Sei sulla pagina 1di 3

STORIA CONTEMPORANEA

Corso monografico

ALLEGATO 2: PANTHEON

Nel contesto italiano il linguaggio rivoluzionario ebbe un ruolo primario nella creazione di quello
che Hunt chiama il “presente mitico”. I processi di mitizzazione dei “martiri della rivoluzione” permettono
di far scivolare l’analisi delle culture e dei linguaggi del ’68 sul piano delle ritualità civili.

CAMILO TORRES.
“La rivoluzione non soltanto è consentita, ma è addirittura obbligatoria per i cristiani che vedono in essa
l’unica maniera efficace ed ampia per realizzare l’amore per tutti.”

Dice Camilo Torres, il “prete col mitra” per spiegare la sua decisione di spogliarsi dell’abito talare e
imbracciare il fucile per servire la rivoluzione. Nel suo paese, la Colombia, dominato da un governo
autoritario e abitato da un popolo composto per la maggior parte di contadini si erano sviluppati già da
alcuni anni focolai di guerriglia. Dopo anni trascorsi a incontrare i contadini nelle comunità di villaggio e a
spiegare la necessità di lottare per ottenere una riforma agraria, Torres era entrato in clandestinità e si era
affiliato alle formazioni militari dell’esercito di liberazione nazionale (Eln).

Poi il 15 febbraio 1966, sarà braccato dai reparti speciali antiguerriglia dell’esercito regolare e
ucciso. In Italia la notizia della morte di Camilo Torres non produsse nell’immediato forte reazioni, ma prese
nuovi impulsi l’anno dopo, quando il dibattito sul tema cristiani e rivoluzione si fece più acceso.

Sarà lo stesso Paolo VI nel ’67, infatti, a dire che

“sappiamo che l’insurrezione rivoluzionaria, salvo nel caso di una tirannia evidente e prolungata che attenti
gravemente ai diritti fondamentali della persona e nuoccia in modo pericoloso al bene comune del paese, è
fonte di nuove ingiustizie, introduce nuovi squilibri e provoca nuove rovine.”

Un lungo inciso che sostiene come quando una dittatura evidente e prolungata nega i diritti
fondamentali delle persone la rivoluzione non può essere condannata neanche dalla chiesa.

L’intervento papale, sommato alla continua espansione del modello rivoluzionario anche in altre
parti del mondo, come nell’africa postcoloniale (Mozambico, Angola…) amplifica il dibattito sul ruolo della
chiesa e dei cristiani, e di ogni cristiano, di come agire nei confronti dell’oppressione dei popoli del terzo
mondo e sulla possibilità di conciliazione fra chiesa e rivoluzione.

A questo dibattito partecipano diverse voci, alcune a favore dell’utilizzo della violenza come
soluzione all’oppressione dei popoli, come quella di padre Balducci che afferma come le risposte non
violente si siano dimostrate inefficaci, a causa di un’immaturità di coscienza civile, in modo particolare nel
Terzo mondo. E altre voci, più conservative e benpensanti, contro l’uso della violenza.

Questo dibattito, che si infiammerà sempre di più anche con la morte del Che e l’infuocato clima
politico del ’68, però, non giunge a una posizione unanime, ma piuttosto a un vortice di accuse e
controaccuse all’interno stesso della Democrazia cristiana, che possiamo dire risolversi nel manifesto del
“Maritain” dove si afferma che violenza e non violenza, rivoluzione e non, non sono termini
necessariamente antitetici ma devono essere inseriti nel loro contesto di applicazione e sarà in base alla
situazione del paese che si trova ad affrontare la rivoluzione. Nel terzo mondo sarà, quindi, lecito l’uso della
violenza mentre nei paesi democratici, la rivoluzione deve procedere attraverso la lotta politica.
ERNESTO CHE GUEVARA. Al linguaggio nuovo che si è imposto con e per la contestazione si
affiancano anche le immagini. Le immagini in questo periodo diventano molto più facilmente trasmissibili
nella nascente società dell’immagine (anche grazie al mezzo televisivo), e portano la forza evocativa dei
fatti a un livello più alto, perché trasmettono un senso comune storico, e quindi portando le immagini al
livello di simbolo.

