Giudicante: TRIBUNALE DI VENEZIA; sentenza, 02-11-2001
Magistrati: Pres. Salvarani, Est. Salvarani, Manduzio, Liguori Parti e avvocati: imp. Cefis e altri.
TRIBUNALE DI VENEZIA; sentenza, 02-11-2001
(Omissis). — La causalità. Secondo il codice vigente in tanto sussiste il rapporto causale in quanto la condotta (azione o omissione) sia condizione necessaria dell’evento. Il modello deterministico del nostro codice, emanato in epoca preindustriale, ha subìto le tensioni e le torsioni derivanti dai problemi che nei decenni recenti gli venivano posti dall’industrializzazione, dall’evoluzione tecnologica e scientifica, dalla produzione di sostanze pericolose. La produzione di sostanze pericolose, nell’ambito di un rischio consentito (che viene a individuare e a regolare un bilanciamento tra l’utilità sociale di una determinata attività e il livello di rischio ad essa connessa) o di un rischio sconosciuto, ha più generalmente messo in crisi le tradizionali categorie giuridiche relative alla responsabilità penale colposa di chi è tenuto a controllare, contrastare, circoscrivere gli effetti nocivi alla salute. È emersa in tutta la sua evidenza la difficoltà di applicare ai nuovi pericoli connotati da ampia diffusività e da genesi causale complessa o ignota non solo le regole elaborate per imputare eventi lesivi di struttura più semplice e riconducibili a singole azioni individuali, ma altresì la stessa nozione di colpa. Colpa che, ove non consista in violazione di norme cautelari specifiche, deve avere riferimento al livello di conoscenze acquisito dalla comunità in un dato momento storico e in un determinato ambiente (c.d. criterio dell’agente modello) ai fini di individuare e di specificare la misura della diligenza richiedibile sulla base di standard di sicurezza generalmente acquisiti e praticati per evitare gli effetti dannosi. Nell’ambito del reato colposo d’evento il profilo attualmente più controverso della responsabilità colposa è quello della causalità, sotto il duplice profilo della sua definizione concettuale e del suo accertamento. Il modello condizionalistico, tradizionalmente legato alle leggi universali che sono in grado di affermare che la verificazione di un evento è invariabilmente accompagnata dalla verificazione di altro evento, ha subìto interventi correttivi da parte della giurisprudenza che lo ha ritenuto inadeguato a offrire spiegazioni causali laddove non sussista una legge di copertura universale, ma, piuttosto, leggi scientifiche anche di carattere probabilistico-statistico, che sono in grado di spiegare l’esistenza del rapporto di condizionamento non invariabilmente e necessariamente, ma solo in una certa percentuale di casi, e, quindi, non in termini di piena certezza, ma in termini di probabilità. Il ricorso alle leggi statistiche e/o scientifiche/probabilistiche ha posto innanzitutto il problema se esse siano compatibili con il modello deterministico-condizionalistico del nostro ordinamento penale e, in ipotesi affermativa, a quali condizioni ed entro quali limiti. Si è infatti affermato con forza che le esigenze di certezze e garanzia, il rispetto dei principî di legalità e di personalità della responsabilità penale, di rango costituzionale, devono essere soddisfatti mediante il mantenimento di un rigoroso modello causale, ove il rapporto di condizionamento sia spiegato o da leggi universali o da leggi di copertura scientifico-statistiche che siano in grado di spiegarlo con un grado di certezza elevato e, al tempo stesso, si possa razionalmente escludere che l’evento si sia verificato nel caso concreto per cause esclusive diverse dalla condotta dell’agente. Queste esigenze espresse dalla migliore dottrina e dalla giurisprudenza della Suprema corte più recente, a fronte di decisioni, affermatesi in origine nel campo della colpa medica ed estesesi nell’ambito della responsabilità dell’imprenditore per infortuni sul lavoro e malattie professionali, che tendevano ad appagarsi di un basso grado di probabilità nella ricostruzione del nesso causale, così da erodere la struttura tipica del reato di evento, hanno provocato reazioni anche a livello di elaborazione legislativa. La commissione Grosso, nella relazione al progetto preliminare di riforma del codice penale — parte generale — «ha preso atto con preoccupazione che la causalità e, in particolare, il modello nomologico-deduttivo (integrato dal rinvio alle leggi di copertura) sta attraversando una fase critica. Vi sono infatti materie in cui l’erosione da parte della giurisprudenza di tale paradigma causale appare evidente e con riferimento alle quali tende ad affermarsi una ricostruzione della causalità ancorata a fattori di tipo prognostico-probabilistico, se non addirittura consistenti nella rilevazione del rischio o dell’aumento del rischio connesso all’esercizio di una determinata attività». Settori tra i quali, oltre all’attività medica e alle alterazioni ambientali, si annovera anche «la fenomenologia del danno da prodotto nei cui confronti è ricorrente l’impossibilità di identificare con certezza, o anche soltanto con una elevata probabilità, quale sia stato il fattore produttivo del nocumento». È pur vero — continua la relazione — che «nella società moderna una flessibilità applicativa delle norme sulla causalità consente di raggiungere livelli di intervento penali altrimenti impensabili in ragione della difficoltà della prova, ma il costo di scelte di questo tipo è elevato sul terreno della salvaguardia del principio di legalità e di tipicità delle fonti di responsabilità penale, rischiando di offuscare il principio della personalità della responsabilità penale. Mentre la causalità ricostruita con ricorso a leggi di copertura ancorata al metodo dell’accertamento nomologico- deduttivo svolge una importante funzione delimitativa della punibilità, consentendo di selezionare nell’ambito della fattispecie causalmente orientata le condotte tipiche, il superamento di questo modello allarga la sfera di applicabilità del precetto, attraendo nella sua orbita anche eventi che non possono essere ritenuti, dal punto di vista logico-scientifico, conseguenza della condotta». Si deve osservare in proposito che è ben vero che queste tendenze si sono manifestate con riguardo a materie in cui sono in gioco esigenze di tutela di beni fondamentali quali la salute e la vita umana, ma ci si deve chiedere se queste specifiche esigenze di giustizia possano condizionare una corretta ermeneutica del nesso causale, che deve fondarsi su parametri logico-scientifici oggettivi. Infatti perseguendo questa strada dominata dal criterio probabilistico di grado difficilmente determinabile ancorché qualificato «alto» o «elevato» si incorre nel pericolo di introdurre nell’accertamento della sussistenza del nesso causale un libero convincimento del giudice, sia pur nobilitato dallo scopo di soddisfare esigenze ed attese di giustizia, che viene a sopperire la mancanza di certezze scientifiche o comunque di consenso generalizzato nella comunità scientifica. La causalità, essendo necessaria una spiegazione oggettiva dell’accadimento dell’evento, non può che essere affidata, oltre che a leggi universali, a leggi scientifiche di copertura anche statistiche, ma in grado di spiegare un rapporto di regolarità tra determinati eventi con un elevato grado di frequenza e comunque sempre corroborati da elementi circostanziali oppure da ulteriori dati desumibili da apporti di altre scienze che siano tra loro coerenti nel contesto considerato. Questa premessa era necessaria perché nel processo che ci occupa vi è stata l’insistita tendenza a sostituire il modello classico di causalità con la causalità generale, intesa come idoneità della sostanza chimica a produrre certi tipi di evento, oltre tutto senza preoccuparsi di verificare tutti gli apporti scientifici e forzando i passaggi con ipotesi di default o presunzioni o assimilazioni e, soprattutto, trascurando di verificare l’effettiva incidenza della sostanza sul singolo caso. Impostazione che non può trovare consenso posto che, in via di principio, la causalità generale non può essere ritenuta di per sé sufficiente a spiegare il nesso causale tra la malattia che ha colpito il singolo soggetto e l’idoneità della sostanza a causarla. Tra gli stessi epidemiologi vi è largo consenso nel ritenere che i loro studi, che riguardano popolazioni generali e si propongono scopi preventivi di tutela della salute pubblica, non sono in grado di spiegare la causalità specifica e cioè di attribuire i singoli eventi lesivi a singoli comportamenti. Anche perché gli studi epidemiologici non si basano su un censimento di casi provatamente causati dall’esposizione a sostanze tossiche (soprattutto quando la pluralità dei casi dipende da una pluralità di fattori eziologici), ma solo di differenze tra i casi osservati e i casi attesi: in tale ambito la causalità generale ha un significato ancor più circoscritto nei confini di tale scienza e indica più propriamente un eccesso di rischio senza costituire in sé una prova dell’idoneità della sostanza a provocare la malattia. È per questa ragione che non c’è alcuna possibilità di distinguere tra i casi esposti chi non si sarebbe ammalato in assenza di esposizione e chi invece si sarebbe ammalato egualmente. Infatti, salvo rari casi (tra cui rientra oltre che il mesotelioma da asbesto, l’angiosarcoma per esposizione a cvm) le neoplasie professionali non hanno carattere di specificità e non sono distinguibili neppure istologicamente sotto il profilo morfologico da quelle extraprofessionali; inoltre, data la natura multifattoriale delle neoplasie è impossibile, salvo casi eccezionali per l’appunto, attribuire il singolo caso di tumore a una singola esposizione. L’incertezza domina sul caso singolo proprio perché la quasi generalità dei tumori ha cause in elevatissima percentuale extraprofessionali ignote e gli scienziati non hanno ancora compreso appieno il modello molecolare nella carcinogenesi e formulano pertanto ipotesi per cui qualsiasi dichiarazione riguardo al ruolo di qualsivoglia agente in quanto cancerogeno trova un limite nella sua ipoteticità. In termini generali appare opportuno sgomberare il campo dalla falsa credenza che la maggior parte dei tumori sia dovuta all’uso o all’esposizione diretta a sostanze chimiche prodotte nell’industria: eminenti epidemiologi (Peto e Doll e altresì un’agenzia come l’Epa) hanno messo in rilievo che solo una piccolissima parte è in realtà ricollegabile all’attività industriale (il quattro per cento secondo i primi e dall’uno al tre per cento secondo l’agenzia) mentre la percentuale residua è dovuta a cause diverse, cioè all’esposizione a inquinanti diffusi nell’ambiente o all’ingestione di inquinanti che passano nella catena alimentare il cui uso è normalmente consentito. Alcuni esempi: negli Usa è stato calcolato che il quarantacinque per cento dell’esposizione al benzene (noto cancerogeno) è dovuta al fumo, il trentasei per cento all’inalazione di vapori di benzina, il sedici per cento a fonti domestiche (colle, vernici); nel caso di malattie e tumori per esposizioni ad amianto (cancerogeno a basse dosi, la cui produzione è stata abolita) in considerazione della molteplicità dei suoi usi e dell’ampia diffusione nell’ambiente una percentuale non irrilevante colpisce anche la popolazione generale. Negli stessi studi epidemiologici cui si è fatto riferimento in questo processo è stato rilevato per lo più un maggior numero di tumori per tutte le cause nella popolazione generale che non tra gli esposti, a ulteriore dimostrazione che i fattori di rischio possono essere al di fuori dei luoghi di produzione delle sostanze chimiche. Queste sono le ragioni per cui a fronte di una potenza statistica sempre più limitata gli studi epidemiologici, che si devono confrontare non più con le alte esposizioni del passato ma con i livelli più bassi delle epoche recenti e con una contaminazione ambientale sempre più diffusa, ricercano nuovi approcci e nuove strade per integrare i propri dati con quelli derivanti da altre scienze e al tempo stesso prestano la massima attenzione nella determinazione del rischio attribuibile all’esposizione in considerazione della multifattorialità dell’insorgenza dei tumori. Gli stessi consulenti dell’accusa pubblica e privata hanno concordemente affermato che lo studio epidemiologico non può bastare, perché suggerisce inferenze eziologiche senza però poterle dimostrare in rapporto ai singoli individui. Al quesito se a una determinata esposizione si possa far risalire con certezza o con un alto grado di probabilità la causa di una determinata patologia, dai consulenti dell’accusa si è risposto: «L’attribuzione del rischio a livello individuale comporta la predizione, rivolta al futuro, e l’attribuzione causale rivolta al passato; [...] data la natura multifattoriale del cancro, oltre al carattere probabilistico del legame causale, è impossibile — se non in casi eccezionali — attribuire il singolo caso di tumore ad una singola esposizione» (così VINEIS, La causalità tra diritto e medicina, 1991). In termini suggestivi l’autore citato afferma: «il paradigma dell’epidemiologia può essere definito come metodo della scatola nera nel senso che la ricerca epidemiologica mira abitualmente a mettere in relazione qualche evento esterno (esposizione) con il rischio di malattia senza addentrarsi nei meccanismi patogenetici. L’epidemiologia delle malattie croniche prescinde da un’assunzione forte circa la relazione causale: per causa si intende qualunque esposizione che preceda l’insorgenza della malattia, compatibilmente con un periodo di induzione biologica, che aumenti la probabilità di contrarre la malattia. Da un lato vi è un’ovvia rinuncia ad un’interpretazione della causa in senso deterministico (o quanto meno come causa necessaria); dall’altro lato storicamente l’epidemiologia delle malattie croniche è stata poco interessata sia al riscontro di lesioni, come substrato anatomico del legame causale (per esempio lo studio di eventi intermedi nella sequenza patogenetica della cancerogenesi) sia a problemi classificativi per la semplice constatazione che uno stesso tipo di cancro ha cause multiple e i casi dovuti ad un’esposizione non sono materialmente distinguibili, sul piano morfologico, da quelli dovuti ad un’altra esposizione; [...] data la natura multifattoriale del cancro, oltre al carattere probabilistico del legame causale, è impossibile — se non in casi eccezionali — attribuire il singolo caso di tumore ad una singola esposizione». Aggiunge ancora l’autore che a seguito di esposizioni a livelli sempre più bassi ma ad un numero nettamente maggiore di sostanze che caratterizza l’epoca più recente, «la ricerca epidemiologica è divenuta sempre più difficoltosa e la potenza statistica degli studi epidemiologici disperatamente limitata: di fronte ai modesti incrementi di rischio attesi per esposizioni a bassi livelli, la varianza di errore sommata a piccoli errori sistematici (piccole distorsioni nel disegno dello studio) è proporzionalmente sin troppo elevata rispetto alla misura dell’effetto». E indica una nuova strada, che sta emergendo per superare questi problemi: «accanto all’integrazione fra dati epidemiologici e conoscenze sperimentali, anche una rivalutazione di un approccio metabolico e biochimico alla eziologia dei tumori». L’altro consulente del p.m. dott. Comba, come già detto coautore dello studio epidemiologico su Porto Marghera, sulla problematica in questione così si esprime: «L’attribuzione al caso singolo è incerta ma si regge su di una conoscenza certa (una catena argomentativa valida e fondata) e l’incertezza può essere diminuita acquisendo ulteriori informazioni che facciano passare la probabilità condizionata a livelli via via più alti (o più bassi se vi sono spiegazioni alternative). Tutti i ragionamenti scientifici funzionano in questo modo e il cento per cento di probabilità non si raggiunge mai. Nell’affermazione di Vineis in cui si parla di casi eccezionali si fa riferimento specificamente a quelli in cui c’è un fattore di rischio fortemente associato ad una particolare patologia (ad esempio cvm e angiosarcoma epatico): in questi casi si può valutare il nesso causale a livello individuale una volta escluse con ragionevole certezza altre cause note dell’angiosarcoma epatico quali l’esposizione professionale ad arsenico e l’uso di thorotrast. I casi più frequenti in epidemiologia sono tuttavia quelli in cui i rischi relativi in gioco sono meno elevati, ad esempio compresi fra 1 e 2, e si configurano come associazioni deboli e, comunque, la malattia ha una eziologia multifattoriale, per cui si tratta allora di sviluppare una riflessione che poggi sia sul metodo epidemiologico sia sull’approccio medico legale; [...] il dato epidemiologico, ove disponibile e applicabile, concorre alla valutazione del nesso causale a livello individuale anche senza esaurirla. Non è sicuramente proponibile un approccio che implichi un passaggio automatico e acritico dei risultati di uno studio dal livello di popolazione a livello individuale, ma non è neppure condivisibile un’applicazione dei dati epidemiologici rigidamente circoscritta al livello collettivo o che prescinda dalla ovvia considerazione che ogni popolazione è costituita da individui» (COMBA, Relazione 30 ottobre 1998: indagine epidemiologica e nesso di causalità). Un altro consulente epidemiologo di parte civile (Medicina democratica), il prof. Duca, sull’argomento così si è pronunciato (pur prendendo le distanze dalle tesi estreme dei consulenti della difesa che affermavano l’incapacità o comunque l’inidoneità dell’epidemiologia ad esprimere una valutazione a proposito di quello che succede nel singolo individuo): «I dati epidemiologici possono essere utili nel segnalare l’esistenza di fattori di rischio e quindi preziosi anche quando si tratta di procedere al riconoscimento di un nesso causale a livello individuale [...] ad esempio se il rischio relativo di tumore polmonare fra i soggetti mediamente esposti a fumo di sigarette è pari a 8, il Rae (rischio attribuibile per gli esposti) indica che di tutti i casi di tumore del polmone che insorgono fra i medi fumatori una percentuale pari all’87,5 per cento è da attribuire proprio all’esposizione a fumo di sigaretta e se fra i fumatori accaniti il rischio relativo è pari a 20 e, quindi, il Rae = novantacinque per cento, ciò sta a indicare che il novantacinque per cento di tumori polmonari insorti in fumatori accaniti sono da attribuire al fumo. Un fattore molto fortemente associato alla malattia come il fumo di sigaretta al tumore del polmone non permette di effettuare anch’esso un’attribuzione causale all’esposizione del singolo caso esposto con una probabilità che superi il novantacinque per cento. Una volta chiarito il contributo che l’epidemiologia, attraverso il calcolo del rischio attribuibile, può dare alla soluzione del problema, stabilire una soglia di probabilità alla quale concludere per un’attribuzione causale all’esposizione del caso individuale non si può ridurre a problema tecnico, ma a questione che va argomentata e decisa in questo tribunale, tenendo conto del contesto più ampio e complesso, considerando tutte le implicazioni e considerazioni che vanno ben oltre quelle epidemiologiche, con tutte le imprecisioni che queste ultime comportano». Più oltre, nelle sue conclusioni, l’epidemiologo ribadisce su tale problematica il suo pensiero affermando che «l’accertamento dell’esistenza di una relazione causale non può fondarsi solo sui metodi statistici applicati agli studi epidemiologici, anche se un uso appropriato di indicatori statistici (Rr e Rae) può servire a sostenere una tale interpretazione; [...] l’accertamento dell’esistenza di una relazione causale deve avvalersi della valutazione completa di tutti i dati scientifici disponibili, inclusi quelli sperimentali su animali, colture cellulari o batteriche e sul giudizio di plausibilità biologica dei meccanismi di azione noti o ipotizzati» (Il contributo del metodo statistico allo studio della relazione causale, relazione 5 giugno 1999 prodotta agli atti dalla parte civile). Tutti i consulenti dell’accusa pubblica e privata sono dunque concordi nel ritenere che l’approccio epidemiologico non basta anche quando l’associazione è forte, situazione del tutto eccezionale rispetto alla realtà, cui si trova di fronte l’epidemiologia, di rischi relativi oscillanti fra 1 e 2 e di fattori confondenti per la multifattorialità della maggior parte delle patologie. Le valutazioni delle agenzie internazionali (Oms-Iarc-Epa) in ordine alla cancerogenicità di una sostanza e agli eccessi di rischio conseguenti ad un’esposizione alla stessa si riferiscono alla causalità generale intesa come idoneità a produrre un certo tipo di neoplasia negli esposti. Tali valutazioni si basano perlopiù su studi epidemiologici e, ad integrazione e supporto, su studi sperimentali su animali o in vitro così da aggiungere all’ipotesi epidemiologica quella ausiliaria della somiglianza o della comparazione degli effetti sull’uomo e sull’animale. Si può riconoscere che in genere i criteri utilizzati dalla Iarc per valutare l’evidenza di cancerogenicità espressa da studi epidemiologici sono quelli stessi individuati da Hill come linee guida per valutare la qualità degli studi e confrontarli e quindi considerano la forza dell’associazione, la relazione fra entità dell’esposizione ed effetto, la specificità dell’associazione con riferimento a determinati organi bersaglio che possono anche contenere considerazioni e valutazioni su studi sperimentali. Ma è di tutta evidenza, anche per le ragioni riferite dai consulenti dell’accusa, che le valutazioni di tali agenzie sono circoscritte nell’ambito della causalità generale e le relazioni causali affermate tengono anche conto di una rilevante preoccupazione precauzionale essendo in esse insita una funzione preventiva. Afferma ancora Vineis: «Vi sono considerazioni extra-scientifiche che portano a pesare diversamente l’evidenza scientifica quando si tratta di mettere in atto un programma preventivo; [...] un motivo etico forte per essere più restrittivi nel caso delle esposizioni professionali è la diseguaglianza di distribuzione: essendo gli esposti una minoranza della popolazione ed essendo l’esposizione di natura involontaria, è opportuno essere molto severi nella regolamentazione [...] conseguentemente, di fronte ad una incertezza scientifica per le esposizioni professionali, è preferibile incorrere più facilmente in un errore di primo tipo (regolamentare inutilmente una sostanza innocua), piuttosto che di secondo tipo (assolvere una sostanza tossica)» (ibid.). La causalità in epidemiologia, anche quando affermata dalle agenzie, non solo riguarda sempre e solo il livello di popolazione e non del singolo, ma può essere soddisfatta da evidenze scientifiche ancora deboli e incerte dovendo assolvere a finalità precauzionali. Sarebbe pertanto errato affidarsi, al fine di ritenere assolto ogni compito accertativo della causalità generale, alle valutazioni e alle enunciazioni delle stesse: eppure i consulenti medico-legali dell’accusa pubblica e privata hanno assunto come dato indiscusso proprio le indicazioni di Iarc 1987, senza neppure tener conto degli studi successivi e in particolare degli aggiornamenti del 1991 e del 2000 illustrati in aula dai loro coautori dott. Simonato e dott. Boffetta. Si può certamente condividere l’assunto che l’epidemiologia debba fare «due passi verso l’individuo, dialogando con i clinici perché, pur essendo due mondi con metodologie e procedure diverse, hanno tuttavia finalità comuni»: ma il confronto deve avvenire, perché possa raggiungere lo scopo, in termini critici e dialettici. Il mondo della clinica può integrare il mondo dell’epidemiologia solo se riesce ad esplicare il caso singolo attraverso un’indagine anamnestica, diagnostica ed eziopatologica approfondita e corretta e non si attesti invece su un giudizio di mera idoneità della sostanza a cui il soggetto è stato esposto. Non si faccia cioè solamente ricorso alla criteriologia della capacità lesiva, della continuità fenomenologica, dell’idoneità di sede, ecc. Neppure può bastare un ricorso acritico all’oncogenesi ritenendo di potere da essa avere risposte concludenti ed esaustive: innanzitutto perché — come riconosce il prof. Colombatti, consulente dell’accusa — «i dati non sono ancora sufficienti per suggerire che esista una modalità specifica che permetta di identificare l’azione del cloruro di vinile»; in secondo luogo perché le modificazioni ai ritenuti biomarcatori (p53 e Kras) non sono specifiche dell’esposizione al cloruro di vinile perché sono state individuate anche in non esposti e neppure sono sempre state indotte da cause esogene. Comunque sono e rimangono dati orientativi per un approfondimento della ricerca e per un auspicabile progredire della conoscenza sull’associazione: del resto l’approccio dell’accusa in questo ambito è sempre stato del tutto teorico perché nessuna indagine è stata effettuata sulle parti offese ai fini di accertare sulle stesse la presenza o meno di mutazioni di tali enzimi e quindi nessun contributo è stato apportato allo studio del caso singolo. Devesi aggiungere che anche il dott. Simonato nel corso della sua audizione (udienza 12 luglio 2000) ha affermato che «nel programma di lavoro dello studio multicentrico europeo c’era anche la parte sperimentale per meglio studiare i meccanismi di tipo biologico, così da combinare la parte epidemiologica con quella biologica, cosa che non si è riusciti a portare avanti perché è risultato troppo complesso». Bisogna prendere atto che le aspirazioni degli epidemiologi, espresse anche da Vineis, di integrare i loro dati con le conoscenze sperimentali, così da pervenire ad un approccio che tendenzialmente approdi ad individuare almeno una parte dei meccanismi eziologici delle catene causali, non sono ancora attuabili. È interessante conoscere l’orientamento della giurisprudenza e della dottrina americana, ampiamente citate dalle difese nel presente processo, in ordine all’idoneità della causalità generale a costituire prova sufficiente in ambito processuale. Nel processo penale non sussiste alcun contrasto in ordine all’inidoneità della causalità generale di superare la prova dell’«oltre il ragionevole dubbio» e di conseguenza viene prescelta la strada del processo civile dove comunque si ritiene sia necessaria la prova particolaristica della causalità individuale e tuttavia il criterio valutativo dell’accertamento si attenua al «più probabile che no». Alcuni esempi significativi: la Corte d’appello per il circuito di Columbia con sentenza del 1997 ha affermato che non è stata provata neppure la causalità generale in ordine alle malformazioni legate all’uso del farmaco e altresì la diagnosi differenziale non è stata in grado di escludere ogni altra causa potenziale; la Corte d’appello per il quinto circuito con sentenza del 1998 ha affermato che la causalità generale non consente di formulare conclusioni sulla causalità individuale neppure nei casi di esposizione ad asbesto «perché una stima di probabilità basata su una popolazione non ci parla di una probabilità di causalità in nessun singolo caso». In proposito il giudice Brennan ha affermato: «la prova statistica non può dimostrare la causalità»; nel caso Miller è stata intentata una causa per decesso in seguito a fatto illecito per conto di un lavoratore esposto al benzene che morì di leucemia. La corte osservò che «l’unica base d’appoggio utile per fare delle deduzioni a favore del ricorrente sarebbero delle statistiche che indicano che in molti casi la leucemia insorge in seguito all’esposizione al benzene, senza sapere perché. La convinzione della corte è che si può sapere qualcosa solo quando si sia individuata una catena causale meccanicistica». Si può convenire che questo è un orientamento indubbiamente rigido, che si rifà a un modello epistemologico neopositivista carnapiano, tanto che ha lasciato spazio ad una versione c.d. debole, che ritiene la prova della causalità individuale assai difficile da raggiungere perché è di norma sconosciuta scientificamente la catena causale meccanicistica e pertanto si ricorre a modelli causali disancorati della prova della causalità individuale per soddisfare le esigenze di risarcimento delle vittime. Paradigmatica di questo orientamento è la sentenza della Corte suprema del Texas del 1997 la quale dapprima sottolinea la distinzione tra causalità generale e causalità individuale: «La causalità è generale quando una sostanza è in grado di causare un danno o una condizione particolare in una intera popolazione, mentre la causalità è specifica quando una sostanza ha causato il danno del singolo individuo [...] in molti casi di esposizione a sostanze tossiche non si può fare una sperimentazione diretta e non vi sarà una prova affidabile della causalità specifica. In assenza di una prova diretta, scientificamente affidabile, di causalità, i ricorrenti possono tentare di dimostrare che l’esposizione alla sostanza tossica aumenta il rischio del loro danno particolare; [...] se il rischio dovuto all’esposizione è più elevato che nella popolazione generale, allora il danno dell’attore è stato più probabilmente che no causato dalla sostanza. Questo ordine di idee che la versione debole prende in considerazione riconosce che la scienza non può dirci cosa abbia causato un particolare danno, ma si fonda su ragioni di politica generale e cioè sulla considerazione che quando l’incidenza di una malattia o di un danno sia stata sufficientemente elevata a seguito dell’esposizione, chiunque sia stato esposto a quella sostanza dimostri di aver contratto quella malattia o quel danno può sollevare una questione di fatto sulla causalità. [...] Mentre la versione forte richiede che l’attore offra sia l’evidenza epidemiologica sul fatto che la probabilità di causazione è superiore al cinquanta per cento nella popolazione esposta, sia la prova particolaristica che la sostanza ha recato un danno all’individuo, invece la versione debole permette di giungere a sentenze basate solo su studi epidemiologici e però l’evidenza epidemiologica deve dimostrare che il rischio di danno nella popolazione esposta è più che il doppio del rischio della popolazione non esposta [...] in tal caso, quando il rischio relativo è maggiore di due, c’è una probabilità maggiore del cinquanta per cento che il danno sia stato causato dalla sostanza». Nell’ambito del processo civile pertanto si è andato delineando un orientamento più flessibile del c.d. raddoppio del rischio che segna un punto di equilibrio tra le esigenze del sistema legale e i limiti della scienza, anche se nell’ambito di tale orientamento si richiede che la prova probabilistica dell’efficienza causale debba essere corroborata da altri fattori. L’accenno agli orientamenti della giurisprudenza americana non sembri estemporaneo. Essi mettono in rilievo, pur nell’ambito del processo civile, le spinte che tendono a superare il modello meccanicistico di causalità, definito «ingenuo e arcaico» dall’accusa (e addirittura incostituzionale perché contrario al principio di obbligatorietà dell’azione penale) e che sono state di continuo evocate: l’esigenza di una tutela delle vittime, dei beni della salute e della vita umana. Beni che indiscutibilmente devono essere tenuti senz’altro in alta considerazione, senza però trascurare che nell’ambito del processo penale vi sono altri beni da tutelare, che sono quelli della responsabilità personale e della libertà. Al di là dell’enfasi posta dal p.m. nel ruolo assegnatosi di tutore esclusivo dei beni della salute e della vita umana (che ha inteso anche sottolineare come la scelta di questi valori costituisca uno spartiacque etico rispetto a chi invece ha sposato «la cultura del mercante, che ritiene di poter comprare tutto con il denaro, anche la salute e la vita umana» — così nella replica finale), non si può trascurare che queste sono le motivazioni più o meno esplicite che spingono a orientamenti che introducono nel processo ricostruttivo del nesso causale istanze di prevenzione generale. Tale è l’esplicito tenore della sentenza della Suprema corte richiamata dal p.m. (Cass., sez. IV, 12 luglio 1991, Silvestri, Foro it., 1992, II, 363) secondo cui «quando è in gioco la vita umana, anche solo poche possibilità di successo di un immediato e sollecito intervento sono sufficienti; [...] il rapporto causale sussiste anche quando l’opera del sanitario [...] avrebbe avuto non già la certezza ma soltanto serie e apprezzabili possibilità di successo [...] limitate nel caso di specie al trenta per cento». Peraltro devesi sottolineare che gli orientamenti più recenti della Cassazione sono ben più rigorosi e si fanno carico delle preoccupazioni della commissione Grosso cui sopra si è fatto riferimento. Non solo la sentenza 1688/00 ha sostenuto che «in tanto il giudice può affermare il rapporto di