “per effetto” ex art. 101, TFUE, come mere trasposizioni delle
dottrine per se rule e rule o reason. Tali parametri possono aver rappresentato un punto di
partenza per la normativa europea antitrust, ma sono stati ulteriormente sviluppati ed adat-
tati in coerenza con le caratteristiche del mercato comunitario, attraverso un sistema di
analisi delle intese complessivamente diverso rispetto a quello d’oltreoceano. Il sistema di
esenzioni di cui al paragrafo 101.3 è infatti spinto al di là di quanto previsto dalla dottrina
statunitense, non limitandosi a consentire semplicemente una valutazione dell’intesa in ter-
mini di efficienza economica, ma valorizzando anche la valutazione in termini di tutela di
interessi pubblicistici».
65

vent’anni della sua attività si è via via trasformato da braccio passivo e pu-
ramente amministrativo della Commissione, a soggetto attivo nel settore in
esame. I fattori a cui può essere imputata tale trasformazione sono molteplici
ma come si vedrà in seguito, l’approvazione del regolamento sul controllo
delle concentrazioni nel 1989, divenne presto elemento caratterizzante della
politica europea della concorrenza. Oggi la critica più fondata a tale organi-
smo è rappresentata dalla lentezza nel trattare i casi a essa sottoposti soprat-
tutto nei settori di cui si parlerà in seguito; certo è che in questi anni la DG
sulla concorrenza ha sortito effetti positivi ed effetti negativi: positivo è
l’istaurarsi di un regime concorrenziale pieno, coeso e globale nel mercato
interno, negativo è sicuramente l’eccessiva burocratizzazione dell’organi-
smo in questione. Dai rapporti tra DG e Stati membri, è possibile intravedere
lo sviluppo dei legami anche di tipo amministrativo sorti in materia, sui qua-
li via via si farà riferimento.

1.1. DIRITTO ANTITRUST: AMMINISTRAZIONE PARALLELA E/O CONTESTUALE


Mentre nei paragrafi successivi saranno esaminati alcuni aspetti positi-
vi/propositivi per il mantenimento delle regole del mercato (sostegno alle
PMI e aiuti di Stato) il prototipo della disciplina del mercato interno è indub-
biamente rappresentato dalla regolamentazione antitrust. Occorre rilevare
come, mentre gli articoli riguardanti le politiche comuni esigono l’apposi-
zione di obblighi e divieti agli Stati membri, attribuendo competenze nor-
mative o di controllo alle istituzioni, le regole antitrust si rivolgono diret-
tamente agli operatori economici (soggetti pubblici e privati) e impongono
divieti alle imprese: si ha pertanto un rapporto diretto tra la Commissione e
le stesse imprese, sia pure filtrato attraverso le autorità antitrust nazionali e
comunitarie.
La materia ha ormai assunto una configurazione autonoma, non solo per
il rilievo e la particolarità delle procedure in essa previste ma proprio perché
è delineabile come una specifica regolamentazione dotata di procedure pro-
prie avente caratteri peculiari che hanno suscitato non poche perplessità. In-
fatti, nell’affrontare il tema dell’antitrust, si deve segnalare che ha dato luo-
go a un animato dibattito dottrinale il profilo rappresentato dalla c.d. «natura
mista» dell’insieme della disciplina procedimentale per l’applicazione delle
regole di settore, ciò in quanto in essa, è possibile rinvenire elementi propri
di natura amministrativa ed elementi di natura paragiurisdizionale. Nono-
stante che nel procedimento antitrust s’individui una separazione funzionale
fra la fase istruttoria-amministrativa e quella decisoria-giurisdizionale, que-
sti ultimi tendono a confondersi con la conseguenza di richiedere una parti-
66

colare tutela verso il soggetto economico coinvolto nel procedimento.


Sostanzialmente sono di natura amministrativa tutte quelle attività per co-
sì dire precontenziose, proprie delle procedure d’infrazione, mentre di natura
giurisdizionale o paragiurisdizionale sono gli interventi volti a erogare la
sanzione a seguito delle risultanze desumibili dall’istruttoria. Ciò che rileva
ai fini della presente indagine, attiene proprio a quella funzione per così dire
più propriamente amministrativa, poiché si lega all’evoluzione del sistema
amministrativo europeo che è l’obiettivo del presente lavoro. Sotto il profilo
dell’evoluzione del decentramento dei poteri in materia antitrust, indicativo
è il diverso ruolo che è venuta ad assumere la Commissione. Occorre ram-
mentare come detta istituzione europea, fin dal 1962, deteneva in modo
pressoché esclusivo, il potere di indagare in merito ai comportamenti i quali
producevano una violazione della concorrenza nel mercato interno e quindi
di eseguire, eventualmente, ispezioni presso le imprese. In particolare, i suoi
funzionari erano autorizzati: ad accedere a qualsiasi locale, territorio o mez-
zo di trasporto dell’impresa; esaminare i libri e i documenti aziendali e ac-
quisirne delle copie; apporre i sigilli su tutti i locali, libri e documenti
dell’impresa per la durata dell’ispezione; chiedere informazioni e spiegazio-
ni a qualunque membro o rappresentante del personale dell’impresa e verba-
lizzarne le risposte. Al termine delle indagini poteva essere erogata la san-
zione nei confronti dell’impresa.
Per effetto del venir meno del potere esclusivo della Commissione, si è
osservato come, nel diritto comunitario, sia stata esclusa la soluzione tipica
dei sistemi federali che prevede una disciplina propria dei rapporti tra centro
e periferia: così, pur mantenendo l’unicità delle regole di applicazione de-
sumibili dal trattato e dal diritto derivato, si attribuisce specifica rilevanza
tanto al rapporto fra Commissione e autorità nazionali, quanto al rapporto
fra le stesse autorità nazionali, venendo a disegnare un unico spazio giuridi-
co sul quale intervenire, secondo criteri d’idoneità e capacità, definiti dal di-
ritto europeo 24.
Meritano di essere evidenziati i caratteri del decentramento amministrati-
vo che hanno portato i regolatori dei Paesi membri a un ruolo di comparteci-
pazione rispetto al Consiglio, fermo restando che è la disciplina europea che

24
L. TORCHIA, Il Governo delle differenze, Il Mulino, 2006, p. 29 «La modernizzazione
della politica della concorrenza ha così portato ad un assetto nel quale un’unica disciplina,
definita a livello europeo, viene applicata ad autorità diverse poste in rete su tutto lo spazio
europeo, senza che a questo corrisponda però una definizione della competenza di ciascuna
autorità in termini territoriali. Il sistema non può definirsi, dunque, né accentrato né decen-
trato ma presenta invece caratteristiche proprie che lo distinguono dagli assetti tipici degli
Stati federali come gli Stati Uniti».
67

ne ha determinato gli obiettivi generali e gli aspetti organizzativi più rilevan-


ti. Sullo sfondo del sistema che è andato a svilupparsi, il ruolo centrale è at-
tribuibile alla cooperazione tra autorità amministrative nazionali e tra queste
e la Commissione (DG sulla concorrenza) secondo la disciplina prevista dal-
l’art. 197 TFUE, questo viene ad attribuire all’Unione l’obbligo di sostegno
e di miglioramento delle amministrazioni nazionali al fine d’attuare in modo
pieno ed efficace il diritto europeo 25.
In conseguenza ai fondamenti contenuti nel diritto primario, le norme di
diritto derivato ovvero il Regolamento (CE) n. 1/2003 del Consiglio, sosti-
tuendo il precedente Regolamento n. 17/1962, ha riformato in misura signi-
ficativa le regole di applicazione del diritto antitrust comunitario con
l’obiettivo di semplificare e rafforzare, all’interno dell’Unione, l’azione di
deterrenza e di contrasto nei confronti delle intese e dei comportamenti re-
strittivi della concorrenza.
Il nuovo regolamento pone ordine, per la prima volta, al rapporto tra nor-
me nazionali e comunitarie in materia, introducendo, per i giudici e le auto-
rità di concorrenza nazionali, un esplicito obbligo di applicazione del diritto
antitrust comunitario alle intese e agli abusi di posizione dominante che pos-
sono pregiudicare il commercio tra Stati membri. Nel nuovo sistema deli-
neato dal regolamento, la Commissione, le autorità nazionali di concorrenza
e i giudici nazionali, sono tutti ugualmente chiamati, sia pure nei rispettivi
ruoli, ad applicare le norme comunitarie sulla concorrenza. Parallelamente il
regolamento prevede maggiori strumenti e possibilità di cooperazione sia
verticale, fra Commissione e autorità nazionali di concorrenza, sia orizzonta-
le, fra singole autorità nazionali, al fine di garantire un’azione efficace e
coerente degli artt. 101 e 102 TFUE, da parte di tutte le autorità di concor-
renza europee.
Così si è pervenuti a un decentramento delle competenze di controllo e

25
TFUE, Art. 197: «1. L’attuazione effettiva del diritto dell’Unione da parte degli Stati
membri, essenziale per il buon funzionamento dell’Unione, è considerata una questione di
interesse comune. 2. L’Unione può sostenere gli sforzi degli Stati membri volti a migliorare
la loro capacità amministrativa di attuare il diritto dell’Unione. Tale azione può consistere
in particolare nel facilitare lo scambio di informazioni e di funzionari pubblici e nel sostene-
re programmi di formazione. Nessuno Stato membro è tenuto ad avvalersi di tale sostegno.
Il Parlamento europeo e il Consiglio, deliberando mediante regolamenti secondo la proce-
dura legislativa ordinaria, stabiliscono le misure necessarie a tal fine, ad esclusione di
qualsiasi armonizzazione delle disposizioni legislative e regolamentari degli Stati membri. 3.
Il presente articolo non pregiudica l’obbligo degli Stati membri di attuare il diritto del-
l’Unione né le prerogative e i doveri della Commissione. Esso non pregiudica le altre dispo-
sizioni dei trattati che prevedono la cooperazione amministrativa fra gli Stati membri e fra
questi ultimi e l’Unione».
68

decisione su tutte quelle fattispecie ascrivibili al diritto antitrust, venendosi


peraltro ad attribuire poteri specifici alle autorità di concorrenza nazionali e
comunitarie nonché ai giudici nazionali, i quali sono chiamati a sanzionare
detti comportamenti anticoncorrenziali 26. In tal modo, si viene a operare la
sostituzione del preventivo obbligo di notificazione del comportamento anti-
concorrenziale alla Commissione, utilizzando un sistema che detta nuovi cri-
teri di attribuzione dei compiti fra le diverse autorità nazionali.
Tuttavia, pare opportuno sottolineare che l’abolizione dell’obbligo di no-
tificare le intese – previsto in precedenza – ha avuto l’effetto di rendere tutte
le norme contenute nell’art. 81, direttamente applicabili liberando la Com-
missione dall’obbligo di pronunciarsi, comunque su ogni intesa, rendendo
altresì tutte le autorità garanti corresponsabili dell’applicazione del diritto
europeo. La motivazione di tale nuove prospettive è desumibile dal conside-
rando 3, il quale rileva che «… il sistema centralizzato istituito dal Regola-
mento n. 17 non è più in grado di garantire un equilibrio fra questi due
obiettivi [controllo e semplificazione]. Esso frena l’applicazione delle regole
di concorrenza comunitarie da parte delle giurisdizioni e delle Autorità ga-
ranti della concorrenza degli Stati membri, mentre il sistema di notificazioni
che esso comporta impedisce alla Commissione di concentrarsi sulla re-
pressione delle infrazioni più gravi». Cosicché, nel nuovo regolamento, si
prevede che le autorità della concorrenza e le giurisdizioni degli Stati mem-
bri, intervengano direttamente anche in virtù della giurisprudenza consolida-
ta della Corte di giustizia (considerando 4). Concetto, questo, ripreso nel-
l’art. 22 del Regolamento n. 1/2003, lì dove si enuncia che l’Autorità garante
della concorrenza di uno Stato membro, per verificare l’esistenza sul proprio
territorio di un’infrazione, ex art. 81 o ex art. 82 del Trattato, può procedere
motu proprio a qualsiasi accertamento, così come può procedere su richiesta
della Commissione o dell’Autorità garante della concorrenza di un altro Sta-
to. I funzionari delle autorità garanti dei singoli Stati membri incaricati di
procedere agli accertamenti così come quelli da esse autorizzati e nominati,
esercitano i loro poteri conformemente alle relative legislazioni nazionali.
La Corte di giustizia, in particolare, ha rilevato che, in base agli artt. 11 e 16
del precitato regolamento, diventasse necessaria la cooperazione tra Com-

26
Il Regolamento n. 1/2003, si presenta come qualcosa di nuovo, come una rottura nei
confronti del passato. Si sostanzia, più precisamente, in un intervento che, a differenza di
quanto avviene nel Regolamento n. 17, tiene nella dovuta considerazione i protagonisti della
scena, in particolare gli Stati membri e le imprese, ai quali è assegnata una maggiore respon-
sabilità nel dare attuazione concreta alle norme del trattato in materia di intese e abuso di
posizione dominante.
69

missione, Autorità di Concorrenza e giurisdizioni nazionali 27, sicché il mo-


nopolio in materia esercitato antecedentemente dalla Commissione viene a
spezzarsi a favore delle autorità di concorrenza nazionali nonché degli stessi
giudici nazionali. Si è di fronte a un’unica disciplina la quale trova la propria
origine nel trattato, definita a livello europeo nel diritto derivato e realizzata
dalle diverse autorità nazionali obbligate in virtù dell’art. 3 del regolamento,
ad applicare le disposizioni in materia nei casi di comportamenti anticoncor-
renziali a rilevanza comunitaria 28. Si attua in tal modo una collaborazione
non solo di tipo «orizzontale» come già segnalato, ma in questo caso «multi-
livello» stante il ruolo di preminenza funzionale riconosciuto alla Commis-
sione. Si prevede non solo il coinvolgimento di una pluralità di autorità na-
zionali e sovrannazionali nella materia, ma anche la disciplina di criteri di
divisione del lavoro nell’individuazione dell’autorità competenti onde scon-
giurare conflitti, duplicazioni o addirittura omissioni (mancato intervento)
dei meccanismi procedurali organizzativi, che sono volti invece a garantire
l’unità del sistema. Gli interventi di ciascun’autorità, sono suddivisi sulla
base del criterio territoriale di attribuzione con la conseguenza che l’autorità
nazionale non ha competenza esclusiva circoscritta nel proprio ordinamento
ma può operare all’interno dello spazio comune, secondo il criterio già ri-
chiamato. Tutte le autorità garanti della concorrenza hanno il potere/dovere
di applicare gli artt. 101 e 102 TFUE, cosicché ogni membro della «rete»
può decidere in piena autonomia in merito alle indagini che intende portare
avanti. Si tratta di un sistema di competenze parallele o, come suggerito da
un’accreditata dottrina, di «competenze contestuali» 29. Il fatto che un’Auto-

27
Già nel vigore del Regolamento n. 1984/83, nella sentenza Delimitis, la Corte di giu-
stizia (28 febbraio 1991, causa C-234/89) sottolineava alcuni punti specifici della normativa
antitrust: si veda il concetto di mercato di riferimento, il ruolo della Commissione, il garanti-
re a tutte le imprese interessate l’accesso al mercato (nella fattispecie ai produttori nazionali
di birra).
28
Art. 3, comma 1, Regolamento n. 1/2003: «Quando le autorità garanti della concor-
renza degli Stati membri o le giurisdizioni nazionali applicano la legislazione nazionale in
materia di concorrenza ad accordi, decisioni di associazioni di imprese o pratiche concor-
date ai sensi dell’articolo 101, paragrafo 1, del trattato che possano pregiudicare il com-
mercio tra Stati membri ai sensi di detta disposizione, esse applicano anche l’articolo 101
del trattato a siffatti accordi, decisioni o pratiche concordate. Quando le autorità garanti
della concorrenza degli Stati membri o le giurisdizioni nazionali applicano la legislazione
nazionale in materia di concorrenza agli sfruttamenti abusivi vietati dall’articolo 102 del
trattato, esse applicano anche l’articolo 102 del Trattato».
29
L. TORCHIA, op. cit., p. 164: «L’equivalenza fra le attività delle diverse autorità risul-
ta, quindi, predeterminata, non solo sul piano della definizione delle regole, ma anche sul
piano dell’applicazione e dell’attuazione di quelle regole in tutti gli ordinamenti nazionali e
70

rità garante della concorrenza stia indagando su un caso sul quale un’altra
autorità intende indagare, o per il quale ha ricevuto una denuncia, costituisce
per le altre autorità, motivo sufficiente per sospendere il proprio procedi-
mento; tuttavia, qualora un’Autorità garante della concorrenza di uno Stato
membro stia svolgendo un procedimento, ciò non inibisce alla Commissione
di avviare il medesimo procedimento previa consultazione con quest’ultima,
come stabilito nell’art. 11, ult. comma, Regolamento n. 1/2003 30.

presenta, come tratti caratteristici, l’attribuzione di competenze contestuali o parallele a


tutte le autorità e la stretta cooperazione fra tutte le autorità competenti in un’apposita Rete
(la REC) … la competenza non sia, però, appunto, più conchiusa nei singoli ordinamenti
nazionali, ma si estenda all’intero ordinamento europeo. L’effetto più rilevante di tale asset-
to sta nella contestualità di due fenomeni: la permeabilità degli ordinamenti nazionali al-
l’ordinamento europeo e l’apertura, per così dire, “laterale”, fra i diversi ordinamenti na-
zionali».
30
Regolamento, n. 1/2003. Art. 11: «Cooperazione fra la Commissione e le autorità ga-
ranti della concorrenza degli Stati membri.
1. La Commissione e le autorità garanti della concorrenza degli Stati membri applicano
le regole di concorrenza comunitarie in stretta collaborazione.
2. La Commissione trasmette alle autorità garanti della concorrenza degli Stati membri
copia dei principali documenti raccolti ai fini dell’applicazione degli articoli 7, 8, 9, 10 e
dell’articolo 29, paragrafo 1. La Commissione fornisce all’autorità garante della concor-
renza di uno Stato membro, su richiesta di quest’ultima, copia di altri documenti esistenti
necessari alla valutazione della pratica trattata.
3. Quando le autorità garanti della concorrenza degli Stati membri agiscono ai sensi
degli articoli 81 o 82 del trattato, esse ne informano per iscritto la Commissione prima o
immediatamente dopo l’avvio della prima misura formale di indagine. L’informazione può
essere resa disponibile anche alle autorità garanti della concorrenza degli altri Stati membri.
4. Al più tardi 30 giorni prima dell’adozione di una decisione volta a ordinare la cessa-
zione di un’infrazione, ad accettare impegni o a revocare l’applicazione di un regolamento
d’esenzione per categoria, le autorità garanti della concorrenza degli Stati membri infor-
mano la Commissione. A tal fine esse forniscono alla Commissione una presentazione del
caso in questione, la decisione prevista o, in sua mancanza, qualsiasi altro documento che
esponga la linea d’azione proposta. Tali informazioni possono essere fornite anche alle au-
torità garanti della concorrenza degli altri Stati membri. Su richiesta della Commissione,
l’autorità garante della concorrenza che agisce rende disponibili alla Commissione altri
documenti in suo possesso necessari alla valutazione della pratica. Le informazioni fornite
alla Commissione possono essere messe a disposizione delle autorità garanti della concor-
renza degli altri Stati membri. Le autorità nazionali garanti della concorrenza possono an-
che scambiarsi le informazioni necessarie alla valutazione di un caso di cui si occupano a
norma degli articoli 81 o 82 del trattato.
5. Le autorità garanti della concorrenza degli Stati membri possono consultare la Com-
missione su qualsiasi caso che implichi l’applicazione del diritto comunitario. L. 1/10 IT
Gazzetta ufficiale delle Comunità europee 4.1.2003.
6. L’avvio di un procedimento da parte della Commissione per l’adozione di una deci-
sione ai sensi del capitolo III priva le autorità garanti della concorrenza degli Stati membri
71

Resta inteso che la Commissione rimane pur sempre l’autorità più idonea
nel caso in cui l’oggetto dell’indagine sia rappresentato da un accordo tran-
sfrontaliero o che riguardi società multinazionali; parimenti la Commissione
ha il potere di avocare a sé l’indagine, avviata da un’ANC di uno Stato
membro. Com’è stato osservato il potere di avocazione, insieme con altre
previsioni contenute nel Regolamento n. 1/2003, «relative al rapporto tra
autorità nell’ambito della REC, ha portato a qualificare il nuovo network
come una rete sui generis, altamente giuridicizzata e formalizzata, in cui al-
la parità dei nodi si sostituisce un rapporto di sovra-sotto ordinazione che
discende dalla supremazia funzionale riconosciuta alla Commissione» 31.
Nel regolamento si prevede, inoltre, il divieto delle autorità nazionali del-
la concorrenza di assumere determinazioni che si pongano in contrasto con
decisioni già assunte dalla Commissione nonché la facoltà delle ANC di
consultare la Commissione e l’obbligo della Commissione di consultare un
comitato consultivo, composto dai rappresentanti delle ANC, prima di adot-
tare la decisione. Proprio nel Regolamento n. 1/2003 viene a sottolinearsi la
necessità dello scambio d’informazioni tra le ANC e tra queste e la Com-
missione, sia pure prevedendosi, in capo alle autorità nazionali, l’esistenza
di un vero e proprio obbligo gravante su quest’ultime relativo a fornire alla
Commissione tutte le informazioni in loro possesso. Lo scambio d’informa-
zioni acquista quindi connotati non solo di una migliore allocazione dei casi
e di una decisione più ponderata ma anche l’esercizio di potere di controllo
da parte della Commissione sul lavoro delle ANC sì da applicare il diritto
previsto dall’Unione. Il vero è che la collaborazione tra Commissione e Au-
torità garante della concorrenza degli Stati membri, avviene ex art. 12, pro-
prio attraverso un continuo scambio d’informazioni sicché, come espressa-

della competenza ad applicare gli articoli 81 e 82 del trattato. Qualora un’autorità garante
della concorrenza di uno Stato membro stia già svolgendo un procedimento, la Commissio-
ne avvia il procedimento unicamente previa consultazione di quest’ultima».
31
S. DEL GATTO, La rete europea della concorrenza: una rete a maglie troppo larghe?,
in Riv. it. dir. pubbl. comunit., n. 5/2016, p. 1266, nota 19. Rileva l’A. nel testo che «È dun-
que preferibile che vi sia un’unica autorità a procedere seppur coordinandosi e consultan-
dosi con altre ove necessario, sia a livello nazionale che a livello sovranazionale. È tuttavia
possibile, se ciò è giustificato da una migliore e più efficace attuazione delle norme anti-
trust, che il caso venga “riattribuito” ovvero passato ad un’autorità ritenuta più idonea, la
c.d. well placed authority, individuata secondo i criteri fissati nella Comunicazione sulla
cooperazione all’interno della Rete europea per la concorrenza. Vi sono poi alcune clausole
di chiusura, volte a scongiurare (e a risolvere) eventuali conflitti tra autorità … è previsto
che la Commissione è sempre l’autorità più idonea nel caso di uno o più accordi o pratiche
comprese le reti di accordi o di pratiche simili – che – incidono sulla concorrenza in più di
tre Stati membri».
72

mente si legge in tale articolo «ai fini dell’applicazione degli articoli 81 e 82


del Trattato, la Commissione e le Autorità garanti della concorrenza degli
Stati membri hanno la facoltà di scambiare e utilizzare come mezzo di prova
qualsiasi elemento di fatto o di diritto, comprese le informazioni riservate».
Per questa via le informazioni possono essere utilizzate anche per l’applica-
zione della legislazione nazionale in materia di concorrenza, qualora alla
stessa sia applicabile la fattispecie di diritto comunitario.
In seguito all’emanazione del Regolamento n. 1/2003, si sono nuovamen-
te regolati detti scambi d’informazione con la Comunicazione della Com-
missione del 2004 32, la quale ha previsto la c.d. «rete europea della concor-
renza». Così, accanto alle forme di collaborazione «orizzontale» 33, si deve
prendere atto di una collaborazione «verticale» tra le autorità nazionali per la
concorrenza e la Commissione che trova la sua sede principale nella Rete
europea per la concorrenza (European Competition Network – ECN), com-
posta dalla Commissione, nella DG antitrust europea e dalle Autorità garanti
di tutti gli Stati membri dell’Unione.
Ad avviso di chi scrive merita di essere sottolineato che, come si legge
nella Comunicazione della Commissione, la rete rappresenta la base della
creazione e il mantenimento della natura comune della concorrenza in Euro-
pa; cosicché, attraverso la rete si garantisce l’effettiva applicazione delle re-
gole europee della concorrenza, si permette uno scambio di proposte e os-
servazioni tra le autorità quindi un confronto costruttivo per individuare le
pratiche più idonee da attuare.
Dopo la fase istruttoria, i Tribunali nazionali hanno il potere di decidere
se un accordo sia compatibile con la legislazione europea o meno; a fronte di
ciò non va dimenticato che le imprese e i consumatori sono tutelati poiché
possono chiedere un risarcimento dei danni nell’ipotesi in cui siano stati vit-

32
Comunicazione della Commissione sulla Cooperazione nella Rete Europea per la Con-
correnza (2004/C-101/03) … [i]nsieme le ANC e la Commissione formano una rete di pub-
bliche autorità: agiscono insieme nell’interesse generale e in stretta cooperazione per tute-
lare la concorrenza. La rete è un forum di discussione dove cooperare per dare attuazione
alla politica europea in materia di concorrenza. [...], [La rete] è la base per la creazione e il
mantenimento di una cultura comune della concorrenza in Europa.
33
In tale senso si veda l’esplicito richiamo di cui al considerando 15 del Regolamento n.
1/2003, che così recita «La Commissione e le autorità garanti della concorrenza degli Stati
membri dovrebbero formare insieme una rete di pubbliche autorità che applicano le regole
di concorrenza comunitarie in stretta cooperazione. A tal fine è necessario istituire dei mec-
canismi di informazione e di consultazione. La Commissione, in stretta collaborazione con
gli Stati membri, stabilirà e sottoporrà a revisione altre modalità di cooperazione all’in-
terno della rete».
73

time di un comportamento illegale da parte di altre imprese, lì dove si sia


avuto come effetto una limitazione della concorrenza.
La continua cooperazione tra i giudici nazionali e la Corte di giustizia eu-
ropea ha permesso di intensificare la rete di controllo giudiziario, a seguito
dei controlli amministrativi sulle violazioni delle regole antitrust commesse
non solo dalle imprese ma anche dagli Stati membri. Così, in questo quadro
nel diritto antitrust lo scopo principale della questione pregiudiziale è
l’interpretazione del diritto dell’Unione, in particolare degli artt. 101 e 102
TFUE, i quali sanciscono, con l’ammissione di alcune deroghe, il divieto di
compiere atti che possano falsare, impedire, restringere o ostacolare la con-
correnza all’interno del mercato interno; tali articoli dunque vietano rispetti-
vamente le intese restrittive della concorrenza e gli abusi di posizione domi-
nante posti in essere da imprese e suscettibili di arrecare pregiudizio al
commercio tra gli Stati membri. Inoltre, l’art. 106 TFUE, prevede che gli
Stati membri non adottino, nei confronti delle imprese pubbliche e delle im-
prese titolari di diritti speciali o esclusivi, misure che restringano la concor-
renza in contrasto con le norme comunitarie. Qualora le violazioni delle re-
gole di concorrenza avvengano in un solo Paese, spetta solitamente all’auto-
rità nazionale garante della concorrenza intervenire, almeno in prima battu-
ta; tuttavia, con la crescita del mercato interno e la globalizzazione, gli effet-
ti dei comportamenti illeciti, come la costituzione di un cartello, sono ov-
viamente percepiti in tutta l’Unione e nel resto del mondo, anche qualora
l’origine derivi da un solo Stato membro.
Ora, proprio secondo degli effetti del comportamento illecito, la compe-
tenza è ripartita tra l’Autorità nazionale e la Commissione. In ogni caso, ove
la violazione delle norme della concorrenza abbia un rilievo che investa più
Stati se non addirittura Stati dell’Unione e Stati al di fuori dell’Unione, è la
Commissione europea che, trovandosi in una posizione particolarmente ido-
nea, deve indagare soprattutto nelle fattispecie concernenti i casi «transeuro-
pei», avendo il potere, non solo di svolgere indagini ma anche di adottare
decisioni vincolanti per le imprese interessate e imporre cospicue ammende
a seguito dell’accertamento delle violazioni antitrust. L’esempio più recente
è fornito dalla decisione della Commissione di imporre a Google una multa
di 2,42 miliardi poiché avrebbe abusato della sua posizione dominante nel
campo dei motori di ricerca, avvantaggiandosi in modo illegittimo rispetto
agli altri competitor. In linea generale (e di massima esemplificazione) la
Commissione europea, collaborando con le Autorità nazionali, agisce non
solo ex post – come finora richiamato – ma anche ex ante, in altre parole per
prevenire o correggere i comportamenti anticoncorrenziali, applicando le re-
gole di concorrenza dell’Unione, al fine di assicurare una parità di condizio-
74

ne tra tutte le imprese del mercato unico, con l’obiettivo di garantire un cor-
retto funzionamento del mercato stesso 34; di conseguenza, in caso di viola-
zione di tali regole, la Commissione può infliggere sanzioni alle imprese che
siano incorse in tali comportamenti, per l’ammontare massimo del 10% del
loro fatturato. Il vero è che con l’applicazione della normativa antitrust si
mira a prevenire e controllare i c.d. trust o altri monopoli di fatto e di diritto,
che potrebbero sorgere nel mercato comunitario.
In questo quadro giuridico, un particolare rilievo assume la tormentata di-
sciplina dei c.d. «programmi di clemenza», già previsti nel 1996 a cui ha fat-
to seguito il secondo Programma di clemenza del 2002 e il terzo del 2006,
modificati nel testo del 2012 del Model Leniency Programme 35.
A seguito di ciò, l’AGCM, ebbe ad adottare un provvedimento ad hoc 36
per disciplinare, nel dettaglio, l’ambito di applicazione e i requisiti per ac-
cedere al provvedimento favorevole. È evidente che l’obiettivo dei pro-
grammi di clemenza è quello di far emergere tali fenomeni i quali, spesso
occulti, possono essere individuabili solo a seguito di precise indicazioni di
una delle parti; tuttavia, i Leniency Programs si riferiscono solo a restri-
zioni della concorrenza derivanti dalle fattispecie codificate nell’art. 101
TFUE 37. Di fatto, nell’Unione europea non esiste ancora un sistema unifi-

34
Autorità garante della concorrenza e del mercato, Normativa antitrust comunitaria, in
http://www.agcm.it/unione-europea/normativa-antitrust-comunitaria.html. Come affermato
dall’autorità garante, la tutela della concorrenza è dunque perseguita anche attraverso la pre-
visione di un vantaggio per l’impresa oltre che attraverso la minaccia di una sanzione.
35
Comunicazione della Commissione concernente l’immunità delle ammende o la ridu-
zione del loro importo, nel caso di cartelli tra imprese – 2006/C, 298/11, in GUCE, C-298,
dell’8 dicembre 2006. Si rammenti che, oltre a quello della Commissione, sono stati adottati,
altri 26 Programmi nazionali di clemenza, che si inseriscono nel quadro delle competenze
parallele degli Stati membri e in particolare delle autorità garanti della concorrenza, in rela-
zione all’applicazione dell’art. 101 TFUE. Il Parlamento, nella Risoluzione del 26 marzo
2009, aveva posto l’accento sul fatto che «l’applicazione del programma di clemenza con-
tribuisce in modo decisivo a far emergere cartelli segreti, consentendo in tal modo l’avvio di
azioni da parte dei privati e chiede che siano esaminati strumenti per garantire che sia man-
tenuta l’attrattiva dell’applicazione del programma di clemenza». Sul punto si rinvia a S.
RONCO, Programmi di clemenza e private enforcement: bilanciamento di interessi tra “pen-
titismo concorrenziale” e diritto al risarcimento del danno antitrust, in Pol. dir., n. 3/2006,
p. 463, nota 7.
36
Comunicazione sulla non imposizione e sulla riduzione delle sanzioni. Con D.L. 4 lu-
glio 2006, n. 223 (così come modificato nella legge di conversione del 4 agosto 2006, n.
248) il legislatore italiano ha provveduto ad adeguare l’ordinamento interno alle previsioni
del Regolamento CE n. 1/2003.
37
Così S. DEL GATTO, op. cit., p. 1267. Si veda, altresì, C. PESCE, Il programma di cle-
menza europeo e la tutela dei singoli, in Dir. UE, n. 1/2011, pp. 145 ss.
75

cato e centralizzato di clemenza bensì una pluralità di programmi nazionali


che si richiamano in modo più o meno diretto ai principi dell’Unione. Le
Autorità nazionali garanti della concorrenza, mirano a favorire l’alline-
amento delle normative nazionali a quelle comunitarie stante la competen-
za parallela introdotta dal Regolamento n. 1/2003 e desumibile dalla Co-
municazione del 22 novembre 2011.
Il Model Leniency Programme contiene regole sostanziali che sono state
ritenute comuni a tutti i programmi di clemenza prevedendosi criteri stan-
dard per la concessione dell’immunità e condizioni specifiche ai fini del-
l’esenzione dell’ammenda connessa a obblighi uniformi e a una procedura
lineare per l’esame delle richieste.
La mancata coincidenza delle discipline di detti programmi, determina
che, la presentazione a un’autorità nazionale di una domanda di clemenza da
parte di un’impresa, ha effetto soltanto nei confronti di quell’autorità «così
ché l’impresa può trovarsi priva di tutela nei confronti di un’eventuale pro-
cedimento avviato da autorità diverse da quella presso cui ha presentato
domanda di clemenza» 38.
C’è da osservare che sono stati predisposti degli strumenti di coordina-
mento fra i diversi programmi di clemenza, in particolare s’intende far rife-
rimento alla c.d. «domanda di clemenza in forma semplificata», secondo il
modello elaborato nell’ambito della rete europea della concorrenza (ECN,
Model Leniency Programme, 29 settembre 2006, poi modificato in data 22
novembre 2012). Si tratta di un modo volto a rendere più agevole le doman-
de presentate presso più autorità nazionali di concorrenza in aggiunta alla
domanda di clemenza in forma piena presentata davanti alla Commissione.
Resta però il fatto che numerosi sono i fattori disincentivanti alla collabora-
zione, quale ad esempio il pericolo di incorrere in condanne penali o civili,
pur offrendo la propria collaborazione. Si deve prendere atto che tutto ciò ha
implicato numerosi interventi da parte dell’Unione 39, volti ad attenuare tale
diversità di regimi; basti pensare che nel par. 39 della Comunicazione del 27
aprile 2004, si prevede che le informazioni trasmesse alla rete in una do-
manda di clemenza non potranno essere utilizzate dagli altri Stati membri
per avviare un’indagine per loro conto, sia ai sensi dei principi comunitari
della concorrenza sia ai sensi del diritto nazionale. Inoltre, un’ulteriore ga-
ranzia per le imprese che partecipano ad un programma di clemenza, è pre-
visto nel par. 40 della Comunicazione sopra citata, dove si dispone che

38
S. RONCO, op. cit., p. 465.
39
In particolare, si veda la Comunicazione della Commissione sulla cooperazione
nell’ambito della rete delle autorità garanti sulla concorrenza del 27 aprile 2004.
76

un’autorità della concorrenza non può trasmettere ad altre autorità le infor-


mazioni fornite dal soggetto che ha presentato domanda di clemenza, senza
il suo consenso. Nel documento, si rivelano con maggiore incisività, nel ten-
tativo di semplificazione rispetto alle precedenti disposizioni, i presupposti
che l’impresa deve eseguire per ottenere il beneficio nonché la procedura per
rientrare nel programma di clemenza 40. L’immunità può essere concessa so-
lo all’impresa che per prima fornisca informazioni sui comportamenti illegit-
timi nonché elementi probatori tali da consentire alla Commissione di ese-
guire un’ispezione mirata se ci si trova a sanzionare un cartello oppure co-
statare una violazione dell’art. 101 TFUE, in correlazione al caso in esame.
Il vero è che l’obiettivo alla base del Programma modello non è quello
di rendere più efficiente la procedura e più appetibile lo strumento della
clemenza, anche alla luce delle Comunicazioni della Commissione, ma so-
prattutto quello di determinare, anche in questo settore, una convergenza
verso regole condivise che, partendo dalle migliori pratiche nazionali ed
europee, sarebbero dovute ridiscendere a livello nazionale uniformando la
disciplina in materia. Anche lo stesso Leniency Programme italiano, intro-
dotto a seguito della legge n. 287/1990, ha fatto sì che l’antitrust italiana ri-
prendesse i punti salienti della disciplina europea sopra richiamata; talché la
Comunicazione dell’AGCM prevede la possibilità di riconoscere l’immu-

40
Il nuovo testo del Leniency Programme chiarisce e semplifica le informazioni che de-
vono essere fornite dalle imprese che intendono rivolgersi a più di un’autorità garante della
concorrenza in caso di procedimenti istruttori. Le maggiori novità introdotte riguardano
quanto segue:
– tutti i richiedenti un trattamento favorevole che si rivolgano alla Commissione, in casi
incidenti sulla concorrenza di più di tre Stati membri, saranno in grado di presentare la do-
manda di trattamento favorevole, redatta in forma semplificata (Summary Application) alle
autorità nazionali garanti della concorrenza. Precedentemente solo il primo richiedente, cioè
il richiedente l’immunità, aveva il diritto di utilizzare la domanda in forma semplificata ai
sensi del MPL, anche se alcune Autorità avevano già esteso il diritto a tutti i candidati;
– la European Competition Network (ECN) ha concordato un modello uniforme di do-
manda di trattamento favorevole redatta in forma semplificata, che le imprese saranno in
grado di utilizzare in tutti gli Stati membri;
– la ECN ha pubblicato altresì un elenco di autorità che accettano il Summary Applica-
tion in inglese;
– altre modifiche attengono chiarimenti sulle condizioni che i richiedenti devono soddi-
sfare per poter beneficiare del trattamento favorevole, in particolare sul dovere di cooperare
e sulla portata dei programmi di clemenza, che si estendono, oltre che ai cartelli segreti, an-
che a cartelli che includono elementi verticali;
– il nuovo testo chiarisce inoltre che le autorità garanti, membri della ECN, dovrebbero
fornire lo stesso livello di protezione contro la divulgazione delle dichiarazioni di clemenza
scritte e orali.
77

nità della sanzione e la loro riduzione alle imprese partecipanti ad accordi


orizzontali segreti che ne denuncino spontaneamente l’esistenza all’au-
torità; inoltre, anche la disciplina italiana, come quella europea, stabilisce
che solo il soggetto che per primo presenta la domanda può fruire
dell’immunità, mentre i successivi denuncianti, possono accedere (anche in
relazione alla tempestività e alla qualità delle informazioni fornite) solo a
una riduzione delle sanzioni 41. Le domande volte a ottenere un trattamento
favorevole, sono valutate dall’AGCM secondo l’ordine in cui pervengono,
tant’è che a ognuna di esse viene per prassi attribuito un c.d. marker che at-
testi la data e l’ora della ricezione della domanda. Spetterà in ogni caso al
termine del procedimento all’AGCM, rigettare o accogliere la domanda,
accoglimento che, secondo la Comunicazione sopra richiamata, può avveni-
re anche con decisione condizionata.
Infine, con l’entrata in vigore della Direttiva 2014/104/UE 42, l’Unione
interviene, in tema di risarcimento, per i danni subiti a causa di una viola-
zione delle disposizioni in materia di concorrenza. Ci si limita a osservare
come, in conformità a tale direttiva, è previsto nel considerando 4: «[…] è
opportuno che ciascuno Stato membro disponga di norme procedurali che
garantiscano l’effettivo esercizio di tale diritto. La necessità di mezzi di ri-
corso procedurali efficaci deriva anche dal diritto a una tutela giurisdizio-
nale effettiva così come previsto dall’art. 19, par. 1, II comma, del Trattato
sull’Unione europea (TUE) e dall’art. 47, I comma, della Carta dei diritti
fondamentali dell’Unione europea».
Il problema per il nostro ordinamento nasce dal disposto contenuto nel-
l’art. 9 della Direttiva 2014/104/UE, ove si legge «Una violazione del diritto
della concorrenza constatata da una decisione definitiva di un’autorità ga-
rante della concorrenza o di un giudice del ricorso […] deve definitivamen-
te considerarsi accertata ai fini dell’azione del risarcimento del danno pro-
posto dinanzi ai […] giudici nazionali ai sensi dell’art. 101 e 102 TFUE o ai

41
Il sistema del marker consente di presentare una domanda incompleta e di chiedere
all’autorità di fissare un termine entro il quale la domanda dovrà essere perfezionata, con la
conseguenza che se la richiesta di un marker viene accolta e la domanda perfezionata entro il
termine stabilito dall’autorità, l’istanza di accesso al programma si considera pervenuta in
forma completa alla data di accoglimento della richiesta del marker. Con l’intento di evitare
elementi di «rigidità» della procedura, la disciplina italiana non prevede, invece, degli sca-
glioni percentuali di riduzione delle sanzioni in relazione alla tempestività della collabora-
zione prestata.
42
Direttiva 2014/104/UE, relativa a determinate norme che regolano le azioni per il ri-
sarcimento del danno ai sensi del diritto nazionale per violazioni delle disposizioni del dirit-
to della concorrenza degli Stati membri e dell’Unione europea.
78

sensi del diritto nazionale della concorrenza». Prima della nuova direttiva, il
problema si era, sia pure in modo diverso, già proposto; l’autorità, come
emerge dalla Relazione del 2013, per rendere appetibile la collaborazione
del privato, aveva previsto una serie di correttivi, volti a riconoscere l’immu-
nità penale delle persone fisiche appartenenti all’impresa che collabora non-
ché a escludere la responsabilità solidale dell’impresa che ottiene l’immunità
nell’ambito dell’azione di danno: pur tuttavia tale impostazione è rimasta
inattuata. I problemi invece diventano ancora più complessi in base alla
nuova direttiva in merito all’applicazione del precitato art. 9, poiché, nella
legislazione nazionale, non è rinvenibile una previsione volta a coordinare,
in maniera espressa, decisioni amministrative (antitrust) e quelle dei giudici
di liti private in materia antitrust 43. L’innovatività di una siffatta disposi-
zione, pone numerosi problemi per l’ordinamento italiano, soprattutto se si
tiene conto che l’illecito antitrust è sempre stato considerato un illecito am-
ministrativo e quindi il giudice amministrativo può verificare la sola legitti-
mità dell’atto dell’autorità antitrust; è invece del giudice ordinario la valuta-
zione dei fatti per ciò che attiene la tutela risarcitoria richiesta da terzi.
Di fronte al sistema italiano, l’applicazione dell’art. 9 ha diviso la dottri-
na poiché la diposizione in esame sembrerebbe implicare una perdita di co-
gnizione da parte del giudice ordinario, in merito all’accertamento dell’illi-
ceità, già oggetto di decisione dell’autorità garante. È stato osservato che «la
perdita della cognizione piena del giudice ordinario in ordine all’accerta-
mento della illiceità, già oggetto della decisione dell’Autorità del garante,
se non altrimenti compensata porterebbe ad un deficit (complessivo) di tute-
la giurisdizionale, che sarebbe difficilmente compatibile con i nostri precetti
costituzionali e che finirebbe per contrastare con la stessa direttiva […]» 44.
Nel nostro ordinamento il rapporto tra le vicende procedimentali antitrust
– di natura amministrativa – e i giudizi civili risarcitori sono concettualmen-
te basati sull’autonomia dei due giudizi, principio cardine del nostro sistema
che discende dall’autonomia del giudizio civile rispetto al giudizio ammini-
strativo per l’asimmetria dei rispettivi giudizi: quello amministrativo volto
alla caducazione dell’atto, quello civile all’accertamento della conformità al
diritto di vicende materiali. Il giudice ordinario, investito di una questione
risarcitoria per un illecito antitrust definitivamente accertato dall’autorità

43
B. GILIBERTI, Public e private enforcement nell’art. 9, co. I, direttiva antitrust 104/2014.
Il coordinamento delle tutele: accertamento amministrativo e risarcimento danni nei rap-
porti privatistici, in Riv. it. dir. pubbl. comunit., n. 1/2016, pp. 77 ss.
44
G. GRECO, L’accertamento delle violazioni del diritto della concorrenza e il sindacato
del giudice amministrativo, in Riv. it. dir. pubbl. comunit., n. 5/2016, pp. 990 ss.
79

garante, parrebbe non poter discostarsi da tale accertamento. Secondo la


prevalente dottrina si esclude che il provvedimento antitrust possa assurgere
a un vero e proprio accertamento, perché non si sostanzia in un risultato di
un processo bensì è frutto di un procedimento. A ben vedere la cognizione
del giudice civile è diversa da quella condotta dall’antitrust: quest’ultima si
manifesta in divieti e sanzioni per regolare il mercato, il giudice civile vaglia
invece la fondatezza della pretesa del ristoro per il danno cagionato a un
soggetto per la violazione di divieti; tuttavia, secondo una parte della dottri-
na, si deve tener conto del fatto che, l’indagine condotta dall’autorità garante
è di tipo tecnico-discrezionale nella quale l’analisi della fattispecie concreta
assume rilievo determinante per l’applicazione della fattispecie astratta con-
tenuta nel paradigma normativo.
L’accertamento di cui parla la direttiva, in quanto proveniente da un ac-
certamento sui fatti sui quali viene svolta una precisa attività istruttoria aper-
ta al contradditorio tra i vari soggetti interessati e la cui decisione viene am-
piamente motivata, potrebbe presupporre che l’accertamento dei fatti sia sta-
to già vagliato da un’autorità amministrativa e quindi non ci sarebbe necessi-
tà di una nuova valutazione sui fatti da parte del giudice civile. Così interpre-
tata, la disposizione contenuta nella direttiva potrebbe trovare spazio nel no-
stro ordinamento; tuttavia si obietta che, se si analizza il D.P.R. n. 217/1988,
contenente la disciplina relativa al procedimento avanti all’autorità, è incon-
testabile che lo sviluppo dello stesso ricalchi i tipici procedimenti ammini-
strativi autoritativi che sono volti al ripristino dell’interesse pubblico violato:
nel caso di specie la tutela della concorrenza e del mercato. Secondo tale
impostazione nella nuova direttiva l’accertamento della condotta antitrust
compiuta dall’autorità si trasforma da accertamento strumentale in accerta-
mento principale e autonomo. Secondo alcuni studiosi per superare l’even-
tuale obiezione, concernente il fatto che la sentenza amministrativa assume
la veste di giudicato con riferimento alla parte, si propone di introdurre in
sede di recepimento una previsione espressa in tema di efficacia soggettiva
ultra partes del giudicato amministrativo, mutuando dal Codice civile le
previsioni contenute nell’art. 2377, comma 7 e nell’art. 1306, comma 2.

1.2. LE CONCENTRAZIONI E I CARTELLI: AMMINISTRAZIONE INDIRETTA


Non è possibile, se non per sommi capi, richiamare le condotte tenute da-
gli operatori economici che danno luogo a quelli che genericamente vengo-
no definiti «comportamenti anticoncorrenziali»; con tale concetto, prima fa-
cie, s’intende far riferimento ad accordi tra imprese al fine di restringere o
alterare il gioco della concorrenza.
80

In primis, l’attenzione della Commissione si è concentrata nella lotta ai


cartelli, nel controllo rigoroso delle concentrazioni, negli accordi tra imprese
che incidono o sul prezzo finale o sulla limitazione della produzione. Sono
invece autorizzati gli accordi tra imprese che detengono una limitata quota
di mercato, così di conseguenza alle PMI è concessa una cooperazione tra le
stesse, qualora ciò rafforzi la loro capacità di essere competitive rispetto alle
imprese di maggiori dimensioni.
Come emerge dalla lettura dell’art. 81 TUE, ciò che rileva è che attraver-
so gli accordi si produca un’alterazione della concorrenza: non è necessario
né che questa sia avvenuta ma soltanto che possa avvenire così come non è
parimenti necessaria una sorta di consapevolezza (elemento soggettivo da
parte degli interessati) a produrre l’effetto distorsivo della concorrenza; per-
tanto, ai fini dell’applicazione dell’art. 81, rileva la sola potenzialità
dell’accordo a produrre un effetto anti concorrenziale. Vi è da sottolineare
come tale nozione sia stata interpretata in maniera molto ampia dalle istitu-
zioni, al fine di farvi rientrare varie tipologie di comportamenti che abbiano
come effetto l’alterazione del principio della concorrenza; tuttavia spesso le
istituzioni hanno ammesso deroghe specifiche rispetto a una fattispecie, co-
me quella in esame, che si presuppone rigida.
Nel caso di specie, diversamente da quanto si è visto per l’antitrust, il po-
tere di concedere esenzioni o deroghe spetta esclusivamente alle istituzioni
comunitarie 45: non sono necessari particolari requisiti di forma riguardo al
caso in esame, tant’è che la definizione della pratica concordata, comporta la
necessità di identificare esattamente i contorni della stessa in modo da poter-
la distinguere da intese che non abbiano intenti o effetti anticoncorrenziali.
L’art. 81, presenta un’elencazione meramente esemplificativa degli accordi
più che la «ratio» degli stessi, talché la dottrina è venuta così a distinguere
tra accordi «orizzontali» e accordi «verticali»: i primi riguardano imprese
poste sullo stesso livello economico, individuabili prevalentemente in accor-
di volti a fissare i prezzi finali o che prevedano una spartizione del mercato;
gli accordi verticali intercorrono invece tra imprese che non sono concorren-
ti tra loro, anzi, la loro cooperazione appare essenzialmente di coordinamen-
to delle altre attività produttive, secondo quanto già sottolineato. Si pensi ad
esempio al caso della distribuzione di un prodotto previo accordo tra più im-
prese.

