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i Robinson / Letture

Paolo Naso

Martin Luther King


Una storia americana

Editori Laterza
© 2021, Gius. Laterza & Figli

Edizione digitale: gennaio 2021


www.laterza.it

Proprietà letteraria riservata


Gius. Laterza & Figli Spa, Bari-Roma

Realizzato da Graphiservice s.r.l. - Bari (Italy)


per conto della
Gius. Laterza & Figli Spa
ISBN 9788858144176
È vietata la riproduzione, anche parziale, con qualsiasi mezzo effettuata
Indice

Sigle frequenti
Introduzione
I.
Iniziando dalla fine
Che cosa ha ucciso King?
Un omicidio “politico”
II.
Nel solco di una lunga storia
Le negro churches
Il Social Gospel
Le associazioni storiche
We shall overcome
La formazione
III.
Montgomery, la scuola di un leader
Rosa Parks, una militante
Leader per caso
L’opzione strategica della nonviolenza
Una strana compagnia e la nascita della SCLC
L’incontro con James Lawson
IV.
Un tempo per seminare,
un tempo per raccogliere
Movimentismo e separatismo
MLK e JFK
I freedom riders
In ritardo sul movimento
Da Albany a Birmingham
Sulla linea del fuoco
In cella a Birmingham
Uno scontro interno
Kennedy sul Rubicone

V.
Salite e discese
Dallas
Martin & Malcolm, avversari o fratelli separati?
Una foto
Selma
Watts
Chicago
Nuovi attori, nuove critiche
VI.
L’epilogo.
Come Mosè sul monte Nebo
Frogmore, l’accelerazione della svolta
Martin “Loser” King, il Perdente
«È una croce pesante»
Relazioni pericolose
Dal sogno all’incubo americano
Chiudendo il cerchio
Ringraziamenti
Cronologia
ad Angela e Daniele
Sigle frequenti

BSCP: Brotherhood of Sleeping Car Porters


CORE: Congress for Racial Equality
MIA. Montgomery Improvement Association
NAACP: National Association for the Advancement of Colored People
NUL: National Urban League
SCLC: Southern Christian Leadership Conference
SNCC: Student Nonviolent Coordinating Committee
TPMLK: The Papers of Martin Luther King, Jr.
Introduzione

Martin Luther King fu ucciso a Memphis (Tennessee) il 4 aprile del 1968


alle 18.01, colpito al viso da un proiettile che lo raggiunse mentre, dal
secondo piano del Lorraine Motel, salutava amici e sostenitori. «Dottor
King, fa freschetto. Si metta un soprabito», furono le ultime parole del suo
autista di quella sera, Solomon Jones. Poi, lo sparo di un cecchino che
aveva affittato una stanza nel palazzo di fronte.
A causa del fuso orario, la notizia arrivò agli italiani soltanto il giorno
dopo con i giornali radio del mattino e con il telegiornale delle 13.30,
attraverso la voce professionale e compunta di Piero Angela1. Il 9 aprile, la
RAI dedicò una lunga trasmissione ai solenni funerali svoltisi ad Atlanta.
La scena trasmessa dagli schermi in bianco e nero era quella di una folla
variegata che comprendeva sia gli uomini di potere che King aveva
criticato, sia i netturbini di Memphis i cui diritti aveva difeso nell’ultima
battaglia della sua vita; ed ancora pacifisti e militaristi, grandi capitalisti e
poveri minatori, reazionari e progressisti, amici sinceri ed avversari. Tutti
riuniti nella memoria del reverendo King, l’uomo che con il suo impegno
aveva cercato di «redimere l’America»2. In mezzo alla folla si confondeva il
gotha politico-istituzionale degli USA: dal vicepresidente democratico
Hubert Humphrey al futuro presidente repubblicano Richard Nixon, oltre
ai senatori Eugene McCarthy e a Ted e Robert Kennedy, quest’ultimo
vittima già designata di un attentato che lo avrebbe ucciso due mesi dopo
soltanto; e ancora i governatori degli Stati di New York e del Michigan,
Nelson Rockefeller e George Romney. La presenza eccezionalmente
simbolica di Jacqueline Kennedy apriva un’interminabile schiera di
personalità della società civile, delle comunità di fede e della cultura
americana di quegli anni. E poi c’erano i compagni della prima
mobilitazione di Montgomery come Rosa Parks – la donna di colore che
diede idealmente avvio a un grande movimento di massa per la
desegregazione e i diritti civili – e i collaboratori degli anni successivi: tra
gli altri, Ralph David Abernathy, Andrew Young, Hosea Williams, Jesse
Jackson. Ma anche critici come Stokely Carmichael, divenuto ormai uno
dei leader del Black Panther Party e fautore di un nazionalismo nero che
ben poco aveva a che fare con il sogno dell’integrazione tra bianchi e
afroamericani tante volte espresso da King. E ancora, artisti “impegnati”
come Ella Fitzgerald, Sammy Davis, Louis Armstrong, Rod Steiger,
Sidney Poitier, Harry Belafonte, Marlon Brando, Bill Cosby, Paul
Newman. Centomila persone raccolte in un corteo che non parlava la
stessa lingua e non condivideva la stessa idea né di King né del suo
testamento politico.
King non fu ucciso quando era all’apice della popolarità – e cioè dopo il
conseguimento del Premio Nobel per la pace nel 1964, alla vigilia del
Voting Rights Act che finalmente concesse il diritto di voto a tutti gli
afroamericani – ma in un momento difficile e controverso nel quale gli
piovevano addosso critiche da destra e da sinistra e nel quale si era ormai
rotto l’incantesimo che cinque anni prima, nel grande raduno di
Washington, aveva affascinato l’America.
Subito dopo la sua morte ha iniziato a svilupparsi un’ampia storiografia
celebrativa di King. A partire dal carisma del martire, si è costruita una
memoria riconciliante che imbalsamando il personaggio King, leader di un
movimento per il cambiamento dei rapporti di forza economici e sociali
all’interno della società americana di quegli anni, lo ha collocato nella
galleria degli American Heroes. In queste pagine cercheremo, invece, di
recuperare il senso e i contenuti del conflitto che attraversò l’America in
quegli anni che Bruno Cartosio ben definisce «inquieti»3. Assai
diversamente da quanto racconta il funerale “ecumenico” del 9 aprile, in
quel grande mosaico politico e morale che erano gli USA del 1968 la
tessera di King non si compose facilmente con le altre: sia con quelle
dell’apparato istituzionale con cui, soprattutto a partire dal tema della
guerra in Vietnam, si erano aperte fratture insanabili; sia con quelle delle
formazioni più radicali, che – per quanto l’ultimo King si fosse spinto a
comprenderle e forse a provare a contenerle – avevano un impianto teorico
e una strategia operativa incompatibili con quell’ethos nonviolento e
orientato a costruire una beloved community di bianchi e di neri che lo
caratterizzò fino al suo ultimo giorno di vita.
King morì nei mesi in cui egli stesso ripensava criticamente al “sogno
americano” al quale aveva dato una memorabile forma retorica nel celebre
discorso al Lincoln Memorial di Washington del 28 agosto 1963 e
prendeva tristemente coscienza che ciò che tanti ragazzi afroamericani che
combattevano a migliaia di miglia da casa stavano vivendo era in realtà un
incubo. Come quello in cui piombavano quando tornavano a casa, non più
segregati ma ancora discriminati da un sistema economico in espansione i
cui profitti erano destinati ai bianchi e, comunque, alle classi sociali più
abbienti. Era l’incubo di chi viveva nei ghetti metropolitani e, statistiche
alla mano, era predestinato alla marginalità sociale o al carcere. Il più
grande paradosso è che, celebrato come il retore dell’American dream di una
società integrata e riconciliata, King è morto come testimone dell’incubo
di una società stretta nelle maglie del militarismo, del razzismo e della
povertà. Come ha osservato l’americanista Filippo Falcone, «King è colui
che, meglio di chiunque altro, riesce a identificare la radice del male e
l’essenza del bene, a convogliare forze e tenere insieme movimenti
eterogenei e difformi, dando loro una prospettiva; ma anche il leader che
l’anima moderata d’America non ha il coraggio di seguire fino in fondo in
un sogno che, in definitiva, esige una decostruzione radicale del sistema
americano. È in questo scarto che il sogno si trasforma in incubo»4.
In realtà King demolì il “sogno americano” inteso come illusione
rassicurante di un benessere che si espandeva all’infinito per pochi ma a
scapito della povertà di molti. Sin dal 1961, quando il diritto di voto per gli
afroamericani era ancora lontano, egli riconduceva il sogno all’ispirazione
originale della società americana cementata attorno ai principi della vita,
della libertà e del perseguimento della felicità: «Questo è il sogno –
affermò. – Una delle prime cose che notiamo in questo sogno è uno
straordinario universalismo. Non dice: alcuni esseri umani ma dice “tutti
gli esseri umani”, compresi i neri... Il sogno americano non diverrà realtà
se sarà privo del sogno più ampio di un mondo di fraternità, di pace e di
buona volontà. Il mondo in cui viviamo è un mondo geograficamente
uno; oggi siamo sfidati a renderlo spiritualmente uno... Se vogliamo
realizzare il sogno americano, dobbiamo coltivare questa prospettiva
mondiale»5.
Figlio di un pastore protestante, da anni sentivo parlare con partecipe
ammirazione di King e la notizia dell’omicidio esplose in casa come una
bomba, lasciando interdetto mio padre che, commosso e sconfortato,
affermò: «Ora è tutto finito». Ancora oggi non saprei dire quanta ragione
avesse. Anni di letture, studi, visite nei luoghi di King e del suo
movimento, interviste a testimoni e protagonisti di quella stagione – Jim
Lawson, Joseph Lowery, C.T. Vivian, Jessie Jackson, alcuni pastori e
testimoni dell’omicidio di Memphis6 – non hanno mai risolto quel dubbio,
che costituisce la “premessa interiore” di questo lavoro.
L’intento che speriamo giustifichi la pubblicazione di un’altra biografia su
uno dei personaggi più noti, studiati e celebrati del XX secolo, è
contribuire a restituirgli una complessità e una radicalità vanificate da
quella che, invece, ci appare una beatificazione “moderata”. Ci riferiamo a
un’ampia produzione di film, documentari, fumetti, saggi che di King
accreditano un’immagine addomesticata quanto innocua dal punto di vista
politico. Le commemorazioni in occasione dei cinquant’anni dalla morte,
peraltro prive di significative novità sul piano degli studi e persino
dell’accesso alle fonti7, hanno dato forza a questo rischio perché ormai da
anni, tra la dedica di un’imponente statua marmorea a Washington e
l’intestazione di strade, piazze e biblioteche in tutto il mondo, la complessa
e contestata azione di King negli anni compresi tra il 1956 e il 1968 sembra
ridursi a una limpida testimonianza cristiana, a un sincero impegno
nonviolento, a una convinta strategia integrazionista contrapposta al
radicalismo del Black Power, con il corollario rassicurante dello happy end
della desegregazione razziale, del diritto di voto agli afroamericani e, per
arrivare a giorni a noi più vicini, persino all’elezione di un presidente
afroamericano. In questa linea interpretativa King entra a pieno diritto
nell’olimpo degli American Heroes – alcune biografie, pur ben documentate,
utilizzano il termine nel sottotitolo8 – che con la loro testimonianza e il
loro coraggio hanno interpretato al meglio gli ideali americani della libertà,
della giustizia e della sicurezza individuale e collettiva. Come ormai
attestano vari studi9, però, King fu molto di più. O forse fu “altro”.
Intendiamo dire che inizia finalmente a maturare una ricerca su King che,
proprio perché rifugge dalle letture più semplificate e convenzionali,
riconosce un’evoluzione che ha contemplato anche svolte e persino
qualche autocritica nel suo percorso di idee e di azione. Se è facile
documentare che egli non ha mai rinunciato alla pregiudiziale nonviolenta,
ad esempio, è però dimostrabile che negli ultimi anni ha concesso delle
giustificazioni all’esplosione rabbiosa e violenta dei ghetti neri, con
motivazioni e ragionamenti del tutto assenti negli anni in cui la sua azione
si era concentrata nel Sud.
Ciò che ancora oggi affascina del personaggio, in sintesi, è la sua
complessità e la radicalità della sua etica politica. Radicalità non significa
estremismo né rigidità intellettuale, ma coscienza di una radice forte – nel
caso di King la fede cristiana vissuta nell’autocoscienza della condizione
degli afroamericani – che almeno nei primi anni del civil rights movement
trascinò milioni di americani neri e bianchi in un’azione diretta per
testimoniare i valori della speranza, della giustizia e della convivenza
multietnica. È questo un passaggio chiave per superare quella
interpretazione ideologicamente polarizzata, tipica di un tempo ormai
superato, in cui si opponeva il presunto “moderatismo” di King allo spirito
“rivoluzionario” che animò Malcolm X ed altri che gli successero nell’ala
estrema e separatista del movimento nero. Questa schematizzazione
manichea non regge di fronte a una seria analisi storica. La “radicalità” di
King, infatti, non va cercata nel posizionamento “a sinistra” o
nell’accettazione dei metodi violenti: è questo l’errore marchiano di certa
cultura europea che ha preteso interpretare l’America con le categorie
proprie ed esclusive del Vecchio Continente. Prescindendo dal fatto che,
come vedremo, nei suoi ultimi anni King ragionerà anche di socialismo e
della crisi del capitalismo e cercherà persino una spiegazione della violenza
di alcuni settori del movimento, non è questo che lo radicalizza ma la
coscienza dell’ineluttabilità di un cambiamento nelle relazioni di potere tra
le “razze” e le classi sociali, rispetto al quale egli riteneva che un credente
non potesse essere solo spettatore.
Nel rigore e nella passione di King per la causa della giustizia, ritroviamo i
toni dell’imperativo etico dell’apostolo Paolo quando affermava «necessità
me n’è imposta; e guai a me, se non evangelizzo» (Cor. 9:16). Prendiamo
ad esempio l’incipit del discorso del 1967 sulla guerra in Vietnam: «Ci
sono dei momenti in cui il silenzio è tradimento. È il nostro caso, oggi, per
quanto riguarda il Vietnam». «Il nostro caso», vale a dire che egli se ne
sentiva parte e complice al punto da ammettere, nello stesso discorso, che
solo negli ultimi anni aveva «cessato di tradire con il [suo] silenzio»10.
Se la “radicalità” di King prima che politica fu spirituale e teologica,
possiamo collocarlo a pieno diritto nel solco della tradizione puritana che,
soprattutto nella sua versione americana, reinterpretava il “sacro
esperimento” che nasceva nel Nuovo mondo come una chiamata da Dio,
come la vocazione a liberarsi dalle catene del Faraone per affrontare un
lungo cammino in un deserto che conduce a una terra promessa ricca,
fertile e sicura. In questa epica dell’Esodo sulla quale King sembra
modellare la sua predicazione e la sua testimonianza pubblica, il credente
era chiamato ad un faticoso cammino dall’oscurità e dalla disperazione del
deserto – wilderness – verso una Città celeste che è davanti a lui. Così
compie la sua errand, quell’incessante itinerario di denuncia, lotta e
redenzione che ritroviamo nelle parole di tanti spiritual afroamericani e dei
canti della tradizione Gospel11.
In questa prospettiva, non è il radicalismo politico a muovere l’azione
nonviolenta di King ma l’intensità della vocazione alla giustizia che è così
forte e stringente da giustificare la disobbedienza civile: «Una legge ingiusta
è una legge umana non radicata nella legge eterna e naturale... Ogni legge
che degrada la persona umana è ingiusta. Tutti gli ordinamenti sulla
segregazione sono ingiusti perché la segregazione distorce l’anima e
danneggia la personalità... Io posso invitare gli uomini a disubbidire alle
leggi della segregazione perché sono moralmente ingiuste»12.
Alla vigilia della morte, pur sentendo che il processo che aveva messo in
moto andava oltre le sue capacità e la sua forza, King si sentiva afferrato da
una missione che non avrebbe mai concluso. Le parole pronunciate alla
vigilia della sua morte, il 3 aprile 1968, dicono di un leader provato ma
non rassegnato e comunque animato da una oscura profezia che gli faceva
vedere, al tempo stesso, i risultati ma anche i rischi della sua missione:
«Anche a me come a chiunque altro, piacerebbe vivere una lunga vita. La
longevità ha il suo valore. Ma adesso non è questo che mi preoccupa.
Voglio solo fare la volontà di Dio»13.
La distanza ormai cospicua dei cinquant’anni dalla morte non ha
significativamente modificato l’interpretazione semplificata e
addomesticata, consolidata da un’ampia produzione bibliografica alla quale
nel cinquantenario della morte non sembra essersi aggiunto nessun titolo
di particolare rilievo; né – ed è ciò che più complica il lavoro di
ricostruzione storica – è arrivato l’auspicato completamento della
pubblicazione dei King Papers14, fermi al VII volume (uscito nel 2014) che
copre gli anni 1961 e 1962. I materiali sui quali lavorare restano così quelli
da tempo a disposizione: i discorsi e sermoni raccolti primariamente nei
volumi curati da James Washington; il rigoroso lavoro di scavo sui
documenti disponibili, compresi i fascicoli dell’FBI, raccolti nei ponderosi
lavori di David Garrow e Adam Fairclough sulla Southern Christian
Leadership Conference (SCLC), di cui King fu presidente sino alla
morte15, e di Taylor Branch sull’America negli anni di King16, ben integrati
dalla ricca raccolta di testi di Houck e Dixon17; la mole sterminata, benché
non sempre qualificata o disinteressata, di autobiografie di altre personalità
del civil rights movement18. La produzione in italiano risente della
frammentazione dei diritti sugli scritti di King, per cui non esiste un’opera
organica che raccolga almeno gli scritti più importanti. Oltre
all’autobiografia non esente da qualche faziosità di Ralph Abernathy19,
disponiamo di vari volumi di taglio apologetico e divulgativo e di poche
opere di approfondimento scientifico20.
Il processo di iconizzazione – perfezionato dal presidente Ronald
Reagan, che nel 1983 istituì il King’s Day, dedicato alla memoria di un
personaggio con il quale aveva assai poco in comune – ha una storia lunga,
iniziata il giorno stesso dell’omicidio, quando si levava una protesta di
massa contro la guerra in Vietnam e più acutamente si evidenziava lo
scontro tra due anime dell’America: quella interventista e militarizzata che
provava a giustificare le stragi di civili e l’uso di armamenti non
convenzionali ricorrendo agli argomenti propri della Guerra fredda da una
parte, e dall’altra quella pacifista e integrazionista che ricordava a se stessa e
al mondo che, prima di denunciare la pagliuzza nell’occhio del suo
nemico, doveva – secondo l’immagine evangelica – riconoscere la trave nel
proprio. Per usare un’espressione di Jim Wallis, l’America era marchiata da
un «peccato originale» dal quale non si era mai liberata, il razzismo21.
Ancora nel 1968, mentre in Europa si prendeva coscienza della
inconsistenza scientifica del termine “razza”22 e il termine veniva
progressivamente bandito nel linguaggio istituzionale e dei media, negli
USA la parola ricorreva costantemente nel dibattito politico23.
Tornando a King e all’interpretazione del ruolo che ebbe nell’America
degli anni ’50 e ’60, dovremo anche fare riferimento alle trame oscure già
intraviste dietro la morte di John F. Kennedy nel 1963 – e poi di nuovo,
dopo l’attentato a King, intorno a quella del fratello Robert – che
mostravano il volto di un paese inquieto, nervoso e impaurito. In quel
tempo l’America aveva bisogno di un personaggio come King. Vivo o
morto. Aveva bisogno della sua autorità morale, della sua capacità di
contenere le spinte più radicali dei “separatisti neri”, della sua prosa
immaginifica e rassicurante sul fatto che – prima o poi – le ragioni della
pace e della giustizia avrebbero vinto su quelle dell’odio razziale e del
militarismo. King serviva da vivo ma, paradossalmente, servì – anche
meglio – da morto. L’iperbole retorica che accompagnò le esequie e
orientò una densa produzione di biografie apologetiche, infatti, coprì i
contenuti più radicali sui quali egli si era speso negli ultimi mesi della sua
vita – la denuncia della guerra in Vietnam, la lotta contro la povertà
persistente nel paese più ricco del mondo –, costruendo un “mito
popolare” condiviso anche dalla popolazione afroamericana senza che però
questo incidesse sulla dinamica “razziale”.
Un altro tema sul quale ci soffermeremo è quello del rapporto di King
con il movimento che ne fece il suo leader. Per quanto proveremo a
documentare che King fu il prodotto e non l’artefice del movimento in un
eccezionale momentum della storia americana, resta però il fatto che come
nessun altro egli seppe incidere sul suo tempo e sull’establishment politico
di allora. Intendiamo cioè sottolineare che non fu tanto una star solitaria
che si impadronì della scena pubblica, quanto un direttore d’orchestra che
seppe dare forma e metodo politico a un movimento diviso sugli obiettivi e
la strategia da perseguire. Nel linguaggio biblico, più Mosè che guida
Israele nell’Esodo – peraltro senza mai raggiungere la Terra Promessa – che
il Messia che riscatta il suo popolo.
Il problema della collocazione di King in un quadro assai più ampio di lui
e della sua strategia non è di poco conto. Da una parte, infatti, rischiamo di
personalizzare un movimento la cui forza fu, invece, nella coralità e nella
pluralità delle identità; dall’altra, minimizzando il ruolo del leader,
perdiamo di vista l’indiscusso valore aggiunto – come vedremo,
riconosciuto anche dai suoi critici – della sua personalità e della sua
strategia. Per risolvere questa contraddizione, proveremo a collocare King
in un “sistema concentrico” che vede al centro egli stesso; quindi intorno a
lui i collaboratori più fidati, che in massima parte coincisero con gli uomini
e le donne della SCLC; poi la rete di associazioni, laiche e cristiane, che
aderì alle campagne nonviolente di King quale, ad esempio, il Congress for
Racial Equality (CORE) o, almeno in una prima fase, lo Student
Nonviolent Coordinating Commitee (SNCC); e ancora, la massa delle
chiese e delle associazioni sia bianche che nere che parteciparono ad alcune
fasi della lotta per i diritti civili; infine, nell’area più esterna, le componenti
più diverse, anche molto critiche nei confronti di King, di quel
tumultuoso movimento di protesta che nei primi anni ’60 scosse l’intera
società americana. Cercheremo insomma di mettere in luce quella
dinamica fruttuosa per cui King seppe farsi forza del movimento, ma il
movimento trovò in lui un riferimento ideale e politico di eccezionale
rilevanza.
Vedremo anche come negli anni tra il 1955 ed il 1968 King non si mosse
sempre lungo un percorso lineare e anzi, spesso incompreso anche dai suoi
collaboratori più stretti, impose delle “svolte”. La più evidente e
controversa fu esplicitata nel 1967, quando scese decisamente in campo per
denunciare la guerra in Vietnam. Non crediamo che sottolineare questi
riposizionamenti ideologici e tattici indebolisca la figura di King o lo
esponga a critiche di incoerenza, avventurismo o opportunismo. Al
contrario, siamo convinti che proprio la capacità di imporre a se stesso e di
suggerire al movement svolte importanti attesti la complessità del
personaggio King e il suo sforzo teso a modificare i piani d’azione in
relazione a nuovi stimoli e all’aggiornamento dell’analisi del contesto e del
momento politico nel quale operava.
Tra il boicottaggio di Montgomery iniziato nel 1955 e l’attentato mortale
del 1968 passarono solo 13 anni: un periodo “lungo”, scandito da
cambiamenti economici, sociali e culturali estremamente rapidi e rilevanti;
ma breve allo stesso tempo, almeno in relazione alla storia
dell’emancipazione afroamericana. Furono 13 anni straordinari di cui,
negli USA come in Europa, resta la memoria collettiva di cambiamenti
epocali. Iniziato con le melodie romantiche e patriottiche di Frank Sinatra,
quel periodo si concluse con i canti pacifisti di Joan Baez e Bob Dylan; in
quell’arco di tempo la democrazia americana passò dall’opacità della
segregazione e del maccartismo alle fibrillazioni sociali prodotte da nuovi
soggetti che, almeno temporaneamente, occuparono il centro della scena
pubblica: il civil rights movement ma anche le associazioni pacifiste; le black
churches così come le denominazioni protestanti liberal; le associazioni
studentesche che, contestando la struttura del potere americano,
mettevano in discussione anche il loro ruolo sociale; gli intellettuali di una
nuova generazione che non aveva paura di rilevare e denunciare la crisi
ormai irreversibile dell’American dream.
King attraversò questo periodo soprattutto con la coscienza dell’uomo di
fede convinto di camminare in un deserto che conduce alla terra promessa.
Mai dubitò dell’esito finale di un processo immaginato non solo come un
percorso di liberazione per gli afroamericani, ma anche come occasione per
l’America di ritrovare la sua anima perduta, quello spirito e quella visione
che avevano ispirato le tanto nobili quanto tradite promesse contenute
nella Dichiarazione d’indipendenza: «Noi riteniamo che sono per se stesse
evidenti queste verità: che tutti gli uomini sono creati eguali; che essi sono
dal Creatore dotati di certi inalienabili diritti, che tra questi diritti sono la
Vita, la Libertà, e il perseguimento della Felicità».
Ad oltre cinquant’anni dalla morte, è assolutamente evidente che il
progetto che King aveva per l’America non si è realizzato e che il paese
non è mai stato quella “città sulla collina”24 che con le sue virtù civili e
morali risplende orientando i viandanti. Iscrivendosi a pieno titolo nella
tradizione puritana, infatti, anch’egli vedeva nella storia americana qualcosa
di più di una costruzione politica: un “sacro esperimento” ispirato da Dio
per il bene dell’umanità.
King non fu quello che la tradizione popolare definisce “un santo”: aveva
delle debolezze, ebbe delle relazioni extraconiugali, nel suo rapporto con le
donne non si sottrasse al maschilismo dominante anche nella comunità
cristiana afroamericana; talora si comportò da individualista e attraversò
momenti di confusione e incertezza. D’altra parte, varie fonti citano le sue
chiamate alla cantante gospel Mahalia Jackson, alla quale King confessava,
anche in piena notte, di avere avuto una giornata molto dura. A quel punto
lei con grande garbo gli cantava alcuni dei suoi inni favoriti con una
intensità che arrivava a commuoverlo. «Mahalia – King l’avrebbe salutata
con queste parole – mi hai restituito la voce del Signore»25: un’immagine
che suggerisce fragilità e tenerezza che convive con quella di un leader che
non si risparmiava comportamenti e considerazioni tipicamente maschili se
non maschilisti. Ella Baker, una delle prime donne ad assumere cariche di
rilievo nella SCLC, gli attribuì l’«ego del predicatore», la peculiare
attitudine di chi è più abituato a parlare che ad ascoltare26. Eppure tutto
questo, per quanto amplificato da campagne ricorrenti con le quali l’FBI
cercò di demolire la portata della sua azione e del suo ministero, non
intacca la portata del suo servizio alla causa dei diritti degli afroamericani,
della giustizia sociale e della pace. Simul iustus ac peccator, diceva Lutero, e
tale fu anche quel pastore battista che per una strana coincidenza ne prese il
nome. Se, tra le altre cose, il puritanesimo ci consegna il senso drammatico
della condizione umana e ci indica un cammino di redenzione che passa
attraverso la fatica della traversata di un deserto, King fu un perfetto
interprete di questa tradizione che fu al centro della sua predicazione e
della sua stessa vita.
Preso atto che Washington non è e mai sarà la Gerusalemme celeste
descritta nelle profezie escatologiche, resta la domanda sulla consistenza e
sul valore dell’eredità che di questo personaggio è arrivata sino a noi.
Osservando gli USA di oggi, verrebbe da dire che quell’eredità si è dispersa
ed esaurita in una Realpolitik del primato americano tanto esibita quanto
idealmente povera. Una politica che, più che sogni e visioni, oggi alimenta
frustrazioni e rancore sociale. Ma crediamo sia una conclusione affrettata.
King non ci lascia una città ideale, un’utopia perfetta e conclusa nella sua
progettazione civile e politica come quella immaginata da Thomas More.
Come ha detto uno dei suoi studiosi più importanti, James M.
Washington, ci consegna piuttosto un «testamento di speranza», un bene
che è immateriale e per questo assai distante dalla logica del mercato e della
politica. In questo lavoro intendiamo sostenere che proprio questo
“testamento” può offrire argomenti e visioni utili a rigenerare una politica
spesso ridotta a mera negoziazione e gestione del potere.
1 https://www.raicultura.it/webdoc/1968/index.html#NienteComePrima
(consultato il 20 maggio 2020). Nel lungo servizio intervengono anche Furio
Colombo – che aveva intervistato King in un programma mandato in onda l’8
dicembre del 1967– e Ruggero Orlando.
2 Fu questo lo slogan attorno al quale, nel 1957, King coagulò il primo nucleo
della Southern Christian Leadership Conference (SCLC), l’organizzazione che
promosse e sostenne tutte le campagne che lo videro protagonista; Adam
Fairclough, To Redeem the Soul of America. The SCLC and Martin Luther King, Jr.,
The University of Georgia Press, Athens 1987.
3 Bruno Cartosio, Anni inquieti. Società media ideologie negli Stati Uniti da Truman a
Kennedy, Editori Riuniti, Roma 1992.
4 Comunicazione all’autore.
5 Cit. in Paolo Naso, Il sogno americano, in Id. (a cura di), L’“altro” Martin Luther
King, Claudiana, Torino 1993, pp. 95 sgg.
6 Rimandiamo ai nostri lavori sul tema: L’“altro” Martin Luther King (curatela),
cit.; God Bless America. Le religioni degli americani, Editori Riuniti, Roma 2002; Il
sogno e la storia. Il pensiero e l’attualità di Martin Luther King (curatela), Claudiana,
Torino 2007; Come una città sulla collina. La tradizione puritana e il movimento per i
diritti civili negli USA, Claudiana, Torino 2008. Alcune interviste a leader del civil
rights movement sono state trasmesse in varie puntate della rubrica
«Protestantesimo», RAI 2.
7 Ricordiamo che le “Carte King” nella disponibilità del King Center di Atlanta,
sostanzialmente sotto il controllo della famiglia, sono state raccolte e pubblicate
soltanto sino a quelle del 1962 (The Papers of Martin Luther King, Jr. [TPMLK], per
i tipi della University of California Press); la raccolta di scritti più completa resta A
Testament of Hope. The Essential Writings of Martin Luther King, Jr., a cura di James
M. Washington, Harper & Row, San Francisco 1986; vari testi anche in David W.
Houck, David E. Dixon (a cura di), Rhetoric, Religion and the Civil Rights Movement
1954-1965, Baylor University Press, Wako, Texas, 2006. Per accuratezza e mole
di fonti consultate, restano di fondamentale importanza i seguenti saggi: David J.
Garrow, Bearing the Cross. Martin Luther King Jr. and the Southern Christian Leadership
Conference, Vintage Books, New York 1988; Fairclough, To Redeem the Soul of
America, cit.; Taylor Branch, Parting the Waters. America in the King Years, 1954-
1963, Simon and Schuster, New York 1988. Di grande importanza anche i
volumi, tutti impreziositi da approfondite introduzioni, della King Legacy, Beacon
Press, Boston, che riportano scritti e discorsi di King. Solo una parte di questi
scritti è disponibile in italiano: Perché non possiamo aspettare, Piano B, Prato 2016;
La forza di amare, SEI, Torino 1963; Un dono d’amore. Sermoni da «La forza di amare»
e altri discorsi, Terra Santa, Milano 2018; Lettera dal carcere di Birmingham,
Castelvecchi, Roma 2013; La misura dell’uomo, Castelvecchi, Roma 2013; Il fronte
della coscienza, SEI, Torino 1968; Dove stiamo andando: il caos o la comunità?, SEI,
Torino 1970. Tra le antologie kinghiane rimandiamo anche al nostro L’“altro”
Martin Luther King, cit., che raccoglie testi parzialmente inediti in italiano.
8 È il caso del libro di Stephen B. Oates, Let the Trumpet Sound: A Life of Martin
Luther King, HarperCollins, New York 1982, in un’edizione successiva del quale
viene aggiunta al sottotitolo la definizione «La biografia di un grande eroe
americano»; e poi Josephine Madden, Martin Luther King: American Hero, Barnes &
Noble, New York 2017; Hugh Room, Martin Luther King Jr.: Civil Rights Leader
and American Hero, Scholastic, New York 2017. Ovviamente non mancano storie
illustrate, come quella di Herb Boyd, pubblicata in una serie dedicata agli
«American Heroes», Baronet Books, New York 1996. La Human Rights
Campaign pubblica in home page un banner che recita: «HRC Commemorates
the Life of Civil Rights Hero Dr. Martin Luther King Jr.»,
https://www.hrc.org/blog/hrc-commemorates-the-life-of-civil-rights-hero-dr.-
martin-luther-king-jr. (consultato il 18 gennaio 2019). Infine, per proporre un
titolo italiano, Erica Bernini, Martin Luther King. L’eroe della libertà. La storia
dell’uomo che ha cambiato l’America, Area 51, San Lazzaro di Savena (BO) 2015.
9 Forse il primo autore a offrire un’interpretazione meno convenzionale di King è
stato James Cone, Malcolm & Martin & America: A Dream or a Nightmare, Orbis
Books, New York 1991; sulla stessa linea Vincent Harding, The Inconvenient Hero,
Orbis Books, New York 1996 e, più recentemente, Cornel West (a cura di), The
Radical King, Beacon Press, Boston 2015; Sylvie Laurent, King and the Other
America: The Poor People’s Campaign and the Quest for Economic Equality, California
University Press, Oakland 2018.
10 Martin Luther King, Oltre il Vietnam, La Locusta, Vicenza 1968, p. 7.
11 Lo rileva con puntuali riferimenti Sacvan Bercovitch che attribuisce a King i
toni puritani della “geremiade” e cioè di una “lamentazione” come quelle del
profeta Geremia, che però non si esauriva in se stessa ma sfociava nella denuncia
del male e nella lotta per sconfiggerlo: Sacvan Bercovitch, America puritana, Editori
Riuniti, Roma 1992, p. 76.
12 Martin Luther King, Lettera dal carcere di Birmingham, cit.
13 Martin Luther King, I see the Promised Land, in Id., A Testament of Hope, cit., p.
286; cit. in Naso (a cura di), L’“altro” Martin Luther King, cit., p. 47.
14 Martin Luther King, The Papers of Martin Luther King, Jr., University of
California Press, Berkeley 1992- (TPMLK).
15 Garrow, Bearing the Cross, cit.; Fairclough, To Redeem the Soul of America, cit.
16 Branch, Parting the Waters, cit.
17 Houck, Dixon, Rhetoric, Religion and the Civil Rights Movement, cit.
18 Primo tra tutti, se non altro perché principale collaboratore di King e suo
amico fraterno, Ralph Abernathy, And the Walls Came Tumbling Down,
HarperCollins, New York 1989 (trad. it., ...e le mura crollarono. Le molte vite di
Martin Luther King, SugarCo, Milano 1990); Amelia P. Boynton, Bridge Across
Jordan, Carlton Press, New York 1979; Coretta King Scott, My Life with Martin
Luther King, Holt, Rinehart & Winston, New York 1969; Bayard Rustin, Down
the Line, Quadrangle Books, Chicago 1971; James Farmer, Lay Bare the Heart: An
Autobiography of the Civil Rights Movement, Arbor House, New York 1985.
19 Nel 1989 Abernathy pubblicò una sua autobiografia che, con un occhio
interessato al mercato editoriale, univa l’esaltazione per il personaggio King alla sua
demolizione sul piano morale; cfr. infra, cap. I, nota 2.
20 La più nota è probabilmente Lerone Bennett, L’uomo di Atlanta, Claudiana,
Torino 1969; ma anche Arnulf Zitelman, Non mi piegherete. Vita di Martin Luther
King, Feltrinelli, Milano 2014; José L. Roig, Carlota Coronado, Martin Luther
King. Un cuore libero, San Paolo, Milano 2004. Tra i pochi testi di livello scientifico
disponibili in italiano, Graziella Lavina, Serpente e colomba. La ricerca religiosa di
Martin Luther King, La città del sole, Reggio Calabria 2006. Facendo una eccezione
e volendo citare un testo di inquadramento più generale del civil rights movement
che non si limiti a King, indichiamo il ricco e documentato Nadia Venturini, Con
gli occhi fissi alla meta. Il movimento afroamericano per i diritti civili (1940-1965),
FrancoAngeli, Milano 2010.
21 Jim Wallis, America’s Original Sin: Racism, White Privilege, and the Bridge to a New
America, Brazos Press, Grand Rapids, Michigan, 2015.
22 Il problema terminologico è molto serio. Almeno alcuni settori dell’opinione
pubblica europea, ammoniti dalla celebre frase di Einstein rivolta al funzionario
americano di frontiera nel 1933 – «Quale razza? Umana» – evitano il termine
giudicandolo privo di ogni fondamento scientifico e carico di una tragica storia di
violenze arrivata sino allo sterminio. Ricorre, invece, nel dibattito pubblico
americano, indicando la “linea del colore”, un confine più visibile di altri che
separa e talora contrappone diversi gruppi sociali. Ma, oltre alla “razza”, abbiamo
altri problemi lessicali: benché King lo usasse correntemente – prima che si
affermasse la coscienza dell’importanza di un linguaggio politically correct – non
utilizzeremo mai, ad esempio, il termine “negro”, oggi carico di significati e
valenze razziste. Salvo alcune citazioni in inglese, utilizzeremo i termini “nero” o
“afroamericano”. L’evoluzione del linguaggio è attestata dal fatto che anche le
prime associazioni degli afroamericani non sapessero bene come definirsi e i media
coevi non sapessero come chiamarle. La National Association for the
Advancement of Colored People (NAACP), ad esempio, adottò l’espressione
giudicata rispettabile di “popolazione di colore”, ma il giornale che essa stessa
pubblicava utilizzava correntemente la parola race, e così il «Defender» di Chicago
definì i neri Race men e le loro conquiste race achievements.
23 Cfr. Cornel West, Race Matters, Beacon Press, Boston 1993. Testo di successo
al punto da essere ripubblicato 25 anni dopo, in una versione aggiornata.
24 L’espressione, derivata da un celebre sermone del 1630 del predicatore puritano
John Winthrop, poi divenuto governatore del Massachusetts, è divenuta ricorrente
nella retorica politica americana e rimanda all’idea che la nascita e lo sviluppo delle
colonie costituì un “sacro esperimento” politico benedetto da Dio: Naso, Come
una città sulla collina, cit.; cfr. nota 16 a p. 47.
25 Fifty Years Later. Martin Luther King. His Time and Legacy, in «Time», edizione
speciale, 2018; Andrew Grant Jackson, 1965: The Most Revolutionary Year in Music,
Tom Dunne Books, New York 2015, p. 37.
26 Neil A. Hamilton, American Social Leaders and Activists, Facts on File, New York
2002.
I.
Iniziando dalla fine

