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Il Mulino - Rivisteweb

Salvatore Veca
Sull’idea di giustizia procedurale
(doi: 10.1413/10789)

Rivista di filosofia (ISSN 0035-6239)


Fascicolo 2, agosto 2001

Ente di afferenza:
Università degli Studi di Camerino (Unicam)

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SALVATORE VECA

Sull’idea di giustizia procedurale

1. Interpretazioni della giustizia procedurale

Cominciamo considerando alcune proposizioni ele-


mentari a proposito dell’idea di giustizia procedurale
nella filosofia politica contemporanea. Di solito si sostie-
ne che l’idea di giustizia procedurale è prevalentemente
connessa alla definizione di una procedura che sia in
grado di trasferire la propria equità agli esiti della sua
applicazione. Sostenere ciò equivale a sostenere che gli
esiti sono equi se e solo se la procedura è equa. Il mo-
dello è quello della scommessa equa. In genere, questa
idea è presentata come base di una concezione mera-
mente procedurale della giustizia.
John Rawls parla in proposito di una giustizia procedu-
rale pura e contrappone questa prospettiva a quelle della
giustizia procedurale perfetta e imperfetta. Può essere utile
presentare sommariamente le ragioni di questa contrapposi-
zione. Ma può essere interessante anche chiedersi se la tesi
stessa di Rawls a proposito della concezione della giustizia
come equità soddisfi nel suo complesso l’idea di giustizia
procedurale pura. Mi propongo di mostrare, nella prima
parte di questo articolo, che le cose non stanno così.
In particolare, cercherò di mostrare in che senso pre-
ciso l’applicazione della procedura nel contesto più am-
pio della giustizia come equità presupponga, perché vi
siano esiti riconoscibili come giusti, un’interpretazione
sostanziale del senso di giustizia o una sua ricostruzione
razionale. Qualcosa a proposito del nostro senso di giu-
stizia deve essere presupposto perché la procedura di
RIVISTA DI FILOSOFIA / vol. XCII, n. 2, agosto 2001
220 Salvatore Veca

selezione degli esiti giusti, nella forma di una procedura


di deliberazione o di scelta collettiva, possa mettersi in
moto rintracciando alla fine i principi di giustizia.
Quanto voglio sostenere è che la tesi sulla giustizia
come equità di Rawls esemplifica un caso in cui si dà
priorità alla psyche sulla polis, alle credenze individuali
sulle pratiche sociali. Alternativamente, nella seconda
parte dell’articolo, prospetterò le linee di un argomento,
nella buona sostanza dovuto a Stuart Hampshire, in cui
si propone una inversione della priorità e l’idea di giu-
stizia procedurale è connessa direttamente non ai giudizi
intuitivi o alle credenze che esprimono il nostro senso
individuale di giustizia (psyche) quanto piuttosto alle isti-
tuzioni e alle pratiche sociali cui è affidato il compito
del deliberare e del giudicare equamente nella polis.
Concludo chiarendo quale interpretazione dell’idea di
giustizia procedurale sia quella più plausibile e coerente:
sostengo che l’idea di giustizia procedurale è meglio
specificata da una connessione intrinseca con la natura
sociale delle istituzioni e delle pratiche che applicano
procedure miranti all’arbitrato, al giudizio e alla delibe-
razione nelle circostanze del conflitto fra pretese e che
da questa tesi possono discendere interessanti implica-
zioni. Accennerò, alla fine, solo a una di queste implica-
zioni riferendomi alla vexata quaestio della tensione ri-
corrente fra impegni universalistici e vincoli particolari-
stici nell’ambito delle teorie della giustizia.