45
E. CANNIZZARO, Le politiche di concorrenza, in G. STROZZI (a cura di), Diritto
dell’Unione europea, III ed., Giappichelli, 2000, p. 263. Rileva l’A. che «questa impostazio-
ne non viene scalfita neanche nei recenti progetti di riordino della materia, i quali non sem-
brano aprire degli spazi di manovra più ampi nell’interpretazione dell’art. 81, par. 1».
81

La Corte di giustizia, nella sentenza Consten e Grundig del 1966 46, ha


stabilito che si incorre nella violazione del principio dell’articolo, oggi 81
TUE, qualora l’accordo di distribuzione comporti una ripartizione dei pro-
dotti della medesima marca. La Corte ha quindi accertato che un accordo di
esclusiva tra produttore e distributore, contenente a carico di quest’ultimo un
divieto assoluto di rivendita dei prodotti fuori dalla zona esclusiva, altera la
concorrenza fra distributori di prodotti della stessa marca e pertanto è vietata
dall’art. 81 TUE, col ché, anche la distribuzione oltre che la produzione, può
essere sanzionata qualora risulti che essa dia luogo ad una protezione territo-
riale dei mercati in merito a prodotti della stessa marca. Si osservi che tale
disposizione non trova spazio qualora i sopra richiamati comportamenti sia-
no frutto di altre politiche comunitarie, quali le politiche agricole (ad esem-
pio la filiera) prevalendo in quest’ultimo caso, un interesse diverso e supe-
riore dell’Unione. Se l’accordo è in contrasto con i principi comunitari, se-
condo quanto dispone l’art. 81, sarà comminata la sanzione civilistica della
nullità degli accordi: nullità che, non solo colpisce l’accordo ex se ma si ri-
verbera su tutte le clausole a essi connesse. Quanto alle esenzioni, anche in
questo caso sono sottoposte a una stretta vigilanza e controllo da parte delle
istituzioni comunitarie, tant’è che ai sensi dell’art. 4 del Regolamento n.
17/1962, già richiamato, l’accordo per il quale si chiede l’esenzione deve es-
sere notificato alla Commissione. Sotto questo profilo i regolamenti di esen-
zione per categoria hanno lo scopo di precostituire le condizioni di esenzio-
ne ed evitare il complesso procedimento che consegue alla richiesta di esen-
zioni individuali.
Più incerto è il tema delle condizioni di esenzione nell’ipotesi d’accordi
verticali, talché, nel Libro Verde sulle restrizioni verticali della politica della
concorrenza del 1997 e nel successivo Libro Verde sulle restrizioni verticali
del 1998, la Commissione ha evidenziato il nuovo approccio che s’intende
tenere nella valutazione della compatibilità degli accordi verticali con il di-
ritto alla concorrenza. Ciò in quanto si reputa ormai anacronistico che detti
accordi siano misurati rispetto all’esclusivo parametro di tipo normativistico.
Oggi, prevalendo una visione dinamica della concorrenza, si ritiene ad
esempio che gli accordi verticali e in particolare gli accordi di distribuzione,
siano considerati favorevolmente e non quali comportamenti anti concorren-
ziali; lo stesso dicasi per gli accordi orizzontali a cui talvolta vanno ricono-

46
Sentenza 13 luglio 1966, cause riunite 56-58, in Raccolta, 1966, pp. 458 ss. In tale sen-
tenza la Corte rileva che «la concorrenza può essere alterata ai sensi dell’art. 81, paragrafo
1, non solo da accordi che la limitano fra le parti, ma anche da accordi che impediscono o
restringono la concorrenza che potrebbe aver luogo tra una di esse e i terzi».
82

sciuti, addirittura, effetti pro-concorrenziali. Da qui l’osservazione che la


previsione nei regolamenti di esenzione di un numero chiuso di clausole di
accordi anticoncorrenziali, ha l’effetto di irrigidire la tipologia contrattuale
entro schemi predeterminati e non esaustivi delle fattispecie concrete. Que-
sta impostazione è stata fatta propria dal Regolamento n. 2790/1999 47, in
base al quale si prevedeva un regime legale di esenzione per tutti gli accordi
verticali qualora il potere di mercato del concorrente più forte non fosse su-
periore al 30% del mercato di riferimento; ovviamente l’esenzione non co-
pre accordi contenuti in clausole aventi effetti assai penalizzanti per la con-
correnza, quale ad esempio la fissazione dei prezzi o la spartizione territoria-
le assoluta.
Il nuovo sistema è stato preceduto da un rilevante lavoro di preparazione,
che rappresenta l’elemento innovativo rispetto al sistema antecedente fonda-
to su un generale divieto; viene a emergere, quale presupposto per l’effetti-
vità, la capacità della Commissione di intervenire tempestivamente sul mer-
cato, onde evitare il proliferare di reti di accordi di per sé ammissibili ovvero
compatibili con il regime di esenzione ma che nel loro insieme creino situa-
zioni anti concorrenziali. Resta il dubbio se, un siffatto sistema, non presenti
eccessive difficoltà di coordinamento con il meccanismo del decentramento
nell’applicazione del diritto alla concorrenza ma è tuttavia da dover tener
presente che nella fattispecie in esame il decentramento non è ancora ben
delineato stante i poteri riconosciuti alla Commissione 48.
Nell’ambito dei comportamenti anticoncorrenziali, meritano un breve
cenno i cartelli ovvero gli accordi tra un gruppo d’imprese volti a stabilire il

47
Regolamento (CE) n. 2790/1999 della Commissione del 22 dicembre 1999, in GUCE,
n. L. 366 del 29 dicembre 1999. Sono particolarmente rilevanti il considerando 8 dove si
legge: «qualora la quota del mercato rilevante attribuibile al fornitore non superi il 30%, si
può presumere che gli accordi verticali che non contengano alcune restrizioni aventi effetti
anticoncorrenziali gravi siano in genere atti a determinare un miglioramento nella produ-
zione e nella distribuzione e a riservare agli utenti una congrua parte dell’utile che ne deri-
va. Nel caso di accordi verticali comportanti obblighi di fornitura esclusiva, è la quota di
mercato dell’acquirente a determinare gli effetti complessivi di tali accordi sul mercato» e il
considerando 9: «qualora la quota di mercato superi la soglia del 30%, non è possibile pre-
sumere che gli accordi verticali che ricadono nell’ambito di applicazione dell’articolo 81,
paragrafo 1, implichino generalmente vantaggi oggettivi di natura ed ampiezza tali da com-
pensare gli svantaggi che determinano sotto il profilo della concorrenza».
48
E. CANNIZZARO, op. cit., p. 273. «L’esistenza di una posizione dominante non è vietata
dal diritto della concorrenza, purché acquisita attraverso comportamenti che utilizzino le
normali dinamiche economiche del mercato. Né è vietato piuttosto uno sfruttamento abusivo,
atto a ridurre le capacità competitive degli altri operatori – e conservare quindi artificial-
mente la posizione dominante –, ovvero di realizzare politiche di mercato che si avvalgano
dell’assenza o della ridotta concorrenza a danno dei consumatori».
83

prezzo finale di un prodotto. È indubbio che tale pratica sia sostanzialmente


nociva per i consumatori, difatti le imprese che la pongono in essere hanno
come obiettivo quello di svincolarsi dalla pressione concorrenziale, per non
dover lanciare nuovi prodotti sul mercato con qualità migliore e prezzi più
competitivi; il consumatore in tal caso rischia di pagare un prezzo elevato
per un prodotto di qualità inferiore. Per tal motivo i cartelli sono severamen-
te vietati dal diritto della concorrenza e la Commissione infligge pesanti
multe alle imprese che ne facciano parte. Essendo illegali, risulta difficile
individuarli, anche per la loro segretezza; a tal fine, la Commissione attua la
cosiddetta politica del «trattamento favorevole» secondo il Model Leniency
Progremme: si offre alle imprese partecipanti ad un cartello e che confessa-
no o forniscono delle prove in merito a tale pratica, l’immunità totale o la
riduzione parziale delle ammende che la Commissione, a fronte di tale fatti-
specie, avrebbe applicato.
Più complesso è il tema delle concentrazioni ovvero quel processo attra-
verso il quale le imprese si raggruppano; di per sé, tale comportamento, può
essere positivo o negativo, tuttavia diventa un comportamento anticoncor-
renziale qualora tale processo di raggruppamento abbia l’effetto di indeboli-
re le altre imprese in modo da far acquisire al gruppo una posizione domi-
nante in un determinato mercato venendone a creare un effetto distorsivo
dello stesso 49. Nel Trattato CEE, mancava un esplicito riferimento alle con-
centrazioni poiché, all’epoca, il tessuto economico era prevalentemente for-
mato da PMI quindi, non solo tale comportamento non era vietato, ma,
all’opposto, si favoriva la fusione tra le imprese; grazie all’accorpamento si
aveva come effetto diretto una maggiore efficienza delle stesse, la concor-
renza sul mercato s’intensificava e i consumatori beneficiavano di prodotti
migliori a prezzi più convenienti.
Il problema delle concentrazioni, quale comportamento anticoncorrenzia-
le, nasce con l’allargamento dell’Unione e con l’integrazione del mercato
comune. In assenza di una norma specifica, non si poteva applicare la disci-
plina antitrust al caso delle concentrazioni perché si finiva per penalizzare
tutti i fenomeni di concentrazione, anche quelli di tipo collaborativo. La
Corte di giustizia ha quindi colmato la lacuna normativa in quanto, attraver-
so un’interpretazione estensiva degli artt. 81 e 82 TUE, è venuta ad applica-
re alle concentrazioni, il regime di repressione degli abusi delle posizioni
dominanti.

49
Occorre tener presente che il concetto di posizione dominante ha in sé profili economi-
ci perché indica un notevole grado d’indipendenza di una specifica impresa rispetto agli altri
competitor.
84

Inizialmente la Corte sosteneva che «le concentrazioni cui partecipano


imprese aventi una posizione dominante possono, in talune circostanze, es-
sere considerate casi di sfruttamento abusivo di una posizione dominante, ai
sensi dell’art. 86, e quindi vietati». Si rinvia alla sentenza 21 febbraio 1973
nel caso Continental Can Company Inc. di New York. La Corte è poi perve-
nuta a un’interpretazione più evolutiva nella sentenza Philip Morris 50, nella
quale ha affermato esplicitamente la possibilità di applicazione cumulativa
degli artt. 81 e 82 TUE, alle concentrazioni; ciò ha portato, quale norma de-
rivata, all’emanazione prima del Regolamento n. 4064/1989 e, dopo succes-
sivi interventi, al Regolamento n. 139/2004 51.
Non vi è dubbio che oltre una certa soglia – dimensioni comunitarie – le
concentrazioni comportino effetti negativi, primo fra tutti quello di limitare
la concorrenza, creando o rafforzando una posizione dominante; il ché com-
porta, visto dalla parte dei consumatori, il rischio di dover subire un aumen-
to dei prezzi o una ridotta qualità o minore innovazione. Da qui, la necessità
del controllo sulle concentrazioni d’imprese, disciplinate oggi, dal Regola-
mento n. 139/2004: in tale regolamento, al considerando 7 si legge che gli
artt. 81 e 82, pur trovando applicazione, secondo la giurisprudenza della
Corte di giustizia, a talune concentrazioni «non sono sufficienti a controllare
tutte le operazioni che rischiano di rivelarsi incompatibili con il regime di
concorrenza non falsata [… si deve quindi far riferimento] all’art. 308 del
trattato ai sensi del quale la Comunità può dotarsi di poteri di azione ag-
giuntivi necessari a realizzare i suoi obiettivi […]».
Le operazioni di concentrazione, ai sensi dell’art. 4 del Regolamento n.
139/2004, devono essere notificate preventivamente alla Commissione, la
quale dovrà decidere se l’operazione in questione sia o no compatibile col
regolamento e con i principi generarli in materia di concorrenza. Di partico-
lare rilievo è la disposizione contenuta nell’art. 2 del precitato regolamento,
la quale stabilisce che la Commissione deve tener conto sia della necessità di

50
Sentenza 17 novembre 1987, nel caso Philip Morris Inc.
51
Regolamento CEE n. 4064/1989 del Consiglio del 21 dicembre 1989, relativo al con-
trollo delle operazioni di concentrazione tra le imprese; a questo ha fatto seguito il Regola-
mento n. 1310/1997. Il Regolamento (CEE) n. 4064/89 del Consiglio, dal 1° maggio 2004
sostituito dal Regolamento CE del Consiglio, ha introdotto a livello comunitario una disci-
plina sul controllo preventivo di tutte le operazioni di concentrazione nelle quali il fatturato
delle imprese interessate, superi determinate soglie. In tali casi, prima di realizzare l’opera-
zione, le imprese devono darne comunicazione alla Commissione che può vietare l’operazio-
ne allorché la concentrazione ostacoli in modo significativo una concorrenza effettiva nel
mercato comune o in una parte sostanziale di esso, in particolare mediante la creazione o il
rafforzamento di una posizione dominante.
85

preservare e sviluppare una concorrenza effettiva nel mercato comune sia


della posizione sul mercato delle imprese partecipanti al raggruppamento e
del loro potere economico e finanziario sia che dette concentrazioni non
ostacolino, in modo significativo, il mercato comune o una parte di esso. In
tale valutazione la Commissione dovrà tener conto della presenza simultanea
di due o più imprese fondatrici dello stesso mercato dell’impresa comune «o
su un mercato situato a monte o a valle di tale mercato, ovvero su un merca-
to contiguo strettamente legato a detto mercato; [nonché] della possibilità
offerta alle imprese interessate, attraverso il loro coordinamento risultane
direttamente dalla costituzione di un’impresa comune, di eliminare la con-
correnza per una parte sostanziale di prodotti e servizi di cui trattasi», ex
art. 5 del precitato regolamento. La Commissione europea esamina soltanto
le concentrazioni concernenti le imprese il cui fatturato superi determinate
soglie mentre, al di sotto di tali soglie, possono intervenire direttamente le
autorità nazionali garanti della concorrenza. Tali regole sono applicabili per
tutte le concentrazioni a prescindere dal luogo in cui le imprese hanno la se-
de legale, la sede principale e le attività di produzione 52. La Commissione è
tenuta a esaminare i casi di concentrazioni a lei sottoposte da un’autorità na-
zionale, tuttavia, ai sensi dell’art. 9 può, mediante decisione notificata, por-
tare a conoscenza delle autorità competenti dei singoli Stati membri e decen-
trare l’indagine: in questo caso è l’autorità competente dello Stato membro
interessato, a decidere.
Il criterio essenziale per valutare la compatibilità dell’operazione è costi-
tuito dalle conseguenze che la fusione e/o concentrazione ha sul mercato;
una concentrazione può essere vietata se le parti interessate sono i principali
concorrenti sul mercato o se la concentrazione potrebbe indebolire significa-
tivamente o limitare la concorrenza nel mercato unico, ad esempio creando o
rafforzando una posizione dominante.
Non è dato rinvenire divieti indicativi da parte della Commissione: nella
maggior parte dei casi essa approva le fusioni più problematiche imponendo
tuttavia vincoli e misure correttive alle imprese di riferimento, al fine di ga-
rantire che non vi siano distorsioni nel mercato conseguenti alla stessa fu-
sione. Ad esempio è possibile che la Commissione decida che le imprese
debbano impegnarsi a cedere una parte delle loro attività o dare in licenza
una determinata tecnologia a un altro operatore. Se la Commissione giunge
alla conclusione che la concentrazione non limita la concorrenza, la concen-
trazione viene approvata senza condizioni. L’autorizzazione a livello euro-

52
Anche le concentrazioni tra imprese con sede fuori del mercato unico possono avere
conseguenze sui mercati europei, se le imprese interessate vi operano.
86

peo delle concentrazioni si presenta necessaria soprattutto nei confronti delle


imprese attive in più di un Paese dell’Unione: in tal modo un’unica autoriz-
zazione è valida in tutta Europa.

1.3. LA REGOLAMENTAZIONE DELLE POLITICHE COMUNITARIE A FAVORE DELLE


PMI: IL TIPO DI AMMINISTRAZIONE E IL RUOLO DEGLI STATI MEMBRI
Così come si è dovuto intervenire sul mercato nell’ipotesi in cui una o più
imprese detenessero una posizione dominante, all’opposto, proprio perché la
concorrenza presuppone un mercato libero, aperto nonché inclusivo per le
imprese, una particolare attenzione viene riservata alle PMI che per vario
tempo e per motivi di diversa natura ma globalmente e sostanzialmente im-
putabili alla problematicità per le stesse di partecipare all’«arena pubblica»,
vengono oggi chiamate, anche in considerazione del loro peso economico, a
concorrere all’economia del mercato unico. È questo il motivo che ha indot-
to le istituzioni europee all’adozione di specifiche disposizioni finalizzate
all’agevolazione dell’accesso nel mercato delle PMI 53: basti pensare che il
99,8% delle imprese europee ha meno di 249 addetti e assorbe il 67,4%
dell’occupazione.
Merita di essere segnalato che il 91,8% di tali imprese ha meno di nove
addetti, con un’elevata potenzialità di crescita sostenibile nel lungo periodo
e di creazione di occupazione. Il fenomeno sulla numerosa presenza di PMI,
rinvenibile in tutti i Paesi dell’Europa, ha reso necessaria l’adozione di poli-
tiche volte al sostegno e alla crescita di queste realtà che offrono un contri-
buto evidente all’interno del tessuto economico dell’Unione 54. Spesso inve-
ce tali imprese si sentono spaesate di fronte a normative, vincoli e imposi-
zioni troppo «pesanti» per una piccola realtà produttiva e tali fattori non ne
agevolano lo sviluppo, soprattutto in anni come questi, caratterizzati da una

53
Si veda COM(201)14, p. 19. Sul tema si rinvia a M.A. STEFANELLI, Osservazioni criti-
che sulla regolamentazione giuridica delle micro e piccole medie imprese. La dimensione
“minore” come misura per una regolamentazione dell’industria e per la ripresa economica,
in G. LEMME (a cura di), Diritto ed economia nel mercato, Cedam, 2014, pp. 216 ss., ove si
osserva che «per far fronte all’attuale grave crisi economica e sociale è necessario ripartire
dalla PMI, ripensando ad essa come strumento di inclusione finanziaria e sociale, come fon-
te di nuove relazioni economiche sociali».
54
Il vero è che sia a livello comunitario che a livello nazionale – nonché internazionale –
si sono adottate nuove strategie per rispondere ai problemi che, anche a causa della crisi
economica ma non solo imputabile ad essa, hanno impattato proprio le PMI ovvero le picco-
le e le piccolissime imprese le quali peraltro in un momento di crisi vengono chiamate a far
sentire il loro peso specifico nell’economia del mercato unico.
87

grave crisi economica e finanziaria, con notevoli problemi anche sotto il


profilo dell’accesso al credito 55. Proprio a tal fine è stato emanato lo Small
Business Act (SBA) il quale, come noto, non è un atto normativo vincolante
– ed è questo un tratto caratteristico della regolamentazione economica co-
munitaria per le PMI, rinvenibile tra l’altro anche in altri settori – bensì una
comunicazione che la Commissione europea ha rivolto, il 30 settembre
2008, al Consiglio, al Parlamento europeo, al Comitato economico e sociale
europeo e al Comitato delle Regioni.
Con l’emanazione di tale atto si sono volute illustrare le linee guida
dell’azione dell’Unione europea per favorire lo sviluppo delle Piccole e Me-
die Imprese e creare occupazione in questo contesto, volendo rappresentare
il punto di riferimento sia dell’attività legislativa sia dell’attività amministra-
tiva europea nonché dei singoli Paesi 56.
Da un punto di vista macro economico l’obiettivo è quello di riconoscere
il ruolo centrale delle PMI nell’economia europea e per farlo l’Unione, at-
traverso questo documento propone, nel rispetto dei principi di sussidiarietà
e proporzionalità, un’azione di cooperazione amministrativa fra istituzioni
europee e Stati membri. Certo gli obiettivi appaiono quanto meno articolati e
ambiziosi per cui, ad analizzare i vari interventi diretti a tal fine, ci si trova
di fronte a una serie di azioni di così largo spettro che richiederebbero una
sorta di rivoluzione copernicana delle politiche economiche dei singoli Stati
e della stessa Unione.
Per i motivi sopra richiamati, dopo neanche tre anni dal varo dello Small
Business Act, è intervenuta la Comunicazione del 23 febbraio 2011, dal tito-
lo «Riesame dello Small Business Act per l’Europa» [COM(2011)0078]. In
tale comunicazione si prevede, quale primo livello, la nomina da parte della
Commissione del nuovo rappresentante per le PMI, il quale dovrebbe ancora
una volta monitorare i progressi attuati nella legislazione europea per la
promozione delle PMI, con particolare riferimento all’applicazione del prin-
cipio della «corsia preferenziale per la piccola impresa» (Think small first).
Gli Stati membri sono sollecitati a nominare, anche a livello nazionale, rap-

55
La situazione europea non appare molto diversa da quella degli Stati Uniti, ove, non a
caso, sin dal 1953, è stato elaborato lo Small Business Administration che potrebbe essere
considerato il «precursore» dello Small Business Act europeo.
56
Sostanzialmente i principali obiettivi dello SBA sono il miglioramento dell’approccio
politico globale allo spirito imprenditoriale, l’informazione dei processi decisionali al princi-
pio «pensare anzitutto in piccolo» e l’offerta di aiuto alle PMI nell’affrontare i problemi che
ne ostacolano la crescita e lo sviluppo. Per un’ampia individuazione delle tematiche in meri-
to alle PMI si rinvia al volume M.A. STEFANELLI, Il riconoscimento normativo delle piccole
e medie imprese, Cedam, 2011.
88

presentanti per le PMI sempre al fine di verificare l’attuazione dello Small


Business Act nelle amministrazioni dei singoli Paesi. Contestualmente la
Commissione, in considerazione del ruolo trasversale delle politiche delle
PMI e al fine di assicurare la coerenza degli interventi, nomina nelle DG in-
teressate, quale ricerca, ambiente, mercato interno, occupazione e commer-
cio, dei vice-direttori generali per le PMI, incaricati di collaborare stretta-
mente con lo SME Envoy. Ci si trova di fronte a una regolamentazione con
evidenti ricadute di tipo amministrativo che, quant’anche assunte dall’appa-
rato centrale dell’Unione, anche attraverso atti che potremmo definire di soft
law, mira da un lato a creare a livello europeo ambiti organizzativi centrali e,
dall’altro, sollecita sull’esempio assunto in sede centrale, l’adozione di mo-
delli organizzativi amministrativi negli Stati membri per il raggiungimento
degli obiettivi che concorrono a realizzare la regolamentazione europea 57.
Il vero è che, per anni si è assistito e se si vuole si assiste tuttora, a una si-
tuazione di «esclusione» dal circuito economico delle PMI, tutto ciò si appa-
lesa, in tutta la sua complessità, nella contrattualistica pubblica che rappre-
senta il settore che più di ogni altro può in positivo o in negativo offrire alle
PMI l’accesso nel mercato. Si osservi come in via fattuale, con le prime di-
rettive comunitarie in materia di appalti, le PMI venivano, di fatto, escluse
dalla domanda pubblica perché si preferivano appalti di grandi dimensioni
(giustificati anche dalla c.d. soglia comunitaria, cui il contratto doveva rag-
giungere) che portavano all’estromissione dal mercato della domanda pub-
blica le imprese più piccole; anche lì dove il valore del contratto era commi-
surato alle dimensioni dell’impresa, le PMI e le piccolissime imprese stenta-
vano a partecipare alla domanda pubblica nell’ipotesi in cui le amministra-
zioni dei singoli Stati membri come l’Italia, richiedessero, in base a un pre-
sunto rigorismo, requisiti economici e requisiti in merito all’attività pregres-

57
La revisione dello SBA conclude elencando alcuni esempi di «buone pratiche» riguar-
danti l’attuazione dei dieci principi fondanti, da parte degli Stati membri, nei primi due anni
dopo la Comunicazione del 2008. Un esempio di buona pratica nell’attuazione del primo
principio, sulla gratificazione dello spirito imprenditoriale, è rappresentato dallo statuto di
«auto-imprenditore» promosso dalla Francia nel 2009, per consentire a qualsiasi cittadino di
creare facilmente un’impresa e di beneficiare di una serie di esenzioni fiscali nei primi tre
anni. L’esempio di «seconda possibilità» è invece fornito dall’Estonia che, con la legge di
riorganizzazione del 2008, ha introdotto un’alternativa alla procedura fallimentare che con-
sente alle imprese di sopravvivere in caso di problemi temporanei di solvibilità. Nella Re-
pubblica Ceca dal 2009 la «scatola dei dati» mira a semplificare il trasferimento dei dati e la
comunicazione tra imprese e amministrazioni. Per l’attuazione del principio «pensare anzi-
tutto in piccolo», nell’aprile 2010 il Governo italiano ha istituito un gruppo di lavoro perma-
nente per monitorare l’attuazione dello SBA nel nostro Paese, pubblicando ogni anno un
rapporto sulla situazione delle PMI e proporre iniziative in questo contesto.
89

sa, particolarmente rilevanti. Ciò trova conferma nella survey che ha accom-
pagnato l’elaborazione delle Direttive 2014/24/UE e 2014/25/UE, nelle quali
univoca è stata l’osservazione da parte dei soggetti coinvolti del fatto che il
procedimento a evidenza pubblica fosse eccessivamente complesso, soprat-
tutto per le PMI.
Gli strumenti contenuti nelle nuove direttive, volte a coinvolgere anche
nel settore in questione le PMI, sono numerosi e di diversa tipologia. Il Par-
lamento europeo, nella Risoluzione del 25 ottobre 2011, sulla modernizza-
zione degli appalti pubblici (2011/2048(INI)) al punto 28, così rileva «in vi-
sta del riesame della normativa europea in materia di appalti pubblici [si
appalesa] l’opportunità di norme … più aperte verso le PMI». In verità la
Commissione europea, fin dal 2008, aveva emanato il c.d. Codice europeo
delle buone pratiche che agevolino l’accesso delle PMI ai contratti di ap-
palti pubblici, ma per molto tempo tale sollecitazione è rimasta lettera morta
proprio perché l’amministrazione trovava e trova meno oneroso (sia per la
tempistica sia per l’impegno) svolgere dei grandi appalti piuttosto che appal-
ti di piccole dimensioni. Per raggiungere l’obiettivo di una maggiore parte-
cipazione delle PMI gli strumenti e i meccanismi prospettati sia dall’Unione
sia coerentemente (almeno sotto questo profilo) dalla legge italiana, sono
eterogenei e si sovrappongono sia pure inseriti nella più ampia macro area
della semplificazione degli appalti. Già la direttiva comunitaria prevedeva
che, ove fosse possibile, le amministrazioni frazionassero l’appalto in lotti
funzionali, ciò al fine di conseguire un maggiore coinvolgimento delle PMI,
come già sollecitava il Libro Verde del 2011, normativizzando tale principio
nelle Direttive del 2014 58.
Nella legge delega di recepimento delle direttive del 2014, è riproposta la
suddivisione in lotti la quale assume una natura quasi obbligatoria preve-
dendosi che, fermo restando il ricorso alle centrali di committenza, deve es-
sere salvaguardata l’esigenza di garantire la suddivisione in lotti nel rispetto
della normativa dell’Unione europea. Con la suddivisione in lotti, anche la
piccola e media impresa dovrebbe poter partecipare agli appalti, non poten-
do in questo caso la stazione appaltante richiedere requisiti eccessivamente
gravosi per lotti di medie dimensioni. Parimenti si prevede, sempre al fine di
facilitare l’accesso alle micro, piccole e medie imprese, una maggiore diffu-
sione d’informazioni e un’adeguata tempistica nonché l’innovazione tecno-

58
Tale disciplina era già stata prevista nel Decreto Salva Italia il quale all’art. 2, comma
1-bis, così recita «… nel rispetto della disciplina comunitaria in materia di appalti pubblici,
al fine di favorire l’accesso alle piccole medie imprese, le stazioni appaltanti devono ove
possibile ed economicamente conveniente, suddividere gli appalti in lotti funzionali».
90

logica e digitale dell’intera materia che dovrebbero appunto favorire l’acces-


so alle gare delle PMI.
In quest’ottica è stato altresì introdotto il divieto di gold plating ovvero il
divieto, da parte dell’amministrazione nazionale, d’introdurre regolamenta-
zioni superiori ai minimi richiesti dalle direttive, cosicché verrebbero a con-
siderarsi contrarie al diritto comunitario tutte quelle regole più restrittive ri-
spetto al livello europeo, che non siano puntualmente giustificate da uno
specifico interesse pubblico.
Si rammenti che la Commissione europea, nella Comunicazione dell’8
ottobre 2010 59, pur ribadendo che gli Stati membri, in sede di attuazione
delle direttive godono di una discrezionalità particolarmente ampia (potendo
aumentare gli obblighi di comunicazione, aggiungere requisiti procedurali o
applicare regimi sanzionatori più rigorosi rispetto a quanto previsto dal legi-
slatore europeo), sottolinea che l’introduzione di livelli di regolamentazione
superiori rispetto a quanto richiesto dall’Unione, quant’anche non incidano
sul livello di legalità, siano annoverabili tra le bad pratice in quanto una tale
regolamentazione comporterebbe costi ulteriori e per le amministrazioni e
per le imprese nonché, oggi, alla luce delle direttive sugli appalti, una so-
stanziale discriminazione delle PMI.
Un secondo ordine di problemi, particolarmente incisivo per tali tipi di
imprese, attiene alla tempestività dei pagamenti da parte delle amministra-
zioni; ciò è dovuto al fatto che, negli anni precedenti, le PMI hanno dovuto
attendere per un lasso di tempo notevole (soprattutto in Italia) per il paga-

59
Direttiva del Presidente del Consiglio dei Ministri, 16 gennaio 2013, pubblicata in
G.U. il 12 aprile 2013, n. 86. Legge 28 novembre 2005, n. 246, art. 14, commi 24-ter e 24-
quater. Infine si tenga conto del D.P.C.M. 28 maggio 2014, contenente il Programma per la
misurazione e la riduzione dei tempi dei procedimenti amministrativi e degli oneri regolatori
gravanti su imprese su cittadini, ivi inclusi gli oneri amministrativi, in G.U. 24 luglio 2014,
n. 170. Come è stato rilevato dall’ANCE nell’Audizione rispetto alla prima bozza di legge
delega, il divieto di gold plating, trova espressamente fondamento nel comma 24-ter, art. 14,
legge n. 246/2005, che ne definisce natura e caratteristiche; mancherebbe, invece, l’espresso
richiamo al comma 24-quater della norma sopra citata, che consentirebbe di derogare al di-
vieto in questione, nell’ipotesi in cui si versi in circostanze eccezionali, consentendo, in tali
ipotesi, il superamento del livello minimo di regolazione comunitaria. Come rilevato opposto
a tale principio è il recepimento c.d. copy out che consiste invece nell’attenersi alla formula-
zione delle disciplina così come contenuta nella legislazione dell’Unione. Pertanto, nel rece-
pimento delle normative dell’Unione, i Governi nazionali si trovano nell’alternativa o di ri-
produrre fedelmente l’atto comunitario, oppure di prevedere le ragioni per cui ritengono ne-
cessaria l’applicazione del principio del gold plating. Nella Relazione presentata da P. Man-
tini, si sottolinea come detto principio possa assumere significati ulteriori. Si veda lo scritto
Divieto di gold plating e semplificazione normativa nel recepimento delle direttive su appalti
e concessioni, in http://www.osservatorioappalti.unitn.it.
91

mento delle proprie fatture da parte delle amministrazioni, a grave danno per
l’impresa stessa, talché, proprio il ritardato pagamento viene sovente indivi-
duato come uno dei motivi per cui le piccole imprese hanno eluso la parteci-
pazione alla domanda pubblica. Onde evitare tale fenomeno, nel gennaio
2011 il Consiglio ha adottato la Direttiva 2011/7/UE contro i ritardi di pa-
gamento, imponendo alle amministrazioni il saldo dei pagamenti entro trenta
giorni e fissando un limite di sessanta giorni per i pagamenti tra le imprese,
salvo esplicito accordo fra le stesse 60. Tale direttiva entrata in vigore in Ita-
lia, con l’art. 10 della legge n. 180/2011 (Statuto delle imprese) a tutt’oggi
non ha ancora sortito una generale applicazione, anche a causa della crisi
economica in cui versano gli enti locali, per cui non si può sostenere che la
direttiva abbia, di fatto, azzerato il fenomeno sopra descritto. Non a caso il
nostro Paese rischia il deferimento alla Corte di giustizia in quanto, nono-
stante un’obiettiva accelerazione nel pagamento delle forniture, non si è an-
cora verificato il rispetto delle tempistiche previste nella direttiva sopra cita-
ta. Cosicché, si può affermare che, almeno in Italia, la direttiva ha solo argi-
nato in un qualche modo il fenomeno del ritardato pagamento, senza tuttavia
adottare una politica risolutoria.
Un ulteriore punto nodale, questa volta sotto il profilo organizzativo,
consiste nell’agevolare anche le PMI o attraverso l’espandersi nel mercato
comune o mediante la costituzione nello stesso di filiali; a tal fine la Com-
missione si propone di adottare un regolamento volto a definire lo statuto di
una nuova forma di società «Società Privata europea, SPE» con l’obiettivo
di creare uno strumento uniforme, a livello europeo, che consenta di porre in
essere una struttura societaria flessibile, tale da permettere di risolvere il
problema degli obblighi onerosi per le PMI, allorché, ad esempio, si trovino
a costituire filiali in forma societaria diversa in tutti gli Stati membri nei
quali intendano esercitare la loro attività. In sede d’interventi comunitari
torna la figura dello SME Envoy, ovvero il rappresentante per le PMI che
funge o meglio dovrebbe fungere da interfaccia tra Commissione europea e
PMI, al fine di rappresentare, davanti alla Commissione, i problemi propri di
tale tipo di operatori economici, garantendo che gli interessi e i bisogni spe-

60
Inoltre la Commissione ha cominciato a utilizzare un «test PMI» nelle sue valutazioni
d’impatto. Per quanto riguarda la concessione del credito, è stato istituito un forum perma-
nente sul finanziamento delle PMI che riunisce rappresentanti delle imprese, banche, opera-
tori del mercato e altre istituzioni finanziarie, per cercare soluzioni che permettano di supera-
re i diversi ostacoli pratici incontrati, mentre l’accesso ai mercati (in particolare per gli ap-
palti pubblici) sta migliorando, poiché le PMI dovrebbero essere oggi soggette a minori one-
ri amministrativi acquisendo maggiori possibilità di presentare offerte congiunte.
92

cifici delle PMI vengano presi in considerazione durante il processo decisio-


nale normativo, anticipando così gli effetti delle nuove leggi.
In generale, con l’intento di prevedere una regolamentazione con ricadute
anche su l’omogenizzazione degli aspetti amministrativi a sostegno delle
stesse, la Commissione, in linea con la Strategia Europa 2020, ha rielaborato
i principali obiettivi a tutela di tali imprese che possono così sintetizzarsi:
regolamentare in modo intelligente, coinvolgendo le PMI; avviare politiche
concrete in merito al finanziamento delle PMI; migliorare l’accesso al mer-
cato per le PMI; aiutare le PMI a gestire le risorse in modo efficiente; pro-
muovere attraverso le PMI l’imprenditorialità, la creazione di occupazione e
la crescita inclusiva.
Consequenziale alla c.d. «regolamentazione intelligente», la Commissio-
ne ha inteso promuovere in tutta l’Unione, una semplificazione degli oneri
amministrativi che gravano sulle imprese in generale ma che diventano osta-
coli per l’accesso al mercato per le PMI. Già da qualche tempo e, ancora di
più in questo periodo, si era avviata la c.d. Better regulation con l’obiettivo
di ridurre gli oneri amministrativi per tutti gli operatori economici ma con
una particolare attenzione alla tipologia d’impresa di cui si discute. È noto
infatti che, la regolamentazione delle attività economiche, ha prodotto pro-
porzionalmente un impatto maggiore per le PMI rispetto alle medie e grandi
imprese sicché, l’intervento che sollecita la Commissione, attiene sia alla le-
gislazione già in atto sia al flusso della regolamentazione economica (valu-
tazione ex ante dell’impatto normativo) che si intende porre in essere 61.
La Commissione, inoltre, anche in risposta alla crisi finanziaria ed eco-
nomica, ha rivolto ampie sollecitazioni agli Stati membri affinché adottino

61
Fin dal 2007 è stato proposto dall’Europa un ambizioso programma di riduzione del
25% degli oneri amministrativi gravanti sulle imprese, secondo un modello sviluppato in
Olanda ma utilizzato in tutto il mondo, noto come Standard Cost Model (SCM). Tra questi
merita di essere segnalato come proprio in tema di normativa sulla semplificazione, una par-
ticolare disciplina si è avuta in riferimento alla fatturazione IVA: nel 2010 è stata adottata
dal Consiglio una direttiva che ha equiparato le fatture elettroniche a quelle cartacee ed è sta-
ta offerta la possibilità alle imprese con fatturato inferiore a € 2.000.000 annui, di beneficiare
di un sistema facoltativo di contabilità di cassa che consente loro di differire la contabilità
IVA, fino al ricevimento del pagamento da parte dei loro clienti.
Nell’ambito della semplificazione degli oneri burocratici si prevede l’applicazione, ad
esempio del principio «una sola volta» secondo il quale le autorità pubbliche devono aste-
nersi dal richiedere una seconda volta informazioni, dati, documenti o certificati che siano
già stati forniti dal soggetto economico anche nel contesto di altre procedure.
La via della semplificazione degli oneri amministrativi è stata seguita da tutti gli Stati
membri che hanno adottato sistemi diversi ma tutti finalizzati alla «sburocratizzazione» di
talune incombenze ricadenti sull’operatore privato.
93

misure idonee a migliorare l’accesso delle PMI al finanziamento, in partico-


lare ai prestiti bancari tramite prestiti subordinati vantaggiosi, sistemi di ga-
ranzia dei prestiti o programmi di microcredito. In Italia l’Autorità garante
della concorrenza e del mercato (AGCM) ha emanato regolamenti in merito
al rating di legalità con l’intento esplicito nei confronti delle imprese che
abbiano adottato comportamenti virtuosi di avere un miglior accesso al cre-
dito quale misura premiale 62. Il rilievo che tale rating potrebbe assumere per
le PMI si desume anche dalla Relazione annuale del 13 marzo 2014 presen-
tata dall’AGCM: in questo quadro, per evitare effetti distorsivi del mercato,
l’accesso al credito bancario dovrebbe essere concesso in via preferenziale
alle imprese iscritte volontariamente nella lista del rating; il fatto che tale
iscrizione sia volontaria, non preclude una via preferenziale per le stesse,
soprattutto in attuazione delle disposizioni già assunte per le PMI. In defini-
tiva, la corsia preferenziale per l’accesso al credito dovrebbe riguardare pro-
prio le PMI che, volontariamente, si sono iscritte in tale lista e si sono sotto-
poste a uno screening per ottenere il beneficio in parola.
Di conseguenza, la Commissione si è posta l’obiettivo di rafforzare i si-
stemi di garanzia dello stesso credito, al fine di rendere i programmi di fi-
nanziamento più accessibili mediante la semplificazione delle procedure e la
valutazione delle diverse opzioni, sì da creare uno strumento di valorizza-
zione dei diritti di proprietà intellettuale a livello europeo, in particolare per
facilitare l’accesso delle PMI al mercato delle conoscenze. Gli Stati membri
sono invitati attraverso lo «Sportello Unico» di cui si è detto 63, ad accompa-
gnare le imprese a richiedere sovvenzioni europee, nazionali e locali ed es-
sere facilitate nell’accesso ai fondi strutturali. Al fine di promuovere l’inno-

62
Sia consentito rinviare a G. MARCHIANÒ, Il rating delle imprese non può rimanere una
delle tante grida manzoniane nell’individuazione delle misure premiali, in Riv. Informator,
n. 1/2015, p. 78.
63
Gli sportelli unici sono dei portali di e-government che permettono agli operatori di
conoscere quali siano le leggi, i regolamenti e le formalità che si applicano alla prestazione
di servizi, completare online le formalità amministrative (compilando la modulistica e pre-
sentando la documentazione necessaria digitalmente). Non occorre più presentarsi ai singoli
uffici di ciascun’autorità competente nei diversi Paesi, in ogni Paese dell’Unione le formalità
possono essere espletate online tramite un solo punto di accesso proprio lo Sportello Unico.
In Italia, i Comuni e le Camere di commercio hanno realizzato l’alleanza sullo Sportello uni-
co per le attività produttive (Suap). È stato siglato un Protocollo dai presidenti di Anci,
Unioncamere e Infocamere, per estendere l’utilizzo della piattaforma «impresainungiorno»
al maggior numero di Comuni italiani, affinché gli adempimenti svolti dagli imprenditori per
la gestione della propria attività siano interamente digitali ma anche omogenei e standardiz-
zati. La piattaforma, precisa Unioncamere, costituisce il punto unico di contatto a livello na-
zionale per poter accedere ai servizi degli Sportelli unici per le attività produttive.
94

vazione in vari settori, gli Stati offrono un finanziamento alle giovani socie-
tà, altri finanziano centri di ricerca o poli di competitività cui partecipano
università, mentre alcuni erogano degli «assegni-innovazione» che permet-
tono alle PMI di acquistare know-how e servizi di consulenza 64.
A questi fini sono stati proposti nuovi strumenti finanziari per dar modo
alle start-up e alle imprese a rapida crescita di espandersi nei mercati
dell’Unione e nei mercati globali (per esempio prestiti, capitale di rischio e
finanziamenti a rischio condiviso); viene prevista altresì un’ulteriore sempli-
ficazione dei programmi dell’Unione per la ricerca e l’innovazione nonché
per i diritti di proprietà intellettuale a prezzi accessibili e l’uso strategico dei
bilanci per gli appalti 65. Come si vede, l’aiuto che le amministrazioni degli
Stati membri, in base alla regolamentazione politica devono porre in campo
per recuperare il tessuto economico rappresentato dalle PMI, non si presenta
in modo univoco ma si presenta attraverso un favor incidente su un’ampia
gamma d’interventi che vanno, come si diceva, dall’accesso al credito al so-
stegno dell’innovazione. Tutto ciò ovviamente, si riverbera sull’amministra-
zione degli Stati membri i quali ancora, per taluni versi, si muovono in modo
non univoco quasi che la fase amministrativa delle scelte politiche, contenu-
te nelle disposizioni assunte dall’Unione, sia un quid facoltativo.
Tuttavia, proprio in quest’ultimo periodo, l’azione dell’amministrazione
degli Stati membri sembra più incisiva, ad esempio lì dove l’Unione europea
preveda l’accesso a finanziamenti che mirino al raggiungimento degli obiet-
tivi sopra richiamati. In questo senso le stesse PMI possono ritrovare quelle
agevolazioni europee, quegli incentivi che le consentirebbero di sviluppare
la propria azione che talvolta non trovano nello Stato di appartenenza. Infi-
ne, sotto il profilo dello sviluppo dell’imprenditorialità, la Commissione sol-
lecita i Paesi membri ad attuare le raccomandazioni contenute nello SBA per
la riduzione del tempo e del costo per la creazione di un’impresa e per la
concessione di una seconda opportunità agli imprenditori, riducendo i termi-
ni per la riabilitazione e la liquidazione dei debiti dopo il fallimento degli
imprenditori onesti.

64
Nel campo delle sfide ambientali, in Olanda è stata creata nel 2008 la Fondazione per
la conoscenza e l’innovazione nella tecnologia energetica e ambientale, una rete di società,
istituti di ricerca e amministrazioni regionali e locali che cofinanziano progetti di prodotti e
tecnologie ecologiche.
65
Un ulteriore supporto verso le PMI è rappresentato dal sostegno per l’internazionaliz-
zazione delle stesse, anche mediante l’erogazione di aiuti finanziari per la promozione delle
esportazioni, strategie di accesso ai mercati e partecipazione a fiere commerciali. A tal fine,
in Francia è stato sperimentato un sistema di mentoring che consiste nell’aiuto che le grandi
società offrono alle PMI in questo processo.
95

Sia pure a macchia di leopardo tutti i Paesi dell’Unione hanno fatto pro-
prie le sollecitazioni provenienti dalla Commissione poiché lo sviluppo delle
PMI rappresenta un problema comune tra tutti gli Stati membri sicché la ri-
cerca di soluzioni anche di tipo amministrativo, al fine di coinvolgere nel
mercato europeo dette imprese, risulta quale problema di carattere generale
cui si tenta di dare una risposta.
Nel maggio del 2010 il nostro Paese ha approvato la Direttiva del Presi-
dente del Consiglio dei Ministri di attuazione dello Small Business Act, rico-
noscendo l’importante ruolo delle PMI nel sistema economico italiano, so-
prattutto in termini di occupazione e valore aggiunto. Grazie a questo prov-
vedimento si è potuta affiancare alla politica industriale già esistente per le
imprese di grandi dimensioni, una «nuova (e complementare) politica pro-
duttiva» riferita alle piccole e medie imprese.
Il Ministero dello Sviluppo Economico, conscio della presenza di squilibri
regionali sul territorio nazionale, dell’importante ruolo svolto dai distretti in-
dustriali, dalle filiere produttive e dai sistemi locali di sviluppo, ha adottato
un approccio che tratta con attenzione i problemi e i fattori dello sviluppo lo-
cale, caldeggiando l’adozione, da parte delle singole Regioni, di uno «SBA
regionale». Al tempo stesso si è reso rilevante monitorare il coordinamento
dei piani regionali con quello nazionale e, a sua volta, con quello europeo.
A tal fine sono state adottate la legge n. 180/2011, denominata «Statuto
delle imprese» e la «Legge annuale per le Micro PMI», prevista dall’art. 18
della legge n. 180/2011. Lo «Statuto delle imprese» ha come finalità il so-
stegno per l’avvio di nuove imprese, in particolare da parte di giovani e
donne, la valorizzazione del potenziale di crescita, di produttività e d’inno-
vazione delle Micro PMI, riservando a queste e alle reti d’impresa una quota
minima d’incentivi. Sempre la legge n. 180, istituisce presso il Ministero
dello Sviluppo Economico, la figura del Garante per le Micro PMI italiane,
con i compiti di monitoraggio dell’attuazione dello SBA, elaborazione di
proposte per lo sviluppo del sistema e coordinamento tra i Garanti istituiti
presso le Regioni. Si prevede altresì che, entro il 30 giugno di ogni anno il
Governo, su proposta del Ministero dello Sviluppo Economico e sentita la
Conferenza unificata Stato-Regioni, presenti al Parlamento un Disegno di
Legge per la tutela e lo sviluppo delle Micro PMI, che definisca gli interven-
ti in materia per l’anno successivo. Viene inoltre pubblicato (già a partire dal
2009) un rapporto annuale predisposto dal Ministero dello Sviluppo Econo-
mico che monitora le iniziative adottate a favore delle PMI in relazione agli
obiettivi dello SBA. Come già detto, la Commissione effettua ogni anno una
valutazione sul grado di attuazione della Comunicazione sullo SBA da parte
di ciascun Paese membro: dall’analisi del caso italiano emerge che nel pe-
96

riodo che va dal 2008 al 2013, l’Italia ha avviato (se non conseguito) impor-
tanti progressi nel promuovere e supportare il sistema delle PMI, in partico-
lare nell’attuazione del principio sull’aiuto a beneficiare delle opportunità
offerte dal mercato unico sia nella promozione dell’imprenditorialità sia
nell’offrire la «seconda possibilità», mentre è ancora carente in ambito di
appalti pubblici, aiuti di Stato, accesso al credito e puntualità dei pagamenti.

1.4. AIUTI DI STATO: EFFETTO DIRETTO ORIZZONTALE E RUOLO DELLE AMMINI-


STRAZIONI NAZIONALI

Sin dalla firma del Trattato di Roma del 1957 la politica degli aiuti di
Stato è stata elemento integrante della regolamentazione della concorrenza
ciò in quanto, al termine della seconda guerra mondiale con lo sviluppo dei
commerci su scala internazionale, si è avvertita la necessità di evitare gli ef-
fetti distorsivi che le sovvenzioni statali e le politiche protezionistiche pro-
vocavano tra gli operatori economici dei diversi Paesi aderenti al mercato
comune. Fino agli anni ’70 il problema degli aiuti afferisce a un ambito in
un certo senso limitato ciò in quanto, da un lato il mercato comune è un pro-
cesso ancora in fieri, dall’altro si scontra con regimi nazionali di aiuti conso-
lidati nel tempo. La situazione italiana ne è un chiaro esempio, basti pensare
alle sovvenzioni, alle agevolazioni che hanno interessato il nostro Paese ne-
gli anni ’50, le quali s’intensificano nei decenni successivi investendo settori
nevralgici dell’economia nazionale 66.
A partire dagli anni ’90 si assiste a una netta inversione in materia di aiu-
ti, imputabile da un lato al completamento del mercato interno varato con il
Libro Bianco della Commissione del 1984 e sancito dall’Atto Unico europeo
del 1987, dall’altro ai vincoli di bilancio imposti dal Trattato di Maastricht.
«La prima circostanza rende più evidente la necessità di contrastare le di-
storsioni prodotte dagli aiuti sul funzionamento di un mercato concorrenzia-
le; la seconda costringe gli Stati a fare i conti coi disavanzi di bilancio e
quindi a limitare le risorse disponibili per erogazioni e incentivi» 67.

66
G.L. TOSATO, L’evoluzione della disciplina degli aiuti di Stato, in C. SCHEPISI (a cura
di), La modernizzazione della disciplina sugli aiuti di Stato, Giappichelli, 2011, p. 4.
«L’intervento [italiano] si rileva massiccio specie in talune direzioni quali il Mezzogiorno,
l’export, le imprese pubbliche, il sostegno dei campioni nazionali. In pratica se la normativa
comunitaria esercita una qualche influenza sul comportamento delle piccole e medie impre-
se, aperto all’iniziativa privata della concorrenza, i suoi effetti permangono pressoché inesi-
stenti nei riguardi del settore bancario e delle grandi imprese e delle imprese pubbliche in
genere».
67
G.L. TOSATO, op. ult. cit., p. 5.
97

Alla base del nuovo indirizzo vi è in realtà una diversa prospettazione


dell’interesse europeo: gli interessi nazionali, anche quando siano ispirati a
finalità sociali, non legittimano di per sé l’aiuto, quest’ultimo deve risponde-
re a un interesse comunitario che viene genericamente a identificarsi con il
corretto funzionamento del mercato 68. D’altro canto, negli anni ’90, si assi-
ste a un riequilibrio tra le regole del mercato e gli interessi generali; con il
Trattato di Amsterdam, 1997, si rafforza la dimensione sociale dell’Europa
già delineata a Maastricht: la coesione economica e sociale, l’uguaglianza,
la solidarietà, l’occupazione sono elementi costitutivi primari dell’ordine eu-
ropeo. Il vero è che la Commissione si era prefissa nel 2005 di presentare un
pacchetto di riforme ampio e coerente che conducesse a interventi di suppor-
to statali più mirati alle politiche di sostegno attraverso procedure efficaci e
trasparenti.
La dimensione non meramente economica viene ribadita nel Trattato di
Lisbona, 2007, nel quale si legge di un’economia «sociale» del mercato e la
concorrenza, come si è detto in precedenza, figura non tra i fini ma come
strumento della politica comunitaria. Di base si deve prendere atto di un mu-
tato concetto d’interesse comunitario che non s’identifica solo ed esclusiva-
mente nella tutela della concorrenza ma riconosce interessi di pari valore a
tutta una serie di casi quali la politica dell’occupazione, la salute, l’ambien-
te, la coesione territoriale; l’opera della Commissione è quindi individuabile
nella ricerca del bilanciamento tra gli effetti positivi e gli effetti negativi de-
gli aiuti. Tuttavia, dal 2008, il valore della preservazione della competizione
è bilanciato con finalità di carattere sociale che giustifica ricorrenti dichiara-
zioni di compatibilità delle erogazioni e agevolazioni alle imprese. Sotto
questo profilo sicuramente ha inciso la crisi finanziaria ed economica che ha
investito l’Europa 69, il ché ha portato a nuovi interventi da parte della Com-

68
Rileva la Commissione che l’assistenzialismo statale è di breve durata e tende a spo-
stare le difficoltà da uno Stato ad un altro. In ogni caso per una ricostruzione storica si rinvia
a M. MEROLA-N. PESARESI, La crisi delle imprese e il diritto dell’Unione europea in mate-
ria di aiuti: cenni storici tendenze e prospettive, in F. BONELLI (a cura di), Crisi di imprese:
casi e materiali, Giuffrè, 2011, pp. 367 ss., inquadrano questo cambiamento nel contesto
mutato a seguito dei Consigli europei di Stoccolma (2001) e di Barcellona (2002), nei quali
gli Stati hanno deciso di contrarre e di reindirizzare le risorse finanziarie, dirigendole princi-
palmente verso obiettivi orizzontali e di coesione sociale.
69
C. BUZZACCHI, Aiuti di Stato tra misure anti-crisi ed esigenze di modernizzazione: la
politica europea cambia il passo?, in Conc. e merc., fasc. 1/2013, p. 77. «La particolare
contestualità dei due processi può essere letta in una qualche misura secondo un nesso di
causalità, dal momento che il massiccio ricorso ad interventi di sostegno da parte degli Stati
membri a favore del settore finanziario ha mosso le istituzioni comunitarie e gli studiosi alla
riflessione, per comprendere come possa essere reimpostato il controllo comunitario su que-
98

missione volti a sostenere le imprese in difficoltà 70. Il ruolo centrale, asse-


gnato dai trattati alla politica della concorrenza per il funzionamento del-
l’economia, dipende, com’è stato osservato, dalla «complementarietà» di ta-
le politica con quella dell’instaurazione del mercato interno 71; sia il TUE
che il TFUE, inseriscono un complesso di norme volte a permettere l’instau-
razione e il mantenimento del mercato unico che comprende tutta la tematica
relativa alla concorrenza. Da ciò gli aiuti erogati dagli Stati agli operatori
economici, sono sottoposti al controllo delle istituzioni comunitarie; il divie-
to previsto dall’art. 87 CE, riguarda solo quegli aiuti che siano incompatibili
col mercato comune, a seguito di un accertamento, effettuato dalla Commis-
sione caso per caso. Con ciò emerge che l’art. 87, par. 1, non produce effetti
diretti, come ha posto l’accento la sentenza della Corte di giustizia risalente
al 1977 72, nel senso che i singoli non potrebbero invocare detto aiuto dinan-
zi a un giudice nazionale per contestarne la compatibilità. Dal par. 1 dell’art.
87, non si desume neanche che l’aiuto possa essere erogato dallo Stato fin
tanto che la Commissione non decida; sono inoltre esclusi dal divieto comu-
nitario, gli aiuti compatibili de jure e quelli suscettibili di essere dichiarati
compatibili al verificarsi delle condizioni previste dall’art. 87, par. 2, 3, non-
ché quelli erogati a favore di soggetti che non esercitano attività economiche
o che non influiscono sulla concorrenza in ambito comunitario. Inoltre, al-
cuni settori economici, esulano dal contesto dell’art. 87 CE, giacché benefi-
ciano di un regime speciale, derivante dallo stesso trattato, o da una norma-
tiva comunitaria espressa, o dai poteri riconosciuti alle istituzioni nel quadro
di un’organizzazione comune di mercato quale l’agricoltura, la pesca, i tra-
sporti. Parimenti, di un regime speciale beneficiano, per ciò che attiene le
agevolazioni finanziarie, le imprese incaricate della gestione di servizi d’in-
teresse generale economico, anche se la specifica missione loro affidata, non

ste erogazioni, non solo in termini procedurali ma soprattutto sotto il profilo delle finalità
che l’Unione persegue nel valutare l’ammissibilità delle sovvenzioni e delle agevolazioni
statali; tuttavia occorre osservare che l’esigenza della modernizzazione delle procedure è
sorta già prima del 2008, e dunque indipendentemente dalla crisi che ancora perdura, e sca-
turisce dalla consapevolezza di un funzionamento tuttora insoddisfacente degli strumenti
regolativi in materia di aiuti di Stato».
70
Occorre rammentare a tal proposito la Comunicazione del 13 ottobre 2008 nonché
quella del 5 dicembre 2008: in queste due comunicazioni è di tutta evidenza lo sbilanciamen-
to verso le istituzioni finanziarie ma, si osservi, come fossero già state emanate comunica-
zioni in materia di aiuti di Stato per il salvataggio e la ristrutturazione delle imprese in diffi-
coltà nel 2004, inoltre lo State Aid Action Plan del 2005, aveva già ridefinito la nozione di
impresa in difficoltà, di aiuti per il salvataggio, di aiuti per la ristrutturazione.
71
G. TESAURO, Il diritto dell’Unione europea, Cedam, 2010, p. 630.
72
Sentenza 22 marzo 1977, Steinke, C-78/76, in Raccolta, 1977, p. 595.
99

sottrae di per sé tali benefici dalla loro qualificazione di aiuti. Il contrasto


nei confronti degli aiuti di Stato viene, in quest’ultimo periodo, ad assumere
una fisionomia ancora diversa rispetto al passato dovuta alla necessità di
supportare la fragilità economico/finanziaria del sistema imprenditoriale eu-
ropeo; così la Commissione si è vista costretta, nell’ultimo decennio, a cali-
brare, per certi segmenti del mercato, la portata del divieto, facendo frequen-
te ricorso ai poteri generali di esenzione in particolare a favore delle PMI.
Sono stati inoltre precisati i limiti entro i quali gli Stati membri possono di-
sporre di aiuti a favore di imprese operanti in settori critici o che gestiscano
servizi di interesse generale (SIEG) nonché a prevedere limitazioni rispetto
al generale divieto di aiuti di Stato, lì dove essi abbiano una funzione pro-
mozionale di segmenti di mercato per i quali la stessa Unione europea au-
spica un maggiore sviluppo 73.
Permane la regola generale del divieto che viene supportata da quanto di-
sposto dall’art. 107, par. 1, TFUE, ove testualmente si legge: «Salvo dero-
ghe contemplate dai Trattati, sono incompatibili con il mercato interno, nel-
la misura in cui incidano sugli scambi tra Stati membri, gli aiuti concessi
dagli Stati, ovvero mediante risorse statali, sotto qualsiasi forma che, favo-
rendo talune imprese o talune produzioni, falsino o minaccino di falsare la
concorrenza» 74. Inoltre si rammenti che il divieto di cui al precitato articolo,
si applica anche a misure statali che favoriscono «talune imprese o talune
produzioni, vale a dire gli aiuti selettivi» 75.