causalità, nei reati omissivi, in quanto, pena il rinnegamento del principio di personalità della responsabilità, abbia accertato che, con probabilità vicina a cento quella condotta, azione od omissione, è stata causa necessaria dell’evento verificatosi hic et nunc». Ma anche la sentenza 13 settembre 2001 richiamata dallo stesso p.m. afferma che «non essendo possibile nella causalità omissiva accertare il rapporto naturalistico di causazione tra la condotta omessa e l’evento, il giudice dovrà accertare attraverso un ragionamento adeguato e coerente, basato su criteri scientifici certi e su regole di natura probabilistica, tali da consentire una generalizzazione sul nesso di condizionamento, che se l’azione doverosa omessa fosse stata realizzata si sarebbe impedito l’evento di reato, che in tal caso può essere oggettivamente imputato alla condotta dell’agente. [...] Lo spostamento dell’indagine dal piano deterministico a quello probabilistico rappresenta per il giudice una complicazione nella formulazione del giudizio causale, ma ciò non esclude la necessità di una sua formulazione analitica che pervenga, senza affrettate approssimazioni, alla conclusione che l’omissione costituisce l’antecedente necessario, anche se non da solo sufficiente, del processo reale e non ipotetico che ha condotto all’evento». Il problema che si pone al tribunale, al di là dell’individuazione del grado di probabilità o della percentuale che si ritiene sufficiente ai fini dell’accertamento del nesso causale, è piuttosto quello di individuare un modello causale al tempo stesso compatibile con il nostro ordinamento e idoneo a includere non solo le spiegazioni nomologico-deduttive provviste di certezza, ma anche le spiegazioni offerte dalla scienza secondo un modello statistico-induttivo che colloca l’approccio nomologico nello specifico contesto che valorizza la ricerca e l’analisi di tutti i fattori presenti e interagenti (Hempel): in tale modo anche le leggi statistiche sarebbero in grado di spiegare che un evento si è verificato a patto che la frequenza consenta di inferire l’explanandum con quasi certezza sulla base di una relazione logico-probabilistica. Questo modello nomologico-deduttivo temperato dal modello statistico-induttivo sembra essere quello assunto dagli orientamenti giurisprudenziali da ultimo citati in cui si fa riferimento, ai fini dell’accertamento del nesso causale, a «criteri scientifici certi» o a «regole di natura probabilistica tali da consentire una generalizzazione sul nesso di condizionamento». Modello idoneo a comprendere le spiegazioni dell’indagine causale nell’ambito delle scienze cui si è fatto ricorso in questo processo: non solo l’epidemiologia, la biologia molecolare e la tossicologia di cui si è sinora parlato, ma in particolare anche la medicina legale strettamente dipendente dalle conoscenze generali, ma relative, sulla natura della causa, sulla sua modalità di azione, sulle caratteristiche delle sue conseguenze attraverso un processo di confronto delle conoscenze scientifiche con i dati dell’osservazione clinica, anatomopatologica, di laboratorio, ecc. È infatti di comune esperienza che diagnosi eziologiche che possono avvalersi di criteri di certezza sono confinate in un numero limitato di casi mentre negli altri casi è necessario collegare tutti i dati disponibili per giungere comunque a valutazioni probabilistiche. Se — come è stato detto — per il filosofo del diritto o per il penalista teoretico il rapporto causale si muove seguendo un ragionamento deduttivo, per il medico legale il ragionamento muove da un fatto concreto (evento) che consente di risalire con rigore induttivo al fenomeno che lo ha determinato (causa) che, ancorché fondato su osservazioni di valore statistico-probabilistico, può fornire risultati apprezzabili e rigorosi. Non è contestabile che le spiegazioni cliniche siano prevalentemente spiegazioni probabilistiche, soprattutto nell’ambito della diagnostica eziopatogenetica che si prefigge di ricostruire l’intera sequenza causale del processo morboso e che si trova pertanto ad individuare quale fra le talvolta molte condizioni iniziali possono essere intervenute e hanno veramente agito. Anche il giudizio diagnostico è pertanto gravato da probabilità di errore, ma neppure da esso si può prescindere per l’accertamento eziologico. Insomma dalle scienze e dai limiti di conoscenza che esse pongono non si può prescindere: si può solo pretendere l’adozione dei rigorosi criteri dettati dagli statuti epistemologici propri e una valutazione coerente di tutti gli elementi di conoscenza disponibili. La propensione alla certezza dell’accertamento sia dei nessi relativi alla causalità generale che di quelli della causalità individuale deve avere fondamento e nel rigore metodologico ed epistemologico con cui le varie scienze e discipline conducono le loro indagini, nella potenza del risultato raggiunto desumibile dall’ampiezza dello studio, nel grado di consenso ricevuto nella comunità scientifica, nella coerenza complessiva che i risultati raggiunti nelle diverse scienze e discipline debbono esprimere nello specifico contesto, così da valorizzare per l’appunto la ricerca e l’analisi di tutti i fattori presenti e interagenti. Queste conclusioni, da un lato, allontanano dalle «secche» di un modello condizionalistico puro legato a criteri di indagine nomologico-deduttivi che si era arenato dimostrando di non riuscire a dare risposte, se non totalmente negative, alle esigenze poste da una società del rischio ove le spiegazioni causali sono offerte da scienze non solo sperimentali e, dall’altro, consentono di rifuggire dagli orientamenti che forzano il criterio causale per ragioni di prevenzione generale collocandolo nell’area dell’aumento del rischio o confondendolo con l’elemento soggettivo della colpa, introducendo l’elemento della prevedibilità dell’evento. È forse una scelta che non offre anche una risposta appagante alla «questione cruciale» che dalla difesa è stata posta e secondo cui «poiché nelle scienze non vi è alcuna certezza, essendo le leggi della scienza null’altro che delle ipotesi di cui non si saprà se sono vere o false e perché le ipotesi scientifiche che ieri potevano sembrare confermate oggi possono risultare falsificate, si corre il rischio inaccettabile di condanne infondate». Ma la risposta può essere trovata nel rigore dell’accertamento sulla base dei seguenti criteri: 1) le inferenze causali devono essere tratte dalle scienze che attraverso un rigoroso e corretto metodo scientifico apportino un’effettiva e affidabile conoscenza scientifica; 2) l’affidabilità delle conoscenze, sia pure suscettibili in futuro di ulteriori apporti che possono modificarle o addirittura falsificarle, è determinato dalla validazione che ricevono e dall’accettazione generale o preponderante nella comunità scientifica nonché dalla verifica empirica delle loro spiegazioni mediante il controllo dell’ipotesi attraverso la confutazione, così da raggiungere una «corroborazione provvisoria»; 3) le conclusioni debbono essere comunque verificate nel loro progressivo evolversi e sempre confrontate con quelle di altre discipline per accertare la coerenza complessiva del risultato raggiunto; 4) l’incertezza scientifica che dovesse, comunque, residuare va risolta sia nell’ambito del rapporto causale sia nell’ambito dell’imputabilità soggettiva secondo la regola di giudizio che la responsabilità deve essere provata «oltre il ragionevole dubbio», regola di giudizio che ormai fa parte del nostro ordinamento. La causalità generale da esposizione a cloruro di vinile: introduzione. La causalità generale con l’introduzione di studi epidemiologici, tossicologici e sperimentali cui si è fatto riferimento negli aspetti di maggior rilievo, è stata utilizzata dall’accusa ai fini di mostrare non solo l’idoneità lesiva della sostanza, ma altresì per indicare gli indici di rischio relativo per ciascuna neoplasia che si è ritenuta in qualche misura, forte o debole, associata all’esposizione. Una causalità generale tuttavia debole, per lo più al di sotto non tanto del raddoppio del rischio, come almeno pretende la giurisprudenza civilistica americana del più probabile che no, ma addirittura della significatività statistica, ma ciò nonostante sempre e comunque assunta come ineludibile presupposto della causalità individuale anche di fronte a fattori di rischio alternativi di alta potenza esplicativa che sono stati valutati come concausa della malattia e mai come fattori causali di per sé sufficienti e necessari. Vero che Iarc 1987, che ha costituito il punto di partenza per le imputazioni e di approdo per le conclusioni del p.m., salvo alcuni aggiustamenti quantitativi dell’ultimo momento, indicava un’associazione tra esposizione a cvm e tumori al fegato (angiosarcomi e carcinomi epatocellulari), tumori polmonari, tumori cerebrali, tumori del sistema emolinfopoietico, melanomi. Ma è altrettanto vero che quelle valutazioni si fondavano prevalentemente su studi epidemiologici e su conoscenze ancora in larga parte risalenti agli anni settanta e primi anni ottanta, che hanno subìto rivisitazioni critiche e ampi aggiornamenti per la maggior parte incorporati nei due studi multicentrici americano ed europeo (Wong 1991; Simonato 1991), ulteriormente aggiornati di recente (Ward 2000 e Mundt 2000) e ampiamente discussi in sede dibattimentale. Sulla base di un’osservazione per l’intanto di carattere generale questi studi rilevano che non vi è alcun eccesso di mortalità globale per tumore nei lavoratori del cloruro di vinile: infatti nella coorte americana (Mundt) si sono osservati 895 decessi per tutti i tumori rispetto a 935,35 attesi (Rsm 0,96) ed escludendo i 55 angiosarcomi, i decessi scendevano a 840 (Rsm 0,88); nella coorte europea (Ward) si sono osservati 883 decessi per tutti i tumori maligni rispetto a 889 attesi (Smr 0,99) ed escludendo gli angiosarcomi il rapporto scende a 0,96. Nella coorte di Porto Marghera i decessi totali per tumore sono 88 rispetto ai 110,9 attesi (Rsm 0,79). Si riportano di seguito sinteticamente, riservando al prosieguo un loro approfondimento, anche i dati aggiornati relativi ai tumori indicati da Iarc 1987 e alle patologie neoplastiche e non considerate nel presente processo, per svolgere talune considerazioni preliminari. (Omissis) Sulla base di tali dati, i consulenti epidemiologici dell’accusa avevano escluso o comunque espresso dubbi e perplessità in ordine alla correlabilità con le sostanze in considerazione dei tumori del cervello, del sistema emolinfopoietico, dei melanomi, ma si potrebbe aggiungere anche del tumore del laringe. Invero rispetto a queste patologie, sulla base degli studi epidemiologici complessivi e più aggiornati esaminati nel corso del dibattimento e considerando anche i risultati dello specifico studio sulla coorte di Porto Marghera può affermarsi che non sussiste la prova di una causalità generale e cioè a dire dell’idoneità del cvm e del pvc a provocare tali tumori. Gli eccessi talvolta presenti in talune coorti, nonostante tutte le evidenze, sono stati invece ritenuti statisticamente significativi dall’accusa senza neppure verificare, applicando i corretti criteri epistemologici vigenti in epidemiologia, la validità dello studio sia con riferimento all’andamento dell’effetto doserisposta, che nel caso che ci occupa è fondamentale per supportare la tesi della causalità di un’associazione, sia con riferimento ai dati relativi alla durata dell’esposizione e ai tempi di latenza della malattia. Andavano invece colte le indicazioni che nell’ultima relazione presentata dai consulenti Comba- Pirastu erano pur presenti: per i tumori al sistema emolinfopoietico si affermava che «l’insieme dell’evidenza epidemiologica non documenta in modo definitivo l’associazione tra cvm e questa causa di morte, anche se i risultati degli studi nel loro insieme non documentano in modo univoco un’assenza di rischio»; per il tumore dell’encefalo si rilevava che «l’assenza di andamenti per variabili temporali e di esposizione, insieme al fatto che il numero degli osservati è spesso esiguo, sono i principali limiti dei dati disponibili ai fini dell’attribuzione di un ruolo causale dell’esposizione nello sviluppo di questo tumore»; per il tumore del laringe, premesso che la mortalità non è il migliore indicatore di rischio per un tumore per il quale la sopravvivenza è stata stimata pari all’ottantacinque per cento, si affermava che «l’evidenza epidemiologica suggerisce un aumento di rischio e però l’assenza di informazione sulla localizzazione deve essere accompagnata dalla valutazione dell’evidenza clinica e patologica»; infine per i melanomi si affermava che «la ripetuta osservazione di incrementi di rischio, seppur concentrata in alcuni paesi (Norvegia, Italia, Gran Bretagna) rende plausibile l’esistenza di un’associazione». Sono valutazioni caute, ma indicative di un’assenza di significatività, talvolta espressa in termini più espliciti (tumori del sistema emolinfopoietico e tumori dell’encefalo), talora indicando i limiti degli eccessi riscontrati (confinati in talune coorti e ridotti a casi esigui) ovvero prospettando l’esigenza di approfondimenti medico-legali. Ancora più perentorie erano state le conclusioni cui erano pervenuti gli autori dello studio multicentrico europeo e del successivo aggiornamento, nel corso della loro audizione all’udienza del 12 luglio 2000. Il dott. Simonato con riferimento ai tumori del cervello e ai sarcomi (oltre che al polmone) ha affermato: «le analisi di dose-risposta sono state applicate a tutte queste sedi e per nessuna di queste sedi abbiamo visto una dose-risposta, cioè un rapporto costante e significativo tra le dosi alle quali sono stati esposti i membri della coorte e gli effetti e quindi questo gruppo di patologie [...] non mostra una similarità di questi effetti e quindi siamo in presenza di una situazione di minor rischio per queste sedi». Più specificamente, per quanto riguarda il melanoma della pelle affermava: «abbiamo un eccesso all’interno di uno dei paesi e all’interno di questa sottocoorte c’è anche un effetto dose-risposta, che però non si riproduce negli altri paesi [...] questo è un aspetto che rimane aperto e del quale non sappiamo dare una spiegazione convincente: se la sostanza è cancerogena, lo è indipendentemente dal paese dove avviene l’esposizione che dovrebbe dare un effetto». E più avanti ribadisce: «i risultati dello studio norvegese che mostrano un effetto dose-risposta per il melanoma presi in sé sono un’evidenza che però manca di consistenza». Per quanto riguarda i tumori del cervello rilevava che gli osservati sono quanto gli attesi (Smr 1,07) e concludeva: «formalmente significa un piccolo eccesso, che però è molto piccolo [...] queste sedi poi sono state analizzate come dose-risposta e per nessuna di queste sedi abbiamo trovato un effetto dose-risposta e quindi l’insieme dell’evidenza, è un poco questo, deve tenere conto dei vari aspetti». Per quanto riguarda i linfosarcomi esprimeva le stesse considerazioni pur rilevando che vi era un eccesso. Rispondendo più avanti ad una domanda di un difensore di parte civile che gli chiedeva di dare una risposta sugli eccessi comunque riscontrati, a prescindere dal mancato rilievo di un effetto dose- risposta, chiariva meglio il suo pensiero in proposito e rispondeva: «lasciare fuori la dose-risposta come lei chiede, un epidemiologo non lo fa perché è parte integrante dell’evidenza sulla quale poi cerca di basare una valutazione complessiva che deve tendere a dire se fra questi due fatti, cioè l’esposizione e la malattia, è plausibile un legame causale. Nel momento in cui ci troviamo di fronte ad una patologia in cui la risposta cresce con la dose ci sentiamo sicuri di affermare che c’è un rapporto ben stretto tra questi due fenomeni; nel momento in cui troviamo una situazione in cui questo dose-effetto non c’è, risulta più difficilmente credibile la presenza di un’azione causale». E a una seconda domanda dello stesso difensore chiariva: «l’osservazione dell’effetto dose-risposta si fa all’interno di qualunque categoria di osservati-attesi anche se non c’è un eccesso [...] l’assenza di un eccesso non significa in sé assenza di rischio [...] così come la presenza di eccesso non significa necessariamente presenza di rischio: se questo eccesso si riproduce in più studi, nel tempo si conclude che effettivamente è un eccesso [...] dipende dall’accumulo dell’evidenza». Finiva col dire che per i tumori del sistema linfatico le conclusioni dell’aggiornamento erano sovrapponibili a quelle dello studio precedente del 1991 ove si affermava che non era stata individuata, pur in presenza di un eccesso, un’associazione significativa con la sostanza, ribadendo che «c’è un eccesso e però non c’è una dose-risposta e quindi non è associata all’esposizione». Il dott. Boffetta rispondeva in termini analoghi. Per quanto riguarda il tumore del cervello osservava che nell’aggiornamento non è stato rilevato alcun tipo di associazione: «il risultato è stato considerato sostanzialmente negativo nel senso di mancata evidenza di un eccesso» e, pur rilevando che talune categorie di esposizione presentavano degli eccessi, ciononostante faceva rilevare che proprio le fluttuazioni nei rischi relativi all’interno delle categorie e, in particolare, il diminuire degli stessi con un aumentare dell’esposizione cumulativa, lo portava a concludere che «si era molto lontano dal livello di significatività per quanto riguarda il tumore al cervello». Le considerazioni dei due epidemiologi, peraltro comuni a quelle dei consulenti del p.m., mettono in rilievo l’importanza, ai fini di una valutazione, del dato statistico presente in studio, e quindi, ai fini dell’accertamento di un rischio dipendente dall’associazione tra una determinata patologia e l’esposizione a una sostanza, della scrupolosa analisi di tutte le variabili, per verificarne la coerenza. Il dott. Simonato ha dato anche una risposta alla domanda se riteneva coerenti i risultati della coorte di Porto Marghera con quelli più complessivi da lui esaminati nello studio multicentrico affermando: «ho sempre avuto tendenza a non considerare l’evidenza di Porto Marghera diversa dal resto dell’evidenza [...] andare a cercare nel dettaglio si capisce sempre meno [...] lavorare invece sull’insieme dei dati si hanno dei risultati un po’ più robusti. All’interno si può andare a vedere e però scendendo di dettaglio in dettaglio molte volte si rischia di perdersi [...] io non darei una valutazione di un sottoinsieme della coorte italiana che a sua volta è un sottoinsieme della coorte europea». Questo rapido excursus consente di affermare che l’evidenza globale degli studi epidemiologici più recenti e più significativi individua un’associazione forte tra esposizione a cvm e angiosarcoma epatico ed eccessi di rischio nello svolgimento di talune mansioni (autoclavisti e insaccatori) esposte ad elevate concentrazioni per l’epatocarcinoma e per il tumore polmonare, mentre le altre associazioni, pure ipotizzate negli studi passati cui aveva fatto riferimento Iarc, non sono state confermate. Ma il p.m. non ne ha tratto le logiche e conseguenti conclusioni. Con il decreto di rinvio a giudizio e con le successive contestazioni suppletive nel corso del dibattimento, il p.m. ha introdotto 721 patologie riferite a 542 parti offese così suddivise: acrosteolisi/Raynaud: 103; linfomi: 19; malattie del fegato neoplastiche e non: 295; malattie polmonari neoplastiche e non: 194; adenocarcinomi gastrici: 16; carcinomi squamosi e del laringe: 23; altre neoplasie: 48; altre patologie: 23. Tuttavia al termine della requisitoria il p.m. ha presentato le schede, riferite a 263 parti offese, relative a 311 patologie. Non ha ritenuto di fornire una spiegazione di questa modificazione della contestazione originaria, limitandosi ad affermare che i casi non ripresentati avrebbero avuto comunque un loro rilievo nell’ambito dei reati di strage e di disastro contestati. Mentre appare evidente che sono stati eliminati tutti i tumori gastrici e del pancreas che erano stati associati all’esposizione a dicloroetano, prendendo atto il p.m. che anche Iarc 1999 concludeva per la «inadeguata evidenza di carcerogenicità nell’uomo», dall’altro lato deve ritenersi che le altre patologie (neoplastiche e non) siano state ritenute o non sussistenti, a seguito dell’esame della documentazione medica e dell’anamnesi generale e lavorativa, ovvero non correlate all’esposizione. Con la conseguenza che essendo insussistenti o comunque non causalmente riconducibili, esse non possono avere rilievo neppure nelle fattispecie più ampie di pericolo per la pubblica incolumità cui il p.m. ha fatto riferimento. Di seguito viene riportato il quadro sinottico che rappresenta il confronto tra le patologie contestate e quelle indicate nelle schede depositate al termine della requisitoria. ——————————————————————————————— Patologie Numero diagnosi Numero diagnosi iniziali nelle schede finali ——————————————————————————————— Malattie epatiche Angiosarcomi 7 7 (8) Epatocarcinomi 21 21 Cirrosi 39 44 Epatopatie (comprese le regredite) 225 73 Malattie polmonari Neoplasie 94 87 Bronchiti 85 0 Broncopneumopatie croniche ostruttive Pneumoconiosi 13 1 Tumori del sistema emolinfopoietico 24 21 Tumori gastrici 16 0 Tumori del laringe 23 18 Melanomi 7 5 Tumori cerebrali 6 6 Altre neoplasie 31 0 Altre patologie non neoplastiche 23 0 Fenomeni di Raynaud 103 26 Totale 717 309 ——————————————————————————————— È rilevante notare sin da ora che sono state altresì eliminate le broncopatie e le broncopneumopatie (87), nonché le pneumoconiosi collegate all’esposizione a pvc e, soprattutto, queste ultime indicate come predittive del tumore polmonare di cui dagli studi epidemiologici è stato rilevato un eccesso nella mansione di insaccatore che supporterebbe l’associazione. Stupisce davvero che il p.m. neppure alla fine del dibattimento, quando ha dovuto considerare la consistenza dei dati epidemiologici con riferimento agli organi bersaglio in considerazione, non sia riuscito ad abbandonare le indicazioni di Iarc 1987 oramai superate dagli studi che per conto della stessa Iarc avevano condotto il dott. Simonato e il dott. Boffetta. Anzi abbia insistito cercando di corroborare la non evidenza dell’associazione con il ricorso a incerti e contraddittori dati che gli provenivano dalla biologia molecolare, nonostante che lo stesso Simonato avesse detto che «l’interesse da parte dei colleghi della parte sperimentale presenti a Lione per poter studiare meglio anche i meccanismi di tipo biologico [...] per vedere cioè di combinare la parte epidemiologica con quella biologica [...] non si è riusciti a portare avanti perché è risultata troppo complessa». Da parte loro i consulenti medico-legali del p.m. nell’esaminare tali patologie tumorali si sono anch’essi essenzialmente riferiti, ai fini di associarle all’esposizione, alle indicazioni contenute nella monografia di Iarc 1987, che, come si è già detto, sono state ampiamente ridimensionate dagli aggiornamenti successivi e dalle analisi stratificate in essi contenute. Nessun riferimento invece hanno fatto alla casistica specifica che avevano esaminato ai fini di verificare se i tumori insorti nelle parti offese avevano una plausibilità epidemiologica, e cioè rispondevano a quei criteri da cui consegue la validità dell’assunto che sussiste un’associazione con l’esposizione: in particolare ai gradienti dose-rischio e durata-rischio e alle sequenze temporali concernenti la data iniziale dell’esposizione, la sua durata, il periodo di latenza, rimanendo esclusivamente attestati a un riferimento autorevole ma oramai superato. Tanto più era necessaria un’analisi approfondita in ordine alla sussistenza di una coerenza tra tali criteri di valutazione nell’ambito della casistica della coorte considerata rispetto a tumori di eziologia ignota e per di più riscontrati in un numero limitato di casi tra gli addetti alla lavorazione del cvm. Diversamente — come hanno affermato gli epidemiologi — il semplice riferimento ad un eccesso, per di più rilevato o in coorti diverse o comunque in numero assai ridotto di casi, non può avere alcun significato rilevante ai fini della ritenuta associazione. Alla debolezza delle evidenze epidemiologiche il p.m. ha cercato di supplire facendo ricorso alla biologia molecolare e ai risultati ancora incerti, contraddittori e lacunosi che allo stato è in grado di offrire, in particolare sostenendo la tesi dell’azione sinergica tra i fattori di rischio noti (alcool, epatiti, fumo) e le sostanze in discussione che in tal modo assumerebbero il ruolo di concause potenzianti gli effetti lesivi: non considerando che nel nostro ordinamento la concausa ha lo stesso statuto epistemologico della causa, con la conseguenza che se non è dimostrato che un fattore è causa di un evento, neppure può assumere la veste di concausa. Il p.m. nessun rilievo ha invece dato all’evidenza epidemiologica e sperimentale che indiscutibilmente individua negli effetti del cvm un rapporto dose-risposta la cui considerazione, da un lato, avrebbe ricollegato gli eventi alle esposizioni di un lontano passato e, dall’altro, lo avrebbe indotto ad escludere la rilevanza causale delle esposizioni successive al 1974. Infatti in tutte le coorti, anche in quella in considerazione in questo processo, i tumori rilevati e in particolare l’angiosarcoma, ma anche l’epatocarcinoma in coloro che hanno svolto la mansione di autoclavisti e il tumore al polmone in coloro che hanno svolto solo la mansione di insaccatori, sono tutti riconducibili ad elevate o elevatissime esposizioni che erano quelle proprie degli anni cinquanta/sessanta e primi anni settanta, sino alla scoperta della cancerogenicità della sostanza. In proposito nello studio multicentrico europeo (Simonato e altri 1991) si pone in rilievo relativamente al cancro al fegato: 1) che l’analisi dei decessi da cancro del fegato basata sull’esposizione cumulativa rivela un rischio crescente con l’aumento dell’esposizione e con una consistente relazione esposizione-risposta: si verifica un aumento della mortalità al crescere dell’esposizione cumulativa e della durata dell’esposizione; 2) che la caratteristica comune per tutti i soggetti morti per cancro del fegato è l’anno di assunzione, soprattutto ricompreso nell’ambito degli anni cinquanta, mentre due sono stati assunti negli anni quaranta e sei negli anni sessanta; le analisi basate sulle variabili temporali hanno rivelato eccessi statisticamente rilevanti nei periodi di assunzione 1945-1954 e 1955-1964 mentre è stata osservata una diminuzione del rischio per quelli assunti negli ultimi anni sessanta e nei primi anni settanta, ancorché si osservi che il tempo di osservazione è ancora troppo breve per poter valutare il rischio per i lavoratori assunti recentemente (il follow-up era allora limitato al 1986); 3) la categoria di esposizione 500-2.000 ppm presenta un rischio relativo di 1,20 sensibilmente inferiore a quello delle categorie più elevate, e poiché in tale categoria è inserito un angiosarcoma ad un’esposizione cumulativa di 288 ppm non si può affermare che in detta categoria non vi sia senz’altro un’assenza di rischio, anche se non vi è certezza che si tratti effettivamente di un angiosarcoma (essendo stato registrato come un generico tumore del fegato) e neppure vi è certezza sul dato relativo all’esposizione cumulativa, poiché si trattava di lavoratore addetto alle autoclavi in anni di elevata esposizione. Nell’aggiornamento dello studio di tale coorte (Ward 2000) si rilevava che la categoria di esposizione più bassa (0-735 ppm) aveva un rapporto standardizzato di 1,07 e presentava due casi di angiosarcoma di cui uno era quello a 288 ppm di tipologia incerta già segnalato nello studio precedente. Gli studi della coorte statunitense, a partire da quelli di Cooper (1981) per giungere a quelli di Wong (1991) e per finire a quelli di Mundt (2000), indicano anche essi un rapporto dose-risposta e nell’ultimo studio si afferma che «lo studio ha confermato una forte associazione tra durata dell’esposizione lavorativa prima del 1974 e tumori del fegato per la gran parte dovuta ad un elevato eccesso di angiosarcomi». Nella coorte di Porto Marghera il consulente dell’accusa prof. Martines mette in rilievo: 1) che i sette soggetti affetti da angiosarcoma erano tutti addetti alle mansioni a più elevata esposizione (addetti alla pulizia di autoclavi) ed erano stati esposti a dosi comprese tra 3.600 e 9.000 ppm annui; 2) che tutti gli angiosarcomi si sono manifestati in quei lavoratori che subirono la prima esposizione in un arco di tempo molto ristretto compreso fra il 1955 e il 1967; 3) che dei 16 casi di epatocarcinoma 13 si erano manifestati in quei lavoratori che erano stati esposti a dosi cumulative comprese tra 1.651-10.125 ppm, 1 esposto a dosi cumulative comprese tra 301-1.650 ppm e 2 esposti a dosi cumulative da 0 a 300 ppm: precisava peraltro che l’unico caso di carcinoma rilevato tra i soggetti a media esposizione presentava un’infezione cronica da virus e che il ruolo dell’esposizione nei due pazienti esposti a basse concentrazioni non era precisabile; 4) che i 13 casi di epatocarcinoma ricompresi nella categoria ad alta esposizione presentano un tempo di latenza medio dalla prima esposizione pari a trentuno anni e la prima esposizione si è verificata in un arco ristretto di tempo compreso tra il 1952 e il 1961; 5) che dei 32 casi di cirrosi ben 22 risultavano essere stati esposti a dosi cumulative comprese tra 1.651-10.125 ppm e questo era l’unico gruppo che presentava un rischio relativo (odds ratio) superiore all’unità (2,38) mentre nelle categorie a esposizione media e bassa il rischio relativo era inferiore a 1. Per quanto concerne i tumori del polmone i dati desumibili dagli studi epidemiologici relativamente al rapporto dose-risposta, ai fini di verificare l’incidenza di tale tumore rispetto all’esposizione cumulativa, sono senz’altro più incerti e contraddittori ma evidenziano anch’essi una tendenza in tal senso. Nello studio multicentrico di Simonato non è stata notata relazione esposizione-risposta con l’aumento dell’esposizione cumulativa: l’unico eccesso (Smr 1,47) riguarda la latenza per coloro con venticinque-ventinove anni trascorsi dall’inizio dell’esposizione. Nell’aggiornamento (Ward 2000) in cui si fa un’analisi stratificata per mansione si rileva un trend positivo e significativo per categorie crescenti di esposizione cumulativa a cvm (ma solo a 2800 ppm) in coloro che hanno svolto unicamente le mansioni di insaccatori, mentre nessuna tendenza è stata osservata al crescere dell’esposizione cumulativa per i lavoratori che avevano svolto mansioni sia come imballatori sia come insaccatori. Invece nello studio della coorte americana, nel suo ultimo aggiornamento (Mundt), si afferma che non ha trovato alcuna evidenza l’associazione tra esposizione a cvm e tumore del polmone, né complessivamente né per stratificazione, con riferimento sia alla durata dell’esposizione sia alla latenza, sia all’età e al periodo di inizio dell’esposizione, e pertanto non è suggerito alcun rischio. Nello studio sulla coorte di Porto Marghera da parte dei consulenti dell’accusa pubblica si è sì osservato un incremento significativo fra gli insaccatori in considerazione dell’intensità dell’esposizione a cvm, ma temporalmente l’esposizione veniva collocata in particolare tra il 1950 e il 1970. L’aggiornamento al 30 luglio 1999 indica un eccesso (Smr 1,30) fra gli addetti all’insacco e un ulteriore incremento (Smr 1,59) tra coloro che sono stati esclusivamente addetti all’insacco. Dalle tabelle allegate risulta confermato che si tratta di lavoratori esposti nel periodo tra gli anni cinquanta e la prima metà degli anni settanta. Anche il prof. Mastrangelo, consulente di parte civile, che ha presentato lo studio caso-controllo già esaminato sull’insorgenza del tumore del polmone nei lavoratori di Porto Marghera, conclude con il dire che il periodo eziologicamente rilevante per i casi di cancro polmonare, che attribuisce alle polveri di pvc, era quello anteriore al 1975 («per tutti i casi mostrati in tabella 11 l’anno di assunzione va dal 1954 al 1974»), allorquando vi erano concentrazioni elevate di cvm nelle polveri tanto da suggerire l’introduzione dello strippaggio per estrarre il cvm residuo. In proposito il consulente afferma nella sua relazione che gli interventi finalizzati alla diminuzione nella polvere del cvm residuo «furono realizzati nella seconda metà degli anni settanta quando la maggior parte dei casi di cancro polmonare avevano già cessato il lavoro di insacco del pvc». Sulla base degli studi epidemiologici sopra riferiti si può individuare un accordo uniforme e assoluto tra tutti i consulenti che hanno partecipato al presente processo, anche nell’interpretazione dei dati di letteratura, che l’esposizione rilevante al cvm per l’esplicazione dei suoi effetti cancerogeni e