2. Giustizia procedurale: perfetta, imperfetta, pura

In A Theory of Justice Rawls introduce l’idea di giu-


stizia procedurale pura con uno scopo preciso: per illu-
strare la seconda parte del principio di differenza, quel-
la dedicata alla equa eguaglianza di opportunità1. Il pro-

1 Cfr. J. Rawls, A Theory of Justice, Cambridge (Mass.), Harvard Uni-


versity Press, 1971, trad. it. di U. Santini col titolo Una teoria della giusti-
zia, a cura di S. Maffettone, Milano, Feltrinelli, 1982, pp. 84-89.
Sull’idea di giustizia procedurale 221

blema specifico è, in questo contesto, quello delle quote


distributive o, nei termini della teoria economica, della
suddivisione equa dell’accesso a risorse o a beni sociali
primari. L’oggetto della giustizia è quindi, a sua volta,
quello delle istituzioni di base della società: dobbiamo
assumere che, in questa prospettiva, il primo problema
di distribuzione sia quello dell’assegnazione dei diritti e
doveri fondamentali, della regolamentazione delle ine-
guaglianze economiche e sociali e delle aspettative legit-
time basate su di esse. L’idea intuitiva è allora che noi
dovremmo progettare il sistema sociale in modo che
l’esito del suo funzionamento sia giusto, quale che sia.
Più in generale, questa convinzione è sottesa all’idea
della scelta collettiva o del contratto ideale, grazie a cui
una società giusta dovrebbe approssimarsi – per quanto
è possibile – a uno schema di cooperazione volontario.
Tenendo conto di questa connessione fra il problema
specifico della distribuzione equa e il problema più am-
pio e generale della scelta collettiva dei principi di giu-
stizia, estenderò le mie considerazioni dall’uno all’altro
per chiarire il ruolo, la portata e i limiti dell’idea di giu-
stizia procedurale pura nella interpretazione favorita da
Rawls.
Cominciamo considerando il contrasto fra la giustizia
procedurale pura e la giustizia procedurale perfetta e
imperfetta. Diciamo che, nel primo caso, noi non dispo-
niamo di un criterio indipendente ex ante per giudicare
l’equità di un esito. L’equità di un esito, quale che sia,
dipenderà solo dall’applicazione appropriata e completa
della procedura; punto e basta. Per questo parliamo di
giustizia meramente procedurale. Nel caso della giustizia
procedurale perfetta noi disponiamo invece di un crite-
rio indipendente ex ante che ci è dato dalla teoria e
sappiamo che l’applicazione di una certa procedura ci
porterà necessariamente all’esito riconoscibile come giu-
sto alla luce del criterio (si pensi all’esempio della divi-
sione della torta in parti eguali, ottenuta facendo sì che
chi taglia la torta prenda per ultimo la fetta). Il punto
essenziale qui è i) che esiste un criterio indipendente
222 Salvatore Veca

(egualitarismo con le fette di torta) per decidere quale


esito sia quello giusto e ii) che noi disponiamo di una
procedura sicura che permette di conseguire quell’esito
(far tagliare a chi prende per ultimo). La differenza con
il terzo caso, quello della giustizia procedurale imperfet-
ta, consiste nell’assenza della seconda condizione.
Nel terzo caso noi disponiamo di nuovo di un crite-
rio indipendente ex ante ma non di una procedura che
ci consenta necessariamente di pervenire all’esito giusto:
l’esempio è ora quello del processo penale. Il suo esito
giusto è che l’accusato sia riconosciuto colpevole se e
solo ha commesso il crimine di cui è accusato. Sappia-
mo che la procedura processuale è strutturata in modo
tale da ricercare e stabilire la verità in proposito. Tutta-
via può darsi il caso che anche la più scrupolosa appli-
cazione della procedura non conduca al risultato giusto:
può darsi il caso che l’innocente sia giudicato colpevole
o che il colpevole non sia riconosciuto tale. Possiamo
dire che il tratto caratteristico della giustizia procedurale
imperfetta è che «nonostante un criterio indipendente
per ottenere un risultato corretto, manca una procedura
praticabile che ci conduca ad esso con certezza»2.
Si osservi che nei casi della procedura perfetta e im-
perfetta la procedura stessa coincide con una delle tec-
nologie o dei mezzi a disposizione per pervenire a
quanto è indipendentemente definito o riconosciuto
come giusto. Nel caso della procedura pura, è invece
solo dalla sua applicazione corretta che dipende la cor-
rettezza dell’esito, dato che non abbiamo criteri indipen-
denti per il giudizio. Come ho detto, l’idea è qui che la
procedura pura e semplice trasferisca, attraverso la sua
applicazione compiuta, la propria equità all’esito. Rawls
esemplifica la giustizia procedurale pura con il caso del-
la scommessa equa. Se la procedura di scommessa è
equa e se essa è pienamente accessibile a condizioni
eque, allora diremo che le circostanze di sfondo deter-