Se qualcuno di voi sarà presente quando arriverà il mio giorno, non voglio un lungo
funerale. E se riesci a convincere qualcuno a pronunciare l’elogio funebre, digli di non
parlare troppo a lungo... Digli di non menzionare che ho un Premio Nobel per la pace –
non è importante. Non dire che ho ricevuto altri 300 o 400 premi – questo non è
importante.
Digli di non menzionare dove sono andato a scuola. Vorrei che qualcuno menzionasse
quel giorno che Martin Luther King Jr. ha cercato di dare la vita servendo gli altri.
Vorrei che qualcuno dicesse che Martin Luther King Jr. ha cercato di amare. Voglio che
tu dica quel giorno che ho cercato di avere ragione sulla questione della guerra. Voglio
che tu possa dire quel giorno che ho provato a nutrire gli affamati.
Voglio che tu possa dire quel giorno che ho provato nella mia vita a vestire coloro che
sono nudi. Voglio che tu dica quel giorno che ho provato nella mia vita a visitare coloro
che erano in prigione. E voglio che tu dica che ho cercato
di amare e servire l’umanità.
Martin Luther King, 3 marzo 1968

Un attimo dopo lo sparo, King spirò tra le braccia di alcuni dei


collaboratori di una vita: tra gli altri, Ralph Abernathy, il suo amico più
fidato e alter ego in molte occasioni pubbliche; Andrew Young, il giovane
e brillante pastore della United Church of Christ, destinato a
un’importante carriera diplomatica alle Nazioni Unite; Jesse Jackson, il
giovane attivista – non ancora pastore – che aveva guidato con successo
una campagna a sostegno dei diritti dei lavoratori di colore a Chicago e che
nel 1984 e nel 1988 sarebbe arrivato a candidarsi alla presidenza degli Stati
Uniti; Jim Lawson, pastore metodista e vero interprete della nonviolenza
gandhiana che King aveva scelto come esclusivo metodo di azione; Hosea
Williams, uno dei consiglieri più ascoltati dal leader – «il mio uomo
selvaggio, il mio Castro», diceva di lui King27 –, capace di alternare capacità
di negoziazione con le autorità e azione diretta. E anche Georgia Davis
Powers, giovane senatrice nello Stato del Kentucky, che in quel momento
aveva una relazione con Martin Luther King, successivamente resa
pubblica in un saggio autobiografico28. Solo per qualche ora si era fermata a
Memphis anche Dorothy Cotton, a quel tempo unica donna nello staff
esecutivo della SCLC e anche lei legata a King in una complicata relazione
affettiva29.
Gli scatti dei drammatici istanti che seguirono l’unico colpo di fucile
furono di un giovane fotografo free lance, Joseph Louw30, incaricato di
seguire King a Memphis: solo immagini asciutte ed efficaci, come quella
dei collaboratori di King che all’unisono indicano il punto dal quale hanno
sentito il colpo di fucile; i ritratti di persone disperate come una cameriera
di colore che intuisce la portata e le conseguenze politiche dell’attentato; i
poliziotti disorientati che corrono da tutte le parti senza sapere esattamente
dove andare; nessuna foto macabra o d’effetto a ritrarre il corpo sfigurato di
King: «Evitai di riprenderlo in faccia – spiega Low – perché sentivo di
dover mantenere distanza e rispetto»31.
King venne rapidamente trasferito al St. Joseph Hospital, dove i medici lo
dichiararono morto alle 19.05.
Tra i primi a sapere dell’omicidio e a comunicarlo pubblicamente fu Bob
Kennedy, che si trovava a Indianapolis, impegnato in una campagna
elettorale per le elezioni presidenziali che non avrebbe mai concluso. Il
rapporto con King era stato dialettico ma intenso. Come vedremo, spesso
il pastore nero fu un problema per la Casa Bianca di John F. Kennedy che,
soprattutto nel primo biennio del mandato, non sembrava disposto ad
accelerare il processo di approvazione della legge sui diritti civili. All’epoca
Bob era Attorney General dell’Amministrazione, una posizione
paragonabile a quella di ministro della Giustizia, e in qualche occasione fu
lui a telefonare alla signora King per comunicarle per telefono o con un
telegramma che il marito era stato arrestato e che la Casa Bianca seguiva
con attenzione il caso. Ma al di là di questi gesti benevoli e persino gentili,
i rapporti politici tra i Kennedy e King non furono facili, e risulta
immotivatamente irenica l’interpretazione secondo cui in varie occasioni
Bob Kennedy testimoniò «la scelta inequivoca dell’Amministrazione dalla
parte dei diritti civili»32. Al massimo si può riconoscere che di fronte a
palesi violazioni della legge – ad esempio in occasione degli abusi della
polizia che non proteggeva il diritto ad entrare a scuola degli studenti di
colore – Bob Kennedy e l’Amministrazione reagirono cercando di far
rispettare le norme sulla desegregazione. Ma si trattò, appunto, di gesti
reattivi, mentre in quegli anni l’attesa del movimento era che
l’Amministrazione agisse proattivamente a sostegno dei diritti civili. Il
rapporto tra JFK, BFK e MLK fu tutt’altro che di reciproca solidarietà. A
chi va attribuita la responsabilità di questa tensione? Si dice che, per parte
sua, King si sia sempre guardato dallo stringere rapporti troppo impegnativi
con i politici, anche quelli apparentemente meglio disposti nei confronti
della causa dei diritti degli afroamericani. Non a caso gli si attribuisce la
frase: «A volte non è possibile cenare con il presidente e rappresentare
efficacemente i neri in America»33.
Sia JFK che Bob, però, sapevano di dovere qualcosa a King, il leader nero
che con la sua azione diretta e incisiva li aveva costretti ad uscire, almeno
per un attimo, dalle sicurezze ovattate di Camelot34 per riconoscere la
rilevanza della questione razziale, inserendo quel tema in uno dei punti alti
dell’agenda politica. Toccò a Bob ammettere tutto questo in un commosso
discorso improvvisato alla notizia giunta da Memphis:
Martin Luther King è stato assassinato questa sera a Memphis, nel Tennessee. Martin
Luther King ha dedicato la sua vita alla causa dell’amore e della giustizia per tutti gli
esseri umani, ed è morto proprio a causa di questo suo impegno. In questo momento
così difficile per gli Stati Uniti, dovremmo forse chiederci che tipo di nazione
rappresentiamo e quali sono i nostri obiettivi. Può certo esserci amarezza, odio, e
desiderio di vendetta tra le persone di colore che si trovano tra voi, viste le prove che ci
sono dei bianchi tra i responsabili dell’assassinio. Possiamo scegliere di muoverci in
questa direzione come nazione, in una ulteriore polarizzazione, dividendoci neri con
neri, bianchi con bianchi, pieni di odio gli uni verso gli altri. O possiamo invece fare
uno sforzo per capire, come ha fatto Martin Luther King, e sostituire a questa violenza, a
questa macchia di sangue che si è allargata a tutto il paese, un tentativo di comprendere
attraverso la compassione e l’amore35.

Parole e contenuti erano un puro distillato della filosofia politica di King.