patologici è esclusivamente quella a dosi elevate o elevatissime degli anni cinquanta- sessanta e sino alla metà degli anni settanta. È altrettanto pacifico che nessun angiosarcoma del fegato (che è il tumore tipico da esposizione a cvm) si è manifestato in lavoratori assunti successivamente al 1973 nella coorte europea e successivamente al 1967 nella coorte statunitense e in quella di Porto Marghera. Nel recente studio di Rozman e Storm (1997) si conferma ulteriormente che «fino all’ottobre del 1993 nessun nuovo caso di angiosarcoma epatico fu riportato dal registro internazionale fra i più di ottantamila lavoratori degli Stati uniti che erano stati esposti per la prima volta al cloruro di vinile a partire dal 1968», traendone la conseguenza che «la riduzione delle esposizioni entro il range di 0,5- 5 ppm sembra essere stata fino ad ora adeguatamente protettiva». Se si considera che la dose cumulativa più bassa a cui è stato individuato un angiosarcoma (oltretutto di tipologia non certa) è quella di 288 ppm pari a circa 28 ppm di esposizione giornaliera, si può affermare che alle esposizioni già presenti nella coorte di Porto Marghera nel 1974, e ancor di più alle esposizioni degli anni successivi, pacificamente rientranti nei limiti dapprima adottati e in seguito imposti di 3 ppm giornalieri (e anche ampiamente al di sotto degli stessi come documentato dalle rilevazioni dei gascromatografi) non risulta esservi prova di una efficienza lesiva del cvm. Anche gli studi tossicologici e di oncogenesi di cui già si è parlato sono convergenti nell’individuare un rapporto dose-risposta per il cvm: basti qui ricordare gli esperimenti di Maltoni e gli studi di Weinrauch e di Swemberg secondo cui al di sotto di dosi cumulative di 10 ppm non è stata accertata un’idoneità lesiva del cvm. I consulenti del p.m., relativamente al problema dell’idoneità lesiva del cvm alle basse dosi non hanno potuto smentire né i risultati epidemiologici né quelli sperimentali. Si sono limitati ad affermare «che non si può escludere», «che la soglia al di sotto della quale non si sono osservati tumori non è una soglia effettiva ma una soglia apparente [...] perché non si possono fare degli studi che dimostrino l’inesistenza di una soglia perché bisogna andare nell’infinitamente piccolo» (Berrino); «attualmente una relazione tra esposizione e cancerogenicità delle sostanze genotossiche è troppo confusa per offrire linee guida sulla soglia [...] e perciò non vi è possibilità di uscire dall’atteggiamento di essere molto conservativi e sull’esposizione e sul rischio e quindi accettare che non vi è una dose sicura» (Terracini); «con questo tipo di modello non riesco a vedere l’effetto alle basse dosi e quindi sulle basse dosi non posso dire assolutamente nulla» (Martines). Gli epidemiologi Simonato e Boffetta, coautori degli studi sulla coorte europea, sentiti in proposito hanno dichiarato quanto segue (udienza 12 luglio 2000): Simonato: «il rapporto dose-risposta è rilevante ai fini di affermare una correlazione tra la sostanza e la patologia; la sua assenza determina un’improbabilità dell’ipotesi. L’individuazione di un livello minimo senza rischio non era tra gli obiettivi dello studio [...] avevamo cercato di metterci in collaborazione con i colleghi dei laboratori per approfondire il problema dose-risposta negli animali e nell’uomo, ma purtroppo c’è molta carenza di dati [...] quel che si può dire è che il gruppo esposto al di sotto di certe dosi cumulative non mostra un eccesso e questo è descrittivo, mentre credo che poter escludere che ci sia un rischio abbia delle implicazioni diverse [...] però credo si possa concludere in maniera descrittiva: con quello che abbiamo adesso i dati non mostrano [...] credo che l’aggiornamento dello studio apra un capitolo importante, che è quello di poter indagare meglio su ordini di grandezza in cui uno è esposto per dieci anni a 10 ppm». Boffetta: «abbiamo trovato una relazione dose-risposta molto forte con l’angiosarcoma simile a quella che era stata già individuata nell’analisi precedente [...] riguardo agli angiosarcomi non avevamo nessun caso sotto i 288 ppm che è il livello di esposizione cumulativa più basso [...] cosa succede al di sotto, quindi nel range di esposizioni cumulative analoghe a quelle che possono essere quelle sperimentali, penso non si possa ancora dirlo». I due citati epidemiologi si sono pronunciati anche sul problema della rilevanza delle basse dosi successive alle alte esposizioni ai fini della causazione dei tumori. Simonato: «dove noi abbiamo effettivamente pochi dati sull’uomo è nel contributo differenziale all’interno dei periodi espositivi; alla domanda se possiamo noi configurare che in realtà c’è un meccanismo del tipo che alle alte dosi iniziali il processo si innesca, è irreversibile e non importa quello che succede dopo oppure vi è una situazione di equilibrio instabile in cui anche le fasi successive [...] questo dipende dai modelli di cancerogenesi che si studiano, però nell’uomo non si è in grado attualmente di dare una risposta [...] noi riusciamo ad avere due o tre modelli di cancerogeni in mente, però non sappiamo quanti sono quelli veri [...] insomma il limite della conoscenza attuale». Boffetta: «il differente contributo di esposizioni recenti o antiche alla stima dell’esposizione cumulativa [...] a questo non possiamo rispondere [...] è diverso accumulare 1.000 ppm all’anno con dieci anni a 100 ppm oppure in quindici anni e poi negli ultimi anni più basso [...] su questo non abbiamo fatto analisi specifiche [...] se guardiamo la latenza come un approccio più grossolano a questo, e vedere se gli ultimi anni incidono o meno, io su questo non posso [...]». Sulla base dei convergenti elementi sopra riferiti si può sin d’ora concludere affermando che non sussiste la prova della causalità generale e cioè dell’associazione tra cvm e tumore al cervello, al sistema emolinfopoietico e melanomi, essendo stati riscontrati o deficit significativi ovvero piccoli eccessi non rilevanti o comunque ritenuti non significativi anche per vizi di classificazione ovvero per andamenti concernenti la durata e l’intensità dell’esposizione nonché la latenza, fortemente anomali e quindi escludenti un’associazione. In proposito non si può non condividere sia quanto affermato nella premessa del suo intervento dal consulente di parte civile prof. Duca che in epidemiologia «assenza di evidenza di rischio non è evidenza di assenza di rischio» per le finalità precauzionali e preventive che tale scienza si propone, sia quanto affermato conclusivamente che comunque tale risultato «in un processo penale in cui sono in discussione altri valori degni di tutela non può che portare a un’assoluzione almeno per insufficienza di prove». Un’adesione a tale meditato convincimento, come si è visto certo non isolato tra i consulenti dell’accusa, avrebbe potuto sin dall’inizio portare a una selezione delle patologie e conseguentemente degli eventi penalmente rilevanti introdotti nel dibattimento. Per quanto concerne gli angiosarcomi e gli epatocarcinomi riscontrati negli autoclavisti nonché i tumori del polmone negli insaccatori e nei solo insaccatori, ammesso che questi ultimi tipi di tumore, a differenza del primo, abbiano significatività statistica oltre che plausibilità biologica, si sono verificati tutti a seguito delle alte esposizioni risalenti agli anni cinquanta e sessanta e prima parte degli anni settanta, e cioè a quelle esposizioni elevate antecedenti alla conoscenza della cancerogenicità del cvm. Nessun tumore del fegato e del polmone ha interessato lavoratori della coorte di Porto Marghera assunti dopo il 1967 e da tale data ormai è trascorso interamente il periodo di latenza non solo medio ma approssimantesi anche alle punte medio-alte rilevate. Conseguentemente si può trarre una prima incontestabile conclusione: alla stregua delle analisi epidemiologiche aggiornate l’idoneità lesiva del cvm si è rivelata ad alte o elevatissime dosi mentre non sussiste la prova di un’efficienza lesiva anche a basse dosi e in particolare a quelle esistenti dal 1974 in poi. Le incertezze della scienza in proposito o le mere ipotesi o i postulati fondati su preoccupazioni cautelative, seppure possano costituire dei punti di partenza per ulteriori approfondimenti in ambito epidemiologico e sperimentale, come auspicano Simonato e Boffetta, non apportano nessun dato di conoscenza utilizzabile in ambito processuale dove ci si deve attenere ai fatti accertati e provati. A quei fatti cui il p.m. stesso ha affermato di volersi esclusivamente riferire nelle battute iniziali della sua requisitoria: dabo tibi factum, dona mihi ius. Sulla base di questa prima, ma non definitiva, conclusione non si può non rilevare sin d’ora che se il p.m. fosse stato fedele a questa impostazione avrebbe dovuto tener conto delle incontestabili evidenze emergenti dagli studi epidemiologici di maggior potenza statistica, e quindi, più informativi, tanto più che i loro risultati erano convergenti con quelli derivanti dagli studi sulla coorte di Porto Marghera e di conseguenza avrebbe dovuto non solo — come già detto — ampliare l’ambito delle neoplasie e delle patologie non riproponibili, ma avrebbe dovuto tener conto altresì delle sole esposizioni eziologicamente rilevanti dal punto di vista temporale, traendone tutte le conseguenze sia sotto il profilo della riferibilità delle imputazioni agli imputati tutti tratti in giudizio, sia sotto il profilo dell’addebitabilità per colpa degli eventi. Infatti le condotte cui riferire causalmente gli eventi sono antecedenti al 1974 e, quindi, ad epoca precedente alla conoscenza della cancerogenicità del cvm. Inoltre non sussistendo la prova di un’idoneità lesiva di tale sostanza alle basse dosi successive, immediatamente contenute nei limiti imposti dalle norme cautelari e poco dopo ridotte anche al di sotto degli stessi (e quindi nell’ambito di un rischio consentito nell’attività di impresa), non si ravvisano neppure condotte cui causalmente riferire e colpevolmente addebitare tali eventi. Vero che il p.m. ha fatto risalire la data dei commessi reati al 1969, e cioè presumibilmente all’epoca della prima segnalazione sulla cancerogenicità del cvm da parte del dott. Viola che aveva condotto le prime sperimentazioni su animali come già riferito nella parte introduttiva. Ma ammesso e non concesso che tale sperimentazione avesse quelle caratteristiche di adeguatezza metodologica e di validazione che la comunità scientifica pretende per prestare, oltreché attenzione, anche consenso ai suoi risultati, oltre tutto comunicati dallo stesso ricercatore come non estensibili all’uomo, il p.m., sotto il profilo causale, avrebbe comunque dovuto porsi il problema di individuare le condotte temporalmente rilevanti cui attribuire gli eventi contestati e a tale accertamento avrebbe dovuto far seguire, attenendosi al principio della personalità della responsabilità penale, l’individuazione di quei soggetti che nel periodo eziologicamente rilevante avevano ricoperto posizioni di garanzia nell’ambito delle società che gestivano il rischio di impresa. Già l’imputazione aveva un vizio d’origine poiché mancavano «le coordinate spazio temporali» che orientassero nell’individuazione delle condotte e dei soggetti cui fossero imputabili e tale situazione si è protratta sino alla conclusione del processo nonostante che inizialmente, poiché tutti gli eventi erano indistintamente riferiti a tutti gli imputati, il tribunale avesse imposto quanto meno il rispetto del criterio d’imputazione temporale così da evitare, stante l’ampio arco cronologico di trent’anni, di riferire a imputati che avevano assunto cariche societarie o ruoli dirigenziali in epoca successiva, eventi già verificatisi o viceversa eventi verificatisi posteriormente a soggetti cui non erano riferibili perché già cessati da ogni carica prima dell’assunzione e quindi dell’esposizione delle parti offese. L’accusa ha infatti stratificato nel tempo gli eventi lesivi secondo il mero criterio cronologico del loro accadimento collegandoli agli imputati, avvinti da una cooperazione colposa, mediante condotte indifferenziate e accomunate sostanzialmente dal rimprovero di non aver diminuito il rischio derivante dalla produzione di sostanza cancerogena: individuando sì le norme cautelative violate, ma non distinguendo quali tra queste violazioni andassero attribuite all’uno piuttosto che all’altro imputato, nonostante le modificazioni impiantistiche e organizzative intervenute in trent’anni nel Petrolchimico e il succedersi degli amministratori e dei dirigenti che, secondo l’accusa, avevano assunto posizioni di garanzia. E così sostituendo al criterio della responsabilità personale quello della responsabilità del gruppo societario, le cui variazioni attraverso fusioni, incorporazioni, cessioni e trasferimenti sono state ritenute irrilevanti («un gioco di scatole cinesi»), l’impostazione accusatoria ha portato ad un appiattimento e ad un’indifferenziazione delle responsabilità individuali e a una cristallizzazione delle situazioni individuate e descritte come quelle proprie degli anni antecedenti la scoperta della cancerogenicità del cvm che per l’accusa sono rimaste immutate sino al 2000. Ma nell’impostazione accusatoria non vi è solo un procedere senza distinzioni e neppure vi è solo l’assenza di una prospettazione diacronica dei fatti: vi è qualcosa di più grave che scompone il quadro accusatorio e dissocia i fatti dai confini temporali dell’accusa. Il p.m. compie una vera e propria traslazione dei piani temporali perché rappresenta nell’imputazione «un quadro del passato» che ci riporta a condizioni lavorative (e a conseguenti addebiti di colpa) che sono quelle proprie degli anni cinquanta-sessanta e invece propone all’esame dibattimentale tali situazioni come verificatesi nel successivo ampio arco temporale che va dal 1970 al 2000. Se infatti è vero che gli eventi addebitati (tumori e patologie) sono riconducibili eziologicamente alle elevate esposizioni degli anni cinquanta-sessanta anche per gli stessi consulenti dell’accusa e non già a quelle degli anni settanta (quanto meno a quelle a far data dalla fine del 1974), che sono state drasticamente ridotte per effetto degli interventi sulle procedure e sugli impianti, una volta avuta conoscenza della cancerogenicità del cvm, ci si deve chiedere per quale ragione il p.m. abbia contro l’evidenza trasferito quella realtà a un’epoca successiva. Appare inverosimile che non sia bastata l’evidenza dei dati rilevati dai misuratori personali e dai gascromatografi che hanno resistito a tutti i controlli effettuati dai consulenti della pubblica e privata accusa per persuadere che la situazione era cambiata e non era rimasta mummificata ai primi anni settanta. Ancora più incredibile sembra che neppure siano stati sufficienti i dati offerti dai severi consulenti dell’accusa Nano e Rabitti che nel reparto a maggior inquinamento ambientale (CV 6) avevano calcolato un valore medio tra l’aprile 1974 e il febbraio 1975 compreso tra 14 e 29 ppm per scendere ulteriormente a 5,27 ppm dal mese successivo sino a valori attorno a 1 ppm in epoca successiva. Questa sfasatura temporale ha percorso tutto il processo e ne ha determinato gli esiti: perché era realistica la rappresentazione dei fatti se riferita al tempo passato e invece contraria al vero se riferita agli anni successivi, tanto che il p.m. sulle responsabilità personali dei singoli imputati si è trovato in grave imbarazzo nell’individuare gli specifici addebiti di colpa indicati in termini indifferenziati e globali. In tal modo, oltreché non selezionare, alla stregua delle risultanze epidemiologiche, le patologie correlabili, neppure il p.m. ha adottato un criterio selettivo per individuare i soggetti cui fondatamente addebitare gli eventi lesivi: si è scelta invece — come è stato reiteratamente affermato dalle difese — la strategia «della massificazione degli eventi e delle condotte»: indubbiamente «fatto» di maggior evidenza e impatto verso l’esterno, ma di nessun fondamento in «diritto». Ritornando alle evidenze sia epidemiologiche che ambientali da cui risulta che in concreto era stato eliminato il rischio cancerogeno (almeno sulla base dei dati di fatto e delle conoscenze oggi esistenti), il p.m. avrebbe dovuto, innanzitutto, porsi il problema se poteva ritenersi raggiunta la dimostrazione che la causa efficiente degli eventi di morte e di malattia per esposizione a cvm si era verificata già prima del pur ampio arco temporale ricompreso nell’imputazione. Se è vero infatti che il cvm è un cancerogeno «iniziante» la cui efficacia di induzione oncogena è in rapporto alle dosi di esposizione e, più esattamente, alle dosi cumulative cui segue un lungo periodo di latenza per tutti i tumori in considerazione, l’epoca eziologicamente rilevante andava ricercata ripercorrendo a ritroso un corrispondente lasso temporale e collocata quindi negli anni cinquanta- sessanta, cioè anteriormente al tempus commissi delicti contestato. Va detto subito che il tribunale ha imboccato un’altra strada — che sarà più oltre oggetto di approfondimento — e cioè quella che conduce all’assenza della prova allo stato delle conoscenze scientifiche dell’idoneità del cvm a provocare il cancro del polmone, l’epatocarcinoma e la cirrosi, riconoscendo solo la sua associazione causale con l’angiosarcoma, con tipiche epatopatie e con la sindrome di Raynaud. Ma anche tale impostazione merita attenzione e considerazione perché mette in tutta evidenza la mancata considerazione da parte dell’accusa di risultanze incontrovertibili che avrebbero anch’esse evitato l’introduzione nel processo di eventi riconducibili eziologicamente a un lontano passato (ancorché cronologicamente ricadenti nel vasto arco temporale considerato dall’accusa) e avrebbe indotto a riflettere sulle cautele che si potevano pretendere dall’«agente modello» di quell’epoca in cui in tutto il mondo produttivo europeo e statunitense vi erano livelli espositivi elevati in egual misura a quelli esistenti a Porto Marghera (e che hanno prodotto le stesse conseguenze sulla vita e sulla salute dei lavoratori di quelle aree industriali, come si è potuto constatare esaminando gli studi epidemiologici condotti in quelle coorti). Basti considerare, quale testimonianza del grado di consapevolezza dei rischi e di espressione di cultura precauzionale dell’epoca, che l’Osha — riconosciuto come l’ente più restrittivo nell’ambito della protezione della salute — ha mantenuto un livello di esposizione ceiling di 500 ppm sino al marzo 1974! La realtà produttiva era altra da quella progressivamente realizzatasi dagli anni settanta in poi: i rischi venivano gestiti secondo le poche e approssimative norme cautelari vigenti all’epoca dettate dalle conoscenze scientifiche e tecnologiche di quel tempo, e soprattutto da scelte di politica economica finalizzate all’industrializzazione e all’occupazione delle popolazioni che andavano abbandonando le insufficienti risorse agricole e si inurbavano venendo inserite senza formazione e informazione in ambiti produttivi usuranti e nocivi. I processi attraverso cui i lavoratori dell’industria raggiungeranno consapevolezza dello sfruttamento del loro lavoro e della nocività degli ambienti di lavoro con pregiudizio della loro salute saranno lunghi e costellati da aspri e lunghi conflitti sindacali e sociali. Le rivendicazioni sino alla fine degli anni sessanta sono soprattutto rivolte ad ottenere un giusto salario e il rischio viene anch’esso monetizzato con la previsione di specifiche indennità; solo più tardi, con il maturare della coscienza che la salute è il bene supremo che va tutelato in sé, con i diversi rapporti di forza che la mobilitazione sindacale viene a imporre nelle fabbriche, con i contratti successivi al 1970, si otterrà di poter controllare con le rappresentanze interne e con i delegati la nocività per poterla almeno ridurre (il «rischio zero» era una parola d’ordine più che un obiettivo concreto). Questo è «il quadro del passato» cui si doveva fare riferimento per trarne tutte le conseguenze sotto il profilo giuridico senza farsi prendere dalla tentazione di farlo riemergere per riproporlo come attuale. Non è compito del giudice fare processi alla storia della industrializzazione, ma semmai di contestualizzare i fatti per trarne le debite conseguenze sotto il profilo giuridico. La riprovazione morale o il giudizio politico non possono essere confusi con la responsabilità penale e gli «anatemi contro i mercanti» sono solo suggestive imprecazioni estranee ad un processo. Ma l’accusa ha obiettato, in diritto, che all’epoca erano vigenti nel nostro ordinamento i d.p.r. 547/55 e 303/56 — di cui si parlerà più diffusamente nella parte concernente la colpa — che ricomprendevano norme che dovevano considerarsi cautelative rispetto ai rischi che hanno determinato gli eventi. Si può rispondere già in questa sede che allora si ignorava la pericolosità e la cancerogenicità sia del gas (cvm) sia delle polveri (pvc) che si diffondevano nell’ambiente di lavoro e quindi la rappresentazione e la prevedibilità degli eventi poi verificatisi, essendo il solo rischio noto alla metà degli anni sessanta la sindrome di Raynaud (cfr., in tal senso, Boffetta, udienza 12 luglio 2000) evento di tipo tutt’affatto diverso, patologia che determinava disfunzioni alla circolazione delle mani e che veniva a colpire i lavoratori che per le loro mansioni venivano a diretto contatto con la sostanza nella pulizia delle autoclavi o dei filtri o nell’insacco. E davvero non appare condivisibile l’assunto accusatorio secondo cui quelle norme richiederebbero al datore di lavoro, qualunque sia la nocività, prossima o remota del fattore inquinante, di mettere in atto ogni strategia possibile per eliminarlo o neutralizzarlo, assumendosi diversamente la responsabilità di tutte le conseguenze potenziali derivanti da quella violazione ancorché in quel momento impreviste o imprevedibili. Questa tesi, se vuole essere affermazione di un principio generale, estremizza e dilata sino all’imputabilità oggettiva il concetto di responsabilità colposa, poiché non si fa carico neppure di assumere come elemento essenziale non tanto la prevedibilità dell’evento tipico, ma neppure la rappresentazione dell’evento generico di un grave danno alla vita o alla salute: non si può eludere il problema della conoscenza o conoscibilità della nocività, e ancor più della cancerogenicità della sostanza (e nel caso particolare del cvm) in un determinato momento storico sia in ambito scientifico che in quello industriale secondo il modello del c.d. agente modello. Tale tesi la si può condividere se applicata a quelle sostanze delle quali già si conoscono effetti tossici cronici come l’amianto, la cui pericolosità per la salute era già stata normativamente prevista sia dalla l. 455/43 sia dalle tabelle allegate al d.p.r. 1124/65, in quanto la sua esposizione determinava il rischio di contrarre una malattia grave e irreversibile come l’asbestosi: in tal caso si può convenire che già la prevedibilità di un tale grave danno all’integrità fisica con esito infausto esigesse l’osservanza delle norme cautelari di riduzione della polverosità che, rispetto all’esposizione all’amianto, venivano oltretutto ad assumere un carattere di specificità, essendo comuni i rimedi per entrambe le patologie. Sicché il verificarsi del mesotelioma piuttosto che dell’asbestosi, può correttamente ricomprendersi nell’evento pur dall’agente non rappresentatosi tipicamente, ma prevedibile come conseguenza dannosa dell’inosservanza di norme cautelari comuni. In tal senso si esprime infatti la Suprema corte (11 maggio 1998, Calamandrei, Foro it., 1999, II, 236): «dipendendo entrambe le patologie dalla respirazione delle polveri d’amianto e sostanziandosi le misure preventive nella riduzione o eliminazione della polverosità della lavorazione, non sussiste la proclamata differenziazione dei rimedi, in quanto questi erano comuni a entrambe le malattie mortali. Pertanto ai fini della configurabilità della colpa è sufficiente che fosse comunque ... prevedibile che l’indiscriminata esposizione alla polvere d’amianto nella lavorazione della sostanza comportava alti rischi di contrarre l’asbestosi, di cui il mesotelioma costituisce una complicanza dipendente dalla medesima causa». Evidenti sono le ragioni per cui non è accettabile un’applicazione di tale orientamento per estrapolazione dall’amianto al cvm-pvc, non essendovi alcuna correlazione o progressione tra la patologia nota (Raynaud) e la neoplasia (angiosarcoma) causata dal cvm. Ancor meno è legittimo confondere il piano soggettivo con quello oggettivo deducendo dall’inosservanza di quelle norme di cautela generica l’attribuibilità dell’evento lesivo «con alta probabilità riconducibile proprio all’inalazione delle polveri o del gas», così ritenendo decisivo per l’accertamento della causalità il solo fatto che la condotta omissiva abbia astrattamente aumentato il rischio del verificarsi dell’evento. La dottrina e la giurisprudenza prevalenti escludono che nell’ambito dell’accertamento del nesso causale possa farsi ricorso alla teoria dell’aumento del rischio, «non essendo possibili ibride commistioni di elementi di carattere soggettivo» poiché dalla problematica oggettiva del nesso di causalità «devono rimanere escluse tutte le questioni afferenti la prevedibilità che attengono propriamente all’elemento psicologico» (Cass. 17 dicembre 1993, Ianieri, id., Rep. 1996, voce Reato in genere, n. 28). È allora necessario, per affrontare la problematica che ci si è posti, riportarci su un piano strettamente ontologico. Si tratta cioè di individuare quale sia stata nel 1974 la condotta antidoverosa e quale avrebbe dovuto essere per contro la condotta corretta che, se posta in essere, avrebbe impedito il verificarsi dell’evento, e cioè il comportamento alternativo idoneo ad evitare secondo le leggi scientifiche di copertura anche di carattere probabilistico — ma in quei termini di alta probabilità che la frequenza statistica garantisce e che solo sconta i limiti conoscitivi propri di ogni scienza — gli eventi tumorali e patogeni che si sono venuti a verificare nel periodo eziologicamente rilevante. Secondo l’ipotesi d’accusa i comportamenti antidoverosi sarebbero stati principalmente sia l’omessa fermata degli impianti — o comunque un adeguato e tempestivo intervento sugli stessi per ridurre l’esposizione nociva e cancerogena — sia l’omesso allontanamento dai reparti o dalle lavorazioni a rischio dei lavoratori maggiormente esposti (in particolare autoclavisti e insaccatori). Ammesso per pura ipotesi che tali condotte omissive si siano verificate pur in presenza della conoscenza del rischio tossico e oncogeno, si tratta di verificare se avrebbe potuto il comportamento alternativo che si esige evitare il verificarsi dei tumori epatici e polmonari in quei lavoratori che erano stati esposti, come risulta dalle consulenze epidemiologiche e dalle schede personali prodotte nel corso degli esami medico-legali, alle elevate concentrazioni degli anni cinquanta e sessanta. I dati di conoscenza scientifica ci dicono: a) che il cvm è una sostanza che agisce secondo un rapporto dose-risposta e che le esposizioni cumulative più elevate sia per quantità sia per durata sono quelle maggiormente responsabili degli effetti oncogeni; b) che secondo il modello carcinogenetico multistadio, il cvm sarebbe un cancerogeno iniziante e cioè inducente una mutazione tendenzialmente irreversibile nei primi stadi del processo tumorale; c) che il periodo di esposizione lavorativa e di latenza, anche sottratto il periodo di lag (che è il periodo intercorrente tra la presumibile epoca dell’induzione a seguito di esposizione alla sostanza cancerogena e la manifestazione del tumore, calcolato in circa quindici anni sulla base della letteratura esistente), sarebbe rispettato per tutti i lavoratori che hanno contratto i tumori, così da poter ragionevolmente ritenere che le esposizioni rilevanti a determinare i tumori siano quelle degli anni cinquanta- sessanta [...]. Ne consegue che all’epoca in cui i comportamenti doverosi erano concretamente esigibili essi non avrebbero potuto evitare gli eventi verificatisi o, se si vuole, più cautelativamente, sia per le indeterminatezze dei modelli di cancerogenesi sia per le variabili concernenti il periodo di lag, non sussiste una prova dimostrativa avente elevata probabilità che il comportamento alternativo avrebbe impedito o ritardato il verificarsi dei tumori. Il tribunale è consapevole di un opposto orientamento giurisprudenziale che si è formato in tema di rapporto causale tra esposizione ad amianto e mesotelioma pleurico e tumore polmonare ove si afferma che «tutte le condotte che nell’arco dell’intera vita lavorativa abbiano consentito l’esposizione alle polveri di amianto sono in nesso di causalità con la morte verificatasi»: ma ancora una volta non si possono non sottolineare le differenti peculiarità dell’amianto rispetto al cvm che possono consentire tale conclusione per la prima sostanza ma non per la seconda. Invero l’esposizione ad amianto, anche a concentrazioni minime, può essere idonea a «indurre» e a «promuovere» (quindi a innescare e a far progredire anche a distanza di tempo) il processo tumorale, tanto che la sua utilizzazione è stata vietata con l. 27 marzo 1992 n. 257. Pertanto può trovare giustificazione sulla base di tali caratteristiche della sostanza oncogena l’affermazione che sarebbero rilevanti e idonei anche interventi prossimi all’insorgenza del tumore per impedire l’evoluzione della patologia tumorale o per allungare il periodo di latenza e quindi di speranza di vita. Ma non è altrettanto giustificabile per il cvm che è oncogeno solo iniziatore e ha idoneità lesiva solo ad elevate esposizioni non più sussistenti sin dal 1974, anno dal quale furono ridotte le esposizioni a livelli per i quali manca la prova di una loro idoneità lesiva. Una qualche perplessità è comunque doveroso esprimere rispetto a questi orientamenti che affermano di affidarsi «al sapere degli esperti», perché appare difficile allo stato delle conoscenze sulla oncogenesi individuare leggi di copertura dotate di scientificità su cui fondare quell’alta probabilità cui tuttavia ci si richiama per imputare l’evento alla condotta omissiva antidoverosa. Si ha l’impressione che, ancorché non esplicitamente dichiarato ma confuso nella valutazione probabilistica, si insinui il criterio dell’aumento del rischio determinato dall’inosservanza delle norme cautelari. Il tribunale, come preannunciato, ha tuttavia intrapreso una diversa soluzione della problematica attinente la causalità: tutti i dati di conoscenza introdotti nel presente processo, molteplici e aggiornati, valutati complessivamente, non consentono di ritenere sussistente un’associazione causale tra cvm-pvc e tumori diversi dall’angiosarcoma e patologie che non siano la sindrome di Raynaud e l’acrosteolisi, nonché tipiche epatopatie interessanti l’endotelio. (Omissis) CORTE DI CASSAZIONE; sezione IV penale; sentenza, 17-05-2006 Giudicante: CORTE DI CASSAZIONE; sezione IV penale; sentenza, 17-05-2006 Magistrati: Pres. Coco, Est. Brusco, P.M. Passacantando (concl. parz. diff.) Parti e avvocati: ric. Proc. gen. App. Venezia e altri in c. Bartalini e altri. Giudizio precedente: Annulla App. Venezia 15 dicembre 2004.
CORTE DI CASSAZIONE; sezione IV penale; sentenza, 17-05-2006