2 J. Rawls, A Theory of Justice, cit., trad. it. cit., p. 86.


Sull’idea di giustizia procedurale 223

minano una procedura equa. E «qualunque distribuzio-


ne di denaro pari alla somma iniziale posseduta da tutti
gli individui può essere il risultato di una serie di scom-
messe eque»3.
Fin qui abbiamo illustrato il contrasto fra procedura
pura, perfetta e imperfetta nel quadro della giustizia delle
quote distributive. Si può osservare che questo contrasto
mette a fuoco una differenza di concettualizzazione delle
questioni di giustizia fra il contrattualismo e l’utilitarismo,
nel senso della differenza fra la versione propriamente al-
locativa di tali questioni che è pertinente per l’utilitarismo
e quella propriamente distributiva che è pertinente per il
contrattualismo. Ma non è di questa importante e spesso
trascurata implicazione dell’idea di giustizia procedurale
pura che voglio ora occuparmi: ne ho discusso altrove e
la riprenderò in un cenno solo più avanti. Quanto mi in-
teressa è piuttosto estendere l’idea di giustizia procedura-
le al nucleo della teoria della scelta e all’interpretazione
favorita da Rawls per esaminarne alcuni limiti.

3. Un’interpretazione sostanziale della giustizia

L’estensione dell’idea di giustizia procedurale al nucleo


della teoria della scelta dei principi di giustizia si può
presentare così: è noto che una delle idee centrali di
Rawls, nella costruzione della teoria della giustizia come
equità, consiste nel portare a un più alto livello di gene-
ralizzazione e astrazione la tradizione delle teorie del con-
tratto sociale. Ora, questa idea centrale si specifica nel
modo seguente: dobbiamo mostrare che i principi di giu-
stizia sono quelli che sarebbero esito di scelta collettiva in
una opportuna situazione iniziale di scelta. Quest’ultima
viene interpretata da Rawls come posizione originaria. Si
osservi che il punto importante consiste nel fatto che l’in-
terpretazione della situazione iniziale di scelta è in qual-

3 Ibidem.
224 Salvatore Veca

che senso responsabile dell’esito della scelta. Basta una


pura e semplice applicazione della teoria della scelta.
Viene da pensare che la geometria morale di A The-
ory of Justice abbia i suoi assiomi definiti nell’interpreta-
zione della situazione di scelta e che i principi di giusti-
zia coincidano con i teoremi o, in modo più esigente,
con i lemmi inferiti dagli assiomi. In questo senso preci-
so è possibile estendere l’idea della giustizia procedurale
pura al nucleo della teoria della giustizia come equità:
nel senso che, una volta dati gli assiomi che specificano
l’interpretazione della situazione di scelta come posizio-
ne originaria, allora l’esito, la selezione dei due principi
di giustizia, è semplicemente inferito dagli assiomi, in
virtù di regole di inferenza che dipendono a loro volta
da una teoria standard della razionalità. Tutto qui; nulla
di più, nulla di meno.
A questo livello, che potremmo definire meta-teorico,
non ci occupiamo della controversia intorno alla partico-
lare teoria della scelta razionale adottata da Rawls; la
lunga querelle in proposito non sembra aver dato risul-
tati particolarmente interessanti. Ci chiediamo piuttosto:
perché dovremmo accettare gli assiomi che specificano
l’interpretazione della situazione iniziale di scelta come
posizione originaria? O, in altri termini, perché dovrem-
mo preferire l’interpretazione favorita da Rawls ad altre
disponibili? Per quali buone ragioni?
A me sembra che, restando entro il quadro della teo-
ria, la risposta sia semplice: perché gli assiomi della po-
sizione originaria sono i più coerenti con i nostri giudizi
intuitivi di giustizia. Essi specificano infatti alcune carat-
teristiche che noi associamo intuitivamente a una proce-
dura di deliberazione e di selezione di principi di giusti-
zia (si osservi che qualcosa del genere vale nel caso del
teorema di Arrow, quando sono specificati i postulati
per la razionalità della scelta democratica4). Più precisa-