Il richiamo alla giustizia, all’amore e alla compassione, così come la visione
di un’unità americana interrazziale che comprendesse neri e bianchi
insieme in contrapposizione alla violenza e al sangue, costituirono un
omaggio non solo alla visione e alla persona di King ma persino al suo
linguaggio.
Il 9 si svolsero i funerali, alla presenza di una folla eccezionale di amici,
sostenitori, osservatori, ma anche di critici ed avversari. Il feretro di King
arrivò trasportato su un modesto carro trainato da due asini. Un’immagine
evidentemente costruita ma efficace nel raccontare il senso del servizio di
King ai poveri e a coloro che non avevano trovato un posto nell’American
dream. Fiera e dignitosa come sempre era stata, anche nei momenti più
difficili, a ridosso del carro c’era Coretta, vestita interamente di nero,
sorretta da Abernathy da una parte e dai figli dall’altra. A pronunciare
quello che fu una via di mezzo tra un sermone e un’orazione funebre fu
Benjamin Mays, il presidente del College nel quale King aveva studiato,
l’uomo che gli era stato mentore prima e consigliere dopo e che mai
avrebbe immaginato di dover partecipare al funerale del suo allievo più
brillante. Le sue parole non furono abbondanti ma bastarono a comporre
quello che fu definito «uno dei capolavori dell’oratoria del XX secolo»36. In
effetti fu un grande discorso, che non aveva unicamente l’obiettivo di
ricordare un martire celebrandone le virtù, ma anche quello di orientare
un movimento che dopo la scomparsa del leader rischiava di perdere la sua
connotazione nonviolenta e la sua nuova strategia improntata sul tema
della povertà. Il carattere del discorso era evidentemente politico: «Non
fate errori. Il popolo americano – affermò Mays – è in parte responsabile
della morte di Martin Luther King Jr. L’assassino ha ascoltato un numero
sufficiente di parole di condanna verso King e i neri da convincersi di
godere di un sostegno pubblico. Sapeva che milioni di persone odiavano
King»37. Un giudizio politico molto severo sul clima di concordia post
mortem che già si poteva respirare attorno alla memoria di King. Solo alla
fine il discorso di Mays assunse la retorica propria di una eulogia:
Se Amos e Michea sono stati profeti nell’VIII secolo a.C., Martin Luther King Jr. è
stato un profeta nel XX secolo. Se Isaia fu chiamato da Dio per profetizzare ai suoi
tempi, Martin Luther è stato chiamato da Dio per profetizzare nel suo tempo. Se Osea
fu mandato a predicare l’amore e il perdono secoli fa, Martin Luther è stato mandato a
esporre la dottrina della nonviolenza e del perdono nel terzo quarto del XX secolo. Se
Gesù fu chiamato a predicare il Vangelo ai poveri, Martin Luther è stato chiamato a dare
dignità all’uomo comune. Se un profeta è colui che interpreta in un linguaggio chiaro e
intelligibile la volontà di Dio, Martin Luther King Jr. risponde a questa definizione. Se
profeta è uno che non cerca le cause popolari ma piuttosto quelle che pensa siano giuste,
Martin Luther ha raggiunto questo obiettivo. No! Non era in anticipo sui tempi.
Nessun uomo è in anticipo sui tempi. Ogni uomo è sotto la sua stella, ognuno nel suo
tempo. Ogni uomo deve rispondere alla chiamata di Dio nella sua vita e non nel tempo
di qualcun altro38.

Che cosa ha ucciso King?


Se fin dai primi istanti fu abbastanza chiara la direzione dalla quale il colpo
era stato sparato, nessuno poté identificare il punto esatto né riuscì a vedere
il killer. Più tardi alcuni testimoni dichiararono però di aver visto un uomo
che fuggiva. Grazie ai suoi precedenti penali e al ritrovamento dell’arma
utilizzata e di un binocolo, l’uomo fu presto identificato: James Earl Ray,
alias Eric Starvo Galt, Harvey Lohmeyer e Paul E. Bridgeman, nomi che
aveva utilizzato nel corso di una latitanza durata quasi un anno. Ray fu
arrestato il 19 luglio del 1968 all’aeroporto Heathrow di Londra, quando,
con l’ennesimo falso nome di Ramon George Sneyd, cercava di lasciare il
Regno Unito per recarsi a Bruxelles.
La verità giudiziaria dell’omicidio di Martin Luther King afferma quindi
che a compierlo fu James E. Ray, un criminale allora quarantenne che,
dopo aver commesso una serie di reati minori, nel 1959 era stato
condannato a vent’anni di reclusione come habitual offender. Evaso nel
1967, un anno dopo era a Memphis nei pressi del Lorraine Motel, con un
fucile in mano, dal quale era stato sparato il colpo letale che aveva ucciso
King; poche ore dopo, avvalendosi di un falso passaporto canadese, aveva
già abbandonato gli Stati Uniti per riparare nel Regno Unito. Individuato
a Heathrow, fu immediatamente estradato in Tennessee, dove si svolse il
processo che il 19 marzo del 1969 lo condannò a 99 anni di reclusione.
Ray è morto in carcere nel 1998 senza mai confessare la propria
responsabilità e anzi avanzando la tesi di un complotto39 di cui egli stesso
era vittima, convinzione peraltro fatta propria dalla famiglia King40 e da
personalità di spessore anche politico e istituzionale quali Andrew Young41
o James Lawson.
Nel 1979, lo United States House Select Committee on Assassinations
(HSCA) – una commissione istituita dalla Camera dei rappresentanti per
fare luce sugli omicidi di John F. Kennedy e Martin Luther King –
pubblicò un rapporto in cui si dava credito alla verosimiglianza dell’ipotesi
cospirativa, confermando però la responsabilità di Ray, escludendo un
ruolo attivo del governo o dell’FBI e, comunque, senza arrivare a
dettagliare le responsabilità e i fatti connessi con il complotto42.
La teoria cospirativa tornò attuale nel 1998, quando il tribunale di
Memphis dovette esprimersi su un procedimento civile intentato dalla
famiglia King. Per quanto la sentenza non avesse rilievo penale, arrivò a
concludere che l’assassinio era il frutto di una cospirazione che coinvolgeva
la mafia e che aveva a capo il tenente della polizia locale Earl Clark43. Nel
2000, infine, l’Attorney General incaricato di chiudere una nuova inchiesta
sull’omicidio, Janet Reno, escluse ogni ipotesi di complotto44.
Per quanto plausibili, le ipotesi cospirative non si sono mai trasformate in
certezze giudiziarie. Documenti, fatti e testimonianze, però, non
autorizzano a rubricare l’omicidio di King come l’attentato solitario di un
suprematista esaltato. Ray ebbe sicuramente delle coperture prima e dopo
il suo gesto, e il rapido passaggio dall’immediata confessione di colpa al
momento dell’arresto alla ritrattazione poco dopo suggerisce un
atteggiamento lucidamente teso a confondere e inquinare la verità.
Vari interrogativi non hanno mai trovato risposta; tra gli altri, come si è
mantenuto Ray nel periodo della latitanza? Come faceva ad avere un
passaporto canadese? Come ha potuto allontanarsi così facilmente dalla
zona del delitto, arrivare in aeroporto e prendere indisturbato un volo per
l’Europa? Perché stava cercando di partire da Londra? Dov’era diretto in
realtà? E come spiegare la prontezza a confessare e l’altrettanto rapida
ritrattazione? Sono questi gli interrogativi alla base della teoria cospirativa
descritta e sostenuta da Pepper e dalla famiglia King.
Più interessante del “chi”, allora, ci pare ragionare sul “che cosa” abbia
ucciso King, quale “meccanismo” abbia deciso la sua condanna a morte.
Ci muoviamo sul piano delle speculazioni.
Qualsiasi essa sia, infatti, la verità giudiziaria non chiude la questione
politica della possibile presenza, dietro l’omicidio di King, di un disegno
che mirava e eliminare dalla scena pubblica americana di quegli anni un
protagonista dei movimenti di protesta contro la guerra e contro il
complesso militare industriale che la sosteneva. In questa ipotesi, Ray
potrebbe anche aver ucciso materialmente King, ma potrebbero essere stati
altri a mettergli in mano il fucile e a guidarlo a Memphis. Il profilo
criminale di Ray non corrisponde a quello del razzista imbevuto di
ideologie suprematiste; era latitante e con una pesante condanna sulle
spalle; riuscì a fuggire all’estero con un passaporto falso. Tutti elementi che
fanno pensare, più che a un “lupo solitario del suprematismo bianco”, a
una persona sbandata, ricattabile, con poco o nulla da perdere.
Per capire che cosa ha ucciso King e perché, bisogna allora richiamare il
contesto politico nel quale l’omicidio era maturato e fu compiuto. E la
prima domanda riguarda il perché non solo King ma il suo intero staff
fossero a Memphis all’inizio di aprile. Il 1° febbraio 1968 due netturbini di
Memphis, Echol Cole e Robert Walker, erano stati uccisi da un camion
malfunzionante. L’incidente era solo l’ultimo di una serie e, soprattutto, si
aggiungeva allo sfruttamento sistematico di una categoria di lavoratori ai
quali, ad esempio, non veniva riconosciuta la paga minima oraria. Vista
l’assoluta indisponibilità a negoziare espressa dal sindaco Henry Loeb, l’11
febbraio i netturbini dichiararono uno sciopero a oltranza e il giorno
successivo sfilarono per la città reggendo dei cartelli sui era scritto “I’m a
man”. Tra i pastori afroamericani che operavano a Memphis in quel
periodo vi era Jim Lawson, come si è visto uno stretto collaboratore di
King, il quale suggerì ai manifestanti di contattare formalmente la SCLC e
il suo leader per chiedere sostegno alla loro causa. Nei giorni successivi la
situazione si fece incandescente, anche a seguito della decisione del sindaco
Loeb di dichiarare la legge marziale e di chiedere l’intervento della Guardia
nazionale. Mentre gruppi radicali del Black Power cercavano un’escalation
violenta, King e i suoi cercarono una strada diversa, immaginando di
promuovere una protesta popolare, determinata e radicale nei contenuti
ma pacifica nella forma. Questa particolare azione, inoltre, si sarebbe
inserita in un progetto più ampio e ambizioso al quale la SCLC lavorava da
tempo: la Poor People Campaign, una nuova mobilitazione di massa che si
sarebbe dovuta concludere a Washington. Partendo dalla denuncia che tra
40 e 60 milioni di americani – e cioè una percentuale compresa tra il 22 e il
33% della popolazione del paese più ricco del mondo – vivevano sotto la
soglia di povertà45, la campagna intendeva avviare un nuovo ciclo di
protesta che coinvolgesse bianchi e neri. Memphis era quindi tappa di un
percorso e di un progetto assai più ampio e ambizioso del sostegno a una
categoria ingiustamente sfruttata, la cui meta finale era Washington. La
speranza era di poter tornare ai picchi di consenso di quell’eccezionale
momento del 1963 quando con il suo celebre discorso I have a dream era
riuscito a toccare l’anima dell’America46.
Per raggiungere Memphis, King era partito da Atlanta alle 7 del mattino
del 3 aprile, insieme a Ralph Abernathy, il braccio operativo di tante
campagne di disobbedienza civile, e ad altri colleghi della SCLC. Era stata
una partenza come innumerevoli altre, con la moglie Coretta che aveva
preparato la colazione e li aveva accompagnati all’aeroporto. Giunti a
Memphis, la destinazione fu il Lorraine Motel, l’albergo nel quale King era
solito stabilirsi quando arrivava in città. Il primo incontro fu con gli
avvocati, per studiare una strategia nel caso in cui, l’indomani, fossero sorti
dei problemi nel corso della manifestazione di sostegno ai netturbini. Nel
tardo pomeriggio era previsto un incontro pubblico presso il Mason
Temple della città, il cui nome nulla ha a che fare con la massoneria ma
onora Charles H. Mason, fondatore di una comunità pentecostale
afroamericana aderente alla Church of God in Christ. King era stanco,
pioveva e preferiva recuperare le forze per l’impegnativa giornata che lo
aspettava all’indomani. Mandò avanti Abernathy, il quale, però, si trovò di
fronte una folla di oltre duemila persone in attesa del reverendo King e
non di uno dei suoi collaboratori, per quanto fidato e intimo. Il momento
psicologico di King non era dei migliori: sentiva la crisi di un movimento
che aveva bisogno di rinnovare la sua strategia di comunicazione e di
mobilitazione; subiva un crescente isolamento dovuto alle posizioni
politiche che aveva assunto, prima tra tutte l’opposizione alla guerra in
Vietnam; era inoltre sottoposto allo stress di una continua sovraesposizione
mediatica e alla fatica di continui spostamenti negli USA e all’estero.
Informato della folla che lo attendeva, King si fece comunque forza e,
salito su una Cadillac noleggiata da un’impresa di pompe funebri, arrivò al
Mason Temple dove, nonostante stanchezze e preoccupazioni, pronunciò
un discorso – l’ultimo – che suscitò un notevole impatto emotivo sul
pubblico.
Abbiamo davanti a noi giorni difficili – disse concludendo il suo intervento – ma
questo veramente ora non mi preoccupa. Poiché io sono stato in cima alla montagna.
Anche a me, come a chiunque altro, piacerebbe vivere una lunga vita. La longevità ha il
suo valore. Ma adesso non è questo che mi preoccupa. Voglio solo fare la volontà di
Dio. Egli mi ha permesso di salire sulla montagna. Ed io guardo al di là e ho visto la terra
promessa: Può darsi che io non ci arrivi con voi ma voglio che voi sappiate che noi
come popolo arriveremo alla terra promessa. Così questa sera sono felice. Non sono
turbato da niente. Non ho paura di nessun uomo. I miei occhi hanno visto la gloria
dell’avvento del Signore47.

«Un finale stranamente profetico che ancora ossessiona la memoria


dell’America»48, ha scritto Ralph Abernathy, il testimone più diretto di
quelle ore.

Un omicidio “politico”
Perché King fu ucciso? A chi giovava di più la sua morte? E perché
l’omicidio ebbe luogo proprio a Memphis? Sono domande che si
trascinano da oltre cinquant’anni e che non hanno mai trovato una risposta
definitiva e certa. La nostra ipotesi di ricerca, anticipata nell’Introduzione,
è che per provare a capire il significato dell’attentato occorre innanzitutto
delineare il contesto nel quale fu pianificato ed eseguito.
Il 1968 era l’anno delle elezioni presidenziali, scadenza di eccezionale
rilievo sul piano politico perché il voto non avrebbe deciso soltanto il
futuro della Casa Bianca, ma anche quello della strategia militare americana
in una guerra logorante, controversa e per certi aspetti fallimentare come
quella in Vietnam. A gennaio l’offensiva del Têt scatenata da
nordvietnamiti e vietcong aveva sorpreso sia l’esercito americano che
quello sudvietnamita ed evidenziato le crepe tattiche della campagna
militare di Washington. In quel frangente la leadership del presidente
Lyndon Johnson si mostrò assai debole e confusa, al punto che egli stesso
aveva deciso di non candidarsi per un secondo mandato. In quelle stesse
settimane si registrava inoltre un efferato attacco contro la popolazione
civile di un villaggio vietnamita: il 16 marzo una compagnia della 11a
divisione di fanteria dell’esercito americano aveva commesso una strage
contro civili disarmati uccidendo nel villaggio di My Lai oltre cinquecento
persone. Benché questo fatto specifico sia poi venuto a galla solo a
novembre, da mesi la presidenza Johnson subiva le pressioni contrapposte
dei vertici militari che chiedevano più mezzi e più libertà d’azione da una
parte, e dei movimenti di massa per il ritiro dalla palude vietnamita
dall’altra. Nell’indecisione, il potere militare sembrava avere la meglio su
quello politico, e proprio su questo punto King attaccò frontalmente la
Casa Bianca e il presidente che pure aveva firmato le leggi sul diritto di
voto. Nonostante alcuni inviti alla Casa Bianca, dai primi mesi del 1967
King aveva di fatto interrotto le comunicazioni con un presidente «di cui
non aveva personalmente fiducia e le cui politiche giudicava sempre più
disgustose»49.
E qui si pongono altri interrogativi: che cosa era successo? Come si era
arrivati allo scontro tra il leader del civil rights movement e il presidente
Johnson che, rompendo gli indugi e pagando un prezzo importante sul
piano del consenso, aveva concesso quello che Kennedy non aveva voluto
e potuto riconoscere?
Pochi mesi dopo la firma del Voting Rights Act, King aveva già iniziato a
pensare alle mosse successive. E cercava idee, strategie, temi per quella che
sentiva come una nuova fase di mobilitazione che andasse oltre il tema del
voto e dell’eguaglianza e si aprisse a una più diretta e ampia partecipazione
dei bianchi.
Dal 1966, e con crescente intensità, King denunciava il nesso strutturale
tra militarismo e razzismo, che a loro volta erano espressione e
conseguenza del capitalismo. La tesi e l’utilizzo stesso del termine
“capitalismo” meritano una sottolineatura. Come vedremo in dettaglio nel
capitolo VI, nel 1966 si precisa una “svolta” o, meglio, una
radicalizzazione in senso economico-politico dell’analisi sui mali
dell’America. Negli anni delle marce e dei sit-in per conquistare il diritto
di voto il tema della disuguaglianza sociale era rimasto sospeso, ma a quel
punto King mirava a denunciare la struttura portante del sistema
americano che a suo avviso produceva razzismo, ingiustizia economica e
militarismo.
L’impegno su un tema di politica internazionale quale la guerra in
Vietnam, apparentemente distante dagli interessi primari della comunità
afroamericana, non era affatto scontato, e per questo, dopo aver anticipato
il tema in varie interviste, King decise di aderire all’invito dell’associazione
interreligiosa Clergy and Laity Concerned about Vietnam (CALC), che gli
aveva affidato il ruolo di keynote speaker in occasione di un dibattito nella
cornice solenne della Riverside Church di New York: sede prestigiosa
che, benché largamente finanziata da una famiglia di orientamento
conservatore come i Rockefeller, già negli anni ’60 si proponeva come
tempio del pacifismo di matrice cristiana. L’evento ebbe luogo il 4 aprile
del 1967 e King, per quanto ospite d’onore, intervenne in una tavola
rotonda aperta da John Bennett, presidente dello Union Theological
Seminary, vero e proprio think tank del protestantesimo liberal
nordamericano50. Prima di King prese la parola anche il rabbino Abraham
Joshua Heschel, anche lui personalità di primo piano del civil rights
movement. L’intervento di King aveva uno specifico obiettivo: dimostrare in
termini razionali e politicamente remunerativi che l’impegno contro la
guerra in Vietnam non andava a scapito del sostegno ai diritti civili, ma che
le due questioni potevano considerarsi come aspetti diversi di un’unica
strategia di mobilitazione a sostegno della causa degli afroamericani. Nella
sua analisi l’intervento militare in Vietnam aveva interrotto il percorso di
crescita di una nuova coscienza della “crisi razziale” americana e allargato il
gap economico e sociale tra bianchi e neri:
Fu allora che compresi che l’America non avrebbe mai investito i fondi e le energie
necessarie alla riabilitazione dei suoi poveri per il tempo che le avventure come la guerra
in Vietnam avrebbero continuato ad assorbire competenze e capitali come una diabolica
macchina di distruzione [...]. I giovani neri rovinati dalla nostra società, li prendiamo e li
mandiamo a ottomila miglia da casa loro per difendere delle libertà che non avevano
trovato né in Georgia né ad Harlem51.

Anche in questa occasione schiettamente politica, però, utilizzò il registro


della comunicazione pastorale. A King stava a cuore la “redenzione”
dell’America, la salvezza della sua anima corrotta dal «razzismo, dal
materialismo e dal militarismo». La crisi dell’America era insomma morale
e politica insieme e il Paese, per superarla, da una parte doveva ricostruire
la sua radice spirituale e dall’altra distruggere il deposito storico di
ingiustizie e ineguaglianza di cui il razzismo era la punta più visibile e
odiosa.
Un giorno o l’altro bisognerà comprendere che tutta la strada di Gerico [il riferimento
è all’episodio del buon samaritano, che il Vangelo di Luca colloca sulla strada che da
Gerusalemme scendeva a Gerico, N.d.A.] è da rifare, affinché gli uomini cessino di
essere battuti [picchiati, N.d.A.] e spogliati quando viaggiano su questa grande strada
che è la vita. La compassione autentica non consiste nel gettare una moneta a un
mendicante: ciò non è che superficialità... Essa [la compassione, N.d.A.] nasce
dall’evidenza che una struttura sociale che produce la povertà ha bisogno di essere
riorganizzata da cima a fondo. Un’autentica rivoluzione dei valori si troverà rapidamente
a cattivo agio [disagio, N.d.A.] davanti all’evidente contrasto tra povertà e ricchezza52.

Altri passaggi furono invece più specificamente politici, ad iniziare dalle


cinque precise richieste rivolte all’Amministrazione Johnson: la fine di tutti
i bombardamenti nel Vietnam del Nord e del Sud; la dichiarazione
unilaterale del cessate il fuoco come premessa necessaria per avviare un
negoziato; la prevenzione dell’allargamento del conflitto in altre regioni nel
Sud-Est asiatico, limitando la presenza militare americana in Thailandia e
l’interferenza nel Laos; il riconoscimento del ruolo del Fronte di
liberazione nazionale come soggetto politico del Vietnam del Sud e quindi
come interlocutore necessario del negoziato. È in questo intreccio di
interventismo militare e rapporti di forza interni a un’amministrazione
politica debole quale fu quella di Johnson negli ultimi mesi del suo
mandato che, ancora oggi, vanno cercate le risposte agli interrogativi
sull’assassinio di Martin Luther King.
27 Branch, Parting the Waters, cit., p. 124.
28 Georgia Davis Powers, I Shared the Dream: The Pride, Passion, and Politics of the
First Black Woman Senator from Kentucky, New Horizon Press, Far Hills, New
Jersey, 1995. Il tema dell’infedeltà coniugale di King è stato ampiamente utilizzato
sia dall’FBI per comprometterne l’autorevolezza e la credibilità, che da alcuni dei
suoi stessi colleghi, forse per ridimensionarne il ruolo. Tra questi si distingue
Ralph Abernathy che nella sua autobiografia indulge in dettagli non sempre
necessari e nella libera ricostruzione di dialoghi dei quali, per sua stessa
ammissione, non fu testimone diretto. Cfr. in particolare la ricostruzione
dell’ultima notte di King, in Abernathy, ...e le mura crollarono, cit., pp. 274 sgg.
Torneremo sulla questione nel cap. VI.
29 Jason Miller, Hear Dorothy Cotton, Thought As Martin Luther King’s “Other
Wife”, in «The Conversation», 24 giugno 2019. Docente all’Università del North
Carolina, Miller è un linguista autore di importanti saggi sulla retorica di Martin
Luther King: cfr. Id., Origins of the Dream: Hughes’s Poetry and King’s Rhetoric,
University Press of Florida, Gainesville 2015. Il documentato articolo ricorda
come la Cotton, irritata dal ritardo di Martin a un appuntamento personale dopo
la sua predica al Mason Temple, avesse anticipato il suo rientro a Atlanta, e come
King avesse invece provato a trattenerla invitandola a «prendere un volo più tardi».
In realtà, come afferma Abernathy, si sarebbe attardato con degli amici, tra cui
un’altra donna con la quale aveva una relazione. La circostanza è confermata dalla
diretta interessata, Georgia Davis Powers, in Dr. King’s Last Day, Louisville,
Kentucky, 2015.
30 Disponibili al sito https://www.icp.org/browse/archive/constituents/joseph-
louw?all/all/all/all/0.
31 The Photograph That Captured the Horror of MLK’s Assassination, in «Life», 3 aprile
2015.
32 Walter Veltroni, Il sogno spezzato. Le idee di Robert Kennedy, Baldini & Castoldi,
Milano 1993, p. 17.
33 David Margolick, The Promise and the Dream: The Untold Story of Martin Luther
King, Jr. and Robert F. Kennedy, RosettaBooks, New York 2018.
34 Anni dopo la morte di JFK, Camelot è divenuto sinonimo degli anni passati
alla Casa Bianca e delle relazioni allora stabilite dal presidente e dal suo entourage
familiare e politico. Il tutto si deve a un’intervista a Jackie Kennedy, che ricordò
come il marito, alla sera, amasse ascoltare un po’ di musica e che uno dei suoi pezzi
preferiti fosse un brano di un musical interpretato da Richard Burton, intitolato
per l’appunto Camelot, in «la Repubblica», 25 gennaio 2017. Anche Noam
Chomsky, intellettuale di punta della sinistra americana, ha utilizzato la metafora
di Camelot per indicare gli anni di Kennedy alla Casa Bianca: Alla corte di Re Artù.
Il mito Kennedy, Elèuthera, Milano 1993.
35 Robert F. Kennedy, Sogno cose che non sono state mai. Discorsi 1964-1968, a cura
di Giovanni Borgognone, Einaudi, Torino 2012.
36 Freddie C. Colston, Dr. Benjamin E. Mays Speaks: Representative Speeches of a
Great American Orator, University Press of America, Lanham, Maryland, 2002, p.
16.
37 Il discorso integrale anche in Benjamin Mays, Born to Rebel: An Autobiography,
University of Georgia Press, Athens 1971.
38 Ivi, p. 352.
39 William F. Pepper, The Plot to Kill King: The Truth Behind the Assassination of
Martin Luther King Jr., Skyhorse, New York 2016. L’autore è stato a lungo il legale
di fiducia della famiglia King.
40 Nel 1997 uno dei figli di King, Dexter, ebbe un incontro con Ray e gli chiese:
«Voglio solo chiederti, per la cronaca, hai ucciso mio padre?». Ray rispose: «No,
non l’ho fatto» e King disse a Ray che lui, insieme alla famiglia King, gli credeva; la
famiglia King ha anche esortato Ray a chiedere un nuovo processo. Kevin Sack,
Dr. King’s Son Says Family Believes Ray Is Innocent, in «The New York Times», 28
marzo 1997.
41 Pastore della calvinista United Church of Christ, si avvicinò alla SCLC
entrando subito nella cerchia dei collaboratori di King, assumendo
successivamente la segreteria della SCLC e poi lanciandosi in una fortunata
carriera politico-diplomatica. Andrew Young, An Easy Burden: The Civil Rights
Movement and the Transformation of America, HarperCollins, New York 1996.
42 Did James Earl Ray Really Kill Martin Luther King or Was a Government Conspiracy
Involved?, in «The Independent», 4 aprile 2018.
43 Clayborne Carson, Martin’s Dream: My Journey and the Legacy of Martin Luther
King Jr., Palgrave Macmillan, New York 2013, p. 213.
44 Investigation Finds No Plot in Killing of Dr. King, in «The New York Times», 10
giugno 2000.
45 Gordon K. Mantler, Power to the Poor: Black-Brown Coalition and the Fight for
Economic Justice, 1960-1974, North Carolina University Press, Chapel Hill 2013,
p. 19.
46 Il plauso alle sue parole era stato generalizzato. Come scrisse il «New York
Times» vari giorni dopo, in quell’occasione, che i media seguirono più del
discorso inaugurale del presidente Kennedy, egli toccò «tutti i temi del giorno, e lo
fece meglio di chiunque altro. Con le sue parole andò al cuore del pensiero di
Lincoln e Gandhi e centrò le citazioni della Bibbia. Il suo tono era militante e
triste, e si congedò dalla folla sentendo che il lungo viaggio era stato utile», I have a
dream, in «The New York Times», 28 agosto 1963.
47 Naso (a cura di), L’“altro” Martin Luther King, cit., p. 47.
48 Abernathy, ...e le mura crollarono, cit., p. 274.
49 Garrow, Bearing the Cross, cit., p. 549.
50 Tra gli altri, vi insegnarono Walter Rauschenbusch, il capofila del Social Gospel
che predicava un impegno evangelico con una forte connotazione sociale; Dietrich
Bonhoeffer, il teologo luterano martire del nazismo; Reinhold Niebuhr, capofila
della scuola neo-ortodossa anch’essa caratterizzata da una propensione all’impegno
sociale della Chiesa; Paul Tillich, l’intellettuale tedesco che si distinse per i suoi
scritti teologici e politici contro il nazismo e, in tempi più vicini a noi, James Cone
e Cornel West, tra i più noti intellettuali afroamericani degli anni ’90.
51 Martin Luther King, Oltre il Vietnam, cit., pp. 11 e 12.
52 Ivi, pp. 39-40.
II.
Nel solco di una lunga storia