Omissis. — b) I criteri di accertamento della causalità. Altre censure proposte nei ricorsi delle parti civili riguardano invece i criteri utilizzati dalla corte di merito per l’accertamento del rapporto di causalità tra esposizione e patologie verificatesi. Trattandosi, in questo caso, di critiche che denunziano il vizio di violazione di legge si rende necessario un preliminare esame dell’evoluzione della giurisprudenza di legittimità sul tema dei criteri che il giudice deve utilizzare per l’accertamento del rapporto di causalità non solo per le caratteristiche di complessità di questi temi ma anche perché, dopo la pronunzia della sentenza di primo grado e prima di quella d’appello (che difatti la prende espressamente in considerazione), è intervenuta una decisione sul tema delle sezioni unite di questa corte che rende necessario un approfondimento del tema. In generale può osservarsi che il concetto di causa delle azioni umane o degli eventi naturali costituisce da lungo tempo oggetto della ricerca filosofica, scientifica e delle scienze sociali. Nel più ristretto ambito delle discipline giuridiche il rapporto di causalità costituisce un criterio di imputazione oggettiva di un evento alla condotta di un soggetto; solo se l’evento può essere ritenuto ricollegabile alla sua condotta l’agente potrà essere tenuto a risponderne (concorrendo i criteri di imputabilità soggettiva). Il codice penale ha esplicitato questo concetto nella formula usata dall’art. 40, 1° comma, con la previsione che l’evento dannoso o pericoloso, da cui dipende l’esistenza del reato, debba essere «conseguenza» della sua azione od omissione. Con questa formulazione il codice, come è tradizionalmente riconosciuto, ha inteso accogliere la c.d. teoria condizionalistica della causalità (condicio sine qua non) o dell’equivalenza delle cause. Tradizionalmente si afferma che all’accertamento dell’esistenza del rapporto di causalità si perviene con un procedimento di eliminazione mentale: un’azione è causa di un evento se non può essere mentalmente eliminata senza che l’evento venga meno o si verifichi con modalità diverse. La condotta deve costituire quindi una condizione c.d. necessaria (contrapposta alle condizioni c.d. sufficienti) per il verificarsi dell’evento. Il procedimento di eliminazione mentale costituisce un metodo largamente approssimativo, come è stato in più occasioni dimostrato, che non sempre consente di pervenire ad una ragionevole soluzione del problema. In particolare la dottrina ha chiarito come il procedimento di eliminazione mentale sia inutilizzabile nei casi di causalità alternativa ipotetica (si consideri il caso di distruzione di un bene che sarebbe stato ugualmente distrutto per altra causa) o di causalità addizionale (si pensi alla duplice, contemporanea, indipendente ed efficace azione omicida). Con il processo di eliminazione mentale l’evento si verifica ugualmente in entrambi i casi ma apparirebbe singolare escludere il nesso di condizionamento per una delle due condotte. E lo stesso deve dirsi nel caso di concorso di cause sopravvenute. Insomma il metodo dell’eliminazione mentale va utilizzato tenendo conto della necessità di non pervenire alla disapplicazione su base interpretativa delle norme sul concorso di cause ponendo nel nulla il principio, normativamente previsto, dell’equivalenza delle cause. Si deve quindi fare riferimento alle condotte di tutti coloro che hanno contribuito all’esito finale e non alle singole condotte in relazione alle quali valgono gli usuali criteri da utilizzare nell’accertamento del concorso di cause. Questo, a parere della corte, è il criterio da adottare in tutti i casi in cui la condotta di un soggetto si inserisce in modo efficiente in un processo causale e questo vale anche nel caso di condotte di natura diversa. I casi di più immediata evidenza sono riscontrabili nell’attività medica: se tre medici, chiamati a consulto, forniscono tutti, colposamente, la stessa diagnosi errata che provoca la morte del paziente per escludere il rapporto di causalità non basta affermare che, eliminando mentalmente uno dei tre pareri (quale? se si affermasse un tal principio l’esclusione varrebbe per tutti), la terapia non sarebbe mutata e il paziente sarebbe deceduto ugualmente perché le norme sul concorso di cause impongono di considerare unitariamente i tre pareri e di compiere il giudizio di eliminazione mentale considerandoli complessivamente. Queste difficoltà si accentuano nel caso di causalità omissiva — cui si accenna perché alcuni dei ricorrenti vi si riferiscono e anche nelle sentenze di merito in alcune parti vi si fa riferimento ma erroneamente perché (come si è già accennato) agli imputati è stata contestata la violazione di un divieto (non sottoporre i lavoratori ad esposizioni nocive) e non la violazione di un obbligo — perché, nella causalità omissiva, il decorso degli avvenimenti non è, nella realtà fenomenica, influenzato dall’azione (che non esiste) di un soggetto. La causalità omissiva — che, proprio per queste caratteristiche, parte della dottrina qualifica come «equivalente normativo della causalità» — si configura come una costruzione giuridica (art. 40, 2° comma, c.p., che non a caso usa la locuzione «equivale», secondo l’equazione: non impedire equivale a cagionare) che consente di ricostruire l’imputabilità oggettiva come violazione di un obbligo di agire, di impedire il verificarsi dell’evento (in violazione del c.d. obbligo di garanzia); omissione che provoca l’evento di pericolo o di danno (reati omissivi impropri o commissivi mediante omissione; contrapposti ai reati omissivi propri nei quali il reato si perfeziona con la mera omissione della condotta dovuta). La maggior complessità dei problemi in tema di causalità nei reati omissivi impropri non è ricollegata tanto alla necessità, in questo tipo di reati, d’individuare (secondo i criteri ai quali si accennerà più avanti) se l’evento sia conseguenza dell’omissione accertata (problema che si pone in modo non dissimile nel caso di reati commissivi con riferimento all’azione compiuta), ne dalla ricostruzione in via meramente ipotetica dell’efficacia dell’azione omessa (anche questo è problema comune alla causalità attiva perché, anche in questi casi, il giudice deve ricostruire, in via di ipotesi, l’effetto dell’eliminazione della condotta commissiva) ma dalla necessità ulteriore d’individuare la condotta positiva che, se posta in essere, avrebbe evitato il prodursi dell’evento (si è detto che, nella causalità omissiva, il procedimento logico è doppiamente ipotetico). Ovvio essendo che se l’evento era destinato a prodursi ugualmente con tempi e modalità identici (in base all’indicato processo di eliminazione mentale, inteso nel senso in precedenza indicato, che più propriamente, nella causalità omissiva, dovrebbe essere chiamato di «aggiunta» mentale), anche nel caso in cui l’agente avesse attivato tutti gli interventi richiestigli, le conseguenze dell’omissione non potrebbero essere a lui addebitate. La causalità omissiva, proprio per essere giustificata in base ad una ricostruzione logica e non in base ad una concatenazione di fatti materiali esistenti nella realtà ed empiricamente verificabili, costituisce una causalità costruita su ipotesi e non su certezze. Si tratta quindi di una causalità ipotetica, normativa, fondata, come quella commissiva, su un giudizio controfattuale («contro i fatti»: se l’intervento omesso fosse stato adottato si sarebbe evitato il prodursi dell’evento?) alla quale si fa ricorso per ricostruire una sequenza che però, a differenza della causalità commissiva, non potrà mai avere una verifica fenomenica che invece, nella causalità commissiva è spesso (non sempre però) verificabile. In questo caso, si è detto, il rapporto si istituisce tra un’entità reale (l’evento verificatosi) e un’entità immaginata (la condotta omessa) mentre nella causalità commissiva il rapporto è tra due entità reali. Nell’enunciato ipotetico della causalità omissiva tanto l’antecedente che il conseguente sono falsi (la condotta richiesta non è stata posta in essere; l’evento si è verificato). Si badi: la causalità omissiva non è di origine soltanto normativa. Per avere conferma di ciò basti ricordare che in ordinamenti giuridici (per es. quello tedesco fino ad una modifica relativamente recente), anche di origine non diversa dal nostro, è comunemente riconosciuta l’efficacia causale dell’omissione anche in assenza di una norma che la preveda espressamente come il 2° comma dell’art. 40 c.p. ricordato. Secondo un orientamento, ormai largamente diffuso e condiviso, per compiere la ricostruzione del fenomeno causale devono essere utilizzate (come nella causalità commissiva ma con l’ulteriore ricordata necessità di verificare ipoteticamente l’efficacia salvifica della condotta omessa) le leggi c.d. di copertura (espressione ermetica che starebbe a significare che la spiegazione di un evento può aversi solo «coprendo» — meglio sarebbe dire «spiegando» — l’evento con una legge o, come parimenti si dice, sussumendo l’evento sotto una legge). Leggi di copertura, di origine scientifica, che possono avere un valore universale o un valore semplicemente statistico e la cui funzione è quella di attribuire un valore generalizzante a sequenze di accadimenti altrimenti tra di loro arbitrariamente collegate sulla base di presunzioni non fondate su leggi dotate di un pari grado di credibilità. Va ancora precisato che la riferita conclusione teorica sulla diversità della causalità omissiva rispetto a quella commissiva, pur prevalente, è peraltro posta in discussione da una corrente dottrinaria che invece motivatamente sostiene che, anche nella causalità omissiva, «l’effetto condizionante è dunque reale: il tasso d’ipoteticità del sillogismo che così si imposta non è maggiore né diverso da quello di un sillogismo relativo alla causalità attiva» (la dottrina che fa proprio questo orientamento richiama gli studi che hanno inquadrato la condotta omissiva tra i «processi statici» e, pur riconoscendo la natura reale del condizionamento, ritiene che nella causalità omissiva la spiegazione dell’evento avvenga non con una «ricostruzione del passato», come nella causalità commissiva, ma con un giudizio «prognostico»). Indipendentemente dalla soluzione di questi problemi teorici va segnalato che il pluridecennale dibattito, giurisprudenziale e dottrinale, diretto ad individuare criteri soddisfacenti per ricollegare l’evento all’omissione in termini di ragionevolezza non si è ancora concluso e, ancora di recente, ha trovato nuovi sviluppi. L’interprete deve infatti constatare come, a seconda delle epoche, il problema della causalità omissiva (ma anche di quella commissiva) si sia posto oscillando da impostazioni teoriche (per es. quella dell’aumento del rischio) che tendevano a trasformare i reati omissivi in questione in reati di mera condotta — con grave lesione dei principî di legalità e di determinatezza per averli invece il legislatore indiscutibilmente configurati come reati di evento (per es. i delitti di lesioni e omicidio) — ed altre che richiedevano invece l’impossibile prova della certezza dell’esistenza del rapporto eziologico non raggiungibile in questa materia non solo per le caratteristiche ipotetiche della causalità omissiva ma anche per la variabilità dei casi specifici, per la normale coesistenza di concause e per la frequentissima non assolutezza delle leggi scientifiche applicate. La giurisprudenza di legittimità, formatasi prevalentemente (con riferimento non solo alla causalità omissiva) sul tema della responsabilità professionale medica in tema di trattamenti terapeutici, ha prevalentemente seguìto, fino alla fine degli anni novanta, una linea che può definirsi di tipo «probabilistico» affermando — con varianti per lo più terminologiche — che, per ritenere esistente il rapporto di causalità materiale, si dovesse accertare che l’intervento omesso, se tempestivamente e correttamente eseguito, avrebbe avuto «serie ed apprezzabili probabilità di successo» (in realtà le formulazioni usate sono le più diverse e quella indicata è la formula riassuntiva che meglio esprime questa linea interpretativa). Spesso questo giudizio di natura probabilistica si è espresso in termini percentuali con margini di oscillazione, per la verità, eccessivamente ampi (verso il basso) secondo un percorso interpretativo che si è spinto fino all’attribuzione di un evento a un soggetto sol perché, con la sua condotta, ha eliminato o diminuito le chances di salvezza del bene individuale protetto. In queste ipotesi è palese che l’orientamento c.d. «probabilistico» si risolve in quello dell’aumento del rischio e a queste conseguenze non si sottraggono neppure i sostenitori di un’altra teoria, quella dell’imputazione oggettiva dell’evento, sorta peraltro per restringere l’ambito di applicazione della teoria condizionalistica. Anche in questo campo l’impostazione probabilistica trova il suo fondamento (peraltro di natura più pratica che teorica) sulle medesime difficoltà ricostruttive: la natura ipotetica della ricostruzione a posteriori, le difficoltà d’individuazione del trattamento omesso che avrebbe potuto salvare il bene o diminuire il rischio, la più frequente diversità delle condizioni soggettive e la compresenza di concause rende ancor più difficoltosa la ricostruzione del fatto sotto il profilo della causalità. Ma identico è il fondamento teorico-pratico che sta alla base della teoria probabilistica: la constatazione dell’impossibilità, nella causalità omissiva impropria, d’individuare con certezza il fattore condizionante omesso che, se compiuto, avrebbe impedito il verificarsi dell’evento. L’orientamento che possiamo definire «probabilistico» è stato sottoposto a vivace critica da parte di alcune sentenze (v., in particolare, Cass. 28 settembre 2000, Baltrocchi, Foro it., 2001, II, 420, in tema di responsabilità medica; più di recente, 25 settembre 2001, Covili e altri, id., 2002, II, 289, sul tema dell’esposizione all’inalazione delle fibre di amianto) di questa medesima sezione che ha capovolto l’impostazione tradizionale della giurisprudenza di legittimità fondata sul giudizio probabilistico giungendo ad affermare che «in tanto il giudice può affermare che un’azione od omissione sono state causa di un evento, in quanto possa effettuare il giudizio controfattuale avvalendosi di una legge o proposizione scientifica che ‘enunci una connessione tra eventi in una percentuale vicina a cento’». I passaggi logici attraverso i quali questo orientamento è pervenuto alle conclusioni riportate possono così riassumersi: premesse le acquisizioni in precedenza riferite sulla natura del giudizio controfattuale da operarsi nel caso di reato omissivo improprio, al valore — universale o semplicemente statistico — delle leggi di copertura, al dibattito dottrinale sulla diversa natura, o meno, della causalità omissiva rispetto a quella commissiva le sentenze citate riaffermano che il giudice non può non prendere atto dei migliori esiti della ricerca giuridico-scientifica ed in particolare del fatto che tali orientamenti, pur divergendo sulla natura della causalità omissiva, purtuttavia convergono sulla necessità che, per ritenere esistente il rapporto di causalità, a conclusione del giudizio controfattuale, il giudice dovrà verificare che l’intervento omesso, se effettuato, avrebbe impedito il verificarsi dell’evento con una probabilità vicino alla certezza. A conferma della tesi riportata le sentenze citate richiamano le conclusioni contenute nel progetto di riforma del codice penale, elaborato dalla commissione ministeriale istituita con d.m. 1° ottobre 1998, che effettivamente, nella prima stesura, si esprimeva sul rapporto di causalità nei reati omissivi in termini di certezza. Più recentemente, per dirimere il contrasto insorto all’interno di questa medesima sezione, sono intervenute le sezioni unite di questa corte che, con la sentenza 10 luglio 2002, Franzese (ibid., 601) hanno posto un punto fermo su questa complessa problematica proponendone una condivisibile ricostruzione. In sintesi le sezioni unite, dopo aver ribadito la perdurante validità della teoria condizionalistica (ritenuta temperata con il riferimento alla teoria della «causalità umana» quanto alle serie causali sopravvenute, autonome e indipendenti, di cui all’art. 41, 2° comma, c.p.) e la necessità di procedere al giudizio controfattuale al fine di verificare se, eliminata mentalmente la condotta presa in considerazione, l’evento si sarebbe ugualmente verificato, hanno poi confermato la necessità che la spiegazione causale dell’evento verificatosi hic et nunc provenga da attendibili risultati di generalizzazioni del senso comune ovvero facendo ricorso generalizzante alla sussunzione del singolo evento sotto leggi scientifiche che consenta di affermare che l’antecedente può essere considerato condizione necessaria dell’evento se rientra tra quelle conseguenze che le indicate leggi di «copertura» consentono di ritenere aver provocato l’evento. Secondo le sezioni unite «il ricorso a generalizzazioni scientificamente valide consente infatti di ancorare il giudizio controfattuale, altrimenti insidiato da ampi margini di discrezionalità e di indeterminatezza, a parametri oggettivi in grado di esprimere effettive potenzialità esplicative della condizione necessaria, anche per i più complessi sviluppi causali dei fenomeni naturali, fisici, chimici o biologici». Passando poi a trattare più specificamente della causalità omissiva la sentenza citata, senza addentrarsi nella soluzione del già accennato problema teorico della natura reale, o meramente normativa, dell’effetto condizionante nei reati omissivi impropri, ha però richiamato, condividendolo, l’orientamento che ritiene valido il «paradigma unitario di imputazione dell’evento» con riferimento al «condizionale controfattuale» la cui formula deve rispondere al quesito se «mentalmente eliminato il mancato compimento dell’azione doverosa e sostituito alla componente statica un ipotetico processo dinamico corrispondente al comportamento doveroso, supposto come realizzato, il singolo evento lesivo, hic et nunc verificatosi, sarebbe, o non, venuto meno, mediante un enunciato esplicativo ‘coperto’ dal sapere scientifico del tempo». Da queste premesse le sezioni unite sono giunte alla conclusione che, «superato l’orientamento che si sostanzia in pratica nella ‘volatilizzazione’ del nesso eziologico», il contrasto giurisprudenziale verta sui «criteri di determinazione e di apprezzamento del valore probabilistico della spiegazione causale»; non viene dunque in considerazione lo statuto condizionalistico e nomologico della causalità ma la sua concreta «verificabilità processuale» e su tale problema le sezioni unite hanno ritenuto di non condividere l’orientamento che, particolarmente sul tema dei trattamenti terapeutici, fa riferimento, al fine di ritenere accertato il nesso di condizionamento, alle «serie e apprezzabili probabilità di successo» del trattamento omesso in quanto, con questa formula, si esprimono coefficienti indeterminati di probabilità con il rischio di violare i principî di legalità e tassatività della fattispecie e della garanzia di responsabilità per fatto proprio. Fatte queste premesse la sentenza in esame ha indicato una via che riconduce la soluzione del problema all’accertamento processuale dell’esistenza del nesso di condizionamento alla stregua di quei canoni di «certezza processuale», non dissimili da quelli utilizzati per l’accertamento degli altri elementi costitutivi della fattispecie, che conduca, all’esito del ragionamento di tipo induttivo, ad un giudizio di responsabilità caratterizzato da «alto grado di credibilità razionale». In quest’ottica, secondo la sentenza citata, «non è sostenibile che si elevino a schemi di spiegazione del condizionamento necessario solo le leggi scientifiche universali e quelle statistiche che esprimano un coefficiente probabilistico ‘prossimo ad 1’, cioè alla ‘certezza’, quanto all’efficacia impeditiva della prestazione doverosa e omessa rispetto al singolo evento». Con riferimento alla scienza medica, ma con argomentazioni di carattere generale utilizzabili anche in altri settori, le sezioni unite, da questa considerazione, traggono la conclusione che la «certezza processuale» può derivare anche dall’esistenza di coefficienti medio bassi di probabilità c.d. frequentista quando, corroborati da positivo riscontro probatorio circa la sicura non incidenza, nel caso di specie, di altri fattori interagenti, possano essere utilizzati per il riconoscimento giudiziale del rapporto di causalità. Per converso livelli elevati di probabilità statistica o addirittura schemi interpretativi dedotti da leggi universali richiedono sempre la verifica concreta che conduca a ritenere irrilevanti spiegazioni diverse. Con la conseguenza che non è «consentito dedurre automaticamente — e proporzionalmente — dal coefficiente di probabilità statistica espresso dalla legge la conferma dell’ipotesi sull’esistenza del rapporto di causalità». È inadeguato, infatti, secondo la sentenza in esame, esprimere il grado di corroborazione dell’explanandum mediante coefficienti numerici mentre appare corretto enunciarli in termini qualitativi per cui le sezioni unite mostrano di condividere quell’orientamento della giurisprudenza di legittimità che fa riferimento alla c.d. «probabilità logica» che, rispetto alla c.d. «probabilità statistica», consente la verifica aggiuntiva dell’attendibilità dell’impiego della legge statistica al singolo evento. Solo con l’utilizzazione di questi criteri può giungersi alla certezza processuale sull’esistenza del rapporto di causalità in modo non dissimile dall’accertamento relativo a tutti gli altri elementi costitutivi della fattispecie con criteri non dissimili «dalla sequenza del ragionamento inferenziale dettato in tema di prova indiziaria dall’art. 192, 2° comma, c.p.p.» al fine di pervenire alla conclusione, caratterizzata da alto grado di credibilità razionale, che «esclusa l’interferenza di decorsi alternativi, la condotta omissiva dell’imputato, alla luce della cornice nomologica e dei dati ontologici, è stata condizione ‘necessaria’ dell’evento, attribuibile per ciò all’agente come fatto proprio». Mentre l’insufficienza, la contradditorietà e l’incertezza del riscontro probatorio, e quindi il ragionevole dubbio sulla reale efficacia condizionante della condotta omissiva, non possono che condurre alla negazione dell’esistenza del nesso di condizionamento. c) Esame delle censure delle parti civili sulla causalità. Il problema che si pone nel presente processo è pertanto quello di verificare se i giudici di merito si siano attenuti ai principî enunciati dalle sezioni unite nella sentenza indicata ed in particolare se abbiano fornito di adeguata motivazione la loro valutazione sull’esclusione dell’efficienza causale delle condotte colpose accertate escludendo di poterle ricollegare all’evento in termini di «alto grado di credibilità razionale» nel quale si sostanzia la certezza processuale come affermato nella sentenza ricordata. È opinione di questa corte che la sentenza della corte d’appello veneziana abbia rispettato, in questa verifica, i principî enunciati dalle sezioni unite in precedenza sintetizzati. Le argomentazioni, già ricordate, proposte dalle ricorrenti parti civili sono state ampiamente esaminate dalla corte di merito che ha condiviso (non tanto le premesse teoriche quanto) le conclusioni dei primi giudici sulla causalità e ha altresì ritenuto che le critiche formulate sulla causalità fossero infondate anche in fatto. Passando più specificamente all’esame delle censure che riguardano le patologie ricordate va infatti rilevato che la corte di merito — per quanto riguarda i tumori polmonari — ha ritenuto che le insanabili contraddizioni tra gli stessi consulenti e testimoni del pubblico ministero non consentissero di ritenere che l’accusa avesse adempiuto all’onere probatorio su di lei incombente anche sulla sola astratta idoneità della sostanza a cagionare le patologie in esame. Va intanto escluso che la corte non abbia fornito risposta alle censure e ai temi sollevati dalle appellanti parti civili perché l’esame della sentenza impugnata dimostra il contrario. In particolare la corte ha evidenziato i dissensi riscontrati nelle ricostruzioni effettuate dai consulenti tecnici delle parti (ma anche tra i consulenti tecnici del pubblico ministero) sulle diverse ipotesi ricostruttive formulate in merito alle conclusioni Iarc dopo il 1987, sul collegamento tra esposizione a cvm e tumore al polmone: mentre Berrino resta fermo sulle originarie conclusioni Iarc Mastrangelo, Comba e Pirastu esprimono dubbi significativi sia sulla validità dello studio di coorte — perché comprendente i soci di cooperative che lavoravano anche presso imprese diverse — sia per l’esistenza di un dato epidemiologico (relazione inversa tra aumento della latenza e valore del Smr per il tumore al polmone) che depone in senso contrario al collegamento eziologico. Indubbiamente, nella prospettazione delle parti civili ricorrenti, il dato più significativo che emerge è quello che si riferisce ai casi di tumore al polmone che ha colpito gli insaccatori per i quali l’incidenza è nettamente superiore rispetto agli altri dipendenti. La corte ha però ritenuto che questo scostamento non consentisse di pervenire ad un giudizio causale positivo perché lo studio di coorte richiamato dai ricorrenti aveva analizzato congiuntamente i casi dei lavoratori dipendenti da Montedison ed EniChem e quelli delle cooperative che prestavano la loro attività anche in aziende diverse e ciò non consentiva un giudizio omogeneo; tanto più che, per gli insaccatori dipendenti da Montedison ed EniChem, «non emergerebbe alcun eccesso». È certamente vero, come sostengono le ricorrenti parti civili, che questa conclusione non appare appagante ma il sindacato di legittimità è limitato alla coerenza logica della decisione che non può certamente escludersi nel caso in esame. Trattasi, tra l’altro, di conclusione verosimilmente resa necessaria da una carente impostazione dell’imputazione che non ha selezionato adeguatamente le diverse situazioni riferibili ai settori di maggiore esposizione anche per i dipendenti delle cooperative (per es. se si fosse accertato che questi dipendenti non prestavano attività in altri ambienti in situazioni di rischio e non esistevano fattori di confondimento di diversa natura il dato accertato avrebbe potuto assumere un diverso significato). Per quanto riguarda invece gli epatocarcinomi diversi dagli angiosarcomi la corte ha ritenuto infondato il motivo di appello fondato sugli studi Epa — secondo cui l’eccesso per queste forme tumorali sarebbe confermata per gli esposti a cvm — sia per i criteri metodologici utilizzati nella ricerca e ritenuti non adeguati; sia perché questi dati sarebbero smentiti dalle indagini multicentriche in Europa (Ward 2000 e 2001) sia perché, infine, il documento Epa riconoscerebbe i limiti della ricerca per la possibilità che angiosarcomi siano stati classificati come epatocarcinomi. Anche in questo caso sono state rilevate diverse posizioni tra i consulenti dell’accusa e si è sottolineato il maggior rischio di confondimento esistente per l’epatocarcinoma (rispetto all’angiosarcoma) per la multifattorialità di questa forma tumorale. In particolare sulle specifiche censure proposte dalle parti civili prossimi congiunti di Bonigolo Gastone, deceduto per epatocarcinoma, si osserva che la diversa interpretazione che le ricorrenti parti civili propongono delle conclusioni del consulente tecnico prof. Berrino valgono soltanto a consentire di pervenire ad un giudizio di possibilità (o al più di probabilità ma non in elevato grado) sulla riconducibilità della patologia contratta dal loro prossimo congiunto all’esposizione a cvm e quindi non consentono di ritenere accertata, in termini di elevata credibilità razionale, l’esistenza della causalità individuale. Mentre, per quanto riguarda la tipicità delle lesioni che caratterizzavano la patologia di Bonigolo la corte, con valutazione incensurabile, l’ha esclusa. Quanto alla cirrosi la corte di merito si è rifatta integralmente alle considerazioni svolte dal tribunale, che dunque non vengono riportate nella sentenza, ritenendo che l’eccesso riscontrato nella coorte di Porto Marghera non sia significativo dal punto di vista statistico per la presenza dei fattori di confondimento (epatiti e abuso di alcool) e «per la scarsità di informazioni in ordine ad un’associazione che là dove viene evidenziata, come nello studio Martines, si riporta solo alla categoria dei soggetti con elevata esposizione (esposizione cumulativa maggiore di 1650 ppm)». Nella categoria intermedia di esposizione i valori sono invece inferiori o uguali a uno; il che dimostra che il rischio non cresce gradatamente. In conclusione, secondo la sentenza impugnata, la contradditorietà di dati e l’inesistenza di un riconoscimento condiviso se non generalizzato, da parte della comunità scientifica, della possibilità di affermare la causalità generale tra l’esposizione a cvm e le patologie indicate non consentirebbero di pervenire ad un giudizio che superi il criterio del ragionevole dubbio. Queste conclusioni, seppure — lo si ripete — possano essere ritenute inappaganti in una tragica e pluridecennale vicenda nella quale si sono inserite gravi conseguenze personali per i lavoratori del petrolchimico, anche con esito infausto, appaiono coerenti con i principî stabiliti dalle sezioni unite nella sentenza Franzese; ciò, in particolare, laddove si sottolinea che l’insufficienza, la contraddittorietà e l’incertezza del riscontro probatorio, e quindi il ragionevole dubbio sulla reale efficacia condizionante della condotta omissiva (ma analogo ragionamento può farsi per quella commissiva), non possono che condurre a non ritenere provata l’esistenza del nesso di condizionamento. Basti pensare alle sottolineate divergenze tra le conclusioni delle agenzie internazionali; alle contraddizioni all’interno degli studi effettuati dalla medesima agenzia (Iarc); alle differenti conclusioni cui sono pervenuti, su alcuni temi relativi alla causalità, gli stessi consulenti tecnici del pubblico ministero per avere conferma come le conclusioni della corte di merito non potessero discostarsi da quelle assunte non essendosi raggiunta la soglia dell’inesistenza del ragionevole dubbio ritenuta necessaria dalla giurisprudenza di legittimità anche prima dell’introduzione legislativa ad opera della l. 46/06. Non diverse sono le conclusioni sui motivi riguardanti le problematiche relative a: 1) lesività del cvm a basse dosi; 2) efficacia promovente e non solo iniziante del cvm; 3) efficacia concausale per l’azione sinergica del cloruro di vinile con altri riconosciuti fattori causali. Su questi punti la corte di merito dichiara espressamente di condividere le ragioni indicate dalla sentenza di primo grado che viene integralmente richiamata. Sulla c.d. «bassa soglia» si ricorda, nella sentenza impugnata, anche il parere del consulente del p.m. Martines e si sottolinea come tutti i casi rilevati riguardino esposizioni elevate e si siano verificati tra gli addetti assunti in epoche più lontane. E la letteratura formatasi su questo problema sembra ormai concordemente orientata nel senso dell’inesistenza della prova dell’efficienza causale del cvm a basse soglie. Parimenti, per quanto riguarda l’efficacia promovente del cvm, la corte sottolinea l’inesistenza di una legge di copertura scientifica che confermi questa efficacia mentre l’efficacia iniziante è ormai condivisa dalla comunità scientifica. Sulla concausalità i giudici di secondo grado, pur facendo intendere di condividere la tesi del p.m. appellante sull’erroneità dell’affermazione del tribunale secondo cui se non è provato che un fattore sia da solo causa neppure può essere concausa — critica indubbiamente corretta perché l’affermazione del tribunale ha come conseguenza quella di disconoscere l’efficienza concausale in tutti i casi nei quali uno dei fattori causali non è da solo sufficiente a cagionare l’evento ma lo è se associato ad altro fattore causale — hanno ritenuto che le prove acquisite non fossero sufficienti per affermare l’efficacia sinergica di fumo, alcool o epatopatie diverse proprio perché difetta la prova che, sulle patologie diverse dall’angiosarcoma (e dalle altre patologie riconducibili all’esposizione a cvm), abbia effetto (anche non esclusivo) l’esposizione alla sostanza in questione. E la corte sottolinea altresì come gli appellanti pretendano un’inammissibile inversione dell’onere della prova richiedendo che venga fornita la prova che i casi di decessi per epatocarcinomi, cancro al polmone, ecc. siano stati causati esclusivamente da alcool, fumo, epatiti. Adeguatamente motivate ed esenti da illogicità devono quindi ritenersi le conclusioni della corte di merito nella parte in cui è stata confermata, quanto all’esistenza del rapporto di causalità, la valutazione dei primi giudici sul difetto di prova di una correlazione causale tra esposizione a cvm e tumori diversi dall’angiosarcoma e a malattie diverse dalla sindrome di Raynaud ed acrosteolisi e comunque, con il riferimento temporale al periodo successivo al 1974, per la mancanza di prova dell’efficacia lesiva dell’esposizione a basse soglie; con la conseguenza dell’insussistenza dei reati di omicidio colposo e lesioni colpose riferiti a queste diverse patologie. Parimenti logicamente motivate devono ritenersi le conclusioni della sentenza impugnata, negative sulla causalità, per quanto riguarda le epatopatie di tipo diverso nelle quali non sono state riscontrate le classiche lesioni da cvm ovvero nelle quali sono stati accertati fattori di confondimento quali l’abuso di sostanze alcooliche o epatiti B o C o l’esistenza di altre patologie (obesità, diabete, steatoepatite non alcoolica, accumulo epatico di ferro, celiachia) che influiscono sull’aumento degli enzimi epatici. E altrettanto correttamente motivata appare la soluzione (che peraltro non risulta contestata nei ricorsi del p.g. e delle parti civili), sulla richiesta del p.m. di ritenere che casi contestati come epatocarcinomi o cirrosi vengano considerati come epatopatie conseguenti all’esposizione a cvm, avendo la corte rilevato che ciò costituirebbe un’immutazione non consentita del fatto contestato con la conseguenza che alcun obbligo di pronuncia incombeva sul