4 Cfr. K. Arrow, Social Choice and Individual Values, New York,


Wiley, 1951, trad. it. di G. Graziola col titolo Scelta sociale e valori indivi-
duali, Milano, Etas Libri, 1977, p. 4.
Sull’idea di giustizia procedurale 225

mente, gli assiomi della posizione originaria esprimono il


succo dei nostri giudizi intuitivi più deboli e condivisi a
proposito dell’equità di una procedura che deve perve-
nire a esiti equi (i principi di giustizia) e questi ultimi
esemplificano, in una ricostruzione razionale, il nostro
senso di giustizia. Su questo sfondo vale la discussa ana-
logia fra la costruzione di una teoria della giustizia per
persone che abbiano senso di giustizia e la costruzione
di una grammatica generativa per parlanti una certa lin-
gua che devono poter essere in grado di riconoscere la
grammaticalità degli enunciati generati dalla teoria, così
come le persone che hanno senso di giustizia devono
poter essere in grado di riconoscere la giustezza dei
principi di giustizia generati dalla teoria.
È facile vedere che ciò che deve essere presupposto
perché possa mettersi in moto la procedura di delibera-
zione è una particolare interpretazione sostanziale del
senso di giustizia delle persone. È infatti quest’ultima a
rendere conto delle caratteristiche della situazione inizia-
le di scelta e a rendere così sufficientemente determina-
to il problema della selezione dei principi di giustizia. Si
potrebbe dire, paradossalmente, che la teoria sembra ba-
sarsi su un’idea di giustizia procedurale perfetta piuttosto
che pura: il criterio indipendente ex ante è dato non dal-
la teoria, ma alla teoria da un’interpretazione del senso di
giustizia. Possiamo allora dire che la procedura di scelta è
propriamente il mezzo con cui si perviene a esiti la cui
giustezza dipende alla fin fine dalla congruenza con il
senso di giustizia («alla fin fine» è un’espressione che si
riferisce implicitamente, e forse troppo ellitticamente, al
metodo dell’equilibrio riflessivo).

4. Il senso di giustizia

Dovremo chiederci a questo punto quale sia la natura


del senso di giustizia e in quale senso sia possibile affi-
dare al senso di giustizia delle persone un compito così
oneroso nella costruzione di una teoria della giustizia
226 Salvatore Veca

che avanza la pretesa di avere carattere meramente pro-


cedurale. La questione è molto complicata; dal punto di
vista della filosofia morale, l’intera faccenda chiama in
causa il ruolo o lo spazio che si ritiene debbano avere,
nella costruzione di una teoria politica normativa, le no-
stre intuizioni morali, se esse devono avere un qualche
ruolo e un qualche spazio.
Vorrei limitarmi a mettere in luce solo un aspetto del-
la questione complicata: esso consiste nella priorità rico-
nosciuta da Rawls al senso di giustizia, interpretato in
senso individuale e, per dir così, intra-personale. Sullo
sfondo della venerabile tensione, analogia o isomorfismo
fra l’anima e la città, Rawls dà la priorità alla psyche.
La prospettiva da assumere previamente sul mondo
politico e sociale, sulle sue istituzioni di sfondo e sulle
sue pratiche è quella della persona morale (nel senso po-
litico del cittadino o della cittadina che fa parte, come
partner di pari dignità, della polis), capace di senso di
giustizia. Chiamiamola la prospettiva del singolo giudican-
te le cose politiche. È dopo tutto l’interpretazione che il
teorico della giustizia offre del senso di giustizia del sin-
golo giudicante le cose politiche, che specifica quali carat-
teristiche siano appropriate per definire una appropriata
situazione iniziale di scelta in cui abbia luogo la procedu-
ra di selezione e deliberazione quanto ai principi di giu-
stizia. Rawls asserisce che, nella giustizia come equità, il
problema che è chiaramente decisivo per qualsiasi teoria
normativa, quello della giustificazione, si riformula nei ter-
mini di un genuino problema di deliberazione.
Si consideri ora una serie di conseguenze interessanti
che derivano da questa linea di interpretazione. Se le
cose stanno così, non è più chiaro in qual senso la teoria
della giustizia come equità riesca a superare una delle
maggiori difficoltà imputate da Rawls all’utilitarismo,
quella che consiste nel non prendere sul serio la separa-
zione e la distinzione fra le persone5. Dovremo piuttosto