When Israel was in Egypt’s land,


let my people go,
oppressed so hard they could not stand,
let my people go,
so the Lord said,

«Go down, Moses, way down to Egypt’s land.


Tell old Pharaoh to let my people go».
Negro spiritual

Pochi spiritual come quello che chiede a Mosè di guidare il suo popolo
nella fuga dall’Egitto esprimono il senso profondo della spiritualità e della
teologia politica delle black churches nelle quali King si formò e che, per
molti aspetti, costituirono la base primaria del movimento che si raccolse
attorno a lui. Quelle chiese non erano soltanto il luogo primario della
socializzazione della comunità afroamericana, ma anche il deposito di
conservazione di una tradizione basata su uno specifico paradigma
teologico che, per semplificare, possiamo ricondurre all’Esodo. Così come
era accaduto per i Padri pellegrini sfuggiti alle persecuzioni in Europa,
anche per milioni di afroamericani il racconto del secondo libro della
Bibbia costituì il manifesto della propria condizione di uomini e donne
figli di schiavi che ancora cercavano la loro emancipazione, impegnati in
un lungo e doloroso cammino nel deserto ma anche fiduciosi nella
prossimità alla terra promessa dell’emancipazione e della parità nella dignità
umana e nei diritti civili. Dalle prime lotte a Montgomery sino all’ultimo
discorso pronunciato a Memphis, è stato questo il cuore della teologia di
King, il suo “sermone della vita”, come si dice di quei predicatori che
riescono a lasciare una traccia nella coscienza e nella vita di chi ascolta.
In questo capitolo vogliamo presentare un’altra tesi derivata dalla
ricostruzione di quel processo che, in pochi mesi, portò un giovane pastore
afroamericano ai vertici della popolarità e dell’autorevolezza nella
leadership del civil rights movement. L’idea che abbiamo maturato in questo
percorso è che King sia il “frutto maturo” di un solido movimento di
protesta e di resistenza morale e politica al razzismo che precede la nascita
di quello che convenzionalmente definiamo civil rights movement.
Il contesto53 nel quale egli crebbe era quello di “Jim Crow”, espressione
dall’origine incerta che indicava lo stereotipo del nero razzisticamente
stilizzato, che suonava e ballava inconsapevole della sua condizione di
sfruttato. Un’immagine a uso e consumo del razzismo bianco, rassicurante
e da qualcuno considerata persino divertente, al punto da produrre un vero
genere teatrale: i menestrels. Erano bianchi goffamente mascherati da neri
che si esibivano in balli, musiche e dialoghi che, imitando caricaturalmente
atteggiamenti dei neri, proponevano battute e argomenti esplicitamente
razzisti. Per estensione, “le leggi di Jim Crow” divennero quindi quelle
norme approvate dai singoli Stati, generalmente dopo il 1876, tese a
costruire una società segregata – scuole, servizi pubblici, mezzi di trasporto
– sotto il principio del “separati ma eguali”54. Tra le norme più odiose,
quelle che di fatto impedivano la registrazione e quindi la partecipazione al
voto. La stridente contraddizione stava nel fatto che dopo la Guerra civile,
nel 1870 era stato approvato il XV emendamento della Costituzione, che
sanciva e garantiva il diritto all’elettorato attivo anche per gli afroamericani.
Tuttavia, dal momento che erano i singoli Stati a definire le norme che
regolavano questo diritto, nel Sud esso veniva sostanzialmente negato: i
requisiti per accedere alla registrazione e al voto venivano infatti ristretti e
limitati, a seconda delle convenienze, con la precisa intenzione di escludere
i neri dal processo politico democratico. Tra le conseguenze di questa
divaricazione economica e politica tra Nord e Sud, antica almeno quanto la
Guerra civile, vi fu la “grande emigrazione” di molti afroamericani dal Sud
verso il Nord. Si calcola che se nel 1910 viveva nelle grandi città del Nord
– New York, Chicago, Philadelphia, Detroit, Cleveland e Pittsburgh – il
10% della popolazione nera; trent’anni dopo tale percentuale era salita al
25%.
King nacque e crebbe in un milieu religioso, politico e organizzativo che
fu la sua scuola di formazione, gli aprì gli occhi e gli ispirò la visione di una
nuova stagione di lotta contro il segregazionismo. Al tempo stesso fu il
network che gli garantì una base operativa senza la quale avrebbe potuto
fare ben poco. Sappiamo di non dire nulla di particolarmente nuovo, anche
se il tono agiografico di buona parte della letteratura sul personaggio –
come abbiamo visto a partire dalle biografie di alcuni dei suoi collaboratori
– tende a trascurare ciò che c’era “prima” di King e che contribuì a
rafforzare la sua leadership, certamente dotata di un grande carisma e di
un’acuta lucidità nell’analisi politica. Lo diremo con le parole di Ella Baker,
un’attivista dotata di grande talento organizzativo e politico che per alcuni
anni collaborò con la SCLC, prima della “rottura” con King e la sua
organizzazione per aderire alla formazione più radicale e movimentista
dello SNCC: «Ad essere onesti, io credo che il movimento abbia creato
Martin piuttosto che Martin abbia creato il movimento. Non è per
screditarlo, ma secondo me è così che bisognerebbe mettere le cose»55.
Ma ciò che la stessa Baker chiama «movimento» non nasce dal nulla. Esso
fu un soggetto politico che si andò strutturando dopo il boicottaggio di
Montgomery e che probabilmente raggiunse il suo apice di consenso ed
efficacia tra il 1963 e il 1965 e cioè, per indicare due fatti precisi, tra la già
citata manifestazione di Washington del 1963 e le marce di Selma del
1965. Prima del “movimento”, insomma, non c’era il deserto, ma una rete
di soggetti religiosi e laici attorno ai quali si era strutturata una società civile
afroamericana cosciente della sua identità, della sua tradizione e dei suoi
diritti.

Le negro churches
Le prime trame di questa rete, se non altro in senso cronologico, vanno
cercate nelle black churches o, secondo l’espressione del tempo, le negro
churches. Si trattava di luoghi comunitari di eccezionale importanza per la
comunità nera, una sorta di patrimonio collettivo che ne ha garantito la
coscienza e la coesione e, soprattutto, ne ha rafforzato il peso pubblico.
Resta celebre a riguardo la frase del grande studioso nero – in realtà aveva
radici haitiane, olandesi e ugonotte, quindi associate al calvinismo europeo
– W.E.B. Du Bois, che produsse le sue opere più importanti a inizio
Novecento, secondo cui «la chiesa nera è stata l’unica istituzione sociale tra
i neri che era iniziata nella foresta africana ed era sopravvissuta alla
schiavitù»56. Tecnicamente si tratta di comunità di diversa tradizione
teologica – battista, metodista, pentecostale – la cui origine risale alla
seconda metà del XVIII secolo, in piena epoca di schiavismo. La nascita di
queste comunità va ricondotta all’impossibilità per i neri di accedere al
sacramento eucaristico, quella che la tradizione protestante generalmente
definisce “Santa Cena”. I padroni bianchi erano lieti di mostrare il loro
volto benevolente e pietoso nel momento dell’incontro con il loro Dio,
ma non erano disponibili a condividere questo momento, e in qualche
occasione allontanarono violentemente i loro correligionari di colore dal
tavolo dal quale il pastore e gli anziani distribuivano il pane e il vino57.
Andò così a Savannah, Georgia, dove si ritiene che nel 1777 si sia costituita
la prima black church degli USA. Nel 1787, a Philadelphia, Absalon Jones e
Richard Allen costituirono la Free African Society, una chiesa a tutti gli
effetti, di cui divennero i primi “vescovi”, e di cui nel 1794 fu eretto il
primo tempio58.
L’azione missionaria di questi nuclei favorì la nascita di vere e proprie
denominazioni nazionali: la prima fu la National Baptist Convention of
America che circa un secolo dopo, nel 1895, raccoglieva circa 3 milioni di
afroamericani, concentrati soprattutto negli Stati del Sud. Dopo la Guerra
di secessione si organizzarono anche i metodisti, dando vita nel 1865 alla
African Methodist Episcopal (AME) Church. Discordie teologiche e
contenziosi sulla leadership determinarono delle divisioni e la nascita di
nuove denominazioni afroamericane come la Colored Methodist
Episcopal Church o l’African Methodist Episcopal Zion Church. Per un
padre della cultura afroamericana come W.E.B. Du Bois, queste comunità
erano «il centro sociale della vita dei neri degli Stati Uniti, e la più
caratteristica espressione del carattere africano»59; nelle parole di un altro
leader dell’emancipazione afroamericana come Booker T. Washington, la
chiesa nera «rappresentava le masse del popolo nero. Essa – spiegava – è
stata la prima istituzione a sviluppare la vita delle masse nere e ancora
esercita il ruolo più importante su di esse»60. Più recentemente, un altro
grande storico delle chiese nere, E. Franklin Frazier, ha affermato con
nettezza che «non fu ciò che rimaneva della cultura africana o l’esperienza
religiosa africana a garantire la nuova base della coesione sociale [della
comunità afroamericana, N.d.A.], ma la religione cristiana»61.
Già nei primi anni del XIX secolo, oltre che denominazioni nazionali,
crebbero innumerevoli chiese indipendenti a carattere locale, alcune con
una grande capacità di impatto sulla vita sociale e culturale della città in cui
operavano. Un esempio importante e tuttora molto significativo è quello
della Abyssinian Church di New York, una comunità battista istituita nel
1808 da una scissione dalla First Baptist Church dovuta al fatto che, nel
nome della segregazione razziale, questa chiesa costringeva gli
afroamericani a sedere in specifici posti loro riservati. Dopo la rottura, un
facoltoso gruppo di commercianti di origine etiopica investì nella
costruzione di una chiesa “nera” a Anthony Street (poi spostatasi a Worth
Street) denominata Baptist Abyssinian Church, nome evidentemente
ispirato dal gruppo dei fondatori. Negli anni la chiesa crebbe notevolmente
e nelle prime decadi del XX secolo, animata dall’energico pastore Adam
Clayton Powell, divenne un modello e un riferimento primario per la
comunità afroamericana della città. Nel 1922, grazie alle decime
regolarmente pagate dal 95% dei suoi membri, la chiesa si dotò di un
grande tempio nel quale si svolgevano, oltre alle consuete attività spirituali
e di culto, diverse iniziative sociali, culturali e persino economiche che,
producendo reddito, consentivano l’espansione della chiesa stessa.
La vitalità sociale e l’impegno pubblico delle negro churches sono ben
documentate, oltre che da una celebre raccolta di scritti curata da Du Bois
nel 190362, da una preziosa ricerca del 193363 condotta con metodo
scientifico dall’Institute of Social and Religious Research – un centro
finanziato dalla famiglia Rockefeller – e affidata a Benjamin E. Mays, come
abbiamo visto presidente del Morehouse College, dove King compì i suoi
primi studi accademici. La ricerca fu realizzata sul campo, raccogliendo dati
e interviste in oltre 600 chiese afroamericane e fu pubblicata con il titolo
The Negro’s Church. La conclusione principale confermava che la chiesa
nera «era la prima comunità o organizzazione pubblica che il nero
possedeva e controllava pienamente». All’autore non sfuggiva la particolare
struttura di quelle chiese, tutte protestanti e “congregazionaliste”,
governate cioè con procedure tipicamente democratiche. Ogni comunità
si costituiva in assemblea, approvava il bilancio, decideva l’organizzazione
interna e le iniziative da svolgere all’esterno. Allora come oggi il pastore era
assunto dalla comunità locale dopo essere stato ascoltato ed “eletto”
all’interno di una rosa di candidati. Oltre al pastore, l’assemblea di ogni
chiesa eleggeva il Consiglio degli anziani, laici che potevano coadiuvare
nelle funzioni pastorali. Durante il culto, importanti momenti della liturgia
erano affidati ai laici, che leggevano brani della Bibbia o guidavano la
comunità in preghiera. Nella particolare tradizione battista, inoltre, ampio
spazio era dedicato alle preghiere spontanee e alla testimonianza
individuale della propria fede. Vogliamo così dire che la particolare forma
teologica ed ecclesiologica delle chiese nere, propria della tradizione della
Riforma protestante, ebbe una funzione importante nel favorire la
partecipazione, la selezione della leadership, il confronto democratico. In
questo contesto sociale, un ruolo del tutto particolare avevano i pastori,
che, come notava già Du Bois, per il loro ruolo pubblico e la loro cultura
finivano per svolgere un ruolo primario nella costruzione dell’immagine
pubblica della comunità afroamericana64.
Oltre ad avere una insostituibile funzione sociale, le black churches furono
fabbrica di una teologia afroamericana che ha aiutato la comunità nera,
oltre che a riprendersi la Bibbia brandita dai padroni schiavisti per educarli
al rispetto delle gerarchie della piantagione, a costruire una teologia della
speranza e della dignità dell’uomo di colore65. L’adattamento delle
categorie bibliche all’esperienza individuale e collettiva dello schiavo e
della sua liberazione è il grande Leitmotiv della teologia delle negro churches,
che si esprime compiutamente e a livelli artistici molto alti, ad esempio, nel
canto spiritual. In questa peculiare espressione della spiritualità
afroamericana, la sofferenza della schiavitù, la promessa di una terra, il
cammino per raggiungerla, la fedeltà e l’infedeltà del popolo di Dio nel suo
cammino finiscono per costruire un paradigma autoreferenziale nel quale
la comunità degli schiavi o dei discendenti degli schiavi ritrova la sua storia
e la sua identità ma anche le ragioni della sua speranza e della sua fede. In
genere i negro spirituals si basavano su un preciso schema: il grido di
sofferenza, l’invocazione di aiuto e la speranza della redenzione. Dal punto
di vista degli schiavi tutto questo significava cantare la speranza della
liberazione e invocare l’intervento di Dio affinché essa avvenisse nel più
breve tempo possibile. Per i padroni, invece, era un canto di fede che
aiutava gli schiavi a prendere atto della loro condizione e a rinviare la loro
speranza di riscatto all’aldilà. Lo spiritual non “mascherava” il linguaggio
politico della protesta: esprimeva in categorie bibliche una fede che era
speranza e liberazione. In questo senso lo spiritual va letto in primo luogo
attraverso categorie teologiche. Il suo aspetto più geniale e popolare era
l’identificazione della sofferenza degli afroamericani nelle pene del popolo
d’Israele, costretto alla schiavitù in Egitto ma anche destinatario della
promessa di una terra in cui avrebbe riconquistato la sua libertà. In questo
senso il canto spiritual recupera dunque in toto il paradigma
veterotestamentario della liberazione attraverso l’Esodo, e lo applica allo
schiavo afroamericano66.
Un prodotto rilevante del mondo delle negro churches furono i predicatori
e i pastori: essi provenivano dal popolo afroamericano ma, grazie ai loro
studi e al prestigio sociale connesso con il loro ministero, finivano con
l’assumere un ruolo pubblico talora di primaria importanza. Il pastore
diventava il referente primario della comunità nelle sue relazioni esterne,
svolgeva un riconosciuto compito formativo e di indirizzo, aveva la
responsabilità di far quadrare i conti della sua congregazione. Aveva
insomma le qualità essenziali per diventare un “attivista”, il portavoce delle
richieste della base, il mediatore nel caso di trattative complesse e
impegnative. Come annotava Mays nella ricerca sociologica appena citata,
il pastore afroamericano era una delle persone più libere, nonché la più
influente sulla scena americana. La sua forza stava nel fatto che non
rispondeva a un’istituzione che doveva relazionarsi al potere bianco ma,
economicamente e ideologicamente indipendente, poteva far valere con
maggiore facilità, coerenza e libertà le ragioni della comunità
afroamericana. Era inoltre una persona di cultura e di grande carisma; per
definizione, doveva avere un ruolo pubblico sia all’interno sia all’esterno
della comunità. Tutte queste ragioni rendevano i pastori neri dei leader
naturali della loro comunità.
King a parte, quindi, non fu certo un caso che soprattutto nel Sud alcuni
pastori siano stati referenti primari del civil rights movement e protagonisti di
importanti battaglie politiche: così Fred Shuttlesworth a Birmingham
(Alabama), Ralph Abernathy a Montgomery (Alabama), Jesse Jackson a
Chicago, James Bevel e C.T. Vivian a Nashville (Tennessee), il già citato
Lawson a Memphis (Tennessee), e John Lewis, uno dei primi freedom riders,
giovani bianchi e neri che nel luglio del 1961 avviarono una campagna per
rendere effettive e rispettate le norme sulla desegregazione sui mezzi
pubblici.
In conclusione, ci pare evidente che il tessuto primario di quello che a
fine anni ’50 si struttura come movimento fosse in larga parte costituito
dalle negro churches. Per quanto iperbolica, aveva fondamento la parafrasi del
Vangelo di Giovanni citata da alcuni preachers: «All’inizio c’era la chiesa
nera e la chiesa nera era con la comunità nera, e la chiesa nera era la
comunità nera. Sin dall’inizio la chiesa nera era con la gente nera; tutto
veniva fatto attraverso la chiesa nera e senza la chiesa nera non si faceva
nulla. Nella chiesa nera c’era la vita; e la vita era la luce del popolo nero»67.

Il Social Gospel
A cavallo tra il XIX e il XX secolo le chiese afroamericane furono investite
da un’altra corrente teologica, questa volta trasversale alle diverse
denominazioni: il Social Gospel. Non fu il prodotto delle prestigiose
accademie europee o nordamericane, piuttosto la scoperta sul campo di
nuove frontiere della testimonianza cristiana nel contesto dello sviluppo
capitalistico e delle sue contraddizioni. L’ultimo quarto dell’Ottocento
americano fu costellato da una serie di mobilitazioni operaie che talvolta si
conclusero nel sangue: accadde nel 1877, nel 1886, nel 1892 e nel 189468.
Le chiese storiche del protestantesimo americano non seppero cogliere il
significato di quella stagione di proteste, che videro, piuttosto, come il
risultato del disordine morale prodotto dalla secolarizzazione e come una
minaccia all’ordine sociale stabilito. Intanto, nel 1877 era nato il Socialist
Labor Party e nel 1898 si era costituito il Socialist Democratic Party: in
generale, le chiese guardavano con preoccupazione alla crescita di queste
organizzazioni di massa, che da una parte sottraevano loro alcune energie e,
soprattutto, ponevano fine all’incontrastato monopolio delle strutture
ecclesiastiche nell’ambito dell’organizzazione sociale americana. Solo una
piccola minoranza di clergymen avvertì il pericolo di una spaccatura tra il
mondo operaio, che si stava organizzando sulla base di una linea di classe, e
la realtà delle chiese, con il loro storico e riconosciuto ruolo sociale. Una
minoranza ancora più esigua aderì al movimento socialista e nel 1890
nacque la Society of Christian Socialists, ma si trattò di esperienze
aleatorie, incapaci di lasciare una traccia profonda.
Furono un pastore e un teologo a dare forma a una testimonianza
cristiana intrecciata con l’impegno per la giustizia sociale nel contesto delle
lotte operaie di quegli anni: Washington Gladden e Walter
Rauschenbusch. Nel 1905 il primo pubblicò un libro significativamente
intitolato Christianity and Socialism; quanto a Rauschenbusch, nel 1907
scrisse Christianity and the Social Crisis e nel 1917 Theology for the Social
Gospel. «Il fondamentale convincimento dei profeti era che Dio chiede
giustizia e nient’altro se non la giustizia», scriveva Rauschenbusch nelle
pagine iniziali del suo primo libro che, in breve, divenne un vero e proprio
manifesto del Social Gospel, letto e apprezzato sia per la sua teologia sia per
la forte carica di impegno sociale che lo animava. «Ed è importante notare
– proseguiva – che la morale che i profeti avevano in mente nella loro
strenua insistenza sul tema della giustizia, non era meramente la morale
privata della propria famiglia ma era una morale pubblica sulla quale si
fondava la vita della nazione»69. Non stupisce che queste idee abbiano
avuto riscontri importanti soprattutto nell’ambito di alcuni settori della
leadership delle chiese nere. Il tema della moralità pubblica aveva evidenti
implicazioni politiche, ma, soprattutto, andava al cuore dell’immaginario
americano, del senso comune dell’appartenenza a una particolare nazione
alla quale Dio tributava doni speciali in virtù della sua rettitudine e della
fedeltà alla sua parola. Ma se la moralità era pubblica, diventava cioè una
categoria della politica e non solo dell’etica individuale, ecco che questo
meccanismo ideologico di autorappresentazione si inceppava. Quale
poteva essere la moralità del razzismo e della segregazione? Tanto più dopo
la ferita della Guerra di secessione e del suo esito, come era possibile
parlare di moralità pubblica in una comunità che negava pari dignità ai suoi
membri? La democrazia americana si era consolidata sulla retorica biblica
della “città sulla collina”70, di un luogo ideale benedetto da Dio e per
questo destinato a un eccezionale progresso sociale, ma proprio per questo
tenuto al rispetto di fondamentali principi biblici. E come era possibile
predicare l’uguaglianza di tutte le creature di Dio da una parte e mantenere
strutture sociali razziste e schiaviste dall’altra? Il Social Gospel nacque da
questi interrogativi laceranti ed ebbe la capacità di affermare con categorie
teologiche quello che le parole della politica faticavano a indicare come
senso comune. Non stupisce che tra i primi a condividere l’idea guida di
Rauschenbusch vi siano stati alcuni pastori afroamericani: tra i battisti,
L.K. Williams e Adam Clayton Powell, a capo della prestigiosa Abyssinian
Church di Harlem, a New York; James Walker Hood dell’African
Methodist Episcopal Zion Church e Reverdy C. Ransom, vescovo
dell’African Methodist Episcopal Church e responsabile di una grande
comunità di Chicago71. I testi di Ranson meriterebbero un’analisi molto
attenta perché mostrano alcune interessanti analogie con le parole e gli
scritti di Martin Luther King:
Mi potrete definire un sognatore – scrisse nel 1905 – quando vi dico che nella mia
visione le catene della razza e della classe si rompono per sempre. Vedo un’umanità con
braccia così lunghe che un fratello può prendere la mano del fratello dall’altra parte del
mare sino a che, in un cerchio che unisce il globo, ogni uomo sia unito al suo fratello in
un’amorevole stretta di mano lungo il mondo. Io vedo gli uomini di una nuova civiltà
gioire nel compimento dei nostri sogni dorati, riconoscendo un solo altare di famiglia,
quello dell’umanità; una sola fraternità, quella dell’essere umano; una sola paternità,
quella di Dio72.