tribunale di affrontare questo aspetto. Ma la censura del p.m. sarebbe infondata anche in fatto, secondo la corte, perché i casi in questione (due di cirrosi e due di epatocarcinoma) non presenterebbero le lesioni tipiche da cvm già in precedenza indicate. Infine esenti da alcuna illogicità sono gli altri casi, già oggetto dell’appello del p.m., sui quali ha rilevato la corte, analizzando ciascuno di essi, che la riconducibilità all’esposizione a cvm è da ritenere esclusa sia per l’esposizione a quantitativi la cui efficienza lesiva non è provata sia per la manifestazione della malattia in tempi assai lontani rispetto all’esposizione significativa (non essendo riconosciuta una latenza particolarmente lunga per queste malattie). Dalle considerazioni svolte consegue il rigetto dei ricorsi delle parti civili riguardanti lesioni o decessi per patologie diverse da quelle più volte ricordate per le quali è stata accertata l’esistenza del nesso di condizionamento tra l’esposizione e la patologia contratta. Alcune precisazioni vanno fatte per quanto riguarda il ricorso dei prossimi congiunti di Bertaggia Giobatta proposto anche nei confronti del responsabile civile Montefibre alle cui dipendenze la persona offesa aveva prestato la sua attività lavorativa. Il rigetto dei ricorsi perché non è sufficientemente provata l’esistenza del rapporto di causalità tra le patologie contratte da Bertaggia (cirrosi epatica e carcinoma polmonare) e la malattia e il decesso del medesimo rende superfluo l’esame delle difese degli imputati che eccepiscono una mancata esplicita contestazione dell’omicidio colposo. Gli aspetti che riguardano l’azione civile nei confronti del responsabile civile soc. Montefibre saranno esaminati nella parte che riguarda l’esame dei motivi sulle statuizioni civili. (Omissis) c) L’esame dei motivi. La natura della colpa. Fatte queste premesse e passando all’esame dei motivi di ricorso va intanto osservato che la vastità delle argomentazioni e l’approfondimento, anche teorico, con cui sono stati trattati i temi della colpa nel presente processo da parte delle difese degli imputati e del responsabile civile ricorrenti richiede una premessa di carattere generale. La premessa teorica da cui occorre prendere le mosse sul tema della colpa è costituita dalla constatazione dell’avvenuto superamento delle più risalenti teorie che fondavano la responsabilità colposa su elementi psicologici. Oggi è ormai pressoché generalmente accettata la costruzione teorica che afferma la natura normativa della colpa non solo nel senso che il reato colposo deve essere dalla legge previsto come tale (altro problema è se la previsione debba essere espressa o possa essere implicita) e che alla fattispecie colposa corrisponde sempre una fattispecie dolosa ma soprattutto nel senso che il fondamento della responsabilità è rinvenibile nella contrarietà della condotta a norme di comportamento di cui sono espressione le regole cautelari dirette a prevenire determinati eventi e nell’inosservanza del livello di diligenza oggettivamente dovuta ed esigibile. Non più dunque «rimproverabilità» della condotta perché fondata su una volontà inosservante o su una negligenza «interiore» ma solo perché in contrasto con regole che l’organizzazione sociale si è data e senza che vengano in considerazione i processi psichici che hanno interessato l’agente (evidente è la differenza con il dolo che richiede invece proprio un’indagine sui processi psicologici, conoscitivi e volitivi, interiori). Altrettanto superate devono ritenersi le teorie che individuano il fondamento della colpa nella mera inosservanza di un dovere di diligenza (anche la condotta negligente può risultare corretta), nella mancanza di attenzione (non è detto che la persona disattenta ponga in essere una condotta scorretta; per converso l’attenzione non esclude una violazione della regola cautelare), nell’inerzia psichica. E analoghe considerazioni possono farsi per quelle teorie che riconducono la colpa all’errore che trovano un’insuperabile obiezione a fronte della constatazione che molto spesso la colpa è ravvisabile in condotte certamente non caratterizzate da errore colpevole (i casi di trascuratezza, dimenticanza, ecc.). È dunque logica la conclusione che la collocazione teorica della colpa oggi non possa esaurirsi nell’ambito della colpevolezza ma attenga direttamente anche alla tipicità del reato: sia che si tratti di colpa generica che di colpa specifica la responsabilità per colpa fa riferimento non ad un indefinito processo psicologico interiore ma ad un sistema normativo esterno (i cui criteri di formazione costituiscono una generalizzazione di quei criteri di prevedibilità ed evitabilità che sono rilevanti anche sotto il profilo soggettivo) ed i cui contorni peraltro (soprattutto nella colpa generica) spesso non sono esattamente definiti. Ciò non significa che spetti al giudice un’attività d’integrazione giurisprudenziale delle fattispecie normative ma certamente quello d’individuare le «regole sociali» non osservate la cui violazione fonda la colpa generica. La natura normativa della colpa risulta ancora più evidente nelle fattispecie di reato (che interessano in particolare il presente processo) denominate «casualmente orientate» (in particolare omicidio e lesioni colpose) — caratterizzate dal fatto che il legislatore prende in considerazione esclusivamente l’evento senza che venga descritta la condotta — nelle quali la tipicità è descritta sostanzialmente dalle regole cautelari violate; la concretizzazione della fattispecie passa attraverso l’individuazione dei doveri violati essendo impossibile, per il legislatore, descrivere tutte le condotte ipotizzabili, con una conseguente accentuazione della normativizzazione delle fattispecie (ancor più evidente nelle fattispecie omissive improprie) ed un ampliamento dei poteri del giudice cui è attribuito il compito di delimitare le fattispecie in esame. Anche le ricostruzioni che fondano la responsabilità colposa sull’origine normativa e sulla significativa natura oggettiva della colpa non possono però omettere di considerare che è sempre presente nella colpa una componente soggettiva — in particolare nell’elemento della prevedibilità anche se riferita non all’agente concreto ma all’agente modello — né possono dimenticare che esiste una forma di colpa (quella c.d. «cosciente») in cui è certamente presente e forse prevalente l’aspetto psicologico. d) La violazione delle regole cautelari in genere. L’agente modello. Dunque la natura normativa della colpa si riferisce prevalentemente a questo riferimento esterno costituito dalla violazione delle regole cautelari, che hanno sempre efficacia preventiva e natura strumentale — a differenza delle norme penali che hanno invece natura prescrittiva e funzione repressiva — ma non è esclusiva del reato colposo. Inutile soffermarsi, in questa sede, sulle varie distinzioni tra le varie regole cautelari essendo sufficiente ricordare che, in base alla fonte (sociale o giuridica) si distingue tra colpa generica e colpa specifica e che il fondamento delle regole cautelari può essere di natura scientifica oppure soltanto riconducibile all’esperienza e che è più frequente (ma non è sempre così) che quelle fondate su leggi scientifiche vengano normativizzate. L’omogeneità tra le due forme di colpa è oggi generalmente riconosciuta ma non sempre la distinzione è chiara perché vi sono casi in cui la norma giuridica è generica e rimanda a regole sociali: l’esempio tipico è costituito dall’art. 140, 1° comma, cod. strada (che impone di comportarsi in modo da non costituire pericolo o intralcio per la circolazione). Da ciò, come è stato affermato, «consegue che quanto più è indeterminata la regola, tanto più la colpa specifica scolora in quella generica». In materia di sicurezza sul lavoro una norma di questo genere è l’art. 2087 c.c. A seconda che siano astrattamente idonee ad impedire il verificarsi dell’evento o soltanto a diminuire la probabilità che si verifichi è stata di recente proposta la distinzione in regole cautelari «proprie» e «improprie». La regola cautelare «propria» per eccellenza è naturalmente quella dell’astensione dall’attività cui potrebbe conseguire il pericolo dell’evento. In particolare, sul tema della sicurezza sul lavoro, è stato osservato che le regole cautelari dirette alla prevenzione degli infortuni sul lavoro sono prevalentemente «proprie» mentre in tema di malattie professionali è normale che ci si trovi in presenza di regole «improprie» anche se, in qualche caso, la pericolosità dell’esposizione ha portato all’inibizione dell’esercizio dell’attività (per es. nel campo dell’amianto) con la conseguente trasformazione di una regola «impropria» in una di natura «propria». Ma quale deve essere il criterio per valutare se l’agente, nel caso di colpa generica, si sia attenuto alle richieste regole di diligenza, prudenza e perizia e quale sia, nel caso di colpa specifica, il livello di rispetto della regola cautelare (nei casi in cui esistano diversi livelli di osservanza della regola) e se l’agente si sia mantenuto nei limiti richiesti (ovviamente se la regola cautelare impone l’astensione questa indagine è superflua). La giurisprudenza e la dottrina dominanti si rifanno a criteri che rifiutano i livelli di diligenza, ecc. esigibili dal concreto soggetto agente o dall’uomo più esperto o dall’uomo normale e si rifanno invece a quello dell’agente modello (homo eiusdem professionis et condicionis) sul presupposto che se un soggetto intraprende un’attività, tanto più se pericolosa, ha l’obbligo di acquisire le conoscenze necessarie per svolgerla senza porre in pericolo (o in modo da limitare il pericolo nei limiti del possibile nel caso di attività consentite) i beni dei terzi. L’agente modello va di volta in volta individuato in relazione alle singole attività svolte. Si è affermato in dottrina che «lo standard della diligenza, della perizia e della prudenza dovute sarà quella del modello di agente che ‘svolga’ la stessa professione, lo stesso mestiere, lo stesso ufficio, la stessa attività, insomma dell’agente reale, nelle medesime circostanze concrete in cui opera quest’ultimo». Il parametro di riferimento non è quindi ciò che usualmente viene fatto ma ciò che dovrebbe essere fatto; non possono infatti essere convalidati usi scorretti e pericolosi e questi principî sono ormai patrimonio comune anche nella dottrina e giurisprudenza straniere. In questa valutazione, quando vengano in discussione beni della persona (vita e salute), non va tenuto conto del costo economico necessario per il rispetto delle regole cautelari o addirittura per la rinuncia all’attività. Deve ancora osservarsi che una pluralità di agenti modello può esistere anche all’interno della medesima attività (per es. quella medico-chirurgica) o del medesimo circolo e con una differenziazione tra le categorie di agenti modello. Inoltre — nel caso in cui l’agente sia in possesso di conoscenze, competenze e capacità superiori a quelle dell’agente modello — il parametro cui rifarsi, sia per la riconoscibilità del rischio che per le modalità di intervento, sarà quello superiore essendo, questa condotta, esigibile dall’agente. Perché l’evento possa essere attribuito all’agente non è infatti sufficiente che il medesimo si sia reso responsabile della violazione della regola di condotta e che l’evento fosse prevedibile come conseguenza di questa inosservanza ma è necessario che la condotta alternativa lecita fosse da lui esigibile; solo in questo caso è soggettivamente attribuibile all’agente il verificarsi dell’evento. e) Le censure riguardanti la violazione delle regole cautelari nel presente processo. Tutti i ricorrenti hanno dedotto la violazione dell’art. 2087 c.c. ma deve preliminarmente precisarsi che questa norma, pur formando oggetto della contestazione, e pur essendo richiamata nella motivazione della corte d’appello, non è posta a fondamento della valutazione sull’esistenza della colpa perché non si riferisce ad un ambito di applicazione non disciplinato da norme cautelari specifiche ma si sovrappone ad esse. Va infatti rilevato che, indipendentemente dall’individuazione dell’ambito di applicazione dell’art. 2087 (questione non ancora risolta in modo preciso da dottrina e giurisprudenza) non è dubbio che il problema della violazione di regole cautelari che fanno riferimento alla norma civilistica non si ponga quando la violazione contestata non si riferisca ad un settore non disciplinato — per esempio in relazione all’ipotizzato obbligo di adozione di cautele ulteriori quando quelle normativamente previste si appalesino insufficienti — ma coincida con l’ambito di applicazione della regola cautelare specifica. In realtà la violazione ipotizzata esaustivamente (nel senso che esaurisce l’ambito della condotta colposa ipotizzata) dalla corte di merito è quella che si riferisce alla violazione degli art. 20 e 21 d.p.r. 19 marzo 1956 n. 303 (norme generali sull’igiene del lavoro), norme cautelari di natura «impropria» che impongono al datore di lavoro, nel caso di ambienti di lavoro in cui siano presenti prodotti nocivi o polveri, di impedirne o «ridurne per quanto è possibile» lo sviluppo e la diffusione. Né ci troviamo in presenza di un’ipotesi in cui, nel caso concreto, la regola non sia idonea — perché imperfetta o imprecisa o perché superata dall’evoluzione tecnologica o per altre ragioni — ad escludere il pericolo di un evento dannoso per cui potrebbe ritenersi che l’agente fosse tenuto (in base all’art. 2087) ad adottare le ulteriori regole cautelari. Puntuali sono invece le censure degli imputati e del responsabile civile che si riferiscono alla violazione degli art. 20 e 21 d.p.r. 19 marzo 1956 n. 303 il cui contenuto è stato già riassunto. Puntuali ma infondate. Anzitutto è da ritenere palesemente infondata la tesi (peraltro problematicamente prospettata ma comunque sostenuta nella più parte dei ricorsi) secondo cui le norme indicate si riferirebbero alle polveri moleste o fastidiose. Basti pensare che l’art. 20 parla di gas o vapori «tossici» (non molesti o fastidiosi) e il cvm, in quanto derivato degli idrocarburi alifatici, è inserito nella tabella allegata al citato d.p.r. n. 303 (n. 38) riferita (art. 33 d.p.r.) alle lavorazioni industriali che espongono all’azione di «sostanze tossiche o infettanti o che risultano comunque nocive». Quindi si tratta di una sostanza la cui natura tossica o nociva è riconosciuta dalla legge! Del resto che senso avrebbe la previsione dell’art. 33 medesimo d.p.r. che prevede visite mediche iniziali e periodiche per coloro che sono soggetti all’esposizione se la normativa ricordata fosse diretta solo ad eliminare molestie e fastidi? È vero che l’art. 21 (che si riferisce alla difesa contro le polveri) neppure fa riferimento alla natura tossica delle polveri ma ciò non significa certo che non riguardi queste sostanze. In questo caso la tutela è invece maggiormente estesa perché l’obbligo di ridurre l’esposizione «per quanto è possibile» è imposto indipendentemente dalla natura tossica o nociva della sostanza (qualità che semmai rafforzano l’obbligo di adozione delle misure di prevenzione). Gli aspetti relativi alla prevedibilità e alla concretizzazione del rischio conseguente alla violazione degli art. 20 e 21 indicati saranno trattati più avanti. Vanno invece in questa sede esaminate le censure (riguardanti sia la violazione di legge che il vizio di motivazione) che si riferiscono ad un’asserita indeterminatezza della fattispecie contestata e, conseguentemente, dell’obbligo imposto all’agente nel senso che i giudici di appello non sarebbero riusciti ad individuare il comportamento alternativo lecito idoneo ad evitare il verificarsi dell’evento. Queste critiche riprendono alcune affermazioni contenute nella sentenza di primo grado laddove, richiamando l’espressione «per quanto è possibile», contenuta nei ricordati art. 20 e 21, si afferma che in tali situazioni «la colpa non può essere individuata nella mera violazione della regola, la quale per l’appunto non descrive la condotta prescritta; del resto il richiamo al concetto di ‘possibilità’ consentirebbe un’imputazione obiettiva dell’evento che renderebbe del tutto superflua ogni indagine sulla colpa». Se si è ben compreso l’argomentare riportato il tribunale dubita della tipicità — o della determinatezza — della norma nel senso che ritiene non descritta sufficientemente la condotta richiesta ma va osservato che, se così fosse, la conseguenza non sarebbe certo la disapplicazione della norma ponendosi invece un problema di legittimità costituzionale della medesima. In ogni caso questa conclusione non è condivisibile. Va intanto osservato che in tema di prevenzione del rischio d’infortuni o di malattie professionali è frequente la scelta del legislatore, nel caso di attività pericolose, di imporre determinate cautele idonee a ridurre il rischio facendo riferimento a criteri generici che possono di volta in volta essere specificati con il richiamo alle cautele che la scienza, l’esperienza e l’evoluzione tecnologica dell’epoca sono in grado di suggerire. Nelle attività pericolose consentite (e questo vale anche per le attività non di tipo lavorativo) l’agente deve attivare le misure preventive che le conoscenze del momento consentono di ritenere le più idonee ad evitare il verificarsi di eventi dannosi. La tipicità della norma incriminatrice e la determinatezza della fattispecie sono dunque garantite da questo criterio: la formula «per quanto è possibile» utilizzata dagli art. 20 e 21 significa che l’agente deve fare riferimento alle misure idonee in base alla miglior scienza ed esperienza, conosciute all’epoca della condotta, per ridurre il più possibile le esposizioni; e ciò indipendentemente dal loro costo. È infatti ovvio che il legislatore non poteva che prevedere una fattispecie di tipo aperto che tenesse conto dell’evoluzione delle conoscenze e soprattutto dell’evoluzione tecnologica. Se una sostanza è tossica — e purtuttavia ne è consentita la manipolazione — l’agente dovrà fare riferimento, nel momento in cui opera, ai mezzi di prevenzione esistenti e se ne esistono di idonei ad eliminare l’esposizione dovrà eliminarla; diversamente dovrà ridurla nei limiti in cui lo consentono i mezzi conosciuti che siano disponibili in quel momento. L’obbligo di eliminare l’esposizione sorgerà, eventualmente, quando, successivamente, l’evoluzione tecnologica avrà consentito di creare mezzi idonei ad eliminarla. Si può affermare che una simile norma così interpretata difetti di tipicità o determinatezza? Se così fosse la gran parte dell’apparato normativo precauzionale verrebbe posto nel nulla. Ma una tesi così estrema varrebbe ad escludere la tipicità di tutte quelle ipotesi nelle quali un elemento del reato non è compiutamente descritto dalla norma incriminatrice ma con il richiamo ad un sistema esterno. Né può porsi, nel caso in esame, il problema, che alcuni studiosi prospettano, della c.d. «misura soggettiva della colpa» (che fa riferimento alle capacità soggettive dell’agente) atteso che, nel nostro caso, si parla degli obblighi di prevenzione di una delle maggiori imprese a livello mondiale del settore petrolchimico. Le censure che denunziano invece il vizio di motivazione sulla circostanza che le misure adottate dal 1970 fino al 1974 sarebbero state già adeguate ai criteri standard di sicurezza dell’epoca sono da ritenere inammissibili e comunque infondate avendo, i giudici di merito (di primo e di secondo grado) incensurabilmente accertato che solo dal 1974 in avanti la Montedison ebbe ad attuare le misure di prevenzione idonee ad evitare il verificarsi degli eventi dannosi. Efficacia confermata dalla circostanza che alcun lavoratore esposto, che abbia iniziato a lavorare nei settori a rischio dal 1974 in avanti, ebbe a contrarre l’angiosarcoma epatico. In particolare la sentenza impugnata individua queste misure nell’abbattimento dei livelli di esposizione, nella collocazione degli strumenti prevenzionali, nell’investimento in nuove tecnologie, nell’intensificazione della sorveglianza sanitaria. La sentenza, nell’esaminare la fattispecie di reato di cui all’art. 437 c.p., individua tra le misure prevenzionali omesse — richiamandosi a quanto già accertato dal tribunale — la mancata fornitura delle maschere ai lavoratori che operavano in situazioni di rischio (per es. all’interno delle autoclavi), l’omessa collocazione di parti di impianto (valvole, rubinetti, tenute) aventi anche finalità prevenzionale perché idonee ad impedire dispersioni di gas nell’ambiente, l’omessa collocazione di un impianto di monitoraggio sulla concentrazione di gas nell’ambiente e l’omessa collocazione di impianti di aspirazione (tra l’altro l’aspirazione dei gas è prevista dal 2° comma dell’art. 20 d.p.r. n. 303). Come è agevole verificare si tratta di accertamenti in fatto, concordemente compiuti dai giudici di merito con valutazione incensurabile nel giudizio di legittimità in quanto esenti da alcuna illogicità. E del tutto apodittica e indimostrata (e comunque non verificabile in questa sede) è l’affermazione, contenuta in alcuni ricorsi, ma smentita da entrambe le sentenze di merito, secondo cui i mezzi di protezione indicati erano già disponibili alla fine degli anni sessanta. Ad ulteriore conferma di questi accertamenti possono essere richiamate le considerazioni svolte nella sentenza di primo grado che, pur dando atto di una riduzione dei livelli di concentrazione del cvm rispetto agli anni precedenti (nei quali erano stati raggiunti livelli pari a 40.000 ppm) riferisce di livelli che rappresentano, secondo il tribunale, «valori massimi sicuramente elevati». Il tribunale indica valori di concentrazione particolarmente significativi (non si tratta di una valutazione del giudice di legittimità ma conforme ai parametri utilizzati dai giudici di merito). Basti pensare che, relativamente all’ultimo periodo cui si riferisce il comportamento ritenuto inosservante vengono riportati valori, relativi a singole zone e singoli momenti del processo produttivo, pari a 1580 ppm nell’aprile 1973 nella sala autoclavi al momento dell’apertura del boccaporto; nella zona dei serbatoi schiuma tre rilevazioni effettuate tra il 15 novembre e il 21 dicembre 1973 evidenziano concentrazioni di 4000, 3650 e 1765 ppm; ancora: nel luglio-settembre 1973 venivano rilevati, presso il posto di operatore autoclavi, valori di concentrazione medi pari a 2788 ppm con punte di 8300 ppm; e l’8 luglio 1974, durante il lavaggio dell’autoclave, punte di 2000 ppm. Addirittura nel dicembre 1974 all’interno del reparto CV24 fu evidenziata una punta di 5366 ppm. Né questo complesso accertamento — sul quale, lo si ribadisce, i giudici di primo e di secondo grado si sono trovati in sintonia — è incrinato dalla documentazione indicata nei motivi nuovi proposti ai sensi della l. 46/06 (e anche in alcuni dei ricorsi originari) che verranno più avanti esaminati e per i quali si può fin d’ora anticipare che si tratta di motivi privi di alcun carattere di decisività e che comunque richiederebbero una complessiva rivalutazione di tutto il compendio probatorio inammissibile nel giudizio di legittimità, anche dopo le ricordate innovazioni legislative, per quanto già detto in precedenza. f) La prevedibilità dell’evento. In generale. È da premettere che la prevedibilità ha anche un risvolto oggettivo che attiene alla causalità: secondo la teoria della causalità umana, le cause sopravvenute sono infatti idonee ad escludere il rapporto di causalità (art. 41, 2° comma, c.p.) solo quando abbiano carattere di eccezionalità ed imprevedibilità. Naturalmente, sotto questo profilo, trattandosi dell’elemento oggettivo, l’accertamento deve essere condotto con criteri ex post (e tenendo anche conto delle conoscenze non disponibili all’epoca della condotta). L’esistenza della prevedibilità sotto il profilo che attiene all’elemento soggettivo va invece accertata con criteri ex ante e trova il suo fondamento sul rilievo che non possa essere addebitato all’agente di non aver previsto un evento che, in base alle conoscenze che aveva o che avrebbe dovuto avere, non poteva prevedere. Sotto quest’ultimo profilo la prevedibilità dell’evento è certamente riferibile all’elemento soggettivo, la colpa, perché attiene al processo cognitivo e decisionale dell’agente (sia pure nel senso già precisato di natura non psicologica e con il riferimento all’agente modello) che è tenuto a prendere in considerazione le conseguenze della sua condotta. Naturalmente, da questo angolo visuale, l’agente sarà ritenuto in colpa solo se non ha tenuto conto delle conseguenze della sua condotta, che conosceva o era tenuto a conoscere, in base alla sua professione e alla sua condizione. Il fondamento della prevedibilità sotto il profilo soggettivo risiede nella necessità di evitare forme di responsabilità oggettiva. Se il risultato della condotta non poteva neppure essere immaginato dall’agente queste conseguenze non possono essergli addebitate sotto il profilo della colpevolezza. Perché l’agente possa essere ritenuto colpevole non è sufficiente che abbia agito in violazione di una regola cautelare ma è necessario che non abbia previsto che quella violazione avrebbe avuto come conseguenza il verificarsi dell’evento. Se dunque quella conseguenza dell’azione non è stata prevista perché non era prevedibile non v’è responsabilità per colpa. Ma qual è il parametro cui occorre rifarsi per valutare la prevedibilità (o, come taluni si esprimono in dottrina, il dovere di riconoscere)? È evidente che se si adottasse un criterio che fa riferimento all’agente concreto si ricadrebbe negli orientamenti che riferiscono la colpa all’elemento psicologico; e infatti dottrina e giurisprudenza seguono comunemente il criterio della prevedibilità da parte dell’homo eiusdem professionis et condicionis — il c.d. «agente modello» — non diversamente da quanto avviene per l’individuazione dei criteri per accertare il rispetto delle regole cautelari. Va però sottolineato che questo criterio (e, a maggior ragione, quelli dell’uomo normale, dell’uomo avveduto, ecc.) non è ritenuto accettabile da autorevole dottrina che invece fa riferimento alla «miglior scienza ed esperienza» come unico idoneo criterio: a individuare i comportamenti fonte di pericolo e le condotte idonee ad evitarle; a potenziare la funzione pedagogica delle regole cautelari; ad evitare di privilegiare i soggetti dotati di conoscenze superiori; a garantire maggiormente esigenze di tassatività; a ridurre il relativismo della condotta. Essendo indiscusso che la valutazione relativa alla prevedibilità, sotto il profilo soggettivo, va fatta con criterio ex ante rimane ancora da decidere quale sia il momento cui occorre fare riferimento per poter pretendere che l’agente riconoscesse i rischi della sua attività e i potenziali sviluppi lesivi. Naturalmente non vanno presi in considerazione i successivi progressi della conoscenza mentre si deve tener conto di eventuali conoscenze superiori dell’agente. Per questo fine di previsione è stato affermato che «le conoscenze rilevanti non sono quelle diffuse solo nella cerchia degli specialisti, e tanto meno le conoscenze avanzate di taluni centri di ricerca, bensì solo le conoscenze che costituiscono un patrimonio diffuso a partire da una certa data». Questo criterio può essere ritenuto accettabile purché si precisi che l’agente ha un obbligo di informazione in relazione alle più recenti acquisizioni scientifiche anche se non ancora patrimonio comune e anche se non applicate nel circolo di riferimento a meno che si tratti di studi isolati ancora privi di conferma. È quindi condivisibile la successiva precisazione che «il momento a partire dal quale le conoscenze specialistiche diventano conoscenze diffuse, e la cui trascuranza fonda la colpa, va desunta dalle informazioni che l’agente ‘modello’ è in condizione di acquisire in ogni momento». Il giudizio di prevedibilità vale a specificare il contenuto dell’obbligo di diligenza altrimenti astratto. Si è detto che «basandosi sugli esiti del giudizio di prevedibilità, il contenuto del dovere di diligenza otterrebbe una certa specificazione, con la conseguenza di poter fornire delle note di concretezza a quell’obbligo del neminem laedere altrimenti del tutto inafferrabile nella sua astrattezza». Solo se il pericolo del verificarsi di un evento dannoso è prevedibile o riconoscibile l’agente può essere obbligato a rispettare quelle specifiche regole cautelari idonee ad evitare il prodursi del fatto dannoso. Alcuni autori preferiscono parlare, piuttosto che di prevedibilità, di «rappresentabilità» precisando che «questo termine possiede una maggiore comprensività del primo, potendosi riferire non soltanto ad accadimenti futuri, ma anche a quelli concomitanti o addirittura antecedenti all’azione del soggetto». Altri ancora parlano di «riconoscibilità» così esprimendosi: «la tipicità colposa risulta configurabile allorché la situazione concreta sia stata caratterizzata dalla presenza di elementi, giuridici e fattuali ... che, in correlazione con le stesse leggi scientifiche e conoscenze empiriche utilizzate dal giudice ai fini dell’imputazione dell’evento, avrebbero permesso di rappresentarsi la concreta realizzazione del fatto previsto dalla legge come reato colposo»). La dottrina è quindi da tempo sostanzialmente uniforme nel ritenere che il giudizio sulla colpa non possa prescindere da una valutazione sulla prevedibilità che, non essendo riferita all’agente concreto, ha caratteristiche di oggettività pur essendo riferita alla colpevolezza. g) L’evoluzione della giurisprudenza in tema di prevedibilità. In giurisprudenza queste conclusioni sono di più recente acquisizione. Un risalente orientamento, anche di legittimità, escludeva infatti che la prevedibilità costituisse elemento necessario per configurare la responsabilità per colpa e affermava che nella colpa (in particolare quella specifica) la previsione dell’evento viene già compiuta con la formazione della regola cautelare per cui, nel concreto accertamento dell’esistenza della colpa, il giudice deve soltanto accertare la violazione della regola cautelare e non anche la prevedibilità dell’evento (v., in questo senso, Cass. 15 ottobre 1997, Pretto, id., Rep. 1998, voce Reato in genere, n. 29; 25 settembre 1990, Severino, id., Rep. 1991, voce cit., n. 49; 1° dicembre 1989, Iannuzzi, ibid., n. 46; 18 febbraio 1982, Manassero, id., Rep. 1983, voce cit., n. 46). In alcune decisioni si precisava che il requisito della prevedibilità riguardava i casi di colpa generica ma non era richiesto per la colpa specifica (v. Cass. 27 febbraio 1987, Brizzi, id., Rep. 1988, voce Omicidio e lesioni personali colpose, n. 80; 16 ottobre 1984, Serione, id., Rep. 1986, voce cit., n. 11). È evidente come questa giurisprudenza fosse elusiva del problema della prevedibilità. È infatti vero che quando viene dettata una regola cautelare si formalizza un giudizio di prevedibilità di un evento dannoso; ma il problema da risolvere è proprio quello di individuare il perimetro entro il quale individuare gli eventi presi in considerazione dalla norma e, in particolare, se fosse in astratto prevedibile non un evento dannoso di qualsiasi genere ma l’evento in concreto verificatosi (ed inoltre se questo evento fosse ricompreso tra quelli che, nella formazione della regola cautelare, si volevano evitare; ma questo tema sarà più avanti esaminato). Non può quindi esservi dubbio che, anche per la colpa specifica, si ponga il problema di accertare se l’evento verificatosi fosse in concreto prevedibile. E anche la giurisprudenza della Corte di cassazione si è adeguata a questi principî (cons. Cass. 22 novembre 1996, Marconi, id., Rep. 1997, voce Reato in genere, n. 32; 28 aprile 1994, Archilei, id., Rep. 1995, voce Omicidio e lesioni personali colpose, n. 39; 1° luglio 1992, Boano, id., Rep. 1993, voce Reato in genere, n. 32. Nella giurisprudenza di merito, v., tra le altre, Trib. Foggia 10 maggio 2000, id., Rep. 2001, voce Omicidio e lesioni personali colpose, n. 39). Va semmai verificato, anche alla luce di una recente pronunzia di questa sezione (sentenza 20 aprile 2005, Stasi e Bucci, id., Rep. 2006, voce Lavoro (rapporto), n. 1328) se la norma cautelare violata abbia contenuto «rigido» o «elastico», cioè se il comportamento richiesto sia dalla medesima delineato con assoluta precisione ovvero se abbisogni, per poter essere applicata, di un legame più o meno profondo con le circostanze del caso concreto. Nel primo caso (norma «rigida»), secondo questa pronunzia e secondo la dottrina che propone questa soluzione, il giudizio di prevedibilità ed evitabilità è già intrinseco nella norma e l’agente non ha altra alternativa che quella di adeguarvisi. È da osservare peraltro, per quanto si è già detto, che le norme di natura cautelare la cui inosservanza è stata ritenuta addebitabile agli imputati nel presente processo, hanno carattere elastico e non