73
Si veda sul punto G. ZANCHI, L’aiuto di Stato incompatibile, il suo recupero e il diritto
privato, in Europa e dir. priv., n. 3/2014, pp. 1051 ss.
74
M. BRISACANI, Gli aiuti di Stato e le misure di concorrenza fiscali dannose, in Manua-
le di fiscalità internazionale, Ipsoa, 2014, p. 1996. Il nuovo sistema appare sicuramente me-
no rigido rispetto a quello contenuto nell’art. 4, Trattato CECA, in quanto improntato all’esi-
genza di tener conto dell’interesse economico di ciascuno Stato. Com’è stato osservato «in
quest’ottica, l’art. 107 TFUE, non individua un divieto di aiuti di Stato tout court ma un più
elastico anche se altrettanto stringente divieto di aiuti di Stato compatibili. La disposizione
intende sostanzialmente privilegiare un sistema di controllo sugli aiuti piuttosto che un di-
vieto prevedendo, ovviamente, la possibilità di eliminarli, nonché di procedere al recupero,
qualora questi dovessero produrre effetti distorsivi sulla concorrenza e sugli scambi tra gli
Stati membri. Allo stesso tempo rispetto al Trattato CECA, tale sistema ha un campo di ap-
plicazione più ampio riferito a qualunque settore e qualificato in senso soggettivo, poiché
diretto agli Stati e non alle imprese destinatarie viceversa delle complementari norme anti-
trust».
75
Proprio sulla selettività degli aiuti si rinvia a L. CALZOLARI, La selettività degli aiuti di
Stato e il principio di parità di trattamento delle imprese nella recente giurisprudenza della
Corte di giustizia, in Dir. comm. internaz., n. 2/2015, pp. 48 ss. L’A. sottolinea come «la
selettività può essere territoriale o materiale e inoltre può derivare dalla discrezionalità
dell’Autorità pubblica nella determinazione dei destinatari dell’aiuto, anche se la scelta si
100

Il vero è che, dall’art. 87 TUE, non è ricavabile una definizione precisa di


aiuto statale, ciò ha permesso di farvi rientrare una gamma di provvedimenti
difficilmente determinabili in astratto che solo caso per caso è possibile ac-
certare se siano o meno contrari al divieto stesso. Così la disposizione in pa-
rola non favorisce una definizione della nozione di aiuto di Stato; tuttavia,
nella formulazione della norma, è evidente l’intento di dare al divieto la più
ampia portata, dato questo confermato dall’inciso «sotto qualsiasi forma»
contenuto nella disposizione in parola. È in questa direzione, inoltre, che si è
orientata la Corte di giustizia, la quale ha fatto rientrare nella nozione «aiuti
di Stato» non solo le prestazioni positive degli organi pubblici a sostegno
d’imprese ma anche tutte le forme di esenzione che siano idonee a produrre
effetti positivi per le stesse.
Si è osservato che in uno Stato federale sarebbe stato impensabile che i
singoli Stati dovessero predisporre le misure anti-crisi singolarmente perché
«le situazioni di turbamento dell’economia vengono normalmente affrontate
a livello federale: così non può essere, nella fase attuale di integrazione, per
l’Unione europea che non avrebbe mai valutato di elaborare una risposta
comune al dissesto delle banche e delle imprese» 76.
In linea generale, affinché una misura adottata da uno Stato membro sia
qualificabile come aiuto e rientri nella disciplina comunitaria, occorre: che
tale aiuto crei un vantaggio economicamente apprezzabile per certe imprese;
che crei una distorsione della concorrenza; che incida sugli scambi tra gli
Stati membri; che comporti un onere per il bilancio dello Stato attraverso un
trasferimento diretto o indiretto delle risorse dallo Stato all’impresa, infine,
che sia imputabile allo Stato. Possono quindi costituire aiuti di Stato anche
gli interventi che, con varie modalità, alleviano gli oneri che normalmente
gravano sul bilancio di un’impresa e che, pur non essendo delle sovvenzioni
in senso stretto, ne hanno la stessa natura e producono gli stessi effetti. Tut-
tavia ciò non vuol dire il venir meno delle regole della concorrenza che con-

basa su parametri oggettivi e non ha carattere arbitrario. Sono territorialmente selettivi i


benefici concessi alle imprese che operano solo in una parte di uno Stato membro rispetto a
quelle attive nel resto del territorio. L’aspetto più interessante riguarda in questo caso la
loro concessione da parte di enti territoriali: se questi hanno autonomia politica, economica
e amministrativa, l’eventuale selettività va infatti valutata in relazione alla sola area geo-
grafica di competenza dell’ente territoriale, piuttosto che all’intero territorio dello Stato
membro».
76
C. BUZZACCHI, op. cit., p. 79. Rileva l’A. come le istituzioni comunitarie abbiano valu-
tato come unica risposta «… comune possibile – oltre a quella rappresentata dall’utilizzo di
vari strumenti di salvataggio noti come fondi salva Stati, l’Efsf e l’Ems, che tuttavia non so-
no da considerare strumenti di intervento dell’Unione – quella di un allentamento della va-
lutazione della compatibilità degli aiuti».
101

tinuano a essere elemento portante della politica comunitaria ma sicuramen-


te l’approccio della Commissione è mutato dovendo tener conto delle richie-
ste degli Stati fondati su piani credibili e affidabili al fine di consentire una
fuoriuscita dalla crisi all’economia reale.
Le ipotesi di deroghe al generale divieto di aiuti di Stato vengono dalla
Commissione individuate nei casi in cui non sia possibile realizzare diver-
samente l’interesse comunitario, obiettivo in virtù del quale è concessa la
deroga. La Commissione, tuttavia, non può autorizzare aiuti che non siano
necessari e proporzionati rispetto all’obiettivo perseguito.
In base al principio di trasparenza si prevede che la natura e la portata
dell’aiuto siano verificate in conformità a tutti gli elementi necessari (la
forma utilizzata, l’obiettivo operativo, la consistenza prevista, i mezzi finan-
ziati), per cui vi è un obbligo d’informazione a carico degli Stati membri e di
motivata valutazione a carico della Commissione circa l’erogazione o meno
dell’aiuto. Resta fermo il divieto di cumulo il quale stabilisce che i diversi
massimali previsti dalle normative non possono comunque essere superati né
con la moltiplicazione di erogazioni di valore inferiore, né con la sommato-
ria di sovvenzioni provenienti da diversi regimi.
In linea generale, alla luce di questo quadro interpretativo, in merito
all’«aiuto» ex se, le disposizioni contenute nel Trattato di Lisbona fanno ipo-
tizzare, come poi è avvenuto, un sistema più flessibile che tenga conto, da
un lato dell’indisponibilità degli Stati a rinunciare a uno strumento di politi-
ca economica nazionale, dall’altro all’importanza che in taluni casi detti aiu-
ti possono assumere per raggiungere gli obiettivi comunitari. Col nuovo si-
stema emerge un’esigenza più realistica di tener conto delle ragioni degli
Stati nonché dell’importanza degli aiuti in situazioni di particolare interesse
economico. In quest’ottica l’art. 107 TFUE, non individua un divieto di aiuti
di Stato tout court, ma uno stringente divieto di aiuti di Stato per così dire
incompatibili con gli interessi dell’Unione, il quale interesse rappresenta, a
ben vedere, la chiave di volta dell’intero sistema 77. Nella fattispecie in esa-

77
In ogni caso è noto come non esista una definizione di «aiuti di Stato» sicché gli stessi
possono assumere forme diverse: contributi, esenzioni da imposte e tasse, assunzioni di fi-
deiussioni a condizioni particolarmente vantaggiose, fornitura di beni o servizi a condizione
di favore, garanzie, concessione di terreni ed edifici a titolo gratuito e a prezzi estremamente
convenienti. L’art. 107 TFUE, sembra far riferimento agli aiuti compatibili rispetto agli aiuti
incompatibili: nel par. 2 sono compatibili con il mercato interno: «a) gli aiuti a carattere so-
ciale concessi ai singoli consumatori, a condizione che siano accordati senza discriminazio-
ni determinate dall’origine dei prodotti; b) gli aiuti destinati ad ovviare ai danni arrecati
dalle calamità naturali oppure da altri eventi eccezionali; c) gli aiuti concessi all’economia
di determinate regioni della Repubblica federale di Germania che risentono della divisione
102

me, quindi, non si può più parlare di regola ed eccezione poiché il divieto di
erogazione degli aiuti non è più una regola precettiva, quanto piuttosto un
principio di carattere dinamico che consente pari dignità alle varie ipotesi di
scollamento dal principio in parola.
È l’art. 107, par. 1, TFUE, che precisa le condizioni che devono essere
presenti affinché un intervento costituisca un aiuto di Stato «compatibile» o
«incompatibile»: prima di tutto vi deve essere un trasferimento di risorse sta-
tali ovvero un’agevolazione proveniente direttamente o indirettamente da
fondi statali (incluse le risorse di autorità nazionali, regionali o locali, ban-
che e fondazioni pubbliche, ecc.); «incompatibile» è invece il vantaggio
economico che l’aiuto verrebbe a conferire all’impresa perché si concretiz-
zerebbe in un beneficio che la stessa non avrebbe ottenuto nel corso della
normale attività; l’aiuto «compatibile» deve essere ispirato al criterio della
selettività ovvero per costituire aiuto di Stato «compatibile», la «misura»
non deve essere generale e indiscriminata bensì di carattere selettivo appli-
candosi a uno specifico settore economico (aiuti settoriali) e/o a un determi-
nato territorio (aiuti regionali) così da non incidere sull’equilibrio esistente
tra un’impresa e i suoi concorrenti.
In definitiva, come già accennato, l’aiuto per essere «incompatibile» deve
avere l’effetto di alterare la concorrenza attraverso un miglioramento della
posizione del suo beneficiario rispetto a un determinato mercato a discapito
dei suoi potenziali concorrenti.
La Commissione è quindi chiamata a compiere, caso per caso, quello che
è definito balancing test al fine di verificare la tollerabilità valutandone i
possibili effetti negativi qualora l’aiuto non sia diretto al perseguimento di
finalità particolarmente meritevoli. Il vero è che la Commissione europea,

della Germania, nella misura in cui sono necessari a compensare gli svantaggi economici
provocati da tale divisione». Cinque anni dopo l’entrata in vigore del Trattato di Lisbona, il
Consiglio, su proposta della Commissione, può adottare una decisione che abroga la presente
lettera. Nel par. 3 possono considerarsi compatibili con il mercato interno: «a) gli aiuti de-
stinati a favorire lo sviluppo economico delle regioni ove il tenore di vita sia anormalmente
basso, oppure si abbia una grave forma di sottoccupazione, nonché quello delle regioni di
cui all’art. 349, tenuto conto della loro situazione strutturale, economica e sociale; b) gli
aiuti destinati a promuovere la realizzazione di un importante progetto di comune interesse
europeo oppure a porre rimedio ad un grave turbamento dell’economia di uno Stato mem-
bro; c) gli aiuti destinati ad agevolare lo sviluppo di talune attività o di talune regioni eco-
nomiche, sempre che non alterino le condizioni degli scambi in misura contraria al comune
interesse; d) gli aiuti destinati a promuovere la cultura e la conservazione del patrimonio,
quando non alterino le condizioni degli scambi e della concorrenza nell’Unione in misura
contraria all’interesse comune; e) le altre categorie di aiuti, determinate con decisione del
Consiglio, su proposta della Commissione».
103

insieme alle autorità garanti della concorrenza degli Stati membri, è venuta
ad applicare direttamente le disposizioni in materia di concorrenza del-
l’Unione (artt. 101-109 TFUE) al fine di assicurare una concorrenza leale e
in condizioni di parità tra tutte le imprese sì da contribuire a un miglior fun-
zionamento del mercato interno 78. Il controllo che il trattato affida alla
Commissione non è quello concernente l’adeguatezza dell’aiuto ma è quello
relativo alla potenziale distorsione concorrenziale imputabile all’aiuto stes-
so; la Commissione in ogni caso, ha un ampio margine di discrezionalità in
merito all’opportunità e alla compatibilità degli aiuti, pur sotto il controllo
della Corte di giustizia e del Tribunale di primo grado: ma al giudice comu-
nitario non spetta sostituire la propria valutazione a quella della Commissio-
ne, dovendosi limitare alla verifica del rispetto delle norme di procedura, della
motivazione e dei requisiti richiesti per la legittimità degli atti comunitari.
Una particolare attenzione deve essere riservata all’evoluzione dell’inter-
vento in materia di aiuti da parte della Commissione a fronte di aziende
pubbliche; l’iniziativa in parola si inserisce nella complessiva opera di mo-
dernizzazione nell’ambito dell’Unione in merito agli aiuti di Stato, annun-
ciata dalla Commissione europea nel corso del 2012 79. Tuttavia, in tale set-
tore il tema degli aiuti di Stato assume sfumature proprie che meritano una
riflessione a parte. Occorre a tal fine rammentare che, fino a tutti gli anni ’70
si è assistito, da parte dell’Unione, all’adozione in materia del c.d. «principio
di neutralità» (art. 295 TCE), che implicava che gli Stati fossero liberi di
istituire e organizzare imprese pubbliche, le quali, per quest’attività, si rite-
nevano immuni dalle regole comunitarie sugli aiuti.
Dagli anni ’80 in poi è venuto a prevalere il criterio di «parità di tratta-
mento» fra imprese pubbliche e private (art. 106, par. 1, TFUE) con la con-
seguenza che le imprese pubbliche sono soggette alle regole di mercato e
della concorrenza allo stesso modo di quelle private. È in questo quadro che
la Commissione sviluppa il c.d. «criterio dell’investitore privato»; ne conse-
gue che gli investimenti statali alle imprese pubbliche possono considerarsi
leciti solo se, anche un imprenditore privato, avesse agito al pari dell’impre-
sa pubblica altrimenti, anche queste ultime vengono a ricadere sotto l’egida
del divieto degli aiuti. È in questa fattispecie che rientrano quelle forme di
aiuti definite prestiti, o assunzioni di partecipazioni da parte dello Stato o di

78
All’interno della Commissione è la Direzione generale della concorrenza (DG COMP)
il soggetto principale nell’esercizio di tale potere.
79
Comunicazione della Commissione al Parlamento europeo, al Consiglio, al Comitato
Economico e Sociale Europeo e al Comitato delle Regioni «Modernizzazione degli aiuti di
Stato dell’UE» COM (2012), n. 209 dell’8 maggio 2012.
104

un ente pubblico a capitale d’impresa; infatti, anche nei casi sopra richiama-
ti, la Corte di giustizia ha seguito il criterio dell’investitore privato, che ope-
ra in una normale economia di mercato 80.
Com’è stato osservato «nell’ambito della politica della concorrenza», la
disciplina degli aiuti di Stato sembra essere volta al raggiungimento di un
punto d’incontro tra libertà di concorrenza e diritto alla promozione dello
sviluppo dei territori e dei settori più svantaggiati, secondo quanto emerge
dal documento presentato dalla Commissione del 2005 81. Alla luce di questi
fattori, viene a operarsi un bilanciamento tra effetti positivi ed effetti negati-
vi degli aiuti in taluni settori particolari della vita consociativa che coinvol-
gano imprese pubbliche e/o imprese private. L’applicazione degli aiuti di
Stato si viene così a caratterizzare sostanzialmente per una sottrazione alle
norme di concorrenza di alcune attività in virtù del loro carattere solidaristico,
col che viene ad ampliarsi il campo degli interventi pubblici che possono esse-
re attuati senza preventiva notifica o assenso della Commissione (aiuti per la
ricerca, occupazione, ambiente, formazione e PMI sotto la soglia de minimis).
Tuttavia, permane la regola del divieto di aiuti di Stato qualora questi mi-
nino la concorrenza del mercato; per determinare gli effetti sulla concorren-
za, la Commissione deve anticipatamente definire i mercati rilevanti sotto
l’aspetto geografico e del prodotto che sarebbero intaccati dagli aiuti statali.
In questa prospettiva la Commissione ha proposto l’utilizzo del criterio del
parametro «benessere sociale» per verificare la compatibilità dell’aiuto. Det-
to criterio, in linea di massima esemplificazione, è costituito da due elemen-
ti: il surplus dei consumatori – in altre parole s’individua in quanto di meno
i consumatori pagano rispetto a quanto sarebbero disposti a pagare per quel
prodotto o quel servizio – il surplus dei produttori – ovvero quanto essi ri-
cavano dalla vendita del prodotto rispetto ai costi –. Inoltre, il «benessere
sociale» tiene conto non solo della somma dei surplus dei consumatori e dei
produttori ma anche di come il benessere sia poi distribuito tra i Paesi e i cit-
tadini, per cui a ben vedere, detta analisi non può esimersi dal dover tener
conto anche del criterio di equità distributiva.
La Commissione europea ha adottato, il 21 maggio 2014, il nuovo Rego-
lamento generale di esenzione per categoria (GBER) contenente la lista de-
gli aiuti di Stato esentati, il quale sostituisce il Regolamento precedente ap-
provato nel 2008. Le finalità del GBER sono prima di tutto quelle di ridurre
gli oneri amministrativi per le autorità pubbliche e i tempi di attesa per i be-

80
Sentenza 10 luglio 1986, Belgio c. Commissione (Meura) C-234/84, in Raccolta, 1986,
2263. Si veda altresì la sentenza Alfa Romeo, Italia c. Commissione, C-305/89.
81
M. BRISACANI, op. cit., p. 1992.
105

neficiari, nell’ambito del preciso obiettivo di incoraggiare gli Stati a utilizza-


re in modo più efficiente le risorse disponibili nonché perseguire i più signi-
ficativi interessi dell’Unione, come la creazione di posti di lavoro e l’aumen-
to della competitività. Infine, ma non da ultimo, detti aiuti possono essere
giustificati in base alla distribuzione del benessere tra Paesi e cittadini 82.
Sotto il profilo della concorrenza in senso stretto i principi comunitari
mostrano tre possibili effetti degli aiuti: gli aiuti potrebbero attenuare l’in-
centivo degli operatori di investire in innovazione a livello ottimale (effetti
dinamici); le imprese dei concorrenti beneficiari potrebbero ridurre le vendi-
te e gli investimenti (effetti di mercato); effetti sulla concorrenza dei fattori
di produzione nonché sull’ubicazione degli investimenti. Merita una partico-
lare attenzione per ciò che attiene il procedimento col quale viene erogato o
negato l’aiuto, che è di esclusiva competenza della Commissione, diretto al-
lo Stato e non alle imprese che ne facciano richiesta, cosicché i singoli non
possano contestare la compatibilità di un aiuto col diritto dell’Unione.
La giurisprudenza della Corte di giustizia ha riconosciuto l’efficacia di-
retta dell’art. 108, par. 3, TFUE, nella parte in cui prevede il divieto, per gli
Stati membri, di attuare il provvedimento che dispone l’aiuto prima che la
procedura non abbia portato a una decisione finale da parte della Commis-
sione 83. L’art. 107, invece, non ha effetto diretto, almeno fino a quando non
si concretizzi in una decisione della Commissione o non venga attuato attra-
verso un regolamento di esenzione. La Corte ha specificato che l’efficacia
immediata del divieto vincola sia il giudice nazionale sia l’amministrazione,
in quanto si estende all’intero periodo in cui si svolge la procedura di con-
trollo. Da questa precisazione derivano rilevanti conseguenze quanto al di-
verso ruolo attribuito alle autorità nazionali rispetto alla Commissione, nel-
l’applicazione dell’art. 108, par. 3.

82
In merito all’equità la Commissione menziona:
1. Gli aiuti a finalità regionale (contemplati nell’art. 107, par. 3).
2. Gli aiuti alla fornitura di servizi di interesse economico generale SIEG. Un aiuto ai
servizi d’interesse economico generale è lecito a condizione che il vantaggio conseguente al
perseguimento dell’interesse comune ecceda la restrizione concorrenziale che ne consegue.
3. Gli aiuti diretti a favorire l’inserimento professionale dei lavoratori svantaggiati e
[…] disabili.
4. Gli aiuti al salvataggio e alla ristrutturazione
5. Gli aiuti ai prodotti e ai servizi culturali compresi quelli tesi a preservare la diversità
culturale.
83
In merito all’effetto diretto dell’art. 108, par. 3, TFUE, si richiamano le famose sen-
tenze Costa/Enel (Corte giust., 15 luglio 1964, C-6/64) ribadito, tra le altre, nella più recente
sentenza Corte giust., 5 ottobre 2006, C-368/04, Transalpine Ölleitung in Österreich GmbH
e altri/Finanzlandesdirektion für Tirol e altri.
106

Secondo una consolidata giurisprudenza della Corte di giustizia, si è ve-


nuta a riconoscere, in capo alla Commissione, la facoltà di chiedere che gli
Stati membri impongano alle imprese beneficiarie di restituire gli aiuti illeci-
tamente concessi o che si siano rivelati incompatibili col trattato. Tuttavia,
un ruolo decisivo sono chiamati a svolgere i giudici nazionali, i quali posso-
no essere aditi ex post, in altre parole qualora sia già intervenuta la decisione
della Commissione che dichiari gli aiuti incompatibili col mercato interno, o
ex ante, prima cioè che intervenga la decisione della Commissione quando si
tratta di dare applicazione alla clausola sospensiva di cui all’art. 108, comma
3, TFUE (c.d. «clausola di stand still») prevedendosi che gli Stati membri
siano tenuti a non dare attuazione ad alcuna misura, prima che essa sia noti-
ficata alla Commissione e quindi autorizzata con una decisione che ne sanci-
sca la compatibilità con il mercato.
I giudici nazionali, infatti, provvedono alla difesa dei diritti dei singoli in
caso d’inadempimento dell’obbligo di previa notifica degli aiuti di Stato alla
Commissione, prevista dal trattato; talché, l’inosservanza dell’obbligo di no-
tifica e/o di sospensione dell’erogazione dell’aiuto, determina l’illegittimità
insanabile dell’atto che istituisce l’aiuto o ne dispone l’erogazione ma non la
sua incompatibilità sostanziale con il mercato comune 84. Sotto quest’ultimo
profilo la violazione dell’art. 108, par. 3, TFUE, non afferisce al merito ov-
vero alla valutazione della compatibilità dell’aiuto con il mercato comune ai
sensi dell’art. 107 TFUE, si basa invece sul procedimento così come previ-
sto dal più volte richiamato art. 108, par. 3, TFUE.
Sia il giudice nazionale e la Corte di giustizia, investite da un quesito
pregiudiziale limitatamente alla verifica della sussistenza dell’aiuto in fun-
zione dell’osservanza dell’art. 108, par. 3, TFUE, non sono competenti a va-
lutare, nel merito, la compatibilità dell’aiuto, valutazione che, come detto,
spetta esclusivamente alla Commissione sotto il controllo della medesima
Corte 85. Il giudice dell’Unione ha ripetutamente dichiarato che, in caso di
violazione dell’art. 108, par. 3, TFUE, spetta al giudice nazionale trarre tutte
le conseguenze in conformità al diritto nazionale, sia per quanto riguarda la
validità degli atti che comporti l’attuazione delle misure di aiuto, sia per
quanto attiene il recupero degli aiuti concessi in violazione alle norme; dette
conseguenze derivano dal diritto europeo.

84
Sul punto si veda, O. PORCHIA, L’effettività dei rimedi interni nella giurisprudenza
dell’Unione in materia di aiuti di Stato, in G. TESAURO (a cura di), Concorrenza ed effettivi-
tà della tutela giurisdizionale tra ordinamento dell’Unione europea e ordinamento italiano,
cit., pp. 374 ss.
85
Si veda in tal senso Corte giust., 5 ottobre, 2006, C-368/04, Transalpine Ölleitung in
Österreich GmbH e altri c. Finanzlandesdirektion für Tirol e altri.
107

In ogni caso, la decisione e l’esecuzione dell’erogazione del beneficio


possono essere impugnate, in conformità a un disegno di amministrazione
per così dire «verticale». La prima delle fattispecie sopra richiamate e che ha
dato adito a numerosi contenziosi, deriva generalmente dall’impugnazione,
da parte del beneficiario, degli atti interni con i quali lo Stato membro ese-
gue l’ordine di recupero 86. A tal proposito, in base all’art. 16 del Regola-
mento n. 1589/2015 87, che disciplina le modalità di applicazione dell’art.
108, gli Stati membri devono dare esecuzione alle decisioni di recupero
«senza indugio», secondo le procedure previste dalla legge nazionale, a con-
dizione che esse consentano l’esecuzione immediata ed effettiva della deci-
sione della Commissione. Nell’ipotesi in cui la norma interna di carattere
procedurale impedisca il recupero immediato ed effettivo delle somme ero-
gate a titolo di aiuto, il giudice nazionale deve, in linea di principio, disap-
plicarle anche in considerazione del fatto che sotto questo specifico profilo
emerge la responsabilità dello Stato per violazione del diritto europeo.
Nel quadro degli aiuti di Stato i Paesi membri assumono un ruolo propo-
sitivo ma subordinato alla decisione discrezionale della Commissione: il po-
tere di verifica spetta alla Commissione mentre saranno di competenza degli
Stati membri tutti gli incombenti amministrativi e non in relazione alla deci-
sione assunta dagli organi centrali dell’Unione. Tuttavia questa procedura,
che ricalca lo schema tipico dei rapporti anche amministrativi tra Commis-
sione e Stati membri, viene a modificarsi lì dove siano ammesse categorie di
esenzione, nel qual caso il ruolo dello Stato membro emerge in modo più de-
terminato rispetto alla regola generale. È evidente che per gli aiuti di Stato si
mantenga una sorta di potestà in capo alla Commissione poiché l’evoluzione
stessa della materia, come si è tentato di esporre, risente di un’amministra-
zione degli Stati membri che funge da «cinghia di trasmissione» rispetto le
decisioni assunte dalla Commissione 88.

86
Cfr. E. GAMBARO, Le difese dell’impresa beneficiaria a fronte dell’ordine di recupero
del giudice nazionale, ex art. 108, TFUE, e della Commissione e dello Stato membro, ex art.
107, TFUE, in L.F. PACE (a cura di), Dizionario sistematico del diritto della concorrenza,
cit., p. 638 ss.
87
Regolamento (UE) n. 1589/2015 del Consiglio del 13 luglio 2015 recante modalità di
applicazione dell’art. 108 TFUE, in GUCE, 24 settembre 2015, n. L. 248 del, che ha recen-
temente riformato, abrogandolo, il precedente regolamento (CE) n. 659/1999, in GUCE, 27
marzo 1999, n. L. 83, p. 1.
88
Tale è, del resto, anche il senso della riflessione condotta da A. BRANCASI, La tutela
della concorrenza mediante il divieto di aiuti di Stato, in Dir. pubbl., n. 1-2/2010, pp. 195
ss., che ricostruisce due differenti concezioni di «concorrenza»: in un caso concorrenza co-
me nozione strutturale, che vede la presenza di un numero sufficientemente ampio di opera-
108

1.5. I SERVIZI D’INTERESSE ECONOMICO GENERALE E LA CONCORRENZA


Nel quadro della concorrenza, intesa in tutte le sue sfaccettature compre-
se le azioni per così dire propositive (PMI e aiuti di Stato), non si può evita-
re di accennare ai servizi di interesse economico generale, in quanto la mate-
ria ha subito una radicale modifica proprio per l’applicazione del principio
di concorrenza.
La nozione di «servizio di interesse economico generale” rinvia, in linea
di prima approssimazione, a quei servizi di natura economica che, in virtù di
un interesse generale a essi affidato, gli Stati membri o la Comunità assog-
gettano a specifici obblighi 89.
Ignorati nei trattati istitutivi, tali servizi sono stati a lungo tralasciati nella
normativa derivata, con l’unica eccezione dei trasporti, che è stata materia
oggetto di una specifica politica comunitaria. Fino agli anni ottanta i servizi
pubblici, di fatto, sono stati esentati anche dalle norme sul mercato comune
e in particolare di quelle a tutela della concorrenza. Si può osservare, crono-
logicamente, come solo alla fine degli anni ottanta e inizio degli anni novan-
ta, l’accelerazione impressa al processo d’integrazione europea ha modifica-
to tale quadro: i servizi pubblici vengono a far parte integrante del mercato
interno. L’intervento comunitario, negli anni ’90, «diventa oggetto di una
strategia unitaria diretta all’insieme dei servizi di interesse economico ge-
nerale, esplicitata e continuamente aggiornata in apposite iniziative della
Commissione» 90.

tori ciascuno dei quali in grado di esprimere un livello di offerta talmente limitato da non
influenzare i prezzi, nell’altro caso concorrenza come allocazione efficiente delle risorse,
come sistema in grado di assicurare l’ottimo paretiano. L’A. qualifica più rigorosa la secon-
da concezione rispetto alla prima: ed è rispetto a questa seconda che osserva l’evoluzione
della politica degli aiuti di Stato, nella quale la discrezionalità della Commissione discende
da valutazioni più complesse in relazione ai fallimenti del mercato.
89
Si veda G. CAPAREZZA FIGLIA, Concorrenza e contratto nei mercati dei servizi pubbli-
ci locali, in Dir. impr., n. 1/2012, p. 51. Si rinvia al punto 17 del «Libro Verde sui servizi di
interesse generale». Per una lettura di carattere fondamentale cfr. Servizi pubblici e servizi
(economici) di pubblica utilità, in Dir. pubbl., 1999, pp. 371, ss.; S. CASSESE, La nuova co-
stituzione economica, II ed., Laterza, 2000, pp. 86 ss; G.F. CARTEI, Il servizio universale,
Giuffrè, 2002, pp. 258 ss.; L. BERTONAZZI-R. VILLATA, Servizi di interesse economico gene-
rale, in M.P. CHITI-G. GRECO (a cura di), Trattato di diritto amministrativo europeo, vol. IV,
II ed., Giuffrè, 2009, pp. 1791 ss.; D. GALLO, I servizi di interesse economico generale. Sta-
to mercato e welfare nel diritto dell’Unione europea, Giuffrè, 2010, pp. 20 ss.
90
G. NAPOLITANO, Regole e mercato nei servizi pubblici, Il Mulino, 2009, p. 31. «Da un
lato si individuano soluzioni comuni agli ostacoli alla costruzione di un mercato interno. I
vincoli tecnici ed economici rappresentati dalla difficile duplicabilità delle reti; le posizioni
dominanti degli operatori già titolari di dritti particolari ed esclusivi; la debolezza contrat-
109

Già il Trattato di Amsterdam aveva introdotto un principio in base al qua-


le, fatto salvo le norme in materia di concorrenza e di aiuti di Stato, la Co-
munità e gli Stati membri che operano in coordinamento sia sul versante le-
gislativo sia sul versante amministrativo, sono chiamati ad assicurare la mis-
sion che detti servizi devono raggiungere. Nel Libro Bianco della Commis-
sione europea si ripresenta l’idea di una «responsabilità condivisa» tra l’U-
nione e gli Stati membri nella disciplina e nella regolazione dei servizi
d’interesse generale. La crescente europeizzazione del regime dei servizi
pubblici, si manifesta nel modo in cui la nuova materia armonizza i mercati
liberalizzati, definisce ambiti e tecniche di garanzia del servizio universale,
conforma natura, poteri e procedimenti delle autorità nazionali di regolazio-
ne. Il vero è che il diritto comunitario pone le basi per un vero e proprio or-
dinamento europeo dei servizi d’interesse economico generale, che si esten-
de dal quadro globale dei mercati al concreto funzionamento dei meccanismi
regolativi assunti dalle amministrazioni dei singoli Paesi membri. È evidente
che si tratti di un processo non ancora compiuto e fragile, tuttavia, non v’è
dubbio che l’europeizzazione dei servizi pubblici s’imponga sulle norme di
liberalizzazione e di armonizzazione dei singoli mercati.
Mentre la disciplina comunitaria stabilisce il grado di apertura di settori
coperti da servizi resi in regime di privativa, spetta sempre all’Unione il
meccanismo di funzionamento; da qui la conseguenza che l’autonomia di
«scelta» dei singoli Stati, è notevolmente ridotta poiché si perviene alla con-
trazione di diritti speciali ed esclusivi in modo da poter introdurre la libertà
delle attività in precedenza riservata all’ente pubblico 91. Il processo d’inte-
grazione nel quadro dei servizi è tuttavia un processo ondivago in quanto, in
taluni settori, ci si limita a introdurre un livello minimo di concorrenza, così
come richiesto dall’ordinamento europeo, mentre in altri settori, nonostante
l’emanazione di direttive in tal senso, detta apertura non può ancora dirsi
operante. Permangono così ambiti sottratti alla concorrenza anche là dove
non esistano motivi specifici: il ritardo nell’innovazione tecnologica, la per-
sistente debolezza economica in taluni settori, il timore che il passaggio a un
nuovo sistema non sia in grado di garantire gli standard a tutela dell’utente,
sono sostanzialmente i presupposti più difficili da rimuovere. Pur con questi

tuale degli utenti e consumatori. Dall’altro si definiscono tecniche di garanzia e di finan-


ziamento delle missioni di interesse economico generali, tali da pregiudicare il meno possi-
bile il funzionamento della concorrenza».
91
Si vedano in particolare l’apertura del settore postale, in base alla Direttiva
2002/36/CE, 10 luglio 2002; la materia dell’energia elettrica e gas, Direttive 2003/54-55/CE,
26 giugno 2003; l’apertura del settore ferroviario, Regolamento 881/2004/CE, Direttive
2004/49-51/CE, 29 aprile 2014.
110

limiti, l’armonizzazione comunitaria si può dire che ormai investa diretta-


mente la disciplina dell’ingresso in settori di mercati «influenzati» dagli Sta-
ti. Tuttavia, in linea generale, l’ingresso in tali mercati modifica il regime
concessorio con quell’autorizzatorio, più idoneo al controllo di una libera
attività economica; né si può parlare di regime regolatorio previo atto ammi-
nistrativo che assume la caratteristica di eccezione. Infatti, il regime dell’au-
torizzazione generale nel settore delle attività economiche, viene ad ampliar-
si fino a diventare la regola comune. Profili specifici sono rinvenibili nel ca-
so italiano, dove il procedimento autorizzatorio è particolarmente difficolto-
so anche in considerazione della specificità degli interessi tutelati quali la
protezione dell’ambiente e della salute.
Com’è noto, nel Trattato di Lisbona, pur facendosi riferimento ai servizi
d’interesse economico generale, non è dato rinvenirne una definizione e, di
conseguenza, neanche la loro individuazione 92. La scelta di non circoscrive-
re i SIEG appare frutto di un approccio compromissorio, portato avanti dal-
l’Unione, volto a coniugare il principio di sussidiarietà con il principio di
economicità del servizio; se da un lato si tiene conto delle esigenze dei citta-
dini-utenti, dall’altro si vuole altresì valutare il peculiare legame tra tali atti-
vità e i poteri pubblici in tutti gli Stati membri, dettandone la loro regola-
mentazione 93. Ritorna quindi il vero punto di snodo: nei SIEG è rinvenibile
una duplice natura, quella di essere un’attività economica e, contestualmen-
te, di rispondere a un interesse generale dei cittadini. Da qui l’osservazione
che la nozione di servizio d’interesse economico generale 94 – anche qualora
si voglia accentuarne il carattere economico – risulta sostanzialmente descrit-
tiva in ragione del potenziale conflitto tra la materia in esame e il mercato 95:
da un lato, il collegamento del profilo «economico» dei servizi è volto a evi-

92
Si rinvia a quanto detto nel capitolo precedente sull’evoluzione del concetto di aiuti di
Stato.
93
Si veda in tal senso, la sentenza 30 aprile 1974, C-155/73, Sacchi, in base alla quale si
osserva che l’Unione si astiene dal sindacare le scelte politiche degli Stati membri relativa-
mente all’organizzazione dei SIEG, cosicché l’attribuzione di diritti speciali o esclusivi non
costituisce ex se una misura contraria al trattato.
94
Tant’è che la problematicità di accorpare la materia, emerge anche nella Comunica-
zione della Commissione europea del 20 dicembre 2011 COM (2011), Un cadre de qualité
pour les services d’intérêt général, con la quale si è tentato di elaborare un quadro discipli-
nare dei servizi quale categoria «ampia» al cui interno possono essere ricomprese varie tipo-
logie di servizi, tra i quali, anche quelli di interesse economico generale.
95
Il vero è che la Corte delinea il concetto di servizio economico, utilizzando criteri ne-
gativi e non positivi. Si può dunque affermare che la categoria dei servizi d’interesse econo-
mico generale comprende quelle categorie di servizi pubblici a rilevanza economica che gli
Stati (e le loro eventuali articolazioni territoriali) assumono nella loro piena responsabilità.
111

tare che questi si sottraggano con eccessiva disinvoltura ai principi dell’or-


dinamento comunitario, dall’altro, tuttavia, la specificità dell’interesse gene-
rale che essi rivestono sulle aspettative dei cittadini, incide sia in riferimento
alla disciplina dell’Unione che a quella dei singoli Stati membri.
L’Unione, quindi, è chiamata a determinare le condizioni per gestire e fi-
nanziare detti servizi, salvo la competenza propria degli Stati membri; ne de-
riva che, fatta eccezione per i servizi in cui l’Unione legifera direttamente, in
virtù della dimensione transnazionale degli interessi coinvolti, la regolamen-
tazione del settore è volta prevalentemente alla salvaguardia del mercato
unico e del suo assetto concorrenziale. Pare opportuno tener presente il tipo
d’intervento in materia da parte dell’Unione in quanto, a ben vedere, secon-
do la disposizione contenuta nell’art. 14 TFUE, a essa spetta l’enunciazione
di principi e condizioni che consentano alle imprese del settore di conseguire
la mission loro affidata, mentre agli Stati membri spetta l’onere di fornire,
organizzare e finanziare detti servizi. Ai fini dell’applicazione dell’art. 106
TFUE rileva, in verità, la differenza tra i «servizi d’interesse economico ge-
nerale» e i «servizi d’interesse generale»: solo per i primi vi è l’assogget-
tamento alle regole della concorrenza, mentre questo non può avvenire per i
secondi. La Commissione, nella comunicazione del 2000 sui servizi
d’interesse generale, ha rimarcato che «le norme relative al mercato interno
e alla concorrenza non si applicano generalmente alle attività non economi-
che, e non si applicano pertanto neppure ai servizi di interesse generale nel-
la misura in cui essi siano attività non economiche» 96.
La motivazione della distinzione in parola, in verità, non ha rappresentato
e non rappresenta una vera scriminante tra le due categorie, tant’è che il Par-
lamento europeo è venuto in seguito ad approvare una risoluzione in cui si
pone l’accento in merito alla «[…] preoccupazione in tale contesto [dei] re-
centi tentativi di applicare a taluni SSIG una regolamentazione e principi
propri dei servizi di interesse economico generale, senza tener conto di ele-
menti e principi che distinguono i SSIG dagli altri servizi» 97. Ne deriva, in

96
Comunicazione della Commissione, I servizi di interesse generale in Europa, 20 set-
tembre 2000, COM (2000), 580 def.; par. 28.
97
L’acronimo SSIG sta per Servizi Sociali di interesse generale. Risoluzione del Parla-
mento europeo del 14 marzo 2007 sui servizi sociali di interesse generale dell’Unione euro-
pea [2006/2134 (INI)]. Merita di essere segnalato come in tale contesto la Commissione eu-
ropea nell’individuare i principi posti a base dell’art. 106 TFUE, ebbe a richiamare, oltre al
principio di neutralità rispetto alla proprietà pubblico o privata delle imprese e a quello della
libertà di definizione dei servizi, il principio di proporzionalità, il quale implica che i mezzi
utilizzati per consentire l’adempimento delle missioni di interesse generale, non debbono
dare origini a distorsioni non indispensabili nel mercato. Sul punto si rinvia a D. MINIUSSI,
112

linea di massima esemplificazione, che secondo l’Unione le imprese incari-


cate dello svolgimento di SIEG, devono essere sottoposte ai principi del di-
ritto comunitario e, di conseguenza, al principio della concorrenza, salvo che
l’applicazione dello stesso non pregiudichi il conseguimento dell’interesse
generale cui tali servizi sono preposti 98. Da questo semplice assunto, si sno-
da tutto il dibattito sul tema, venendo a emergere col tempo, sia il «peso
economico» degli stessi e gli effetti sul mercato, ma contestualmente, la ri-
levanza sociale che rivestono detti servizi.
Anche la regolamentazione europea in materia di servizi pubblici trova il
suo fondamento nell’art. 106, comma 2, TFUE, il quale così recita «le im-
prese incaricate della gestione di servizi d’interesse economico generale
[…] sono sottoposte alle norme del presente Trattato, e in particolare alle
regole di concorrenza, nei limiti in cui l’applicazione di tali norme non osti
all’adempimento, in linea di diritto e di fatto della specifica missione loro
affidata». La previsione in parola, seppur presente fin dall’origine nei trattati
dell’Unione, è stata effettivamente utilizzata solo a partire dagli anni ’80, al
fine di realizzare l’apertura dei mercati ai servizi pubblici nazionali e, ten-
denzialmente, anche ai servizi pubblici locali a rilevanza economica 99. I ser-

op. cit., p. 129. Sull’applicazione del principio di proporzionalità in materia di servizi pub-
blici, si rinvia a R. CAVALLO PERIN, I principi come disciplina giuridica del pubblico servi-
zio tra ordinamento interno ed ordinamento europeo, in Dir. amm., 2000, p. 48.
98
Com’è noto l’atteggiamento di neutralità della Comunità in tale settore viene abbando-
nato nel periodo intercorrente tra l’Atto Unico Europeo del 1986 e il Trattato di Maastricht
del 1992. Nasce, infatti, in quel periodo, una nuova consapevolezza del ruolo dei servizi
pubblici non solo negli ordinamenti interni ma anche nell’iter di integrazione dei mercati
comunitari. In tal senso si veda Corte giust., 19 marzo 1991, C-202/88, Repubblica Francese
c. Commissione, nella quale si rileva una crescente valorizzazione degli obiettivi economici
della Comunità venendo ad assumere un ruolo prioritario, la tutela della libertà economica.
In particolare si può sostenere che in questo periodo si tende a restringere la portata della
deroga contenuta nell’art. 86, comma 2, in virtù del fatto che si ritiene che le deroghe al
principio della concorrenza non possono essere consentite in base alla sola presenza di un
interesse generale ma debbono essere proporzionali al raggiungimento della missione affida-
ta alle imprese erogatrici del servizio.
99
Un semplice richiamo storico all’evoluzione del settore, risulta chiarificatore dell’at-
tuale sistemazione delle linee portanti del sistema. Basti pensare che già nel Trattato di Ro-
ma, si parlava di un’eccezione all’applicazione delle regole della concorrenza. Nelle succes-
sive modifiche dei trattati è stata fortemente accentuata la rilevanza dei SIEG venendosi a
sottolineare il ruolo degli Stati membri nei loro confronti. Nel 1997 le nuove disposizioni del
Trattato di Amsterdam sottolineavano, da un lato l’«importanza dei servizi di interesse eco-
nomico generale nell’ambito dei valori comuni dell’Unione nonché il loro ruolo nella pro-
mozione della coesione sociale e territoriale» prevedendosi quindi che «la Comunità e gli
Stati membri, secondo le rispettive competenze e nell’ambito del campo di applicazione del
presente trattato, provvedono affinché tali servizi funzionino in base a principi e condizioni
113

vizi pubblici diventano così parte integrante del mercato interno e di seguito
l’intervento comunitario diventa oggetto «di una strategia unitaria diretta
all’insieme dei servizi di interesse economico generale esplicitata e conti-
nuamente aggiornata in apposite iniziative della Commissione» 100. Ciò de-
riva dal fatto che l’Unione europea è venuta ad abbandonare l’atteggiamento
di sostanziale neutralità circa le scelte nazionali concernenti l’istituzione e
l’organizzazione dei servizi pubblici, al fine di dare attuazione, anche in tale
ambito, alla «decisione di sistema» 101 del trattato in merito a una regolamen-
tazione tipica di un’economia di mercato aperta e in libera concorrenza 102. Il
Libro Bianco della Commissione europea ripresenta l’idea di una responsa-
bilità condivisa tra Unione e Stati membri, nella disciplina e nella regola-
mentazione dei servizi di interesse generale; così tra il 2002 e il 2004, si as-
siste a una crescente europeizzazione del regime dei servizi pubblici: il dirit-
to comunitario non si limita più a imporre la modifica di singoli aspetti delle
discipline nazionali ma pone le basi per un vero e proprio ordinamento eu-
ropeo dei servizi di interesse economico che si estende dalla cornice legisla-
tiva alla fase amministrativa-regolativa. Anche per questo tema, occorre par-
tire dal fatto che nell’Unione l’espressione «regole di concorrenza» assume
un contenuto giuridico specifico, poiché, come recita l’art. 119 TFUE, l’U-
nione deve adottare una «politica economica condotta conformemente al

che consentano loro di assolvere i loro compiti». Il Trattato di Lisbona è ritornato a occupar-
si della materia facendo salva la competenza degli Stati membri di fornire, far eseguire e fi-
nanziare tali servizi. Non va infine dimenticato il più volte citato Protocollo allegato n. 26
sui servizi di interesse generale SIG, ove si legge che, tra i valori comuni dell’Unione con
riguardo al settore dei SIEG, si manifesta «il ruolo essenziale e l’ampio potere discrezionale
delle autorità nazionali, regionali e locali, di fornire, commissionare e organizzare servizi di
interesse economico generale il più vicino possibile alle esigenze degli utenti». Per un ex-
cursus storico si rinvia a D. SORACE, I servizi pubblici economici nell’ordinamento nazionale
ed europeo alla fine del primo decennio del XXI secolo, in Dir. amm., n. 1-2/2010, pp. 1 ss.
100
G. NAPOLITANO, Regole e mercato nei servizi pubblici, cit., p. 34.
101
L’espressione è di N. IRTI, op. cit., p. 23. Rileva l’A. come in origine la Corte di giu-
stizia in merito all’ammissibilità della deroga alle norme del trattato in tema di concorrenza,
si sia limitata a verificare la sussistenza di tale sfera di sovranità riservata senza giungere a
sindacarne la ragionevolezza, né in merito alla loro istituzione, né in merito alle scelte con-
cernenti l’organizzazione nonché il regime di tali servizi, in quanto espressione della sovra-
nità degli Stati. F. MARCOU, Il servizio pubblico di fronte al diritto comunitario, in Il Filan-
gieri, 2004, pp. 26 ss.
102
T. BONETTI, I servizi pubblici locali di rilevanza economica dalla instabilità naziona-
le alla deriva europea, in Riv. Munus, n. 2/2012, p. 427. Si deve quindi tener conto del fatto
che, al fine di configurare il c.d. «Statuto dei servizi locali di rilievo economico» vengano a
concorrere «una serie di principi ed una pluralità di atti normativi, a partire da quelli relati-
vi all’apertura della libera concorrenza del mercato di riferimento».
114

principio di un’economia di mercato aperta e in libera concorrenza». La


prestazione di un servizio economico generale deve pertanto essere assicura-
ta ai cittadini e, le imprese alle quali tale compito è affidato, devono essere
in grado di sostenere gli oneri specifici e i costi netti che ne derivano.
Pur tuttavia, nel caso dei servizi, le restrizioni cui è sottoposto il principio
di concorrenza e la libertà del mercato interno, non devono eccedere quanto
strettamente necessario per garantire il buon andamento della missione loro
affidata, in altre parole in questo caso la tutela è del consumatore che fa par-
te della Comunità e non del pubblico potere che gestisce o detiene il servi-
zio. La Commissione, infatti, esercita il controllo sulla «proporzionalità» al-
le deroghe del principio di concorrenza, controllo peraltro sottoposto a esa-
me giurisdizionale della Corte di giustizia, la quale è chiamata a verificare
che le esenzioni siano state assunte in modo «ragionevole» e «realistico» 103.
Si deve aderire all’interpretazione che identifica il fulcro dell’art. 106
TFUE, proprio nella relazione che scaturisce tra gli Stati e le imprese coin-
volte, nonché la posizione di queste ultime in merito ai rapporti col trattato;
valga per tutti il rinvio alla giurisprudenza comunitaria ove sovente si rimar-
ca che l’art. 106 del trattato «mira a contemperare l’interesse degli Stati
membri ad utilizzare determinate imprese, segnatamente al settore pubblico,
quale strumento di politiche economico-fiscale, con l’interesse della Comu-
nità all’osservanza delle regole della concorrenza ed al mantenimento del-
l’unità del mercato comune» 104. A sostegno di ciò concorre l’interpretazione
sistematica delle norme contenute nel capo I del trattato, suddiviso, com’è
noto, in due sezioni: la prima racchiude i divieti cui devono sottostare le im-
prese, la seconda ha come oggetto la proibizione di erogare aiuti di Stato 105.

103
Comunicazione della Commissione sull’applicazione delle norme dell’Unione euro-
pea in materia di aiuti di Stato alla compensazione concessa per la prestazione di servizi di
interesse economico generale (2011) 9404, Bruxelles, 20 dicembre 2011. Non si può in que-
sta sede richiamare se non ai fini di mera rammentazione gli interventi che la Commissione
europea ha avviato, venendo a creare un vero e proprio dibattito coinvolgente numerosi sta-
keholder, per giungere a un processo di consultazione e adottare un nuovo Pacchetto di nor-
me. Si veda in questo senso la Comunicazione della Commissione europea (COM 2011-146
del 23 marzo 2011) «Riforma delle norme UE in materia di aiuti di Stato, relativamente ai
servizi di interesse economico generale».
104
Corte giust., 21 settembre 1999, C-202/88, Francia c. Commissione; si veda altresì
Corte giust., 20 aprile 2010, C-265/08, Federutility a c. Autorità per l’energia elettrica ed il
gas.
105
F. TRIMARCHI BANFI, Procedure concorrenziali e regole di concorrenza nel diritto
dell’Unione e nella costituzione (all’indomani della dichiarazione di illegittimità e delle
norme sulla gestione dei servizi pubblici economici), in Riv. it. dir. pubbl. comunit., n.
5/2012, pp. 741 ss.
115

Da ciò si dovrebbe desumere l’esistenza nel diritto europeo della regola


dell’affidamento ma in verità, tra tali misure, non esiste una regola europea
di concorrenza che prescriva l’affidamento a terzi della gestione dei servizi,
né parrebbe che questa regola possa rinvenirsi nell’ambito dell’art. 106,
comma 2, TFUE. L’art. 106 si colloca nella prima delle due sezioni e ri-
guarda il regime delle imprese collegate ai pubblici poteri; è evidente che le
regole di concorrenza richiamate nel comma 2 dell’art. 106, non possono
che essere quelle regole già enunciate nella prima sezione 106. Anche questo
profilo trova conferma nella giurisprudenza della Corte di giustizia che ha
sovente dedotto la contrarietà al diritto comunitario di una normativa nazio-
nale volta a consentire l’affidamento di concessioni di servizi pubblici senza
procedura concorrenziale, prevedendo che un siffatto affidamento, violi i
principi di parità di trattamento e di non discriminazione tra le imprese.
Una riflessione che rappresenta in verità uno specifico profilo del tema
della concorrenza, attiene al fatto che, anche qualora l’ente locale scelga un
regime di privativa, va da sé che la scelta del concessionario debba essere
operata in ossequio al principio della gara a evidenza pubblica. La stessa
Corte costituzionale nei suoi interventi, ha infatti rilevato la contrarietà al
diritto europeo di una «normativa nazionale che consenta l’affidamento di
concessioni di servizi pubblici, senza procedura concorrenziale» precisando
che «un simile affidamento viola gli artt. 43 CE e 49 CE o ancora i principi
di parità di trattamento, di non discriminazione e di trasparenza» 107. Da
quanto fin qui esposto, conduce all’affermazione che la rilevanza economica
di un servizio, sia condicio sine qua non perché da essa scaturiscono l’appli-
cabilità della disciplina comunitaria nel mercato interno, l’applicazione del
principio di concorrenza e il divieto degli aiuti di Stato alle imprese incaricate
della gestione nonché la scelta del modello di gestione del servizio stesso 108.