Non è difficile ritrovare in queste parole il ritmo oratorio, la costruzione


retorica e alcuni contenuti della chiusura del famoso discorso di King del
1963, il famoso I have a dream: il tema del sogno, la visione profetica,
l’appello all’unità del genere umano e, per ultimo, il riferimento a Dio. Ma
non è l’unica assonanza. Colpisce anche il riferimento alla tradizione
americana e allo spirito dei Padri pellegrini che «presero il loro destino
nelle loro mani e presero la rotta che conduceva a queste coste»; all’ideale
che ispirò «i patrioti della Rivoluzione quando essi rifiutarono la tassazione
senza che ad essa corrispondesse una loro rappresentanza nelle sedi
politiche»; al manifest destiny73 dell’America e al fatto che essa si consideri
come una nazione sorta per volere di Dio «per stabilire e preservare alcuni
grandi principi», tra i quali «la libertà personale, il diritto individuale alla
libertà e il libero autogoverno stabilito su nessun altro fondamento che il
principio di cittadinanza del genere umano»74. Sono i grandi temi della
tradizione civile statunitense, che verranno richiamati anni dopo da King
per denunciare la grande contraddizione dell’America che aveva creato un
fossato tra i suoi solenni principi costituzionali e una loro applicazione
schizofrenicamente incoerente, al punto da escludere milioni di persone
dal principale dei diritti di cittadinanza: quello al voto.

Le associazioni storiche
Se le black churches costituirono il luogo primario della ricostruzione
identitaria dell’afroamericano e della sua cultura, attorno alle comunità di
fede erano nate le prime associazioni politiche tese a promuovere
l’emancipazione dei neri d’America. In alcune situazioni le due strutture –
quella religiosa e quella politica – erano praticamente coincidenti ed era
difficile dire dove finisse la prima e iniziasse la seconda.
L’organizzazione più importante e che meglio esprimeva questa sintesi
politico-religiosa fu la National Association for the Advancement of
Colored People (NAACP). Dopo una conferenza preparatoria svoltasi a
Niagara Falls, l’associazione venne costituita formalmente a New York il
12 febbraio del 1909, per volontà di un gruppo di bianchi e neri che
comprendeva W.E.B. Du Bois, l’intellettuale che a cavallo dei due secoli
contribuì al meglio a definire l’identità afroamericana, alcune donne, ebrei
e personalità eccentriche come William English Walling, un giornalista e
attivista bianco di orientamenti socialisti, la cui famiglia era stata
proprietaria di schiavi75.
Nei primi anni l’attività della NAACP si concentrò nelle cause legali
contro una serie di misure segregazioniste, rafforzate nel 1913 sotto la
presidenza di Woodrow Wilson. Negli anni della prima guerra mondiale
l’associazione ebbe un ruolo importante nel sostenere il diritto degli
afroamericani a combattere nell’esercito americano, ottenendo un risultato
giuridico e politico di grande importanza per il percorso di emancipazione
della popolazione di colore. Una importante svolta organizzativa arrivò nel
1916 con la nomina a segretario esecutivo di James Weldon Johnson:
scrittore, musicista, poeta e già ambasciatore del governo degli Stati Uniti
in Venezuela. Tra l’altro si devono a lui le parole di un canto, Lift Every
Voice and Sing, che per solennità e intensità è diventato una sorta di inno
nazionale della comunità afroamericana76.
In un paese in cui cresceva progressivamente il muro della segregazione
razziale, i figli della piccola borghesia nera composta da commercianti,
impiegati, professori e ministri di culto erano sicuramente privilegiati,
potendo contare, ad esempio, su un buon percorso di formazione scolastica
e in qualche caso accademica. D’altra parte, proprio perché la loro vita
sembrava scorrere lungo un binario parallelo ma secondario rispetto alla
società dei bianchi, con più acutezza percepivano la drammaticità e
l’ingiustizia del sistema sociale. La rassicurante formula politica era quella
della “separazione nell’uguaglianza”, codificata in una sentenza storica –
Plessy vs. Ferguson – che, di fatto, istituzionalizzò il sistema segregazionista
in tutti gli Stati. La sentenza fu pronunciata dalla Corte suprema nel 1896 e
per oltre cinquant’anni avrebbe pesantemente condizionato i rapporti
interrazziali.
La vicenda ebbe origine il 7 giugno 1892, quando Homer Plessy, un
produttore di scarpe francofono di origine creola residente in Louisiana,
salì su un treno della ferrovia della East Louisiana Railroad, sedendo in una
carrozza destinata ai soli bianchi. La sua carnagione sembrava bianca ma
qualche occhiuto e prevenuto controllore ebbe gioco facile nel fargli
ammettere che almeno uno dei suoi otto bisnonni era di colore – Plessy
era quindi un octoroon, nell’espressione del tempo – e che pertanto era
tenuto a sedere tra i “colored”. Fermato e incarcerato, Plessy querelò la
compagnia ferroviaria accusandola di avergli negato i diritti costituzionali
garantiti dal XIII e dal XIV emendamento77. Non ne ricavò nulla, perché il
giudice ritenne che la Louisiana aveva il diritto di regolare le compagnie
ferroviarie secondo suoi indiscutibili criteri. Plessy non si arrese e fece
ricorso, incassando però un’altra sconfitta. Deciso ad andare fino in fondo,
nel 1896, fece appello alla Corte suprema degli Stati Uniti che, a larga
maggioranza – sette voti a favore, uno solo contrario – respinse le accuse,
ritenendo che il passeggero non avesse subito alcuna discriminazione in
quanto il suo viaggio era stato garantito; che lo Stato della Louisiana,
pertanto, non avesse commesso alcun reato e che la sua legislazione non
violasse il XIV emendamento. Una sconfitta su tutti i fronti che sanciva la
compatibilità di segregazione e uguaglianza e, quel che è peggio, fissava
un’interpretazione della norma che non ammetteva flessibilità da parte di
chi era tenuto a farla rispettare. L’esercito faceva eccezione, ma scuole,
mezzi di trasporto, ospedali, bagni pubblici, panchine restavano segregati.
Al pari delle chiese che, come si è visto, avevano il non commendevole
primato di avere per prime alzato il muro della divisione tra bianchi e neri.
La NAACP, sorta con il convinto sostegno di tante black churches e di
molti dei loro leader, aveva il suo bacino più rilevante negli Stati del Sud, e
cioè nella classica Bible belt che parte dalla Virginia e si estende sino
all’Oklahoma, arrivando a tesserare nel 1944 circa 400.000 aderenti78. Ma
già all’inizio del Novecento il collasso strutturale dell’economia centrata
sulle grandi piantagioni del Sud e su un’ampia offerta di manodopera a
basso costo produceva i suoi effetti sul piano sociale. Iniziò in quegli anni,
infatti, quella “Grande migrazione” verso il Nord destinata a proseguire
nel tempo: si calcola che «negli anni ’40, 1.600.000 neri lasciarono il Sud,
seguiti da 1.500.000 negli anni ’50»79. In un certo senso la crisi di lungo
periodo seguita alla fine dello schiavismo trasferiva la questione “razziale”
dal Sud verso il Nord del Paese, aprendo nuovi scenari sociali e politici. Si
spiega in questo quadro la costituzione, nel 1911, della National Urban
League (NUL), che anche attraverso la sua rivista «Opportunity» svolse
un’importante funzione di orientamento, formazione e organizzazione
parasindacale dei neri trasferitisi al Nord. Soprattutto sotto la presidenza di
Whitney M. Young tra il 1961 e il 1971 i rapporti con la SCLC furono
sempre buoni, anche perché facilitati da una propensione di King a fare
rete con altre associazioni anche quando avevano una base sociale e un
orientamento diversi da quelli della sua organizzazione: «Noi – affermò nel
1960 nella convention che celebrava i cinquant’anni della NUL – dobbiamo
accettare l’altro come un partner necessario nella lotta complessa e ancora
avvincente per liberare il nero e così salvare l’anima dell’America»80.

We shall overcome
Un’originale istituzione che ebbe un ruolo decisivo nella formazione di
quadri del civil rights movement fu la Highlander Folk School, istituita nel
Tennessee nel 1932 per opera di tre giovani intellettuali bianchi: Myles
Horton, un convinto presbiteriano che aveva studiato teologia nel
prestigioso Union Theological Seminary di New York e che poi aveva
preferito darsi all’insegnamento; Don West, anch’egli educatore e
pedagogista; e James Dombroski, pastore metodista. Anima del gruppo fu
soprattutto Horton: entrato per diventare pastore, era uscito dallo Union
Theological Seminary piuttosto orientato verso le scienze sociali e in
particolare verso la pedagogia. Dopo un’esperienza di studio in Danimarca,
Horton si mise alla ricerca di una sede idonea ad aprire un luogo che fosse
“scuola popolare” da una parte e centro di azione sociale dall’altra. La
scuola si sarebbe rivolta sia ai farmers più poveri del Sud, sia ai lavoratori
dell’industria; sarebbe stata assolutamente desegregata, aperta alla
partecipazione di neri e di bianchi senza preclusioni o pregiudizi81. La sede
fu individuata sulle “montagne del Tennessee” – che in una prospettiva
italiana appaiono piuttosto modeste colline – e nel 1932 iniziarono i corsi.
In pochi anni, Highlander si accreditò come un centro specifico e originale
di formazione della coscienza della classe operaia negli anni successivi alla
Grande Depressione e quindi del New Deal rooseveltiano. Attivisti
sindacali, pastori del Social Gospel, militanti della NAACP e di altre
organizzazioni afroamericane, socialisti e persino comunisti si
incontrarono e si formarono in questa particolarissima scuola popolare.
Nel 1954, la sentenza che desegregava – almeno in teoria – il sistema
scolastico apriva anche per la Highlander Folk School una nuova fase: ora
si trattava di promuovere il rispetto della sentenza «il più rapidamente
possibile e con la minore violenza possibile». Si sviluppò quindi un nuovo
ciclo di corsi di formazione politica, ai quali parteciparono centinaia di
potenziali leader del movimento per la desegregazione, bianchi e neri. Tra
di essi anche una attivista della NAACP di Montgomery, Rosa Parks.
In quanto luogo di formazione, Highlander raccoglieva persone e
professionalità di ogni tipo, attori e musicisti del calibro di Pete Seeger.
Secondo varie fonti il 2 settembre del 1957, in occasione del
festeggiamento dei 25 anni dell’istituzione, fu proprio lui a prendere il
banjo e a intonare di fronte a King e agli altri partecipanti all’incontro il
canto We shall overcome, divenuto l’inno più popolare del civil rights
movement. Parole e melodia avevano una lunga storia. All’origine sembra
esserci un inno evangelico del primo Novecento intitolato I overcome
someday, scritto dal pastore metodista e compositore Charles Tindley.
Intorno al 1945, però, i musicisti gospel Atron Twigg e Kenneth Morris
riarrangiarono la musica e semplificarono il testo in modo che fosse più
facile da cantare in grandi gruppi e nel corso di manifestazioni pubbliche. E
in effetti tra il 1945 e il 1946 il canto fu utilizzato durante un lungo
sciopero contro la compagnia American Tobacco delle donne che
raccoglievano la materia prima a Charleston (South Carolina). In breve e
per motivi facilmente intuibili, il testo originario I will overcome si trasformò
nel più collettivo We shall overcome. Grazie a una delle scioperanti, Lucilla
Simmons, il canto arrivò a Highlander nel 1947, dove fu notato,
apprezzato e “passato” a Pete Seeger, che ne fece una hit, poi rilanciato da
Joan Baez. Secondo Myles Horton82, la strofa «We are not afraid» è
successiva perché fu creata nel corso di un’irruzione notturna della polizia a
Highlander e molti ragazzi, impauriti, dopo essersi rifugiati in un unico
locale, “inventarono” questa aggiunta che negli anni successivi, quelli delle
lotte e delle azioni dirette nonviolente, avrebbe avuto tanta importanza.
We shall overcome piacque a King, presente nel 1957 a Highlander. Diversi
testimoni ricordano che, nel viaggio di ritorno ad Atlanta, si ritrovò a
canticchiarlo in macchina. «In questo canto c’è qualcosa che ti afferra»,
disse ai suoi compagni83.
Altra associazione di riferimento per la comunità afroamericana fu il
Congress for Racial Equality (CORE), costituitosi a Chicago nel 1940 per
iniziativa di vari attivisti bianchi e neri, tra i quali James L. Farmer84: figlio
di un pastore e teologo metodista e cresciuto in una famiglia della buona
borghesia protestante afroamericana, di profonde convinzioni nonviolente,
collaborò con l’associazione di ispirazione cristiana Fellowship of
Reconciliation. Preferendo i metodi dell’azione diretta nonviolenta a
quelli dell’azione giudiziaria contro la discriminazione dei neri, il CORE
dichiarava la sua ispirazione gandhiana e la sua strategia di resistenza
nonviolenta e disobbedienza civile. L’obiettivo ambizioso di questo
piccolo ma coeso gruppo di persone era molto chiaro: “importare” negli
USA i metodi gandhiani sperimentati in India per promuovere la causa
dell’emancipazione della comunità afroamericana.
Ai fini del nostro racconto biografico, è importante citare almeno un’altra
associazione che ebbe un ruolo rilevante almeno nella prima fase del civil
rights movement: la Brotherhood of Sleeping Car Porters (BSCP), un
organismo sindacale dei lavoratori delle cuccette ferroviarie cresciuto a
partire dal 1925 sotto la guida di Asa Philip Randolph. Era il primo
sindacato nato e gestito da neri e organizzava lavoratori rispettati perché
svolgevano un lavoro dignitoso, stabile e in un settore strategico come
quello della grande mobilità.
Questo tessuto organizzativo – composto da chiese, sindacati,
organizzazioni ecumeniche, semplici associazioni locali – costituiva la rete
di autoprotezione della comunità nera e gestiva una sorta di welfare
comunitario, di primaria importanza sul piano sia economico che
culturale. Dava molta visibilità e autorevolezza pubblica a una comunità
altrimenti marginale e socialmente non rilevante.
La famiglia King si inseriva perfettamente in questo quadro sociale. Ben
radicata nella città di Atlanta, apparteneva a una piccola borghesia
economicamente non proprio agiata, ma comunque stimata e ben
considerata. Il padre – confidenzialmente Daddy King – non poteva
vantare grandi studi, ma la sua personalità e una convinta fede evangelica
gli avevano aperto le porte del servizio pastorale in alcune chiese battiste
della città. Nel 1926 si era sposato con Alberta Williams, posata figlia di un
pastore di una certa notorietà che predicava nella Ebenezer Church; scelta
felice, ma anche fortunata, perché nel 1931, morto il suocero, Daddy King
“ereditò” la cura di una bella chiesa di mattoni rossi sulla ricca Auburn
Avenue di Atlanta, nota in tutta la città anche per essere la sede della
sezione locale della NAACP. In una fase di crescita della chiesa, King Sr.
divenne il pastore di colore “meglio pagato della città” e, soprattutto, gli fu
data la possibilità di partecipare a importanti missioni all’estero. Il 15
gennaio del 1929, intanto, gli era nato il primo figlio al quale, insieme alla
moglie Alberta, aveva posto il suo stesso nome, Michael. Ma quando il
ragazzino aveva già 5 anni, il reverendo King Sr. fu invitato a partecipare a
una visita ecumenica in Germania al ritorno dalla quale, affascinato dalla
tradizione luterana di cui aveva percepito la grandezza teologica e culturale,
decise di cambiare il proprio nome e di riflesso quello del primogenito in
Martin Luther. Non sappiamo come la prese il diretto interessato, ma
diversi frequentatori della famiglia King concordano che, almeno per i
primi anni, King Jr. continuò a farsi chiamare Mike o – più
schematicamente – ML85.
Comunque si chiamasse, gli anni dell’infanzia coincisero con la Grande
Depressione, i cui effetti si dovevano percepire anche nelle stanze protette
della Ebenezer Church e dell’appartamento della famiglia pastorale. Come
tanti suoi colleghi neri, il padre aveva aderito al Social Gospel e alla
domenica, dopo aver martellato dal pulpito sui temi della giustizia sociale e
razziale, smessa la toga pastorale presiedeva la riunione della NAACP86.
Tuttavia Jim Crow continuava ad avvelenare le acque della convivenza:
uno status sociale più elevato non era in alcun modo sufficiente a
proteggere la borghesia nera dalla durezza delle leggi della segregazione.
Alcune biografie riportano episodi probabilmente veri perché confermati
dallo stesso King ma chiaramente enfatizzati in ragione di quello che King
sarebbe diventato da adulto. L’etichetta del tempo imponeva al nero che si
rivolgeva al bianco un linguaggio riverente costellato di “Yes Sir”, “No
Sir”, “Forgive me Ma’am”, “Excuse me Sir”. Al contrario, il bianco
poteva tranquillamente rivolgersi al nero con un secco “Boy”. Si racconta
che una volta Daddy King fu fermato da un poliziotto che gli intimò:
«Ragazzo, mostrami la patente». «Ma non vedi che c’è un bambino qui?»,
replicò polemico, indicando il figlio seduto a lato. «Quello è un ragazzo –
continuò – mentre io sono un uomo. Io sono il reverendo King». Superato
l’incidente Daddy King spiegò al figlio: «Vedi, io non mi preoccupo di
quanto tempo ancora devo vivere in questo sistema. Ma non lo accetterò
mai e lo combatterò finché vivrò»87.
Fa il paio con questo un altro aneddoto riportato in varie biografie che
racconta dei due King, padre e figlio neanche adolescente, che entrarono
in un negozio di scarpe di Atlanta e si sedettero su due sedie in prossimità
della porta. «Sapete che non potete sedere qui», inveì il commesso. Martin
Jr. si sentì a disagio. Abbassò gli occhi e si mise a giocherellare con le dita.
«Non c’è niente di male in questi sedili», replicò il padre. «È una regola. La
gente di colore siede nel retro del negozio». «E noi compriamo le scarpe
seduti qui – reagì ancora Daddy King –, o non le compreremo affatto». E
così prese Martin per mano e se ne andarono88. In questa carrellata si
inserisce un terzo aneddoto, che in questo caso coinvolge King Jr. e sua
mamma Alberta, che giunsero in prossimità di un ascensore ma poi presero
le scale. Ovvia la domanda del bambino: «Ma perché non prendiamo
l’ascensore?». «Questi ascensori sono per bianchi – fu la prevedibile risposta
–. Qui noi dobbiamo salire a piedi»89.
Piccoli traumi psicologici, certamente, incomparabili però con la
situazione disperata e disgraziata di altri ragazzi neri i cui genitori, non
sapendo che fare e dove andare, erano rimasti a vivere nelle vecchie
casupole degli schiavi delle piantagioni o si erano ritrovati, spaesati e privi
di reti di protezione, nei quartieri ghetto del Nord degli USA. A confronto
delle pagine che nella sua autobiografia Malcolm X dedica alla sua infanzia,
la condizione sociale di Martin Luther King Jr. appare quella di un
privilegiato, protetto da una solida rete familiare, dal riconoscimento
pubblico del padre e dalla collocazione sociale dell’intera famiglia.
La collocazione nella middle class nera non distrasse King dai temi pubblici
più scottanti, anzi nell’ambiente protetto della famiglia e della Ebenezer
Church trovò gli stimoli e gli strumenti per affinare una sua specifica
sensibilità rispetto ai temi della “razza”. Ancora dopo la seconda guerra
mondiale si registravano attentati esplicitamente razzisti, che però venivano
spesso derubricati a conseguenza di contenziosi e litigi personali. Nel
1946, a pochi giorni di distanza, in Georgia ci furono ben tre attentati di
matrice razzista. Nel primo, il 18 luglio, era morto Maceo Snipes, figura
importante della comunità nera perché veterano di guerra e unico
cittadino di colore riuscito ad iscriversi nelle liste elettorali della sua contea.
Fu ucciso il giorno dopo aver esercitato il suo diritto al voto, colpito da un
gruppo di quattro attivisti dal Ku Klux Klan, che arrivarono a casa sua su
un pick up e lo fecero uscire nel cortile di casa dove uno del gruppo –
come Snipes veterano di guerra – gli sparò alle spalle90. La vittima
designata, però, non morì subito ma in ospedale, in attesa di una
trasfusione di sangue mai arrivata perché mancava il black blood, il sangue
“dei neri”. Le ferree logiche della segregazione valevano anche per le
sacche di plasma. Le altre vittime erano due anonime coppie di colore della
città, scelte probabilmente proprio per la loro assoluta normalità. In un
clima difficile e teso, il diciassettenne Martin decise di scrivere una lettera
all’«Atlanta Constitution» il cui testo ha un valore simbolico perché,
compiti scolastici a parte, fu il suo primo testo pubblico:
Noi vogliamo ed abbiamo titolo ai diritti e alle opportunità fondamentali dei cittadini
americani. Il diritto di guadagnare con un lavoro per il quale siamo tagliati, grazie alla
nostra formazione e alla nostra abilità; uguali opportunità nell’educazione, nella salute,
nel divertimento e negli altri servizi pubblici; il diritto di voto; l’uguaglianza di fronte
alla legge; alcune delle stesse cortesie e buone maniere con le quali noi contribuiamo alle
relazioni umane91.