5 Cfr. Rawls, A Theory of Justice, cit., trad. it. cit., p. 40.


Sull’idea di giustizia procedurale 227

osservare che anche la giustizia come equità finisce per


mettere a fuoco un caso di scelta individuale, pretenden-
do che esso abbia valore di scelta collettiva. E questo è
vero sia nella definizione ex ante della situazione iniziale
di scelta sia nell’applicazione della procedura deliberativa
entro la posizione originaria (la simmetria informativa,
vincolata dal celebre velo di ignoranza, genera i requisiti
per una scelta individuale e manca l’obiettivo della scelta
collettiva, salvo nel caso in cui si ritenga che l’individuo
in posizione originaria sia un singolo individuo rappresen-
tativo di qualsiasi altro individuo: voglio dire che il deci-
sore rawlsiano è un decisore individuale; e questo, natu-
ralmente, non è di per sé incoerente, ma non è più chia-
ro in che senso sia coerente con l’impegno a prendere sul
serio la separazione fra le persone).
Viene a cadere in questo modo una delle maggiori
pretese della teoria di Rawls nei confronti dell’utilitari-
smo: l’essere la teoria contrattualistica rispondente al
fatto della pluralità di persone distinte piuttosto che alla
posizione dell’osservatore imparziale, propria di una
qualche versione dell’utilitarismo vecchio e nuovo. Non
sta evidentemente qui la differenza con l’utilitarismo. Al
massimo, potremmo accettare che l’osservatore rawlsiano
sia impersonale nella valutazione degli stati del mondo,
piuttosto che imparziale. Ma quello che manca è, per
dir così, il ponte fra il punto di vista individuale e il
punto di vista collettivo e dobbiamo riconoscere che,
come nel caso criticato dell’utilitarismo, ha luogo
un’estensione impropria della teoria della scelta raziona-
le dal caso individuale a quello collettivo.
Resta naturalmente una differenza significativa: quella,
cui ho prima accennato, fra la concettualizzazione delle
questioni di giustizia in termini di giustizia distributiva
rispetto alla loro concettualizzazione in termini di giusti-
zia allocativa. E questa differenza, possiamo concedere a
Rawls, è certamente connessa a modi alternativi di guar-
dare alla società e alla natura delle circostanze di giusti-
zia. Ma la differenza non dipende dal fatto che il con-
trattualismo prende sul serio la natura collettiva del pro-
228 Salvatore Veca

blema della deliberazione e rifiuta l’estensione dal caso


individuale al caso collettivo. La differenza sembra piut-
tosto dipendere da quanto è incorporato nel senso di
giustizia, da un nucleo di valori politici sostanziali che,
in virtù dell’interpretazione offerta dal teorico della giu-
stizia, funziona da criterio indipendente ex ante, decisivo
per l’applicazione della procedura di selezione dei prin-
cipi. In questo senso, possiamo concludere, sembra pro-
prio che giustizia come equità esemplifichi un caso di
procedura perfetta.
Se vogliamo dare un senso plausibile all’idea di giu-
stizia procedurale pura, dobbiamo quindi procedere in
altro modo. E il modo che ora suggerisco è quello, fa-
vorito da Hampshire, di invertire la priorità fra psyche e
polis. Muoviamo allora dai contesti interpersonali e pub-
blici delle istituzioni e delle pratiche sociali di arbitrato
e giudizio equo, abbandonando la strada del senso indi-
viduale, delle credenze e dei giudizi intuitivi di giustizia.
Il nostro percorso muove dalle pratiche interpersonali,
non dalle credenze individuali.