106
Nella famosa sentenza Telecom Austria, Corte giust., 7 dicembre 2000, C-324/98, Te-
laustria, si rinvia all’obbligo di trasparenza volto a garantire, a favore di ogni potenziale of-
ferente, un livello di pubblicità che consenta l’apertura degli appalti di servizi alla concor-
renza. L’interpretazione della Corte di giustizia è stata estesa successivamente anche ai ser-
vizi pubblici locali nella sentenza Coname (Corte giust., 21 luglio 2005, C-231/03, Coname).
107
Sentenza pronunciata nella causa C-196/08, punto 50; ma così già le sentenze pronun-
ciate nella causa C-410/04, punto 23, C-458/03, punti 51-52.
108
Si veda la sentenza della Corte giust., 22 maggio 2003, C-18/2011. Interessante risulta
anche il rinvio alla sentenza del Consiglio di Stato, sez. V, 23 ottobre 2012, n. 5409, ove il
giudice amministrativo di appello rileva: «In via di principio va considerato che la distinzio-
ne tra attività economiche e non economiche ha carattere dinamico ed evolutivo cosicché
non è possibile fissare a priori un elenco definitivo dei servizi di interesse generale di natura
economica (secondo la costante giurisprudenza comunitaria spetta infatti al giudice nazio-
nale valutare circostanze e condizioni in cui il servizio viene prestato, tenendo conto, in par-
116

Si è ritenuto che, lasciare agli ordinamenti nazionali o alle pubbliche am-


ministrazioni la qualificazione dell’agire economico in chiave differenziata
rispetto alle attività sociali o alle funzioni pubbliche strettamente intese 109,
porterebbe a pregiudicare gli scopi del trattato, restringendo l’ambito ap-
plicativo delle regole concorrenziali 110. Per questa via si viene a sottoli-
neare che non si deve privilegiare il dato esteriore della forma giuridica, né
le finalità sociali o assistenziali dell’attività, le quali, come peraltro già ri-
levato anche in dottrina, non sono quasi mai aprioristicamente di per sé in-
compatibili con le regole del mercato 111. Se il mercato non è in grado di ga-

ticolare dell’assenza di uno scopo precipuamente lucrativo, della mancata assunzione dei
rischi connessi a tale attività ed anche dell’eventuale finanziamento pubblico dell’attività in
questione (Corte di giustizia CE, sentenza 22 maggio 2003, causa 18/2001). In sostanza, per
qualificare un servizio pubblico come avente rilevanza economica o meno è ragionevole
pensare che si debba prendere in considerazione non solo la tipologia o caratteristica mer-
ceologica del servizio (vi sono attività meramente erogative come l’assistenza agli indigen-
ti), ma anche la soluzione organizzativa che l’ente locale, quando può scegliere, sente più
appropriata per rispondere alle esigenze dei cittadini (ad esempio servizi della cultura e del
tempo libero da erogare, a seconda della scelta dell’ente pubblico, con o senza copertura
dei costi) […] (invero, la dicotomia tra servizi a rilevanza economica e quelli privi di rile-
vanza economica può anche essere desunta dalle norme privatistiche, coincidendo sostan-
zialmente con i criteri che contraddistinguono l’attività di impresa nella previsione dell’art.
2082 Cod. civ. e, per quanto di ragione, dell’art. 2195 o, per differenza, con ciò che non vi
può essere ricompreso) […]».
109
Sono state considerate, ad esempio, tipiche prerogative dei pubblici poteri, prive di
carattere economico, il controllo e la polizia dello spazio aereo (Corte giust., 19 gennaio
1994, C-364/92, SAT Fluggesellschaft c. Eurocontrol, in Raccolta, 1994, pp. 1-43); l’attività
di sorveglianza anti-inquinamento delle acque portuali (Corte giust., 18 marzo 1997, C-
343/95, Diego Calì & Figli s.r.l. e Servizi ecologici porto di Genova s.p.a., in Raccolta,
1997, pp. 1-1547); l’istruzione nazionale (Corte giust., 27 settembre 1988, C-263/86, Hum-
bel, ivi, 1988, p. 5365, punti 17-19). È stata, invece, considerata impresa ai fini dell’applica-
zione delle regole di concorrenza comunitarie, l’ufficio pubblico di collocamento (Corte
giust., 11 dicembre 1997, C-55/96, Job centre, cit., punti 21 e 22; Corte giust., 23 aprile
1991), mentre per l’attività di previdenza e assistenza sociale si è rilevato che la stessa non
ha carattere economico, quando sia basata sul principio di solidarietà, cioè si fondi su un siste-
ma di affiliazione obbligatoria che assicuri l’equilibrio finanziario dell’ente gestore e le presta-
zioni versate siano indipendenti dall’importo dei contributi (Corte giust., 17 febbraio 1993,
cause riunite C-159/91 e C-160/91, Poucet e Pistre c. AGF e Concava, ivi, 1993, pp. 1-637).
110
Una conferma proviene dall’art. 1, comma 3, Direttiva 2006/123/CE, relativa ai servi-
zi nel mercato interno, ove si legge che «La presente Direttiva lascia impregiudicata la li-
bertà, per gli Stati membri, di definire, in conformità del diritto comunitario, quali essi ri-
tengano essere servizi d’interesse economico generale, in che modo tali servizi debbano es-
sere organizzati e finanziati, in conformità delle regole sugli aiuti concessi dagli Stati, e a
quali obblighi specifici essi debbano essere soggetti».
111
In riferimento alla rilevanza economica dei servizi (il trattato usa l’espressione Servizi
di interesse economico generale) e alla qualificazione dei soggetti incaricati dei servizi come
117

rantire la corretta erogazione del servizio rispetto alle finalità cui è preposto,
le autorità pubbliche dei singoli Stati membri potranno imporre agli operato-
ri obblighi di servizio pubblico, in altre parole concedere diritti esclusivi o
speciali 112. Se i SIEG esercitano un’attività economica soggetta a obblighi
di servizio – dato che in assenza di quest’obbligo l’attività non verrebbe ga-
rantita alla collettività – ne deriva che la mancata convenienza economica
comprometterebbe la mancata erogazione e quindi il mancato esercizio del
servizio stesso; solo in questa ipotesi l’offerta del servizio presuppone l’in-
tervento dei pubblici poteri in termini di aiuti rectius: compensazioni.
L’attività economica di cui si fa carico il SIEG, è svolta sulla base di un
obbligo di servizio, ovvero trattasi di un’attività che il mercato non «forni-
rebbe» spontaneamente, proprio a causa della mancanza di convenienza
economica; sicché solo l’intervento surrogatorio dei pubblici poteri è in gra-
do di garantire agli utenti le relative prestazioni. Le attività di erogazione di
servizi al di là dell’esercizio dei pubblici poteri, sono in linea teorica di ca-
rattere economico e, in quanto tali, devono essere liberamente svolte sul
mercato. La qualificazione di una certa attività come «servizio d’interesse
economico generale» presuppone, non solo che se ne ravvisi un interesse
pubblico alla prestazione, ma altresì, che si accerti l’incapacità del mercato a
garantire tale prestazione; per questa via proprio il «fallimento» del mercato
giustifica l’azione dei pubblici poteri e consente un loro intervento che deve,
tuttavia, essere proporzionato rispetto al fine che s’intende raggiungere 113.

imprese, viene a ribadirsi che l’ottica comunitaria è propriamente di natura economica, tal-
ché la Corte nel definire la categoria dei servizi pubblici a rilevanza economica, si basa sul
concetto di impresa e di attività di impresa.
112
L’identificazione del servizio pubblico come attività economica, non è nuova
nell’ordinamento italiano, basti rinviare a due sentenze della Corte cost., 17 marzo 1988, n.
203 e 20 dicembre 1988, n. 104, ove il giudice delle leggi già rilevava quella correlazione
essenziale tra la nozione di servizio pubblico e la nozione di impresa.
113
Sul punto si rinvia a M. LOTTINI, La concezione statica e la concezione dinamica
dell’attività economica: una recente sentenza della Corte di giustizia in materia di servizi so-
ciali, in Riv. dir. pubbl. comunit., n. 6/2009, p. 1567, ove l’A. rileva: «Il fatto che la Commis-
sione nei vari documenti relativi ai servizi di interesse generale affermi che gli Stati membri
sono liberi di definire ciò che considerano essere un servizio di interesse generale, nonché di
decidere le relative modalità di gestione, non deve trarre in inganno. La scelta pubblica può
considerarsi libera solo in linea di principio, visto che la stessa deve avvenire nel rispetto
dell’art. 86 e della relativa interpretazione fornita dalla Corte di giustizia». Si rinvia, altresì, a
R. FERRARA, Profili della disciplina dei servizi di interesse economico generale: aiuti di Stato
e principi dell’Unione europea in materia di concorrenza, in Il Diritto dell’economia, vol. 26,
n. 81 (2-2013), p. 327, il quale sinteticamente ma efficacemente sottolinea a tal proposito
«In questo quadro, mi sembra infatti del tutto palese che se si possono ben avere, da un
lato, imprese marginali, incapaci (transitoriamente e provvisoriamente) di stare sul merca-
118

Così, la ricerca di un bilanciamento tra i valori della coesione economica e


sociale (ovvero la garanzia di attuazione di forme d’intervento pubblico vol-
te a salvaguardare l’interesse generale alla soddisfazione di bisogni ritenuti
essenziali per i cittadini-utenti) e il rispetto del principio di concorrenza (che
investe tutti gli operatori economici che si trovano a vario titolo a interagire
nel mercato europeo) rappresenta il vero focus del tema 114. Col ché si vuole
dare risposta alla tesi del bilanciamento tra l’apertura del mercato nel settore
dei servizi e i diritti di solidarietà e non discriminazione per gli utenti 115;
questi principi devono trovare una loro giusta coniugazione in ottemperanza
al divieto degli aiuti di Stato (sia pure nell’interpretazione che di questi si è
data nell’ultimo periodo) previsti nei trattati. A tal fine si è venuta a creare
una procedura ad hoc quale sede naturale di sintesi degli stessi: la Commis-
sione, dopo aver valutato l’indispensabilità e la proporzionalità della misura
dell’aiuto, è tenuta a verificarne il carattere incentivante, ovvero è tenuta a
valutare che il sostegno finanziario sia commisurato ai costi che l’impresa
sia disponibile ad assumere; pertanto proprio il beneficio sotto l’aspetto so-
ciale-economico nel suo complesso, rende l’aiuto compatibile con l’ordina-
mento comunitario. La Corte di giustizia, infatti, per anni ha conformato i
suoi interventi sui principi contenuti nella sentenza Altmark 116, che ha rap-

to in condizioni di virtuale parità concorrenziale, non è meno vero, dall’altro lato, che vi
sono ugualmente servizi pubblici a vocazione e destinazione obiettivamente universale che
non appare economicamente conveniente organizzare e prestare, ad esempio in una peculia-
re realtà territoriale e/o per determinate categorie o classi di utenti».
114
Si è osservato che l’idea del mercato concorrenziale erroneamente può essere inter-
pretata come capacità auto regolativa del mercato stesso. «Nei servizi pubblici non è possibi-
le introdurre una regolazione finalizzata alla creazione di un mercato perché non è configu-
rabile un mercato rilevante […]. Mancando la possibilità del contraddittorio fra una plura-
lità di imprese, manca la possibilità di passare dalla erogazione di pubblici servizi ad un
mercato concorrenziale fra una pluralità di imprese”. Testualmente F. MERUSI, Le leggi del
mercato, Il Mulino, 2002, pp. 75-76.
115
R. FERRARA, op. loc. cit., il quale rileva che trattandosi di servizi non è ipotizzabile
che all’interno di uno stesso Paese vi siano zone in cui un servizio sia erogato rispetto a zone
in cui un servizio non sia erogato, oppure vi siano condizioni di ineguaglianza di erogazione
del servizio stesso. «Si può ovviare a tali situazioni di ineguaglianza formale e sostanziale
facendo ricorso, come è ben noto, a differenti opzioni strategiche: grazie al principio di sus-
sidiarietà (anche in senso orizzontale) e pertanto consentendo lo svolgimento in regime di
outsourcing di attività di prestazioni nei confronti dei cittadini, oppure in altro modo. Ad
esempio – e sarà questo il caso di aiuti di Stato – compensando quelle imprese che accettino
di operare, pur in condizione di minor redditività, in favore di quelle classi e categorie di
utenti che sarebbero svantaggiate qualora non fossero messi in campo gli opportuni inter-
venti di perequazione (rectius, di perequazione economico-sociale)».
116
Sentenza della Corte giust., 24 luglio 2003, C-280/00 Altmark Trans e la Nahverkeh-
119

presentato il punto di riferimento dell’intera materia, soprattutto sotto il pro-


filo della compensazione, quale parametro fattuale del principio di propor-
zionalità cui si faceva riferimento in precedenza. In tale sentenza come noto,
i giudici comunitari, dopo aver richiamato i presupposti necessari ai fini del-
la qualificazione di una misura d’intervento statale come «aiuto di Stato»,
sono venuti a evidenziare l’idoneità della misura d’ausilio statale, nel rico-
noscere «un vantaggio» all’impresa beneficiaria; le misure d’ausilio che si
«limitano a compensare gli extracosti connessi all’adempimento di obblighi
di servizio pubblico […] non devono essere qualificati come “aiuti di stato”
ai sensi dell’art. 87, par. 1» 117. All’originaria impostazione contenuta nella
sentenza Altmark, si sono sovrapposti quattro documenti del c.d. «Pacchetto
Almunia» di cui tre documenti – la Comunicazione, la Decisione e la Disci-
plina – sono stati adottati dalla Commissione del 20 dicembre 2011, mentre
il Regolamento de minimis, è stato pubblicato il 26 aprile 2012 118. Nella
Comunicazione adottata dalla Commissione, una prima parte ricostruisce la
nozione di aiuto di Stato, così come delineata dalla giurisprudenza della
Corte di giustizia, mentre nella seconda parte vengono riproposte le quattro
condizioni Altmark 119, che portano a escludere dalla nozione di aiuti di Stato

rsgesellschaft Altmark GmbH, riguardante il rilascio alla prima, da parte del Governo della
regione di Magdeburg, di concessioni relative a servizi di linea nei servizi di trasporto.
117
In realtà il passaggio è rappresentato dall’originaria applicazione dell’art. 92, n. 1 del
Trattato divenuto in seguito art. 87, n. 1, CE. Nel frattempo il citato art. 87 del Trattato CE è
diventato l’attuale art. 107 TFUE, dal quale si desume che l’aiuto di Stato a favore di un’im-
presa che operi per la gestione di un SIEG, sarà compatibile con le regole europee della con-
correnza in presenza delle quattro condizioni contenute nella Sentenza della Corte di giusti-
zia Altmark.
118
G. LO SCHIAVO, Dalla giurisprudenza Altmark all’adozione del pacchetto «Almunia».
Chiarimenti sulla portata delle compensazioni concesse per la prestazione dei servizi di in-
teresse economico generale, in Riv. dir. pubb. comunit., n. 6/2012, pp. 1279 ss. Si rammenti
come il regolamento sugli aiuti c.d. de minimis ossia di modesta entità, individua quegli in-
terventi per i quali non è necessaria la preventiva attivazione della notifica del dossier alla
Commissione perché essa possa esercitare ogni opportuno controllo. Pur tuttavia occorre
rammentare il Regolamento 25 aprile 2012, n. 360, avente ad oggetto l’applicazione degli
artt. 107 e 108 TFUE, aiuti di importanza minore de minimis concessi ad imprese che forni-
scano servizi di interesse economico generale.
119
S’introduce così il tema della compensazione (in senso a-tecnico) rappresentato dal
fatto che possono essere forniti ai soggetti erogatori dei servizi in parola, sostegni finanziari
specifici da parte delle autorità degli Stati membri, condizionati dalla necessità di una valu-
tazione/comparazione con i principi della tutela della concorrenza. In questo senso è ripreso
quanto stabilito nella famosa Sentenza Altmark del 24 luglio 2003, C-280/00, in base alla
quale la compensazione non costituirebbe aiuto di stato a condizione che siano chiari gli ob-
blighi dei servizi d’interesse generale, i parametri stabiliti ex ante e l’affidamento trasparente
mediante gara a un’impresa che garantisca il minor costo per la collettività. La caratteristica
120

le compensazioni del servizio pubblico 120. Il pacchetto adottato dalla Com-


missione europea del 20 dicembre 2011 (che, come noto, ha sostituito il
pacchetto Monti-Kroes del 2005) 121, ha introdotto delle regole dettagliate
rispetto alla precedente normativa 122. A ben vedere col «Pacchetto Almu-

della gestione dei SIEG, deve essere individuata: – nella natura economica dell’attività che
presuppone una remunerazione; – nel principio di neutralità pubblico-privato del soggetto
gestore.
120
I principi per escludere che si incorra nel divieto di aiuto di Stato sono: – l’impresa
beneficiaria deve essere incaricata dell’assolvimento degli obblighi di servizio pubblico (in-
carico); – i parametri in base al quale viene calcolata la compensazione devono essere pre-
viamente definiti in modo obiettivo e trasparente (trasparenza); – la compensazione non può
eccedere quanto necessario per coprire interamente o in parte, i costi originati dall’adempi-
mento degli obblighi di servizio pubblico, tenuto conto degli introiti relativi agli stessi, non-
ché di un margine di utile ragionevole per il suddetto adempimento (proporzionalità); – la
scelta dell’impresa affidataria deve essere effettuata nell’ambito di una procedura di selezio-
ne pubblica (efficienza) oppure il livello della necessaria compensazione deve essere deter-
minato sulla base di un’analisi dei costi che un’impresa media, gestita in modo efficiente al
fine di poter soddisfare le esigenze di servizio pubblico richieste, avrebbe dovuto sopportare
per adempiere tali obblighi, tenendo conto degli introiti ad essi attinenti nonché di un margi-
ne di utile ragionevole per il suddetto adempimento. Si veda altresì la decisione della Com-
missione del 21 ottobre 1997, 97/744/CE alle disposizioni in materia di lavoro della legisla-
zione portuale italiana.
121
Il c.d. pacchetto Monti-Kroes assunto nel 2005, rappresenta una risposta degli organi
dell’Unione alle sollecitazioni derivanti dalla giurisprudenza della Corte di giustizia europea.
Tale pacchetto consta di tre strumenti operativi: la Decisione della Commissione del 28 no-
vembre 2005, riguardante l’applicazione dell’art. 86, par. 2, del Trattato CE agli aiuti di stato
sotto forma di compensazione degli obblighi di servizio pubblico, concessi a determinate
imprese incaricate della gestione di servizio di interesse economico generale [notificata con
il numero C(2005) 2673] (pubblicata in GUCE, 29 novembre 2005); la Direttiva 2006/11/CE
della Commissione del 16 novembre 2006, relativa alla trasparenza delle relazioni finanzia-
rie tra Stati membri e le loro imprese pubbliche e alla trasparenza finanziaria all’interno di
talune imprese (pubblicata in GUCE, 17 novembre 2006); la Comunicazione della Commis-
sione relativa agli aiuti di stato concessi sotto forma di compensazione degli obblighi di ser-
vizio pubblico (pubblicata nella GUCE del 29 novembre 2005).
122
In particolare il procedimento si dipana sostanzialmente:
1. Una comunicazione che chiarisce alcuni concetti fra i quali le ipotesi in cui l’attività di
servizio pubblico, si può considerare come avente o non avente natura economica;
2. Una decisione di esenzione che chiarisce quali sono le condizioni rispettate dalle quali
l’autorità pubblica, che affida la gestione di un servizio pubblico, è svincolata dall’obbligo di
una previa autorizzazione della Commissione europea, prima di concedere la compensazio-
ne, così si è ritenuto che qualunque concessione di un vantaggio con risorse pubbliche a fa-
vore di un’impresa o di un settore produttivo, deve essere preventivamente autorizzato dalla
Commissione europea;
3. Una comunicazione che renda trasparenti i criteri in base ai quali la Commissione ope-
ra la valutazione sulla compatibilità della compensazione con le regole del TFUE.
121

nia», s’inserisce una nuova prospettiva nella valutazione delle compensazio-


ni concernenti i SIEG, venendosi a fornire una previsione della compensa-
zione ex se anche al fine di ottenere un’eventuale riduzione delle spese pub-
bliche. In linea generale le nuove misure contribuiscono a creare una mag-
giore certezza riguardo alla valutazione delle compensazioni nel diritto del-
l’Unione europea e forniscono preziosi dettagli sulla qualificazione delle
compensazioni soprattutto nel momento in cui, queste, vengano a influire in
via diretta o indiretta, sul mercato interno e quindi sulla concorrenza 123.
L’originaria impermeabilità dei servizi pubblici all’ordinamento comuni-
tario, è sostituita dalla progressiva europeizzazione del loro regime giuridico
anche in considerazione dell’evoluzione, di cui si parlava nel paragrafo pre-
cedente, della nozione di aiuti di Stato e del principio di concorrenza. I fon-
damenti dell’assetto tradizionali sono quasi ormai completamente ribaltati:
la riserva da regola diventa eccezione, ruolo e specialità dell’impresa pub-
blica si riducono, i poteri pubblici sono chiamati a garantire il funzionamen-
to del mercato piuttosto che a orientarlo a obiettivi di politica economica.
Tutto ciò avviene ancora in modo disomogeneo tra le varie attività e la diffe-
renza si giustifica proprio tenendo conto del grado di apertura al mercato del
settore. Indicativa, sotto il profilo sopra richiamato, è la vicenda italiana av-
viata su impulso della sentenza della Corte Costituzionale, 20 luglio 2012, n.
199, emanata a seguito del risultato referendario in materia di acqua pubbli-
ca 124. Delle due richieste referendarie dichiarate ammissibili dalla Consulta,
la prima ha soppresso l’art. 23 bis del D.L. 25 giugno 2008, n. 112, che pre-
vedeva una disciplina generale sui servizi pubblici locali di rilevanza eco-
nomica, tra i quali il servizio idrico integrato; la seconda ha portato, invece,
all’abrogazione dell’art. 154, comma 1, D.Lgs. 3 aprile 2006, n. 152, nella
parte in cui si disponeva che la determinazione della tariffa del servizio idri-

123
Il Pacchetto Almunia costituisce un notevole passo avanti per inquadrare la natura del-
le compensazioni, come evidenziato anche dalla prima decisione della Commissione relativa
ad un caso di compensazione a fondo perduto per una rete di imprese nel settore postale in-
glese, per le quali si estendeva la disciplina dei SIEG per gli anni 2012/2015. La Commis-
sione veniva non solo ad analizzare la compatibilità delle misure adottate rispetto alla nor-
mativa sugli appalti pubblici, ma altresì il calcolo della compensazione. In particolare, la
Commissione è venuta ad elaborare una dettagliata valutazione dei costi che l’impresa
avrebbe dovuto sostenere con e senza il conferimento del SIEG. Da questa decisione emerge
che il Pacchetto Almunia viene a costituire un punto di riferimento nella futura prassi deci-
sionale della Commissione, contribuendo a generare maggiore certezza giuridica per valutare
le compensazioni per l’erogazione di un pubblico servizio.
124
T. BONETTI, op. cit., p. 422. Rileva l’A. che la sentenza deve essere segnalata per la
coerenza intrinseca delle argomentazioni del giudice costituzionale, rispetto a quanto deter-
minato nell’atto di ammissione della richiesta del referendum popolare.
122

co avvenisse anche in considerazione «dell’adeguatezza della remunerazione


del capitale investito» 125.
La Corte 126 ha affermato che, stante il risultato del referendum popolare,
che ha portato all’abrogazione della disciplina nazionale, il regime giuridico
dei servizi pubblici locali di rilevanza economica, è definito direttamente
dall’ordinamento europeo e su questa scia si è mosso il legislatore italiano
nella normativa in seguito adottata 127.

125
La Corte costituzionale ha escluso, al contrario, l’ammissibilità dell’iniziativa refe-
rendaria che chiedeva la soppressione dell’art. 150 del D.Lgs. n. 152/2006, il quale – sia pu-
re già in buona parte abrogato – armonizzava la disciplina delle modalità di affidamento del-
la gestione del servizio idrico, con quella dei servizi pubblici locali a rilevanza economica; la
Corte ha altresì escluso la richiesta di abrogare alcune parti di disposizioni contenute nel già
citato art. 23-bis, D.L. n. 112/2008. Si è rilevato in G. CARAPEZZA FIGLIA, op. cit., p. 40. Se-
condo il giudice costituzionale, l’art. 4 del D.Lgs. 13 agosto 2011, n. 138, si presentava co-
me la reintroduzione della disciplina precedentemente abrogata in sede referendaria, venen-
dosi così a violare il precetto di «divieto di ripristino» desumibile dall’art. 75 Cost.
126
Rileva il giudice costituzionale «[…] le poche novità introdotte dall’art. 4 accentuano
la drastica riduzione delle ipotesi degli affidamenti diretti dei servizi pubblici locali che, la
consultazione referendaria, aveva inteso escludere […] mentre l’intento abrogativo espresso
con il referendum, riguardava pressoché tutti i servizi pubblici locali di rilevanza economica
… non potendosi ritenere che l’esclusione del servizio idrico alla quale veniva applicata la
disciplina in parola fosse satisfattiva della volontà espressa dalla consultazione popolare”.
La Corte, già in quella sede, aveva chiaramente rilevato che, l’abrogazione richiesta, riguar-
dava una normativa generale, prevalente su quella di settore, salvo che per i settori esclusi
«[…] l’astratta riconducibilità alla previsione dell’art. 23 bis di un’indefinita pluralità di
servizi pubblici locali di rilevanza economica, d’altro canto, non avrebbe consentito di for-
mulare un quesito diretto ad abrogare tale disciplina, solo con riferimento ad alcuni settori
di servizi pubblici, tenendo conto altresì dell’efficacia meramente ablativa e non propositiva
o additiva dell’istituto referendario». Sul punto si rinvia a T. BONETTI, op. cit., p. 422, ove si
conviene con l’A. che il parametro del giudizio di costituzionalità viene identificato con
l’art. 75 Cost.: «[…] L’art. 4, D.l. n. 138/2011, cioè, viola il “divieto di ripristino di disci-
plina normativa abrogata” da referendum popolare in base al quale al legislatore è preclu-
sa la possibilità, ancorché corrispondente ad una precisa scelta politica, di far rivivere la
normativa abrogata – anche solo in via transitoria – a fronte della “peculiare natura del
referendum, quale atto-fonte dell’ordinamento […] Piuttosto, sulla scia di una lettura unita-
ria della trama costituzionale ed in un’ottica di raccordo tra gli strumenti di democrazia
diretta e quelli propri del sistema rappresentativo, il vincolo derivante dall’abrogazione re-
ferendaria sembra risiedere nella necessità di evitare che l’esito della consultazione […]
venga posto nel nulla, vanificandosi il relativo effetto utile, in assenza di significativi muta-
menti politici e/o delle condizioni fattuali».
127
T. BONETTI, op. cit., p. 42 «In un’occasione precedente relativa al giudizio di costitu-
zionalità dell’art. 23-bis, D.l. n. 112/2008, invece, la Corte aveva espressamente escluso che
siffatta previsione rappresentasse un’“applicazione necessitata” dal diritto europeo, inte-
grando solamente una delle diverse discipline possibili della materia che il legislatore
avrebbe potuto legittimamente adottare senza violare il primo comma dell’art. 117 Cost.; in
123

Il vero è che la declamatoria d’incostituzionalità dell’art. 4, D.Lgs. n.


138/2011 (sulla quale peraltro si riverberano i caratteri rectius: i limiti strut-
turali del referendum abrogativo propri del nostro ordinamento) è venuta a
imporre una riflessione sui contorni dello «statuto» dei servizi pubblici di
rilevanza economica; tuttavia attraverso il rinvio ai principi comunitari, così
come dichiarato dalla Corte, non si può sostenere che si sia pervenuti a uno
stravolgimento nell’individuazione dei livelli concorrenziali minimi e inde-
rogabili di matrice europeistica, quanto piuttosto a mettere in evidenza la re-
gola generale ovvero il principio di concorrenza, rispetto a singole eccezio-
ni, quali i servizi sottratti a tale principio 128.
A ben vedere, si tratta sostanzialmente di chiarire la disciplina comunita-
ria sui SIEG e rapportarla alla nostra nozione di servizio pubblico economi-
co, con tutte le conseguenze regolatorie che da ciò derivano sul piano orga-
nizzatorio e sui moduli gestionali che possono essere utilizzati dai pubblici
poteri, nonché infine last but not less, il ruolo del cittadino utente 129. Le os-
servazioni sopra richiamate, sono la dimostrazione della tesi che vede nella

altri termini, l’introduzione di regole concorrenziali più rigorose di quelle richieste a livello
europeo non è imposta dall’ordinamento comunitario» «[…] e, dunque, non è costituzio-
nalmente obbligata […], ma neppure si pone in contrasto […] con la normativa comunita-
ria, che, in quanto diretta a favorire l’assetto concorrenziale del mercato, costituisce solo un
minimo inderogabile per gli Stati membri». Peraltro, merita di essere segnalato come l’A. a
p. 430, rilevi che la decisione viene ad incidere sulle scelte di politica del diritto «[…] che,
sulla base di una lettura minimalista degli esiti referendari, il legislatore aveva tentato di
ripristinare in seno all’ordinamento nazionale con l’introduzione di norme censurate, addi-
rittura accentuandone le logiche e le finalità pro-concorrenziali nel e per il mercato».
128
In questa prospettiva occorrerà esaminare il c.d. «pacchetto SIEG» adottato a Bruxel-
les il 20 dicembre 2011, riguardo a talune prescrizioni contenute nel D.L. c.d. «Salva Italia»,
convertito nella legge 22 dicembre 2011, n. 214, nonché le frammentarie disposizioni dettate
dall’art. 34 del D.L. n. 179/2012, convertito in legge n. 221/2012, ove è rinvenibile una serie
di previsioni, con specifico riferimento a taluni servizi e a taluni modelli di gestione, sul pa-
radigma giuridico comunitario. Per un quadro generale del tema si rinvia a R. CAVALLO PE-
RIN, op. cit., p. 106; D. MINIUSSI, op. cit., pp. 120 ss.
129
Da qui la considerazione che, proprio in virtù del rinvio all’ordinamento comunitario,
contenuto nella sentenza della Corte quale principio cardine della materia, si sviluppa, nel
settore in esame, quell’assetto pro-concorrenziale cui faceva riferimento anche la disciplina
antecedente al referendum. Il chiarimento imposto dalla Corte è che o il servizio viene svolto
dichiaratamente in un regime di privativa, sottraendolo dalla categoria dei servizi pubblici a
rilevanza economica come per il servizio idrico, o la regola generale vuole che tali servizi
siano svolti in un regime concorrenziale. Infatti, la Corte sottolinea come il disegno com-
plessivo dei referendum, legati «da un medesimo intento “politico”, è [sia] quello di far tra-
scorrere l’acqua dallo statuto normativo dei servizi di interesse economico generale a quel-
lo dei servizi sociali, dominato, secondo la relazione introduttiva del Comitato promotore,
da un modello pubblicistico di gestione imperniato sull’azienda speciale».
124

sentenza n. 199/2012, non una revisione in un quadro europeistico della ma-


teria dei servizi pubblici economici a cui peraltro rinvia lo stesso giudice co-
stituzionale, bensì l’adozione di natura squisitamente europeistica di una ve-
ra e propria partizione tra servizi pubblici economici e servizi pubblici tout
court 130.
Le due direttrici che segnano anche nel nostro ordinamento la regolamen-
tazione della materia, risultano essere il principio di concorrenza e il profilo
sociale dei servizi pubblici ma, entrambi gli aspetti, non sono ad appannag-
gio esclusivo dell’ordinamento italiano, trovando da tempo una loro concre-
ta regolamentazione nello stesso ordinamento comunitario. Quanto al primo
profilo, è evidente che il «principio» della concorrenza desumibile dall’art.
41 della Costituzione è un principio di organizzazione tipica dell’economia
di mercato sul quale ha influito l’ordinamento comunitario attraverso l’ac-
centuazione dell’aspetto sopra richiamato. Peraltro il vero punto di novità è
rappresentato dalle modifiche apportate all’art. 117 Cost. che vede, an-
ch’esso nella concorrenza, il principio ordinatore dell’economia del mercato,
in altre parole, secondo taluni «quello stesso principio che si legge nell’art.
119, TFUE» 131. La stessa Commissione europea è venuta a sottolineare la
dimensione sociale dei servizi 132 mettendone in evidenza la rilevanza in

130
Il vero è che servizio pubblico in Italia, è sempre stato visto in senso monopolistico o
comunque tendente al monopolio, ciò in quanto l’azione dei pubblici poteri nel settore, è sta-
ta caratterizzata dall’adozione di criteri privi di qualsiasi connotazione imprenditoriale Con
effetti negativi da un punto di vista economico ciò a differenza, peraltro, del monopolio clas-
sico che è invece tendenzialmente remunerativo per il soggetto dominante. Sul principio del-
la concorrenza in generale si rinvia a L.F. PACE, Diritto europeo della concorrenza, Cedam,
2007, pp. 134 ss.
131
In F. TRIMARCHI BANFI, Procedure concorrenziali e regole di concorrenza nel diritto
dell’Unione e nella Costituzione, cit., pp. 727 ss.: «[…] là dove viene affermato l’impegno
degli Stati membri e dell’Unione ad adottare una politica economica condotta conforme-
mente al principio di un’economia di mercato aperta e in libera concorrenza». Rileva l’A.
che il termine concorrenza viene ad assumere significati diversi soprattutto se si equipara
l’art. 117 della Costituzione italiana coi principi comunitari. Nel diritto europeo l’espres-
sione regole di concorrenza viene ad assumere un significato giuridico preciso, in quanto
sono tali le regole raccolte nel capo I del titolo settimo del trattato. A questo specifico signi-
ficato occorrerà dunque far riferimento quando si utilizza l’espressione regole di concorrenza
nel senso del diritto europeo. Nell’art. 117 della Costituzione la concorrenza oggetto di tutela
è la c.d. «concorrenza economica» vale a dire quella che si realizza tra una pluralità di pro-
duttori di beni o servizi. Dalla concorrenza economica ci si può attendere l’orientamento del-
le risorse verso gli impieghi che sono più convenienti per i singoli competitori e, mediamen-
te, per la collettività nel suo insieme.
132
Si tratta della Comunicazione della Commissione al Parlamento europeo, al Consi-
glio, al Comitato economico e sociale europeo e al Comitato delle Regioni, L’Atto per il
125

termini di coesione territoriale quale elemento fondamentale per preservare


la fiducia sociale 133.
In base all’art. 57 TFUE, per «servizi» si deve intendere una fornitura di

mercato unico, COM (2011). Nell’Atto per il mercato unico sono previsti i nuovi impegni
dell’Unione volti a rafforzare la dimensione sociale attraverso la valorizzazione dell’impren-
ditoria sociale. La stessa impostazione la si ritrova nella Comunicazione della Commissione
sull’Applicazione delle norme dell’Unione europea in materia di aiuti di Stato alla compen-
sazione concessa per la prestazione di servizi di interesse economico generale, C (2011)
9404 del 20 dicembre 2011.
133
Il comma 2 dell’art. 106 TFUE, che come noto va letto in combinato disposto al
comma 1, ammette deroghe qualora ciò risulti necessario per permettere alle imprese incari-
cate di servizi di interesse economico generale, di assolvere i compiti loro assegnati. Si os-
servi infine che nel comma 3 dello stesso articolo, viene attribuito alla Commissione il pote-
re di vigilanza sul rispetto delle disposizioni precitate. «Le imprese incaricate alla gestione
dei servizi di interesse economico generale, o avente carattere di monopolio fiscale, sono
sottoposte alle norme dei Trattati, e, in particolare, alle regole di concorrenza nei limiti in
cui l’applicazione di tali norme, non osti all’adempimento in linea di diritto e di fatto, della
specifica missione a loro affidata. Lo sviluppo degli scambi non deve essere compromesso in
misura contraria agli interessi dell’Unione”. Si veda inoltre l’art. 1, Protocollo n. 26, all.,
TFUE, in merito all’ampio potere discrezionale delle autorità nazionali, regionali e locali
degli Stati membri, circa l’organizzazione dei SIEG. Sul punto rilevante ai fini della rico-
struzione del quadro giuridico, R. FERRARA, op. cit., pp. 324 ss., ove l’A. osserva che «Se
appare in qualche modo evidente un orientamento per così dire liberale, o meglio meno in-
tensamente “liberista” nei riguardi dell’organizzazione dei SIEG, in quanto ne vengono col-
ti e riconosciuti i profili socialmente rilevanti, non è, tuttavia, meno ferma e incondizionata
la riconduzione della loro disciplina ai principi costitutivi (e “costituzionali”) dell’Unione
europea in materia di concorrenza e di mercato interno». Ciò emerge con evidenza dal Li-
bro Verde sui servizi di interesse generale del 21 maggio 2003 (COM-2003-2007) ove si
sottolinea che si è di fronte all’ipotesi di un servizio offerto alla collettività alla cui erogazio-
ne è stato attribuito un ruolo specifico nell’interesse pubblico, senza alcun riferimento al
soggetto che presta il servizio. Inoltre si osservi che al punto 44 del Libro Verde testualmen-
te si legge: «Per quanto riguarda la distinzione fra servizi di natura economica e servizi di
natura non economica [essa fa riferimento ad] ogni attività che implica l’offerta di beni e
servizi su un dato mercato. In tale contesto giova notare che gli strumenti giuridici
dell’Unione sono oggetto di discussione nell’ambito della Convenzione europea. In realtà,
gli articoli 24-28 del progetto preliminare del trattato costituzionale delineano [delineava-
no] il quadro degli strumenti giuridici proposti. Pertanto, i servizi economici e non econo-
mici possono coesistere all’interno dello stesso settore e talora possono essere forniti dallo
stesso organismo. Inoltre, se da un lato può non esserci mercato per la fornitura alla popo-
lazione di particolari servizi, dall’altro potrebbe esserci un mercato a monte in cui le impre-
se contrattano con le autorità pubbliche per la fornitura di questi servizi. Per questi mercati
a monte valgono le regole del mercato interno, della concorrenza e degli aiuti di Stato». Si
intende focalizzare l’attenzione su questo aspetto in quanto, come si vedrà in seguito, soven-
te la dottrina italiana e la giurisprudenza, anche della Corte costituzionale, hanno ignorato gli
aspetti peculiari relativi al profilo che induce l’Unione alla famosa distinzione tra servizi di
interesse generale e servizi di interesse economico generale.
126

prestazioni, ovvero di attività di carattere industriale, commerciale, artigia-


nale e delle libere professioni, esercitate normalmente – ma non necessaria-
mente – dietro retribuzione. In questa chiave anche i servizi sono da consi-
derarsi «oggetto di gestione di impresa» 134 e, in quanto tali, ascrivibili a
«qualunque entità che eserciti un’attività economica, indipendentemente
dalla forma giuridica o dal suo finanziamento». A sua volta, per «attività
economica» s’intende l’offerta di beni e servizi in un determinato mercato.
La conclusione cui si perviene, è che la maggior parte dei servizi, può essere
considerata attività economica ai sensi e per gli effetti dell’applicazione del-
la disciplina europea 135. Costituiscono pertanto impresa, ai sensi degli artt.
82 e 86 Trattato CE (oggi rispettivamente artt. 102 e 106 TFUE) tutti i sog-
getti che operano nel mercato 136. È ormai acquisita nel nostro «patrimonio»

134
D. SORACE, op. cit., p. 2, il quale osserva che i «[…]“servizi di interesse economico
generale” (SIEG) e “servizi pubblici” sono due locuzioni nate in ambienti ed epoche diver-
se, il cui senso è ancora in discussione dal momento che il significato della prima non è an-
cora stabilizzato ma ha comunque destabilizzato quello della seconda. Bisogna dunque
prender le mosse dalla prima locuzione, a proposito della quale, peraltro, nella dottrina eu-
ropea, c’è chi definisce quelle abitate dai SIEG “murky waters” che avrebbero bisogno di
“light and transparency”». Secondo un approccio ormai in uso si tende a identificare i SIEG
con i servizi di interesse economico generale, secondo quanto stabilito dall’art. 6 TFUE.
135
D. SORACE, op. loc. cit. Occorre osservare che la Direttiva 2006/123/CE, relativa ai
servizi nel mercato interno, all’art. 1, par. 3, comma 2: «[…] lascia impregiudicata la libertà
degli Stati membri di definire, in conformità del diritto comunitario, quali essi ritengano es-
sere SIEG, in che modo tali servizi debbano essere organizzati e finanziati, in conformità
delle regole sugli aiuti concessi agli Stati, e a quali obblighi specifici essi debbano essere
soggetti». Si rinvia a H. BONURA, I servizi pubblici locali privi di rilevanza economica e la
potestà organizzatoria degli enti locali, in Giorn. dir. amm., n. 4/2013, p. 402. Per quanto
attiene all’ampio dibattito sulla nozione di impresa nel quadro del diritto europeo rapportata
al principio di concorrenza, si veda E. SCOTTI, I principi informatori dei servizi pubblici lo-
cali, in H. BONURA-M. CASSANO (a cura di), L’affidamento e la gestione dei servizi pubblici
locali a rilevanza economica, Giappichelli, 2011, p. 32; F. DELLO SBARBA, I servizi pubblici
locali, Giappichelli, 2009, p. 102.
136
La Commissione fa riferimento a tutti gli operatori economici, anche quelli che si so-
no affacciati nel mercato di recente come le fondazioni che coniugano l’attività economica
con le finalità di carattere sociale, il cui sviluppo è diverso a causa delle differenti discipline
nazionali. Emerge quindi la possibilità di emanare un nuovo atto di comunicazione Social
Business Initiative con l’intento di fornire gli elementi per valorizzare, nel contesto comuni-
tario, le attività economiche ad alto impatto sociale e di innovazione. Si osservi invece come
tendenzialmente, sia radicata una diversa impostazione nel nostro ordinamento tant’è che, an-
che di recente, la Corte dei Conti, nel parere n. 195/2009, discostandosi dall’impostazione co-
munitaria, rileva che non può qualificarsi come attività economica la produzione di beni o ser-
vizi erogati gratuitamente o a prezzo politico «in quanto ciò fa oggettivamente escludere la
possibilità di coprire i costi coi ricavi, il ché porterebbe ad escludere un’attività di impresa».
127

giuridico l’impostazione adottata dal giudice comunitario il quale ha più vol-


te sottolineato che rientra nella nozione di attività economica, qualsiasi atti-
vità relativa all’offerta di beni e servizi in un determinato mercato, qualun-
que sia la natura pubblica o privata del soggetto esercente o la modalità di
finanziamento, quale che sia l’oggetto o lo scopo perseguito; pertanto, anche
la qualificazione sociale non lucrativa dell’attività, non esclude aprioristica-
mente la natura economica della stessa 137. Tale prospettazione è stata ripresa
nel Protocollo allegato al Trattato di Lisbona, dal quale si deduce che, con
riguardo al profilo contenutistico dei SIEG, essi debbano garantire quanto
alle prestazioni «un livello di qualità, di sicurezza e accessibilità economica,
la parità di trattamento e la promozione dell’accesso universale e dei diritti
dell’utente»; quanto invece all’aspetto finalistico, viene in rilievo la «mis-
sione» attribuita ai SIEG, la quale rappresenta, a ben vedere, il presupposto
giuridico-fattuale volto a consentire, ai soggetti erogatori di essere titolari di
diritti speciali ovvero idonei a ricevere sovvenzioni pubbliche e sussidi, con
ciò non pregiudicando il principio del divieto di aiuti di Stato.
Com’è noto, i trattati non riprendono la locuzione «servizio pubblico»
(che compare soltanto nell’art. 93 TFUE, in materia di trasporti) privilegian-
do il termine «servizio di interesse economico generale» (come si legge ne-
gli artt. 14 e 16 dello stesso TFUE) venendosi peraltro a confermare l’assog-
gettamento delle imprese incaricate della gestione dei servizi, all’intera di-
sciplina europea in particolare a quella relativa alla concorrenza soprattutto
nel senso di «concorrenza nel mercato» 138. Tuttavia, merita di essere accen-

137
Da qui la Commissione europea nel «Libro Verde sui servizi di interesse generale»
(COM-2003-2007) del 21 maggio 2003, ha affermato che le norme sulla concorrenza si ap-
plicano soltanto alle attività economiche dopo aver precisato che la distinzione tra attività
economiche e non economiche, ha carattere dinamico ed evolutivo, così che non sarebbe
possibile fissare a priori un elenco definitivo di servizi di interesse generale di natura non
economica.
138
Quanto alla generalità dell’interesse, rilevante per i servizi in questione, nessuna indi-
cazione è desumibile dall’art. 106 TFUE, e questo può spiegare, di per sé, l’assenza di tenta-
tivi di individuazione in termini oggettivi. Così D. SORACE, op. cit., p. 3, ove si legge: «Per-
tanto, da un lato si era soliti affermare un’ampia discrezionalità degli Stati membri nel per-
seguire i loro interessi mediante i SIEG […]. Da un altro lato, la questione era posta in ter-
mini procedurali, per esempio, esigendosi che in un qualche modo risultasse dagli atti di
causa che delle attività che si pretendeva fossero considerate di interesse economico gene-
rale avessero un carattere specifico rispetto a quello di altre attività della vita economica
[…]. Le statuizioni sul ruolo degli Stati membri, riguardante specificamente i SIEG, inserite
alla fine degli anni ‘90 tra le disposizioni di diritto comunitario primario […] hanno contri-
buito a risaldare l’approccio non ontologico alla questione, ancora più chiaramente esplici-
tato dalla Direttiva 123/2006/CE sui servizi, là dove essa esclude la propria applicazione ai
SIEG affermando […] “di lasciare impregiudicata la libertà, per gli Stati membri, di defini-
128

tuato il fatto che la nozione di servizio di interesse economico generale non


si esaurisce nel quadro della c.d. «concorrenza nel mercato» di cui all’art.
106 TFUE; invero (ex art. 14 TFUE) la previsione di un diritto di garanzia
del cittadino utente nei confronti dello Stato tenuto all’erogazione del servi-
zio di interesse generale, può trovare nell’art. 106, solo un mero strumento e
non una nozione concettuale.
Com’è stato rilevato «[…] la garanzia del servizio secondo requisiti di
qualità, economicità e continuità […] non si esaurisce […] nell’esclusione
della concorrenza: anzi l’articolo 106 stabilisce che la chiusura del mercato
debba essere considerata solo eccezionale, potendo l’amministrazione pro-
cedere in tal senso solo nel rispetto del principio di necessità e di propor-
zionalità» 139. Il vero è che l’Unione sia pure con atteggiamento di compia-
cenza verso le pretese degli Stati nazionali 140, è venuta a imporre agli stessi,
un modello di regolamentazione di «servizio di interesse economico genera-
le» a cui sono riconducibili moduli gestionali di «servizi pubblici a rilevanza
economica», oltre che ai «servizi pubblici locali». La possibile endiadi tra
«servizi di interesse economico generale» e «servizi di rilevanza economi-
ca», viene peraltro dichiarata anche dalla Corte costituzionale nella sentenza
n. 325/2010, nella quale il giudice ha avuto modo di statuire che entrambi
«assolvono […] [la] funzione di identificare i servizi la cui gestione deve av-
venire, di regola, al fine di tutelare la concorrenza, mediante affidamento a
terzi secondo procedure comparative ad evidenza pubblica» 141. La chiave di

re […] quali essi ritengano essere SIEG” (art. 1, par. 3, comma 2)». Sul punto si rinvia an-
che a D. MINIUSSI, op. cit., il quale, a p. 122, sottolinea che i trattati ripudiano la locuzione
«servizio pubblico» pervenendo a privilegiare quella di «servizio di interesse economico ge-
nerale». «Quest’ultima disposizione, da un lato conferma l’assoggettamento a tutte le norme
dei Trattati, in particolare a quelle in materia di concorrenza, delle imprese incaricate della
gestione dei servizi di interesse economico generale; dall’altro prevede la possibilità di de-
rogare all’applicazione di dette norme, qualora essa osti all’adempimento, in linea di diritto
o di fatto, alla specifica missione affidata alle imprese incaricate della gestione di servizi di
tale natura. La creazione di questa nuova locuzione non si ferma al dato prettamente nomi-
nalistico. Essa, infatti, costituisce una vera e propria categoria giuridica nuova, sconosciuta
agli ordinamenti degli Stati membri, creata dal diritto europeo al fine di sfuggire alla poli-
semia che, da sempre, caratterizza le nozioni tradizionali del servizio pubblico elaborate
negli ordinamenti degli Stati membri».
139
Sul punto M. MARESCA, Crisi della Comunità di diritto nell’Unione europea, in Dir.
e pol. UE, n. 3/2007, pp. 51-70.
140
M. MARESCA, op. cit., p. 48.
141
Sentenza della Corte cost. n. 325/2010, punto 6.1. D’altro canto, anche la dottrina, pur
criticando il rilievo che la Corte ha voluto dare al profilo dell’affidamento a terzi, per quanto
riguarda l’accostamento in parola sembra, invece, favorevole allo stesso; si conviene con il
giudice costituzionale sull’accomunare i servizi di interesse economico generale (ex art. 106
129

volta di tale affermazione non è solo nel rinvio alle procedure a evidenza
pubblica per l’affidamento del servizio che ne è una mera conseguenza, ben-
sì nel richiamo al principio della concorrenza, quale principio imminente
delle attività economiche ascrivibili alla nozione di servizio pubblico eco-
nomico.
D’altro canto, proprio da tale presupposto, emerge la rilevanza assunta
ultimamente dal tema in oggetto, che deriva dal «peso finanziario» che i
SIEG 142 sono venuti ad assumere da un punto di vista macroeconomico;
aspetto, questo, che rende evidente la necessità di un ripensamento in tutti
gli Stati membri, compresa l’Italia, dei presupposti logico-giuridici del setto-
re, soprattutto per i riflessi che le attività da essi esercitate, hanno sul merca-
to, sulla concorrenza e da ultimo sul profilo economico 143. Infine, occorre
rammentare che la previsione di cui all’art. 14 TFUE, introduce un diritto di
garanzia del cittadino utente nei confronti dello Stato, tenuto all’erogazione
di un servizio d’interesse generale, che può trovare nell’art. 106 TFUE, un
suo strumento 144.

TFUE) ai servizi pubblici di rilevanza economica come prospettato nel nostro ordinamento.
Vedi F. TRIMARCHI BANFI, Procedure concorrenziali, cit., pp. 739 ss. Per una visione orga-
nica del tema si rinvia a M. CLARICH, Servizio pubblico e servizio universale, evoluzione
normativa e profili ricostruttivi, in Dir. pubbl., 1999, pp. 181 ss., al quale si aderisce nella
tesi che evidenzia come la nozione di servizio universale non sia venuta ad acquisire una di-
mensione concettuale autonoma rispetto a quella di servizio pubblico.
142
Basti rammentare che, come si è sottolineato nell’audizione alla Camera Affari costi-
tuzionali, Camera dei Deputati, 25 gennaio 2012, i servizi pubblici locali coinvolgono oltre
137.000 lavoratori e danno luogo a un fatturato di circa 35 miliardi di euro, con un’incidenza
sul PIL nazionale del 3%; non v’è dubbio che il settore sia importante per la nostra economia
e le modifiche proposte implicano un intervento che incide sul 3% del PIL nazionale. Si ve-
da sul punto, G.F. CARTEI, I servizi di interesse economico generale tra riflusso dogmatico e
regole di mercato, in Riv. it. dir. pubbl. comunit., 2005, pp. 1221 ss.
143
A. ARGENTATI, La storia infinita della liberalizzazione dei servizi in Italia, in Merc.,
conc., reg., n. 2/2012, p. 358: «Il tema ha assunto priorità nell’agenda delle Istituzioni co-
munitarie con lo sviluppo dei processi di liberalizzazione dei grandi servizi a rete, che han-
no eroso consolidate situazioni di monopolio e aperto alla concorrenza i relativi mercati.
Parallelamente al progredire di tali processi si è acquisita consapevolezza che l’affermarsi
dei canoni dell’economia aperta e di mercato, se ha consacrato la libera concorrenza in tale
settore, non sempre ha comportato una maggiore libertà per le imprese negli altri settori di
mercato. In ambiti cruciali dell’economia comunitaria (quali i servizi, appunto) è rimasto
infatti intatto un gran numero di regolazioni amministrative, spesso di antica origine, di
ispirazione non di rado corporativa, introduttive di limiti assai dettagliati e incidenti sullo
sviluppo di attività transfrontaliere».
144
La normativa italiana prevede che l’ente, ove voglia sottrarre al mercato un particola-
re servizio, debba svolgere una precisa istruttoria, che dia conto delle ragioni che hanno por-
tato a sottrarre al mercato taluni servizi. La ratio della disciplina indica il percorso attraverso
130

La garanzia del servizio, secondo requisiti di qualità, economicità e con-


tinuità di cui al modello europeo di servizio economico generale, non si
esaurisce nell’esclusione della concorrenza: anzi, l’art. 106, stabilisce che la
chiusura del mercato debba essere considerata quale caso eccezionale, po-
tendo l’amministrazione procedere in tal senso, solo nel rispetto dei principi
di necessità e proporzionalità. Ne deriva che lo Stato membro non può limi-
tare la prestazione del servizio e disporre tout court l’esclusione della con-
correnza, dovendo, prima di ricorrere a una misura così invasiva e radicale,
individuare una soluzione alternativa per regolare l’espletamento del servi-
zio affinché questi presenti le caratteristiche del modello comunitario. Oc-
corre a tal proposito ricordare come, nel caso Courage, la Corte di giustizia
ha adottato un concetto di mercato che si estende non solo alle imprese con-
correnti ma coinvolge anche i clienti e i consumatori. In realtà non si può
operare arbitrariamente una restrizione dell’offerta di un servizio pubblico,
talché la Commissione opera un controllo non solo nell’interesse del merca-
to bensì anche nell’interesse dell’utente 145. Il vero è che l’accesso alla ge-

il quale l’ente locale può gestire anche un servizio pubblico economico in regime di privati-
va o decidere di liberalizzare una determinata attività economica sia pure rientrante
nell’alveolo del servizio pubblico tout court. L’impostazione desumibile dal dato legislativo
si dipana nel necessario iter procedimentale volto a pervenire a una progressiva oggettiviz-
zazione dei parametri che dovrebbero rappresentare la giustificazione della scelta tra servizio
pubblico e settori liberalizzati. La procedura individua nell’art. 4, che era volto a motivare il
perché una certa attività fosse sottratta al mercato e soprattutto era volta a creare una vera
liberalizzazione delle attività economiche, la si può desumere dalle norme richiamate nel te-
sto. Nessuno contesta che a seguito di un’oggettiva istruttoria gli enti locali possano assume-
re direttamente la gestione di un servizio, ma ciò non porta l’esclusione tout court della libe-
ralizzazione dei servizi pubblici locali a rilevanza economica. Gli enti locali per assicurare ai
cittadini-utenti l’erogazione di servizi pubblici che abbiano per oggetto produzione di beni e
servizi rivolti a realizzare fini sociali e a promuovere lo sviluppo economico e civile di una
determinata comunità, sono tenuti, secondo quanto disposto dal comma 5 dell’art. 4, legge n.
148/2011, a definire, preliminarmente, le eventuali compensazioni economiche delle aziende
esercenti i servizi stessi nei limiti delle disponibilità di bilancio destinati allo scopo, tenendo
conto, altresì, dei proventi derivanti dalle tariffe.
145
Quanto fin qui osservato, trova conferma nella disciplina dettata dall’art. 34, D.L. 18
ottobre 2012, n. 179, nella versione definitiva, contenuta nella legge n. 221/2012, ove si san-
cisce la necessità di garantire la libera concorrenza «secondo condizioni di pari opportunità
ed un corretto e uniforme funzionamento del mercato» per assicurare ai consumatori condi-
zioni di accessibilità ai beni e ai servizi su tutto il territorio. Nell’art. 34, D.L. n. 179/2012,
convertito in legge n. 221/2012, al comma 20, viene stabilito al riguardo che «per i servizi
pubblici locali di rilevanza economica, al fine di assicurare il rispetto della disciplina euro-
pea, la parità tra gli operatori, l’economicità della gestione e di garantire adeguata infor-
mazione alla collettività di riferimento, l’affidamento del servizio è effettuato sulla base di
un’apposita relazione, pubblicata sul sito internet dell’ente affidante, che dà conto delle ra-
131

stione di un determinato servizio, può essere assoggettato a una forma di re-


golamentazione preventiva effettuata dall’autorità amministrativa, allo scopo
di bilanciare gli interessi pubblici e privati al fine di garantire i bisogni della
comunità che quel servizio pubblico è diretto a soddisfare 146. Col ché si per-
viene che, in materia di servizi pubblici economici, il quadro delineato
dall’Unione e che si è imposto in modo altalenante dai Paesi membri, rap-
presenta tuttavia il vero fulcro dell’intero sistema, ne è prova il fatto che, la
stessa Corte costituzionale italiana, dopo l’abrogazione della normativa in-
terna ha dovuto rinviare alla disciplina comunitaria.