Poche righe firmate da un diciassettenne su un giornale locale (sia pur


ben scritte) non sono un fatto eclatante, eppure non vanno sottovalutate.
O, meglio, vanno contestualizzate in un dibattito pubblico polarizzato da
un’opera chiave pubblicata nel 1944, The American Dilemma. The Negro
Problem and Modern Democracy, dell’economista svedese (poi Premio Nobel)
Gunnar Myrdal. Il dilemma era la polarizzazione tra la crescita economica
e sociale degli USA e la condizione di subalternità e segregazione di una
quota rilevante della popolazione. Una contraddizione difficilmente
sostenibile nel quadro di una moderna democrazia e quindi naturalmente
destinata ad esplodere. Progetti di incontro e scambio interculturale –
riteneva Myrdal – e affirmative actions avrebbero potuto accelerare il
raggiungimento di questo nuovo ordine ed evitare scontri violenti. L’intera
opera di Myrdal era pervasa da un fiducioso ottimismo sugli effetti di quel
“credo americano” che era all’origine del melting pot di gruppi etnici,
culture, religioni. La convinzione dell’economista svedese era che questo
“credo civile” fosse condiviso da tutti – bianchi e neri, ricchi e poveri,
donne e uomini, cittadini ed immigrati – e costituisse la premessa per
guardare con fiducia al futuro delle relazioni interrazziali negli USA.
Come? Quando? A quale prezzo? Domande senza risposta che però, negli
anni in cui King completava gli studi superiori, risuonavano nella sua
mente di giovane afroamericano bene informato e pronto nell’esporre il
suo punto di vista.

La formazione
Evidentemente portato per gli studi accademici, King Jr. si iscrisse al
Morehouse College, una prestigiosa istituzione formativa della borghesia
nera di Atlanta che nel 1940 si arricchiva della presenza di un nuovo
presidente, Benjamin Mays, personalità già nota a livello nazionale sia per il
suo impegno nella NAACP che per la convinta adesione alla corrente
teologica del Social Gospel. Il nuovo presidente assumeva il suo incarico a
pochi mesi da un’esperienza di eccezionale importanza per un intellettuale
afroamericano di quegli anni: un viaggio in India nel quale aveva avuto
modo di conversare con il Mahatma Gandhi, circostanza che
indubbiamente contribuì ad accrescere l’autorevolezza del personaggio e la
curiosità attorno ai suoi indirizzi formativi e pedagogici. Grazie agli
appunti di quell’incontro disponiamo anche di un interessante frammento
della conversazione tra i due. Mays chiese l’opinione del Mahatma sul
sistema delle caste in India e ottenne una risposta che probabilmente lo
deluse: «coloro che hanno la pelle più scura non sono intrinsecamente
intoccabili, e tuttavia il sistema delle caste è una “necessaria ingiustizia
economica”»92.
Mays ebbe un ruolo di primo piano nella formazione di King, che in
varie occasioni lo riconobbe come suo principale mentore, al punto di
promettergli di pronunciare, a tempo debito, il discorso ufficiale di
commemorazione al suo funerale. Le cose andarono diversamente, e fu
invece il settantenne Mays a predicare in occasione del funerale del
trentanovenne Martin Luther King, il 9 aprile del 1968.
Conclusi gli studi al Morehouse College, la tappa successiva fu il Crozer
Theological Seminary, in Pennsylvania: non era una scelta scontata, dal
momento che il giovane, pur appassionato di teologia e radicato in una
comunità di fede, non aveva esplicitato la sua intenzione di dedicarsi al
pastorato. D’altra parte, il seminary apriva le porte anche ai corsi di
dottorato e quindi, ipoteticamente, alla carriera accademica. Crozer fu il
luogo di una maturazione teologica dovuta, soprattutto, all’incontro con la
scuola teologica neo-ortodossa avviata da Reinhold Niebuhr. Il suo
volume più importante e destinato a lasciare una traccia importante anche
nella formazione di King fu Moral Man and Immoral Society, pubblicato nel
1932. Niebuhr era nettamente critico nei confronti del positivismo liberale
che affidava a una imprecisata idea di progresso il compito di risolvere le
grandi sfide sociali di quel tempo. Ma egli ne aveva anche per il Social
Gospel, che con la sua volitiva predisposizione all’azione per la giustizia
finiva per mettere tra parentesi il peso del peccato che segna ogni azione
umana, anche quella meglio orientata verso i valori evangelici. Escludendo
il peccato dall’orizzonte dell’azione per la giustizia – riteneva – si fanno
promesse che non possono essere mantenute e si concepiscono sogni
destinati a svanire. L’intuizione della crisi dei regimi socialisti era già
presente nelle considerazioni di questo teologo dello Union Theological
Seminary di New York, che la leggeva anche in chiave teologica.
In piena coerenza con la tradizione protestante e il suo “pessimismo”
sulla natura umana, Niebuhr tornava sul tema del peccato e sul fatto che
l’uomo moderno avesse «perso confidenza nelle forze morali», ovvero in
quello spazio di giustizia che combina «amore e politica, spiritualità e
realismo». Moralità, allora, era un compromesso tra religione e politica,
reso necessario dallo specifico carattere della «società immorale»93.
È ovvio che, predicando un Vangelo vissuto nella lotta per la giustizia, il
Social Gospel avesse una facile presa emotiva nell’ambito di una comunità
sfruttata e segregata. D’altra parte la teologia neo-ortodossa di Niebuhr
richiamava temi teologici saldamente radicati nella tradizione propria della
Riforma protestante. Il giovane King, entrato in un seminario teologico di
alto livello, doveva misurarsi con questo dibattito, che nell’America di
quegli anni risultava senz’altro meno astratto e “ideologico” di quanto non
appaia oggi.
Il giovane King era entrato a Crozer con una forte passione civile che lo
indirizzava naturalmente verso la teologia del Social Gospel e, almeno
all’inizio dei suoi studi, faticava a comprendere le argomentazioni di
teologi come Niebuhr. Col tempo capì che, seppure in un linguaggio
meno militante, anche Niebuhr poneva il problema di una conversione
morale dell’America. E così, con l’apertura intellettuale propria di ogni
persona intelligente, cominciò a “pendolare” tra le due personalità della
teologia americana di quegli anni, ponendosi a metà strada tra la
concretezza dell’azione suggerita dal Social Gospel e la forza teologica della
critica nieburhiana allo status quo. Potremmo quasi concludere che King
fu dalla parte di Rauschenbusch con il cuore e da quella di Niebuhr con il
cervello94. Su un punto – e non di poco conto – King prenderà le distanze
da quest’ultimo: la teoria nonviolenta e il pacifismo che, in una fase matura
del suo pensiero ed a seguito dell’ascesa al potere del nazismo, Niebuhr
rigettò con fermezza95. «Il vero pacifismo – ribatteva King al famoso
teologo – non è un’irrealistica sottomissione al male, come sostiene
Niebuhr. È piuttosto una coraggiosa opposizione al male del potere del
bene, nella fiducia che sia meglio essere vittima che artefice della violenza,
poiché il secondo non fa che moltiplicare l’esistenza della violenza e
dell’amarezza nell’universo». A conclusione del percorso ordinario a
Crozer, Martin vinse una borsa di studio per un dottorato per il quale
scelse la sede di Boston. In sintesi, quella di King fu una formazione
accademica di alto livello, nettamente al di sopra di quella della media dei
suoi colleghi afroamericani e del tutto analoga a quella dei più colti pastori
bianchi. Era il frutto della sua origine borghese, certamente, e del
privilegio concesso al figlio di uno stimato preacher battista del Sud. Ma lui
ci mise del suo, con la sua curiosità intellettuale e una vivacità di pensiero
che lo indusse a letture del tutto peculiari per uno studente di teologia
nero degli anni ’50: i classici greci, ma anche Kant, Hegel e Nietzsche; la
teologia europea di Barth e Tillich, i testi di Martin Buber e il pensiero
sociologico americano, Gandhi e ovviamente la migliore teologia
americana di quegli anni96.
Entrato all’Università di Boston nel 1951, l’anno dopo Martin incontrò
Coretta Scott: come disse ai suoi, la ragazza aveva «carattere, intelligenza,
personalità e bellezza»97. Veniva da una famiglia metodista di commercianti
della piccola borghesia commerciale dell’Alabama, ed era finita a Boston
per accedere, grazie a una borsa di studio, al Conservatorio. Nonostante la
famiglia non potesse dirsi povera, per mantenersi agli studi aveva bisogno
di qualche lavoretto, che trovò agevolmente. Fu una sua amica che aveva
sposato il nipote di Benjamin Mays, come si ricorderà mentore di King al
Morehouse College, a parlarle di un giovane brillante che le aveva
candidamente confessato: «Qui [a Boston] ho incontrato decisamente
poche ragazze e nessuna di cui mi sia invaghito. Non è che conosci
qualche ragazza bella e attraente?»98.
Coretta era briosa e vivace e nella sua biografia, per quanto affidata alla
scrittura di sapienti editor, emerge l’ironia di un’aspettativa diversa, lontana
da pastori a rischio di fondamentalismo, tanto più se battisti: sia perché era
cresciuta in una famiglia metodista99, sia perché si identificava «con una
chiesa o una religione che fosse più liberale di quella nella quale era
cresciuta» e in questa ricerca religiosa sembrava intenzionata a studiare «i
quaccheri e gli unitariani»100.
Grazie alla mediazione dell’amica, l’incontro con il “reverendo” King
arrivò presto, e tutte le ubbie teologiche di Coretta sembrarono
improvvisamente evaporare di fronte al fascino del personaggio,
probabilmente perfetto ai suoi occhi di giovane donna pronta a
innamorarsi, se non le fosse apparso «un po’ basso»101. Difetto lieve e
trascurabile, perché qualche giorno dopo erano fidanzati e nel 1953
arrivarono le nozze mentre Martin, a dottorato ancora non concluso,
cercava un posto di lavoro. Come ogni padre, Daddy King aveva attivato i
suoi numerosi contatti perché il figlio trovasse lavoro ad Atlanta, magari un
part time da integrare con una posizione di co-pastore nella Ebenezer
Church102. Ma, come molti figli, King preferì invece allontanarsi dalla casa
paterna e dall’ambiente di Atlanta accettando di candidarsi nella Dexter
Avenue Baptist Church di Montgomery, in Alabama. Le chiese battiste
nelle quali King era cresciuto, in omaggio al loro congregazionalismo – la
centralità della chiesa locale dotata di un ampio potere decisionale –
eleggevano il proprio pastore, scegliendo tra una rosa di candidati o
semplicemente “approvandolo” con un voto assembleare. La Dexter
Avenue Church votò il 24 gennaio del 1954, approvando all’unanimità la
nomina di un pastore giovane, brillante e con un cognome noto e
rispettato, ma di cui nessuno poteva conoscere le intenzioni e i programmi
di vita. Comunicato a Coretta e al padre l’esito della votazione, le reazioni
non furono di entusiasmo. Daddy King sperava di tenere il figlio sotto la
sua ala protettrice; la giovane moglie cresciuta al Sud, che finalmente aveva
respirato l’aria fresca di Boston e vissuto in un ambiente meno segnato
dalla segregazione, temeva di tornare in un mondo dal quale si stava
felicemente emancipando103. Fu il primo braccio di ferro, vinto da Martin
come molti degli altri che seguirono.
Quattro mesi dopo, il 17 maggio, la Corte suprema votava la famosa
sentenza Brown vs. Board of Education che ribaltava il precedente schema
giuridico separate but equal e, almeno sul piano formale, stabiliva il principio
dell’integrazione scolastica. Meno di quattro mesi dopo, Martin viaggiava
nella Chevrolet regalatagli dal padre verso Montgomery, in Alabama, lo
Stato dove Jim Crow resisteva con più vigore, energie e spietatezza.
53 In questo capitolo abbiamo ripreso stralci della nostra precedente pubblicazione
Come una città sulla collina, cit., in particolare pp. 82-85 e, per il paragrafo sul Social
Gospel, pp. 73-79.
54 Era una dottrina giuridica che pur nel richiamo formale al XIV emendamento
della Costituzione, che garantiva uguale tutela dei diritti a tutti i cittadini,
legittimò la segregazione razziale. La segregazione fu ulteriormente rafforzata dalla
sentenza del 1896 che concluse il processo Plessy vs. Ferguson. Almeno sul piano
giudiziario, la svolta si ebbe solo nel 1954, quando nel processo Brown vs. Board
of Education la Corte suprema dichiarò incostituzionale la segregazione e privò di
ogni fondamento giuridico la formula “separati ma uguali”.
55 Ella J. Baker, intervista a cura di John Britton, 19 giugno 1968, Ralph J.
Bunche Oral History Collection, Howard University, Moorland-Spingarn
Research Center, Washington DC.
56 W.E.B. Du Bois, The Souls of Black Folk (1903), Fawcett World Library, New
York 1981, p. 142 (trad. it., Le anime del popolo nero, Le Lettere, Firenze 2007); cfr.
anche Barbara D. Savage, W.E.B. Du Bois and “The Negro Church”, in «The
Annals of the American Academy of Political and Social Science», vol. 568, marzo
2000, pp. 235-249.
57 A questa segregazione eucaristica si aggiungeva una predicazione che, quando si
rivolgeva agli schiavi, li esortava alla benevolenza e all’umiltà nei confronti del loro
padrone: «Dio mi premierà – si legge in un catechismo razzista a beneficio degli
schiavi –. E io ho davvero buone ragioni per essere contento e grato: e qualche
volta penso a come sarei se fossi libero e ricco e grande; allora sarei forse tentato di
servire me stesso più che il Signore [...]. Ma io sono qui a servire Dio, nella
situazione in cui egli mi ha posto. E sono qui per fare quello che il padrone mi
ordina», Slaveholder Attending Slave Service, Schomburg Center for Research in
Black Culture, The New York Public Library.
58 La storia dello sviluppo delle innumerevoli denominazioni protestanti degli
USA, in Sydney E. Ahlstrom, A Religious History of the American People, Yale
University Press, New Haven 2004; informazioni più schematiche in Craig D.
Atwood, Frank S. Mead, Samuel S. Hill, Handbook of Denominations in the United
States, Abingdon Press, Nashville 2005.
59 Savage, W.E.B. Du Bois and “The Negro Church”, cit.
60 Booker T. Washington, The Story of the Negro, Doubleday, New York 1909,
vol. I, p. 278.
61 Franklin G. Frazier, The Negro Church in America, Shocken Books, New York
1974, p. 70.
62 W.E.B. Du Bois (a cura di), The Negro Church, The Atlanta University Press,
Atlanta 1903, p. ii.
63 Benjamin E. Mays, Joseph W. Nicholson, The Negro’s Church (1933), Arno
Press, New York 1999.
64 Du Bois (a cura di), The Negro Church, cit., p. 190.
65 Frazier, The Negro Church in America, cit.
66 Charshee C. Lawrence-McIntyre, The Double Meaning of the Spirituals, in
«Journal of Black Studies», giugno 1987, p. 384; James H. Cone, Spirituals and the
Blues: An Interpretation, Orbis Books, Maryknoll 200410, p. 16. Cfr. anche Naso,
Come una città sulla collina, cit., pp. 66 sgg.
67 Joseph Washington, How Black is Black Religion?, in James J. Gardiner et al. (a
cura di), Quest for a Black Theology, Pilgrim Press, Philadelphia 1971, p. 18.
68 Melvyn Dubofsky, Joseph A. McCartin, Labor in America: A History, Wiley-
Blackwell, Chichester 2017.
69 Walter Rauschenbusch, Christianity and the Social Crisis (1907), HarperCollins,
New York 2007, pp. 3, 6.
70 Il riferimento è a un versetto del Vangelo di Matteo: «Voi siete la luce del
mondo; una città posta sopra una collina non può rimanere nascosta» (Matteo
5:14), al centro di un celebre sermone del 1630 di uno dei personaggi
politicamente e teologicamente più rappresentativi dell’America puritana e
coloniale, John Winthrop. Il riferimento all’America “come una città sulla
collina”, destinataria delle benedizioni divine e per questo carica di responsabilità
verso il mondo intero, è una formula retorica che, dopo aver ispirato il cosiddetto
“eccezionalismo americano”, arriva sino a noi e ricorre nel dibattito culturale e
politico attuale, cfr. Naso, Come una città sulla collina, cit.
71 A suo avviso il Social Gospel non era «il prodotto di una sofisticata fabbrica della
fantasia; non è un’evasione, non è un condensato o una scorciatoia per la
realizzazione di Cristo e della vita cristiana nella vita della gente. È un
insegnamento, un materno servizio di nutrimento; è cercare, attraverso specifiche
attività di servizio, di livellare le disuguaglianze e di colmare la distanza tra ricchi e
poveri, tra istruiti e ignoranti, tra virtuosi e depravati, tra indolenti e industriosi,
tra volgari e raffinati; è cercare di portare persone di tutte le età e di tutte le classi
della nostra comunità a contribuire al bene comune», Reverdy C. Ransom, The
Institutional Church, in Id., Making the Gospel Plain: The Writings of Bishop Reverdy
C. Ransom, a cura di Anthony B. Pinn, Trinity Press International, Harrisburg,
Pennsylvania, 1999, p. 128.
72 Anne H. Pinn, Anthony B. Pinn, Fortress Introduction to Black Church History,
Fortress Press, Minneapolis 2002, p. 155.
73 L’espressione nacque nel contesto dell’espansione degli USA verso Ovest nella
prima metà dell’Ottocento e intendeva dare una connotazione spirituale
all’acquisizione di nuovi territori che così si inscriveva nel quadro di una
benedizione della Provvidenza. La storia e soprattutto gli sviluppi politici più
recenti di questa formula in Anders Stephanson, Destino manifesto. L’espansionismo
americano e l’impero del Bene, Feltrinelli, Milano 2004.
74 Ibidem.
75 Cfr. Berry Craig, William English Walling: Kentucky’s Unknown Civil Rights
Hero, in «The Register of the Kentucky Historical Society», vol. 96, n. 4, autunno
1998, pp. 351-376.
76 La musica va invece attribuita al fratello John Rosamund: cfr. Timothy James,
The Story of the Black National Anthem, “Lift Ev’ry Voice and Sing”, written by James
Weldon Johnson, in «Selah», n. 1, 2013.
77 Il XIII emendamento, approvato nel 1865, vietava la schiavitù; il XIV,
proposto nel 1866 e ratificato nel 1868, ha come tema centrale la tutela degli ex
schiavi e, più in particolare, il loro diritto a un giusto processo e a una clausola di
uguale protezione in tutti gli Stati. La sentenza del 1954 della Corte suprema in
riferimento al processo Brown vs. Board of Education ebbe come principale base
giuridica proprio il XIV emendamento. La sentenza avrebbe dovuto segnare la fine
del sistema di segregazione scolastica.
78 Venturini, Con gli occhi fissi alla meta, cit., p. 29.
79 Ivi, p. 75.
80 TPMLK, vol. V, p. 507.
81 John Glen, Highlander: No Ordinary School, University of Tennessee Press,
Knoxville 1996, p. 18.
82 Dale Jacobs (a cura di), The Myles Horton Reader. Education for Social Change,
University of Tennessee Press, Knoxville 2003, p. 40.
83 We Shall Overcome. The Story Behind the Song, sul sito del Kennedy Center,
https://www.kennedy-center.org/education/resources-for-educators/classroom-
resources/media-and-interactives/media/music/story-behind-the-song/the-story-
behind-the-song/we-shall-overcome/ (consultato il 20 aprile 2020).
84 James L. Farmer, Lay Bare the Heart. An Autobiography of the Civil Rights
Movement, Arbor House, New York 1995.
85 Martin Luther King, The Autobiography of Martin Luther King, Jr., a cura di
Clayborne Carson, Grand Central Publishing, New York 20012, pp. 25-26 (trad.
it., «I have a dream». L’autobiografia del profeta dell’uguaglianza, Mondadori, Milano
2000).
86 Martin Luther King, Sr., Daddy King, Beacon Press, Boston 1980, p. xii.
87 Stephen B. Oates, Let the Trumpet Sound: A Life of Martin Luther King (1982),
HarperCollins, New York 1994, pp. 10-12.
88 Jean Dearby, Martin Luther King, Lerner Publications, Minneapolis 1990, p. 11.
89 Ibidem.
90 Erica Sterling, A Man whose Death Inspired the Teenager who Led the Movement,
The Georgia Civil Rights. Cold Cases Project at Emory University,
https://coldcases.emory.edu/maceo-snipes/#f6 (consultato il 20 gennaio 2019).
91 TPMLK, vol. I, articolo del 6 agosto 1946.
92 John Herbert Roper, The Magnificent Mays: A Biography of Benjamin Elijah
Mays, The University of South Carolina Press, Columbia 2000, p. 196.
93 Reinhold Niebuhr, Moral Man and Immoral Society; A Study in Ethics and Politics
(1932), Westminster John Knox Press, Louisville 2001 (trad. it., Uomo morale e
società immorale, Jaca Book, Milano 2018).
94 Per un inquadramento del dibattito teologico di quegli anni e delle relazioni tra
Rauschenbusch e Niebuhr, rimandiamo a Fulvio Ferrario, La teologia del Novecento,
Carocci, Roma 2011, p. 228. Cfr. anche Massimo Rubboli, Reinhold Niebuhr e il
suo tempo (1892-1971), FrancoAngeli, Milano 1986.
95 Martin Luther King, Stride Toward Freedom, Harper and Brothers, New York
1958, p. 98.
96 Cfr. John J. Ansbro, Martin Luther King, Jr.: The Making of a Mind, Orbis Book,
New York 1985.
97 Peter Ling, Martin Luther King, Jr., Routledge, New York 2015, p. 25.
98 Coretta King, My Life with Martin Luther King, Jr., cit., p. 53.
99 Molto divertente, perché emblematica di un tempo nel quale le convinzioni
teologiche avevano un peso decisivo nella vita delle persone, la descrizione del
dissenso tra metodisti e battisti sulla questione, dirimente, del battesimo: «Ricordo
mia madre e mio padre discutere con degli amici battisti se per essere salvati
bisognasse davvero immergersi nell’acqua. Io pensavo che non sarei mai diventata
battista se fosse stato necessario essere battezzati per immersione», ivi, p. 52.
100 Ivi, p. 53. Se i quaccheri rappresentano una componente radicale della
Riforma, caratterizzata per la sua impostazione nonviolenta e pacifista, rifiutando il
dogma della Trinità, gli unitariani – ai quali negli USA aderirono personalità come
il filosofo Ralph Waldo Emerson – rappresentavano invece un cristianesimo
teologicamente borderline, universalista e distante dall’ortodossia dogmatica del
protestantesimo in cui Coretta era cresciuta.
101 Ivi, p. 54.
102 Garrow, Bearing the Cross, cit., p. 48.
103 Coretta King, My Life with Martin Luther King, Jr., cit., p. 96.
III.
Montgomery, la scuola di un leader

Ho pregato per vent’anni ma non ho mai avuto risposta.