5. Giustizia procedurale minima

Invertire la priorità fra anima e città vuol dire accettare


il fatto che il vocabolario per descrivere le attività indivi-
duali della deliberazione e del giudizio deve essere mu-
tuato dal vocabolario che descrive le transazioni e le prati-
che pubbliche e osservabili nelle forme di vita collettiva6.
Per rendere conto di cose come il senso di giustizia del
singolo giudicante, sia esso l’osservatore teorico della
giustizia o il partecipante, siamo così indotti a gettar
luce sulla natura di pratiche sociali. Si tratta di una fa-
miglia eterogenea e complicata di pratiche di negoziato,

6 Cfr. S. Hampshire, Innocence and Experience, London, Duckworth,


1989, trad. it. di G. Giorgini col titolo Innocenza ed esperienza, Milano,
Feltrinelli, 1995, p. 59; cfr. anche Hampshire, Justice is Conflict, London,
Duckworth, 1999, pp. 15-51.
Sull’idea di giustizia procedurale 229

arbitrato, deliberazione e giudizio le quali hanno caratte-


re storico, locale e contingente ma svolgono lo stesso
ruolo costante, esemplificato dall’idea di giustizia proce-
durale minima o di base.
Osserviamo che a questo punto la base comune che
rende possibile pratiche come quelle del negoziato e
della trattativa, della deliberazione e del giudizio è costi-
tuita non più da un insieme di credenze morali e di giu-
dizi intuitivi di giustizia ma da un insieme di pratiche
condivise. Questo può rendere conto anche del fatto de-
rivato, e non primitivo, del persistente successo in filo-
sofia morale del modello della deliberazione, da Aristo-
tele a Rawls. Il successo dipende dal fatto che lo sfon-
do, e in certo senso il presupposto, per la costruzione
di concezioni sostanziali di giustizia che esemplificano il
nostro contingente e mutevole senso di giustizia, coinci-
de propriamente con l’insieme costante delle variegate
pratiche sociali della deliberazione.
Sono queste ultime a modellare la nostra idea dei pro-
cessi intra-personali di deliberazione. Così, abbandonando
la tesi sulla priorità della psyche, abbiamo a che fare con
processi propriamente inter-personali e immergiamo i no-
stri modelli nella dimensione collettiva, prendendo sul se-
rio la separazione fra le persone. Riconosciamo che è l’ar-
te sociale del linguaggio pubblico, nel senso di Ludwig
Wittgenstein, Willard V.O. Quine e Donald Davidson, a
dover essere riconosciuta prioritaria per rendere conto
della natura dei discorsi sulla giustizia.
Si osservi inoltre che la giustizia procedurale minima
è certamente la prima virtù delle istituzioni e delle pra-
tiche sociali, ma lo è in senso negativo. Essa vale per
ciò che evita. Procedure eque di trattativa, deliberazione
e giudizio regolano il conflitto fra pretese, interessi e
ideali e, evitando la trappola hobbesiana del bellum om-
nium, consentono il confronto equo fra concezioni so-
stanziali di giustizia, centrato sulla varietà dei beni uma-
ni espressi dalla varietà dei modelli di vita buona.
Possiamo allora riformulare la celebre distinzione di
Rawls fra concetto e concezioni di giustizia: diremo che
230 Salvatore Veca

la giustizia procedurale minima esemplifica il concetto


di giustizia, costante nello spazio e nel tempo e inva-
riante rispetto alle variazioni dei contesti storici e con-
tingenti. Come osserva Hampshire: «Esiste un concetto
fondamentale di giustizia che ha sua connotazione co-
stante e un nucleo di significato dalle epoche più remo-
te fino ai giorni nostri; esso rimanda sempre a una pro-
cedura regolare e ragionevole di valutazione di tesi e an-
titesi, come avviene in un arbitrato o in un tribunale.
Questa procedura ha lo scopo di evitare il conflitto di-
struttivo. Tale procedura giusta e razionale può essere
utilizzata per l’arbitrare sia fra interessi in competizione
sia fra argomenti morali in competizione»7.
Nella varietà delle sue applicazioni nello spazio e nel
tempo, la procedura equa esemplifica quindi il concetto
di giustizia. L’idea di giustizia procedurale minima fun-
ziona al tempo stesso come uno schema o come una
struttura filtro per il confronto nel tempo di prospettive
sostanziali alternative sulla giustizia, connesse a una va-
rietà divergente e confliggente di concezioni. La condi-
zione minimale della giustizia procedurale è appunto
una sorta di struttura filtro per il conflitto fra le inter-
pretazioni di giustizia, generate da differenti ordinamenti
fra i valori che abitano contingentemente lo spazio di
ciò che per noi eticamente vale. Così, possiamo conclu-
dere, il concetto meramente procedurale di giustizia,
una sorta di costante nelle questioni umane, interagisce
con particolari e mutevoli concezioni sostanziali di giu-
stizia nel tempo.
Naturalmente ci si potrebbe chiedere quale idea di
equità sia quella che, in una varietà di contesti e di tra-
dizioni differenti, guida e modella le pratiche della giu-
stizia procedurale minima. La risposta mette a fuoco il
ruolo dell’antico adagio legale, caro a Herbert Hart,
audi alteram partem. Il metodo del confronto per con-
traddittorio deve includere ciascun partecipante che