1.6. ILDILEMMA DELLA REGOLAZIONE NEL SETTORE DELLA «DOMANDA PUB-


BLICA»

Nel settore della regolamentazione delle libertà economiche, una partico-


lare attenzione merita la materia della «domanda pubblica» ovvero dei con-
tratti pubblici ove ci si trova sostanzialmente in un ambito economico disci-
plinato quasi esclusivamente dalla normativa europea (direttive di terza ge-
nerazione) 147, residuando alle amministrazioni degli Stati membri solo l’ap-
plicazione in concreto della stessa sia pure con un certo margine di autono-
mia nella normativa di dettaglio in applicazione, però, dei prevalenti interes-
si comunitari.
Già con le direttive 2004/17/CE e 2004/18/CE, si era sentita la necessità
di rendere il settore in esame uniforme in tutto il mercato unico a favore del-
la libera concorrenza tra le imprese stante il fatto che, come rilevava la
Commissione nella Comunicazione del 7 maggio 2003, il mercato degli ap-
palti risultava ancora non sufficientemente aperto e competitivo nonostante
che già l’Unione fosse intervenuta sulle singole tipologie di contratti ad evi-
denza pubblica (servizi, forniture, appalti settori esclusi) dettando le condi-
zioni necessarie affinché gli Stati membri attuassero discipline uniformi in

gioni e della sussistenza dei requisiti previsti dall’ordinamento europeo per la forma di affi-
damento prescelta e che definisce i contenuti specifici di servizio pubblico e servizio univer-
sale indicando le compensazioni economiche se previste».
146
Si osservi, peraltro, che il requisito dell’accessibilità, anch’esso espressamente men-
zionato dal comma 1, art. 4, legge n. 148/2011, come già richiamato dalla dottrina, deve es-
sere inteso sia come fruibilità «fisica» del servizio senza eccessive difficoltà, soprattutto in
relazione a fattori geografici e socio-urbanistici, sia come sostenibilità economica per gli
utenti.
147
M. COZZIO, Appalti pubblici e Unione europea: qualcosa sta cambiando? Più flessi-
bilità, semplificazione e certezza delle regole: le principali richieste dell’Europarlamento
per la modernizzazione del settore, www.osservatorioappaltipubblici.it, 25 ottobre 2011.
132

nome del principio di concorrenza e dell’accesso al mercato da parte degli


operatori economici dell’Unione 148.
Merita di essere sottolineato come, nonostante i precedenti interventi del-
l’Unione europea, con le Direttive 2014/24/CE e 2014/25/CE, s’impone agli
Stati membri una prospettiva diversa rispetto alle esperienze precedenti. Le
istituzioni comunitarie hanno sottolineato che gli appalti pubblici svolgono
un ruolo fondamentale nella regolamentazione economica del mercato co-
mune, venendo a costituire uno degli strumenti necessari per un uso più effi-
ciente dei finanziamenti pubblici; pertanto, se le Direttive 2004/17/CE e
2004/18/CE, facendo leva sul divieto di discriminazione e di attuazione del
principio della concorrenza, avevano come obiettivo principale la tutela de-
gli interessi degli operatori economici e la necessità di omogeneizzare la ma-
teria in tutti gli Stati membri (Corte CE, 18 ottobre 2011, C-1900, Siac Con-
structions), diverso appare, nella prospettiva vigente, il prevalente interesse
contenuto nella regolamentazione comunitaria della contrattualistica pubbli-
ca 149. La rilevanza del settore da un punto di vista economico ha messo in
primo piano le potenzialità della domanda pubblica quale traino per il soste-
gno delle politiche ambientali, occupazionali o di contrasto alla criminalità
nonché l’essere strumento di orientamento delle commesse pubbliche e dei

148
Sia consentito il rinvio al nostro elaborato: Prime osservazioni in merito alle direttive
di coordinamento delle procedure di aggiudicazione degli appalti pubblici. Direttive nn. 17
e 18/2004 del 31 marzo 2004, in Riv. trim. app., n. 3/2004, pp. 854 ss.
149
L’attività legislativa dell’Unione che ha scandito il processo di modernizzazione della
politica europea sugli appalti pubblici, ha visto un’accelerazione significativa in risposta alle
esigenze del mercato sia interno che comunitario. In questa sede, in particolare, meritano di
essere rammentate:
– la Comunicazione della Commissione: «Verso un atto per il mercato unico – Per un’e-
conomia sociale di mercato altamente competitiva – 50 proposte per lavorare, intraprendere
e commerciare insieme in modo più adeguato» [COM (2010)0608] nella quale viene dichia-
rata la volontà di intervenire con disposizioni ad hoc sulla legislazione europea degli appalti
pubblici, con l’obiettivo di aggiornare le procedure di aggiudicazione e migliorare le politi-
che di sviluppo 2010;
– il c.d. Rapporto Monti presentato alla Commissione europea «Una nuova strategia per
il Mercato unico» (maggio 2011);
– il Libro Verde «Sulla modernizzazione della politica dell’UE in materia di appalti
pubblici. Per una maggiore efficienza del mercato europeo degli appalti» [COM (2011)] 27
gennaio 2011;
– la Risoluzione del Parlamento europeo del 25 ottobre 2011 sulla modernizzazione degli
appalti pubblici [2011/2048 (NI)];
– la Proposta della Commissione europea per la direttiva sugli appalti pubblici [COM
(2011) 896/2] del 20 dicembre 2011;
– le Direttive 2014/24/UE e 2014/25/UE.
133

consumi, coinvolgendo peraltro il perseguimento di obiettivi sociali in tutti i


Paesi dell’Unione 150. Il principio dell’apertura dei mercati in combinato di-
sposto al principio di concorrenza, sostanzialmente fa arretrare quest’ultima
a favore di «una crescita intelligente, sostenibile ed inclusiva», sì da imple-
mentare l’efficienza della spesa pubblica per il conseguimento di obiettivi
condivisi a valenza sociale (considerando 2, Direttiva 2014/24/UE). Tutto
ciò deriva dall’evoluzione del principio di concorrenza come peraltro si è vi-
sto anche in altri settori, capovolgendo o almeno tentando di capovolgere, il
precedente sistema; «La concorrenza porta a considerare come prioritaria
l’esigenza di tutelare gli imprenditori (recte: il loro interesse occasional-
mente protetto se compatibile con la concorrenza) piuttosto che l’ammini-
strazione (valorizzando i poteri del giudice), mentre il buon uso delle risorse
pubbliche attenua la difesa “del” contraente ponendo fortemente in crisi il
dogma della stabilità della relazione negoziale» 151. Questa diversa prospet-
tazione trova il suo presupposto fin dal Libro Verde del 1986 nonché nel Li-
bro Verde del 2011 152, ove già si segnalava la necessità che «i committenti
facciano un maggiore uso degli appalti pubblici a sostegno degli obiettivi
sociali comuni: fra questi la tutela dell’ambiente, una maggiore efficienza
energetica e sotto il profilo delle risorse, la lotta contro i cambiamenti cli-
matici, la promozione dell’innovazione e dell’inclusione sociale e infine la
garanzia delle migliori condizioni possibili per la fornitura di servizi di ele-
vata qualità». Si evidenzia, così, un’impostazione «multidirezionale» della
regolamentazione che si riverbera sulla rielaborazione delle regole europee
in materia; è proprio nel dover cogliere questa multidirezionalità la difficoltà
più evidente che si incontra nella trasposizione negli ordinamenti interni dei

150
Tutto ciò deriva dalla constatazione che le autorità pubbliche in Europa, spendono
circa il 18% del PIL in acquisti di beni, servizi e opere risultando necessario dare una rispo-
sta al mercato che tenga conto di tali dati.
151
Si veda F FRACCHIA, I contratti pubblici come strumento di accentramento, in Riv. it.
dir. pubbl. comunit., n. 6/2015, p. 1529, ove si legge: «A guardare congiuntamente le vicen-
de evolutive indotte dall’irruzione dei due principali interessi nell’ambito della contratta-
zione pubblica (concorrenza e sostenibilità finanziaria), si può notare come la torsione fun-
zionale subita dall’istituto dei contratti abbia sicuri effetti sull’assetto complessivo della di-
sciplina. Tutto ciò, tuttavia, non segue traiettorie omogenee».
152
Libro Verde del 2011 «Sulla modernizzazione della politica della UE in materia di
appalti pubblici». Si veda altresì la Comunicazione della Commissione del 27 Gennaio
2011, ove si legge: «L’attuale generazione di Direttive sugli appalti pubblici, ossia le Diret-
tive 2004/17/CE e 2004/18/CE, rappresenta l’ultima fase di una lunga evoluzione del 1971
con l’approvazione della Direttiva 71303 CE. Mediante procedure trasparenti e non discri-
minatorie, queste Direttive mirano soprattutto ad assicurare che gli operatori economici
possano beneficiare a pieno delle libertà fondamentali nel campo degli appalti pubblici».
134

singoli Stati della disciplina comunitaria nonché nella fase amministrativa di


applicazione della nuova normativa. Il profilo della multidirezionalità può
rinvenirsi nel presupposto che, nonostante l’Unione abbia accentuato la ne-
cessità di tener conto dell’uso strategico degli appalti pubblici nell’economia
(COM/2011/15, 15 gennaio 2011), non ha mancato tuttavia di sottolineare
che l’uso delle commesse pubbliche, pur avendo un suo peso specifico sul
versante economico, deve rappresentare una forte spinta per l’innovazione e
per gli aspetti ambientali e sociali nonché per la tutela delle PMI.
Tutto ciò è comprovato dal fatto che nelle nuove direttive sono indivi-
duabili strategie, obiettivi e soluzioni che rinviano ad altre iniziative europee
quale il problema dei profili sociali (Buying social, New slills for new jobs),
la diffusione delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione (Digi-
tal Agenda for Europe, e-Procurement), l’innovazione (Innovation Union), la
semplificazione e il miglioramento della legislazione (Better Regulation
Strategy), il contrasto alla corruzione, la tutela delle Piccole e Micro PMI
(Small Business Act for Europe) che non devono essere escluse dal circuito
economico della domanda pubblica.
È evidente che l’assetto tradizionale della materia è modificato dalle
nuove direttive in quanto l’evidenza pubblica assume, ex se, un ruolo stru-
mentale sia rispetto al corretto funzionamento del mercato sia rispetto alla
tutela degli interessi pubblici e privati, nettamente a favore di un’azione vol-
ta verso fini diversi da quelli strettamente contrattualistici.
Con le direttive del 2014 è stata introdotta un’ulteriore tematica che inci-
de in modo determinante nella tradizionale prospettazione bipolare degli ap-
palti (nella quale i due poli di riferimento sono da un lato l’interesse della
pubblica amministrazione dall’altro la tutela della concorrenza e del merca-
to) attraverso l’inserimento di nuovi punti di orientamento, primo tra tutti
quello dell’efficienza contrattuale quindi dell’innovazione e dell’ambiente.
Sulla possibilità di perseguire attraverso la politica della domanda pub-
blica gli obiettivi strategici fissati dall’Unione, si rinvia al Documento di
Lavoro dei Servizi della Commissione, sintesi della valutazione (Bruxelles,
14 dicembre 2011, SEC (2011) 1575 definitivo) dove si sottolinea un cre-
scente interesse politico a riorientare la spesa pubblica verso soluzioni più
compatibili con la sostenibilità ambientale, la promozione di considerazioni
di politica sociale e il sostegno dell’innovazione; non a caso si osservi che
quasi tutti gli Stati membri hanno adottato piani d’azione nazionali per
l’attuazione del Green Public Procurement (appalti pubblici ecocompatibili)
ancora non costantemente applicabili ma dei quali tutte le amministrazioni
dovranno tener conto.
L’esempio di quanto finora detto è quello che, tra i criteri che concorrono
135

a formare l’offerta economicamente più vantaggiosa, si fa espresso riferi-


mento a parametri individuati in base a un approccio costo/efficacia … o
criteri qualitativi ambientali e sociali connessi all’oggetto dell’appalto pub-
blico o del contratto di concessione nonché la previsione di attribuzione di
un punteggio maggiore per la categoria dei servizi che presentino un minor
impatto sulla salute e sull’ambiente; sintomatica risulta altresì la prospettiva
di una disciplina specifica per gli appalti pubblici di lavori e servizi che in-
troduce la c.d. clausola sociale, al fine di garantire una stabilità occupazio-
nale del personale impiegato nell’appalto. Anche per ciò che attiene il profi-
lo più strettamente economico emerge una cura specifica verso un controllo
dei relativi flussi economici che accompagnano l’iter procedurale e l’esecu-
zione delle commesse, con la previsione di rendicontazione delle stazioni
appaltanti sì da mettere in luce quel principio segnalato dall’Unione in meri-
to all’impatto della domanda pubblica sull’economia di ogni singolo Paese
e, di conseguenza, del mercato interno. Un secondo aspetto non meno rilevan-
te è rappresentato dal fatto che, con l’emanazione della Direttiva 2014/24/UE,
ci si propone la «semplificazione» e «modernizzazione» delle procedure di
selezione delle imprese al fine di garantire, anche per questa via, la ricono-
sciuta rilevanza strategica da un punto di vista economico e istituzionale,
come si evince espressamente nella Comunicazione della Commissione del
3 marzo 2010.
In verità, con i termini semplificazione e modernizzazione s’intende – in
maniera riduttiva – far riferimento all’adozione di sistemi digitali e telemati-
ci i quali dovrebbero assicurare un più agevole accesso al mercato venendo
così a rappresentare il tentativo di rendere meno «pesante» il procedimento
di selezione del contraente.
La semplificazione in merito agli attuali modelli procedurali (che, come
rilevato fin dalla fase preparatoria delle nuove discipline europee, si presen-
tano eccessivamente complessi e costosi) è il punto centrale delle nuove di-
rettive le quali vengono a sollecitare gli Stati membri all’adozione di una
normativa e procedimenti amministrativi volti a renderli più idonei e coeren-
ti al contesto sociale ed economico 153. Ciò trova conferma nelle survey che

153
M. BERTOLISSI-V. ITALIA, La semplificazione delle leggi e dei procedimenti ammini-
strativi, Jovene, 2015; si veda, in particolare, da p. 31 ss. Il testo presenta spunti di estremo
rilievo nel contesto dei principi generali del diritto in tema di semplificazione delle leggi e
dei procedimenti amministrativi. Proprio sui procedimenti amministrativi, che è l’aspetto che
più interessa in tale sede, si sottolinea «… come la semplificazione dei procedimenti deve
essere considerata da un particolare angolo visuale, e si deve fermare l’attenzione sul con-
tenuto di essi, non in relazione alle fasi temporali, ma al contenuto, essenziale o non essen-
ziale del procedimento stesso (p. 106). Il che porta a distinguere le parti essenziali del proce-
136

hanno accompagnato l’emanazione delle stesse: tutti gli operatori economici


degli Stati membri hanno segnalato, quale elemento di criticità della materia,
il fatto che le regole del settore sono «… eccessivamente dettagliate, il che
comporta procedure amministrative laboriose, e da qui l’esigenza di mirare
ad una semplificazione delle procedure apportando eventuali chiarimenti
alle norme là dove necessario». Si sollecita quindi gli Stati membri ad adot-
tare quelli che una parte della dottrina definisce «procedimenti amministra-
tivi semplificati»; pur tuttavia, com’è stato osservato, l’adozione di proce-
dimenti amministrativi semplificati, presuppone una legge che sintetizza e
semplifica gli stessi 154.
Si appalesa così la volontà di ridefinire, in virtù dell’interesse del mercato
comune, l’intero ambito in esame attraverso nuovi/diversi criteri di aggiudi-
cazione dei contratti e di esecuzione degli stessi nonché la scelta delle tecno-
logie dell’informazione e della comunicazione sì da garantire non solo una
maggiore accessibilità a tutti i potenziali contraenti ma da indirizzare la do-
manda pubblica a quegli interessi comunitari a cui si è più volte fatto riferi-
mento.
La domanda pubblica (forse più che altri settori afferenti alle libertà eco-
nomiche regolamentati a livello europeo) vede accanto al diritto comunitario
derivato e alla normativa interna agli Stati membri, atti di soft law di compe-
tenza dell’autorità regolativa istituita presso ogni Paese; in Italia l’ANAC ha
visto ampiamente aumentare il suo ruolo di regolatore essendo ad essa attri-
buito il controllo ma anche il ruolo «di sostegno allo sviluppo delle migliori
pratiche, di facilitazione allo scambio di informazione tra stazioni appaltan-

dimento dalle parti non essenziali del procedimento. «Il vero vincolo tra le parti del proce-
dimento, è quello che vieta la semplificazione e la riduzione degli elementi essenziali, e cioè
l’elemento iniziale e l’elemento finale della decisione. In particolare, l’elemento decisionale
è quello che deve essere assunto rapidamente, perché i ritardi causati dall’ossequio a tutti i
vari passaggi possono provocare un danno ingiusto o maggiore di quello che può essere
causato da eventuali illegittimità che si sono inserite in alcuni dei singoli passaggi. È una
scelta determinata dal bilanciamento, dove l’esigenza della semplificazione degli atti proce-
dimentali amministrativi si pone come elemento necessario e determinante … il procedimen-
to amministrativo semplificato è un procedimento ridotto, dove l’elemento determinante ap-
pare quello – seguendo le linee di un decisionismo politico legislativo – che è caratterizzato
dall’elemento conclusivo della decisione che determina anche l’efficacia» (p. 108).
154
M. BERTOLISSI-V. ITALIA, op. cit., pp. 109 ss. Si osserva che «… questa legge che
stabilisce la sintesi del procedimento amministrativo, e quindi anche questo procedimento
amministrativo sintetizzato e semplificato deve essere osservato. Il vincolo che nasce da
questo procedimento amministrativo sintetizzato e semplificato deriva dalla legge, e la legge
deve essere evidentemente osservata». Ciò implica che gli elementi essenziali del procedi-
mento, anche in quello sintetizzato e semplificato, sono tutti presenti dalla fase iniziale a
quella decisionale.
137

ti … comprendenti anche poteri di raccomandazioni, intervento cautelare, di


deterrenza e sanzionatorio, nonché l’adozione di atti di indirizzo quali linee
guida, bandi tipo, contratti tipo ed altri strumenti di regolamentazione fles-
sibile, anche dotati di efficacia vincolante …».
È noto che tra i vari modelli per realizzare una vera e propria semplifica-
zione normativa e amministrativa – ammesso e non concesso che si possa
realizzare nell’ambito della domanda pubblica – non v’è dubbio che la scelta
desumibile dalla normativa europea sia quella di una norma primaria interna
molto lineare venendo a riconoscere alle amministrazioni una maggiore di-
screzionalità attraverso procedimenti amministrativi semplificati, pur nella
consapevolezza che tale tecnica presuppone un forte grado di competenza
delle stazioni appaltanti, le quali dovrebbero godere della possibilità di scel-
ta e, contestualmente, essere vincolate da obblighi di risultato, come vuole la
disciplina europea.
Si tratterrebbe d’escludere, anche ad esempio dal nostro sistema, la con-
vinzione culturale che la discrezionalità amministrativa sia essa stessa fonte
di corruzione mentre l’adozione di meccanismi automatici di aggiudicazione
e la previsione di rigide regole di procedura, siano l’unica via per evitare tale
fenomeno. Il problema di fondo afferisce al più ampio dibattito in merito al
«dilemma della regolazione», tema assai sentito nell’attuale momento stori-
co che peraltro, nella materia della domanda pubblica, si appalesa in tutta la
sua rilevanza 155.
Com’è noto, il raggiungimento di un’effettiva semplificazione può avve-
nire attraverso due grandi direttrici: o adottando un’ampia liberalizzazione
delle forme e delle modalità di azione dell’autorità pubblica, che resta libera
nei mezzi ma vincolata rispetto alle finalità generali (come parrebbe aver
previsto il legislatore comunitario) o attraverso una rigida regolamentazione
con procedure e moduli standardizzati, così da ridurre la discrezionalità
dell’amministrazione che porti tuttavia a un rilevante calo delle norme a fa-

155
G. FIDONE, La corruzione e la discrezionalità amministrativa: il caso dei contratti
pubblici, in Giorn. dir. amm., n. 3/2015, p. 227, ove l’A. così rileva in tema di corruzione: «I
fenomeni più diffusi sono i bandi su misura e le specifiche tecniche su misura: una stazione
appaltante, al momento della redazione della lex specialis di gara e dei documenti tecnici,
che delineano il contratto di cui ha bisogno, potrebbero richiedere prestazioni, caratteristi-
che, requisiti che, se pure in apparenza pensati per una gara pubblica, in realtà sono predi-
sposti ad hoc per una o più imprese pre-individuate, le quali divengono le uniche concreta-
mente candidate ad aggiudicarsi il contratto. In questo modo si vanificano gli strumenti di
trasparenza e di controllo, predisposti per la fase di aggiudicazione, determinando la viola-
zione della concorrenza e degli interessi degli altri operatori economici, sostanzialmente
impossibilitati a vincere la gara».
138

vore di procedure amministrative semplificate e l’utilizzo di modelli infor-


matizzati (come si desume abbia inteso il legislatore italiano). L’opzione
verso tale seconda via per conseguire una semplificazione della materia, de-
riva dal fatto che l’esperienza di questi anni ha messo in evidenza, soprattut-
to nel nostro Paese, le criticità degli apparati amministrativi sicché, ove ve-
nisse loro riconosciuta un’ampia discrezionalità – o la facoltà di una più am-
pia interpretazione di qualsiasi tipo, ad esempio analogica della norma pri-
maria – queste si troverebbero a operare su un terreno che si presume a loro
non di facile gestione, fenomeno accentuato dall’alto tasso di corruzione.
Accanto a questo si deve prendere atto della prassi adottata dalla burocra-
zia datata e non in linea con le attuali esigenze; è ben noto che una regola-
mentazione dettagliata e puntuale è stata l’elemento rassicurante dei funzio-
nari pubblici poiché ha messo al riparo gli stessi dall’operare scelte proprie,
dovendosi limitare al rispetto formale della disciplina applicabile alla fatti-
specie concreta.
Tutto ciò, in Italia, trova conferma nel fatto che, quant’anche da vario
tempo siano stati introdotti istituti di stampo semplificatorio delle procedure
contrattuali, l’uso di queste tecniche non è stato colto appieno dalle stazioni
appaltanti, le quali hanno continuato a svolgere la propria attività sulla base
di modelli tradizionali. Il ricorso a sistemi telematici, l’accettazione di un
ampio utilizzo delle autocertificazioni, i contratti a rete ecc., sono gli ele-
menti base sui quali avviare quella nuova via desumibile dalle ultime diretti-
ve europee.
Una regolamentazione della domanda pubblica inutilmente complessa va-
nifica il valore di efficienza e di buon andamento venendo peraltro ad aumen-
tare i lacci e lacciuoli giuridici dell’azione amministrativa sì da incrementare il
rischio che la decisione finale sia, in un qualche modo, non rispondente agli
obiettivi perseguiti 156. Proprio nella materia dei contratti pubblici l’ammi-
nistrazione in Italia ma anche negli altri Paesi europei, è stata avvertita come
«ostacolo» poiché la norma che regge l’azione da parte della stessa è com-
plicata e confusa così da renderne difficile la concreta applicazione. Il ché ha
portato alla reiterazione di comportamenti e soluzioni di stampo tradizionale
senza voler addentrarsi in soluzioni che pur previste dal legislatore comuni-

156
Sul punto si rinvia a quello che gli economisti definiscono effetto di «selezione avver-
sa» ovvero la situazione in cui le modifiche nei rapporti tra le parti spingono una delle due a
rinunciare al rapporto con l’altra, lasciando il posto a soggetti che presentano in misura mi-
nore la caratteristica preferita dall’altra parte; variando le condizioni di un contratto viene a
variare la selezione dei contraenti sfavorevoli per la parte che ha modificato a suo vantaggio
le condizioni. Si rinvia a M. BERTOLISSI-V. ITALIA, op. cit., pp. 116 ss.
139

tario e nazionale, risultavano e risultano discostarsi dal paradigma procedu-


rale tradizionalmente utilizzato 157.
In via generale, una volta scelto il sistema di regolamentazione, se è vero
che il primo step è rappresentato dalla tecnica di redazione della legge di at-
tuazione della normativa comunitaria in materia nonché dal rapporto che in-
tercorrerà tra fonte primaria e fonte secondaria (ai quali vanno aggiunti atti
di soft law 158, o i c.d. atti di normazione flessibile che indirizzino le ammini-
strazioni), è altrettanto vero che sarà necessario un intervento riformatore
sulle amministrazioni che investa aspetti rilevanti delle stesse 159. Una rego-
lamentazione particolarmente precisa dovrebbe far sì che si possa maggior-
mente controllare che gli organi amministrativi – anche sotto tale profilo –
non «distolgano» il pubblico denaro dalla finalità di realizzazione di un inte-
resse pubblico; tuttavia è altrettanto vero che, utilizzando tale tecnica, non si
produce un risparmio di spese se non attraverso l’adozione dei sistemi in-
formatici. Solo così i costi diretti e indiretti che le amministrazioni devono
affrontare in conseguenza degli aggravamenti procedurali possono colmare
il divario rispetto a procedimenti più flessibili.
La rilevanza delle modifiche introdotte nella regolamentazione della do-
manda pubblica, discende proprio dal fatto che nella nuova impostazione del
settore in esame viene ad attribuirsi un ruolo determinante alle amministra-
zioni ovvero «quello non di meri acquirenti, bensì di componente fondamen-
tale del mercato nella spinta verso l’innovazione». Questi punti nodali, ri-

157
F. FRACCHIA, L’amministrazione come ostacolo, in Il Diritto dell’economia, Vol. 26,
n. 81/2013, pp. 361 ss. Nel presente lavoro si sono utilizzati taluni concetti-espressione che
l’A. ha richiamato in via generale in merito ai problemi del rapporto privato/pubblica ammi-
nistrazione. A parere di chi scrive, molti dei concetti utilizzati dall’A., si attanagliano in mo-
do specifico alla contrattualistica pubblica e pertanto si è reputato di poterli mutuare onde
mettere in evidenza il peso specifico che le prassi amministrative tradizionali riflettono sulla
disciplina della domanda pubblica.
158
In realtà sotto l’etichetta di soft law s’intende far riferimento a misure amministrative
quali atti interpretativi, linee guida, disposizioni e bandi tipo, sulla cui vincolatività diventa
difficile dare risposta. Il meccanismo dovrebbe ispirarsi alla vecchia tematica delle circolari
interpretative, dove appunto l’amministrazione si adeguava alla circolare ma poteva disco-
starsene sotto la responsabilità del funzionario e previa espressa motivazione. In tal modo si
verrebbero a sindacare oltre che a porre in essere meccanismi di responsabilità, le scelte del
funzionario amministrativo.
159
D’altro canto che il settore degli appalti – ammesso e non concesso che si possa parla-
re di un singolo settore trattandosi in verità di una pluralità di settori legati da principi gene-
rali di regolazione – impatti la pubblica amministrazione, è cosa ben nota tant’è che sia la
normativa europea sia la legge italiana danno per presupposto una maggiore professionalità
delle stazioni appaltanti nella gestione delle gare per l’affidamento e l’esecuzione dei con-
tratti pubblici.
140

chiamati in modo sommario e senza pretese esaustive, stante la vastità dei


temi che fungono da sfondo, raffigurano i presupposti logico-giuridici in tut-
ta la sfera relativa ai contratti della pubblica amministrazione; tuttavia gli
stessi riemergono con particolare forza in quanto, nella trasposizione nell’or-
dinamento interno delle Direttive 2014/24/UE e 2014/25/UE, gli Stati mem-
bri non possono non tener conto del ruolo che le stazioni appaltanti andran-
no a sviluppare nel contesto della normativa nazionale. Basti pensare all’op-
zione operata dal legislatore comunitario verso l’utilizzo del sistema di sele-
zione basato sulla qualità/prezzo lì dove, peraltro, la qualità attiene a tutta
una serie di elementi «nuovi» – ad esempio quelli derivanti dall’utilizzo da
parte dell’imprenditore privato delle c.d. buone pratiche ovvero del rispetto
dell’ambiente, dell’investimento su sviluppo e ricerca – rispetto ai tradizio-
nali requisiti che, per prassi consolidata, risultano più agevoli nel valutare il
livello qualitativo e premiale attraverso un punteggio 160.
L’applicazione delle disposizioni contenute nelle normative europee, sia
pure nel quadro di semplificazione sopra richiamato, è imprescindibilmente
connessa alla capacità delle amministrazioni di ciascuno Stato di adeguarsi
al modello che la regolamentazione normativa europea presuppone. In que-
sto caso, quindi, è l’amministrazione dei singoli Stati che dovrà dare attua-
zione alla normativa attraverso una fase c.d. discendente di «amministrazio-
ne indiretta».
Nella nuova normativa sugli appalti, nella legge di recepimento delle diret-
tive del 2014, è peraltro richiamata una pluralità di temi relativi al complesso
di norme che disciplinano la domanda pubblica; merita ad esempio un richia-
mo specifico il c.d. divieto di «gold plating», previsto non solo per un’omo-
genizzazione delle discipline anche amministrative valevoli per tutto il merca-
to interno ma al fine di coinvolgere nel settore anche imprese di piccole e me-
die dimensioni. L’interpretazione che è fornita in merito al c.d. «gold plating»
nel recepimento delle nuove direttive, concerne l’eliminazione di quelle regole
amministrative/esecutive più restrittive rispetto al livello europeo che non sia-
no palesemente giustificate dalla tutela di interessi pubblici 161.

160
Si veda in tal senso la Com. (2002) 714, p. 24, ove si osserva come «… l’accesso li-
mitato alla finanza nelle fasi iniziali e intermedie nel ciclo di vita, l’assenza di qualificazio-
ni, il peso della normativa e di un carico fiscale relativamente più elevato contribuiscono a
limitare la crescita delle PMI». M.A. STEFANELLI, Osservazioni critiche sulla regolamenta-
zione giuridica delle micro e piccole medie imprese. La dimensione “minore” come misura
per una regolamentazione dell’industria e per la ripresa economica, in G. LEMME (a cura
di), Diritto ed economia nel mercato, cit., pp. 216 ss.
161
Sull’interpretazione del gold plating la dottrina si è variamente espressa stante la dif-
ficoltà di un inquadramento «cogente» a un principio che tale non è. Oltretutto come è stato
141

Si rammenti tuttavia che la Commissione europea fin dal 2010 162, nel ri-
badire che gli Stati membri in sede di attuazione delle direttive in materia
godono di una discrezionalità particolarmente ampia (potendo aumentare gli
obblighi di comunicazione, aggiungere requisiti procedurali o applicare re-
gimi sanzionatori più rigorosi rispetto a quanto previsto dal legislatore euro-
peo), sottolinea come l’introdurre livelli di regolamentazione superiori ri-

osservato gli effetti di un’effettiva applicazione del principio in parola, comporterebbe un


impatto sulla tecnica legislativa della futura normativa sugli appalti che diventa parametro di
legittimità della stessa. Così si rinvia a quanto rilevato da F. Fracchia, nell’Audizione del 15
gennaio 2015, presso il Senato della Repubblica, Commissione VIII, Lavori pubblici, in
http://www.osservatorioappalti.unitn.it.
162
Commissione Europea, Comunicazione della Commissione al Parlamento europeo, al
Consiglio, al Comitato economico e sociale europeo e al Comitato delle Regioni, Legiferare
con intelligenza nell’Unione europea COM (2010) 543, Bruxelles, 8 ottobre 2010 «… Nel
legiferare con intelligenza ci si prefigge di ideare e produrre una normativa che rispetti i
principi di sussidiarietà e proporzionalità, senza venir meno ai massimi requisiti di qualità.
Questo obiettivo va perseguito nell’arco dell’intero processo di definizione delle politiche,
dal momento in cui un testo normativo viene ideato alla fase della sua revisione. L’impegno
con cui la Commissione si è investita nelle valutazioni d’impatto sta dando i suoi frutti in
termini di migliore qualità dei nuovi provvedimenti. Stante che però benefici e costi in mas-
sima parte sono riconducibili all’intero corpus legislativo, dobbiamo compiere uno sforzo
equivalente per coordinarlo in modo più sistematico». Nella Comunicazione si rinvia altresì
a p. 5, ove si legge: «La Commissione sta pertanto concentrando i propri sforzi su una ridu-
zione degli oneri amministrativi contestuale a una semplificazione della legislazione. Ciò
permetterà di rispondere alle preoccupazioni delle parti interessate, secondo le quali le im-
prese non sempre avvertono un beneficio dalla riduzione degli oneri amministrativi, tra
l’altro a causa di obblighi che generano “irritazione” pur non comportando costi elevati.
La Commissione ha prolungato il mandato del gruppo ad alto livello di parti interessate in-
dipendenti, affinché formuli un parere su questi aspetti entro la fine del 2012, data alla qua-
le la semplificazione e la riduzione degli oneri amministrativi saranno stati integrati
nell’impostazione della Commissione per gestire la legislazione vigente. Come in passato, la
Commissione baderà a garantire che le misure intese a semplificare o a ridurre gli oneri
amministrativi non pregiudichino il conseguimento degli obiettivi strategici della legislazio-
ne». La Comunicazione prevede l’adozione di sette iniziative: l’Unione per l’innovazione al
fine di migliorare l’accesso ai finanziamenti per la ricerca e l’innovazione al fine di stimola-
re la crescita e l’occupazione; Youth on the move, al fine di stimolare e agevolare l’ingresso
dei giovani nel mercato del lavoro; un’agenda europea digitale, per una maggiore diffusione
della conoscibilità a tutti i soggetti interessati; un’Europa efficiente sotto il profilo delle ri-
sorse al fine di contribuire a scindere la crescita economica dall’uso delle risorse in modo da
favorire il passaggio da un’economia a bassa emissione di carbonio ad un maggiore uso delle
energie rinnovabili; una politica industriale per l’era della globalizzazione, con l’obiettivo
di favorire lo sviluppo di una base industriale in grado di competere su scala mondiale che
coinvolga anche le PMI; un’agenda per nuove competenze e nuovi posti di lavoro, l’obiet-
tivo è quello di migliorare l’offerta e la domanda di mano d’opera; la piattaforma europea
contro la povertà, al fine di garantire la coesione sociale e avviare una politica di inclusione
dei soggetti svantaggiati affinché possano vivere in condizioni dignitose.
142

spetto a quanto richiesto dall’Unione, pur non incidendo sul livello di legali-
tà sia annoverabile fra le «bad practice» in quanto, una tale disciplina, com-
porterebbe costi ultronei e per l’amministrazione e per le imprese a danno
del mercato interno 163.
La ratio seguita dall’Unione appare evidente: consentire la massima par-
tecipazione nel confronto concorrenziale nonché l’accesso alla domanda
pubblica anche di imprese che, sia per dimensioni o perché di recente istitu-
zione, risultino meno attrezzate sotto questo profilo rispetto ad altri operatori
del settore, tenendo presente però, gli obiettivi più ampi dell’accesso al mer-
cato e del principio di concorrenza proposti dalle nuove direttive.
Proprio perché la materia degli appalti a livello europeo è caratterizzata,
oggi, da quella «multifunzionalità» di cui si diceva in precedenza, non stupi-
sce che connessa alla regolamentazione della stessa risulti afferente il tema
del rating delle imprese. Già nel corso dell’elaborazione della Direttiva
2014/24/UE, sovente, si è fatto riferimento ai c.d. «criteri reputazionali»,
anche sulla scorta di quanto proposto nel Libro Verde 2011, ove si sollecita-
vano gli Stati membri ad adottare sistemi di qualificazione basati appunto su
tali «criteri», intendendosi, per essi, tutte quelle informazioni sulla vita
dell’impresa che non afferiscono sostanzialmente a requisiti in merito alle
qualità tecniche o economiche dell’aspirante contraente. Interessante, sotto
questo profilo appare il dibattito svoltosi proprio in sede di proposta di diret-
tiva comunitaria (20 dicembre 2011) sfociata poi nella Direttiva 2014/
24/UE, sul c.d. rating delle imprese. Si osservi che, con la previsione di un
rating delle imprese, l’Unione mirava e mira a valorizzare il comportamento
tenuto dagli operatori economici soprattutto in fase di esecuzione del con-
tratto nonché tutti i rapporti sorti tra le imprese e la stazione appaltante an-
che dopo l’aggiudicazione, comprese ad esempio le relazioni che i collauda-
tori presentavano alla fine del lavoro o più in generale il comportamento te-
nuto dall’impresa nei confronti del fisco rispetto ai contributi sociali e al pa-
gamento dei propri dipendenti. La previsione in parola è venuta a meno nel

163
Come rilevato opposto a tale principio è il recepimento c.d. copy out che consiste in-
vece nell’attenersi alla formulazione della disciplina così come contenuta nella legislazione
europea. Pertanto, nel recepimento delle normative dell’Unione, i Governi nazionali si tro-
vano nell’alternativa o di riprodurre fedelmente l’atto comunitario, oppure di prevedere le
ragioni per cui ritengono necessaria l’applicazione del principio del gold plating. Nella Rela-
zione presentata da P. Mantini, si sottolinea come detto principio possa assumere significati
ulteriori. Si veda lo scritto di P.L. MANTINI, Divieto di gold plating e semplificazione norma-
tiva nel recepimento delle direttive su appalti e concessioni, Relazione al convegno organiz-
zato dall’Università Bocconi, 14 maggio 2015, Le nuove Direttive appalti e il loro recepi-
mento, in http://www.osservatorioappalti.unitn.it.
143

testo definitivo della Direttiva 2014/24/UE la quale fa riferimento nell’art.


56, al c.d. «Documento di gara unico europeo», attraverso il quale l’impren-
ditore, con una mera autodichiarazione, attesta di non trovarsi in una di quel-
le cause ostative alla redazione del contratto previste nell’art. 57 della diret-
tiva stessa nonché di soddisfare i parametri previsti nell’art. 58, relativi al-
l’abilitazione all’esercizio dell’attività professionale, capacità economiche e
finanziarie, capacità tecniche e professionali. Da un lato quindi la direttiva
non prende in considerazione la reputazione dell’impresa, dall’altro però, la
previsione di un documento unico di gara, peraltro consistente in un’auto-
dichiarazione, dovrebbe facilitare l’accesso alla domanda pubblica. In verità
il Documento Unico europeo dovrebbe contenere solo i c.d. «requisiti obbli-
gatori» che rendono l’impresa idonea a contrarre con le amministrazioni;
tuttavia, il riferimento ai criteri reputazionali viene ugualmente sollecitato
per un diverso approccio nei confronti dell’impresa, ovvero: fermo restando
che l’impresa deve possedere i requisiti obbligatori che la rendono idonea a
contrarre, si tenta di introdurre nella contrattualistica pubblica requisiti repu-
tazionali afferenti, come si è detto, al comportamento dell’impresa anche du-
rante l’esecuzione del contratto o relativi all’utilizzo di pratiche condivise
che rispecchino gli obiettivi dell’Unione.
L’applicazione in via generale del rating di legalità, anche nella materia
dei contratti, trova fondamento nel fatto che nella Direttiva 2014/24/UE si
mette in luce come l’adozione delle «best practicies», su cui si fondano i cri-
teri reputazionali, dovrebbero essere prese in considerazione anche in sede
contrattuale ovviamente a condizione che siano richiamate nel bando 164. In
Italia, nella domanda per l’attribuzione del rating, le imprese dovranno di-
chiarare l’assenza di sentenza di condanna o l’adozione di misure cautelari
per reati tributari nonché l’assenza nel biennio antecedente alla richiesta di
rating di provvedimenti di condanna nei loro confronti per illeciti antitrust
gravi, per l’accertamento di un maggior reddito imponibile rispetto a quello
dichiarato, per il mancato rispetto della legge sulla salute e sicurezza nei

164
In tal senso al considerando 101 della precitata direttiva, si consente alle amministra-
zioni «di avere la possibilità di escludere operatori economici che si sono dimostrati inaffi-
dabili, per esempio a causa della violazione di obblighi ambientali o sociali … o che l’ope-
ratore economico ha violato i suoi obblighi inclusi quelli relativi al pagamento di imposte o
contributi previdenziali … o che nell’esecuzione di precedenti appalti pubblici hanno messo
in evidenza notevoli mancanze per quanto riguarda obblighi sostanziali per esempio manca-
ta fornitura o esecuzione, carenze significative del prodotto o del servizio fornito, che lo
rendono inutilizzabile per lo scopo previsto o comportamenti scorretti che hanno dato adito
a seri dubbi sull’affidabilità dell’operatore economico … nell’applicare motivi di esclusione
facoltativi, le amministrazioni aggiudicatrici dovrebbero prestare particolare attenzione al
principio di proporzionalità».
144

luoghi di lavoro nonché per le violazioni in materia di obblighi retributivi,


contributivi, assicurativi e obblighi concernenti il pagamento delle ritenute
fiscali su dipendenti e collaboratori. Questi requisiti fanno parte dei c.d. «re-
quisiti obbligatori», l’elemento innovativo sarebbe quello di computare nel-
l’attribuzione del punteggio in sede di gara, i profili che emergono dai «re-
quisiti eventuali ed aggiuntivi», quali la tracciabilità dei pagamenti per im-
porti inferiori a quelli previsti dalla legge, l’adozione di una struttura orga-
nizzativa interna ed esterna che controlli la conformità delle attività azienda-
li alle disposizioni normative applicabili all’impresa (sistemi di complice) o
l’adozione di modelli organizzativi volti a prevenire e impedire compimenti
di reati nonché l’adozione di processi per raggiungere forme di Corporate
Social Responsability, anche tramite l’adesione a programmi promossi da
organizzazioni nazionali o internazionali.
La materia, quindi, è caratterizzata dalla tradizionale «amministrazione
indiretta», tuttavia, si è ritenuto opportuno richiamarla poiché se è vero che
gli Stati membri godono di ampia autonomia nella trasposizione della diret-
tiva nel tessuto normativo statale che in Italia peraltro ha subito un travaglia-
to iter, è altrettanto vero che talune prassi amministrative, legittimate dalla
legge di recepimento, non possono essere in contrasto con la ratio della di-
rettiva né tanto meno il singolo funzionario amministrativo può distorcerne
le finalità. Una materia come quella degli appalti o più in generale della do-
manda pubblica che investe una pluralità di obiettivi comunitari con riflessi
sulle finanze pubbliche nazionali, richiederebbe nella trasposizione una cau-
tela specifica che non è dato intravedere nella nuova legge sugli appalti pub-
blici sulla quale in questa sede non è possibile soffermarsi.
145

CAPITOLO III
PROFILI AMMINISTRATIVI DELLA LIBERA
CIRCOLAZIONE DI PERSONE, DEI LAVORATORI
AUTONOMI E DEI LAVORATORI SUBORDINATI

SOMMARIO: 1. Principi generali della libera circolazione delle persone nel quadro delle liber-
tà economiche. – 1.1. L’interesse pubblico e le deroghe al diritto di circolazione. – 1.2.
Aspetti generali sulla libertà di circolazione dei lavoratori e dei prestatori di servizi.

1. PRINCIPI
GENERALI DELLA LIBERA CIRCOLAZIONE DELLE PERSONE NEL
QUADRO DELLE LIBERTÀ ECONOMCHE

La difficoltà di trattare in modo «autonomo» nel quadro delle libertà


economiche il tema del diritto di circolazione delle persone nell’Unione,
deriva dal fatto che esso si pone come coacervo di tematiche afferenti
«diritti sociali» (lo stato di immigrato, il ricongiungimento familiare,
ecc.) e «diritti economici» quale diritto rientrante nell’alveolo delle liber-
tà economiche che è poi l’aspetto privilegiato nella presente trattazione 1.
D’altro canto, la dimostrazione della «vischiosità» dell’argomento è rap-

1
L’indagine privilegia quest’ultimo profilo poiché, le diverse legislazioni degli Stati
membri non ancora sotto taluni aspetti omogeneizzate, risente della persistenza di barriere
che condizionano la libertà di circolazione delle «persone» per esercitare attività economi-
che. Un tema principe, sul quale però non è possibile in questa sede far riferimento, attiene
ad esempio, all’applicazione dei contratti collettivi di lavoro di uno Stato membro e in par-
ticolare dello Stato italiano. Infatti, indipendentemente dai vincoli posti dal mercato interno,
una legge nazionale che applichi l’intero sistema di diritto del lavoro nazionale ai lavoratori
stranieri distaccati, si porrebbe in contrasto con la Convenzione di Roma, prima ancora che
con la Direttiva 96/71 e l’art. 49 TCE. «Che poi, nel trasporre tali principi negli ordinamenti
interni, i giudici nazionali abbiano spesso adottato un approccio “annessionista”, finendo
per applicare le tutele lavoristiche ben al di là di quanto ammesso dalla Convenzione di
Roma è altra questione, che ha a che fare con l’assenza di un adeguato regime sanziona-
torio capace di garantire il rispetto delle fonti di diritto internazionale». Si veda S. GIUB-
BONI-G. ORLANDINI, La libera circolazione dei lavoratori, Il Mulino, 2007, p. 89.
146

presentata dal fatto che, la libera circolazione delle persone, pur costi-
tuendo una delle libertà fondanti dell’Unione, è una materia che si pone
su più livelli d’indagine che vanno dalla nozione stessa di libera circola-
zione nel territorio del mercato unico – quale nozione fondante per il di-
ritto del «cittadino europeo» – al concetto di libera circolazione, connes-
so alle attività produttive, ovvero la possibilità per il «cittadino europeo»
di poter essere lavoratore (autonomo o subordinato) in qualsiasi Stato
membro. Si rammenti che, come si legge nel considerando 3 della Diret-
tiva 2004/38/CE, la libera circolazione dei lavoratori aventi cittadinanza
dell’Unione, si estrinseca in uno status fondamentale dei cittadini degli
Stati membri «quando essi esercitano il loro diritto di libera circolazione
e di soggiorno» 2.
In via generale il principio ispiratore di tutta la normativa in materia di li-
bera circolazione, afferisce al c.d. «principio antidiscriminatorio» 3 che, sia
pure come si vedrà in seguito, coniugato con altri principi derivanti dal pro-
filo di accesso al mercato, mantiene una sua peculiare funzione regolatoria
di tale libertà sì da connotare la materia in esame in modo specifico rispetto
alle altre libertà economiche.
Il peso economico della libera circolazione delle persone deriva dal fatto
che la principale motivazione dei cittadini europei di avvalersi di tale libertà,
è costituita dalla ricerca del lavoro, seguita da ragioni familiari 4. La libera

2
Sempre nel considerando 3 della Direttiva 2004/38/CE del Parlamento europeo e del
Consiglio del 29 aprile 2004 (relativa al diritto dei cittadini dell’Unione e dei loro familiari
di circolare e di soggiornare liberamente nel territorio degli Stati membri, che modifica il
regolamento (CEE) n. 1612/68 ed abroga le direttive 64/221/CEE, 68/360/CEE, 72/194/
CEE, 73/148/CEE, 75/34/CEE, 75/35/CEE, 90/364/CEE, 90/365/CEE e 93/96/CEE (Testo
rilevante ai fini del SEE) si legge che «... È pertanto necessario codificare e rivedere gli
strumenti comunitari esistenti che trattano separatamente di lavoratori subordinati, lavora-
tori autonomi, studenti ed altre persone inattive al fine di semplificare e rafforzare il diritto
di libera circolazione e soggiorno di tutti i cittadini dell’Unione».
3
Sulla discriminazione si rinvia, tra le tante, alla sentenza Commissione, C-278/94,
Commissione c. Regno del Belgio e alla sentenza Corte giust., C-237/94, John O’Flynn. Si
vedano altresì, le osservazioni elaborate dalla Commissione europea, 15 gennaio 2014, volte
a rendere più chiara, nei limiti della materia, la libera circolazione delle persone. In tali os-
servazioni, la Commissione mette in luce come la lotta contro la discriminazione dei lavora-
tori degli Stati membri e la sensibilizzazione al diritto dei cittadini dell’Unione, a lavorare in
altri Paesi dell’Unione.
4
Nel 2012, tra tutti i cittadini dell’Unione residenti in un altro Paese dell’Unione (citta-
dini mobili dell’Unione) più di tre quarti (78%) erano di età lavorativa (15/64 anni), rispetto
al 66% dei cittadini italiani. In media, come rileva la Commissione europea, il tasso di occu-
pazione dei cittadini mobili dell’Unione (67,7%) era fin da allora superiore a quello dei cit-
tadini nazionali (64,6%). I cittadini mobili dell’Unione non occupati (studenti, pensionati,
persone non attive) rappresentano solo una percentuale limitata.
147

circolazione dei cittadini, è quindi una componente essenziale del mercato


unico in quanto stimola la crescita del mercato comune consentendo alle
persone di acquisire vantaggi anche in termini di accesso al mondo del lavo-
ro. I dati riportati indicano la rilevanza del fenomeno, non solo da un punto
di vista di nascita di un’Unione europea «politica» ma, altresì, da un punto
di vista economico, il ché giustifica la rilevanza nel quadro delle libertà eco-
nomiche del fenomeno della libera circolazione delle persone. Da un punto
di vista generale, si osservi che «… la normativa comunitaria coordina …
sistemi nazionali di sicurezza sociale nel senso che li mette in comunicazio-
ne, li sincronizza, li interfaccia, li apre gli uni agli altri denazionalizzandoli
(in virtù del principio di parità di trattamento) … quanto basta per impedire
che i lavoratori migranti possano subire svantaggi … in conseguenza
dell’esercizio della loro libertà di circolazione all’interno dell’Unione» 5. Il
fulcro è rappresentato dal fatto che, a differenza del meccanismo del sistema
di armonizzazione normativa utilizzato negli altri settori delle libertà eco-
nomiche, nella materia in esame si è avuto all’origine e ancora oggi per al-
cuni profili, un coordinamento volto a creare un sistema comune di sicurez-
za sociale senza intaccare la disciplina degli Stati membri nel configurare i
contenuti dei loro rispettivi regimi legali. Spetterebbe quindi alla legislazio-
ne di ciascuno Stato membro, determinare le condizioni di affiliazione ai ri-
spettivi regimi sociali, come pure il contenuto dei diritti e degli obblighi che
dalla stessa conseguono in capo ai lavoratori e ai datori di lavoro, nel rispet-
to del divieto di discriminazione in base alla nazionalità. Occorre rammenta-
re che per i primi tre mesi ogni cittadino dell’Unione ha diritto di soggiorna-
re in uno dei territori europei, lì dove sia in possesso di una carta di identità
o di un passaporto in corso di validità. Trascorso tale periodo, l’interessato
deve soddisfare determinate condizioni, prima fra tutte avere risorse finan-
ziarie sufficienti e assicurazione sanitaria, in modo da non diventare un one-
re per il Paese ospitante. È quest’ultimo il requisito forse più rilevante che
condiziona il diritto di circolazione poiché, dall’autosufficienza reddituale,
deriva l’erogazione a quest’ultimo dei servizi socio-sanitari che lo Stato
ospitante potrebbe o dovrebbe garantire anche al cittadino comunitario in

5
S. GIUBBONI-G. ORLANDINI, op. cit., p. 115. «Riprendendo più analiticamente gli obiet-
tivi del sistema di coordinamento, può osservarsi come questo tenda nell’ordine a: a) impe-
dire differenze di trattamento a danno dei lavoratori migranti in base alla nazionalità; b)
prevenire conflitti positivi o negativi di legge individuando la (sola) legislazione di volta in
volta applicabile; c) scongiurare censure e interruzioni nella carriera previdenziale del sog-
getto, garantendo che vengano presi in considerazione, ai fini della maturazione del diritto
come del calcolo delle prestazioni, tutti i periodi assicurativi utili in ambito comunitario: d)
rimuovere eventuali condizioni di residenza ai fini della erogazione delle prestazioni del-
l’Unione europea».
148

entrata. A tal fine, è evidente che la libertà di circolazione si connette all’ac-


cesso nel mercato del lavoro, soprattutto in un periodo di crisi economica,
come quello in atto. La Commissione, nel sollecitare una maggiore circola-
zione dei lavoratori dell’Unione, sottolinea che la mobilità della forza lavoro
nel mercato interno non va solo a vantaggio dei lavoratori coinvolti ma an-
che delle economie degli Stati membri; avvantaggia i Paesi ospitanti perché
consente alle aziende di coprire posti di lavoro che resterebbero altrimenti
vacanti; avvantaggia altresì i Paesi di origine dei cittadini europei, in quanto
una maggiore mobilità consente agli stessi di trovare occupazione ma so-
prattutto acquisire abilità ed esperienza di cui sarebbero altrimenti rimasti
sprovvisti 6.
Le condizioni di market access in un sistema come quello dell’Unione,
sono in genere individuabili in tre modelli analitici tra loro concorrenti: in
primo luogo occorre tener conto del modello host state control, nel quale
l’accesso al mercato domestico avviene nel rispetto delle norme procedurali
e sostanziali, proprie dello Stato ospitante. Rientra in questo concetto il prin-
cipio di non discriminazione in base alla cittadinanza che vale a garantire al
prestatore di servizi trans-nazionali, parità di condizioni rispetto al prestatore
di servizi dello Stato ospitante. Una seconda tipologia è quella dell’home
state control che prevede come condizione per l’accesso al mercato in un al-
tro Stato membro, l’osservanza delle regole fissate dallo Stato di origine: si
tratta di una forma particolare d’integrazione negativa, atteso che nella pro-
spettiva del prestatore di servizi i suddetti mercati si presentano come uno
spazio giuridicamente unificato di libero scambio. Adottando il meccanismo
dell’home state control si viene ad avere tanti regimi giuridici differenti
quanti sono gli Stati membri ed è questo il tratto comune con il primo mo-
dello richiamato, presentandosi entrambi come variazione di un disegno di
competenze regolative decentrate nelle mani degli Stati nazionali. In pratica,
il diritto dell’Unione realizza questa forma di tecnica regolatoria, ricorrendo
a due distinti principi: il «mutuo riconoscimento» e il principio del Paese di

6
Commissione europea, La Commissione europea difende la libera circolazione delle
persone, 15 gennaio 2014 ove testualmente si legge: «La mobilità della forza lavoro nell’UE
non va solo a vantaggio dei lavoratori coinvolti, ma anche delle economie degli Stati mem-
bri. Avvantaggia i paesi ospitanti perché consente alle aziende di coprire posti di lavoro che
resterebbero altrimenti vacanti nonché di produrre beni e fornire servizi che altrimenti non
potrebbero assicurare. Ed è vantaggiosa per i paesi di origine dei cittadini, poiché la mobi-
lità consente a lavoratori, che altrimenti avrebbero minori possibilità di lavorare, di trovare
posti di lavoro, di garantire in tal modo il mantenimento delle loro famiglie nel paese
d’origine e di acquisire abilità ed esperienza di cui resterebbero altrimenti sprovvisti. In se-
guito, una volta rientrati nel loro paese d’origine, questi lavoratori beneficiano dell’espe-
rienza acquisita».
149

origine 7. Vi è infine un terzo modello che in genere è definito del «controllo


sovranazionale» il quale accentua le competenze delle istituzioni di Governo
dell’Unione, mediante la tecnica dell’armonizzazione, in virtù della quale si
realizza un mercato unico dotato di un proprio e autonomo assetto normati-
vo, venendo così a superare la frammentazione dei mercati nazionali e di
conseguenza l’eterogeneità dei relativi regimi di accesso. Quest’ultimo, ad
avviso di chi scrive, s’integra e ne rappresenta lo «sfondo» rispetto agli altri
regimi come si desume dalle normative comunitarie che hanno delineato dei
macro sistemi volti a superare alcune specificità dei singoli regimi statali.
Non vi è dubbio che l’obiettivo fondamentale contenuto nell’art. 49 TCE,
presuppone la soppressione di tutte le restrizioni che possono ostacolare la
libera prestazione dei servizi. A ben vedere il combinato disposto degli artt.
49 e 50 TCE, impone agli Stati membri la soppressione di qualsiasi restri-
zione anche qualora la stessa sia applicata dai prestatori nazionali, nell’ipo-
tesi in cui detta restrizione sia tale da ostacolare le attività del prestatore sta-
bilito in un altro Stato membro.
L’accesso al mercato e i principi sopra richiamati, poiché riferiti a una li-
bertà fondamentale, fanno emergere l’obbligo di rispettarla e vincolano non
solo gli Stati membri ma anche i soggetti privati, siano essi dotati di un pote-
re regolativo o individui che impongono meri comportamenti. Tant’è che
«… all’art. 39 [TCE] è riconosciuta una piena efficacia diretta sia verticale
che orizzontale» 8. La norma del trattato ha consentito alla Corte di giustizia
di adottare una pluralità di criteri di valutazione delle misure nazionali che
afferiscono a diversi gradi di eccezione alla libertà di circolazione dei lavo-
ratori facendo perno sostanzialmente sul c.d. «principio antidiscriminato-
rio»; occorre tuttavia tener presente che dalla giurisprudenza della Corte di
giustizia non solo viene ad ampliarsi il concetto di discriminazione (si veda
il passaggio tra una «discriminazione dissimulata» a quella che la Corte de-
finisce come «discriminazione indiretta» 9) ma il fulcro del sistema è che gli
effetti limitativi di tale diritto trovano legittimità solo in presenza di preva-
lenti ragioni oggettive in genere di carattere pubblicistico, col ché viene de-
voluta agli Stati membri l’individuazione e la valutazione di tali ragioni

7
F. BANO, Diritto del lavoro e libera prestazione di servizi nell’Unione europea, Il Mu-
lino, 2009, p. 71.
8
S. GIUBBONI-G. ORLANDINI, op. cit., p. 16.
9
Corte giust., 12 febbraio 1974, C-153/73, Sotgiu, in Raccolta, 1974, p. 153, par. 11.
Corte giust., 23 maggio 1996, C-237/94, O’Flynn, in Raccolta, 1996, I, p. 2617, par. 18. An-
cora dalla sentenza O’Flynn, par. 19, si ricava l’enunciato del principio in parola, Leit motiv
della giurisprudenza della Corte in materia di «limiti» alle regole del trattato.
150

ostative consentendo però, a tutela dei diritti del lavoratore europeo, che il
provvedimento possa essere impugnato dai soggetti che ne subiscono gli ef-
fetti davanti ai giudici dello Stato membro fino ad arrivare alla Corte di giu-
stizia.
Il vero è che, il divieto di discriminazione in base alla nazionalità, si so-
stanzia nell’inapplicabilità delle disposizioni legislative o delle pratiche
amministrative interne a ciascuno Stato, che comportino discriminazioni di-
rette o indirette nei confronti dei cittadini di un altro Stato.
Si ha quindi la nullità sia delle clausole discriminatorie derivanti da con-
tratti collettivi individuali o delle altre regolamentazioni collettive concer-
nenti l’accesso all’impiego, sia dell’atto amministrativo con il quale detta
decisione viene assunta, ciò in ossequio al principio dell’efficacia orizzonta-
le e verticale dell’art. 39 TCE, che è quello accolto in prevalenza dalla Corte
di giustizia come sopra richiamato. In Italia, può configurarsi come vinco-
lante solo quella parte delle regolamentazioni collettive relative ai minimi di
retribuzione del contratto, in virtù della nota interpretazione giurisprudenzia-
le basata sulla «precettività» dell’art. 36 Cost., letto congiuntamente all’art.
2099, comma 2, c.c., che permette di considerare «di fatto» vincolate all’ob-
bligo retributivo, tutte le imprese del settore cui il contratto si riferisce 10.
In realtà, come si diceva all’inizio, anche il diritto di circolazione deve
essere coniugato con le libertà economiche che i trattati hanno posto a base
del mercato comune fermo restando un profilo di sostanziale diversità tra la
libertà di circolazione e le altre libertà economiche previste dall’Unione: «…
natura che l’ha resa sin dall’origine il principale canale di evoluzione della
dimensione sociale europea e poi l’ha trasformata in un vettore del processo
di emersione della cittadinanza dell’Unione» 11.