Finché non ho iniziato a pregare con le mie gambe.
Frederick Douglass

Il pastore poco più che venticinquenne partito da Boston con un dottorato


ancora da concludere arrivò a Montgomery a fine ottobre del 1954 con
idee molto chiare: come risulta dai suoi appunti di lavoro, le sue priorità
erano stabilire l’autorità pastorale sulla leadership laica da una parte, e
rinvigorire la dinamica comunitaria dall’altra. Per questo intendeva puntare
molto sui giovani e su una comunicazione molto diretta che lasciasse pochi
dubbi sulla sua determinazione. Già poche settimane dopo il suo arrivo
rese pubblico il suo piano: «rendere chiaro e cristallino che l’autorità del
pastore non è conferita soltanto sul piano umano, ma è riconosciuta anche
su quello divino [...] la leadership non sale mai dalle panche al pulpito ma
invariabilmente discende dal pulpito verso le panche». In questa
prospettiva, aggiunse, «il pastore deve essere rispettato e accettato come
una figura centrale attorno alla quale ruotano le politiche e i programmi
della chiesa». Ma dopo aver chiarito i ruoli – secondo uno schema
ecclesiologico oggi probabilmente meno condiviso che in passato – King
affermò chiaramente che la comunità doveva dotarsi di un nuovo comitato
per l’azione politica. «Questo comitato – precisò – manterrà viva di fronte
alla comunità l’attenzione nei confronti della NAACP e i suoi membri
dovrebbero unirsi in gran numero a questa grande organizzazione [...]
Ogni membro di Dexter deve essere registrato al voto»104. In realtà,
intenzioni programmatiche a parte, le cose a Dexter andarono come erano
sempre andate e King riuscì a stabilire un buon rapporto con la sua
comunità. Ne fu testimone il collega “anziano” Ralph Abernathy, a cui
King confessò che il lavoro presso la comunità di Dexter Avenue costituiva
«il più grande evangelo sociale (social gospel) e il più grande programma
d’azione che egli avesse mai vissuto»105. La sua rete di rapporti
comprendeva, oltre alle chiese nere della città, la NAACP e il gruppo
locale dell’Alabama Council of Human Relations, una delle poche
organizzazioni integrate di Montgomery.
Il 2 marzo del 1955 una notizia scoppiò fragorosa a rompere la calma
pigra e rassegnata della cittadina dell’Alabama: l’arresto di una ragazza di
colore di quindici anni, Claudette Colvin, che si era rifiutata di cedere il
posto sull’autobus a un passeggero bianco. La questione era controversa
perché, soprattutto alla luce della sentenza del 1954 Brown vs. Board of
Education, il sistema della segregazione sembrava mostrare qualche crepa e
le astruse norme sulla divisione dei posti a sedere sugli autobus apparivano
il relitto di un tempo antico e destinato a finire. A Montgomery la
segregazione dell’autobus avveniva secondo un preciso rituale che aveva
almeno tre soggetti: viaggiatori bianchi, viaggiatori di colore e autista. La
regola di base era che i dieci posti della sezione anteriore fossero riservati ai
bianchi, i dieci della sezione posteriore, quella più calda perché in
prossimità del motore, ai neri. Anche se vuoto, nessun viaggiatore colored
poteva occupare il santuario del potere bianco. Vi era poi una sezione
centrale di sedici posti che i neri potevano occupare, ma solo fino a quando
un bianco non ne avesse reclamato uno. Quando accadeva, in automatico e
senza che nessuno glielo dovesse chiedere, era tenuto ad alzarsi. E doveva
farlo insieme all’altro colored che gli sedeva a fianco, perché non era
pensabile che due persone di “razze” diverse sedessero l’una accanto
all’altra. Ma non è tutto. Il passeggero che saliva doveva entrare dalla
sezione anteriore, pagare o mostrare il biglietto per poi scendere e salire
nella sezione posteriore, non importa se avesse borse o bambini da tenere
per mano106. L’autista era una sorta di arbitro della partita, garante e
vigilante sul fatto che la liturgia della segregazione fosse pienamente
rispettata senza disordini ed eccezioni.
Il 2 marzo del 1955 le cose non andarono secondo la procedura. Una
ragazzina di colore di quindici anni iscritta alla sezione giovanile della
NAACP sentì come intollerabile l’obbligo ad alzarsi per fare posto a un
bianco salito sull’autobus dopo di lei e con un biglietto identico a quello
che lei aveva acquistato. Claudette Colvin, alla quale era stato ordinato di
scendere dall’autobus, non solo non lo fece, ma iniziò a gridare il suo
“diritto costituzionale” a restare al suo posto. L’episodio degenerò con
l’arrivo della polizia alla quale Claudette oppose resistenza, cosa che
complicò maledettamente le cose. I disciplinati leader della NAACP e
delle associazioni collaterali di Montgomery cercavano un caso legale in
forza del quale promuovere una campagna d’opinione, ma sulla povera
ragazzina ora pendeva un’indagine che non si limitava alla violazione delle
norme sulla segregazione ma comprendeva anche l’accusa assai più pesante
di resistenza a pubblico ufficiale. La NAACP mise in moto comunque la
sua macchina organizzativa e un’altra stimata attivista dell’organizzazione,
Rosa Parks, si attivò per raccogliere i fondi necessari a sostenere la causa
legale. Passò qualche settimana e, mentre l’imputata e i suoi legali
definivano la strategia difensiva, in un colloquio privato con la leader del
Women’s Political Council, Jo Ann Robinson, Claudette si lasciò scappare
che nel frattempo era rimasta incinta107. In un mix di prudenza politica e
moralismo perbenista, i capi della NAACP temettero che il caso Colvin
potesse, alla fine, ritorcersi contro chi lo aveva sollevato, con il confronto
pubblico che si sarebbe concentrato sulla scarsa moralità di tante giovani
donne di colore invece che sui diritti civili. E così il “caso Colvin” non fu
fatto decollare.
In tutta questa vicenda il reverendo King, concentrato sulla tesi di
dottorato da consegnare e sull’imminente nascita della prima figlia, non
ebbe alcun ruolo. Il 5 giugno del 1955 aveva ottenuto il dottorato in
teologia, il 17 novembre era nata la primogenita Yolanda. Pochi giorni
dopo, il 1° dicembre del 1955, Rosa Parks fu arrestata per aver violato le
norme sulla segregazione.

Rosa Parks, una militante


Liberiamo Rosa Parks dall’immagine edulcorata che la descrive come una
sarta timida quanto irreprensibile che dopo una faticosa giornata di lavoro,
stanca e coi piedi dolenti, in una fredda giornata invernale si impuntò nel
difendere il suo diritto a restare seduta su di un sedile per il quale aveva
pagato un regolare biglietto: «La gente dice sempre – ha dichiarato in
un’ampia intervista autobiografica – che non ho ceduto perché ero stanca,
ma non è vero. Non ero stanca fisicamente o non ero più stanca del solito
alla fine di una giornata lavorativa. Non ero anziana... Avevo quarantadue
anni. No, l’unica stanchezza che avevo era che ero stanca di lasciare
perdere»108.
Rosa era una attivista della NAACP che si era avvicinata alla nonviolenza
frequentando dei corsi presso il centro di Highlander109. Non troppo
giovane, diplomata, elegante nei modi e nel portamento, membro assiduo
della Trinity Lutheran Church il cui pastore era un bianco, aveva tutte le
caratteristiche utili a far scoppiare un caso legale sulla questione della
legittimità della segregazione sui mezzi di trasporto.
La macchina organizzativa della NAACP, pronta da tempo e stressata da
varie false partenze come quella relativa al caso Colvin, si mise
immediatamente in moto. In un tempo nel quale lo strumento più
tecnologico era il telefono e la comunicazione scritta più rapida passava per
il telegrafo, Jo Ann Robinson e le altre donne del Women’s Political
Council predisposero uno scarno volantino che fu immediatamente
distribuito per le strade:
Lunedì 5 dicembre non prendete l’autobus per andare al lavoro, a scuola o in qualsiasi
altro posto. Un’altra donna di colore è stata arrestata e messa in prigione perché si è
rifiutata di cedere il suo posto a sedere. Lunedì non prendete l’autobus per andare al
lavoro in città, a scuola o dovunque sia. Se lavorate prendete un taxi o condividete l’auto
con qualcun altro o andate a piedi. Venite al raduno di massa, lunedì alle 7.00, alla Holt
Street Baptist Church per ulteriori indicazioni.

Nel frattempo, la Parks, dopo essere stata segnalata come criminale e


ritratta nella foto segnaletica di rito, fu rilasciata in serata. Non restava che
aspettare e vedere l’esito dell’appello al boicottaggio. Sin dalle prime ore
del 5 gennaio fu chiaro che aveva avuto successo: era il segnale necessario a
decidere le prossime mosse.
Per preparare l’incontro della sera, i leader dei movimenti di
Montgomery – e quindi in buona parte i pastori afroamericani della città –
convocarono una riunione in cui definire la proposta organizzativa su cui
chiedere il consenso della base. Si trattò di un incontro presieduto dal senior
pastor Ralph Abernathy, al quale parteciparono alcune decine di persone110
che nei fatti presero le decisioni fondamentali: la chiamata al boicottaggio
della compagnia degli autobus, la costituzione di un soggetto unitario per
la gestione del caso Parks, la Montgomery Improvement Association
(MIA), e – dettaglio di non poco conto – la nomina di Martin Luther King
a suo presidente. Il verbale della riunione istituiva un Comitato esecutivo
composto da sedici dei presenti e da altre nove persone da individuare
successivamente per un totale di venticinque persone. Tra di loro molti
erano pastori, come si è visto considerati le personalità moralmente più
autorevoli della città. La circostanza merita una spiegazione. Innanzitutto
erano persone “libere”, che non dipendevano da un ente pubblico o da
un’azienda, e che quindi potevano esprimere la loro opinione senza timore
di ritorsioni e ricatti. In secondo luogo il gruppo degli attivisti di
Montgomery – E.D. Nixon e Jo Ann Robinson in prima istanza – con
buona ragione erano convinti che per il tramite dei loro pastori le chiese
sarebbero riuscite a mobilitare i neri in misura maggiore e con più
convinzione delle organizzazioni più laiche e politiche che, secondo lo
stesso Nixon, erano «frammentate, ristrette e litigiose»111.

Leader per caso


La nomina di King a portavoce del movimento non era affatto prevedibile,
se non altro perché era l’ultimo arrivato a Montgomery. In effetti il
presidente della riunione, Abernathy, aveva proposto E.D. Nixon, efficace
e stimato militante della NAACP. King, di rimando, propose il nome di
Rufus Lewis, stimato anche per l’esperienza di veterano. Ma a quel punto
fu proprio Lewis a fare il nome di King, immediatamente sostenuto da altri
partecipanti. King per primo dovette risultare sorpreso dalla piega presa
dalla riunione. Nonostante varie sollecitazioni, sino ad allora aveva evitato
di prendersi altre responsabilità pubbliche oltre a quelle annesse al
pastorato, ed era chiaro a lui per primo che altri avevano più esperienza
della situazione di Montgomery. D’altra parte fa riflettere che la proposta
non sia venuta dai suoi colleghi pastori ma da un attivista della NAACP,
che in King vedeva il valore aggiunto di una persona giovane che avrebbe
dato un’immagine più fresca e rinnovata del movimento.
L’elezione era stata unanime e la sera King si presentò alla Holt Street
Baptist Church con la qualifica di presidente della MIA e, in questa veste,
pronunciò il discorso che avrebbe dato la linea al movimento.
Quell’incontro di rilievo squisitamente politico, dedicato alla strategia di
lotta contro il segregazionismo, fu aperto dal canto di due inni cristiani, da
una preghiera e dalla lettura del Salmo 34, una poesia sull’amore di Dio che
soccorre il povero, il giusto perseguitato e gli spiriti affranti. King prese la
parola con il suo tono più basso, scandendo lentamente le parole per dare
vigore alla sua prosa tessendo le lodi di Rosa Parks, «una bella persona»,
«della cui integrità nessuno può dubitare», «del cui impegno e della cui
devozione nei confronti degli insegnamenti di Gesù nessuno può
dubitare». Il verbale annota le crescenti espressioni di consenso espresse ad
alta voce, come tipico della tradizione afroamericana: well said, yes, teach, all
right, che si trasformarono in un lungo applauso quando, raccolta la
simpatia dell’audience sul sostegno alla Parks, cambiò repentinamente
registro e ammonì: «Ma viene un tempo in cui la gente è stanca di essere
spinta negli abissi dell’umiliazione, quando sperimenta lo squallore di una
tormentata disperazione. Viene un tempo nel quale la gente è stanca di
essere cacciata dalla scintillante luce del sole della vita di luglio e lasciata in
piedi al freddo penetrante di un novembre di montagna». Scoppiò un
applauso che King interruppe per completare il suo pensiero:
Noi siamo qui, noi siamo qui questa sera perché ora siamo stanchi. E voglio dire che
non siamo qui per fare ricorso alla violenza. Non lo abbiamo mai fatto. Voglio che si
sappia a Montgomery e voglio che si sappia in tutta la nazione. Noi siamo cristiani. Noi
crediamo nella religione cristiana. Noi crediamo negli insegnamenti di Gesù. L’unica
arma che noi abbiamo nelle nostre mani questa sera è l’arma della protesta. È tutto qui.
E certo, certo questa è la gloria dell’America, con tutte le sue mancanze... questa è la
gloria della nostra democrazia. Se noi fossimo incarcerati dietro la cortina di ferro di un
paese comunista non potremmo agire così... Ma la grande gloria della democrazia
americana è il diritto (right) di protestare per ciò che è giusto (right)112.

In questo primo discorso da leader, per ora solo sulla carta dei verbali
della MIA, King mette efficacemente a fuoco alcuni elementi che, almeno
per un certo tempo, caratterizzeranno con costanza il suo pensiero e la sua
retorica: la comunità afroamericana è giunta al punto limite della sua
sopportazione; agirà con metodi nonviolenti; troverà ispirazione nella sua
fede cristiana; vincerà perché chiede all’America semplicemente di essere
se stessa, e cioè di onorare la sua identità e la sua tradizione democratica.
Sin dai primi giorni nei quali era stato dichiarato, il boicottaggio fece
registrare punte di adesione molto alte che, segnando un punto decisivo a
favore della protesta, suscitarono una serie di reazioni. Ai taxi che offrivano
un passaggio allo stesso prezzo del biglietto dell’autobus – 5 centesimi – fu
vietato di concedere corse per meno di 45 centesimi; come fu vietato il
servizio di trasporto alternativo garantito da volontari con una macchina a
disposizione. Tutto questo non fermò la protesta che, nelle settimane e nei
mesi, si fece sempre più massiccia suscitando reazioni sempre più violente:
gli organizzatori della protesta furono definiti «un gruppo di radicali neri
che hanno spezzato le buone relazioni tra i bianchi e i neri di
Montgomery»113; intanto fioccavano le denunce per l’organizzazione di un
boicottaggio ritenuto illegale. La linea dura della controparte era che
nessun negoziato sarebbe mai stato avviato sino a quando fosse proseguito
il boicottaggio. Intanto aumentavano le intimidazioni contro i leader, a
iniziare dallo stesso King che il 26 gennaio del 1956 fu fermato e arrestato
per avere guidato – secondo l’accusa – a una velocità di 5 miglia superiore
al limite consentito di 30. Le foto segnaletiche, scattate dopo che gli erano
state prelevate le impronte digitali, mostrano il volto di una persona
giovane evidentemente disorientata per ciò che gli stava succedendo e che
non capiva fino in fondo. Il 28 gennaio arrivò la sentenza del giudice, che
lo condannò a una multa di 14 dollari. In realtà era solo l’inizio di una
violenta escalation del terrorismo razzista.
La sera del 30 gennaio, mentre King parlava a una folla di duemila
persone raccolte nella First Baptist Church di Montgomery, una bomba
esplose nel porticato della sua casa sulla Dexter Avenue. Per Coretta,
Yolanda e un’amica di famiglia che erano in casa non ci furono
conseguenze; quando Martin accorse trafelato incontrò uno spiegamento
di polizia e una piccola folla molto agitata che capiva perfettamente il
messaggio politico contenuto in quella bomba. Martin, rassicurato sulle
condizioni dei suoi, sentì di dover dire qualcosa. Alzò le mani per chiedere
il silenzio e poi pronunciò poche parole:
Se avete delle armi, portatele a casa. Se non le avete, per favore non cercatele. Non
possiamo risolvere questo problema con la violenza. Dobbiamo reagire alla violenza con
la nonviolenza. Ama i tuoi nemici; benedici quelli che ti maledicono, prega per quelli
che ti usano malamente. Ricordate che questo movimento non si fermerà, perché Dio è
con esso114.

Era l’escalation, e puntualmente un’altra bomba scoppiò il 1° febbraio


attorno alla casa di E.D. Nixon, tesoriere della MIA e, come abbiamo
visto, colonna della NAACP di Montgomery.
Il 22 febbraio alcune decine di leader del boicottaggio, tra i quali la stessa
Parks, furono chiamati a comparire al tribunale locale per rispondere della
loro azione: condannati, dovettero subire l’umiliazione di un arresto
formale per poi essere rilasciati su cauzione. Il giorno dopo la stessa routine
toccò a King, appena rientrato da un impegno di famiglia ad Atlanta.
Il 22 marzo ebbe luogo il processo vero e proprio, nel quale il giudice
non accolse le giustificazioni addotte da King e condannò l’imputato a una
multa di 500 dollari convertibile in una detenzione di 386 giorni di
carcere. In realtà, il processo si risolse con una libertà su cauzione di 1000
dollari in attesa del giudizio d’appello. Fu una sconfitta giudiziaria, certo,
ma anche una incoraggiante vittoria politica. Il caso di Montgomery,
infatti, era arrivato sulla grande stampa nazionale ma soprattutto, complice
la sua possente retorica, si andava costruendo il “personaggio King”. A chi
gli chiedeva se non temesse per la sua persona rispose: «prego Dio che mi
salvi dalla paralisi della paura, perché io credo che quando una persona vive
nella paura delle conseguenze per la sua vita personale, non potrà mai fare
nulla per elevare l’umanità e risolvere i tanti problemi sociali con i quali ci
confrontiamo»115. E di coraggio, per i neri dell’Alabama degli anni ’50, ce
ne voleva tanto. Il 25 agosto del 1956 un’altra bomba scoppiò in casa del
pastore luterano bianco Robert Graetz, a capo della comunità di cui faceva
parte Rosa Parks. Nel giorno dell’attentato il pastore, sua moglie e la Parks
erano a Highlander per uno dei seminari di formazione nonviolenta cui
erano soliti partecipare.

L’opzione strategica della nonviolenza


Per King furono mesi di fuoco. I suoi spostamenti, meticolosamente
riportati nei King Papers, lo conducevano negli angoli più diversi degli Stati
Uniti per conferenze, prediche, lezioni, commemorazioni. I primi mesi
della campagna di Montgomery lo avevano consacrato come leader di un
movimento che, pur ben radicato nella tradizione di impegno per
l’emancipazione degli afroamericani, esprimeva delle evidenti novità sul
piano del linguaggio e della comunicazione, nello stile della leadership, nei
metodi di lotta. E così, a giugno, spiegava la «storia di Montgomery», «la
storia di 50.000 neri stanchi delle ingiustizie e dell’oppressione» che
davano vita a un esperimento sociale e politico che già allora, quando la
battaglia non era ancora vinta, si poneva obiettivi assai più ambiziosi della
desegregazione del sistema dei trasporti: «Non possiamo fermarci qui –
scrisse. – Fermarsi qui significherebbe diventare vittime di un ottimismo
che acceca i nostri occhi di fronte alla realtà della situazione. Se ci
fermassimo qui significherebbe che siamo diventati vittime di un’illusione
incartata nella superficialità. Noi dobbiamo continuare ad affermare che
abbiamo una lunga strada di fronte a noi»116. Ma oltre a delineare una
direzione di marcia per il futuro, quel discorso metteva a fuoco la
questione decisiva delle forme di lotta e di organizzazione del movimento.
L’opzione nonviolenta restava strategica ed essenziale, non solo perché
riscuoteva più consensi di altre ma perché essa, nella sua superiore
moralità, dava a chi la praticava «un senso di dignità e una nuova
determinazione a proclamare la verità». In questa prospettiva King
respingeva gli inviti alla moderazione da parte di coloro «che predicano il
vangelo del “rallenta un po’”. Ci dicono che stiamo andando troppo
veloci, il che ci pone la domanda “quanto veloce è troppo veloce”? Ma in
mezzo a tanti bianchi e neri di buona volontà noi ci rendiamo conto che
non possiamo rallentare. Noi abbiamo il dovere morale di spingere». A
quel punto c’era qualcosa in più che dava a King la convinzione di
interpretare bene il suo ruolo nel tempo che stava vivendo, e cioè la
convinzione che per l’America fosse un tempo di giudizio e, al tempo
stesso, un’occasione di redenzione. In un mondo che si stava
globalizzando, come potevano Asia e Africa seguire una potenza che rifiuta
diritti umani fondamentali a una parte dei suoi stessi cittadini? Ecco perché
– concludeva – «abbiamo un lungo cammino da percorrere»117.
Salvare l’anima dell’America: è questa la suggestione che inizia a farsi
strada nel pensiero e nell’azione di King che, nel giro di pochi mesi,
sembrò maturare un giudizio più problematico e pessimistico sulla salute
morale del suo paese. Tra gli scritti che meglio illustrano questo
sentimento vi è un sermone che parafrasa le epistole di Paolo. È un testo
pregevole, anche per l’espediente letterario con cui si immagina un novello
Paolo apostolo che scrive un’epistola ai suoi fratelli cristiani d’America:
Ho sentito parlare molto di voi e di ciò che state facendo. Ho sentito parlare degli
affascinanti e sorprendenti progressi che avete fatto nel campo scientifico [...]. Ho
sentito parlare dei vostri grandi progressi medici, che hanno portato alla guarigione di
molte terribili piaghe e malattie, e quindi prolungato la vostra vita e garantito una
maggiore sicurezza e il benessere fisico. Tutto questo è meraviglioso [...]. Ma
guardandovi da lontano, mi chiedo se il vostro progresso morale e spirituale sia stato
commisurato al vostro progresso scientifico. Mi sembra che il vostro progresso morale
sia in ritardo rispetto al vostro progresso scientifico [...]. Voi potete dominare le
difficoltà dell’idioma inglese e potete possedere l’eloquenza necessaria per pronunciare
discorsi; ma anche se voi parlaste con le lingue degli uomini e degli angeli, e non avete
amore, siete simili a un bronzo risonante o a un cembalo tintinnante [...]. America, hai
permesso che i mezzi materiali con cui vivi superassero i fini spirituali per i quali vivi.
Avete permesso alla vostra mentalità di superare la vostra moralità. Avete permesso alla
vostra civiltà di superare la vostra cultura. C’è un’altra cosa che mi disturba a oltranza
sulla chiesa americana. Avete una chiesa bianca e una chiesa di neri. Avete permesso che
la segregazione si insinuasse nelle porte della chiesa. Come può esistere una tale
divisione nel vero corpo di Cristo? America, devi affrontare il tragico fatto che quando ti
trovi alle 11 della domenica mattina per cantare Tutti acclamiamo il potere del nome di Gesù
e Caro Signore e padre dell’umanità [inni regolarmente cantati in molte chiese protestanti,
bianche e nere, N.d.A.], ti trovi nell’ora più segreta dell’America cristiana. Mi dicono
che c’è più integrazione nel mondo del divertimento e in altre agenzie secolari che nella
chiesa cristiana. Che cosa terribile! [...] Devo dirvi, come ho già detto a tanti cristiani,
che in Cristo «non c’è né ebreo né gentile, non c’è né schiavo né libero, non c’è né
maschio né femmina, perché siamo tutti uno in Cristo Gesù»118.