7 S. Hampshire, Innocence and Experience, cit., trad. it. cit., p. 70.


Sull’idea di giustizia procedurale 231

avanzi pretese e lo deve includere in un qualche modo:


le ragioni soggiacenti alle pretese di ciascun partecipante
devono essere vagliate in un qualche modo e devono
così contribuire al giudizio e alla deliberazione. L’equità
o la iniquità della deliberazione e del giudizio non sono
riconoscibili grazie a qualche criterio indipendente, in-
corporato in una concezione sostanziale di giustizia: esse
sono piuttosto il contrassegno della inclusione o della
esclusione arbitraria delle ragioni di qualcuno dal pro-
cesso di scrutinio che conduce, nell’applicazione della
procedura, alla deliberazione. Questo è l’unico assioma
da cui possiamo inferire il teorema elementare della giu-
stizia procedurale minima.
Si osservi che l’assioma non dipende, ancora una vol-
ta, da credenze o da interpretazioni del senso di giusti-
zia; dipende dal nostro modo di riconoscere e identifi-
care stabilmente nel tempo alcune istituzioni e pratiche
sociali cui associamo il requisito della equità. Ma si os-
servi anche che è piuttosto il conflitto fra le pretese che
genera la domanda di arbitrato e giudizio a dipendere
dal conflitto fra interpretazioni alternative delle credenze
e del senso di giustizia di persone o gruppi di persone,
in una determinata cerchia sociale.
L’idea di giustizia procedurale minima evoca così un
mondo eracliteo di incessante trasformazione in cui
concezioni sostanziali sono destinate a confrontarsi,
confliggere e trasformarsi nel tempo. Perché ciò sia
possibile e il conflitto fra la varietà dei beni non si
converta in conflitto distruttivo, sappiamo che deve na-
turalmente essere tutelato e protetto lo schema o la
struttura filtro della giustizia procedurale minima. E
questo, alla fine, sembra il modo per riconoscere ade-
guatamente il prezioso lavoro di civiltà svolto dalla fra-
gile e precaria esemplificazione dell’idea di giustizia
procedurale pura, connessa intrinsecamente all’unifor-
mità e alla convergenza di pratiche sociali piuttosto
che all’eterogeneità e alla divergenza di credenze e di
giudizi intuitivi di giustizia.
232 Salvatore Veca