10
S. GIUBBONI-G. ORLANDINI, op. cit., p. 89. «I margini di discrezionalità degli Stati
membri possono risultare ulteriormente ridotti se si accoglie la lettura che delle disposizioni
in parola viene fatta dalla Commissione, per la quale gli Stati che intendano avvalersi di
una delle due tipologie di contratti collettivi privi di efficacia erga omnes indicate dalla di-
rettiva, devono farne esplicita menzione nella legge con la quale questa è recepita. Per tale
ragione la stessa Commissione conclude che, dal momento che nessuno Stato interessato è
stato esplicito sul punto, si deve ritenere che nei sistemi privi di contratto collettivo erga
omnes ai lavoratori distaccati “si applicano solo le condizioni di lavoro e di occupazione
definite dalle disposizioni legislative”».
11
S. GIUBBONI-G. ORLANDINI, op. cit., p. 32. Si osservi come la Corte di giustizia ha
sempre qualificato la libertà di circolazione dei lavoratori come diritto fondamentale, fin da-
gli anni ’80, come emerge nella causa C-152/82 Forcheri ove ai punti 10 e 11 si legge:
«L’art. 48 del Trattato stabilisce che la libera circolazione dei lavoratori è garantita nel-
l’ambito della Comunità al più tardi alla scadenza del periodo transitorio. Essa implica
l’abolizione di qualsiasi discriminazione, fondata sulla cittadinanza, fra i lavoratori degli
151

È noto come la libertà di circolazione delle persone, fin dal Trattato di


Roma, mira a tutelare quei soggetti «economicamente attivi» che si muovo-
no per svolgere attività produttrici di reddito, sia derivante da lavoro auto-
nomo, sia derivante da attività libero professionale.

1.1. L’INTERESSE PUBBLICO E LE DEROGHE AL DIRITTO DI CIRCOLAZIONE


Il diritto di circolazione del lavoratore (all’inizio riferito solo a quello au-
tosufficiente) è la normativa derivata che ha dato concretezza al processo d’in-
tegrazione della libertà in questione: si veda il Regolamento n. 1612/1968 12, a
cui si affianca la Direttiva 68/360/CEE 13, che costituisce la fonte derivata
nella quale trova formale specificazione (nel quadro del diritto di circolazio-
ne delle persone) il diritto di circolazione riferito al lavoratore all’interno del
territorio dell’Unione.
Nelle direttive emanate negli anni novanta, è emersa la volontà di attri-
buire il diritto di circolazione e/o di soggiorno anche ai soggetti «non attivi
economicamente» 14, subordinando però tale diritto a una rigorosa prova di

Stati membri, per quanto riguarda l’impiego, la retribuzione e le altre condizioni di lavoro.
Tanto dalla prassi legislativa della Comunità, quanto dalla costante giurisprudenza della
Corte si desume che il diritto di libera circolazione non deve essere inteso in senso stretto.
Come è detto nella motivazione del regolamento del Consiglio n. 1612/68, esso costituisce
per i lavoratori e per la loro famiglia un diritto fondamentale, giacché la mobilità della ma-
nodopera nella Comunità deve costituire per il lavoratore uno dei mezzi che gli garantisco-
no la possibilità di migliorare le proprie condizioni di vita e di lavoro e di facilitare il pro-
prio avanzamento sociale».
12
È nel 1968 che termina la fase del processo d’integrazione comunitaria ancora carat-
terizzata dal potere statuale di porre limiti all’accesso del mercato nazionale: il Regolamento
n. 1612 /1968, cui si affianca la Direttiva 68/360/CEE, ha costituito la fonte derivata sulla
quale basare le specificazioni dei diritti del lavoratore che si muove all’interno dell’Unione.
Sul punto si veda S. GIUBBONI-G. ORLANDINI, op. cit., p. 13. Com’è stato osservato, grazie
all’opera della Corte di giustizia, si sono progressivamente estesi i diritti del lavoratore, un
processo che si è arrestato alle «colonne d’Ercole» della prestazione di un collegamento tra
chi tale libertà esercita e il mercato del lavoro e dello Stato ospitante.
13
Direttiva 68/360/CEE, relativa alla soppressione delle restrizioni al trasferimento e al
soggiorno dei lavoratori degli Stati membri e delle loro famiglie all’interno della Comunità,
oggi abrogata dalla direttiva 2004/38/CE, che ha «assorbito» anche la direttiva 64/221/CEE
per il coordinamento dei provvedimenti speciali riguardanti il trasferimento e il soggiorno
degli stranieri, giustificati da motivi di ordine pubblico, di pubblica sicurezza e di sanità
pubblica. Il regolamento n. 1251/1970 relativo al diritto dei lavoratori di rimanere sul territo-
rio di uno Stato membro dopo aver occupato un impiego, anch’esso «superato» dal testo del-
la direttiva del 2004, è stato abrogato dal regolamento n. 365/2006.
14
Direttiva 90/366/CEE, relativa al diritto di soggiorno degli studenti, poi sostituita dalla
Direttiva 93/96; Direttiva 90/365/CEE, relativa al diritto di soggiorno dei lavoratori salariati
152

mezzi consistente nell’obbligo di essere autosufficienti e titolari di copertura


assicurativa; ciò al fine di evitare che «persone non attive» finiscano per
gravare sul sistema sociale dello Stato ospitante. Tale principio, tuttavia, è
stato messo in discussione dalle sentenze della Corte di giustizia, sulla base
della circostanza che si è imposta da tempo la nozione di «cittadinanza eu-
ropea» la quale ha implicato il riconoscimento del diritto di ogni cittadino
dell’Unione «di circolare e di soggiornare liberamente nel territorio degli
Stati membri». Ciò ha comportato sul piano esecutivo quello d’imporre agli
Stati di giustificare ogni misura discriminatoria o capace di ostacolare co-
munque la circolazione dei cittadini, indipendentemente dal loro status pro-
fessionale. A ben vedere, non ne deriva un «diritto incondizionato di sog-
giorno e di parità di trattamento» come da una prima interpretazione bensì
un diritto condizionato all’insussistenza di opposti interessi dello Stato, che
ne giustifichino il disconoscimento alla luce del consolidato principio di
proporzionalità. Tutto ciò ha portato che l’applicazione di tale principio di-
pende dal «livello di tutela riconosciuto al cittadino migrante, finisce per di-
ventare proporzionale al grado di integrazione raggiunto dallo stesso nello
Stato ospitante, e per dipendere, in sostanza dalla durata del soggiorno le-
gittimo» 15.
Con la Direttiva 2004/38/CE, sono emersi segnali ben precisi nel ricono-
scimento del diritto ai cittadini dell’Unione alla circolazione nel territorio
europeo: l’elemento più rilevante nella ricostruzione della tematica in esame
è che si viene progressivamente ad abbandonare l’approccio settoriale segui-
to fino a quel momento per disciplinare in via generale l’ingresso e il sog-
giorno negli Stati membri (sia pure diversificato per status economico) ve-
nendo ad elaborarsi un unico testo normativo, la cui base giuridica è rinve-
nibile negli artt. 12, 18, 40, 44 e 52 del Trattato che istituisce la Comunità
europea 16. Così, il divieto d’ingresso in uno Stato membro o l’espulsione
dallo stesso, rappresentano le forme più gravi di restrizione di libertà di cir-
colazione: ecco perché tali misure possono legittimamente essere assunte
dallo Stato membro e dall’amministrazione dello stesso, a condizione però

e non salariati che hanno cessato la propria attività professionale; Direttiva 90/364/CEE rela-
tiva al diritto di soggiorno dei cittadini degli Stati membri che non ne beneficiano in virtù di
altre disposizioni del diritto comunitario. Anche queste direttive sono state abrogate dalla
Direttiva 2004/38/CE.
15
S. GIUBBONI-G. ORLANDINI, op. cit., p. 68.
16
Si osservi come l’Italia solo nel 2007 con D.L. 6 febbraio 2007, n. 30, ha recepito la
Direttiva 2004/38/CE, relativa ai diritti dei cittadini dell’Unione e dei loro familiari di circo-
lare e soggiornare liberamente nel territorio degli Stati membri. Pubblicato in G.U. il 27
marzo 2007.
153

che emergano quei motivi tassativamente previsti dalla legge che trovano la
propria disciplina derivata nel capo VI, Direttiva 2004/38/CE. Ma c’è di più,
l’intera direttiva, a ben vedere, contiene profili amministrativi diretti agli
Stati membri di estremo rilievo: così, ad esempio, tutte le disposizioni volte
a garantire il diritto di uscita e d’ingresso in uno Stato sono subordinate al-
l’espletamento di specifiche formalità amministrative, indicate nell’art. 8
della direttiva in questione. Si osservi tuttavia che nella direttiva la defini-
zione della «cittadinanza europea» quale «status fondamentale» non ha im-
pedito di mantenere significativi limiti alla libertà di circolazione, primo fra
tutti quello della «autosufficienza economica», confermato anche nella Di-
rettiva 2004/38/CE, sia pure in modo più sfumato rispetto ai precedenti atti
derivati. Ciò comporta che si vincoli lo Stato membro all’adozione di atti
amministrativi che motivino in modo oggettivo e puntuale le eccezioni alla
regola generale della libertà di circolazione, atto suscettibile di giustiziabilità
a tutela del diritto in esame, come specificamente indicato nell’art. 31, Diret-
tiva 2004/38/CE 17. Si prevede infatti che l’interessato possa accedere ai
mezzi d’impugnazione giurisdizionale e, all’occorrenza, amministrativi del-
lo Stato membro ospitante o con ricorso o con richiesta di revisione preve-
dendosi anche la possibilità di richiesta di ordinanza provvisoria di sospen-
sione del provvedimento negativo.
Fermo restando che i mezzi d’impugnazione sono volti alla verifica della
legittimità del provvedimento, in essi possono altresì essere sollevati vizi
inerenti all’eventuale violazione del principio di proporzionalità, così come
previsti nell’art. 28.

17
Direttiva 2004/38/CE, art. 31, Garanzie procedurali «1. L’interessato può accedere ai
mezzi di impugnazione giurisdizionali e, all’occorrenza, amministrativi nello Stato membro
ospitante, al fine di presentare ricorso o chiedere la revisione di ogni provvedimento adotta-
to nei suoi confronti per motivi di ordine pubblico, pubblica sicurezza o sanità pubblica. 2.
Laddove l’impugnazione o la richiesta di revisione del provvedimento di allontanamento sia
accompagnata da una richiesta di ordinanza provvisoria di sospensione dell’esecuzione di
detto provvedimento, l’effettivo allontanamento dal territorio non può avere luogo fintanto-
ché non è stata adottata una decisione sull’ordinanza provvisoria, salvo qualora: – il prov-
vedimento di allontanamento si basi su una precedente decisione giudiziale, o – le persone
interessate abbiano precedentemente fruito di una revisione, o – il provvedimento sia fonda-
to su motivi imperativi di pubblica sicurezza di cui all’art. 28, paragrafo 3. 3. I mezzi di im-
pugnazione comprendono l’esame della legittimità del provvedimento nonché dei fatti e del-
le circostanze che ne giustificano l’adozione. Essi garantiscono che il provvedimento non sia
sproporzionato, in particolare rispetto ai requisiti posti dall’articolo 28. 4. Gli Stati membri
possono vietare la presenza dell’interessato nel loro territorio per tutta la durata della pro-
cedura di ricorso, ma non possono vietare che presenti di persona la sua difesa, tranne qua-
lora la sua presenza possa provocare gravi turbative dell’ordine pubblico o della pubblica
sicurezza o quando il ricorso o la revisione riguardano il divieto d’ingresso nel territorio.
154

L’impostazione di base è ribadita dall’art. 39 TCE, il quale, da un lato ri-


presenta il diritto alla libera circolazione dei lavoratori nell’ambito del-
l’Unione ma ribadisce che tale diritto può trovare limitazione solo per ragio-
ni espressamente previste dal trattato. A tale impostazione hanno tuttavia
fatto seguito numerosi interventi europei, basti in questa sede ricordare il
Regolamento n. 492/2011 del 5 aprile 2011, il quale nel considerando 2 pre-
vede che «La libera circolazione dei lavoratori all’interno dell’Unione deve
essere realizzata. Il conseguimento di tale obiettivo implica l’abolizione, fra
i lavoratori degli Stati membri, di qualsiasi discriminazione fondata sulla
nazionalità per quanto riguarda l’impiego, la retribuzione e le altre condi-
zioni di lavoro, nonché il diritto di detti lavoratori di spostarsi liberamente
all’interno dell’Unione per esercitare un’attività subordinata, fatte salve le
limitazioni giustificate da motivi di ordine pubblico, di pubblica sicurezza e
di sanità pubblica». Pertanto, alla libera circolazione dei lavoratori all’in-
terno dell’Unione si connette il diritto di ogni cittadino europeo qualunque
sia il luogo di residenza, di accedere a un’attività subordinata; nell’art. 3 si
sottolineano le incompatibilità con il regolamento del 2011 non solo delle
leggi e dei regolamenti degli Stati membri ma anche di quelle pratiche am-
ministrative che portino a limitare o subordinare l’accesso all’impiego di cit-
tadini stranieri.
Sotto questo profilo, sia pure con sfumature diverse, nel nuovo regola-
mento viene ripreso il principio di divieto di discriminazione nei confronti
dei cittadini di uno Stato membro, così come viene ribadito che non sarebbe
legittimo un trattamento dei cittadini stranieri diverso dai lavoratori naziona-
li «per quanto concerne le condizioni di impiego e di lavoro in particolare
in materia di retribuzione, licenziamento, reintegrazione professionale o ri-
collocamento se disoccupato» 18.
Un limite specifico parrebbe invece derivare, per l’accesso al pubblico
impiego in Italia, in riferimento agli artt. 4 e 51 della Costituzione, per i cit-

18
Regolamento n. 492/2011 del 5 aprile 2011: art. 7, Esercizio dell’impiego e parità di
trattamento: «1. Il lavoratore cittadino di uno Stato membro non può ricevere sul territorio
degli altri Stati membri, a motivo della propria cittadinanza, un trattamento diverso da quel-
lo dei lavoratori nazionali per quanto concerne le condizioni di impiego e di lavoro, in par-
ticolare in materia di retribuzione, licenziamento, reintegrazione professionale o ricolloca-
mento se disoccupato. 2. Egli gode degli stessi vantaggi sociali e fiscali dei lavoratori na-
zionali. 3. Egli fruisce altresì, allo stesso titolo ed alle stesse condizioni dei lavoratori na-
zionali, dell’insegnamento delle scuole professionali e dei centri di riadattamento o di rie-
ducazione. 4. Tutte le clausole di contratti collettivi o individuali o di altre regolamentazioni
collettive concernenti l’accesso all’impiego, l’impiego, la retribuzione e le altre condizioni
di lavoro e di licenziamento, sono nulle di diritto nella misura in cui prevedano o autorizzino
condizioni discriminatorie nei confronti dei lavoratori cittadini degli altri Stati membri».
155

tadini comunitari. Detta precisazione deriva dalla stessa Corte di giustizia


europea 19, nel senso che l’esclusione all’accesso al pubblico impiego, deve
considerarsi vigente nel caso di partecipazione dell’impiegato all’esercizio
di pubblici poteri o di mansioni che abbiano a oggetto la tutela degli inte-
ressi generali dello Stato. Conforme a tale previsione è l’art. 38, D.Lgs. n.
165/2001 – che riprende l’art. 37 del D.Lgs. n. 26/1993 – così come modifi-
cato dall’art. 24 del D.Lgs. n. 80/1998, il quale rinvia al D.P.C.M. n.
174/1984, per l’individuazione dei posti e delle funzioni per i quali non può
prescindersi dal possesso della cittadinanza italiana 20. Sono quindi escluse
dall’applicazione della libertà fondamentale in parola le attività che parteci-
pino, anche solo occasionalmente, all’esercizio dei pubblici poteri (art. 51
TFUE): pare evidente che l’attività sia esclusa dall’applicazione delle regole
del trattato nel caso in cui essa implichi l’esercizio del potere pubblico con-
nesso alla sovranità dello Stato, tuttavia prevale un’interpretazione di carat-
tere restrittivo, talché se un’attività è considerata meramente preparatoria o
collaterale, quant’anche connessa all’esercizio di una funzione pubblica, non
scatta per essa il divieto previsto dal trattato, stante la distinzione proposta e
condivisibile adottata dalla prevalente interpretazione formatasi sul punto
dalla Corte di giustizia 21.

19
L. PRUDENZANO, Sulla nazionalità della funzione pubblica e la libera circolazione dei
lavoratori, in Riv. it. dir. pubbl. comunit., nn. 3-4/2015, p. 977. L’A. richiama le tappe prin-
cipali che hanno portato alla privatizzazione del pubblico impiego, prima di tutto bisogna
ricordare il parere reso dal Consiglio di Stato nel 1990 che, per la prima volta, ha fatto pro-
prio l’orientamento della Corte di giustizia, ammettendo il cittadino europeo nel settore pub-
blico ad eccezione degli impieghi che implicano la partecipazione all’esercizio di pubblici
poteri. Subisce l’influenza della giurisprudenza comunitaria, anche l’art. 37 del D.Lgs. n.
29/1993, il quale, prevedendo l’accesso ai pubblici uffici dei cittadini membri dell’Unione,
rinvia al decreto del Consiglio dei Ministri, l’individuazione dei posti esclusi da tale accesso.
Di seguito il D.P.C.M. n. 174/1994, ha elaborato un’elencazione ritenuta tassativa, per i qua-
li è richiesto imprescindibilmente il possesso della cittadinanza italiana. Da ultimo il D.Lgs.
n. 165/2001, ha previsto che i cittadini degli Stati membri dell’Unione, possano accedere al
pubblico impiego nei posti che non implichino esercizio diretto o indiretto di pubblici poteri.
Rileva l’A. «… così facendo il legislatore ha pertanto recepito i presupposti individuati dal-
la Corte di Lussemburgo, aggiungendone uno (l’attinenza alla tutela dell’interesse nazionale)
e tralasciandone un altro (quello della non marginalità all’esercizio dei pubblici poteri)».
20
D.P.C.M. 7 febbraio 1994, n. 174: «Regolamento recante norme sull’accesso dei citta-
dini degli Stati membri dell’Unione europea ai posti di lavoro presso le amministrazioni
pubbliche», pubblicato in G.U. il 15 marzo 1994, n. 61, data inserimento testo di legge: lu-
glio 1996.
21
Corte giust., 30 giugno 2006, C-451/03, Servizi Ausiliari Dottori Commercialisti Srl:
sentenza ove la Corte chiarisce che talune attività di consulenza e assistenza fiscale non co-
stituiscono partecipazione diretta e specifica all’esercizio di pubblici poteri e che, di conse-
156

In via generale, la più recente dottrina riconosce che per espressa disposi-
zione dell’art. 10, comma 2, Cost., la condizione giuridica dello straniero è
rimessa al legislatore ordinario ovviamente in conformità alle norme conte-
nute nei trattati internazionali 22. Proprio sul tema in esame, merita il richia-
mo ad una famosa sentenza della Cassazione, ove si legge che «… Nell’or-
dinamento giuridico nazionale, solo in tempi relativamente recenti ha trova-

guenza, non rientrano nella deroga di cui all’art. 51 TFUE. Estratto dalla sentenza: «45 […]
gli articoli del TFUE, ponendo una deroga alla regola fondamentale della libertà di stabili-
mento (e alla libera prestazione di servizi, ndr), sono soggetti a un’interpretazione che limita
la loro portata a quanto è strettamente necessario per tutelare gli interessi che le stesse
norme permettono agli Stati membri di proteggere. 46. Pertanto, secondo una giurispruden-
za costante, la deroga prevista da questi articoli va limitata alle attività che, considerate di
per sé, costituiscono una partecipazione diretta e specifica all’esercizio di pubblici poteri.
47. Occorre constatare che il controllo della conformità dei dati esposti nella dichiarazione
alla documentazione allegata, anche se in realtà raramente viene in discussione dall’ammi-
nistrazione finanziaria, non costituisce una partecipazione diretta e specifica all’esercizio di
pubblici poteri, ma una misura destinata a preparare o a facilitare lo svolgimento dei com-
piti che spettano all’amministrazione finanziaria. 49. Occorre quindi constatare che le atti-
vità riservate […]. non rientrano nella deroga di cui agli artt. 51 e 62 TFUE. 50. Gli artt.
del TFUE devono essere interpretati nel senso che si oppongono ad una normativa naziona-
le, quale quella di cui trattasi nella causa principale, che riserva esclusivamente a determi-
nati soggetti (ndr) il diritto di esercitare talune attività di consulenza e di assistenza in mate-
ria fiscale».
22
Cass., Sez. lav., sentenza 19 ottobre-13 novembre 2006, n. 24170: «1. In estrema sin-
tesi, il ricorrente sostiene che la legge 482/68 (poi sostituita dalla legge 68/1999) non con-
diziona la tutela dei disabili, ai fini dell’avviamento al lavoro, al possesso della cittadinanza
e la giurisprudenza costituzionale (Corte costituzionale 454/98) ha sancito che il lavoratore
straniero è equiparato a quello italiano (primo motivo); che le norme della Costituzione (ar-
ticoli 2, 10, 38 e 51), nel garantire i diritti fondamentali e il rispetto degli impegni interna-
zionali dello Stato, impongono di interpretare la legislazione ordinaria nel senso che lo
straniero può essere escluso dall’accesso soltanto in relazione a particolari impieghi pub-
blici e con l’intermediazione del legislatore (secondo motivo); che, se sono ammissibili de-
roghe all’articolo 51 Costituzione (introdotte dalla legge 189/02, in tema di assunzione di
cittadini extracomunitari come infermieri professionali nel servizio sanitario nazionale), non
appare giustificata l’interpretazione restrittiva dell’articolo 41 Tu 286/98 e della convenzio-
ne Oil 143/75 (terzo motivo); che il provvedimento impugnato ha violato gli articoli 2, 41 e
44 D.Lgs. 286/98, siccome il principio di parità dei lavoratori e la repressione di qualsiasi
comportamento discriminatorio hanno determinato l’abrogazione implicita delle disposizio-
ni (Dpr 487/1994) che escludono lo straniero extracomunitario dall’accesso al lavoro pub-
blico (quarto motivo). 2. I quattro motivi di ricorso contengono altrettante argomentazioni
svolte a sostegno della tesi (invia logica, pregiudiziale ed assorbente) che il requisito della
cittadinanza italiana per gli impiegati pubblici deve ritenersi abrogato, fatta eccezione per
gli impieghi costituiti per lo svolgimento di funzioni pubbliche essenziali, nonché della tesi
(subordinata) che il requisito in questione non opera nella materia della speciale tutela ga-
rantita ai disabili. Vanno perciò esaminati unitariamente, seguendo l’indicato ordine logico
degli argomenti …».
157

to regolamentazione il fenomeno dell’immigrazione extracomunitaria. A


questa regolamentazione il legislatore è pervenuto innanzi tutto recependo
principi e regole provenienti dalle fonti sovranazionali (dato che lo Stato
italiano ha recepito nella pratica tutte le norme internazionali in materia di
diritti dell’uomo), in modo da offrire al cittadino straniero non comunitario
una protezione da alcuni ritenuta maggiore di quella offerta dalla stessa
Costituzione ... L’articolo 2 del D.Lgs. 286/98 recepisce il contenuto del ci-
tato articolo 1 della legge 943/86 e garantisce allo straniero comunque pre-
sente sul territorio nazionale (quindi anche a coloro che siano giunti clan-
destinamente) il godimento dei diritti fondamentali della persona previsti
dal diritto interno, dalle convenzioni internazionali e dai principi interna-
zionali; coloro che soggiornano regolarmente godono inoltre: a) dei diritti
in materia civile attribuiti al cittadino italiano capacità giuridica, diritto al
nome, diritto di proprietà, ecc., b) della parità di trattamento e della piena
eguaglianza di diritti rispetto ai lavoratori italiani, in attuazione della Con-
venzione Oil 143 (terzo comma); c) del diritto alla partecipazione alla vita
pubblica (quarto comma); d) della parità di trattamento con il cittadino per
la tutela giurisdizionale dei diritti e degli interessi legittimi, nei rapporti con
la Pa e nell’accesso ai pubblici servizi, nei limiti fissati dalle leggi ordinarie
(comma 5)».
Rileva a tal proposito la Corte di Cassazione che «il Capo IV del D.Lgs.
286/98 (recependo gli articoli 41 e 42 della legge 40/1998), sotto la rubrica
“Disposizioni sull’integrazione sociale, sulle discriminazioni e istituzione
del fondo per le politiche migratorie”, dopo aver posto il principio di parità
di trattamento ai fini dell’assistenza sociale (articolo 41) e previsto misure
di integrazione sociale (articolo 42), all’articolo 43 introduce il concetto di
“discriminazione per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi”», per il
quale osserva la Corte, costituisce discriminazione ogni comportamento che,
direttamente o indirettamente, comporti una «distinzione, esclusione, restri-
zione o preferenza basata sulla razza, il colore, l’ascendenza o l’origine na-
zionale o etnica, le convinzioni e le pratiche religiose», o che abbiano
l’effetto di compromettere il riconoscimento, il godimento o l’esercizio, in
condizioni di parità, dei diritti umani e delle libertà fondamentali in campo
politico, economico, sociale e culturale e in ogni altro settore della vita pub-
blica. Si osservi come la Suprema Corte precisi, con molta chiarezza, che al-
cune condotte costituiscono ex se atti discriminatori quali ad esempio l’im-
porre condizioni lavorative più svantaggiose o il rifiuto immotivato all’occu-
pazione, all’alloggio, all’istruzione, alla formazione e ai servizi sociali e so-
cio-assistenziali allo straniero regolarmente soggiornante in Italia, soltanto
in ragione della sua condizione di straniero; in tali situazioni il comporta-
158

mento è sindacabile oggettivamente e, qualora venga posto in essere a tutela


dello straniero si apre la possibilità di ricorrere al giudice avviando un’azio-
ne civile avverso le discriminazioni di cui sopra. Nella sentenza della Cassa-
zione, che ad avviso di chi scrive rappresenta con chiarezza le linee portanti
del tema in oggetto, sulla base della premessa che «… l’accesso al lavoro
dei lavoratori extracomunitari trova la sua essenziale disciplina nella legge
943/86, la quale ha creato particolari strutture amministrative per il collo-
camento (articolo 3), nonché nella legge 40/1998 e nel Tu di cui al D.Lgs.
286/98. La legge 943, ha delimitato il suo campo di applicazione al caratte-
re subordinato del rapporto e alla sua natura privata». Nel quadro della
normativa sopra richiamata occorre far riferimento all’art. 14, comma 4, il
quale stabilisce che «… rimangono ferme le disposizioni che prevedono il
possesso della cittadinanza italiana per lo svolgimento di determinate attivi-
tà», ovvero quelle implicanti un’attività che partecipano, come si diceva, ai
pubblici poteri.
Rileva altresì la Suprema Corte che, in base al D.L. 25 luglio 1998, n.
286 23, è prevista la liberalizzazione dell’accesso al lavoro autonomo, a con-
dizione che l’esercizio di tali attività non sia riservata dalla legge ai cittadini
italiani o a cittadini di uno degli Stati membri dell’Unione ovvero ai cittadini
europei. A ciò si aggiunga che l’art. 37 T.U. consente l’iscrizione agli Ordini
o Collegi professionali o negli elenchi speciali agli stranieri regolarmente
soggiornanti in Italia in possesso dei titoli riconosciuti, a proposito della cui
disposizione la Cassazione sottolinea esplicitamente che ciò debba avvenire
in deroga al requisito della cittadinanza. Tuttavia, dalla ricostruzione operata
dalla Suprema Corte, l’art. 37 rinvia per la sua applicazione ad un regola-
mento d’attuazione che disciplini le modalità per il rilascio delle autorizza-
zioni al lavoro, dei visti d’ingresso e dei permessi di soggiorno per lavoro
subordinato nonché, per talune categorie di lavoratori stranieri specificamen-
te individuate, quali ad esempio i lettori universitari di madre lingua, che
possono essere assunti a contratto, prescindendo dal requisito della cittadi-
nanza 24.

23
Testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sul-
la condizione dello straniero, pubblicato in G.U. 18 agosto 1998, n. 191, suppl. ord. n. 139.
24
Dalla sentenza in esame si legge che «… nell’ambito dello stesso sistema normativo si
iscrivono le disposizioni del citato D.Lgs. 286/98, come integrate dalla legge 189/02, il cui
articolo 22, lettera r bis), ha aggiunto alle tipologie di lavoratori già previste la categoria
degli infermieri professionali, da assumersi con contratto di lavoro subordinato presso
strutture I sanitarie pubbliche e private. Da ciò risulta che i medesimi, se autorizzati all’e-
sercizio della professione in Italia, possono essere assunti senza limitazioni da i datori di
lavoro privati con contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato; presso le strutture
159

La conclusione cui perviene la Suprema Corte, attiene al fatto che «… il


diritto al lavoro, partecipando della natura dei diritti fondamentali, deve es-
sere goduto in eguale misura dal cittadino italiano o comunitario e da quel-
lo straniero, giacché il principio di parità e quello di non discriminazione è
idoneo a superare la regolamentazione specifica del diritto in questione nel-
la parte in cui è ostativa all’accesso dei lavoratori stranieri al rapporto di
lavoro pubblico» 25. Il vero è che, la materia dell’accesso al lavoro si colloca
nel quadro di regole di convivenza fra immigrati e cittadini, ovvero in quel
complesso di norme che afferiscono al godimento dei diritti fondamentali,
l’accesso al mercato del lavoro e ai servizi sociali, ai rapporti personali. Tut-
tavia, non si può non tener conto che in questo ambito il diritto al lavoro,
sancito dall’art. 4 della Costituzione, è un diritto soggettivo che comprende
tanto la facoltà di scelta dell’attività professionale quanto l’accesso al lavo-
ro. Tuttavia «… il diritto al lavoro garantito dall’articolo 4 Costituzione co-
stituisce garanzia che la legislazione ordinaria, in modo non arbitrario e ri-
spettoso dei valori costituzionali, ha il potere di precisare richiedendo per
talune attività lavorative particolari condizioni e requisiti (cfr., tra le nume-
rose, Corte costituzionale 441/00) … Ed in effetti, il lavoro pubblico subor-
dinato, anche quello reso “contrattuale” dalla riforma attuata dalle norme
ora raccolte nel D.Lgs. 165/01 ... costituisce una species del lavoro subor-
dinato, contrassegnato da elementi di peculiarità di cui i principi sono posti
dagli articoli 97 e 98 Costituzione e sono la necessità del concorso pubblico
(salvo le deroghe previste dalla legge) ed il principio secondo cui gli impie-
gati sono al servizio esclusivo della Nazione». Infine non si può non richia-
mare il fatto di dover tener presente anche il disposto contenuto nell’art. 51
Cost., in base al quale tutti i cittadini possono accedere agli uffici pubblici e
alle cariche elettive in condizioni di uguaglianza, secondo i requisiti stabiliti

pubbliche, invece, l’assunzione è consentita solo se con rapporto di lavoro a tempo determi-
nato, fuori, quindi, dell’organico dell’amministrazione datrice di lavoro. Ne discende che la
norma, in disparte la questione (irrilevante nella controversia) della sua conformità all’ar-
ticolo 51 Costituzione, introduce una deroga circoscritta e limitata alla regola della cittadi-
nanza italiana comunitaria per l’assunzione alle dipendenze delle Pa. Non può servire, per-
tanto, a sorreggere la tesi dell’esistenza di un principio generale di ammissione dello stra-
niero non comunitario al lavoro pubblico».
25
La ricognizione dei dati normativi, secondo la sentenza in esame, conduce alla vigenza
nell’ordinamento dell’art. 2 del D.P.R. n. 487/1994, norma regolamentare che, come osser-
vato sopra, risulta ormai “legificata” dal menzionato art. 70 del D.Lgs. n. 165/2001, toglien-
do qualsiasi fondamento alla tesi secondo cui sarebbe stata abrogata per incompatibilità dal-
l’art. 2 del D.Lgs. n. 286/1998.
160

dalla legge 26. Osserva la Corte che «… anche ad accettare … una lettura ri-
duttiva, sono le altre norme costituzionali sopra richiamate ad offrire suffi-
ciente copertura alla disciplina ordinaria preclusiva dell’accesso al lavoro
pubblico dei cittadini extracomunitari nell’ambito di una scelta che qualifi-
ca speciale il lavoro pubblico e lo assoggetta a regolamentazione particola-
re … Deve altresì confutarsi la tesi secondo cui la norma sulla cittadinanza,
vigente formalmente, sarebbe contrastante con un principio generale ormai
acquisito dall’ordinamento nella parte in cui accorda la tutela antidiscrimi-
natoria. Sul terreno del diritto sostanziale, la discriminazione è comporta-
mento illecito, non configurabile, ovviamente, se tenuto in esecuzione di di-
sposizioni normative; su quello della tutela, è evidente che deve trattarsi del
necessario riflesso della protezione accordata dal diritto sostanziale, – il
quale – è nel senso della permanente vigenza della norma che prevede il re-
quisito della cittadinanza italiana, disposizione che regola una materia spe-
cifica, qual è l’accesso al lavoro alle dipendenze della Pa, non potendo,
quindi, operare il canone ermeneutico dell’incompatibilità con la disciplina
sui lavoratori immigrati …».
La Corte conclude rilevando che «… in materia di rapporti con la Pa,
viene riconosciuta la parità di tutti gli aspiranti lavoratori non in termini
assoluti e totali ma “nei limiti e nei modi previsti dalla legge” 27 ... Inoltre,
nell’articolo 7 della Convenzione dei diritti dell’uomo (resa esecutiva con
legge 881/77), non si rinviene … alcun precetto che includa tra i diritti fon-
damentali la parità di trattamento di cittadini e stranieri in materia di requisi-
ti di accesso ai pubblici impieghi. Piuttosto, la norma si limita a precludere
discriminazioni tra lavoratori già assunti e non già tra concorrenti» 28.

26
Come rileva la Corte di Cassazione, a cui ci si spira, l’intento dei costituenti fu quello
di «garantire che i fini pubblici fossero perseguiti e tutelati nel migliore dei modi, e di pun-
tare per questo sui cittadini, nei quali si riteneva esistente una «naturale compenetrazione
dei fini personali in quelli pubblici; nondimeno, la formulazione della norma sembra offrire,
spunti per una lettura restrittiva del riferimento agli “uffici pubblici”, limitata cioè all’eser-
cizio di attività autoritative».
27
Corte cost. n. 120/1967 e n. 241/1974; vedi anche, in tema di diritti fondamentali che
vanno riconosciuti indipendentemente dalla cittadinanza, Corte cost. n. 432/2005.
28
«Quanto alla legge 158/81 – Ratifica ed esecuzione delle convenzioni numeri 92, 133
e 143 dell’Organizzazione internazionale del lavoro nella parte in cui impegna a garantire
allo straniero emigrante un trattamento identico a quello dei cittadini nazionali», la giuri-
sprudenza antecedente alla sentenza in esame aveva già precisato che per dare concreta at-
tuazione alle disposizioni della convenzione, non bastava l’ordine di esecuzione impartito
dalla legge di ratifica, essendo necessaria l’emanazione di specifiche norme da parte dello
Stato membro, ovvero l’intervento della della contrattazione collettiva (Cass. n. 1062/1999).
Pertanto, ogni Stato membro per il quale la convenzione sia in vigore s’impegna a formulare
161

Rileva la Cassazione tuttavia che «… è consentito dubitare della confor-


mità ad essa della disciplina preclusiva dell’accesso al lavoro pubblico».
D’altro canto l’adeguamento automatico della legislazione nazionale, ai sen-
si dell’art. 10, comma 1, Cost., non si estende agli impegni derivanti dalle
fonti pattizie internazionali, che fanno parte del diritto nazionale in virtù di
una legge ordinaria (legge di ratifica), legge che non può costituire parame-
tro di legittimità costituzionale 29.

ed attuare una politica nazionale diretta a promuovere e garantire, con metodi idonei alle cir-
costanze ed agli usi nazionali, la parità di opportunità e di trattamento in materia di occupa-
zione e di professione, di sicurezza sociale, di diritti sindacali e culturali, nonché di libertà
individuali e collettive per le persone che si trovino legalmente su suo territorio.
29
Riprendendo l’ultima parte della sentenza precitata, si legge testualmente: «Va ora
esaminata la tesi secondo cui sarebbe la speciale tutela dei lavoratori disabili ad imporre
all’interprete di ritenere che, per il loro collocamento obbligatorio, l’assunzione alle dipen-
denze di Pa prescinde dal requisito della cittadinanza. La tesi è sostenuta principalmente
richiamando la sentenza costituzionale 454/98, che ha ritenuto non fondata la questione di
costituzionalità degli articoli 1 e 5 della legge 943/86, a proposito del collocamento dei la-
voratori extracomunitari immigrati, sollevata sotto il profilo dell’assenza di una norma che
affermi il diritto degli extracomunitari invalidi disoccupati ad ottenere l’iscrizione negli
elenchi degli aspiranti al collocamento obbligatorio. In ragione della equiparazione dispo-
sta dalla norma dell’articolo 2, D.Lgs. 286/98, argomenta la Corte, occorrerebbe, per rite-
nere esistente la denunziata omissione, “rinvenire una norma che esplicitamente o implici-
tamente neghi ai lavoratori extracomunitari, in deroga alla piena uguaglianza, il diritto in
questione”. 5.1. Con questa sentenza, in materia di principio di parità, la Corte costituzio-
nale ha ritenuto che parità e piena eguaglianza di diritti, come previste dall’articolo 2,
comma 2, del D.Lgs. 286/98, trovano immediata applicazione nell’ordinamento: non è ne-
cessaria una norma specifica che affermi il diritto del lavoratore extracomunitario a godere
di singoli diritti, in quanto la garanzia legislativa già di per sé equipara gli extracomunitari
ai cittadini nel godimento dei diritti stessi, “salvo che le convenzioni internazionali o lo
stesso Tu dispongano diversamente”. Giova ricordare che la stessa Corte costituzionale,
con la sentenza 249/95 ha affermato, sotto il vigore della legge 943, che, grazie al principio
di parità, si applicano al lavoratore extracomunitario anche i principi derivanti dalla legi-
slazione comunitaria, che, in quanto validi per il cittadino italiano, debbono essere necessa-
riamente altrettanto validi per l’extracomunitario. Analoga impostazione risulta seguita,
sempre in materia di ammissione al collocamento, da questa Corte (3345/1998), la quale ha
in proposito modificato un precedente contrario indirizzo (vedi Cassazione 6167/94). 5.2.
Ma tutto ciò non può giovare alla tesi del ricorrente alla stregua di tutte le considerazioni
già svolte nell’esame della tesi secondo cui non sarebbe più vigente il requisito della citta-
dinanza per l’accesso al lavoro subordinato pubblico. Va, in primo luogo precisato che la
speciale disciplina sul collocamento obbligatorio degli invalidi va ricondotta non all’assi-
stenza sociale (articolo 38, comma 1, Costituzione; articolo 41 d.lgs. 286/98), ma alle forme
di attuazione del diritto che “gli inabili e i minorati” hanno, a norma dell’articolo 38, terzo
comma, della Costituzione, all’avviamento professionale (cfr. Corte costituzionale 38/1960 e
n. 55 del 1961), diritto del quale gode anche lo straniero avente titolo ad accedere al lavoro
subordinato nel territorio dello Stato in condizioni di uguaglianza con i cittadini, non essen-
162

In definitiva, la Corte di Cassazione 30 dall’interpretazione sistematica


della disciplina oggi vigente perviene alla conclusione che il requisito della
nazionalità pur costituendo principio generale valido nel nostro ordinamento
consente ampi margini di eccezioni. L’art. 38 del D.Lgs. n. 162/2001, ha
eleminato molte restrizioni con riferimento ai cittadini comunitari: ciò sulla
base della considerazione che il cittadino comunitario gode di uno status
giuridico peculiare in applicazione all’allargamento del disposto costituzio-

dovi, sotto questo profilo, ragione di differenziarne il trattamento rispetto al cittadino italia-
no. Ora. spetta pur sempre al legislatore stabilire le condizioni di accesso a speciali forme
di lavoro subordinato o autonomo, esprimendo la stessa Costituzione il principio di non pa-
rificazione dello straniero con il cittadino e l’ordinamento, con il complesso di norme già
esaminate, mediante scelta conforme al dettato costituzionale, ha stabilito il requisito della
cittadinanza per l’accesso al lavoro pubblico. Non è, quindi, condivisibile la tesi che la legi-
slazione di sostegno dei lavoratori disabili non incontri la limitazione della disciplina parti-
colare della materia dell’impiego pubblico, costituzionalmente legittima anche nella parte in
cui non deroga al requisito della cittadinanza per le categorie protette. 5.3. Del resto, la
stessa sentenza costituzionale 454/98, avverte esplicitamente che il principi di parità può
essere derogato da convenzioni internazionali, da norme dello stesso Tu sull’immigrazione o
altre disposizioni speciali presenti nell’ordinamento giuridico nazionale, che disciplinino
particolari settori negando, esplicitamente o implicitamente, al cittadino extracomunitario,
in deroga alla “piena uguaglianza”, la possibilità di esercitare un diritto invece riconosciu-
to al cittadino italiano o comunitario. Giova anche richiamare la sentenza 120/67 della Cor-
te costituzionale, secondo cui il principio di uguaglianza di cui all’articolo 3 della Costitu-
zione va letto in connessione con l’articolo 2 e con l’articolo 10 comma 2 della Costituzione,
“il primo dei quali riconosce a tutti, cittadini e stranieri, i diritti inviolabili dell’uomo, men-
tre l’altro dispone che la condizione giuridica dello straniero è regolata dalla legge in con-
formità delle norme e dei trattati internazionali”. 6. Il ricorso va, dunque, rigettato in base
al seguente principio di diritto: “Il requisito del possesso della cittadinanza italiana, richie-
sto per accedere al lavoro alle dipendenze delle Pa dall’articolo 2 Dpr 487/94 norma ‘legi-
ficata’ dall’articolo 70, comma 13, D.Lgs. 165/01 – e dal quale si prescinde, in parte, solo
per gli stranieri comunitari, nonché per casi particolari (articolo 38 D.Lgs. 165/01; articolo
22 D.Lgs. 286/1998), si inserisce nel complesso delle disposizioni che regolano la materia
particolare dell’impiego pubblico, materia fatta salva dal D.Lgs. 286/98, che, in attuazione
della convenzione Oile 175/75, resa esecutiva con legge 158/81, sancisce, in generale, pari-
tà di trattamento e piena uguaglianza di diritti per i lavoratori extracomunitari rispetto ai
lavoratori italiani; né l’esclusione dello straniero non comunitario dall’accesso al lavoro
pubblico (al di fuori delle eccezioni espressamente previste dalla legge) è sospettabile di il-
legittimità costituzionale, atteso che si esula dall’area dei diritti fondamentali e che la scelta
del legislatore è giustificata dal1e stesse norme costituzionali (articolo 51, 97 e 98 Costitu-
zione)”».
30
Sempre a proposito della già richiamata sentenza della Cass. n. 24170/2006 si veda la
nota a sentenza di M. AGOSTINI, Il cittadino extra comunitario non può accedere all’impiego
pubblico, in Riv. it. dir. lav., 2007; P. PASSAGLIA, In tema di parità tra cittadini italiani e
stranieri nel diritto al lavoro, in Foro it., 2007, p. 62 ss.; R. FOGLIA, Sull’accesso degli ex-
tracomunitari agli impeghi pubblici, in Riv. sic. soc., 2008, p. 681 ss.
163

nale; pertanto qualora in un bando sia richiesto la cittadinanza italiana ai fini


dell’ammissione ad un concorso, anche i cittadini comunitari potrebbero e
dovrebbero poter partecipare ad esso, fermo restando che lo Stato può sempre
riservare taluni posti ai propri cittadini, nelle ipotesi sopra richiamate 31.
I giudici amministrativi, sulla base delle disposizioni del trattato hanno ri-
tenuto che, pur mancando un’apertura totale in tema di accesso al pubblico
impiego dei cittadini extra comunitari per tutte le figure professionali, hanno
considerato legittime numerose fattispecie, in virtù dell’interpretazione for-
nita dalla Corte di giustizia. Sotto questo profilo, le varie normative interve-
nute per chiamate di professori stranieri negli atenei italiani, sono indicative,
pur trovando come causa giustificatrice e legittimante il principio dell’auto-
nomia universitaria: ancora una volta trattasi di un’eccezione rispetto alla
regola generale.
Di recente la questione è stata oggetto di una vertenza intercorsa tra il
Ministero dei Beni culturali e i dirigenti italiani di taluni musei con ricorso
agli organi di giustizia amministrativa, in merito alla legittimità dell’affida-
mento della dirigenza di alcuni musei italiani a personale straniero; il vizio
rilevato da parte del giudice amministrativo nei confronti della P.A. (almeno
sotto questo profilo) è stato quello di non aver chiarito l’eccezione, ovvero
l’apertura del concorso anche a soggetti non italiani ma il giudice, nel meri-
to, non è intervenuto sulla sostanza dell’apertura a tali soggetti in quanto
mancanti della cittadinanza italiana 32. Si deve ipotizzare che in questi casi
l’organo giurisdizionale non ha intravisto nel lavoro subordinato quel profilo
politico o di attività politica che rappresenta l’elemento ostativo per l’ac-
cesso agli stranieri al pubblico impiego, pertanto, la tesi che appare sostan-
zialmente dominante, attiene al fatto che solo per alcuni settori del pubblico
impiego, particolarmente «delicati», vige una preclusione ai cittadini anche
comunitari, tuttavia, il varco che si sta aprendo verso le altre figure di pub-
blici impiegati, pare inesorabilmente ampliarsi. Ciò trova conferma nella

31
Corte cost., 15 aprile 2011, n. 139, in Giust. cost., 2011, p. 1797; si veda altresì in Riv.
it. dir. lav., 2011, p. 1184, con nota di A. ASTENGO, Extra comunitari e pubblico impiego: la
parla alla Corte costituzionale? La Corte costituzionale non ha inteso esprimersi sulla que-
stione dell’asserita incompatibilità della norma, di cui all’art. 38 del D.Lgs. n. 165/2011, vol-
ta ad impedire l’estensione ai cittadini extra comunitari l’accesso dei posti di lavoro nella
P.A., nonostante il principio di parità di trattamento di cui alla convenzione OIL n.
143/1975. La sentenza resa dalla Corte in sede di rinvio pregiudiziale, ha rilevato che, il giu-
dice a quo, non avendo sostenuto tale questione avanti alla Corte di giustizia, non consenti-
rebbe una decisione da parte della Corte costituzionale.
32
Si veda a tal proposito, la sentenza del TAR Lazio, sez. II-quater, sentenze 24 maggio
2017, n. 6171 e n. 6172.
164

Comunicazione della Commissione europea del 15 gennaio 2014, la quale


ha presentato cinque azioni concrete che, per riuscire, richiedono la collabo-
razione degli Stati membri. Si tratta di esempi concreti del modo in cui
l’Unione può assistere le autorità nazionali e locali nel potenziare al massi-
mo i vantaggi della libera circolazione dei cittadini, sia nell’affrontare i casi
di abuso e frode sia per ciò che attiene le problematiche poste dall’inclusio-
ne sociale nonché nell’utilizzare concretamente i fondi disponibili messi a
disposizione dall’Unione a tal fine 33.