rigido per cui la necessità di operare il giudizio di prevedibilità resta immutata. h) L’ambito della prevedibilità. Fatte le ricordate premesse resta però ancora irrisolto il problema di maggior complessità che si pone in questa materia: individuare i criteri da utilizzare per verificare se un evento casualmente riconducibile alla violazione di una regola cautelare fosse prevedibile significa, in particolare, verificare se la prevedibilità debba riguardare lo specifico evento realizzatosi ovvero una categoria di eventi riconducibili alla medesima causa e quale grado di specificità sia richiesto sull’individuazione degli eventi. La giurisprudenza di legittimità su questo punto è univoca: si è da tempo affermato (fin da Cass. 6 dicembre 1990, Bonetti, id., 1992, II, 36, relativa al disastro di Stava) che «ai fini del giudizio di prevedibilità, deve aversi riguardo alla potenziale idoneità della condotta a dar vita ad una situazione di danno e non anche alla specifica rappresentazione ex ante dell’evento dannoso, quale si è concretamente verificato in tutta la sua gravità ed estensione». Queste conclusioni sono state ribadite da Cass. 31 ottobre 1991, Rezza (id., Rep. 1993, voce Reato in genere, n. 19) ed espressamente richiamate da Cass. 30 marzo 2000, Camposano (id., 2001, II, 278). Il problema enunciato merita un approfondimento perché l’orientamento espresso dalla giurisprudenza di legittimità, oltre a non essere condiviso (ovviamente) dai ricorrenti, incontra soluzioni diverse anche in dottrina. Detto in estrema sintesi: per ritenere esistente la colpa dell’agente è necessario che il medesimo si sia rappresentato — o fosse in grado di rappresentarsi — tutte le specifiche conseguenze della sua condotta derivanti dalla violazione delle regole cautelari o di prevenzione, o è sufficiente che fosse in grado di rappresentarsi una categoria di danni sia pure indistinta, una potenzialità lesiva del suo agire che avrebbe dovuto convincerlo ad astenersi o ad adottare più sicure regole di prevenzione? È parere della corte che la risposta corretta sia quest’ultima accolta dalla sentenza di secondo grado. E ciò sotto diversi profili. Il primo profilo riguarda la potenzialità lesiva della sostanza nociva. Fino a che il rischio per la salute umana — in base alle conoscenze disponibili — è escluso o è limitato a patologie di modesta gravità la prevedibilità non può che riguardare queste conseguenze o altre di analoga gravità e quindi una patologia più grave è correttamente ritenuta non prevedibile. Se il cvm fosse stato ritenuto idoneo a provocare semplici patologie momentanee e regredibili con il venir meno dell’esposizione sarebbe ragionevole ritenere che non potevano ritenersi prevedibili effetti più gravi sulla salute umana. Si comprende quindi l’insistenza dei ricorrenti sull’asserito ridotto ambito di applicazione degli art. 20 e 21 più volte ricordati alle sole emissioni moleste o fastidiose. Se così fosse ne discenderebbe l’imprevedibilità dei più gravi danni verificatisi (il datore di lavoro è tenuto ad evitare l’esposizione a odori sgradevoli; ma se si scopre successivamente che la sostanza che li provoca è anche cancerogena non risponderà dei danni provocati quando gravi danni alla salute neppure erano ipotizzabili). Questa è la regola giuridica cui deve attenersi il giudice di merito sulla valutazione sull’esistenza della prevedibilità che costituisce pur sempre una valutazione di merito a lui riservata. E deve ritenersi che i giudici di appello abbiano correttamente applicato la disciplina giuridica sulla prevedibilità accertando che il cvm e il pvc erano sostanze di cui era conosciuta l’idoneità a provocare gravi patologie (quali, secondo quanto incensurabilmente accertato dai giudici di merito, il morbo di Raynaud e in particolare l’acrosteolisi). Non solo. La corte ha richiamato anche i documenti aziendali Montedison che già sul finire degli anni cinquanta riconoscevano la tossicità di queste sostanze; le dichiarazioni dell’imputato Bartalini che ha riconosciuto l’epatotossicità del cvm risalente ai suoi studi universitari (circostanza confermata dal medico di fabbrica del petrolchimico, dott. Giudice); un documento dell’associazione europea dei produttori di materie plastiche (Apme) secondo cui erano già conosciute, come effetti dell’esposizione al cloruro di vinile, negli anni cinquanta e sessanta, «alterazioni non specifiche della funzionalità epatica e del sistema digestivo e respiratorio, sindrome di Raynaud nelle mani, lesioni sclerodermiche e alterazioni ossee osteolitiche delle falangi distali». Logica è quindi la conclusione della corte di merito secondo cui, ben da prima dell’epoca della contestazione (che parte dal 1969), dovevano già ritenersi prevedibili gravi danni alla salute dei lavoratori esposti al cloruro di vinile e quindi doveva ritenersi sorto l’obbligo (anche se fossero mancate regole cautelari di origine normativa), per il datore di lavoro, di adottare le cautele necessarie per preservare i lavoratori dal rischio in esame perché la tutela della salute umana costituisce obbligo primario di salvaguardia di un diritto costituzionalmente protetto (art. 32 Cost.), cautele peraltro già imposte dalla legge. È da evidenziare che questo accertamento incensurabile del giudice di merito riguarda anche gli effetti tossici sul fegato che la corte di merito afferma essere confermati dallo studio Tribuk risalente al 1949. Ma, si afferma nei ricorsi, il rischio cancerogeno non era noto e gli studi di Viola non erano sufficienti a confermarne l’esistenza perché condotti con metodi non sofisticati, su animali (non si dice se le ricerche avrebbero dovuto essere condotte sull’uomo) e ad esposizioni elevatissime. Ma ciò non vale ad escludere la prevedibilità degli effetti cancerogeni del cvm. La ricerca di Viola non costituiva infatti una congettura inaffidabile ma era stata, pur con le caratteristiche ricordate, condotta con metodo scientifico e aveva fatto sorgere una plausibile probabilità o possibilità di un effetto cancerogeno anche sull’uomo. La serietà di questi studi, e la plausibilità dei risultati raggiunti, non è confermata soltanto dal riconoscimento, anche a livello internazionale (formò oggetto di comunicazioni in convegni svolti in Stati stranieri e fu pubblicata su un’importante rivista medica che si occupava di studi sui tumori), che gli studi di Viola ottennero all’epoca ma dalla condotta dei dirigenti Montedison che affidarono al prof. Maltoni un approfondimento della ricerca, evidentemente perché ritennero che gli studi del dott. Viola avessero un fondamento scientifico. Il che equivale a dire che, dal momento in cui i dirigenti Montedison ne vennero a conoscenza, divenne per loro «prevedibile» o «vennero posti in condizione di prevedere», la possibilità di effetti cancerogeni sull’uomo. Diversamente non avrebbero disposto l’approfondimento della ricerca. i) La prevedibilità e le leggi scientifiche. Ma quali sono i criteri che devono governare l’accertamento della potenzialità lesiva prevedibile? Su questo punto questa corte ritiene non possano esservi dubbi sulla correttezza della tesi fatta propria dalla sentenza impugnata secondo cui le regole di spiegazione causale dell’evento non possono valere per l’accertamento dell’esistenza della colpa. La soglia — insita nei concetti di diligenza e prudenza espressamente richiamati dall’art. 43 c.p. — oltre la quale l’agente può prevedere le conseguenze lesive della sua condotta, non è costituita dalla certezza scientifica ma dalla probabilità o anche della sola possibilità (purché fondata su elementi concreti e non solo congetturali) che queste conseguenze si producano. Naturalmente questa possibilità deve essere concreta e non solo astratta. È questo il limite che differenzia le situazioni in cui le pubbliche autorità devono intervenire per la salvaguardia dell’ambiente o per la tutela della vita e della salute dei consociati dalle situazioni in cui viene in considerazione l’agire del singolo soggetto: la concretezza del rischio. E il rischio diviene concreto quando — sia pure in base a ricerche non ancora complete o prive di requisiti di generale applicabilità o anche soltanto in base a serie generalizzazioni empiriche — viene individuata la possibilità dell’idoneità lesiva di una condotta commissiva od omissiva che dunque diviene prevedibile. L’ente pubblico è tenuto a salvaguardare i cittadini dal rischio dell’inquinamento per salvaguardare la loro salute da pericoli astrattamente ipotizzabili in base, eventualmente, a indagini epidemiologiche. Ma se, all’interno di una fabbrica, si verifica (anche empiricamente) che i lavoratori esposti ad una determinata sostanza fino ad allora ritenuta innocua subiscono eventi lesivi in proporzione anomala rispetto a quelli non esposti l’obbligo per il datore di lavoro di eliminare, o ridurre per quanto possibile, l’esposizione (rischio concreto) sorge immediatamente e non solo quando, successivamente (eventualmente dopo anni), gli studi scientifici avranno confermato l’osservazione empirica e spiegato i meccanismi di produzione dell’evento lesivo. Non è quindi condivisibile la distinzione — oggetto di particolare approfondimento in alcuni ricorsi ed in particolare in quello del responsabile civile — tra rischio e pericolo; distinzione che, in tesi difensiva, varrebbe a diversificare gli obblighi di intervento preventivo esistenti solo nel caso di accertamento del pericolo mentre il rischio riguarderebbe soltanto il legislatore o il pubblico amministratore. Rischio e pericolo — come è agevole constatare leggendo le definizioni che ne danno i dizionari in uso — sono in realtà concetti sovrapponibili e indicano entrambi una situazione o circostanza da cui può derivare un danno. Questa difficoltà, se non impossibilità, di distinguere tra rischio e pericolo è del resto confermata dalla circostanza che gli studiosi che hanno tentato di individuare queste differenze sono pervenuti a risultati non solo insoddisfacenti ma addirittura contradditori. Basti pensare che vi è chi individua una differenza di tipo qualitativo e chi opta invece per una differenza di tipo esclusivamente quantitativo. Semmai sarebbe corretto affermare che il c.d. «principio di precauzione» non ha una diretta efficacia nel diritto penale ma è volto soltanto ad ispirare le pubbliche autorità nelle scelte di regolamentare o vietare l’esercizio di determinate attività quando esista il «sospetto» di una loro pericolosità che però mai ha trovato conferma. Il presupposto per questi interventi è costituito dall’incertezza scientifica sulla dannosità per la persona umana, per es., di una determinata esposizione ad un agente di cui non siano ancora conosciuti gli effetti. I casi sono ben noti: da anni si discute sulla possibile efficienza lesiva delle onde elettromagnetiche provenienti da impianti di trasmissione radiotelevisiva ma fino ad oggi non si sono avute conferme scientifiche di questi effetti e lo stesso può dirsi per le emissioni derivanti dagli impianti di telefonia cellulare. E come non ricordare le accese discussioni, anche in sede scientifica, dei possibili effetti dannosi dei prodotti (in particolare di quelli alimentari) geneticamente modificati? È ovvio che, fino a quando non si abbia una conferma scientifica degli effetti dannosi di queste esposizioni sulla persona umana il problema non riguarda il diritto penale ma è rivolto alle scelte politico-amministrative che possono essere o meno ispirate ad un rigore preventivo per evitare danni ad oggi non confermati trattandosi di ipotesi prive di conferma e quindi di concretezza. Ma ben diverso è il caso in cui una determinata esposizione si sia già dimostrata dannosa per la salute umana anche se non siano ancora ben delineati i confini di tale pericolosità. In tal caso sorge l’obbligo per l’agente di eliminare o ridurre nei limiti del possibile l’esposizione in modo da ricondurla in termini di non pericolosità (se già fosse dimostrata l’efficienza lesiva delle onde elettromagnetiche sulla salute dell’uomo sorgerebbe immediatamente quanto meno l’obbligo di ridurle anche in previsione di ulteriori danni, eventualmente più gravi, oggi non conosciuti). Ha senso poi parlare di distinzione tra rischio e pericolo e di principio di precauzione quando il legislatore abbia già fatto la sua scelta classificando come nociva una determinata sostanza ed imponendo la riduzione delle esposizioni nei limiti del possibile e altre cautele (per es. le visite periodiche)? O tutte queste discussioni sono riferibili esclusivamente a casi di colpa generica per verificare se, anche in mancanza di una disciplina limitativa, l’agente sia tenuto ad adottare cautele non ancora previste normativamente (eventualmente — questa volta il richiamo sarebbe pertinente — invocando l’art. 2087 c.c.)? Evidente è quindi l’erroneità della tesi del tribunale (che difatti alcuni dei ricorrenti neppure riprendono) secondo cui, per far sorgere l’obbligo prevenzionale, occorre fare riferimento al «patrimonio scientifico consolidato» quale criterio per imporre l’adozione della regola cautelare per impedire un evento che solo allora diviene prevedibile. L’adozione di questo criterio costituisce un’indebita trasposizione delle regole che governano l’accertamento della causalità al tema della colpevolezza. In tema di causalità si tratta di addebitare oggettivamente un evento dannoso alla condotta colposa dell’agente, di accertare quindi se il fatto è «suo» (se quella morte è stata da lui provocata con la sua condotta inosservante); è ovvio che le regole processuali di un paese che si ispira ai principî della democrazia liberale debba richiedere sul piano probatorio quell’elevato grado di probabilità — in cui si esprimono le regole dell’elevato grado di credibilità razionale e dell’oltre il ragionevole dubbio — che possa consentire di addebitare ad un soggetto un evento. Ma le regole che disciplinano l’elemento soggettivo hanno natura non di verifica a posteriori della riconducibilità di un evento alla condotta di un uomo ma funzione precauzionale e la precauzione richiede che si adottino certe cautele anche se è dubbio che la mancata adozione provochi eventi dannosi. L’utilizzazione di questi criteri comporterebbe, in tema di prevenzione di rischi alla salute, che sarebbe esigibile l’adozione delle regole cautelari (anche di quelle già previste dalla legge!) solo dopo che fosse stato accertato, in termini di elevata credibilità razionale (secondo i criteri indicati nella già citata sentenza, Cass., sez. un., 10 luglio 2002, Franzese, in tema di causalità) che alla mancata adozione di regole di cautela consegue un determinato effetto dannoso. Questa operazione ermeneutica avrebbe come ovvio risultato quello di porre nel nulla la natura preventiva delle regole cautelari dirette ad evitare il verificarsi di eventi dannosi anche se scientificamente non certi (purché non solo congetturali) ed anche se non preventivamente e specificamente individuati. È dunque obbligata la conclusione che (a differenza dell’addebito oggettivo per il quale, sotto il profilo della causalità, è necessario accertare che l’evento non si sarebbe verificato con elevato grado di credibilità razionale se fosse stata posta in essere la condotta richiesta) ben inferiore è la soglia che impone l’adozione della regola cautelare. Se poi con il richiamo al «patrimonio scientifico consolidato» il tribunale intendeva riferirsi non tanto alle leggi scientifiche riconosciute quanto al consenso generalizzato della comunità scientifica è facile osservare che questo criterio, nel contiguo campo della validità della prova scientifica, non viene più ritenuto l’unico criterio utilizzabile neppure dalla giurisprudenza nordamericana come emerge dalla notissima sentenza 28 giugno 1993 della Corte suprema federale degli Stati uniti, relativa al caso Daubert (id., 1994, IV, 184), che ha indicato i criteri idonei a valutare la validità e l’attendibilità delle prove scientifiche individuandoli nella controllabilità, falsificabilità e verificabilità della teoria o tecnica posta a fondamento della prova; nella percentuale di errore conosciuto o conoscibile; nella possibilità che la teoria o tecnica abbia formato oggetto di controllo da parte di altri esperti perché divulgata in pubblicazioni scientifiche o con altri mezzi; nella presenza di standard costanti di verifica; nel consenso generale da parte della comunità scientifica. Criterio, quest’ultimo, da vari decenni ritenuto l’unico utilizzabile dal giudice per avere conferma della validità della prova scientifica e che invece la più recente giurisprudenza non ritiene più l’unico cui fare riferimento per i fini indicati. Ma il tribunale è incorso anche in un secondo errore perché ha fatto riferimento, nell’indicare il livello di diligenza esigibile, «alle applicazioni tecnologiche generalmente praticate ed agli accorgimenti organizzativi e procedurali altrettanto generalmente acquisiti, correlati all’osservanza degli standard di sicurezza delle diverse attività per conseguire l’esclusione del verificarsi dell’evento». L’errore consiste nell’aver individuato le misure preventive esigibili non in quelle più adeguate ipotizzabili ma in quelle «generalmente praticate» in contraddizione con un principio ormai generalmente riconosciuto (non solo in Italia) secondo cui non possono essere convalidati usi scorretti o pericolosi anche se generalmente praticati (lo studioso italiano che ha maggiormente approfondito i temi della colpa così ha compendiato nel 2005 il suo pensiero su questo punto: «diligente non è ciò che usualmente viene fatto, ma ciò che si deve fare, pagando anche i costi necessari»). Questo secondo errore ha un rilievo minore nel presente giudizio perché anche la sentenza di primo grado ha riconosciuto che la Montedison ebbe ad applicare, fino al 1974, misure di prevenzione inadeguate anche se si afferma che le conoscenze scientifiche allora disponibili non imponevano l’adozione delle misure richieste. Insomma il secondo errore rifluisce sul primo avendo, i primi giudici, omesso di considerare che da oltre quindici anni erano in vigore, nel nostro ordinamento, regole cautelari (gli art. 20 e 21 più volte citati) che imponevano di ridurre le esposizioni «nei limiti del possibile». l) La concretizzazione o realizzazione del rischio. In generale. La responsabilità colposa si fonda sulla violazione della regola cautelare ma non è sufficiente che sia stata accertata questa violazione essendo altresì necessario che la regola violata fosse diretta ad evitare quel tipo di evento. Diversamente l’agente verrebbe punito per la mera infrazione anche se la regola cautelare aveva tutt’altro scopo, cioè verrebbe sanzionato — non diversamente dal caso in cui difetti la prevedibilità dell’evento — il mero versari in re illicita con la previsione di una sorta di responsabilità oggettiva. Si parla dunque di «concretizzazione del rischio» o «realizzazione del rischio» come alcuni autori preferiscono. Preliminare a questa verifica (non diversamente dagli altri aspetti della colpa) è l’accertamento della causalità materiale dell’evento (che può consistere anche nella condotta dell’uomo) perché solo quando sia stata individuata l’origine causale del pregiudizio sarà possibile accertare se la violazione della regola cautelare abbia cagionato l’evento, se l’evento rientri tra quelli che la regola mirava a prevenire e se il comportamento alternativo lecito sarebbe stato idoneo e sufficiente ad evitare il suo verificarsi. Nel caso in esame, come si è visto, il problema della causalità materiale è da ritenere superato perché i giudici di merito, di primo e di secondo grado, non hanno dubitato che la causalità materiale degli angiosarcomi che hanno provocato la morte di numerosi lavoratori debba essere individuata nell’esposizione al cloruro di vinile in quantità eccessive (non diversamente dalle altre malattie ritenute cagionate da questa esposizione). Il principio della concretizzazione del rischio si situa sul versante oggettivo della colpevolezza mentre la prevedibilità riguarda più specificamente l’aspetto soggettivo: è una valutazione che prende in considerazione l’evento in concreto verificatosi ed è diretta ad accertare se questa conseguenza dell’agire rientrava tra gli eventi che la regola cautelare inosservata mirava a prevenire. La ragione per cui è richiesto questo requisito è di meno agevole comprensione rispetto al requisito della prevedibilità (non posso rispondere di quanto neppure l’agente modello poteva prevedere); la concretizzazione fa riferimento allo scopo della norma ed è la verifica della corrispondenza tra finalità della regola cautelare e finalità effettivamente raggiunta. Si tratta di un’operazione di carattere logico diretta ad accertare l’esistenza della corrispondenza indicata. La prevedibilità va accertata con criteri ex ante e va valutata dal punto di vista dell’agente (non di quello che ha concretamente agito ma dell’agente modello) per verificare se era prevedibile che la sua condotta avrebbe potuto provocare quell’evento; il criterio della concretizzazione del rischio è invece una valutazione ex post che consente di avere conferma, o meno, che quel tipo di evento effettivamente verificatosi rientrasse tra quelli presi in considerazione nella formazione della regola cautelare. Ci si potrebbe anche chiedere che cosa abbia a che fare questo principio con l’elemento soggettivo del reato posto che l’accertamento della sua esistenza va compiuta in relazione all’evento già verificatosi, con criteri che non possono che essere individuati ex post e con una valutazione di tipo esclusivamente normativo (quell’evento concreto rientrava nel tipo di eventi che la norma mirava a prevenire?). Il dubbio è confermato dalla circostanza che non è facile stabilire la linea di confine tra questo principio e la c.d. «causalità della colpa» cui fa espresso riferimento l’art. 43 c.p. Ci troviamo infatti in presenza di tre aspetti della ricerca sulla colpa che sono strettamente confinanti, in parte sovrapponibili e per i quali non è facile individuare differenze e ambiti di applicazione. Per stabilire una linea di confine tra questi concetti, e abbozzare una risposta su questo complesso problema, possiamo dire anzitutto che in gran parte si tratta non tanto di elementi o aspetti diversi relativi alla colpa ma di diversi punti di vista dai quali il medesimo problema viene affrontato. Prevedibilità e concretizzazione in realtà riguardano il medesimo problema; la prevedibilità, come si è già accennato, viene valutata ex ante facendo riferimento all’agente modello mentre la concretizzazione del rischio richiede una verifica ex post sul rapporto tra evento concreto e norma cautelare; insomma si tratta di una prevedibilità di natura esclusivamente oggettiva e verificata a posteriori; si potrebbe ancora dire (ma l’affermazione non è da tutti condivisa) che la prevedibilità è prevedibilità in astratto, la concretizzazione è prevedibilità in concreto. L’accertamento relativo alla causalità della colpa mira invece non a verificare la corrispondenza tra evento e scopo della regola cautelare — come quello che si riferisce alla concretizzazione del rischio — ma a chiarire se quella violazione ha cagionato quell’evento concretamente verificatosi. La contiguità e parziale sovrapposizione del concetto di concretizzazione del rischio con gli altri due aspetti della colpa rende necessario fare ricorso ad un esempio concreto, quello ricorrente dell’automobilista che percorre una strada in senso vietato. Se il veicolo da lui guidato va ad urtare contro un altro veicolo che percorre la strada nel senso consentito è evidente la coesistenza di tutti i profili della colpa (e della causalità della colpa): l’evento era prevedibile dall’agente modello che deve sincerarsi previamente se il senso di marcia è a lui consentito. Quell’incidente realizza la concretizzazione del rischio perché la regola cautelare mira proprio ad evitare che si verifichino quegli incidenti. V’è causalità della colpa perché la violazione della regola cautelare ha «cagionato» quell’evento. L’agente risponderà quindi delle lesioni provocate al conducente di un veicolo che proveniva dal senso opposto; non risponderà invece dell’investimento di chi sia caduto dal balcone. In quest’ultimo caso la caduta non era certamente prevedibile; la norma non mirava ad evitare quell’evento — e neppure quel tipo di eventi — e la violazione non ha cagionato quell’evento se non nel senso meramente materiale. In realtà i casi non sono sempre così evidenti; nel caso dell’automobilista che procede contro mano potrebbe aversi l’investimento di un pedone che attraversa improvvisamente la carreggiata preoccupandosi soltanto di verificare che la strada sia libera nel senso di marcia consentito. In questo caso la possibilità di ricollegare l’evento alla violazione della regola cautelare presenta aspetti di maggior problematicità perché, verosimilmente, questo evento non era stato preso in considerazione nel momento in cui è stata formulata la regola cautelare ma la violazione della regola ha comunque interferito nella causazione dell’incidente perché il pedone ha fatto affidamento sul suo rispetto. m) Il «tipo» di eventi. Proprio questo riferimento (al «tipo» di eventi e non all’evento specifico concretamente verificatosi) può costituire una soluzione equilibrata che evita i rischi del versari in re illicita con l’utilizzazione del criterio dell’eccezionalità dell’evento concretamente verificatosi. Insomma: l’evento deve rientrare nel tipo di eventi che la norma cautelare mirava a prevenire (per es. il pericolo per la vita del soggetto tutelato o un grave danno alla sua salute) ma questi eventi non devono avere carattere di eccezionalità. L’agente è rimproverabile se agisce — in contrasto con regole cautelari — sapendo (o dovendo sapere) che la sua condotta può avere conseguenze dannose anche se questi esiti della condotta non sono determinabili preventivamente purché si tratti di conseguenze del tipo di quelle prese in considerazione nel momento in cui la regola cautelare è stata redatta anche se non ancora interamente descritte e conosciute. La valutazione sul «tipo» di evento trova varie conferme in dottrina: si è infatti affermato che «l’evento lesivo di fatto cagionato deve appartenere al tipo di quelli che la norma di condotta mirava a prevenire» e che «l’inosservanza della regola cautelare comporta l’imputazione non di tutti gli eventi cagionati, ma solo di quelli del tipo che essa mira a prevenire». Nell’esempio fatto è possibile che coloro che hanno redatto la regola cautelare che vieta di guidare veicoli contro il senso di marcia intendessero riferire la tutela alla sola circolazione dei veicoli. Ma l’obiettività della norma — cui soltanto dobbiamo fare riferimento — non consente certo di escludere dal perimetro della tutela anche tutti quei comportamenti non caratterizzati da eccezionalità (come è invece la caduta dal balcone) che la regola è idonea a tutelare anche se meno frequenti. È quindi ragionevole ritenere che la tutela sia oggettivamente preordinata anche a favore dei pedoni quando la consapevolezza del divieto possa indurre comportamenti di affidamento sul rispetto della regola da parte degli automobilisti. Questo aspetto — che riguarda anche la causalità — non è estraneo al nostro tema perché è necessario verificare se in questi casi si possano addebitare soggettivamente all’agente le conseguenze ulteriori in quanto prevedibili e se queste conseguenze costituiscano realizzazione del rischio. In queste ipotesi dobbiamo dare per scontato che sussista il rapporto di causalità materiale e che l’evento non sia dovuto ad una causa sopravvenuta da sola idonea a determinarlo; e, sotto il profilo soggettivo, non si può che rilevare che non possono formare oggetto di previsione esclusivamente quelle conseguenze ulteriori (ovvero protratte o tardive) che hanno carattere di eccezionalità adottando la formula usualmente utilizzata per escludere la causalità (e lo stesso criterio può essere utilizzato quando le conseguenze dannose si verifichino nei confronti di un terzo diverso da quello preso in considerazione dalla regola cautelare). D’altro canto il richiamo ad un ambito oggettivo della regola cautelare consente di evitare una quasi impossibile ricerca diretta ad individuare un’intenzione soggettiva dei redattori della medesima, di individuare un ambito oggettivo di applicabilità e di tener conto della sua espansione nel caso di mutamento del contesto di applicazione. Questa elasticità nell’ambito di applicazione della regola cautelare può derivare anche dall’evoluzione delle tecnologie. Ciò avviene frequentemente nell’ambito della disciplina delle cautele in tema di prevenzione contro gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali laddove casi in cui viene in considerazione l’osservanza della regola cautelare — non previsti dai redattori della medesima — possono trovare un ambito di applicazione più esteso in caso di modifica dei procedimenti produttivi e di introduzione di nuove tecniche di lavorazione. Né può ritenersi, come si è affermato in alcuni ricorsi (in particolare quelli del responsabile civile Edison e degli imputati Gatti e Bartalini; ma anche in un contributo di dottrina dedicato all’esame critico della sentenza della Corte d’appello di Venezia), che questa ricostruzione si ponga in contrasto con i principî di tassatività e determinatezza perché si tratta di principî estranei al tema che stiamo esaminando. Infatti, in estrema sintesi, il principio di tassatività è riferibile al divieto di analogia nella materia penale mentre il principio di determinatezza riguarda la formulazione della norma che deve essere sufficientemente chiara («determinata») nel descrivere la condotta vietata e costituisce una riaffermazione del principio di legalità. Nessuno dei due principî si riferisce quindi all’elemento soggettivo del reato né può affermarsi che l’indeterminatezza riguarderebbe l’oggetto della previsione da parte dell’agente perché qui siamo al di fuori del principio in esame. Il contenuto dell’oggetto della possibilità di previsione non riguarda infatti la formulazione della norma (semmai potrebbe riguardare la formulazione della regola cautelare ove prescrivesse condotte aspecifiche) ma i contorni che deve assumere l’oggetto della previsione al fine di verificare la rimproverabilità della condotta. Se poi le critiche in esame dovessero intendersi rivolte alla formulazione delle regole cautelari previste nei più volte ricordati art. 20 e 21 d.p.r. 303/56 si porrebbe naturalmente un problema di costituzionalità che può peraltro ritenersi superato dall’orientamento della Corte costituzionale che, con la sentenza 25 luglio 1996, n. 312 (id., 1996, I, 2957), ha ritenuto (in un caso analogo in cui la norma prevedeva l’adozione delle misure tecniche, organizzative e procedurali «concretamente attuabili» per ridurre al minimo i rischi derivanti dall’esposizione al rumore) che il legislatore si riferisse «alle misure che, nei diversi settori e nelle differenti lavorazioni, corrispondono ad applicazioni tecnologiche generalmente praticate e ad accorgimenti organizzativi e procedurali altrettanto generalmente acquisiti». Anche se può ritenersi opinabile il riferimento alle misure generalmente applicate (e non a quelle di maggior efficacia) è rilevante notare che la Corte costituzionale, in una materia assai vicina a quella che stiamo trattando, ha ritenuto che la determinatezza, in queste fattispecie, si determina con il riferimento alle misure tecnologiche applicabili al processo produttivo all’epoca della condotta. n) Il criterio della «ratio» della regola cautelare. Il tema può essere approfondito anche sotto un diverso aspetto. Si è visto che la violazione della regola cautelare consente l’addebito soggettivo se l’evento in concreto, verificatosi «rientri nel novero degli accadimenti che la norma mirava a prevenire» e che «è difficile negare, anzitutto, che le regole cautelari presentano per lo più uno spettro preventivo assai ampio, nel senso che esse mirano a evitare non un solo tipo di evento, ma una serie di eventi tra loro diversi per gravità». E il medesimo autore prosegue: «dato che caratteristica delle regole cautelari di fonte giuridica è quella di indicare la pretesa comportamentale formalizzandola attraverso leggi, regolamenti, ordini o discipline, si comprende che in questi casi le valutazioni di rischio che il fine di tutela introduce nella tipicità penale, vanno logicamente desunte dalla ratio della regola giuridica, quale risulta dall’interpretazione della sua struttura lessicale e logica». Pur dandosi atto della problematicità della soluzione questo collegio ritiene che il principio della concretizzazione del rischio vada inteso con criteri di ragionevolezza interpretando la regola cautelare non in senso formale e statico ma secondo la sua ratio e secondo criteri che tengano conto dell’evoluzione delle conoscenze