La foto-simbolo per antonomasia di questo periodo è quella del corpo senza vita di Ernesto Che
Guevara. Che Guevara veniva considerato da questa generazione un modello politico e culturale di
riferimento, era uno dei protagonisti della rivoluzione cubana degli anni ’60 e muore nel pieno della
mobilitazione contro la guerra del Vietnam e viene elevato a mito generazionale.

Quegli scatti, quelle fotografie sarebbero state inviate in tutto il mondo a maggior gloria del regime
boliviano e monito terribile per tutti i rivoluzionari e come dichiarazione del tramonto del sogno
rivoluzionario. Ma per i popoli oppressi dell’America latina e di ogni parte del mondo e per tutti i movimenti
di protesta giovanile e studenteschi, che nelle parole e nelle azioni del Che avevano trovato un punto di
riferimento, era venuta l’ora del risveglio.

L’esposizione mediatica del corpo esanime del vinto ebbe un effetto imprevisto. Infatti, la morte di
Che Guevara diede una spinta decisiva alla deriva rivoluzionaria che si agitava da tempo nei complessi e
intricati sentieri in cui si muoveva la contestazione giovanile, portando al centro degli spazi di riflessione di
un settore del movimento il tema della violenza rivoluzionaria. Essa fu qualcosa di più e di più profondo: la
certificazione mediatica della morte del Che attraverso quelle fotografie fornì l’elemento fondante che
ancora mancava alla religione politica del ’68, che per il resto aveva già i suoi riti collettivi, le sue liturgie, i
suoi sacerdoti: fornì il martire, il sangue del giusto. Non che fino a quel momento i morti fossero mancati,
ma il ritratto fotografico del che era sorprendentemente simile all’iconografia classica della deposizione di
Cristo.
A partire da quel momento, infatti, la maggior parte degli articoli e delle riflessioni relativi all’opera
rivoluzionaria di guerra iniziarono ad abbondare di parole che facevano riferimento più o meno
direttamente alla sfera religiosa: trasfigurazione, sudario, resurrezione, apostolo, martire…

La figura di Ernesto Guevara assunse dopo la sua morte una valenza sacrale in tutti i paesi in cui il
movimento di protesta era strutturato. Anche se in Italia, non solo per la accentuata familiarità con la
dimensione religiosa ma anche perché era già stato sperimentato qualcosa di simile con quelli che erano i
giovani martiri della resistenza nazifascista, l’accostamento si fece più evidente. Così l’identificazione tra il
guerrigliero sudamericano e i partigiani di casa nostra fu immediata e spontanea. E altrettanto immediata
fu l’appropriazione della tradizione resistenziale da parte dei giovani rivoluzionari.

Con la morte, Che Guevara, accende a “il pantheon della rivoluzione”, segnando direttamente il
passaggio dalla storia al mito, tanto che fu celebrato con tutte le funzioni del caso, tanto laiche che
religiose. Con la morte del Che si consumò il primo grande strappo tra le forze più estremiste del
movimento e tra le loro rispettive idee di rivoluzione.

I punti più controversi erano sostanzialmente due: da un lato il rapporto tra masse e avanguardie
rivoluzionarie, dall’altro l’adattabilità dello schema di guerriglia attuato in America Latina al contesto
metropolitano dei paesi industrializzati. Dunque, la morte dal Che da una parte contribuì a conferire al ‘68
la dimensione di una vera religione politica, ma dall’altro acuì le lacerazioni già presenti all’interno del
movimento.

In particolare i tardivi e non convinti cambi di rotta del PCI infatti impedì l’intercettazione dei
giovani, e la mancata presa di posizione da parte del partito alla morte del Che segnò il definitivo strappo
fra giovani e partito. Secondo i giovani (Prospero Gallinari) “il PCI vive sul mito della resistenza e delle lotte
passate ma nella sua attività concreta nel lavoro politico quotidiano tende sempre più a governare la
situazione locale attraverso continui compromessi. Io, invece, ho scelto il filo conduttore di parole d’ordine
come quelle di che Guevara “costruire 10, 100, 1000 Vietnam” c’è una contraddizione in termini.
MARTIN LUTHER KING. 6 mesi dopo la morte di che Guevara avrà lo stesso destino anche il profeta
della non violenza, Martin Luther King, freddato da un cecchino a Memphis. Se che Guevara aveva riacceso
in milioni di ragazza la fiamma della rivoluzione e aveva fornito un’occasione inoppugnabile per legittimare
la violenza, King era entrato nel cuore dei giovani dalla parte opposta, parlando di pace e di sogni,
adottando il metodo non violento nella lotta antirazzista per i diritti civili degli afroamericani.