33
Le cinque azioni in parola sono:
1. Contrastare i matrimoni di convenienza: la Commissione europea aiuterà le autorità
nazionali ad attuare la normativa dell’Unione che consente loro di lottare contro il potenziale
abuso del diritto alla libera circolazione, elaborando, la data era prevista entro la primavera
del 2014, un manuale su come contrastare i matrimoni di convenienza.
2. Applicare la normativa dell’Unione sul coordinamento dei sistemi di sicurezza sociale:
la Commissione ha collaborando strettamente con gli Stati membri per fornire chiarimenti
sulla prova della «residenza abituale», prevista dalla normativa dell’Unione sul coordina-
mento dei sistemi di sicurezza sociale (Regolamento (CE) n. 883/2004), in una guida pratica
pubblicata il 13 gennaio 2014 (IP/14/13). In base ai rigidi criteri di questa prova, i cittadini
che non lavorano possono accedere alla sicurezza sociale in un altro Stato membro solo dopo
aver effettivamente trasferito il loro centro d’interesse in tale Stato (ad esempio, se vi risiede
la loro famiglia).
3. Affrontare le problematiche poste dall’inclusione sociale: aiutare gli Stati membri a ri-
correre in modo ancor più efficace al Fondo sociale europeo per affrontare il problema
dell’inclusione sociale: nel periodo di programmazione 2014-2020 almeno il 20% della do-
tazione FSE destinata a ciascuno Stato membro (rispetto alla percentuale attuale del 17%
circa) deve essere investito nella promozione dell’inclusione sociale e nella lotta contro la
povertà e ogni forma di discriminazione. Il FSE sarà inoltre in grado di finanziare il poten-
ziamento delle capacità di tutti i soggetti interessati a livello nazionale, regionale o locale.
Agli Stati membri di origine e di destinazione dei cittadini mobili dell’Unione saranno forniti
orientamenti strategici per lo sviluppo di programmi d’inclusione sociale con il sostegno del
FSE. La Commissione intende portare avanti il proprio lavoro per contribuire a potenziare la
capacità di utilizzo efficiente dei fondi strutturali e d’investimento europei da parte delle au-
torità locali.
4. Promuovere lo scambio di pratiche ottimali tra le autorità locali: la Commissione aiu-
terà le autorità locali a condividere le pratiche ottimali acquisite in tutta l’Europa per attuare
la normativa sulla libera circolazione e affrontare la problematica dell’inclusione sociale ...
5. Garantire l’applicazione, in loco, della normativa UE in materia di libera circolazione
... La Commissione ha proposto che in tutti gli Stati membri siano istituiti centri che forni-
scano sostegno giuridico e informazioni ai lavoratori mobili dell’Unione (cfr. IP/13/372) ...
Oggi il 47% dei cittadini dell’Unione sostiene che i problemi incontrati al momento di tra-
sferirsi in un altro paese dell’Unione sono dovuti al fatto che i funzionari delle amministra-
zioni locali non hanno sufficiente dimestichezza con i diritti dei cittadini dell’Unione con-
nessi alla libera circolazione.
165

1.2. ASPETTI GENERALI SULLA LIBERTÀ DI CIRCOLAZIONE DEI LAVORATORI E


DEI PRESTATORI DI SERVIZI

Un discorso a parte merita il principio della libera circolazione dei lavo-


ratori che si estrinseca nella libertà di stabilimento e nella libera prestazione
di servizi, distinte solo per il diverso grado d’intensità del legame che dette
prestazioni creano con il territorio dello Stato ospitante 34. Mentre nelle di-
sposizioni dedicate alla libertà di circolazione delle persone, l’obiettivo è
quello di assicurare specificamente tale diritto nell’ordinamento dell’Unio-
ne, in quelle dedicate ai servizi l’attenzione si sposta sul contenuto dell’at-
tività economica di cui se ne garantisce la circolazione.
La Corte di giustizia ha chiarito la differenza tra libera prestazione dei
servizi e libertà di stabilimento nella sentenza resa nella causa Gebhard 35,
rilevando che un cittadino di uno Stato membro, il quale in maniera stabile e
continuativa eserciti un’attività professionale in un altro Stato membro of-
frendo i propri servizi (tra l’altro ai cittadini di quest’ultimo), è soggetto alle
disposizioni del trattato relativo al diritto di stabilimento e non a quelle rela-
tive ai servizi. Come si desume dall’art. 50, comma 3, TCE 36, le disposizio-
ni relative alla libera prestazione dei servizi contemplano anche il caso in cui
la prestazione implichi lo spostamento del prestatore in altro Stato per eser-
citarvi la propria attività in via temporanea. Il carattere temporaneo della
prestazione di servizi deve essere valutato tenendo conto della durata, della
frequenza, della periodicità e della continuità della prestazione stessa. Il ca-
rattere temporaneo non esclude la possibilità per il lavoratore, ai sensi del
trattato, di dotarsi nello Stato membro ospitante di un’infrastruttura, compre-
so un ufficio o uno studio, o quanto necessita per l ‘esplicazione della pre-
stazione. La garanzia per un cittadino di uno Stato membro di esercitare il
diritto di stabilimento e le condizioni dell’esercizio di questo diritto, devono
essere valutate in funzione delle attività che egli intende esercitare nel terri-

34
Tipologia delle attività qualificabili come servizi: «Ai sensi dei trattati, sono conside-
rate come servizi le prestazioni (…) in quanto non siano regolate dalle disposizioni relative
alla libera circolazione delle merci, dei capitali e delle persone. I servizi comprendono in
particolare: a) attività di carattere industriale; b) attività di carattere commerciale; c) atti-
vità artigiane; d) attività delle libere professioni» (art. 57 TFUE). I servizi assumono quindi
carattere generale residuale, posto che sono rappresentativi delle attività che non siano rego-
late dalle disposizioni sulla circolazione delle merci, dei capitali e delle persone.
35
Corte giust., 30 novembre 1995, C-55/94.
36
L’art. 50, comma 3, Trattato CEE, così prevede: «Senza pregiudizio delle disposizioni
del capo relativo al diritto di stabilimento, il prestatore può, per l’esecuzione della sua pre-
stazione, esercitare, a titolo temporaneo, la sua attività nel paese ove la prestazione è forni-
ta, alle stesse condizioni imposte dal paese stesso ai propri cittadini».
166

torio dello Stato ospitante; in ogni caso si osservi che la Corte ha esteso alla
libertà di stabilimento la nozione di interesse generale che può essere la ra-
gione se non esclusiva ma principe, a sostegno di eventuali limitazioni della
libertà di stabilimento da parte di uno Stato membro 37. Quanto alla categoria
dei servizi, in essa sono espressamente ricomprese dall’art. 50 TCE, le atti-
vità di carattere industriale, commerciale, artigianali e quelle relative alle li-
bere professioni: non si tratta come noto di un’elencazione tassativa ma sol-
tanto esemplificativa di un insieme vasto ed eterogeneo di attività economi-
che. Deve trattarsi ovviamente di un’attività economica retribuita e avere ca-
rattere trans-nazionale: l’attività che rileva, non deve essere circoscritta a
un’attività interna propria di uno Stato membro.
Fatte queste sommarie premesse, il diritto alla libera prestazione dei ser-
vizi è riconosciuto dal TCE ai cittadini degli Stati membri stabiliti in un Pae-
se della Comunità che non sia quello destinatario della prestazione (art. 49
TCE); due sono i requisiti richiesti contestualmente dalla norma: la cittadi-
nanza comunitaria e un preciso collegamento del prestatore dei servizi con il
territorio di uno Stato dell’Unione 38.
Nell’obiettivo di creare «uno spazio senza frontiere interne» (art. 14
TCE) e l’idea stessa di libera circolazione anche nei servizi, si pone la legit-
timità o meno per lo Stato membro di limitare o impedire l’accesso al pro-
prio mercato domestico. Come da giurisprudenza della Corte di giustizia
nella famosa sentenza Cassis De Dijon 39, avente a oggetto l’applicazione

37
Corte giust., 15 dicembre 1995, C-415/93, Bosman e Corte giust., 15 maggio 1997, C-
250/95, Futura.
38
I cittadini di un Paese terzo, com’è noto, devono invece considerarsi esclusi dalla di-
sciplina prevista dall’art. 49 del Trattato; tuttavia il Consiglio «deliberando a maggioranza
qualificata su proposta della Commissione può estendere il beneficio delle disposizioni del
presente capo ai prestatori di servizi cittadini di un Paese terzo e stabiliti all’interno della
Comunità».
39
Nel procedimento 120/78, avente ad oggetto la domanda di pronunzia pregiudiziale
proposta alla Corte, a norma dell’art. 177 del Trattato CEE, dallo Hessisches Finanz gericht
(Tribunale finanziario dell’Assia), nella causa dinanzi ad esso pendente tra Rewe-Zentral
AG, con sede in Colonia, e Bundesmonopolver-waltung für Branntwein (Amministrazione
del monopolio federale dell’alcool, domanda vertente sull’interpretazione degli artt. 30 e 37,
Trattato CEE, alla luce dell’art. 100, n. 3, del BrtwMonG (legge tedesca sul monopolio degli
alcolici). La nozione di «misura d’effetto equivalente a restrizioni quantitative all’impor-
tazione», di cui all’art. 30 TCE, va intesa nel senso che ricade del pari nel divieto contempla-
to da detta disposizione la fissazione di una gradazione minima per le bevande alcoliche, fis-
sazione contenuta nella legislazione di uno Stato membro, qualora si tratti dell’importazione
di bevande alcoliche legalmente prodotte e messe in commercio in un altro Stato membro.
Nel procedimento n. 120/78, avente ad oggetto la domanda di pronunzia pregiudiziale pro-
posta alla Corte, a norma dell’art. 177, Trattato CEE, dallo Hessisches Finanz gericht (Tri-
167

del principio della libertà di circolazione delle merci e successivamente este-


sa anche al settore dei servizi con la sentenza Säger 40, la Corte sottolinea
come, nel caso di specie, non ci si debba fermare al generale principio del
rispetto di uguaglianza ma si devono considerare contrari ai principi comu-
nitari tutti i fattori che oggettivamente ostacolano l’ingresso del prestatore di
servizi nel mercato locale. Ciò comporta che si richieda non solo l’elimina-
zione di qualsiasi forma di discriminazione nei confronti del prestatore di
servizi a causa della loro cittadinanza ma, altresì, la soppressione di qualsiasi
restrizione, anche se applicata indistintamente ai prestatori nazionali e a
quelli degli altri Stati membri, quando detta restrizione sia tale da turbare «le
attività del prestatore stabilito in un altro Stato membro in cui fornisce legit-
timamente servizi analoghi» 41. In particolare lo Stato membro non può su-
bordinare l’esecuzione delle prestazioni di servizi nel suo territorio all’osser-
vanza di tutte le condizioni richieste per lo stabilimento, poiché, così ope-

bunale finanziario dell’Assia), nella causa dinanzi ad esso pendente tra Rewe-Zentral AG,
con sede in Colonia, e Bundesmonopolverwaltung für Bran-ntwein (Amministrazione del
monopolio federale dell’alcool, domanda vertente sull’interpretazione degli artt. 30 e 37,
Trattato CEE, alla luce dell’art. 100, n. 3, del BrtwMonG (legge tedesca sul monopolio degli
alcolici). La Corte, nel 1979, affermò che qualsiasi bene legalmente prodotto e venduto in
uno Stato membro deve, in linea di massima, essere ammesso sul mercato di ogni altro Stato
membro. Gli unici ostacoli al libero scambio, perciò, sono giustificabili solo sulla base di
esigenze imperative tassativamente previste (efficacia dei controlli fiscali, protezione della
salute pubblica, lealtà delle transazioni commerciali e difesa dei consumatori) e per motivi di
interesse generale. Dall’analisi delle pronunce della Corte successive alla Cassis de Dijon,
sono enucleabili i seguenti principi: – gli Stati, in mancanza di una regolamentazione comu-
ne o di un’armonizzazione, restano liberi di regolare, sul proprio territorio, tutto quanto ri-
guarda la commercializzazione, il consumo, l’etichettatura e la designazione dei prodotti; –
tale libertà non deve concretarsi, però, in misure suscettibili di frapporre ostacoli al commer-
cio comunitario; – una regolamentazione nazionale in materia costituisce un intralcio agli
scambi comunitari quando non sia giustificata da esigenze imperative.
Inoltre, per questa via, la Corte inizia a far riferimento al principio di mutuo ricono-
scimento che, come rilevato da F. BANO, op. loc. cit. «rappresenta, per così dire, la proie-
zione dinamico-operativa della dottrina degli ostacoli. Più esatto sarebbe dire che la Corte
elabora una propria versione del principio, il quale in effetti è declinabile in modi diversi a
seconda del contesto giuridico-istituzionale di riferimento».
40
Säger, C-76/90 [1991], in Raccolta, 1991, p. I-4221 [gli artt. 177 e 59 sono ora gli artt.
267 e 56 TFUE]. Rileva la Corte: «Si deve quindi risolvere la questione dichiarando che
l’art. 59 del Trattato osta ad una normativa nazionale che vieta ad una società avente in un
altro Stato membro di fornire a titolari di brevetti sul territorio nazionale un servizio di sor-
veglianza e di rinnovo di questi brevetti mediante il versamento delle tasse previste al ri-
guardo, in quanto in forza di detta normativa quest’attività è riservata ai soli titolari di una
particolare qualifica professionale, quale quella di consulente in materia di brevetti».
41
S.M. CARBONE-A. TARAMASSO, Libera prestazione di servizi, tariffe professionali e
professione di avvocato, in Dir. comm. internaz., n. 2/2005, p. 232.
168

rando, si verrebbero a privare di ogni «effetto utile» le disposizioni del trat-


tato destinate a garantire la libera prestazione dei servizi.
Il diverso approccio tra libertà di stabilimento e libera prestazione dei
servizi, ha comportato un notevole ampliamento dello spettro del giudizio di
sindacabilità delle discipline nazionali da parte della Corte di giustizia; ciò
in ragione del fatto che vi sono misure e requisiti giustificabili a fronte di un
esercizio costante e permanente di un’attività economica ma non quando la
stessa attività è svolta in maniera solo temporanea. Com’è stato osservato il
giudizio d’illegittimità, basato sull’effetto restrittivo della libertà fondamen-
tale ex art. 49 TCE, porta a conseguenze opposte rispetto a quelle derivanti
dalle discriminazioni: «… in questo secondo caso si finisce per estendere al
prestatore di servizi il diritto dello Stato ospite, l’affermazione del carattere
restrittivo di una norma nazionale indistintamente applicabile determina per
contro l’illegittimità della stessa e, per l’effetto, la sua disapplicazione» 42. Il
ragionamento seguito dai giudici della Corte di giustizia si basa su due pre-
supposti fondamentali: tenuto conto che il settore in questione è disciplinato
da sistemi giuridici tra loro eterogenei, si deve ipotizzare che la libera circo-
lazione dei servizi, quant’anche prevista dal trattato come libertà fondamen-
tale, deve rispettare sia le norme dello Stato di origine sia quelle in vigore
nello Stato di destinazione purché quest’ultime non vengano a costituire
ostacolo al principio cardine. Non è in contestazione la violazione del prin-
cipio del pari trattamento nazionale ma anzi, sono le norme applicabili dello
Stato ospite che, duplicando obblighi analoghi per la circolazione comunita-
ria del bene e del servizio, costituiscono un ostacolo o meglio una restrizio-
ne, secondo quanto prevede il trattato.
Non a caso, in sede comunitaria, si è sentita la necessità di una generale
armonizzazione delle normative nazionali in materia di servizi culminate
nella c.d. Direttiva Bokestein, la quale si allinea agli orientamenti giurispru-
denziali molto più aperti nel valutare le singole situazioni 43. In un certo sen-

42
F. BANO, op. cit., p. 77. «[…] il combinato disposto degli artt. 49 e 50 TCE impone la
soppressione oltre che delle discriminazioni praticate nei confronti dei prestatori di servizi,
“di qualsiasi restrizione, anche qualora si applichi indistintamente ai prestatori nazionali e
a quelli degli altri Stati membri, allorché essa sia tale da vietare o da ostacolare maggior-
mente le attività del prestatore stabilito in un altro Stato membro ove fornisce legittimamen-
te servizi analoghi”. Non si ferma al rispetto del generale principio di eguaglianza, ma con-
sidera illegittimi tutti i fattori – discriminatori e non – che oggettivamente ostacolino l’in-
gresso del prestatore nel mercato locale».
43
Una rilevante disciplina della regolamentazione dei servizi nel mercato interno è rin-
venibile nella c.d. direttiva servizi, nota come Direttiva Bolkenstein dal nome del relatore al
Parlamento europeo relativa ai servizi nel mercato interno, G.U., 27 dicembre 2006, n. L
169

so, il principio contenuto nella direttiva Bolkenstein porta a interrompere il


processo di armonizzazione della legislazione comunitaria favorendo le di-
versità fra i vari ordinamenti nazionali. Ciò ha comportato che, il Paese, con
standards inferiori, è venuto a rendersi più appetibile per i prestatori di ser-
vizi e, d’altro canto, detti soggetti, applicando le regole del Paese di origine,
hanno dato luogo a episodi di concorrenza sleale verso gli altri professionisti
e incertezza sulle norme applicabili.
Si deve ricordare che la Bolkestein è stata ritirata e sostituita da una se-
conda proposta presentata alla Commissione nell’aprile 2006, nella quale le
originarie ambizioni riformatrici in materia di servizi, sono venute a essere
in parte ridimensionate; così operando si è pervenuti, sempre nel 2006,
all’emanazione della Direttiva 2006/123/CE. Quest’ultima direttiva afferma
il diritto dei cittadini europei a fornire un servizio in uno Stato membro di-
verso da quello in cui sono stabiliti, imponendo allo Stato ospitante di assi-
curare sul proprio territorio, il libero accesso e il libero esercizio di un’at-
tività di servizio 44. Il regime giuridico applicabile è quello dello Stato ospi-

376, pp. 36-68. Art. 1, Oggetto: – «1. La presente direttiva stabilisce le disposizioni generali
che permettono di agevolare l’esercizio della libertà di stabilimento dei prestatori nonché la
libera circolazione dei servizi, assicurando nel contempo un elevato livello di qualità dei
servizi stessi».
44
Direttiva 2006/123/CE, 12 dicembre 2006. Art. 16, Libera prestazione di servizi: «1.
Gli Stati membri rispettano il diritto dei prestatori di fornire un servizio in uno Stato mem-
bro diverso da quello in cui sono stabiliti. Lo Stato membro in cui il servizio viene prestato
assicura il libero accesso a un’attività di servizi e il libero esercizio della medesima sul pro-
prio territorio. Gli Stati membri non possono subordinare l’accesso a un’attività di servizi o
l’esercizio della medesima sul proprio territorio a requisiti che non rispettino i seguenti
principi:
a) non discriminazione: i requisiti non possono essere direttamente o indirettamente di-
scriminatori sulla base della nazionalità o, nel caso di persone giuridiche, della sede; b) ne-
cessità: i requisiti devono essere giustificati da ragioni di ordine pubblico, di pubblica sicu-
rezza, di sanità pubblica o di tutela dell’ambiente; c) proporzionalità: i requisiti sono tali da
garantire il raggiungimento dell’obiettivo perseguito e non vanno al di là di quanto è neces-
sario per raggiungere tale obiettivo. 27.12.2006 IT Gazzetta ufficiale dell’Unione europea
L. 376/57.
2. Gli Stati membri non possono restringere la libera circolazione dei servizi forniti da
un prestatore stabilito in un altro Stato membro, in particolare, imponendo i requisiti se-
guenti:
a) l’obbligo per il prestatore di essere stabilito sul loro territorio; b) l’obbligo per il pre-
statore di ottenere un’autorizzazione dalle autorità competenti, compresa l’iscrizione in un
registro o a un ordine professionale sul loro territorio, salvo i casi previsti dalla presente
direttiva o da altri strumenti di diritto comunitario; c) il divieto imposto al prestatore di do-
tarsi sul loro territorio di una determinata forma o tipo di infrastruttura, inclusi uffici o uno
studio, necessaria all’esecuzione delle prestazioni in questione; d) l’applicazione di un re-
170

tante (host state control) sia pure nel rispetto dei principi già indicati nelle
pronunce della Corte di giustizia, ovvero dei principi desumibili dai trattati.
Infatti, dette pronunce, anticipando in parte il contenuto della direttiva in
esame, sono tutte rivolte a oggettivizzare «i motivi imperativi» d’interesse
generale che possono giustificare regimi autorizzatori o altre restrizioni,
sempre che essi siano necessari, proporzionati e non discriminatori.
Diversamente, il principio della libera circolazione dei servizi, accolto
nella versione definitiva della direttiva, fa sì che la prestazione di questi ul-
timi, risponda alle regole del Paese non di provenienza del prestatore ma con
riferimento al Paese in cui i servizi sono prestati.
La Direttiva servizi interviene anche su molti altri aspetti, fra cui quelli
che riguardano le professioni regolamentate, segnatamente: il riconoscimen-
to e l’accesso al mercato dei professionisti provenienti da altri Stati del-
l’Unione; la definizione dei corrispettivi professionali; le comunicazioni
commerciali; le società professionali; gli strumenti a tutela dei clienti. Meri-
ta di essere segnalata la sentenza della Corte, Grande Sezione, 17 luglio
2014, C-58/13 e C-59/13 che nel quadro della libera circolazione delle per-
sone, secondo quanto previsto dall’art. 1, par. 1, Direttiva 98/5/CE, ribadisce
quanto già la Corte aveva avuto modo di constatare instituendo un meccani-
smo di mutuo riconoscimento dei titoli professionali di avvocati migranti che
desiderino esercitare con il titolo conseguito nello Stato membro di origine 45.
Nella sentenza Lussemburgo, la Corte rileva come «… il diritto dei citta-
dini di uno Stato membro di scegliere da un lato, lo Stato membro nel quale

gime contrattuale particolare tra il prestatore e il destinatario che impedisca o limiti la pre-
stazione di servizi a titolo indipendente; e) l’obbligo per il prestatore di essere in possesso
di un documento di identità specifico per l’esercizio di un’attività di servizi rilasciato dalle
loro autorità competenti; f) i requisiti, a eccezione di quelli in materia di salute e di sicurez-
za sul posto di lavoro, relativi all’uso di attrezzature e di materiali che costituiscono parte
integrante della prestazione del servizio; g) le restrizioni alla libera circolazione dei servizi
di cui all’articolo 19.
3. Allo Stato membro in cui il prestatore si reca non può essere impedito di imporre re-
quisiti relativi alla prestazione di un’attività di servizi qualora siano giustificati da motivi di
ordine pubblico, di pubblica sicurezza, di sanità pubblica o tutela dell’ambiente, e in con-
formità del paragrafo 1. Allo stesso modo, a quello Stato membro non può essere impedito
di applicare, conformemente al diritto comunitario, le proprie norme in materia di condizio-
ni di occupazione, comprese le norme che figurano negli accordi collettivi.
4. Entro il 28 dicembre 2011 e previa consultazione degli Stati membri e delle parti so-
ciali a livello comunitario, la Commissione trasmette al Parlamento europeo e al Consiglio
una relazione sull’applicazione del presente articolo, in cui esamina la necessità di propor-
re misure di armonizzazione per le attività di servizi che rientrano nel campo d’applicazione
della presente direttiva».
45
Sentenza Lussemburgo c. Parlamento e Consiglio, C-168/98, EU C-2000: 598, punto 56.
171

desidera acquistare il titolo professionale e, dall’altro quello in cui hanno


intenzione di esercitare la loro professione, è inerente all’esercizio, in un
mercato unico delle libertà fondamentali garantite dai Trattati» 46. Da qui,
ogni limitazione a tale principio, contenute nelle procedure nazionali diven-
tano illegittime ove non supportate da ragioni di pubblico interesse. La diret-
tiva ammette, eccezionalmente, talune forme di controllo preventivo ma li-
mitatamente alla sussistenza di determinati requisiti nel caso in cui entrino in
gioco interessi pubblici generali che giustifichino tale controllo. Si osservi
che, nel graduare gli interessi in gioco in base ai quali gli Stati membri pos-
sono porre a fondamento le misure restrittive nazionali (ovvero le eccezioni
rispetto alla regola generale) la direttiva sancisce la contrarietà al diritto co-
munitario nell’ipotesi in cui il controllo pubblico – sia che sia preventivo sia
che sia successivo – trovi una sua ragione in motivi economici o sia subor-
dinato ai bisogni del mercato. In questo senso entra in campo anche il tema
delle liberalizzazioni dei servizi: l’ordinamento europeo, pur lasciando in
apparenza libero il legislatore nazionale quanto alla scelta delle misure d’im-
plementazione del diritto comunitario, in concreto vincola puntualmente gli
Stati membri al rispetto di requisiti stringenti derivanti dalle norme del trat-
tato e dall’elaborazione che la giurisprudenza comunitaria ha dato di queste.
Anche in tale settore, a ben vedere, con regolamentazioni particolari e di
dettaglio, le fonti derivate sostituiscono direttamente le disposizioni naziona-
li in tema di poteri autorizzatori preventivi, di requisiti preliminari, venendo
a individuare quali siano gli interessi pubblici prevalenti così da fornire un
contenuto oggettivo alla comune previsione delle «esigenze imperative di
interesse generale». Per questa via, si giunge a una notevole limitazione del
potere discrezionale delle autorità amministrative o regolative o indipendenti
(a secondo della tipologia di quelle che operano nei singoli mercati), le quali
vedono limitati i rispettivi poteri e gli stessi procedimenti d’intervento, da
disposizioni comunitarie che stabiliscono, con criteri oggettivi, le possibilità
degli Stati membri di individuare le «eccezioni» rispetto alla regola generale
della libertà di prestazione di servizi; così facendo, anche in questo settore,
la regolamentazione contenuta nelle norme derivate, viene a sostituire le di-
sposizioni amministrative nazionali per cui l’atto amministrativo, col quale
viene applicata l’eccezione, è sottoponibile ai giudici nazionali nonché alla
Corte di giustizia a tutela del diritto primario.
In questo quadro, particolare interesse riveste l’azione verso la realizza-
zione del mercato interno nell’ambito dell’esercizio delle libere professioni

46
In tal senso si veda anche la sentenza Commissione c. Spagna, C-286/06, EU: C: 2008:
586.72.
172

che trova il suo fondamento in due principi: la libera prestazione di servizi e


la libertà di stabilimento dei professionisti in tutti gli Stati membri, cosi co-
me disposto negli artt. 43 e 55 TUE: disposizioni peraltro a cui la giurispru-
denza della Corte di giustizia ha riconosciuto effetto diretto quali principi
giuridici fondamentali. L’armonizzazione di discipline comuni così come la
creazione di un comune percorso formativo in tutto l’ambito comunitario, è
in fase ancora iniziale, anche se è considerata ormai impellente l’esigenza di
creare un mercato unico delle professioni, ad esempio legali, attraverso mec-
canismi del mutuo riconoscimento dei titoli professionali e della libera pre-
stazione di servizi.
In linea generale il mercato interno delle professioni è stato realizzato
sulla base del principio che lo Stato membro può, entro determinati limiti,
verificare l’idoneità del titolo abilitativo del professionista rispetto ai propri
criteri di ammissione all’esercizio della professione e, se il controllo dà ef-
fetti positivi, lo Stato dovrà rilasciare le conseguenti autorizzazioni per l’e-
sercizio dell’attività professionale 47. Del problema si era già fatto carico il
Parlamento europeo con la Risoluzione del 16 dicembre 2003, dove solleci-
tava l’emanazione di una normativa comunitaria in merito alla regolamenta-
zione del mercato e le norme di concorrenza per le libere professioni 48.
L’avvocato che intende esercitare stabilmente col titolo d’origine la pro-
pria attività in uno Stato diverso da quello in cui abbia acquisito la propria

47
Cfr. Corte giust., 21 giugno 1974, C-2/74, Reyners e Corte giust., 3 dicembre 1974,
C-33/74, Van Binsbergen. La Corte di giustizia ha altresì negato che la professione di avvo-
cato possa rientrare tra le eccezioni previste dall’art. 55 TCE, posto che «tra le attività che
implicano l’esercizio di pubblici poteri (di cui alla stessa norma) non rientrano né la consu-
lenza e l’assistenza legali, né la rappresentanza e la difesa delle parti in giudizio, neppure
se l’esercizio di tali attività costituisce un obbligo o un’esclusiva voluti dalla legge». Tale
orientamento è stato largamente confermato da tutta la giurisprudenza successiva, ed in par-
ticolare nei casi Thieffry (Corte giust., 28 aprile 1977, C-71/76) e Kloop (Corte giust., 12 lu-
glio 1984, C-107/83) sul diritto di stabilimento, Gullung (Corte giust., 19 gennaio 1988, C-
292/86) sulla libera prestazione dei servizi professionali di avvocato, Ghebard (Corte giust.,
30 novembre 1995, C-55/94) sulla linea di discrimine tra le due nozioni citate e, da ultimo,
Wouters (Corte giust., 19 febbraio 2002, C-309/99).
48
Nella Risoluzione parlamentare citata nel testo, al punto 9 il Parlamento rileva che la
necessità di promuovere la concorrenza nelle professioni deve essere conciliata con quello di
mantenere norme puramente etiche proprie a ciascuna professione e di rispettare i compiti di
interesse pubblico affidati alle libere professioni. Al punto 11, inoltre, si legge che sono ne-
cessarie norme nel contesto specifico di ciascuna professione, in particolare quelli riguardan-
ti l’organizzazione, le qualifiche, l’etica professionale, la vigilanza, la responsabilità, l’im-
parzialità e la competenza dei membri della professione o norme destinate ad impedire con-
flitti di interesse purché offrano agli utenti finali l’assicurazione di godere delle necessarie
garanzie e non costituiscano restrizioni della concorrenza.
173

qualifica, è tenuto a iscriversi presso l’autorità competente dello Stato ospi-


tante. D’altro canto, detta autorità, deve procedere su presentazione di un
documento attestante l’iscrizione presso la corrispondente autorità compe-
tente dello Stato membro d’origine, potendo esigere solo che il documento
non sia stato rilasciato oltre tre mesi prima della sua presentazione. L’obbli-
go di registrazione espressamente escluso per gli avvocati prestatori di ser-
vizi nella precedente Direttiva 77/249/CEE del 22 marzo 1977 49, è invece
stato introdotto dalla Direttiva 98/05/CE 50, al fine di garantire il buon fun-
zionamento della giustizia ovvero permettere agli Stati, tramite gli ordini
professionali, di verificare il rispetto delle regole professionali e deontologi-
che vigenti nel Paese, da parte dell’avvocato stabilito. La Corte di giustizia,
a proposito dei casi Wilson 51 e Commissione contro Lussemburgo 52, ha san-
cito che la registrazione deve essere condizionata solo all’esclusivo requisito
della presentazione del documento attestante l’iscrizione presso la corri-
spondente autorità dello Stato membro d’origine.
Com’è stato osservato 53, nel sistema delineato dalla Direttiva 98/05/CE,
emergono due distinte forme di stabilimento e, di conseguenza, due diverse
figure di avvocato stabilito: la prima fa riferimento all’avvocato «registrato»

49
Si vedano, in particolare, gli artt. 6 e 7 della Direttiva 77/249/CEE. Art. 6: «Ogni Stato
membro può escludere gli avvocati dipendenti, legati da un contratto di lavoro ad un ente
pubblico o privato, dall’esercizio delle attività di rappresentanza e di difesa in giudizio di
questo ente nella misura in cui gli avvocati stabiliti in detto Stato non siano autorizzati ad
esercitare tali attività.
Art. 7: «1. L’autorità competente dello Stato membro ospitante può chiedere al presta-
tore di servizi di documentare la propria qualità di avvocato. 2. In caso di inadempienza
agli obblighi vigenti nello Stato membro ospitante previsti dall’articolo 4, l’autorità compe-
tente di quest’ultimo ne determina, secondo le proprie norme di diritto e di procedura, le
conseguenze e, a tal fine, può farsi comunicare informazioni professionali utili sul prestato-
re . Essa informa l’autorità competente dello Stato membro di provenienza di ogni decisione
presa. Le comunicazioni non pregiudicano il carattere riservato delle informazioni fornite».
50
Direttiva 98/05/CE, considerando 11: «considerando che per garantire il buon funzio-
namento della giustizia occorre lasciare agli Stati membri la facoltà di riservare, mediante
norme specifiche, l’accesso ai loro pi. alti organi giurisdizionali ad avvocati specializzati,
senza ostacolare l’integrazione degli avvocati degli Stati membri che soddisfino le condizio-
ni richieste».
51
Corte giust., 19 settembre 2006, C-506/04, Graham J. Wilson c. Ordre des avocats du
barreau de Luxembourg, in Raccolta, 2006, I, pp. 8613 ss.
52
Corte giust., 19 settembre 2006, C. 193/05, Commissione delle Comunità europee c.
Granducato del Lussemburgo, in Raccolta, 2006, I, pp. 8673 ss.
53
M. IAIA, La circolazione degli avvocati e il riconoscimento del titolo professionale al-
la luce della sentenza Torresi della Corte di giustizia europea, in Dir. comm. internaz., n.
1/2015, p. 88.
174

ovvero a quello che esercita la propria attività nello Stato membro facendo
esclusivo uso del proprio titolo professionale d’origine, la seconda figura è
quella dell’avvocato «assimilato» rappresentato dal professionista che eser-
cita la propria attività con il titolo professionale rilasciato dallo Stato mem-
bro ospitante.
Nella Direttiva 98/05/CE, è previsto che gli «avvocati registrati» assuma-
no la completa assimilazione agli avvocati dello Stato membro ospitante,
qualora abbiano svolto l’esercizio dell’attività professionale per almeno tre
anni «di un’effettiva e regolare attività nello Stato membro ospitante». L’o-
nere di provare l’esercizio di tale attività incombe sull’interessato mentre
l’autorità competente può invitare l’avvocato a fornire chiarimenti e precisa-
zioni in merito alle pratiche trattate; tuttavia non possono essere richiesti
nuovi adempimenti rispetto a quelli espressamente indicati dalla direttiva.
La seconda ipotesi volta a ottenere l’assimilazione ex art. 10, direttiva stabi-
limento 54, può realizzarsi, sempre in un momento successivo alla registra-

54
Direttiva 98/05/CE, 16 febbraio 1998, ovvero «Direttiva Stabilimento». Art. 10, Assi-
milazione all’avvocato dello Stato membro ospitante: «1. L’avvocato che eserciti con il pro-
prio titolo professionale di origine e che abbia comprovato l’esercizio per almeno tre anni
di un’attività effettiva e regolare nello Stato membro ospitante, e riguardante il diritto di
tale Stato, ivi compreso il diritto comunitario, è dispensato dalle condizioni di cui all’arti-
colo 4, paragrafo 1, lettera b) della Direttiva 89/48/CEE per accedere alla professione di
avvocato dello Stato membro ospitante. Per attività effettiva e regolare si intende l’esercizio
reale dell’attività senza interruzioni che non siano quelle dovute agli eventi della vita quoti-
diana. 14. 3. 98 IT Gazzetta ufficiale delle Comunità europee L. 77/41 Grava sull’interessa-
to l’onere di provare all’autorità competente dello Stato membro ospitante l’esercizio di tale
attività effettiva e regolare per una durata minima di tre anni nel diritto dello Stato membro
ospitante. A tal fine: a) l’avvocato fornisce all’autorità competente dello Stato ospitante
ogni informazione e documento utile, in particolare per quanto attiene al numero e alla na-
tura delle pratiche trattate; b) l’autorità competente dello Stato membro ospitante può veri-
ficare il carattere regolare ed effettivo dell’attività esercitata e, se necessario, invitare l’av-
vocato a fornire oralmente o per iscritto chiarimenti o precisazioni supplementari in merito
alle informazioni e ai documenti menzionati nella lettera a). La decisione dell’autorità com-
petente dello Stato membro ospitante di non concedere tale dispensa qualora non sia fornita
la prova che i requisiti di cui al primo comma sono soddisfatti deve essere motivata ed è
soggetta a ricorso giurisdizionale di diritto interno. 2. Un avvocato che eserciti con il pro-
prio titolo professionale di origine in uno Stato membro ospitante può in qualsiasi momento
chiedere il riconoscimento del proprio diploma a norma della Direttiva 89/48/CEE, allo
scopo di accedere alla professione di avvocato dello Stato membro ospitante e di esercitarla
con il titolo professionale corrispondente a tale professione in detto Stato membro. 3. Un
avvocato che eserciti con il proprio titolo professionale di origine, che dimostri un’attività
effettiva e regolare per un periodo di almeno tre anni nello Stato membro ospitante, ma di
durata inferiore relativamente al diritto di tale Stato membro, può ottenere dall’autorità
competente di detto Stato membro l’accesso alla professione di avvocato dello Stato membro
ospitante e il diritto di esercitarla con il titolo professionale corrispondente a tale professio-
175

zione, attraverso il superamento di una prova attitudinale, quale misura di


compensazione finalizzata al riconoscimento del titolo professionale. Inoltre,
nel caso in cui l’«avvocato registrato» abbia attuato un’attività effettiva e re-
golare di durata inferiore riguardo al diritto interno di tale Stato membro, si
prevede la possibilità di un colloquio con l’interessato volto alla dimostra-
zione di aver ugualmente maturato le conoscenze necessarie all’esercizio
della professione forense nello Stato di destinazione. Per quest’ultima moda-
lità di assimilazione può ravvisarsi un’analogia col sistema di riconoscimen-
to contenuto nelle norme di diritto primario sulle qualifiche professionali,
secondo quanto stabilito dalla Corte di giustizia nella sentenza del 7 maggio
1991 55, ove si legge che, come disposto dall’art. 10 della Direttiva 98/05/CE,
l’eventuale decisione negativa dello Stato membro è soggetta a ricorso giuri-
sdizionale secondo la disciplina del diritto interno. Si prevede inoltre che,
l’autorità competente dello Stato membro, potrebbe non ammettere l’avvo-
cato al beneficio in questione, solo qualora ritenga che possa venir pregiudi-
cato l’ordine pubblico e in particolare «a causa di procedimenti disciplinari,
di reclami o di altri incidenti di qualsiasi natura».

ne in detto Stato membro, senza dover rispettare le condizioni di cui all’articolo 4, paragra-
fo 1, lettera b) della Direttiva 89/48/CEE, alle condizioni e secondo le modalità qui di segui-
to indicate: a) L’autorità dello Stato membro ospitante prende in considerazione l’attività
effettiva e regolare nel corso del periodo sopra precisato, nonché le conoscenze e le espe-
rienze professionali nel diritto dello Stato membro ospitante, nonché la partecipazione del
richiedente a corsi o seminari che vertono sul diritto dello Stato membro ospitante, compre-
so l’ordinamento della professione e la deontologia professionale. b) L’avvocato fornisce
all’autorità dello Stato membro ospitante tutte le informazioni e i documenti utili, in partico-
lare sulle pratiche da lui seguite. La valutazione dell’attività effettiva e regolare dell’avvo-
cato svolta nello Stato ospitante, nonché la valutazione della sua capacità di proseguire
l’attività ivi esercitata viene effettuata nell’ambito di un colloquio con l’autorità competente
dello Stato membro ospitante, che mira a verificare il carattere regolare ed effettivo dell’at-
tività esercitata. La decisione dell’autorità competente dello Stato membro ospitante di non
concedere l’autorizzazione qualora non sia fornita la prova che i requisiti stabiliti al primo
comma sono soddisfatti deve essere motivata ed è soggetta a ricorso giurisdizionale di dirit-
to interno. 4. L’autorità competente dello Stato membro ospitante può, con decisione moti-
vata soggetta a un ricorso giurisdizionale di diritti interno, non ammettere l’avvocato al be-
neficio delle disposizioni del presente articolo qualora ritenga che l’ordine pubblico sarebbe
pregiudicato, in particolare a causa di procedimenti disciplinari, di reclami o di altri inci-
denti di qualsiasi natura. 5. I rappresentanti dell’autorità competente incaricati di istruire le
domande garantiscono il segreto su tutte le informazioni ottenute. 6. L’avvocato che accede
alla professione di avvocato dello Stato membro ospitante secondo le modalità previste dai
paragrafi 1, 2, e 3 ha diritto di far uso, a fianco del titolo professionale corrispondente alla
professione di avvocato nello Stato membro ospitante, del titolo professionale d’origine in-
dicato nella lingua o in una delle lingue ufficiali dello Stato membro d’origine».
55
Corte giust., sentenza 7 maggio 1991, C-340/89, Irène Vlassopoulou c. Ministerium
für Justiz, Bundes– und Europaangelegenheiten Baden-Württemberg.
176

Il dibattito sulla circolazione degli avvocati si è presentato, da ultimo, in


virtù del c.d. «caso spagnolo». Occorre premettere che in Spagna non si pre-
vedeva la necessità di superare un esame al fine di ottenere la qualifica di
abogado, situazione venuta a meno con l’introduzione della legge n. 34/2006
dopo non pochi rinvii. Merita di essere richiamata la situazione spagnola
poiché i singoli Consigli dell’Ordine italiani hanno apposto un sistematico
rifiuto di iscrivere nell’Albo professionale coloro i quali avessero conseguito
la laurea in giurisprudenza in Italia, l’abilitazione professionale in Spagna, e
intendessero esercitare la professione forense in Italia in qualità di avvocati
«registrati». Tale situazione ha dato luogo a tutta una serie di sentenze a par-
tire dalla sentenza Cavallera 56, fino alla recente sentenza Torresi, che pre-
senta profili di particolare interesse per ciò che attiene il ruolo del Consiglio
dell’Ordine nazionale degli avvocati italiani nonché la procedura prevista
per l’iscrizione degli avvocati spagnoli nell’Albo italiano. A fronte del rifiu-
to di tale richiesta lo stesso CNF è venuto a sottoporre alla Corte di giustizia
due questioni pregiudiziali ritenendo che, il laureato in giurisprudenza in
uno Stato che si rechi in un altro Stato membro per acquisire il titolo abilita-
tivo e ritornare nel primo per svolgere l’attività libero professionale, non so-
lo incorrerebbe in un «abuso del diritto dell’Unione europea» ma per di più
tale fattispecie non rientrerebbe nella disciplina contenuta nella Direttiva
98/05/CE. Inoltre, a norma dell’art. 33, comma 5, Cost. italiana, si subordina
l’esercizio dell’attività di avvocato al superamento dell’esame di Stato e tale
norma non sarebbe stata abrogata dalla direttiva sopra citata, pena la viola-
zione dell’art. 4 TUE.
La vicenda ha dei profili amministrativi di estremo rilievo e in particolare
ciò che sicuramente lascia perplessi è la qualificazione del CNF come giuri-
sdizione nazionale in quanto, secondo la decisione della Corte di giustizia,
gli organi nazionali chiamati a statuire sui ricorsi contro le decisioni emesse
dagli organi professionali, possono rientrare nella nozione di organo giuri-
sdizionale secondo quanto dispone l’art. 267 TFUE. Nel decidere il caso
Torresi 57, a differenza delle precedenti sentenze in materia (vedi sentenza
Gebhard) la Corte ha scelto di porre l’accento sul requisito d’indipendenza,
sussistente in capo al Consiglio Nazionale Forense italiano, poiché è «sog-
getto alle garanzie previste dalla Costituzione italiana in materia di indi-
pendenza e di imparzialità dei Giudici, […] esercita le proprie funzioni in

56
Corte giust., 29 gennaio 2009, C-311/06, Consiglio Nazionale degli Ingegneri c. Mini-
stero della Giustizia e Marco Cavallera, in Raccolta, 2009, I, p. 415 ss.
57
Corte giust., Angelo Alberto Torresi (C-58/13) e Pierfrancesco Torresi (C-59/13) c.
Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Macerata (17 luglio 2014).
177

piena autonomia» e quindi si rinvengono, in capo ad esso, tutti i requisiti


previsti nell’art. 267 58. Quanto al secondo profilo, ovvero l’abuso del diritto
di stabilimento, occorre rammentare che, per accertare l’esistenza di detti
comportamenti abusivi, il giudice nazionale deve verificare: l’esistenza di un
insieme di circostanze oggettive – elemento oggettivo– dalle quali risulti che,
nonostante il rispetto formale delle condizioni previste dalla normativa,
l’obiettivo perseguito dall’interessato non è quello sottostante all’ordina-
mento comunitario, ed inoltre che, attraverso tali comportamenti, si è perve-
nuto all’ottenimento di un indebito vantaggio derivante dalla stessa normati-
va comunitaria – elemento soggettivo –. Nella sentenza Torresi, la Corte, do-
po aver ricordato che con la Direttiva 98/05/CE si è inteso facilitare l’eser-
cizio della professione di avvocato in uno Stato membro diverso da quello in
cui si è acquisita la qualifica professionale, rileva che nella fattispecie ver-
rebbero a mancare sia l’elemento oggettivo sia l’elemento soggettivo da cui
far discendere il c.d. «abuso di diritto comunitario». La Corte di giustizia,
nella sentenza in parola, detta inoltre altre indicazioni rivolte principalmente
alle autorità nazionali competenti all’iscrizione degli avvocati, finalizzate ad
escludere qualsiasi forma di discrezionalità nella valutazione delle istanze dei
professionisti migranti: l’iscrizione alla sezione speciale dell’Albo degli av-
vocati non può essere inficiata dal fatto che la presentazione dell’istanza «ha
avuto luogo poco tempo dopo il conseguimento del titolo professionale» né
essere «subordinata alle condizioni che venga svolto un periodo di pratica
come avvocato nello Stato membro di origine». Com’è stato rilevato tali pre-
cisazioni si sono rese necessarie perché i giudici comunitari hanno ritenuto
inaccettabile, nell’ambito del valore del concetto di fiducia tra gli Stati, che
l’abogado spagnolo debba dimostrare al Consiglio dell’Ordine italiano, di
aver acquisito una precedente esperienza professionale.
In definitiva, ciò che si stabilisce è che non residua, in capo all’autorità
del CNF, alcuna discrezionalità in merito ai requisiti richiesti che possono
essere solo quelli previsti dalla normativa comunitaria.

58
È rilevante il ragionamento della Corte di giustizia, in quanto, come ha rilevato M.
IAIA, op. cit., p. 93, era stato seguito per i rinvii proposti dalle autorità amministrative indi-
pendenti che per loro natura spesso non soddisfano a pieno le condizioni elaborate dalla giu-
risprudenza: caso emblematico in tal senso, è rappresentato dalla dicotomia tra dichiarata
ricevibilità di un rinvio pregiudiziale proposto dall’autorità spagnola competente in materia
di concorrenza (sentenza 16 luglio 1992, causa 67/91, Dirección General de Defensa de la
Competencia c. Asociación Española de Banca Privada (AEB) e altri, in Raccolta, 1992, I,
p. 4785 ss.) e la inricevibilità di un ricorso proposto invece dalla omologa autorità greca
(Sentenza Causa C-53/03 Synetairismos Farmakopoion Aitolias & Akarnanias (Syfait) e al-
tri c. GlaxoSmithKline pic e GlaxoSmithKline AEVE, già Glaxowellcome AEVE.
178

In merito alla presunta violazione del dettato costituzionale da parte della


Direttiva 98/05/CE, rileva la Corte che tale articolo non impedisce allo Stato
italiano di esercitare la propria competenza riguardo all’accesso alla profes-
sione dell’avvocato; pertanto, fermo restando la competenza dello Stato ita-
liano di disporre per i suoi iscritti, la disposizione contenuta nell’art. 3 della
precitata direttiva, è diretta unicamente a riconoscere agli interessati il diritto
di stabilirsi in uno Stato membro per esercitarvi la professione di avvocato
con il titolo ottenuto in un diverso Stato.
Il Consiglio dell’Ordine nazionale, organo regolatore con profili anche
giurisdizionali, secondo la Corte di giustizia, non ha discrezionalità sul pun-
to poiché è già la direttiva che indica le condizioni e i termini per ottenere
detta iscrizione all’Albo, il ché vuol dire quindi che sul piano amministrati-
vo prevale nettamente la procedura prevista nella direttiva rispetto alla legge
italiana. La questione, tuttavia, non può dirsi risolta anche in considerazione
della specificità dell’attività che s’intende esercitare, tant’è che con succes-
siva Risoluzione del Parlamento europeo 59, la Commissione è sollecitata a
elaborare norme che disciplinino in modo uniforme le varie libere professio-
ni negli Stati membri con l’obiettivo di promuovere la concorrenza nelle
professioni e conciliando tale obiettivo alle specifiche caratterizzazioni e al
rispetto dei compiti d’interesse pubblico affidate alle libere professioni.

59
Risoluzione Parlamento europeo sulle regolamentazioni di mercato e le norme di con-
correnza per le libere professioni, 16 dicembre 2003.
179

CAPITOLO IV
PROFILI AMMINISTRATIVI DELLA LIBERA
CIRCOLAZIONE DEI BENI CON PARTICOLARE
RIFERIMENTO ALLE DOGANE

SOMMARIO: 1. La libertà di circolazione dei beni rectius: delle merci e l’unione doganale.

1. LA LIBERTÀ DI CIRCOLAZIONE DEI BENI RECTIUS: DELLE MERCI E L’U-


NIONE DOGANALE

La libertà di circolazione delle merci è sicuramente la libertà che più di


ogni altra ha avuto rapido sviluppo nell’ordinamento europeo; non a caso le
molteplici pronunce giurisprudenziali in materia, hanno implicato che tale
settore sia stato oggetto di un numero «maggior[e di] interventi rispetto alle
altre più fondamentali libertà con conseguente sopravvalutazione della sfe-
ra legata alla produzione alla vendita e al consumo rispetto alla sfera lega-
ta alla cittadinanza» 1.
Per la creazione del mercato comune la circolazione delle merci si è posta
come condicio sine qua non al fine di realizzare il mercato interno; d’altro
canto, presupposto indefettibile per l’attuazione della libertà di circolazione
delle merci, è rappresentato dall’eliminazione, all’interno del mercato unico,
di ogni barriera doganale nonché l’adozione di tariffe doganali e procedure
comuni nel rapporto tra l’Unione e i Paesi terzi 2.

1
L. TORCHIA, Il governo delle differenze, Il Mulino, 2006, p. 69 dove l’A. nella nota 32,
ben specifica che il dibattito in materia risulta in parte superato dopo l’approvazione della
Carta dei diritti dei cittadini europei. Si tenga conto che il volume Il governo delle differenze
dell’A., è del 2006 e pertanto taluni concetti espressi nello stesso, sono stati poi ripresi nel
Trattato di Lisbona.
2
La libera circolazione delle merci fra gli Stati membri dell’Unione costituisce uno
strumento essenziale per la realizzazione del mercato interno previsto dall’art. 3 TUE. I con-
tenuti del mercato interno sono definiti dall’art. 26 TFUE, che hanno sostituito le discipline
previste dal Trattato della Comunità economica europea.
180

L’unione doganale ha rappresentato fin dall’origine, un elemento ontolo-


gicamente antecedente alla creazione del mercato comune; così, i primi ri-
sultati risalgono al 1968 con l’abolizione dei dazi doganali e dei contingenti
nazionali che limitavano il commercio intra-comunitario. Va da sé che, tut-
tavia, il solo garantire l’unione doganale non fosse sufficiente ad assicurare
il raggiungimento degli obiettivi della Comunità. Così, a partire dal 1985, la
Commissione europea veniva ad avviare una rilevante azione programmati-
ca le cui linee guida sono riportate nel Libro Bianco sul completamento del
mercato interno del 14 giugno 1985 (COM/85/310). Voluto dall’allora Pre-
sidente della Commissione Jaques Delors, il Libro Bianco individua ben
279 misure necessarie da adottare, negli anni successivi, allo scopo di elimi-
nare i principali ostacoli che ancora permanevano alla completa realizzazio-
ne del mercato interno.
Elemento sintomatico è che nel Libro Bianco si viene a utilizzare la com-
binazione di diversi strumenti e tecniche, quali l’armonizzazione minima tra
le legislazioni, il mutuo riconoscimento, la determinazione di standard da
parte di enti specializzati e l’abolizione delle frontiere tecnico-fiscali. Suc-
cessivamente, con l’Atto Unico europeo, vengono ad essere delineate le li-
nee portanti del disegno avviato da Jacques Delors anche se il mercato in-
terno non è stato poi completato nei termini previsti dallo stesso ma il pro-
cesso d’integrazione e sviluppo è continuato con i Trattati di Maastrich, Am-
sterdam e Nizza, sempre percorrendo la strada dell’armonizzazione. Ciò ha
portato specificamente alla modifica dell’originario art. 95 CE, riformulato
in un primo momento in modo da consentire/limitare gli Stati al solo mante-
nimento di regole nazionali derogatorie già esistenti ma non di adottarne del-
le nuove; di conseguenza era riconosciuto alla Commissione il potere di ap-
provare o rigettare le misure nazionali che, in un qualche modo, interrom-
pessero l’opera di armonizzazione. Ecco perché gli studiosi del settore a
proposito del mercato interno e dell’unione doganale, sovente ricorrono al
concetto d’integrazione con metodo per così dire «graduale». Certo è che
l’obiettivo principale era la creazione di un’unione doganale attraverso
l’abolizione progressiva dei dazi e delle tasse d’effetto equivalente tra gli
Stati membri nonché l’adozione, anch’essa «graduale», di una tariffa doga-
nale comune nei confronti degli Stati terzi (artt. 13-17 TCE). Speculare a tali
obiettivi, era l’altrettanta «graduale» progressiva abolizione delle restrizioni
quantitative e delle misure equivalenti applicate alle importazioni o alle
esportazioni tra Stati membri 3.