e della possibilità di ricondurre comunque l’evento alle conseguenze della violazione della regola di condotta, anche se infrequenti e non previste anticipatamente, purché non siano completamente svincolate dallo scopo perseguito nella redazione della regola cautelare. Dunque la ratio della regola cautelare. La regola è stata dettata per impedire il verificarsi di uno specifico evento preventivamente individuato o per uno spettro più ampio di eventi determinato soltanto nel «tipo»? Per compiere questa verifica utili indicazioni — ai fini dell’accertamento se un determinato evento rappresenti la realizzazione del rischio preso in considerazione dalla norma cautelare — possono trarsi dalla natura della norma cautelare che si assume violata. Esistono infatti norme cautelari specificamente previste per la prevenzione di eventi ben individuati: si pensi alle cinture di sicurezza o alle scarpe protettive, le prime dirette ad evitare cadute dall’alto e le seconde per prevenire lesioni conseguenti alla caduta di corpi pesanti sugli arti inferiori. Se il datore di lavoro non fornisce il lavoratore di questi mezzi di protezione risponde dei danni provocati dalla precipitazione del lavoratore o di quelli cagionati dalla caduta di un oggetto pesante sui suoi piedi. Lo scopo di protezione può però ritenersi esistente anche nel caso di eventi che non rappresentino quelli tipici ma siano comunque ricollegabili alle modalità dell’attività lavorativa (per es. la caduta sia stata provocata dall’urto di un veicolo contro l’impalcatura o il piede del lavoratore sia stato schiacciato da un veicolo operante nell’ambiente di lavoro). Ma se un lavoratore privo del casco protettivo viene punto alla testa da un grosso insetto (che non avrebbe potuto pungerlo in presenza del mezzo di protezione) o il lavoratore privo delle scarpe protettive contrae una malattia ai piedi perché esposti ad un agente patogeno (salva la responsabilità per aver sottoposto il lavoratore a tale agente) sembra evidente che si è al di fuori dell’area di concretizzazione o realizzazione del rischio. Quelle regole di condotta erano dirette a tutt’altro scopo e il verificarsi degli eventi dannosi descritti esulava completamente dagli scopi di protezione delle medesime; con la conseguenza che gli eventi medesimi, caratterizzati da eccezionalità, erano imprevedibili per l’agente che dunque versa in re illicita ma non può essere ritenuto in colpa sia perché l’evento non era prevedibile sia perché il fatto in concreto verificatosi era completamente estraneo allo scopo di protezione della norma. Ma esistono regole di condotta ad ampio spettro che — o perché le conoscenze dell’epoca in cui sono state dettate erano ancora limitate o perché si è in presenza di cause dannose o eventi talmente numerosi da rendere impossibile non solo l’enumerazione completa ma anche la loro anticipata individuazione — si limitano a dettare la regola di condotta in relazione all’astratta possibilità del verificarsi di eventi dannosi alcuni dei quali possono essere ancora ignoti. Se una sostanza è riconosciuta come dannosa il legislatore ne può vietare l’impiego, o limitarne l’uso con l’adozione di determinate cautele, proprio perché eventuali conseguenze, se del caso più gravi di quelle note, non sono ancora conosciute. E può affermarsi l’esistenza del solo versari in re illicita nella condotta di chi, nonostante l’esistenza del divieto o della disciplina limitativa, non adotti le cautele richieste e si verifichi un danno del tipo di quelli conosciuti ma non ancora specificamente conosciuto al momento della condotta? Oppure il divieto o l’imposizione della regola di condotta sono preordinati, in caso di regole per così dire «aperte», anche a prevenire le conseguenze non conosciute ma comunque riconducibili all’area di protezione della norma? Sarebbe veramente singolare che una condotta imposta in presenza di determinati presupposti (per es. la pericolosità per la salute umana dell’esposizione ad un agente patogeno di cui sia stata accertata la tossicità) sia ritenuta incolpevole per aver provocato una conseguenza di cui il legislatore non aveva tenuto conto (perché non conosciuta) al momento della formulazione originaria della norma che peraltro sia stata dettata in termini generali e aspecifici proprio perché tutte le conseguenze dell’esposizione non erano ancora conosciute (e verosimilmente mai lo saranno). Ancora oggi: potrebbe escludersi la prevedibilità nel caso di una patologia (diversa da quelle tradizionalmente conosciute) che si scoprisse essere conseguenza dell’esposizione all’amianto avvenuta dopo l’introduzione del divieto dell’impiego di questa sostanza o al cloruro di vinile monomero in dosi superiori a quelle ritenute non tossiche? O può affermarsi che nell’ambito delle conseguenze del «tipo» di quelle che il legislatore voleva prevenire (morte della persona; grave danno alla salute) l’agente che opera in violazione delle regole cautelari non solo versa in re illicita ma si assume le conseguenze della sua condotta comprese quelle non ancora conosciute quando sia possibile affermare che la norma è stata dettata per prevenire anche queste conseguenze? Se via via nel tempo si scopre che una sostanza provoca malattie diverse non è possibile o addirittura probabile che ve ne siano ancora di non conosciute e ciò non costituisce un presupposto della prevedibilità e un addebito di rimproverabilità della condotta di chi ignora questo pericolo? È noto che vi sono malattie (in particolare alcune forme tumorali) che hanno tempi di latenza lunghissimi (per il mesotelioma pleurico cagionato dall’amianto si è parlato di tempi che possono superare i cinquanta anni); se nulla si sa della nocività dell’esposizione ad una sostanza che provoca queste malattie è ovvio che l’agente non è rimproverabile perché il risultato della sua condotta non poteva essere previsto. Ma che agente modello è quello che sottopone altri all’esposizione ad una sostanza già riconosciuta (dalla legge!) come nociva anche se le conseguenze dell’esposizione non sono ancora tutte completamente note? È possibile affermare, oggi, che solo fra alcuni decenni potrà ritenersi prevedibile una malattia provocata da un agente oggi conosciuto come nocivo ma i cui effetti siano ancora in parte sconosciuti? E allora il discrimine tra il versari in re illicita (la responsabilità oggettiva) e la colpa — ipotizzabile solo in presenza della prevedibilità dell’evento e della realizzazione del rischio — è costituito, nel caso di violazione di una regola cautelare, dalla circostanza che la norma sia redatta in previsione di uno specifico e determinato evento, poi concretamente verificatosi, oppure per un tipo di eventi che peraltro non sono tutti preventivamente individuabili. Nel primo caso il verificarsi di un evento completamente diverso consente di affermare soltanto l’esistenza del versari in re illicita; ma se, trattandosi di regola cautelare «aperta», l’evento rientra nel «tipo» di eventi che la norma mira a prevenire — e purché non sia completamente diverso da quelli presi in considerazione nella formulazione della regola di cautela e non costituisca uno sviluppo eccezionale della violazione — la condotta dell’agente è «rimproverabile» perché era prevedibile che esistessero conseguenze, eventualmente non ancora conosciute o descritte, del medesimo tipo. o) L’accertamento del decorso causale. Vi sono poi casi nei quali il criterio della concretizzazione del rischio richiede un «dippiù» rispetto alla realizzazione del rischio tipico e si afferma (ma il tema è controverso) che anche il decorso causale debba essere corrispondente a quello preso in considerazione nella redazione della norma cautelare. Si pensi al decesso di un automobilista a seguito di un infarto cagionato dall’emozione provocata da una manovra azzardata di un altro automobilista (per es., un sorpasso irregolare, una perdita di controllo del veicolo poi rientrata, ecc.). La selezione degli anelli causali intermedi è ritenuta necessaria, da una parte della dottrina, per poter ritenere che l’evento verificatosi sia corrispondente a quello che la regola cautelare mirava ad evitare. È stato affermato che «il vero problema è quello di selezionare gli anelli causali (o le modalità dell’evento) di cui è necessario accertare la presenza nell’ambito dell’accadimento concretamente prodottosi, determinando altresì a quali condizioni la loro successione all’interno del decorso causale configuri effettivamente l’evento ‘finale’ come realizzazione del rischio in considerazione del quale la condotta era stata vietata, senza arrestarsi al mero riscontro che tale evento fosse in effetti uno di quelli che la regola cautelare mirava a prevenire». Non è sempre così. Esistono effettivamente casi nei quali non solo ai fini della causalità ma altresì ai fini della prevedibilità e della concretizzazione del rischio, non è sufficiente riferirsi al mero evento finale comunque verificatosi ma deve richiedersi che venga descritto (o ridescritto come pure si afferma) l’intero evento in concreto realizzatosi. Ciò avviene quando un evento si sia verificato in presenza di una causa preesistente e della violazione della regola cautelare ma la causa preesistente non abbia in concreto cagionato l’evento in realtà riconducibile ad un diverso decorso causale assolutamente eccezionale ed imprevedibile. Un esempio di questa ipotesi è costituito dal caso affrontato da App. Torino 18 ottobre 1996 (id., Rep. 1999, voce cit., n. 32). In quel caso si trattava di una valanga che aveva travolto alcuni sciatori; la pista avrebbe dovuto essere chiusa per le abbondanti nevicate verificatesi nei giorni precedenti che creavano un serio e attuale rischio di valanghe; la valanga si era però verificata non per l’accumulo di neve ma per la rottura del fronte di un ghiacciaio, fatto ritenuto assolutamente imprevedibile. Gli imputati versavano quindi in re illicita, l’evento non si sarebbe verificato se avessero rispettato la regola cautelare ma quell’evento, come concretamente verificatosi, non era prevedibile perché non ricollegabile alla violazione della regola cautelare. Sembra evidente che, nel nostro caso, ci troviamo al di fuori di queste ipotesi perché l’evento è invece ricollegabile alla violazione delle regole cautelari dettate per prevenirlo. Per restare all’esempio fatto ci troveremmo in un’ipotesi assimilabile a quella ricordata se, per esempio, i lavoratori del petrolchimico, privi dei mezzi di protezione personale, avessero subìto danni alla salute non per le esalazioni dello stabilimento dove lavoravano ma per essere stati investiti da una (imprevedibile) nube tossica fuoriuscita da altro stabilimento. Se avessero avuto a disposizione il mezzo di protezione (per es. le maschere) non avrebbero subìto danni ma il meccanismo causale delle lesioni è completamente estraneo al rispetto della regola cautelare da parte dell’imprenditore. p) La prevenibilità dell’evento. Non è sufficiente che l’agente abbia violato la regola cautelare, che questa violazione abbia cagionato l’evento e che quel tipo di eventi fosse ricompreso nella previsione della norma cautelare. È necessario che venga anche individuata la condotta («comportamento alternativo lecito»; ma in dottrina vi è chi preferisce denominarlo «comportamento alternativo diligente») che, se posta in essere, avrebbe evitato il verificarsi dell’evento che dunque non solo deve essere prevedibile ma altresì evitabile o prevenibile. È chiaro che il problema di individuare il comportamento alternativo lecito non si pone quando la regola cautelare imponga di astenersi da una determinata attività: in questo caso il comportamento alternativo lecito è costituito dalla mera omissione della condotta vietata. È l’evitabilità dell’evento, ancor più della sua prevedibilità (che ne costituisce il presupposto) che indirizza la formazione della regola cautelare secondo criteri sociali o giuridici; se esiste il pericolo o il rischio di un evento che può essere immaginato la regola cautelare sarà formulata in relazione a questo rischio ma la sua concreta definizione non potrà che avvenire in base alla concreta possibilità che questa regola sia idonea ad evitare l’evento anche se — e ciò si verifica in particolare nell’ambito del rischio consentito nelle attività pericolose — è improbabile che possa aversi la garanzia totale che l’evento non si verificherà (per es. un’attività di paracadutismo svolta con l’osservanza di tutte le regole previste non potrà escludere il verificarsi di eventi dannosi provocati dall’insorgere di improvvisi eventi atmosferici). Nel caso oggetto del presente processo, e in relazione agli eventi di danno fin qui presi in considerazione, la prevenibilità dell’evento forma oggetto di contestazioni, neppure troppo specifiche, contenute in alcuni dei ricorsi ma va detto che su questo tema la risposta della corte di merito (ma questa valutazione coincide con quella dei giudici di primo grado che hanno escluso la prevedibilità ma non certo la prevenibilità) è del tutto appagante. Basti richiamare le condotte, già descritte, poste in essere dal 1974 in poi, che la corte ha ritenuto idonee (e lo sono certamente state come emerge dalle motivazioni dei giudici di merito) ad azzerare il rischio di contrarre l’angiosarcoma epatico. Il comportamento alternativo lecito è stato quindi individuato e la sua efficacia impeditiva addirittura confermata con criteri di certezza (secondo un giudizio controfattuale valido non solo ai fini dell’accertamento della causalità ma altresì ai fini dell’individuazione del comportamento alternativo lecito). q) L’esame dei motivi nuovi del responsabile civile e degli imputati Gatti e Grandi. Si è già detto che una parte dei motivi nuovi si riferisce alla causalità e incorre dunque nelle preclusioni cui si è già accennato (ciò vale in particolare per gran parte dei motivi Grandi che si riferiscono al suo contributo causale soggettivo oltre che ai motivi — comuni a Gatti e Grandi — relativi ai reati di lesioni colpose dichiarati estinti per prescrizione dei quali si è già trattato). Altre censure contenute nei motivi aggiunti costituiscono un approfondimento delle censure proposte nei motivi principali e se ne è tenuto conto nell’esame di questi ultimi. Altre doglianze riguardano invece il vizio di motivazione previsto dal novellato art. 606, lett. e), del codice di rito con la specifica indicazione degli atti dai quali risulterebbe l’esistenza del vizio. In particolare il responsabile civile indica gli atti del processo che dimostrerebbero la mancanza e contraddittorietà della motivazione sulla ritenuta prevedibilità degli effetti cancerogeni del cvm dal 1969 e sulla condotta inosservante della Montedison in epoca anteriore al 1974 ma è facile osservare che, per un verso, si tratta di censure già esaminate nell’esame dei motivi principali mentre, sotto diverso profilo, gli atti indicati non solo sono stati presi in considerazione dalla corte di merito e dal tribunale ma si tratta di atti il cui contenuto è inidoneo a disarticolare le conclusioni cui è pervenuta la corte di merito sull’esistenza dell’elemento soggettivo. Conclusioni, peraltro, neppure particolarmente divergenti con quelle dei giudici di primo grado che, pur riconoscendo che, fino al 1974, non erano stati adottati interventi risolutivi per ridurre l’esposizione al cvm, hanno escluso l’elemento soggettivo del reato per mancanza di prevedibilità degli eventi e non perché risultasse in concreto che erano state adottate le cautele necessarie. D’altro canto poiché la decisione impugnata si fonda su una massa ingentissima di informazioni probatorie da cui ha tratto il convincimento riferito è evidente che le informazioni ricavabili dagli atti indicati, per supportare l’asserita esistenza del vizio di motivazione, andrebbero rivalutate unitamente agli altri numerosissimi atti su cui il giudice di merito ha fondato le sue conclusioni e, per questa via, verrebbe attribuito al giudice di legittimità un compito (di giudice di merito di terzo grado) estraneo alle sue funzioni istituzionali per quanto si è in precedenza accennato. La Corte di cassazione dovrebbe rivalutare l’intero compendio probatorio su cui la corte di merito ha fondato il suo convincimento che, per quanto si è già detto, è esente da vizi di logicità e da alcuna contraddittorietà. Ma v’è di più: il semplice esame dell’indicazione degli atti dimostra la loro (dichiarata) inidoneità a fondare una diversa valutazione. In particolare: le dichiarazioni e comunicazione del prof. Maltoni in parte esprimono opinioni — anche di natura giuridica! — dello studioso mentre, in altra parte, riportano i tempi di conoscenza dei suoi studi che non sono oggetto di contestazione; gli interventi indicati di Montedison effettuati negli anni dal 1971 al 1973 riguardano settori limitati degli impianti; la circostanza dell’esistenza di commesse anteriori al 1974 non dimostra che in quegli anni i temi della prevenzione siano stati adeguatamente affrontati. Deve quindi concludersi, sui motivi aggiunti del responsabile civile, che gli atti indicati da un lato sono inidonei a disarticolare il ragionamento probatorio e le conclusioni cui è pervenuto il giudice di merito ma, d’altro canto, neppure sono caratterizzati da decisività essendo inidonei, nel loro valore testuale derivante dalla loro mera lettura, e anche se interpretati nel senso voluto dal ricorrente, a fondare una diversa decisione. Analoghe considerazioni vanno fatte per quanto riguarda i motivi aggiunti degli imputati Gatti e Grandi. Sugli atti costituiti dalle comunicazioni e osservazioni del prof. Maltoni le considerazioni da fare sono identiche a quelle esposte in merito al ricorso del responsabile civile. E analogamente vanno valutati i motivi che si riferiscono alla condotta inosservante fino al 1974. Per quanto riguarda invece la dedotta circostanza che gli studi di Viola del 1969 e la sua comunicazione del 1970 non accennavano agli effetti cancerogeni del cvm la circostanza contrasta con quanto già accertato nella sentenza di primo grado nella quale si dà atto che gli studi di Viola facevano riferimento a conseguenze tumorali (alla pelle e ai polmoni) dell’esposizione al cvm anche se non all’angiosarcoma. Anche in questo caso dunque l’atto dovrebbe essere valutato all’interno di tutto il compendio probatorio acquisito e comunque non avrebbe carattere di decisività nel senso indicato. Gli altri motivi aggiunti riguardano prevalentemente il tema della prevedibilità già in precedenza trattato nell’esame dei motivi principali e in relazione al quale alcun atto decisivo idoneo a scardinare la ricostruzione del giudice di merito è stato indicato. IV. - I motivi sulla colpa della parte civile Terrin. — a) Cooperazione colposa e continuazione del reato. Sono già stati esaminati i motivi del ricorso di questa parte civile relativi alla causalità individuale. Terrin ha peraltro proposto altri motivi che, direttamente (la cooperazione colposa) o indirettamente (la continuazione) riguardano l’elemento soggettivo del reato e che in questa sede possono più opportunamente essere esaminati. Con il secondo motivo il ricorrente denunzia l’inosservanza od erronea applicazione dell’art. 113 c.p. in relazione all’art. 43, 3° comma, del medesimo codice e, in subordine, mancanza e manifesta illogicità della motivazione sull’esclusione dell’ipotesi di cooperazione colposa. In particolare si contesta la motivazione della sentenza impugnata laddove richiede, per ritenere realizzata la cooperazione colposa, la «consapevolezza reciproca delle rispettive azioni» — dovendosi invece ritenere sufficiente la prevedibilità della condotta altrui — e la si censura in diritto nella parte in cui, invece di ricondurre i requisiti soggettivi della cooperazione alla definizione di colpa di cui all’art. 43, 1° comma, li riporta al modello del concorso doloso ex art. 110 c.p. affermando che l’unica differenza consisterebbe nella volizione dell’evento reato. La consapevolezza, secondo il ricorrente, è invece elemento estraneo allo schema della cooperazione per ravvisare la quale è sufficiente che i vari contributi «siano legati dall’oggettivo ‘cooperare’ o convergere insieme in un contesto di ripartizione di compiti, ruoli, funzioni, che si possono certo succedere anche nel tempo, purché stretti da comuni regole cautelari da osservare, che riflettono la strutturale connessione e convergenza oggettiva delle attività svolte in un’intrapresa che sia frutto dell’opera comune». Deve naturalmente trattarsi di contributi non avulsi e indipendenti uno dall’altro ma confluenti a produrre l’evento. L’eventuale requisito psicologico in ogni caso non potrebbe che riferirsi «alla mera azione od omissione altrui di per sé considerata, senza in alcun modo estendersi a tutti i requisiti oggettivi del fatto tipico ed in specie alla loro efficacia causale rispetto all’evento consumativo del delitto che viene in considerazione». Nel caso in esame la cooperazione è ravvisabile esistendo un «legame oggettivo e strutturale fra le diverse azioni ed omissioni dei soggetti che hanno esercitato l’attività di direzione o controllo dell’impresa o comunque assunto al suo interno posizioni di garanzia», che hanno dunque indirizzato la loro attività ad un’unica «opera», mentre la corte di merito avrebbe illogicamente omesso di considerare la convergenza strutturale delle diverse condotte contestate agli imputati sviluppatesi in un ampio arco temporale ma convergenti perché concatenate «in senso sincronico e diacronico» nell’unica direzione della gestione aziendale. Ma secondo il ricorrente, anche accettando una concezione della cooperazione che abbia riferimento alla consapevolezza della partecipazione degli altri agenti questa consapevolezza non poteva mancare nel caso in esame nel quale ogni nuovo garante aveva coscienza delle scelte organizzative precedenti con riferimento all’aver adibito i lavoratori alle elevate esposizioni a cvm che avevano provocato gli eventi lesivi denunziati. Ciò anche quando l’EniChem è subentrata a Montedison avendo conoscenza di tutte le situazioni rilevanti riguardanti la sicurezza anche nei minimi dettagli con la conseguenza della piena consapevolezza delle situazioni di rischio cui i lavoratori erano esposti. Con il terzo motivo si denunzia invece l’inosservanza e l’erronea applicazione dell’art. 81, 2° comma, in relazione all’art. 158, 1° comma, c.p., sul mancato riconoscimento della continuazione tra i delitti di lesioni colpose in danno del ricorrente e quelli di omicidio colposo ed in particolare di quello in danno di Faggian Tullio. Pur dando atto che la giurisprudenza di legittimità è prevalentemente orientata in senso negativo (salvo i casi in cui l’agente abbia agito con la previsione dell’evento o nei casi di colpa «impropria»: art. 47, 1° comma, e 59, ultimo comma, c.p.) il ricorrente richiama la cospicua dottrina che segue invece un diverso orientamento. Nell’ambito dei settori produttivi in esame i reati ipotizzabili, pur conservando la loro natura colposa, si concretizzano in condotte «sorrette da requisiti psicologici reali di ‘ideazione, programmazione e deliberazione’, che in quanto miranti al raggiungimento degli scopi di politica aziendale specifici ... integrano requisito psicologico dell’unicità del disegno criminoso». In capo a ciascun imputato va dunque riconosciuto, con l’assunzione del ruolo aziendale e la realizzazione delle condotte contestate, «l’originaria ideazione, deliberazione e volizione di porle in essere in tale gestione d’impresa». La condivisione di questo scopo criminoso rende «ravvisabile in capo a ciascuno dei singoli imputati responsabili della pluralità di violazioni loro contestate, avendo agito ciascuno nel perseguimento dei medesimi scopi aziendali». Censurata anche sotto il profilo motivazionale la sentenza impugnata in punto continuazione il ricorrente chiede, in conclusione, che in considerazione dell’applicazione dell’istituto della continuazione il reato non sia ritenuto prescritto in quanto la prescrizione decorre dal momento consumativo dell’ultimo fatto di reato contestato collocabile nel 2000. b) L’esame dei motivi del ricorso Terrin. Anche per quanto riguarda le censure di Terrin va rilevata la loro ammissibilità anche se dovesse ritenersi decorso il periodo di prescrizione (cosa che peraltro il ricorrente contesta) posto che le censure proposte attengono ovviamente agli aspetti civilistici che obbligano il giudice ad un esame completo della fattispecie penale e non limitato ai presupposti per l’applicazione dell’art. 129 c.p.p. Il reato in esame (se anche fossero superabili le argomentazioni della corte di merito sulla causalità) dovrebbe essere ritenuto consumato nel 1993 (come incensurabilmente accertato dai giudici di merito) e quindi alla data odierna dovrebbe essere ritenuto ampiamente prescritto anche se il ricorrente tenta di superare l’ostacolo con la pretesa di ricollegare con la continuazione il reato in esame all’omicidio colposo in danno di Faggian. Ribadito che la censura è da ritenere assorbita dalla pronunzia sulla causalità si osserva peraltro che la tesi proposta è da ritenere manifestamente infondata. Inutile citare giurisprudenza, di legittimità o di merito, che sostenga l’applicabilità dell’istituto della continuazione ai reati colposi perché non si rinviene alcuna decisione in questo senso. Le isolate affermazioni dottrinarie che sostengono questa tesi sono smentite dalla semplice lettura dell’art. 81, cpv., c.p. che fa riferimento al «disegno criminoso» e alla ricostruzione di questo elemento come rappresentazione anticipata del programma criminoso per avere conferma che questi elementi possono connotare esclusivamente i reati dolosi. Né può essere sostituito il collegamento della continuazione con la cooperazione colposa. A parte il rilievo che non sono ben chiare le caratteristiche di decisività di questa ricostruzione ai fini che interessano (e quindi il motivo di ricorso potrebbe essere ritenuto inammissibile per carenza di interesse) va comunque osservato che la nozione di cooperazione colposa che il ricorrente propone non è condivisibile; manifestamente infondato deve infatti ritenersi il tentativo del ricorrente di individuare la natura della cooperazione colposa in un mero collegamento oggettivo del quale non costituisca elemento costitutivo la consapevolezza dei singoli agenti della partecipazione di altri. Com’è noto il tema della configurabilità del concorso di persone nel reato colposo è stato risolto, dal legislatore del codice penale vigente, con l’introduzione della c.d. cooperazione colposa disciplinata dall’art. 113 c.p. che, in realtà, non differenzia il trattamento sanzionatorio rispetto a quello delle condotte indipendenti ma si limita a prevedere alcune aggravanti tipiche del concorso di persone nel reato (doloso). Ciò che contraddistingue questa forma di concorso (detto anche «improprio») è il legame psicologico che si instaura tra gli agenti ognuno dei quali è conscio della condotta degli altri. Naturalmente la consapevolezza riguarda esclusivamente la partecipazione di altri soggetti e non, come è ovvio trattandosi di reati colposi, il verificarsi dell’evento. Per ritenere esistente la cooperazione colposa non è però richiesta la specifica coscienza o conoscenza sia delle persone che cooperano sia delle specifiche condotte da ciascuno poste in essere. Non ignora la corte che una corrente dottrinale sostiene che, per ipotizzare la cooperazione, sia necessaria la consapevolezza anche della natura colposa dell’altrui condotta ma questa tesi (che peraltro non influisce sulla decisione del caso che interessa) non è mai stata condivisa dalla dottrina dominante che ha obiettato che, richiedendo questo requisito, la cooperazione sarebbe configurabile solo nel caso di colpa cosciente. Se, come è comunemente ritenuto, è invece sufficiente la coscienza dell’altrui partecipazione e non è invece necessaria la conoscenza delle specifiche condotte né dell’identità dei partecipi non può però trarsi la conclusione, sostenuta dal ricorrente, che la cooperazione sia ipotizzabile anche in tutte le ipotesi nelle quali è presente un mero collegamento oggettivo perché, seguendo questa tesi, verrebbe meno ogni differenza con il contiguo istituto delle condotte colpose indipendenti. In conseguenza di quanto esposto anche i motivi sulla colpa contenuti nel ricorso di Terrin Ferruccio devono essere rigettati. Il rigetto dei motivi della ricorrente parte civile sulla colpa (e, come in precedenza esposto) sulla causalità rende superfluo l’esame delle considerazioni contenute nella memoria dei dirigenti EniChem (Terrin ha lavorato anche presso questa società oltre che presso la Montedison) i quali hanno chiesto l’inammissibilità o, in subordine, il rigetto del ricorso. (Omissis) Capitolo III: esame dei motivi di ricorso sul reato di cui all’art. 437 c.p. — a) Premessa sul reato previsto dall’art. 437 c.p. Il delitto previsto dall’art. 437 c.p. (rimozione od omissione dolosa di cautele contro infortuni sul lavoro) è inserito, dal codice penale, tra i delitti contro l’incolumità pubblica e nel capo dedicato ai «delitti di comune pericolo mediante violenza». A differenza di altri reati ricompresi nel medesimo capo questa fattispecie di reato è prevista nella sola forma dolosa; non può infatti essere ricompresa tra i delitti colposi di danno previsti dall’art. 449 c.p. che richiama soltanto l’incendio o gli altri disastri; il fatto tipico previsto dall’art. 437 non rientra tra queste ipotesi (incendio o disastro) e il disastro è previsto soltanto nella fattispecie aggravata di cui al 2° comma ma non nell’ipotesi base. Non ben definiti sono invece i contorni della consapevolezza richiesta (in particolare si discute in dottrina se debba essere conosciuta la destinazione della cautela alla prevenzione degli infortuni) mentre condivisibile è da ritenere la critica rivolta dalla corte di merito alla sentenza di primo grado nella parte in cui è stato ritenuto, dai primi giudici, che rientrassero nel fatto tipico solo gli impianti ed apparecchi la cui destinazione sia esclusivamente quella di prevenzione degli infortuni (secondo il tribunale la previsione si riferirebbe «a strumenti aventi specificamente ed unicamente la destinazione alla sicurezza»). Con argomentazioni condivisibili la corte di merito ha infatti evidenziato come questa limitazione non sia prevista dalla norma e contrasti con le finalità di prevenzione della medesima. Deve quindi confermarsi il giudizio di irrilevanza, ai fini della configurabilità del reato in esame, della circostanza che lo strumento adempia anche a diverse funzioni purché sia accertato che svolga anche una funzione di prevenzione di infortuni e disastri. Soluzione peraltro condivisa, anche recentemente, dalla giurisprudenza di legittimità (v. Cass. 20 aprile 2006, Simonetti e altri, id., Rep. 2006, voce Incolumità pubblica (reati e sanzioni), nn. 26-31 — in un’ipotesi riguardante la configurabilità dell’ipotesi di reato prevista dal 2° comma dell’art. 437 — secondo cui «nessuna norma, tra quelle contenute nel d.p.r. n. 547 del 1955, giustifica l’affermazione che per ‘dispositivo antinfortunistico’ debba intendersi soltanto un dispositivo che abbia esclusivamente funzioni antinfortunistiche, e non anche un dispositivo che, presentando comunque indiscutibilmente una potenzialità antinfortunistica, svolga contemporaneamente anche specifiche e magari rilevantissime funzioni tecniche, ai fini del funzionamento dell’impianto nel quale tale dispositivo è inserito»). Com’è noto i delitti contro l’incolumità pubblica si caratterizzano per la loro attitudine ad esporre a rischio la vita e l’integrità fisica di un numero indeterminato di persone. I danni alle cose non costituiscono l’oggetto della tutela se non nei limiti in cui, dalla condotta, possa derivare un pericolo per la vita e la sicurezza delle persone. L’indeterminatezza della potenzialità offensiva dell’omissione (o della rimozione) delle cautele conduce ad escludere che possa ipotizzarsi il reato in esame allorché l’omissione riguardi un singolo e individuato lavoratore (per es. il datore di lavoro omette volutamente di fornire al suo dipendente il mezzo di protezione) mentre sembra superato l’orientamento giurisprudenziale che riteneva inapplicabile questa fattispecie di reato alle aziende di piccole dimensioni. In dottrina, di questa categoria di reati — i reati di pericolo caratterizzati dal fatto che non è necessario, per la consumazione del reato, che si verifichi l’evento (nel nostro caso un disastro o un infortunio sul lavoro) — sono state individuate più sottospecie: — i reati di «pericolo concreto» per i quali il pericolo per il bene protetto deve effettivamente esistere e quindi in ogni caso deve esserne accertata in concreto l’esistenza; — i reati di «pericolo astratto» nei quali il pericolo è ritenuto insito dalla legge nella condotta e il giudice deve limitarsi a verificare la