Negli Stati Uniti la figura e l’opera del reverendo King era oggetti di culto e di venerazione da parte
di un largo settore della popolazione afroamericana e di molti studenti delle università. Il giorno del
funerale un fiume ininterrotto di persone attraversò le ampie strade di Atlanta seguendo mestamente il
feretro, mentre in molte altre città americane suscitò un’ondata di proteste che, in alcuni casi, si
trasformarono in vere e proprie rivolte nei ghetti metropolitani.

Anche in Italia la morte del reverendo King suscitò una forte ondata emotiva, amplificata da giornali
e riviste di ogni matrice culturale e ideologica.

Anche per lui non vennero risparmiati appellativi appartenenti a un campo semantico sacrale e
religioso: martire, profeta, apostolo, o addirittura in alcune volantini distribuiti dagli studenti dell’Università
di Urbino, “l’agnello di Pasqua quest’anno si chiama Martin Luther King”

Dunque in linea di massima il processo di costruzione dell’universo simbolico relativo a Martin


Luther King procedette nel nostro paese per strade parallele a quello di Che Guevara. C’è una differenza
però, ovvero che, se nel caso del guerrigliero sudamericano il processo di mitizzazione era tutto interno al
movimento di protesta, nel caso del pastore cristiano tale processo era indotto dall’esterno, da soggetti,
per così dire, istituzionali, appartenenti al mondo degli adulti. Espressioni di cordoglio giunsero dallo stesso
presidente della repubblica, Giuseppe Saragat, il ministro degli esteri, il presidente del consiglio, ma anche
il papa.

Dei due nodi essenziali che la figura di Luther King sinteticamente racchiudeva: la condanna del
razzismo e il rifiuto della violenza, il primo era percepito in Italia come un eco lontano. Viceversa, nei
confronti del secondo, quello della nonviolenza, l’attenzione dei media era assai maturata e cresciuta negli
ultimi tempi in Italia. E il fatto che la notizia della morte di Martin Luther King, fosse giunta in Italia un mese
dopo la battaglia di valle giulia, e quindi di uno degli eventi più volenti legati al ’68, il sangue prezioso di
King assunse una duplice funzione: da un lato l’occasione per celebrare le virtù della nonviolenza, per
magnificare l’animo dell’uomo pacifico che non cede alla tentazione di rispondere con la violenza alla
violenza subita; e dall’altro la dolorosa ma inevitabile constatazione di morte della nonviolenza.,

Questo mutamento di clima preoccupava non poco i soggetti istituzionale e politici, timorosi di una
deriva incontrollata e rovinosa della protesta sul terreno della violenza. La stampa si fece interprete di
questa preoccupazione e utilizzò la tempestiva morte del mite pastore per creare un modello educativo da
contrapporre alla pedagogia della guerriglia. In particolare i giornali che ispiravano alta linea politica delle
due chiese (all’ortodossia cattolica e comunista), che sei mesi prima avevano mostrato un certo imbarazzo
nel commentare a morte del Che, posta di fronte a questo nuovo assassinio non avevano remore di alcun
tipo a glorificare il caduto.

Il tema della non violenza sembrava diventare un terreno condiviso dall’una e dall’altra parte.
Anche sul fronte cattolico il processo di glorificazione di Luther King procedette con grande rapidità:
soprattutto, la sua scomparsa diede l’opportunità di contrapporre finalmente un buon esempio a quello
pericoloso e fuorviante di Camilo Torres. E se la morte del prete col mitra era stata ignorata dai giornali e
dalle riviste cattoliche, a quella del mite pastore venne dato moltissimo spazio e grande risonanza
mediatica.

Ma i ragazzi erano molto distanti dalle elaborazioni teoriche degli adulti. In effetti, tutti gli sforzi
compiuti dalle istituzioni politiche o religiose, e dalla loro stampa per creare un modello pedagogico
positivo, i giovani lo scavalcano a piè pari, trasformando l’assassinio, di King in una nuova occasione di
protesta, contro l’imperialismo americano e le la violenza insita nella sua politica.

Potrebbero piacerti anche