3
Il Trattato di Amsterdam abrogò le disposizioni diventate obsolete per la scadenza dei
termini previsti, compiendo anche in tale settore un’opera di semplificazione secondo quanto
181

La disciplina prevista nel TFUE sulla libera circolazione delle merci è


oggi rappresentata da tre principali linee direttive che s’intersecano tra loro:
l’art. 28 e l’art. 29 TFUE, i quali ne definiscono gli ambiti d’applicazione;
gli artt. 30, 31, 32 TFUE (integrati dall’art. 110 TFUE) volti a disegnare le
regole in tema di unione doganale la cui disciplina rientra espressamente
nella competenza esclusiva dell’Unione europea; gli artt. 34 e 35 che dettano
le norme inerenti al divieto di restrizioni quantitative tra Stati membri. In
questo contesto occorre accennare alle restrizioni quantitative e alle c.d. mi-
sure di effetto equivalente: le restrizioni quantitative sono state definite co-
me misure aventi il carattere di proibizione, totale o parziale, sia riferite
all’importazione sia riferite al transito: tra gli esempi più significativi si pos-
sono annoverare le ipotesi di un divieto esplicito di un sistema contingenta-
to, ovvero le restrizioni quantitative applicabili qualora siano stati raggiunti
certi massimali d’importazione o d’esportazione. Per misure a effetto equi-
valente, ancora una volta occorre far riferimento alla Corte di giustizia, la
quale ha rilevato che ogni normativa commerciale degli Stati membri che
possa ostacolare direttamente o indirettamente, in atto o in potenza gli scam-
bi intercomunitari, va considerata come una misura a effetto equivalente a
restrizioni quantitative 4.
Si può quindi affermare che dopo il Trattato di Lisbona si ha il passaggio
dalla nozione di mercato comune a quella di mercato interno, termine col
quale è evidenziata la creazione di un’area commerciale di libero scambio
dotata di regole uniche, priva di restrizioni, come espressamente indicato nel
TFUE all’art. 4, punto a.
Tutto ciò ha richiesto l’armonizzazione delle varie legislazioni dei singo-
li Paesi membri poiché, solo attraverso questo meccanismo, si perviene a
sopprimere le barriere al commercio intracomunitario create dalle differen-
ze contenute nelle legislazioni degli Stati membri. Anche in questo settore,
merita di essere rammentato come la Corte di giustizia abbia affermato più
volte che talune delle sopra citate disposizioni della normativa dei trattati,
producono effetti diretti negli ordinamenti nazionali: non a caso i criteri
fondamentali per riconoscere efficacia diretta a una norma del trattato sono
stati inizialmente enunciati dalla giurisprudenza della Corte proprio con ri-

disposto dall’art. 6, I. L’abrogazione delle disposizioni obsolete non pregiudicò gli effetti
giuridici già prodotti da tali disposizioni e dagli atti in vigore adottati in base ad esse. Il Trat-
tato di Amsterdam confermò le norme che stabilivano i divieti di porre ostacoli alla libera
circolazione delle merci. Si rinvia a L. SBOLCI, La libera circolazione delle merci, in G.
STROZZI-R. MASTROIANNI (a cura di), Diritto dell’Unione europea, Parte istituzionale, VI
ed., Giappichelli, 2005, p. 5.
4
C-8/74, Dassonville, in Raccolta, 1974, p. 837.
182

ferimento alle disposizioni sulla libera circolazione delle merci. Nella sen-
tenza riguardante il caso Van Gend en Loos la Corte ha attribuito portata
generale e imperativa al divieto per gli Stati membri sia di introdurre nuovi
dazi doganali o tasse equivalenti che di aumentare quelli in vigore; la Corte
ha dichiarato che «il disposto dell’art. 12 pone un divieto chiaro e incondi-
zionato ... il divieto è per sua natura perfettamente atto a produrre diretta-
mente degli effetti sui rapporti giuridici intercorrenti fra gli Stati membri e
i loro amministrati» 5. Il concetto è ripreso nel caso Lütticke ove la Corte ha
riconosciuto che il divieto sancito dall’art. 95, comma 1, CEE (art. 110,
comma 1, TFUE) prevede un divieto generale alla creazione di tributi inter-
ni contrari alla libera circolazione delle merci, poiché detta disposizione
produce effetti diretti in quanto «costituente un obbligo preciso e incondi-
zionato» 6.
In numerose sentenze la Corte ha inoltre affermato l’efficacia diretta del-
l’art. 30 CEE (art. 28 TFUE) che vieta restrizioni quantitative all’importa-
zione 7 e dell’art. 37 CEE (art. 37 TFUE) che vieta qualsiasi discriminazione
fra cittadini degli Stati membri praticata per mezzo di monopoli nazionali
aventi carattere commerciale 8. La giurisprudenza della Corte di giustizia
non si è limitata a precisare gli effetti delle principali norme in tema di libera
circolazione delle merci, in verità, essa, ha contribuito alla ricostruzione del-
le fonti in materia: in particolare la Corte ha enunciato fondamentali principi
del diritto dell’Unione europea, come il principio del mutuo riconoscimento
che è stato decisivo per superare importanti ostacoli al libero commercio tra
gli Stati membri 9. A fronte di frequenti intralci tecnici derivanti dalle singo-
le legislazioni interne le stesse tendono a essere sbarramenti rispetto alla di-
sciplina contenuta negli artt. 34-35 TFUE, che, invece, ha gettato le basi del
principio generale della libera circolazione delle merci, pur non assurgendo
a essere gli unici parametri giuridici per valutare la compatibilità dei prov-
vedimenti nazionali con le norme del mercato interno. A ben vedere, tali ar-

5
Sentenza 5 febbraio 1963, Van Gend en Loos, C-26/62, in Raccolta, 3, e più recente-
mente sentenza 23 aprile 2002, Nygard, C-234/99, ivi, p. I-3657, punto 51.
6
Sentenza 16 giugno 1966, Lütticke, C-57/65, in Raccolta, 293, punto 1. La Corte di giu-
stizia ha affermato l’efficacia diretta anche dell’art. 95, par. 2, Trattato CEE (sentenza 4 apri-
le 1968, Hauptzollamt München, C-27/67, ivi, 327, passim).
7
Sentenza 29 novembre 1978, Redmond, C-83/78, in Raccolta, 2347, spec. punto 66;
sentenza 8 novembre 1979, Denkavit Futtermittel, C-251/78, ivi, 3369, punto 3.
8
Sentenza 3 febbraio 1976, Manghera, C-59/75, in Raccolta, 91, punti 16-17; sentenza
13 marzo 1979, Hansen, C-91/78, ivi, 935, punti 15-17.
9
Sulla giurisprudenza della Corte di giustizia, a proposito del principio del mutuo rico-
noscimento, vedi C-142/05. L. SBOLCI, op. cit., pp. 55 ss.
183

ticoli del trattato non si applicano se la libera circolazione di un dato prodot-


to è stata pienamente armonizzata da una norma europea derivata più speci-
fica e soprattutto se le specifiche tecniche di un dato prodotto o le sue condi-
zioni di vendita sono state armonizzate mediante direttive e regolamenti
adottati dall’Unione. In altri casi, come nell’ipotesi di norme del trattato ri-
levanti per il settore in esame, si veda l’art. 110 TFUE in materia fiscale che
può ostacolare il mercato interno: tali disposizioni infatti, (al momento) pre-
valgono su quelle generali contenute negli artt. 34 e 35.
Una legislazione di armonizzazione può essere intesa come conferma del
principio della libera circolazione delle merci, venendo peraltro a creare di-
ritti e doveri da osservare, in caso di prodotti specifici; da qui il fatto che oc-
corre far riferimento alle norme derivate. Tuttavia, qualora non vi sia ancora
stata un’armonizzazione, si possono sempre invocare gli artt. 34 e 35 TFUE;
detti articoli fungono da rete di certezza assicurando che qualsiasi ostacolo
agli scambi commerciali in seno al mercato interno, siano sottoposti ad un
esame di compatibilità con il diritto dell’Unione. Le uniche eccezioni sono
rappresentate dalle restrizioni giustificate in base ai motivi previsti dall’art.
36 TFUE (tutela della moralità pubblica e dell’ordine pubblico, tutela della
salute e della vita delle persone e degli animali o preservazione dei vegetali)
o in conformità a esigenze prioritarie di un interesse pubblico generale «pro-
porzionali», come statuisce la Corte di giustizia, allo scopo perseguito. Il
principio del reciproco riconoscimento nell’area non armonizzata, è discipli-
nato dal trattato e dalle relative eccezioni contenute nelle norme derivate: la
regola è il diritto di libertà di circolazione garantito dall’art. 34 TFUE, l’ec-
cezione afferisce, invece, alle fattispecie previste dalla seconda parte del-
l’art. 36 TFUE o dalle norme derivate.
A questi fini l’Unione, con Regolamento (CEE n. 764/2008), che ha
abrogato la precedente Decisione n. 3052/95/CEE, è venuta a stabilire l’ap-
plicazione di determinate regole tecniche nazionali in merito ai prodotti le-
galmente commercializzati in un altro Stato membro, onde evitare incertezze
giuridiche.
Come emerge da quanto fin qui detto, anche in questo settore è significa-
tiva la tendenza della Corte a svolgere una funzione d’integrazione del dirit-
to europeo; ciò come funzione inerente all’esercizio della propria libertà di
apprezzamento che assicura il rispetto dei principi giuridici comunitari nel-
l’interpretazione e nell’applicazione del trattato. A questi hanno fatto seguito
atti di diritto derivato volti a rendere possibile taluni passaggi di grande ri-
lievo a tutela della libera circolazione delle merci. Di conseguenza, al fine
d’instaurare un’unica tariffa doganale comune, sono stati emanati regola-
menti da parte delle istituzioni competenti in coerenza alle proposte conte-
184

nute nel Libro Bianco del 1985 sul completamento del mercato interno 10.
L’applicazione oggettiva della disciplina considerata è estesa, ciò in
quanto l’art. 28 TFUE, prevede che tale ambito abbracci «il complesso degli
scambi di merci». La Corte di giustizia ha precisato che per merci devono
intendersi «i prodotti pecuniariamente valutabili e come tali atti a costituire
oggetto di negozi commerciali» 11.
L’art. 34 TFUE, si applica negli scambi commerciali «tra Stati membri»
pertanto, perché trovi applicazione la normativa comunitaria, l’unico requi-
sito che deve essere soddisfatto è quello «transfrontaliero», il ché implica
che detta condizione sia accolta anche se un prodotto si limita a transitare in
uno degli Stati membri 12. Sotto questo profilo viene in rilievo anche la di-
sciplina contenuta nelle convenzioni internazionali di cui siano parti gli Stati
membri 13.

10
Gli effetti degli atti normativi derivati rispetto ai nuovi Stati membri che hanno aderito
all’Unione europea dal 1° maggio 2004, sono regolati dalla Parte terza dell’Atto relativo alle
condizioni di adesione. In senso analogo dispone la Parte terza dell’Atto relativo alle condi-
zioni di adesione di Bulgaria e Romania in vigore dal 1° gennaio 2007.
11
Sentenza 10 dicembre 1968, Commissione c. Italia, C-7/68, in Raccolta, 617, spec.
punto 1. A tal proposito vedi, tra gli altri, P. PESCATORE, Le commerce de l’art et le Marché
commun, in Rev. trim. dr. Eur. 1985, pp. 451 ss. Questa nozione di merci è stata confermata
anche dalla Corte di giustizia con la sentenza 21 ottobre 1999, Jägerskiöld, C-97/98, in Rac-
colta, pp. I-7319, punto 30. Dalla giurisprudenza della Corte di giustizia si ricavano, a tal
proposito, utili esemplificazioni; nell’ambito di applicazione della normativa sulla libera cir-
colazione delle merci, vanno compresi beni di varia natura: gli oggetti d’arte, ad esempio
devono essere considerati come merci, le monete non più in circolazione come valuta, rien-
trano parimenti nella definizione di merci così come i rifiuti che possono essere qualificati
come merci anche qualora non siano riciclabili ma oggetto di transazione commerciale. Sono
altresì considerati merci: nella sentenza 27 aprile 1994, Comune di Almelo, C-393/92, in
Raccolta, pp. I-1477, spec. punto 28, l’energia elettrica e il gas naturale; Sentenza 21 set-
tembre 1999, Läärä, C-124/97, Raccolta, pp. I-6067, punto 20, gli apparecchi per giochi
d’azzardo.
12
La Corte ha chiarito che la libera circolazione delle merci ha per conseguenza l’esistenza
di un principio generale di libertà di transito dei beni nell’ambito dell’Unione. C-320/03,
Commissione c. Austria, in Raccolta, 2005, pp. I-9871, punto 65.
13
Sui motivi che ammettono deroghe alla libera circolazione delle merci vedi infra, par.
12. si osservi come le norme di tali convenzioni potrebbero porre obblighi incompatibili con
quelle stabilite dall’Unione; rispetto a tali obblighi, bisogna distinguere se gli stessi nascono
da convenzioni anteriori all’adesione degli Stati membri all’Unione, nel qual caso prevale il
diritto europeo, in base al criterio di subordinazione previsto dall’art. 351 TFUE, perché la
loro osservanza può essere pretesa dagli Stati terzi, qualora siano parti di tali convenzioni
internazionali. L’osservanza degli obblighi incompatibili potrebbe invece trovare una sua
giustificazione solo nel caso in cui, detti obblighi, si pongano come deroghe alla libera circo-
lazione delle merci in base al TFUE.
185

In ogni caso alcune norme nazionali sono state ritenute estranee al campo
dell’applicazione dell’art. 34 TFUE, nell’ipotesi in cui il loro effetto restrit-
tivo sugli scambi degli Stati membri, sia del tutto aleatorio o indiretto, come
sostiene la giurisprudenza nella sentenza del 1990 nel caso di vendita ambu-
lante degli abbonamenti periodici 14.
Si può quindi pervenire all’osservazione che l’art. 34 TFUE, si applicherà
non solo ai provvedimenti nazionali che discriminano merci importate ma
anche a quelli che di diritto sembrano applicarsi in egual misura sia alle
merci nazionali sia importate ma che di fatto gravano maggiormente sulle
importazioni (l’onere specifico deriva dal fatto che le merci importate devo-
no conformarsi a due sistemi normativi: il primo disposto dallo Stato mem-
bro di produzione e l’altro dello Stato membro d’importazione). Tali norme
sono talvolta definite come «applicate senza discriminazione», come ha rile-
vato nella sentenza Commissione/Italia il giudice comunitario 15, il ché porta
all’osservazione, desumibile dalla Corte nelle cause Dassoville e successi-
vamente nella causa Cassis Dedijon, circa la non necessità della presenza di
alcun elemento discriminatorio affinché il provvedimento nazionale rientri
nell’ambito di applicazione dell’art. 34 TFUE.
I prodotti agricoli godono d’un regime speciale sulla libera circolazione
in quanto rientranti nel quadro della politica agricola dell’Unione, che pre-
vede organizzazioni comuni di mercato in determinati settori 16; solo nel-
l’ipotesi in cui i prodotti in esame non siano ricompresi nella politica agrico-
la europea, si ritiene che siano applicabili anche ad essi le regole generali
sulla libera circolazione delle merci 17.
Inoltre, una disciplina speciale è prevista dal TFUE anche per le armi, le
munizioni e il materiale bellico che figurano in un apposito elenco approvato

14
C-69/88 Kranz, in Raccolta, 1990, pp. I-583. Cfr. anche Causa C-20/03, Burnajer, in
Raccolta, 2005, pp. I-134.
15
C-110/05, Commissione c. Italia, in Raccolta, 2009, pp. I-519, punto 35.
16
Sentenza 5 ottobre 1977, Tedeschi, C-5/77, in Raccolta, 1555, spec. punto 32. Di con-
seguenza «le norme del Trattato relative alla politica agricola comune prevalgono, in caso
di divergenze, sulle altre norme relative all’instaurazione del mercato comune» (sentenza 28
novembre 1978, Redmond, C-83/78, ivi, 2347, punto 37.
17
Vedi le sentenze 20 aprile 1978, Sarl, C-80/77, in Raccolta, 927, spec. punto 19; 29
marzo 1979, Commissione c. Regno Unito, C-231/78, ivi, 1447, spec. punto 14. Le regole
sulla libera circolazione delle merci sono applicabili anche ai prodotti contemplati da
un’organizzazione comune di mercato ove le regole che istituiscono tale organizzazione non
dispongano espressamente la libera circolazione dei prodotti considerati; in tal senso la sen-
tenza 29 novembre 1978, Redmond, C-83/78, cit., spec. punto 55. Nello stesso senso, Oliver
Jarvis (assisted by), Free Movement of Goods in the European Community, London, 2003,
p. 418.
186

dal Consiglio: l’art. 346, par. 1, lett. b), consente a ciascun Stato membro di
porre limiti al loro commercio, qualora lo ritenga necessario per la tutela de-
gli interessi essenziali della propria sicurezza 18. Dal divieto del loro com-
mercio deriva ovviamente la disciplina speciale in materia di libera circola-
zione.
Gli artt. 28 e 29 TFUE, definiscono a loro volta, l’ambito di applicazione
dei divieti dei dazi doganali e delle restrizioni quantitative per quel che ri-
guarda l’origine delle merci; in tale ambito sono compresi sia i prodotti ori-
ginari degli Stati membri che quelli provenienti dai Paesi terzi, purché si
trovino in «libera pratica» in uno Stato membro, in altre parole siano stati
importati da un Paese terzo in osservanza delle relative disposizioni.
Sotto il profilo soggettivo, l’ambito d’applicazione della disciplina consi-
derata, comprende in primo luogo gli Stati membri, i quali sono i destinatari
degli obblighi e di conseguenza delle norme, essendo applicabili con riferi-
mento alle misure adottate da tutte le autorità degli Stati membri, senza di-
stinzione tra autorità del potere centrale e autorità locali ciò in quanto le mi-
sure adottate dalle amministrazioni locali sono sempre imputate al rispettivo
Stato.
Dal contenuto delle norme previste nel trattato in materia, si desume che
l’attuazione di questa libertà si realizza per mezzo dell’instaurazione dell’u-
nione doganale nonché dal divieto di restrizioni quantitative all’importa-
zione e all’esportazione 19. A tal proposito occorre ricordare che, per quanto
riguarda la circolazione delle merci, non si applica il principio de minimis
ovvero la possibilità di aggirare l’ostacolo previsto dai trattati per prodotti di
scarso rilievo o sul piano economico o per il numero limitato 20. A ben vede-
re l’obiettivo palese era e rimane quello di attuare l’unione doganale in con-
formità a quanto previsto, oggi, negli artt. 28-37 TFUE. In verità le norme
del TFUE e ancor prima del TCE in materia, hanno trovato un’immediata

18
L’elenco delle armi, munizioni e materiale bellico fu adottato con decisione del Consi-
glio 225/58 del 15 aprile 1958. In proposito, cfr. N. RONZITTI, Diritto internazionale dei
conflitti armati, Giappichelli, 2014, p. 273 ss. Si veda anche la Direttiva 2008/51/CE del 21
maggio 2008, relativa al controllo dell’acquisizione e della detenzione delle armi. La diretti-
va dispone misure di accompagnamento del mercato interno.
19
L’art. 23 TCE stabiliva che «La Comunità è fondata sopra un’unione doganale ...».
L’art. 28 TFUE dispone che «L’Unione comprende un’unione doganale ...». L’unione doga-
nale, già menzionata dall’art. 23, TCE, non può assumere più, per una modifica introdotta
dal Trattato di Lisbona, maggior rilievo rispetto al divieto di restrizioni quantitative19: en-
trambi sono in egual misura rilevanti per realizzare la libera circolazione delle merci tra Stati
membri.
20
C-67/97 Bluhme, in Raccolta, 1998, p. I-8033.
187

applicazione per effetto del costante indirizzo assunto dalla Corte di giusti-
zia europea, la quale è intervenuta ripetutamente in materia con pronunce
univoche volte a porre in essere una regolamentazione tesa alla effettività
del principio inerente la libertà di circolazione delle merci che sfocia nel-
l’unione doganale. Nonostante ciò, mancava un momento sistematico che
razionalizzasse l’intera materia; l’esigenza in parola ha fatto sì che fin dal
1992 si è dato vita a un Codice doganale quale corpo normativo che regola i
principali aspetti dell’attività doganale al quale devono attenersi gli Stati
membri. Tuttavia, detto Codice, è stato sottoposto a varie modifiche e revi-
sioni in coerenza coi cambiamenti giuridici intervenuti sia a livello comuni-
tario sia a livello internazionale, infatti si è reso necessario prevedere un
nuovo Codice entrato in vigore il 1° maggio 2016 21.
La redazione del nuovo Codice, rappresenta il punto di arrivo di un lungo
percorso normativo culminato nel Regolamento n. 952/2013, che istituisce il
Codice doganale dell’Unione con l’effetto di abrogare il Codice precedente.
Al considerando 9 si rende evidente l’obiettivo che s’intende realizzare:
«L’Unione si fonda sull’unione doganale. Nell’interesse sia degli operatori
economici sia delle autorità doganali dell’Unione, è opportuno riunire
l’attuale normativa doganale in un Codice. Partendo dal principio di un
mercato interno tale Codice dovrebbe contenere le norme e le procedure di
carattere generale che garantiscono l’applicazione delle misure tariffarie e
le altre misure di politica comune introdotte a livello dell’Unione in relazio-
ne agli scambi di merce […]». Nel merito occorre far riferimento all’art. 2
del Regolamento n. 952/2013 ove si prevede: «Alla Commissione è conferito
il potere di adottare atti delegati conformemente all’articolo 284 che speci-
fichino le disposizioni della normativa doganale e le relative semplificazioni
per quanto riguarda la dichiarazione in dogana, la prova della posizione
doganale, l’utilizzo del regime di transito interno unionale, fintantoché non
incide sulla corretta applicazione delle misure fiscali interessate, che si ap-
plicano agli scambi di merci unionali di cui all’articolo 1, paragrafo 3. Tali
atti possono riguardare situazioni particolari inerenti agli scambi di merci
unionali che interessano solo uno Stato membro». Col ché si desume che la

21
Il 1° maggio 2016 entrano in vigore il nuovo Codice Doganale dell’Unione (CDU) e le
relative disposizioni attuative (RE), integrative (RD) e transitorie (RDT). L’agenzia ha defi-
nito una specifica strategia e un piano d’implementazione per limitare gli impatti operativi e
adottare le misure atte a garantire agli operatori di poter implementare sia delle semplifica-
zioni previste dal complesso delle disposizioni del nuovo codice sia di quelle già adottate a
livello nazionale. Il suddetto piano di implementazione è stato poi condiviso con la platea
degli operatori nel corso della riunione del Tavolo tecnico ecustoms dell’8 marzo 2016.
188

fase esecutiva e di conseguenza gli atti di esecuzione sono ascrivibili ai po-


teri della Commissione.
Il nuovo Codice doganale previsto a livello europeo 22, si propone, quale
principale obiettivo, la semplificazione dell’intero sistema doganale, attuan-
do il meccanismo di digitalizzazione nel dialogo tra impresa e dogana, al fi-
ne sia di ridurre i tempi di sdoganamento delle merci sia di fornire all’utenza
esterna la tracciabilità dell’intero ciclo d’import/export e dello svolgimento
dei controlli connessi 23. Anche sotto questo profilo l’elemento innovativo,
insieme all’istituzione del programma Dogana 2020, si ripercuote non tanto
su un ambito di regolazione giuridica quanto su un ambito di regolazione
amministrativa, avendo come obiettivo quello di garantire procedure doga-
nali molto più snelle e con tempistiche più rapide a tutela dei consumatori
prevedendosi interventi avverso beni illegali o che non rispettano le regole
europee in materia di ambiente, sicurezza, salute. Non di meno, va posto
l’accento al fatto che, le disposizioni in parola sono volte a migliorare l’atti-
vità di cooperazione tra le varie amministrazioni tramite l’uso di nuovi stru-
menti informatici; concetti, questi, che nel programma Dogana 2020 vengo-
no ancor più accentuati sicché si può, oggi, parlare di una vera e propria do-
gana elettronica europea.
L’unione doganale dovrebbe perseguire le finalità che possono essere
ricavate indirettamente dai compiti affidati in proposito alla Commissione
europea, dall’art. 32 TFUE: tale norma, riflette tuttora l’ottica «gradualisti-
ca» introdotta dal Trattato di Amsterdam, ribadita nel TCE e nella normati-
va sulla semplificazione; tuttavia, essa consente d’individuare alcuni obiet-
tivi specifici: in particolare vengono in evidenza le disposizioni volte ad
accrescere la concorrenza nell’Unione europea, di promuovere gli scambi
commerciali tra Unione e Stati terzi, di assicurare lo sviluppo della produ-
zione e dei consumi 24.

22
Regolamento (UE) 9 ottobre 2013, n. 952. La contestuale evoluzione normativa e am-
ministrativa della materia doganale ha portato non solo a una prima redazione del Codice
doganale dell’Unione, ma merita di essere segnalato come il 1° maggio 2016, sono entrati in
vigore il nuovo Codice doganale dell’Unione (CDU) e le relative disposizioni attuative (RE),
integrative (RD) e transitorie (RDT). L’agenzia ha definito una specifica strategia e un piano
d’implementazione per limitare gli impatti operativi e adottare le misure atte a garantire agli
operatori di potere beneficiare sia delle semplificazioni previste dal complesso delle disposi-
zioni del nuovo codice sia di quelle già adottate a livello nazionale. Il suddetto piano di im-
plementazione è stato poi condiviso con la platea degli operatori nel corso della riunione del
Tavolo tecnico ecustoms dell’8 marzo 2016.
23
Si veda le sentenze della Corte giust., 3 luglio 2014, C-129/13, C-130/13.
24
L’unione doganale europea gestisce il 16% circa del commercio mondiale e ogni anno
189

Il divieto di dazi doganali all’importazione e all’esportazione e il divieto


di tasse equivalenti stabiliti dall’art. 30 TFUE, fa riferimento a tutti gli oneri
pecuniari denominati propriamente dazi doganali e riscossi da uno Stato
membro in ragione del passaggio di una merce attraverso una frontiera fra
Stati dell’Unione europea. Ai sensi dell’art. 30, ultima parte, sono vietati
«anche i dazi doganali di carattere fiscale»; ciò implica che il divieto è ge-
nerale e assoluto, a prescindere da qualsiasi considerazione circa lo scopo
protezionistico o tributario del dazio e circa la destinazione dei proventi 25. Il
divieto riguarda non solo i dazi imposti sul commercio tra Stati membri, ma
anche quelli eventualmente vigenti all’interno di tali Stati 26. L’art. 30, stabi-
lisce inoltre il divieto di applicare tasse a «effetto equivalente»; tale divieto
ha lo scopo di completare e rendere effettivo l’obbligo di non porre dazi: in-
fatti, l’obbligo potrebbe essere aggirato mediante l’imposizione di altri oneri
pecuniari sulle merci che varcano le frontiere tra gli Stati membri.
Ancora una volta occorre far riferimento alle decisioni assunte dalla Cor-
te di giustizia, secondo la quale il concetto di tassa equivalente va inteso
come «qualsiasi onere pecuniario imposto unilateralmente a prescindere
dalla sua denominazione e dalla sua struttura, che colpisca le merci in ra-
gione del fatto che esse varcano la frontiera» 27. Si deve trattare quindi di un
onere pecuniario che uno Stato impone di sua iniziativa sugli scambi di mer-
ci tra Stati membri: può essere strutturato come onere di entità minima 28,
imposto a favore di un ente diverso dallo Stato 29, percepito all’atto dell’at-
traversamento della frontiera o in altro momento 30; esempi significativi sono

controlla importazioni ed esportazioni per un valore complessivo di oltre 3.400 miliardi di


euro. Nel 2012 sono stati riscossi dazi doganali per un ammontare pari a 22 miliari di euro,
di questi ¾ sono stati trasferiti all’UE e hanno così contribuito al suo bilancio in una misura
pari al 13%.
25
Sentenza 1° luglio 1969, Sociaal Fonds Diamantarbeiders, C-2 e 3/69, in Raccolta,
211, spec. punti 13-14; sentenza 1 luglio 1969, Commissione c. Italia, C-24/68, ivi, 193,
spec. punto 7.
26
Sentenza 9 settembre 2004, Carbonati apuani Srl, C-72/03, in Raccolta, I-8027, punti
22-23.
27
Sentenza 25 gennaio 1977, Bauhuis, C-46/76, in Raccolta, 5, spec. punti 7-11; senten-
za 14 settembre 1995, Simitzi, C-485/93 e C-486/93, ivi, I-2655, spec. punto 15; sentenza 23
aprile 2002, Nygard, C-234/99, cit., punto 19; sentenza 21 giugno 2007, Commissione c. Ita-
lia, C-173/05, ivi, I-4917, punto 28.
28
Sentenza 1° luglio 1969, Sociaal Fonds Diamantarbeiders, C-2 e 3/69, cit., spec. punti
17-18.
29
Ibidem.
30
Sentenza 14 dicembre 1962, Commissione c. Lussemburgo e Belgio, C-2 e 3/62, in
Raccolta, 813, spec. punto 1.
190

gli oneri imposti per effettuare controlli sanitari su prodotti importati 31 o su


prodotti esportati 32 e la tassa sulle esportazioni di oggetti di interesse storico
e artistico 33.
Alcune tipologie di oneri pecuniari percepiti rispetto a merci importate
o esportate esulano dall’ambito di applicazione di tale divieto: vanno
esclusi, ad esempio, quegli oneri che costituiscono il corrispettivo di un
servizio effettivamente prestato, purché questo non sia obbligatorio 34 e gli
oneri siano proporzionati al servizio stesso 35. Devono essere considerati
esclusi anche tutti gli oneri riscossi per operazioni imposte da norme
dell’Unione: i relativi provvedimenti sono infatti disposti nell’interesse
generale e al fine di prevenire eventuali misure unilaterali da parte degli
Stati. Gli oneri pecuniari riscossi per tali operazioni non costituiscono tas-
se di effetto equivalente purché il loro importo non ecceda il costo effetti-
vo del servizio svolto 36. Infine, esulano dalla sfera del divieto stabilito
dall’art. 30 TFUE, gli oneri imposti da uno Stato membro nell’ambito del
regime generale di tributi interni applicabili sia alle merci nazionali che a
quelle importate dagli altri Stati membri. Tali oneri soggiacciono ai divieti
stabiliti dall’art. 110 del Trattato sul funzionamento dell’Unione euro-
pea 37.
Di conseguenza, il divieto dei dazi doganali e delle tasse di effetto equi-
valente ha contribuito a determinare la soppressione dei controlli fiscali sulle
merci in transito alle frontiere fra Stati membri 38.

31
Sentenza 15 dicembre 1976, Simmenthal, C-35/76, in Raccolta, 1871, spec. punto 42,
con richiami alla precedente giurisprudenza della Corte in materia. Si veda anche la succes-
siva sentenza 8 novembre 1979, Denkavit, C-251/78, in Raccolta, 3369, spec. punto 10. Su-
gli oneri riscossi dagli Stati per ragioni di controllo sanitario delle merci.
32
Sentenza 25 gennaio 1977, Bauhuis, C-46/76, cit., spec. punti 48-51; sentenza 15 apri-
le 1997, Deutsches Milch-Kontor, C-272/95, in Raccolta, I-1905, spec. punto 40.
33
Sentenza 10 dicembre 1968, Commissione c. Italia, C-7/68, loc. cit.
34
Sentenza 17 maggio 1983, Commissione c. Belgio, C-132/82, in Raccolta, 1649, spec.
punti 12-13.
35
Sentenza 25 gennaio 1977, Bauhuis, C-46/76, cit., spec. punti 7-11; sentenza 17 mag-
gio 1983, Commissione c. Belgio, C-132/82, spec., punto 8; sentenza 22 aprile 1999, CRT
France International, C-109/98, in Raccolta, I-2237, punto 17.
36
Sentenza 25 gennaio 1977, Bauhuis, C-46/76, cit., spec. punti 27-31; sentenza 22 apri-
le 1999, CRT France International, C-109/98, cit.
37
Sentenza 25 gennaio 1977, Bauhuis, C-46/76, cit., spec. punto 25.
38
Sulla soppressione dei controlli fiscali alle frontiere tra Stati membri vedi le considera-
zioni della Corte di giustizia nella sentenza 11 novembre 1997, Eurotunnel, C-408/95, in
Raccolta, pp. I-6315, passim, e le considerazione del Tribunale di I grado nella sentenza 29
gennaio 1998, Dubois c. Consiglio, C-T-113/96, ivi, pp. II-129.
191

L’esigenza di tali controlli è definitivamente venuta meno per effetto del-


la graduale armonizzazione delle legislazioni nazionali nel settore delle im-
poste indirette che in proposito stabilivano sistemi impositivi differenti 39.
L’abolizione dei controlli fiscali alle frontiere interne ha eliminato si-
gnificativi ostacoli agli scambi di merci tra Stati membri 40; infatti già nel
Libro Bianco del 1985 si erano inclusi detti controlli sia tra le «barriere
fiscali» 41 che tra le «barriere fisiche» 42 a completamento del mercato in-
terno. La loro scomparsa ha offerto un contributo rilevante a un’effettiva
libera circolazione delle merci agevolando anche la libera circolazione
delle persone, come mostra in modo rappresentativo il regime applicato
alle merci trasportate dai viaggiatori i quali possono introdurre in uno
Stato membro senza limiti e senza controlli i prodotti acquistati in un al-
tro Stato 43. Non a caso si è dato luogo alla creazione di un’agenzia delle
dogane, istituita nel 1999, in particolare l’agenzia è un’autorità a garan-
zia della piena osservanza della normativa comunitaria la quale esercita
attività di controllo, accertamento e verifica relative alla circolazione del-

39
Le disposizioni che riguardano l’armonizzazione delle legislazioni nazionali relative
alle imposte indirette sono adottate sulla base dell’art. 113 TFUE. A proposito dell’armo-
nizzazione in questa materia, si veda, tra gli altri, A. COMELLI, L’armonizzazione fiscale e lo
strumento della direttiva comunitaria in relazione al sistema dell’Iva, in Dir. e prat. trib.,
1998, pp. 1590 ss. C. ORTEGA, Uguaglianza e non discriminazione, in A. DI PIETRO (a cura
di), Per una costituzione fiscale europea, Cedam, 2008, pp. 128 ss.
40
Sull’abolizione dei controlli alle frontiere fra Stati membri a decorrere dal 1° gennaio
1993, vedi Commissione europea, La politica doganale dell’Unione europea, Lussemburgo,
Ufficio delle pubblicazioni ufficiali delle Comunità europee, 1999, p. 9.
41
COMMISSIONE DELLE COMUNITÀ EUROPEE, Il completamento del mercato interno. Li-
bro Bianco, cit., p. 40 ss. Vedi anche A. MATTERA RICIGLIANO, Les barrières frontalières à
l’intérieur de la CEE et l’action menée par la Commission pour leur démantelement, in Rev.
marché com., 1987, p. 264 ss. Il Libro Bianco sul «completamento del mercato interno»,
presentato al Consiglio europeo di Milano nel 1985, auspicò l’accordo degli Stati membri
«sull’abolizione delle barriere di qualsiasi natura, sull’armonizzazione delle norme, sul rav-
vicinamento delle legislazioni e delle strutture fiscali, sul rafforzamento della cooperazione
monetaria e sulle misure di accompagnamento necessarie per indurre le imprese europee a
collaborare». I provvedimenti, da assumere entro il 1992, prevedevano l’eliminazione delle
barriere fisiche (controlli alle frontiere intracomunitarie), l’eliminazione delle barriere tecni-
che (le diverse norme che gli Stati membri adottano per i singoli prodotti), l’eliminazione
delle barriere fiscali (diversità nazionali nell’impostazione indiretta).
42
Ivi, p. 8 ss.
43
Il sistema delle franchigie basato su limiti di valore e di quantità delle merci, istituito
con la Direttiva 69/169/CEE, Consiglio del 28 maggio 1969 (in GUCE, L 133 del 4 giugno
1969) è stato soppresso dall’art. 23, par. 4, della Direttiva 92/12/ CEE, Consiglio del 25 feb-
braio 1992 (in GUCE, 23 marzo 1992, n. L. 76).
192

le merci e alla fiscalità interna connessa agli scambi internazionali.


L’ammissione affidata all’agenzia è caratterizzata da una particolare
complessità, ma ciò che è rilevante è la compartecipazione dell’Unione e
delle amministrazioni nazionali alla mission a essa attribuita.
Le imposte indirette su questi prodotti sono pagate nello Stato di acqui-
sto, purché essi siano destinati esclusivamente a uso personale 44 e non al
commercio 45. Per affermare che i prodotti sono destinati a scopi commercia-
li, gli Stati membri devono tener conto di alcuni elementi definiti dall’Unio-
ne tra cui lo status commerciale del detentore, la natura e la quantità dei
prodotti 46. In ragione di questo regime, i viaggiatori che si trasferiscono da
uno Stato membro a un altro utilizzando un trasporto aereo o marittimo non
hanno più il diritto di avvalersi dei vantaggi fiscali offerti dagli speciali pun-
ti di vendita esenti da imposte 47.
Seguendo l’impostazione del presente lavoro, merita di essere segnalato
come, nell’ambito dell’attuazione della normativa doganale, ci si trovi di
fronte a un tipico esempio di amministrazione indiretta, anche se in alcuni
casi spetta allo Stato membro svolgere un intero procedimento e adottare la
decisione finale, invece, in altri casi, compete agli Stati membri la sola ge-
stione del sub procedimento o la fase del procedimento complesso. Il vero è
che, la disciplina del singolo procedimento è dettata prevalentemente dalla
normativa europea che ne disciplina le fasi e i tempi, «sia per quanto ri-
guarda le fasi di responsabilità degli Stati membri, sia per quanto riguarda
le fasi presupposte che si svolgono presso le istituzioni europee» 48.

44
Tuttavia, per l’acquisto di mezzi di trasporto nuovi, l’imposta indiretta deve essere cor-
risposta nello Stato d’immatricolazione per effetto di quanto disposto dall’art. 28 bis della
Direttiva 91/680/CEE, Consiglio del 16 dicembre 1991 (in GUCE, 31 dicembre 1991, n. L
376).
45
In caso di uso commerciale delle merci, l’imposta deve essere corrisposta nello Stato
in cui si trovano i prodotti ed è esigibile nei confronti di chi li detiene; in tal senso dispone
l’art. 9, par. 1, Direttiva 92/12/CEE, cit.
46
Vedi l’art. 9, par. 2, Direttiva 92/12/CEE, cit. Qualora si tratti di prodotti a base di ta-
bacco e di bevande alcoliche, gli Stati possono stabilire, come elemento di prova, livelli in-
dicativi dell’uso commerciale: si osservi che, tali livelli non possono essere inferiori a de-
terminate quantità; di conseguenza si può ammettere che per le quantità che si mantengono
entro detti livelli, il diritto dell’Unione stabilisce una presunzione del loro uso personale.
47
Gli acquisti presso i duty-free shops negli aeroporti, sugli aerei, sui traghetti e nella
zona di uno dei due terminali d’accesso al tunnel sotto la Manica da parte dei viaggiatori che
si recavano da uno Stato membro a un altro erano ammessi fino al 30 giugno 1999. In tal
senso hanno disposto l’art. 28 duodecies della Direttiva 91/680/CEE, cit., e l’art. 28 della
Direttiva 92/12/CEE, cit.
48
L. DE LUCIA-B. MARCHETTI (a cura di), L’amministrazione europea e le sue regole, Il
Mulino, 2015, p. 156.
193

Il Codice disciplina in modo analitico il procedimento, i tempi, il con-


traddittorio, quasi a ripercorrere le tappe salienti di quello che nel nostro or-
dinamento è definito procedimento amministrativo. D’altro canto si deve
considerare che, la forma di amministrazione qui considerata, lascia alle
amministrazioni nazionali margini d’autonomia solo nell’attuazione delle
norme delle politiche europee, là dove non vi siano specifiche previsioni da
parte dell’Unione. Quanto all’atto conclusivo del procedimento, questo se-
guirà di norma il regime proprio dell’ordinamento dello Stato membro nel
quale è adottato. In alcuni casi l’ordinamento europeo stabilisce espressa-
mente che il provvedimento emanato in uno Stato membro, sia efficace in
tutto il territorio dell’Unione, ciò al fine di rendere più agevole, l’esercizio
di alcune libertà fondamentali nel mercato interno e la libera circolazione
delle merci è una di queste.
Da un punto di vista amministrativo è indicativo, proprio in riferimento
alle dogane, come sul punto si siano sviluppati sistemi di «coamministrazio-
ne», volti a rendere compartecipi sia gli Stati nazionali sia gli organismi co-
munitari sulla vigilanza rectius: la corretta applicazione della normativa co-
munitaria. Non va dimenticato che la politica doganale rientra tra le materie
proprie esclusive dell’Unione; per tale motivo la gestione dell’unione doga-
nale si basa su una stretta collaborazione fra l’Unione e gli Stati membri. La
Commissione europea adotta la legislazione doganale e ne controlla l’at-
tuazione; la concreta applicazione della funzione legislativa ovvero quella
che viene definita funzione amministrativa, si divide tra Stati membri e
Unione, secondo quel disegno di coamministrazione di cui si è già parlato.
194
195

RIFLESSIONI CONCLUSIVE

Come si diceva nell’introduzione non si ha la pretesa di proporre solu-


zioni innovative per ciò che attiene il diritto amministrativo europeo ma, ad
avviso di chi scrive, la ricostruzione dei moduli di esecuzione nel quadro
delle libertà economiche è già di per sé una conferma della direttrice che ci
si avvia a percorrere ovvero il raggiungimento di una profonda trasforma-
zione dell’Unione europea proprio per ciò che attiene la funzione ammini-
strativa 1; tale connessione trova conferma nell’osservazione che «speculare
alla centralità, nel progetto europeo della costruzione del mercato comune,
un primo e più evidente ambito di impatto è quello che concerne l’attività
dell’amministrazione che si traduce nello svolgimento di attività economi-
che» 2.
Nel quadro dell’«amministrazione europea» non è possibile ancora trarre
delle specifiche conclusioni in prospettiva, tuttavia, sicuramente la fase ese-
cutiva, come attesta il ruolo dei comitati e delle agenzie, per quanto in parte
messe in ombra dalla fase di «costituzionalizzazione» dell’Unione, porta a
ipotizzare con un certo grado di convincimento, un sempre maggiore ruolo
amministrativo europeo, dovuto all’espandersi delle competenze dell’Unio-
ne in materie che hanno richiesto un approccio essenziale della fase di ese-
cuzione.
Il vero è che, il diritto amministrativo ha sempre più assunto un’impronta
europeistica, quant’anche le amministrazioni degli Stati membri s’ispirino a
modelli che dipendono sostanzialmente dalla propria storia interna; pur tut-

1
Si osservi come M. Chiti, ha sostenuto nei suoi lavori come l’integrazione europea sia
nata sotto l’egida del diritto amministrativo; sotto questo profilo basti pensare alla CECA, il
cui nucleo fondante era essenzialmente amministrativo, sia pure elementi amministrativi di
carattere internazionale. La configurazione amministrativa del processo integrativo, attraver-
so l’interesse della scienza giuridica, attiene quindi ai profili concernenti la natura giuridica
degli organi sovranazionali che richiamano peraltro il dibattito sulla natura giuridica del-
l’Unione.
2
S. TORRICELLI, L’europeizzazione del diritto amministrativo italiano, in L. DE LUCIA,
B. MARCHETTI (a cura di), L’amministrazione europea e le sue regole, Il Mulino, 2015, p.
257.
196

tavia, non si può non tener conto del condizionamento che l’applicazione del
diritto comunitario, viene sempre più ad avere sugli apparati amministrativi,
anche attraverso una diffusione dei principi che l’Unione, nel suo insieme,
ha imposto a livello culturale.
Ciò porta ad osservare come, nella fase esecutiva, si assista ad una «legit-
timazione dell’Unione per risultati» 3, attraverso organismi comuni dotati di
un alto grado d’indipendenza e che risultano condizionare gli obiettivi cui
gli Stati membri devono tendere. D’altra parte, gli stessi Stati membri, par-
tecipano a questi «organismi comuni» il ché porta ad affermare che, i rap-
presentanti delle amministrazioni nazionali (vedi comitati, vedi agenzie ecc.)
già a monte, sono chiamati ad esprimere o almeno a rapportarsi con le esi-
genze degli altri Stati e dell’Unione, sia pure nel prevalente interesse comu-
nitario.
La base di una siffatta impostazione, la si rinviene negli atti fondanti del-
l’Unione europea: si legga il TFUE, ove nell’art. 298, si prevede che «nel-
l’assolvere i loro compiti le istituzioni organi e organismi dell’Unione si ba-
sano sull’amministrazione europea, aperta efficiente e indipendente». Si
tratta quindi di riconoscere che a fronte della omogenizzazione legislativa,
anzi soprattutto nelle materie in cui vi sia stato un intervento legislativo rei-
terato da parte dell’Unione (direttive di prima, seconda, terza generazione)
l’applicazione della legislazione derivata richiede, nella fase esecutiva, prin-
cipi comuni e misure «equivalenti» a cui si devono attenere gli apparati ese-
cutivi degli Stati membri.
Dalla lettura della norma del trattato è possibile desumere una nuova vi-
sione dell’«amministrazione indiretta» che porta anch’essa ad una diversa
integrazione fra gli Stati membri ma anche un’evoluzione di tutte le altre
forme che si possono definire «di federalismo di esecuzione» a favore di
un’«amministrazione comune»: amministrazione comune che trova anch’es-
sa fondamento nel trattato lì dove, le disposizioni contenute nell’art. 106 e
sviluppate nell’art. 107 TFUE, pongono a regime l’attuazione effettiva del
diritto dell’Unione da parte degli Stati e tale attuazione è ascrivibile ad
obiettivi comuni/condivisi, come si desume dall’art. 197, comma 1, TFUE.
L’esempio più significativo di tale direttrice, trova riscontro nella Carta dei
Diritti Fondamentali dell’Unione, lì dove all’art. 4, si parla di una «buona
amministrazione» applicabile a tutti gli Stati membri.
Il principio d’amministrazione comune s’impone oggi in tutta la sua rile-
vanza attraverso proprio la fase esecutiva che garantisce, o almeno dovrebbe

3
M.P. CHITI, La legittimazione per risultati dell’Unione europea quale “Comunità di di-
ritto amministrativo”, in Riv. it. pubbl. comunit., pp. 397 ss.
197

garantire, non solo i risultati a cui gli atti dell’Unione tendono ma altresì
l’adozione di modelli esecutivi comuni che s’impongono o modellano quelli
nazionali anche per motivi culturali.
A smentire tale via non rileva il riproporsi delle tesi sul deficit democrati-
co di cui soffrirebbe l’apparato europeo in quanto, la qualificazione della
stessa come «comunità di diritto», costituisce uno dei maggiori progressi
della giurisprudenza della Corte di giustizia che ha dato luogo a quel feno-
meno che gli studiosi della materia chiamano «costituzionalizzazione del-
l’Unione» e che, ad avviso di chi scrive, trattasi di un’evoluzione irreversibile.
La Corte di giustizia ha, peraltro, considerato le norme procedurali come
parte dei principi generali e, queste norme, vengono a vincolare gli Stati
membri quando agiscono nell’ambito del diritto europeo.
A ben vedere si sono sviluppati, come si è già detto nel testo, principi
dello stato di diritto quale il principio di legalità, il principio di uguaglianza,
il principio dell’indipendenza giurisdizionale, che portano a ridimensionare
la critica della carenza della legittimazione democratica dell’Unione; tant’è
che, nella sentenza Van Gend & Loos, 5 febbraio 1963 (C-26/62), si defini-
sce la Comunità quale ordinamento giuridico di nuovo genere a favore del
quale, gli Stati membri, hanno rinunziato anche se in settori delimitati, ai lo-
ro poteri sovrani. Detto ordinamento riconosce come soggetti non soltanto
gli Stati membri ma altresì i loro cittadini legittimando la giustiziabilità degli
atti a garanzia delle tutele ad essi accordate; tutto ciò comporta che i valori
dello stato di diritto, la tutela dei diritti fondamentali, le iniziative che hanno
portato all’elezione diretta del Parlamento, vengano a delineare un quadro
giuridico-istituzionale diverso in merito alla legittimazione democratica del-
l’Unione. Per questa via ne consegue la legittimazione amministrativa del-
l’Unione attraverso moduli di esecuzione comuni che, soprattutto nelle liber-
tà economiche, trovano figure sintomatiche: ne sono esempio i poteri ammi-
nistrativi in via diretta, quali quelli sanzionatori e ispettivi in materia di con-
correnza o quelli decisionali di alcune agenzie europee o i poteri ammini-
strativi assunti in collaborazione con le amministrazioni statali attraverso or-
gani o procedure composite che vengono ad incidere, restringendole o am-
pliandole, le libertà individuali.
È ben noto che l’amministrazione europea non si presenta in modo linea-
re in quanto, ad avviso di chi scrive e nonostante tesi opposte, maggiore è
l’uniformità legislativa maggiore è l’uniformità amministrativa il ché porta
al dato che non sia più accoglibile il principio che «l’Unione fa le leggi e gli
Stati membri le eseguono».
Pur essendo incontestabile che in alcune materie è determinante il ruolo
della Commissione europea e agli Stati membri non residuano spazi se non
198

limitatamente all’applicazione delle decisioni assunte dalla stessa, si deve


prendere atto come già le agenzie europee e l’organizzazione di reti siano
sintomi inconfutabili dell’emergere di un’amministrazione parallela o con-
testuale rispetto agli Stati, amministrazione oggi ancora a «geometrie varia-
bili» a secondo delle libertà di cui si parla. Se si riconosce l’esistenza di
un’amministrazione europea sempre più incisiva e coinvolgente gli Stati
membri, va da sé che, anche grazie alle sentenze della Corte di giustizia, si
delinea un diritto amministrativo europeo che contiene principi e garanzie
validi in tutto il territorio europeo, con particolare riferimento alla prote-
zione dei diritti fondamentali di cui sono portatori i cittadini. Ne è confer-
ma il fatto che nella sentenza Höchst 4 la Corte di giustizia ha imposto
all’amministrazione comunitaria di riconoscere agli interessati le garanzie
procedimentali riconducibili al diritto di difesa affermando altresì il prin-
cipio di legalità, quale principio generale del diritto comunitario, volto alla
protezione nei confronti dei cittadini avverso interventi pubblici arbitrari e
sproporzionati richiedendo che «… gli interventi dei pubblici poteri nella
sfera di attività privata di ogni persona, sia fisica che giuridica, devono
essere fondati sulla legge e devono essere giustificati da motivi contempla-
ti dalla legge».
Così, procedimenti e regole tipo, fanno ormai parte del tessuto europeo,
proprio in funzione esecutiva.
Com’è stato osservato 5, le vigenti regole procedurali di diritto ammini-
strativo europeo, derivano dalle sentenze giurisprudenziali nonché dalle le-
gislazioni settoriali che richiedono regole comuni ma, da tali impulsi, sono
emersi poi principi amministrativi di carattere comune, quali la partecipa-
zione ai procedimenti e il principio della trasparenza. Si è ben consci che lo
stesso principio di partecipazione al procedimento presenta sfumature diver-
se sia rispetto all’esperienza nazionale sia rispetto a talune materie, tant’è
che si può dire che il diritto di essere sentiti ha funzione di garanzia di tutela
delle situazioni giuridiche soggettive, proprio nell’ipotesi in cui il procedi-
mento può concludersi con esiti negativi per il destinatario. Altre volte, il
principio di partecipazione, fa sì che l’intervento del privato assuma la va-
lenza di collaborazione ma, tale ipotesi, si presenta quasi residuale.
Per ciò che attiene la trasparenza, il diritto di accesso ai documenti è ri-
conosciuto ai cittadini europei che risiedono al suo interno e a ogni persona

4
Sentenze C-46/87 e C 227/88.
5
P. CRAIG, Sfide sostanziali e procedurali del diritto amministrativo europeo, in L. DE
LUCIA-B. MARCHETTI (a cura di), L’amministrazione europea e le sue regole, cit., p. 299.
199

giuridica con sede sociale in uno Stato membro 6. Come in molti degli ordi-
namenti interni, l’accesso può essere negato quando possa nuocere a interes-
si pubblici o privati, quali la sicurezza, la difesa, la politica finanziaria, mo-
netaria o economica, ma si tratta di eccezioni rispetto alla regola generale.
Quindi, non solo l’Unione si è dotata di proprie strutture amministrative
ma sono emersi principi propri e comuni agli Stati membri di procedimenti
amministrativi, ancora in fieri e ancora in una fase embrionale, si pensi al-
l’obbligo di motivazione che sovente manca nel procedimento amministrativo.
Pur tuttavia, questi due aspetti, quello organizzativo e l’omogenizzazione
di taluni principi procedurali, sono la testimonianza più evidente dell’esi-
stenza oggi, e in prospettiva dell’evoluzione, del diritto amministrativo eu-
ropeo.

6
Non va peraltro dimenticato che, in base al Regolamento n. 1049/2001, il diritto di ac-
cesso è riconosciuto anche alle persone fisiche che non risiedono nell’Unione e che non ab-
biano la propria sede sociale in uno Stato dell’Unione.
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Finito di stampare nel mese di giugno 2018


nella Stampatre s.r.l. di Torino
Via Bologna, 220
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