conformità della condotta descritta dalla legge a quella accertata ma è consentita la prova contraria; — i reati di «pericolo presunto» nei quali non è neppure consentita la prova contraria. Quest’ultima categoria non è riconosciuta da tutti gli autori che spesso la riconducono alla seconda, quella dei reati di pericolo astratto. V’è infatti chi, nel criticare la distinzione tra reati di pericolo concreto e di pericolo astratto, precisa che l’unica distinzione consentita è quella tra reati di pericolo concreto e quelli di pericolo presunto e afferma che «nei casi in cui si ravvisa un pericolo astratto, in realtà non si ha una forma speciale di pericolo, ma una presunzione di pericolo, la quale non ammette prova in contrario». Prova contraria evidentemente ammessa nei reati di pericolo concreto. Tra coloro che accolgono invece la tripartizione tra reati di pericolo astratto, concreto e presunto vi è chi così si esprime considerando «reati di pericolo concreto (o effettivo), per la sussistenza dei quali il pericolo per il bene protetto deve effettivamente esistere, costituendo esso elemento tipico ‘espresso’ e dovendosi accertarne in ciascun caso la concreta esistenza». Altri autori distinguono tra reati di pericolo concreto (o effettivo) e reati di pericolo presunto (o astratto) e affermano che nei primi «il pericolo — in genere concepito come rilevante possibilità di verificazione di un evento temuto — rappresenta un elemento costitutivo della fattispecie incriminatrice, onde spetta al giudice, in base alle circostanze concrete del singolo caso, accertarne l’esistenza». La giurisprudenza di legittimità (v. la recente Cass. 2 dicembre 2005, Strazzarino, ibid., n. 32, e, in precedenza, sez. I 11 marzo 1998, Luciani, id., Rep. 1999, voce cit., n. 19; 20 novembre 1996, Frusteri, id., Rep. 1997, voce cit., n. 23; 16 giugno 1995, Gencarelli, id., Rep. 1996, voce cit., n. 27), ritiene che il pericolo per la pubblica incolumità, per il reato in esame, non sia previsto come elemento costitutivo del reato ma che debba ritenersi presunto (o astratto) nel senso che il legislatore ha considerato la condotta tipica descritta nella norma come astrattamente idonea a produrre gli effetti dannosi nei confronti di una comunità di lavoratori. Con la conseguenza che il danno effettivamente verificatosi integra una fattispecie aggravata del reato (ma questa conclusione è discussa) mentre il reato base, nella fattispecie omissiva, è catalogabile tra i reati omissivi propri. b) L’esame dei motivi di ricorso relativi al periodo fino al 1973. Si è già detto che il procuratore generale, e le parti civili che hanno proposto analoghe censure, si dolgono della statuizione della corte d’appello che ha assolto gli imputati dal delitto in esame, per il periodo fino a tutto il 1973, con la formula «perché il fatto non costituisce reato». In sintesi con i motivi di ricorso da queste parti proposti ci si duole dell’affermazione secondo cui, prima del 1974, non può parlarsi di dolo perché, si dice nelle proposte censure, la natura dannosa per la salute umana e la cancerogenicità del cvm erano conosciute anche negli anni precedenti. I motivi sono peraltro infondati. Va premesso in particolare che non esiste la lamentata contraddittorietà tra le affermazioni in tema di causalità dei giudici di merito e l’esclusione del dolo per il periodo indicato e comunque si tratta di comparazione tra concetti non omogenei (causalità e colpevolezza). Semmai la comparazione andrebbe fatta tra quanto la corte di merito ha affermato sul tema della colpa per gli omicidi e le lesioni colpose e quanto ha ritenuto in merito alla violazione dell’art. 437 c.p. posto che, in tema di accertamento della causalità, possono e debbono essere utilizzati criteri diversi: per l’accertamento della causalità può tenersi conto delle conoscenze successive alla condotta mentre ciò non è consentito per l’accertamento della colpa. Orbene le considerazioni in precedenza riportate, e contenute nella sentenza oggi impugnata, dimostrano che agli imputati Bartalini, Calvi, Grandi, Gatti e D’Arminio Monforte (assolti in appello dal reato di cui all’art. 437 c.p. fino al 1973 perché il fatto non costituisce reato) è stato addebitato di aver sottovalutato le conoscenze che indicavano la potenzialità lesiva del cvm ed in particolare gli studi di Viola procedendo, invece che agli interventi di modifica e ristrutturazione degli impianti (peraltro già necessari per la situazione di illegalità in cui già si trovava la Montedison), ad un adempimento conoscitivo certo opportuno che però non poteva essere sostitutivo degli interventi richiesti. È quindi del tutto logica la considerazione del secondo giudice che ha ricostruito l’addebito nei confronti degli imputati come un’ipotesi di negligenza (e non di errore sull’obbligo di attivarsi come si sostiene nel ricorso della parte civile Terrin) ben potendo, la condotta dei medesimi, essere stata determinata dalla convinzione (colpevole ma non dolosa) dell’esclusione della pericolosità dell’esposizione e dalla sottovalutazione degli elementi concreti che consentivano di prevedere un possibile effetto cancerogeno del cloruro di vinile. È pertanto corretto affermare che si tratta di condotta negligente, e quindi colposa, ma non idonea a configurare, pur essendo cosciente e volontaria, un’ipotesi di volontaria omissione consapevole del rischio oncogenico dell’esposizione. La natura dolosa dell’ipotesi di reato in questione richiede infatti che l’agente, cui sia addebitabile la condotta omissiva o commissiva, sia consapevole che la cautela che non adotta — o quella che rimuove — servano (oltre che per eventuali altri usi) per evitare il verificarsi di eventi dannosi (infortuni o disastri). Se la condotta, pur tipica secondo la descrizione contenuta nell’art. 437 c.p., è adottata senza la consapevolezza della sua idoneità a creare la situazione di pericolo non può essere ritenuto esistente il dolo che richiede una rappresentazione anticipata delle conseguenze della condotta dell’agente anche nel caso in cui queste conseguenze non siano volute ma comunque accettate (v., sul tema del dolo nel reato di cui all’art. 437, sia pure con qualche differenziazione, Cass. 1° settembre 1994, Arienti, id., Rep. 1995, voce Reato in genere, n. 27; 19 novembre 1993, Chiavarini, id., 1995, II, 126). Analoghe considerazioni vanno fatte per quanto riguarda i motivi di ricorso delle parti civili A.LL.C.A. e Confederazione unitaria di base (Cub) nei quali si fonda l’affermazione dell’esistenza del dolo sulla circostanza che, anche anteriormente al 1974, erano conosciuti gli effetti tossici del cvm. Non si tiene infatti conto, nel proporre queste censure, che il dolo, sia pure generico, richiesto dalla fattispecie di reato in esame, richiede la consapevolezza di omettere una cautela idonea ad evitare l’evento lesivo e che non è sufficiente la consapevolezza di omettere una cautela quando esista la convinzione che l’evento non si verificherà (convinzione incensurabilmente ritenuta accertata dai giudici di merito). In realtà le censure rivolte alla sentenza impugnata per aver negato l’esistenza del dolo fino al 1973 nella sostanza riproducono simmetricamente gli argomenti cui si è fatto riferimento sul tema della prevedibilità. Si dice: poiché erano conosciuti gli effetti dannosi sulla salute delle persone esposte e, da un certo momento in avanti, anche gli effetti cancerogeni del cvm, gli imputati erano coscienti che la mancata adozione delle cautele richieste avrebbe potuto cagionare gli eventi lesivi. Ma non è così: quegli studi avrebbero dovuto convincere gli agenti che esisteva un grave rischio per la salute; essi avrebbero quindi dovuto prevedere che si sarebbero potuti verificare eventi dannosi e non hanno fatto quanto necessario per evitarlo. Insomma gli imputati sono stati negligenti (ma non dolosamente consapevoli) perché hanno sottovalutato segnali inquietanti che avrebbero dovuto indurli ad operare diversamente ma non hanno consapevolmente accettato (sia pure sotto il profilo del dolo eventuale) che questi eventi dannosi si verificassero. In conclusione, premesso che l’accertamento sull’esistenza del dolo è comunque compito del giudice di merito che, nel caso in esame, l’ha condotto secondo corretti criteri logico-giuridici non può che affermarsi l’incensurabilità della motivazione contenuta nella sentenza impugnata. Superfluo aggiungere che, per questa ipotesi di reato (quella prevista dall’art. 437), diviene irrilevante — una volta esclusa l’ipotesi base prevista dal 1° comma dell’art. 437 c.p. — affrontare il problema, prospettato nel primo ricorso del p.g., con il quale si chiede che venga affermato che l’ipotesi prevista dal 2° comma costituisce un’ipotesi autonoma di reato e non un’aggravante. Svincolata dall’ipotesi base la fattispecie sarebbe in astratto autonomamente configurabile come ipotesi autonoma di disastro innominato «interno» per il quale esiste autonoma imputazione. I motivi relativi all’esistenza del disastro «interno» autonomamente considerato andranno quindi di seguito esaminati. c) Il periodo successivo al 1973. Si è visto che la sentenza impugnata ha escluso l’ipotesi di reato in esame, sia sotto il profilo oggettivo che sotto quello soggettivo, per il periodo dal 1974 in avanti, avendo ritenuto adeguati gli interventi per ridurre le emissioni nocive con l’unico dubbio residuo relativo all’installazione degli aspiratori — che risultano attivi e funzionanti solo dal 1980 in avanti — e in relazione alla cui mancata installazione il reato di cui all’art. 437 c.p. è stato dichiarato estinto ai fini penali per prescrizione non essendo evidente l’innocenza degli imputati (anche sotto il profilo soggettivo essendo all’epoca ormai conclamati anche gli effetti cancerogeni del cvm, il che rende astrattamente plausibile l’affermazione di una condotta dolosa sia pure sotto il profilo del dolo eventuale). Il procuratore generale, con il secondo ricorso proposto, la presidenza del consiglio dei ministri e il ministero dell’ambiente, contestano le conclusioni della corte, con le argomentazioni in precedenza riassunte, sostanzialmente sotto due profili: 1) non sarebbe stata data risposta alle censure contenute nell’appello del p.m. sulla ritenuta elusione, rimozione o blocco doloso del sistema di monitoraggio gascromatografico del cvm (nel periodo 1991-1995) con comportamenti fraudolenti consistiti nell’abbassamento della soglia di misura dell’allarme da 30 a 25 ppm, nell’inserimento di stringhe di comando informatico che impedivano la registrazione delle misure realmente effettuate nelle zone più a rischio, nell’inserimento di uno speciale interruttore che consentiva di scollegare il gascromatografo dallo strumento che consentiva la registrazione della misura effettuata dal gascromatografo. I motivi di ricorso — che, per la convergenza delle censure proposte possono essere esaminati congiuntamente e unitamente ai motivi aggiunti di entrambi gli enti — sono peraltro infondati. Non è infatti vero che la corte di merito — che non ha fondato la sua decisione sull’asserita non configurabilità dell’ipotesi di reato in esame nel caso di condotte elusive come sostiene l’avvocatura dello Stato — non abbia dato alcuna risposta alle censure proposte con i motivi d’appello sui punti in precedenza indicati. La corte riproduce infatti integralmente le considerazioni del tribunale sull’efficienza del sistema di monitoraggio e afferma di condividerle integralmente. Esamina poi i motivi di ricorso del p.m. rilevando: 1) che il sistema appariva conforme alla normativa vigente (d.p.r. 962/82); 2) che le denunziate carenze si fondavano su asserite manchevolezze «tecnicamente non convincenti»; 3) che alcune delle irregolarità denunziate si fondavano su accuse non suffragate da convincenti dati tecnici o su sospetti non comprovati (l’asserito utilizzo di un dispositivo per eliminare rilevazioni non gradite) o su un’erronea interpretazione dei dati (per es. quelli relativi alle giornate nelle quali il sistema non aveva funzionato e che la corte ritiene invece siano state correttamente considerate come mancanti di prelievi). Aggiunge la corte che il corretto funzionamento del sistema di monitoraggio automatico è confermato dalla sostanziale omogeneità dei dati acquisiti con i campionatori individuali indossati (nel periodo marzo 1976 - luglio 1980) da dipendenti che operavano in vari reparti. E neppure si è sottratta, la sentenza impugnata, all’esame della rilevanza delle temporanee e periodiche disfunzioni che si sono verificate nel corso degli anni nel funzionamento dell’impianto di monitoraggio delle quali la corte, con motivata valutazione, ha accertato il carattere sporadico ritenendo altresì che l’abbassamento della soglia costituisse un adeguamento a logica di maggiore prudenza. È vero che la sentenza non affronta espressamente (evidentemente inserendolo nei casi complessivamente considerati di cui ha ritenuto la sporadicità) il caso di una prolungata fuga di gas, verificatasi dal 3 al 26 marzo 1993, ma il ricorrente non indica le ragioni (che dovrebbero avere carattere di decisività) idonee a confermare una omissione dolosa di cautele (o la rimozione delle medesime) per cui, anche nella prospettazione del ricorrente, non emergono elementi idonei a far ritenere dolosa la condotta. Anzi la circostanza che il fatto si sia verificato in un periodo in cui tutte le cautele, ritenute idonee dai giudici di merito, erano in funzione fa ritenere ragionevole e conseguente la conclusione (che costituisce una valutazione di merito che peraltro appare implicita nella sentenza impugnata) che l’episodio si sia verificato non per scelta deliberata ma per negligenza e imperizia (verosimilmente per un’inadeguata manutenzione dell’impianto) e quindi non come conseguenza delle condotte tipiche (e consapevoli) indicate nell’art. 437 c.p. In relazione a questi fatti verificatisi nel 1993 deve darsi atto dei rilievi contenuti nella memoria depositata dal difensore di Trapasso Italo nel quale si rileva che la statuizione del primo giudice — di assoluzione con la formula «perché il fatto non sussiste» — era divenuta definitiva. In realtà l’appello del p.m. non aveva consentito la formazione del giudicato ma è fondato il rilievo che le funzioni svolte da Trapasso presso il petrolchimico risultano cessate nell’ottobre 1988 (in base alla formulazione dell’imputazione) e ciò costituisce ulteriore ragione d’infondatezza del ricorso del p.g. 2) Il secondo profilo di censura riguarda l’esclusione dell’ipotesi del disastro prevista dal 2° comma dell’art. 437 c.p. ma l’esclusione dell’ipotesi di reato base rende irrilevanti, come si è già visto, le censure proposte sul punto. Se non sussiste l’ipotesi di reato prevista dal 1° comma non è neppure astrattamente configurabile, per ovvie ragioni, l’ipotesi aggravata. La censura potrebbe ritenersi ammissibile solo per quanto attiene alla limitata ipotesi nella quale il reato in questione è stato dichiarato estinto per prescrizione (omessa collocazione degli impianti di aspirazione fino al 1980). Ma, nelle censure proposte dal p.g., non si ipotizza l’ipotesi aggravata con il riferimento a questa omissione di cautele e comunque la soluzione non muterebbe atteso che, trattandosi di reato la cui consumazione è terminata nel 1980, dovrebbe ritenersi decorso il termine di prescrizione anche nel caso in cui fosse ipotizzata l’ipotesi aggravata. Queste conclusioni rendono superfluo l’esame delle controdeduzioni contenute nella memoria depositata nell’interesse dei dirigenti EniChem (Pisani, Smai, Palmieri, Parillo, Burrai, Presotto, Porta, Necci e Zerbo) i quali — con le argomentazioni già in precedenza riassunte — hanno chiesto che il ricorso del procuratore generale venga dichiarato inammissibile o, in subordine, rigettato richiamando argomentazioni in parte coincidenti con quelle qui espresse ed in parte altre argomentazioni il cui rilievo viene meno a seguito della decisione di rigetto del secondo ricorso del p.g. d) Il ricorso di Presotto Cirillo. Alcuni dei motivi contenuti in questo ricorso vengono esaminati in questa parte della motivazione perché il primo motivo del ricorso proposto da Presotto Cirillo riguarda la possibilità di configurare nei suoi confronti l’ipotesi di reato prevista dall’art. 437 c.p. per la quale in relazione all’omessa installazione degli impianti di aspirazione, dal 1974 al 1980 la Corte d’appello di Venezia ha dichiarato non doversi procedere (anche) nei suoi confronti per essere il reato estinto per prescrizione. Presotto deduce infatti l’inosservanza della legge penale, nonché mancanza e manifesta illogicità della motivazione, in relazione all’esistenza dell’obbligo d’installazione degli impianti di aspirazione nel corso degli anni settanta. La censura riguarda in particolare l’esistenza di una posizione di garanzia in capo al ricorrente che non è mai stato dipendente del gruppo Montedison che ha gestito gli impianti fino al 1° giugno 1987. Il ricorrente, dipendente del gruppo EniChem, solo da questa data avrebbe potuto assumere la posizione di garanzia ma l’addebito riguarda il periodo fino al 1980. La mancata installazione delle cappe di aspirazione non poteva quindi essergli addebitata. Questa successione nella titolarità degli impianti risulta dalla stessa sentenza impugnata ne può avere rilievo la circostanza che Presotto fosse responsabile della produzione della divisione chimica di base della società Anic dal gennaio 1979 al dicembre 1980 perché l’Anic acquisirà gli impianti di Porto Marghera solo tre anni dopo. Con i motivi nuovi, presentati ai sensi della l. n. 46, si sottolinea che questa successione nella titolarità degli impianti risulta dalla stessa sentenza impugnata e dagli atti che vengono specificamente indicati nei motivi aggiunti e allegati alle note di udienza depositate davanti alla corte d’appello il 28 ottobre 2004 dai quali risulta che EniChem ha assunto la gestione degli impianti solo dal 1° giugno 1987. Il ricorso, sotto il profilo dell’esistenza di una posizione di garanzia di Presotto, è fondato. Risulta dalla sentenza d’appello (all. A riguardante le qualità degli imputati) che Presotto è stato dirigente del gruppo Eni e responsabile di produzione della divisione chimica di base della soc. Anic dal gennaio 1979 al dicembre 1980; direttore della medesima divisione dal gennaio 1981 al febbraio 1985; amministratore delegato delle società EniChem Polimeri e EniChem Base dal marzo 1986 all’ottobre 1987 (oltre altre qualità svolte successivamente che non interessano). Risulta inoltre dalla medesima sentenza, che richiama quella di primo grado, che la soc. EniChem è subentrata nel 1987 alla soc. Montedison nella gestione degli impianti di lavorazione del cvm. Poiché non risulta da alcuna parte delle sentenze di merito, che in precedenza Presotto abbia lavorato alle dipendenze di Montedison né che le società Eni ed Anic, presso le quali ha svolto funzioni dirigenziali o ricoperto cariche sociali, abbiano gestito prima del 1980 gli impianti in questione, evidente appare l’estraneità del ricorrente alla condotta contestatagli che si riferisce al periodo 1974-1980. Con la conseguenza che, in riforma della sentenza impugnata, deve pronunziarsi nei suoi confronti, da parte di questa corte, sentenza di assoluzione per non aver commesso il fatto. (Omissis) d) Esame dei motivi di ricorso. Premessa. Alcune delle censure formulate nei motivi di ricorso in precedenza riassunti appaiono fondate anche se non conducono ad una soluzione diversa rispetto a quella adottata nella sentenza impugnata. Va però premesso che questa corte si trova ad esaminare censure rivolte ad una decisione su reati per i quali non è ben chiara la formulazione anche per la commistione tra le due ipotesi di disastro innominato che risultano formulate nei due capi d’imputazione. L’imputazione formulata nel giudizio di primo grado era chiara: si ravvisavano due ipotesi di disastro, quello c.d. «interno» allo stabilimento del petrolchimico con riferimento alla situazione ambientale creatasi all’interno della struttura che aveva provocato i decessi e le lesioni alle quali si è più volte fatto riferimento. E un disastro «esterno» riferito alla situazione d’inquinamento ambientale dei siti su cui insiste il petrolchimico, di quelli prossimi nonché delle falde acquifere, delle acque lagunari e dell’atmosfera. Altrettanto chiara la soluzione adottata sul punto dal Tribunale di Venezia che ha ravvisato l’esistenza degli elementi oggettivi di questo reato — per quanto riguarda il disastro «interno» — per il periodo fino al 1973 escludendo però l’elemento soggettivo e quindi assolvendo gli imputati con la formula «perché il fatto non costituisce reato». Per gli imputati si è quindi creata, per quanto attiene agli aspetti penali, la preclusione (se non si vuol parlare di giudicato interno) non avendo i medesimi appellato la sentenza su questo punto della decisione (esistenza dell’elemento oggettivo del reato di disastro colposo innominato interno — o del fatto tipico se si accede alla concezione tripartita — per il periodo fino a tutto il 1973). Meno chiara è la situazione dopo la sentenza d’appello. I giudici della corte veneziana precisano infatti che, a seguito della modifica dell’imputazione operata dal pubblico ministero nel giudizio di primo grado, sarebbe stato configurato, nelle ipotesi di accusa anche con riferimento all’appello del p.m., un unico disastro rilevante sia ai fini dell’ipotesi prevista dal 2° comma dell’art. 437 c.p. sia con riferimento ad un’ipotesi unica di disastro interno ed esterno. In realtà la lettura dei capi d’imputazione contenuti nella sentenza di secondo grado (che la corte, accogliendo il rilievo del p.m. appellante, precisa essere quelli risultanti dalle modificazioni e integrazioni operate nel giudizio di primo grado al cui esito la sentenza emessa riportava invece quelli originari) non giustifica questa interpretazione perché se è vero che nel primo capo d’imputazione (che riguarda i fatti interni allo stabilimento) sono state inserite contestazioni che riguardano anche il disastro esterno, è altrettanto vero che non risulta formulata un’imputazione comune per un unico disastro. Con la conseguente correttezza della soluzione adottata dalla corte di merito che ha continuato a ritenere distinte le imputazioni anche dopo la loro riformulazione. E l’ulteriore conseguenza che i riferimenti al disastro esterno, contenuti nella prima imputazione, vanno esaminati nella parte che riguarda i motivi attinenti al secondo capo d’imputazione. e) Esame dei motivi di ricorso. Reato di danno o di pericolo. Il «macroevento». La più parte delle censure formulate dalle parti civili ricorrenti (non vi sono censure sul disastro nei ricorsi del procuratore generale) riguardano la natura del reato di disastro colposo innominato che tutti i ricorrenti vorrebbero inquadrare tra i reati di pericolo. Queste censure sono peraltro infondate. È sufficiente leggere l’art. 449 c.p. (la cui rubrica è significativamente formulata come «delitti colposi di danno») — laddove così descrive la condotta tipica: «chiunque ... cagiona per colpa un incendio, o un altro disastro preveduto ...» — per rendersi conto che, perché possa ritenersi integrata questa fattispecie di reato, occorre che il disastro si verifichi. Condivisibile appare dunque il percorso argomentativo seguìto dalla corte di merito in particolare nella parte in cui sottolinea la differenza con l’ipotesi dolosa nella quale, per il disposto del 1° comma dell’art. 434, la soglia per integrare il reato è anticipata al momento in cui sorge il pericolo per la pubblica incolumità (salvo che possa ritenersi integrata la fattispecie prevista dal 2° comma quando il disastro in concreto si verifichi). Meno convincente appare invece l’affermazione della corte di merito secondo cui, per potersi configurare l’ipotesi del disastro innominato, previsto dall’art. 434 c.p., sia necessario il verificarsi di un «macroevento» se con questa definizione s’intende fare riferimento ad eventi analoghi a quelli che la sentenza impugnata richiama come esempi significativi del macroevento («sia un incendio che devasta quanto incontra, sia il naufragio di una nave, la caduta di un aeromobile, il deragliamento di un treno, il crollo di un edificio, o quant’altro abbia appunto queste caratteristiche che i casi tipici individuati dal legislatore fanno cogliere»). Orbene se si richiede che il disastro «innominato» previsto dall’art. 434 c.p. abbia le caratteristiche oggettive tipiche dei fatti disastrosi addotti come esempio dalla corte di merito l’affermazione non può essere condivisa. Quegli eventi sono infatti caratterizzati da un fatto tipico che si esaurisce, di per sé stesso (non gli effetti che possono perdurare per lungo tempo), in un arco di tempo assai ristretto e con il verificarsi di un evento di grande evidenza immediata (il crollo, il naufragio, il deragliamento, ecc.). Ma il disastro può anche non avere queste caratteristiche di immediatezza perché può realizzarsi in un arco di tempo anche molto prolungato, senza che si verifichi un evento disastroso immediatamente percepibile e purché si verifichi quella compromissione delle caratteristiche di sicurezza, di tutela della salute e di altri valori della persona e della collettività che consentono di affermare l’esistenza di una lesione della pubblica incolumità. Questa situazione può anche essere qualificata «macroevento» purché si precisi che la compromissione di cui trattasi (riguardi la situazione ambientale o un luogo diverso quale l’ambiente di lavoro o altra situazione tipica prevista dalla legge) può avere caratteristiche di durata che non richiedono il verificarsi di un evento eccezionale dotato di caratteristiche d’immediatezza. Del resto non tutte le ipotesi di disastro previste dal capo I del titolo VI c.p. (delitti contro l’incolumità pubblica) hanno le caratteristiche cui la corte di merito sembra fare riferimento (per es. la frana — art. 426 — può consistere in spostamenti impercettibili che durano anni; l’inondazione può consistere in un lentissimo estendersi delle acque in territori emersi). Questa, peraltro, è anche la condivisibile interpretazione che il tribunale ha dato del disastro innominato quando ha assolto per mancanza dell’elemento soggettivo gli imputati di questo reato ravvisando quindi l’esistenza degli elementi oggettivi del reato con particolare riferimento alla ravvisata tipicità del fatto accertato ed in particolare dell’evento verificatosi (così si esprime la sentenza di primo grado: «nel caso che ci occupa il rischio costituito dall’esposizione a cvm ha causato gli otto angiosarcomi contestati ... in tal modo dimostrando di avere idoneità lesiva dell’integrità fisica e di avere efficienza diffusiva nell’ambito della comunità dei lavoratori esposti alle alte dosi di tale sostanza e addetti alle mansioni più a rischio ... Con la conseguenza che tale reato è causalmente riferibile a quegli imputati che ricoprivano nell’epoca in considerazione (1969- 1973) posizioni di garanzia ...»). f) Conclusioni sul disastro fino al 1973. Così delineato l’ambito delle statuizioni di merito sul disastro innominato interno le conclusioni da trarre sono le seguenti. Per il periodo fino a tutto il 1973 la situazione accertata dal primo giudizio era corrispondente alla tipicità oggettiva del delitto di disastro dal quale gli imputati sono stati assolti per mancanza dell’elemento soggettivo. Pur in mancanza d’appello degli imputati la corte di merito sembra aver rimesso in discussione, anche ai fini penali, l’esistenza degli elementi oggettivi del disastro perché, se l’interpretazione che se ne è data è corretta, ha ritenuto necessaria l’esistenza del «macroevento» anche per il periodo anteriore al 1974. Accertamento che non doveva, e neppure poteva, compiere perché per gli imputati si era formata una preclusione conseguente al non aver appellato la sentenza; le parti civili, ovviamente, non avevano alcun interesse a porre in discussione un elemento a loro favorevole. In mancanza di appello degli imputati la corte avrebbe dovuto limitare il suo esame, ai soli fini civili, alle censure proposte con gli appelli delle parti civili limitatamente all’esistenza dell’elemento soggettivo. La sentenza impugnata infatti alcun accenno fa all’esistenza della colpa nel periodo anteriore al 1974 limitandosi invece ad esaminare le censure che si riferiscono alla natura del reato (di danno o di pericolo) e alla necessità di accertare l’esistenza del macroevento. Ma questi problemi erano da ritenere superati dalla decisione (non appellata dagli imputati) dei primi giudici che, dopo aver riconosciuto gli elementi obiettivi del reato, avevano invece posto in discussione esclusivamente l’esistenza dell’elemento soggettivo. Il giudice d’appello avrebbe quindi dovuto limitare il suo esame all’esistenza della colpa — essendone stato investito dalle impugnazioni del pubblico ministero e delle parti civili — con l’ovvia conseguenza della necessità di verificare se dovessero coerentemente essere estese al reato in esame le considerazioni sulla colpa espresse nell’esame dell’elemento soggettivo per i reati di omicidio e lesioni colposi. Ma l’esame dei motivi di ricorso delle parti civili non consente di affermare che il punto della sentenza impugnata (pur mancante) riferibile all’esistenza dell’elemento soggettivo abbia formato oggetto di ricorso in Cassazione essendosi, le parti civili, limitate a dolersi dei soli punti della sentenza riguardanti la natura di reato di pericolo o di danno del disastro colposo e il tema della necessità del «macroevento». È vero che in alcuni ricorsi si fa cenno all’elemento della colpa (nel secondo motivo del ricorso Legambiente; nel quinto motivo Camera del lavoro e Filcea; nel quinto motivo Ust Cisl; nel quarto motivo dei ricorsi Ros Graziella e Checchin Luca e altri; nel quarto motivo Canazza Iole e altri; nel terzo motivo Lino Giuliana e altri; nel quarto motivo Teresa Barbiero e altri; nel quarto motivo regione Veneto e comune di Venezia; nel sesto motivo della provincia di Venezia). Ma in nessuno di questi motivi si censura la sentenza impugnata per vizi di violazione di legge, o attinenti alla motivazione, riguardanti l’esistenza dell’elemento soggettivo riferito alle condotte tenute fino al 1973. Le censure sono tutte specificamente rivolte ai punti che la corte d’appello non avrebbe più potuto esaminare, in mancanza d’appello degli imputati (tutti gli aspetti che si riferiscono all’elemento oggettivo o alla tipicità), e non riguardano specificamente il vizio ancora deducibile riferito alla colpevolezza sul quale la corte non si è pronunziata (ovvero, se si dovesse ritenere l’esistenza di una pronunzia implicita, l’avrebbe fatto condividendo la pronunzia di primo grado). Dal che consegue che la statuizione sull’esistenza del disastro innominato interno formulata dai primi giudici — assoluzione con la formula «perché il fatto non costituisce reato» — deve ritenersi definitiva: quanto all’elemento oggettivo perché l’accertamento positivo della sua esistenza non ha formato oggetto d’appello da parte degli imputati (gli unici ad averne interesse); quanto all’elemento soggettivo perché le parti civili non hanno investito, con i loro ricorsi, la mancanza di motivazione su tale elemento o l’implicita condivisione della statuizione dei primi giudici. g) Conclusioni sul disastro «interno» per il periodo successivo al 1973. Analoghe sono le conclusioni della corte di merito per quanto riguarda il periodo dal 1974 in avanti. La corte fonda il suo convincimento sull’esclusione dell’ipotesi di reato in esame sull’inesistenza del «macroevento» (e in questo caso poteva farlo perché i primi giudici avevano proprio escluso il fatto tipico) ma richiama altresì la sentenza di primo grado che aveva escluso che potessero configurarsi, da un punto di vista oggettivo, gli estremi del disastro innominato colposo per l’opera avviata dalla dirigenza Montedison che, nell’arco di alcuni anni, portò ad una drastica limitazione delle esposizioni a cvm nei confronti dei lavoratori addetti agli impianti. Se dunque, per quanto riguarda questo periodo, possono confermarsi i dubbi in precedenza formulati sulla necessità dell’esistenza del «macroevento» le ulteriori considerazioni della corte di merito che richiama, condividendole, quelle dei primi giudici consentono di ritenere infondate le censure rivolte contro la decisione impugnata. L’accertamento in fatto e la valutazione di merito dei giudici d’appello sull’inesistenza del disastro per il periodo dal 1974 in avanti sono infatti sostenuti da congrua e logica motivazione idonea a dimostrare l’inesistenza del fatto tipico contestato. D’altro canto la sola circostanza che non si siano verificati decessi ricollegabili all’esposizione a cvm per gli assunti dopo questa data è sicuro indice della correttezza della soluzione adottata dai giudici di merito. (Omissis)