6. La giustizia procedurale minima e un’idea di giustizia


globale

L’ultima osservazione a proposito della tensione fra


convergenza e divergenza consente di accennare a una
delle implicazioni interessanti che possiamo derivare dal-
l’idea di giustizia procedurale minima. Mi riferisco al ca-
rattere propriamente universalistico della famiglia di prati-
che e istituzioni che applicano procedure eque di arbitra-
to, negoziato e giudizio, in contrasto con il carattere con-
testualistico e particolaristico delle concezioni sostanziali
di giustizia, inclusa la teoria della giustizia come equità di
Rawls. Lo stesso Rawls, del resto, ha riconosciuto in
modo esplicito, negli sviluppi della sua ricerca dopo A
Theory of Justice, il carattere situato e contestuale della
sua prospettiva normativa. Le lezioni di Political Liberali-
sm confermano che giustizia come equità è una concezio-
ne sostanziale che ordina i valori fondamentali dell’ambi-
to del politico entro il quadro della cultura pubblica di
società a democrazia costituzionale. Il teorico della giusti-
zia si assume quindi esplicitamente la responsabilità di
una particolare interpretazione del senso di giustizia pro-
prio di una particolare famiglia di società, quella che per
convenzione possiamo identificare come la famiglia delle
società liberali fin de siècle. Il teorico della giustizia sem-
bra rinunciare altrettanto esplicitamente al punto di vista
sidgwickiano sub specie aeternitatis.
Si consideri tuttavia il più recente tentativo di Rawls a
proposito del diritto ragionevole dei popoli8. Qui il teori-
co della giustizia si misura e si mette alla prova con quel-
le che probabilmente sono tra le sfide più intense per la
teoria politica normativa: le sfide che derivano dal carat-
tere globale o – per dirla con Habermas – dalla costella-
zione post-nazionale. Le sfide esemplificano quello che ho
più volte chiamato il rompicapo dell’estensione della por-
tata dei criteri di giustizia dal versante interno all’arena

8 Cfr. J. Rawls, The Law of Peoples, Cambridge (Mass.), Harvard Uni-


versity Press, 1999.
Sull’idea di giustizia procedurale 233

internazionale. Non mi propongo naturalmente di discu-


tere e vagliare la proposta di The Law of Peoples. Quan-
to mi interessa sottolineare è il fatto che in ogni caso lo
strumento analitico adottato da Rawls consista in un’ap-
plicazione a due stadi della posizione originaria. È facile
vedere, come è stato osservato fra gli altri da Amartya K.
Sen, che la capacità di estensione universalistica della teo-
ria è bloccata dai vincoli di una concezione sostanziale
che situa i principi di giustizia entro una singola interpre-
tazione particolare del senso di giustizia (Sen contrappone
a questa prospettiva la sua tesi sullo sviluppo come liber-
tà basata sull’approccio delle capacità, un approccio che
è difeso in quanto culturalmente non dipendente e ri-
spondente alla varietà dei contesti).
Una delle implicazioni della tesi che ho sostenuta sul-
la idea di giustizia procedurale minima è piuttosto la se-
guente: in faccende difficili e complicate come quelle
evocate dalle sfide della costellazione post-nazionale, una
buona massima per la condotta intellettuale sembra es-
sere quella di ricorrere allo schema e al filtro di istitu-
zioni e pratiche sociali che, nella loro intrinseca varietà,
arbitrino e pervengano a esiti di trattativa e negoziato, a
deliberazioni eque in virtù dell’applicazione dell’antico
ed esigente adagio: audi alteram partem.
Equità e iniquità non coincideranno allora, come ab-
biamo visto, con canoni o criteri incorporati in una
qualche concezione del bene o in una qualche concezio-
ne sostanziale del giusto e dell’ingiusto, ma dipenderan-
no invece dall’inclusione o esclusione dei partecipanti
nelle procedure della deliberazione. E anche se resta
l’alone della inevitabile consapevolezza della difficoltà
dell’impresa, questa implicazione dell’idea di giustizia
procedurale minima sembra essere interessante perché ci
suggerisce una via più promettente per risolvere il rom-
picapo dell’estensione e per approssimarci, nei modi del
pensare insieme, del criticare e del disegnare istituzioni
e modelli durevoli di convivenza, a un’idea vaga e pre-
ziosa di giustizia globale.
234 Salvatore Veca

Summary. The idea of procedural justice seems to be one of the


most appealing in contemporary political philosophy. This article
examines two possible interpretations of that appealing idea. In the
first part I discuss the Rawlsian account of pure procedural justice
and argue that Rawl’s view is based on substantial assumptions.
These assumptions consist in the sense of justice and in individual
beliefs about justice underlying the theory of justice as fairness.
In the second part I consider an alternative account of procedural
justice, based on social practices and collective processes instead of
individual beliefs, as suggested by Stuart Hampshire. In conclusion
I argue that the interpretation of procedural justice centered on
social practices is the most plausible and philosophically fruitful
one.

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