Sul finire, il testo introduce – crediamo di poter dire per la prima volta
negli scritti pubblici di King – un tema di ordine politico: una prima
prudente, ma non superficiale critica al sistema economico americano, per
giunta negli anni di una rapida crescita.
Mi pare di capire che in America avete un sistema economico conosciuto come
capitalismo. Attraverso questo sistema economico siete stati in grado di fare meraviglie.
Siete diventati la nazione più ricca del mondo, e avete costruito il più grande sistema di
produzione che la storia abbia mai conosciuto. Tutto questo è meraviglioso. Ma,
americani, c’è il pericolo che abusiate del vostro capitalismo. Continuo a sostenere che il
denaro può essere la radice di tutti i mali [...]. Siete inclini a giudicare il successo della
vostra professione in base all’indice del vostro stipendio e alle dimensioni del passo della
vostra automobile, piuttosto che alla qualità del vostro servizio all’umanità. L’uso
improprio del capitalismo può anche portare a un tragico sfruttamento. Questo è
accaduto spesso nella vostra nazione. Mi dicono che un decimo dell’uno per cento della
popolazione controlla più del quaranta per cento della ricchezza. America, quante volte
hai tolto alle masse ciò che era loro necessario per garantire il lusso delle classi più agiate.
Se volete essere una nazione veramente cristiana dovete risolvere questo problema. Non
si può risolvere il problema rivolgendosi al comunismo, perché il comunismo si basa su
un relativismo etico e su un materialismo metafisico che nessun cristiano può accettare.
Potete lavorare nel quadro della democrazia per realizzare una migliore distribuzione
della ricchezza. Potete usare le vostre potenti risorse economiche per cancellare la
povertà dalla faccia della terra. Dio non ha mai voluto che un gruppo di persone vivesse
in una ricchezza sovrabbondante e superflua, mentre altri vivono in un’abietta povertà
mortificante. Dio vuole che tutti i suoi figli abbiano il necessario per i bisogni
fondamentali della vita119.

Un appello morale che muoveva da una critica al sistema americano. I


termini di questa critica sono appena accennati, ma lasciano capire che,
benché concentrato su Montgomery e la lotta per i diritti civili degli
afroamericani, King aveva in mente uno scenario più ampio che
comprendeva anche i temi della giustizia sociale dei rapporti tra le classi.
I primi mesi dell’autunno non segnarono grandi novità: nonostante le
minacce e gli attentati, la comunità afroamericana di Montgomery
manteneva disciplinatamente il suo impegno a non utilizzare i mezzi di
trasporto pubblici mentre le autorità locali tentavano ogni mezzo per
fermare il boicottaggio, ad esempio approvando norme contro il car pooling
(l’organizzazione di viaggi collettivi con la propria auto) e quindi mettendo
a dura prova il sistema di trasporto alternativo costruito dal basso. In quei
mesi non era solo Martin a viaggiare in lungo e in largo per promuovere la
causa, cercare fondi e tenere viva l’attenzione sul caso di Montgomery;
anche Coretta mise a disposizione il suo talento musicale rendendosi
disponibile per concerti e iniziative pubbliche che contribuirono ad
accrescere la popolarità del movimento.
A quasi un anno dall’inizio del boicottaggio, però, la situazione appariva
di stallo, ed era ormai evidente che la questione si sarebbe risolta solo
dall’alto. E così finalmente avvenne il 3 dicembre del 1956, quando giunse
notizia del pronunciamento della Corte suprema a favore della
desegregazione degli autobus di Montgomery: una notizia in sé più che
positiva ma sulla quale gravava ancora la spada di Damocle dei ricorsi
avanzati dalle autorità cittadine. Ciononostante, il 3 sera fu convocata
un’assemblea nella Holt Street Baptist Church dove tutto, un anno prima,
era iniziato. Il giovane dottor King aveva compiuto la sua missione e aveva
portato la MIA al successo nella campagna che aveva lanciato. Dopo aver
ringraziato tutti e aver sottolineato «quale potesse essere il valore della
resistenza nonviolenta di massa», King richiamò tutti al fatto che l’obiettivo
non era «sconfiggere l’uomo bianco ma destare un senso di vergogna
nell’oppressore e sfidare il suo falso senso di superiorità [...]. Il fine –
concluse – è la riconciliazione, il fine è la redenzione, il fine è la
costruzione di una comunità riconciliata (beloved) nella quale tutti gli
uomini e tutte le donne si trattino come sorelle e fratelli»120. La beloved
community – espressione che solo per approssimazione possiamo tradurre
“comunità riconciliata” – è uno dei concetti più originali del pensiero di
King: un’idea radicata nella filosofia del Social Gospel ma che, secondo
alcuni autori, si politicizza nel riferimento ai movimenti progressisti e
sindacali del primo Novecento e punta alla costruzione di «un gruppo di
individui capaci di superare il proprio particolarismo culturale, etnico e
religioso per ricongiungersi in una comunità di esseri umani legati da un
imprescindibile vincolo di fraternità»121.
Finalmente il 20 dicembre del 1956 – dopo che erano stati valutati e
respinti i vari ricorsi – arrivò sul tavolo del giudice di Montgomery un
documento sigillato da parte della Corte suprema che sanciva la fine della
segregazione nel trasporto pubblico della città. La sera stessa veniva
dichiarato concluso il boicottaggio degli autobus. Il giorno dopo, alle 5.45
del mattino, un piccolo gruppo di persone che comprendeva il pastore
Abernathy, E.D. Nixon, la signora Parks e Glenn Smiley, un attivista
nonviolento bianco, si ritrovarono nei pressi della casa di King il quale si
unì a loro. Insieme arrivarono all’angolo e attesero l’autobus. Il primo a
salire fu Martin Luther King, pagò il biglietto e sedette nella sezione un
tempo riservata ai bianchi; al suo fianco prese posto Glenn Smiley. Un
bianco e un nero seduti fianco a fianco su un autobus di Montgomery: era
l’immagine della vittoria di un nuovo movimento di massa che aveva rotto
uno dei tabù delle relazioni tra i gruppi etnici dell’America degli anni ’50.
Ma, in un pendolo di successi e sconfitte, il movimento non ebbe molto
tempo per rallegrarsi per i risultati ottenuti: a richiamare la gravità della
situazione, il 23 dicembre alcuni colpi d’arma da fuoco esplosero nei pressi
della casa di King; il 10 gennaio del 1957 una carica di dinamite fece saltare
per aria la casa del pastore Abernathy. Di lì a poco saltarono in aria tre
chiese, tra cui la First Baptist, che dovette essere completamente abbattuta.
Il 27 gennaio una nuova bomba fu piazzata sotto il portico della casa di
King ma, fortunatamente, il detonatore non funzionò e tutto si risolse in
un altro – ennesimo – messaggio intimidatorio.
King non minimizzò l’attentato, e nel suo sermone domenicale volle
ribadire che ormai si sentiva legato a un mandato che non poteva tradire:
predica il Vangelo, afferma la verità, difendi la giustizia [...] io non ho paura di nessuno
questa mattina. Dite a Montgomery che possono continuare a sparare e io continuerò a
resistere; dite a Montgomery che essi possono continuare a bombardare e io andrò
avanti a resistere. Se dovessi morire domani mattina, morirei felice, perché sono stato
sulla cima della montagna e ho visto la terra promessa122.

Una strana compagnia e la nascita della SCLC


Oltre al pressing della violenza fisica, però, King e la sua cerchia più
ristretta di amici e collaboratori sentivano che il successo politico
conseguito con la sentenza della Corte suprema andava in qualche modo
tesaurizzato per un rilancio su altri e più alti obiettivi. In questa fase di
riflessione fu importante il ruolo di un trio newyorchese che si era distinto
nel sostegno, anche finanziario, al boicottaggio di Montgomery. Il gruppo
comprendeva tre amici che per storia personale e origine sociale
risultavano molto diversi tra loro. Il primo era un bianco, Stanley D.
Levison: imprenditore benestante e avvocato di New York, ebreo con
incarichi nell’American Jewish Congress, aveva collaborato alla raccolta
fondi per sostenere le proteste nel Sud. Era l’uomo dei bilanci, della
raccolta fondi e delle relazioni con gli ambienti liberal di New York. Si
deve ai suoi contatti con il mondo dell’editoria la pubblicazione del primo
libro di King, Stride Toward Freedom, uscito per i tipi di Harper and
Brothers nel 1958. Ma Levison fu anche vittima di una campagna dell’FBI
che lo accusò ripetutamente di simpatie comuniste123. Quindi Ella Baker,
nipote di schiavi che sin dagli anni dell’adolescenza si era impegnata nelle
associazioni afroamericane arrivando a dirigere la Young Negroes’
Cooperative League (YNCL) e dopo gli studi brillantemente conclusi in
North Carolina si era stabilita a New York. Oltre che grande attivista, la
Baker aveva un grande intuito politico che però faticava a essere
riconosciuto in strutture massicciamente maschili come anche la SCLC si
preparava ad essere124. Come è stato ironicamente annotato, a quel tempo e
nel contesto delle chiese afroamericane mettere una donna in una
posizione di rilievo era come «invitare un rabbino a guidare un culto
battista»125. Completava il trio Bayard Rustin, cresciuto in una famiglia
quacchera e quindi educato alla nonviolenza, al punto da rifiutare il
servizio militare ed essere arrestato per renitenza alla leva. Oltre che per le
sue simpatie socialiste, Rustin era spesso discriminato per la sua dichiarata
omosessualità126.
Un facoltoso ebreo in odore di comunismo, un’attivista radical e un
obiettore di coscienza omosessuale: insieme a King furono loro a
promuovere la nascita di una nuova associazione religiosa nella sua essenza,
politica nelle sue finalità, nonviolenta nella sua strategia, interrazziale nella
sua composizione, che prese forma all’inizio del 1957 e fu denominata
Southern Christian Leadership Conference (SCLC).
La squadra dei promotori non era la meglio assortita e, a parte King e
parzialmente Rustin, non comprendeva persone del tutto coerenti con il
carattere cristiano della nuova associazione. Che cosa, allora, le portò ad
avvicinarsi a King e al suo movimento? Facciamo nostra la spiegazione
secondo cui a metà degli anni ’50 le sinistre americane – quella moderata
che si era riconosciuta nei grandi programmi sociali di F.D. Roosevelt e
quella più radicale che era stata fiaccata dal maccartismo – mancavano di
riferimenti ai quali ancorarsi mentre, anche a seguito dei fatti di
Montgomery, un gruppo di pastori e di chiese aveva mostrato
un’eccezionale capacità di mobilitazione di massa e, con King, espresso una
nuova leadership che appariva più dinamica e creativa di quelle conosciute
sino ad allora. In una situazione politica difficile per tutte le forze
progressiste, l’esperimento di Montgomery e le sue potenzialità apparirono
come «un’oasi nel deserto», il «trampolino di un nuovo movimento» o, per
dirla con il linguaggio diretto della Baker, «un bilanciamento alla NACCP»
e alla sua leadership moderata in perenne attesa di un processo di
autoriforma del sistema delle relazioni razziali127. In breve al gruppo si
aggiunse anche Philip Randolph, un sindacalista di grande esperienza e
autorevolezza, a capo di quella BSCP che, nella persona di E.D. Nixon
tanto aveva contribuito al successo di Montgomery.
Già nei primi mesi del ’56 a New York il gruppo aveva dato vita a In
Friendship, un’associazione nata per finanziare le azioni di protesta128.
Consolidata l’idea di dare vita a un nuovo progetto, gli animatori di In
Friendship cercarono di convincere King a mettersi a disposizione di esso.
Dopo qualche esitazione tre pastori convocarono una conferenza a Atlanta
per il 10 e l’11 gennaio del 1957 centrata sul tema dei trasporti e della
integrazione nonviolenta. A firmare la convocazione, oltre a King, il
collega Fred Shuttlesworth, che nella sua Birmingham aveva dato vita
all’Alabama Christian Movement for Human Rights, e Charles Steele che
aveva guidato un boicottaggio a Tallahassee, in Florida, molto simile a
quello di Montgomery e anch’esso coronato da successo.
Nel momento in cui entrarono in scena personaggi di questo calibro, gli
attivisti del Nord che avevano avviato il progetto finirono immediatamente
in seconda o terza fila e vi sono pochi dubbi che sin dall’inizio «se c’era
qualcuno che chiarificava e organizzava la discussione senza dubbio era il
dottor King»129.
La costituzione formale della SCLC avvenne il 14 febbraio del 1957 a
New Orleans e King fu eletto presidente; Ella Baker ne divenne la prima e
a lungo unica dipendente. Nei mesi precedenti si era discusso di varie
questioni, ad iniziare dall’inserimento dell’aggettivo “cristiana” nel nome:
come prevedibile, qualcuno avanzò la preoccupazione che la qualificazione
confessionale avrebbe ridotto la potenziale platea degli aderenti; altri
affermarono che era esattamente il contrario, e cioè che la qualificazione di
associazione “cristiana” avrebbe facilitato l’adesione di persone timorose di
impegnarsi in un organismo politico. Altri ancora sottolineavano come con
quella aggettivazione la nuova associazione si sarebbe messa al riparo dalle
ricorrenti accuse di radicalismo e comunismo130. Per ragioni che abbiamo
già ricordato, la rivendicazione di un radicamento nella tradizione cristiana
finì col prevalere per ragioni sia di identità che di opportunità. Anche la
discussione sullo statuto fu importante, perché doveva definire il profilo di
una nuova associazione che non si mettesse in conflitto aperto con quelle
preesistenti, con le quali, almeno in linea teorica, si intendeva collaborare.
In questo senso la SCLC intendeva caratterizzarsi in modo diverso dalla
NAACP, ad iniziare da un programma di radicamento che non si limitava
al Sud ma guardava con interesse anche al Nord del Paese. Alla SCLC,
inoltre, non si aderiva individualmente ma collettivamente. La direzione
della Conference era garantita da un comitato composto da trentatré
persone, in assoluta prevalenza provenienti dagli Stati del Sud, tutte di
colore, per due terzi pastori, a larghissima maggioranza battisti con qualche
presenza metodista, tutti uomini con un’unica eccezione131. Solo dal 1960
un’altra donna entrò nella leadership della SCLC, Dorothy Cotton, a cui
fu affidato il compito di formulare e sviluppare programmi di formazione
per i membri della Conference. Riferendosi alla mascolinità della SCLC, la
Cotton ammise che King «avrebbe avuto molto da imparare riguardo ai
diritti delle donne». E con qualche polemica mista ad affetto per il
personaggio con il quale intrattenne una travagliata relazione132 aggiunse:
«Mi si chiedeva sempre di fare il verbale delle riunioni, mi si chiedeva di
preparare il caffè per il dottor King». E lei lo faceva, ma alla fine si rese
conto dello «sciovinismo maschile che esisteva all’interno del movimento».
«C’erano dei predicatori sessisti [...]. Io volevo davvero bene al dottor King
ma mi rendo conto che quel tratto era anche suo»133. Tesi largamente
confermata da altre donne del movimento – oltre alla Cotton, la già citata
Baker, Septima Clark – che, per capacità organizzative, intuito politico e
abilità nella comunicazione, avrebbero potuto aspirare a una ben maggiore
visibilità134.

L’incontro con James Lawson


Costituita la SCLC, King incontrò un altro personaggio che avrebbe avuto
un ruolo di primo piano nell’organizzazione. Era all’Oberlin College, in
Ohio, invitato dal giovane teologo e sociologo Harvey Cox, un battista
bianco di orientamento liberal, destinato a una grande carriera
accademica135. Quasi per caso, questi gli presentò James Lawson136, un
corpulento pastore metodista nero che, per avere obiettato al servizio
militare, nel 1951 era stato condannato a tre anni di carcere. Scontato un
anno di detenzione, uscì su cauzione e la Chiesa metodista unita – una
denominazione in maggioranza bianca ma di orientamento
antisegregazionista137 – offrì a Lawson la possibilità di un servizio
missionario in India, presso lo Hislop College di Nagpur, che egli accettò
prontamente anche nella convinzione di potersi formare alle tecniche della
nonviolenza gandhiana. Così avvenne, e nel 1956, tornato negli USA, poté
riprendere i suoi studi all’Oberlin College forte di una formazione,
decisamente rara negli USA di quel tempo, al satyagraha gandhiano138. Tra
King e Lawson scattò un’intesa profonda: per la prima volta King poteva
avere al suo fianco qualcuno che dell’esperienza gandhiana non era stato
soltanto un uditore, ma l’aveva vissuta in due anni di permanenza nei
villaggi in cui era divenuta un vero e proprio stile di vita. D’altra parte per
Lawson l’incontro con King apriva uno spazio di azione che sarebbe
cresciuto negli anni e che, come abbiamo visto, si sarebbe interrotto solo
sul balcone del Lorraine Motel di Memphis.
La fama del personaggio King era cresciuta nel mondo, e non stupisce che
insieme alla moglie Coretta fosse ufficialmente invitato in Ghana in
occasione della festa d’indipendenza del paese africano, che si sarebbe
svolta il 5 marzo del 1957. King, neanche trentenne, si ritrovò così in
mezzo alla delegazione ufficiale degli USA, guidata dal vicepresidente
Richard Nixon. Al saluto del vicepresidente, King rispose: «Sono molto
contento di incontrarla qui, ma io voglio che lei venga a visitarci giù in
Alabama dove noi stiamo cercando la stessa libertà che il Ghana sta
celebrando». I testimoni riportano che il vicepresidente annuì e invitò
King a parlare con lui a Washington139. Come è facile immaginare, il
primo viaggio internazionale, che lo avrebbe portato anche in Nigeria e in
alcune capitali europee, oltre a destare particolari emozioni, suscitò
qualche riflessione che ci aiuta a profilare un King già allora sempre meno
fiducioso nel sistema americano e nella sua capacità di emendarsi dal
peccato originale della schiavitù e della sua residua espressione nel
segregazionismo, quello giuridicamente fondato come quello
semplicemente praticato:
Non dobbiamo mai dimenticarci di come noi stessi ci troviamo a fuggire da un Egitto
malvagio, cercando di muoverci attraverso il deserto verso la terra promessa
dell’integrazione culturale. Il Ghana ha qualcosa da dirci. Prima di tutto ci dice che
l’oppressore non dà mai volontariamente libertà agli oppressi. Devi impegnarti per
ottenerla [...]. La libertà non è mai data a nessuno. Perché l’oppressore ti ha dominato
perché ha intenzione di trattenerti lì, e non si arrende mai volontariamente. Ed è qui
che arriva, forte, la resistenza. Le classi privilegiate non rinunciano mai ai loro privilegi,
mai senza una forte resistenza [...]. Quindi non uscite stamattina da qui con delle
illusioni. Non tornate nelle vostre case e intorno a Montgomery pensando che la
Commissione della città di Montgomery risolverà questa situazione a favore dei neri
[...]. Se aspettiamo che si risolva da sola, non sarà mai risolta! La libertà viene solo
attraverso una rivolta persistente, attraverso l’agitazione persistente, attraverso l’insorgere
persistente contro il sistema del male140.

Sono parole taglienti e impegnative che già dopo la “battaglia di


Montgomery” ponevano dei problemi sulla struttura del potere e sul ruolo
che la questione della “razza” ha al suo interno. Il King “radicale” che
riusciremo meglio a mettere a fuoco negli ultimi anni della sua vita, e in
particolare dopo la sua critica alla guerra in Vietnam, in realtà stava già
maturando alla fine degli anni ’50 quando, chiusa la questione della
segregazione degli autobus, insieme al movimento doveva pensare una
nuova strategia d’azione. E non lo fece guardando alle dinamiche limitate
di Jim Crow, ma al Sud globale.
L’occasione per esplicitare la strategia arrivò il 17 maggio del 1957, al
Prayer Pilgrimage convocato presso il Lincoln Memorial di Washington per
celebrare il terzo anniversario della sentenza Brown vs. Board of Education
che aveva posto fine, almeno sul piano formale, alla segregazione nel
sistema scolastico. Il raduno era stato fortemente voluto dalla SCLC, e il
fatto che alla manifestazione partecipò un numero di persone inferiore al
previsto non impedì a King di pronunciare un discorso strategico di
primaria importanza, Dateci il voto, e soprattutto di apparire alla fine della
giornata come la vera stella del movimento che, nato a Montgomery, si era
dato una visione e una missione di portata nazionale. Per King il diritto al
voto non era una semplice questione formale, ma l’espressione di un diritto
fondamentale che, se affermato, avrebbe restituito all’America una parte
della sua moralità; se ulteriormente negato avrebbe costituito «un tragico
tradimento dei più alti mandati delle nostre istituzioni democratiche» e
perfino il «capovolgimento della nostra democrazia»141. Nella sua
convinzione del momento, il diritto di voto e l’impegno attivo di una
nuova generazione di politici neri al Congresso avrebbe potuto dare vita a
una nuova stagione di riforme. Con un occhio alle istituzioni, King non
perdeva di vista il movimento e i suoi ricorrenti appuntamenti, come
quello a Highlander per il Labor Day. King vi partecipò incontrando, tra gli
altri, un allampanato cantautore folk destinato a un grande successo, Pete
Seeger, che – come abbiamo ricordato al capitolo II – intonò We shall
overcome142.
Sull’onda del raduno di Washington, arrivò anche l’invito alla Casa
Bianca per un incontro, fissato per il 13 giugno, con il vicepresidente
Nixon: protrattosi per oltre due ore, fu il viatico per un appuntamento con
il presidente Eisenhower in persona, che ebbe luogo il 23 giugno. Come
prevedibile, l’incontro non sboccò in nulla di risolutivo. Il 29 agosto,
cercando di entrare nel tribunale di Montgomery, dove il suo collega e
amico Abernathy doveva deporre come teste, un poliziotto aggredì King e
lo arrestò, peraltro facendosi notare da un fotografo mentre con un gesto
violento e non procedurale gli torceva il braccio. Man mano che cresceva
la sua popolarità – ormai già alta – si determinava un paradossale
pendolarismo tra le stanze del potere di Washington, dove si andava a
trattare, e le celle delle carceri del Sud, dove, con i pretesti più diversi,
King veniva rinchiuso anche solo per qualche ora. L’anno si concluse con
un giro di presentazioni del volume Stride Toward Freedom, pensato e scritto
per raccontare la storia di Montgomery e farne un “paradigma” di azione
nonviolenta di massa.
Il 20 settembre, mentre firmava copie del libro in un negozio di Harlem,
fu ferito da una coltellata inflitta da una donna nera con problemi mentali,
Izola Ware Curry. All’attentato seguì un periodo di convalescenza a New
York durante il quale King finalizzò i preparativi per un nuovo viaggio
all’estero, programmato per un periodo compreso tra febbraio e marzo,
questa volta nell’India di Gandhi prima e in Medio Oriente dopo143.
La situazione nel Sud, tuttavia, restava molto difficile. La resistenza alla
segregazione era tutt’altro che vinta e, complici le incertezze del presidente
Eisenhower, in alcuni Stati le norme integrazioniste venivano palesemente
disapplicate. Il caso più grave era scoppiato a Little Rock, capitale
dell’Arkansas, il cui governatore Orval Faubus aveva negato il diritto di
accesso a scuola a nove ragazzi di colore regolarmente iscritti a un istituto
superiore tradizionalmente “bianco”. Per rendere operativo il suo divieto,
il 24 settembre del 1957 il governatore era arrivato a schierare i soldati della
Guardia federale. Mossa azzardata che, a crisi ormai avanzata, indusse
Eisenhower a inviare le truppe federali per garantire il diritto degli studenti
che, tra schiere di manifestanti di opposto parere e sotto la scorta armata
dei militari, poterono infine entrare a scuola. Le foto che ritraevano lo
sguardo stoico di nove giovanissimi, ben vestiti e orgogliosi dei loro libri
sottobraccio, che rivendicavano niente di più che il diritto allo studio nelle
scuole integrate, fecero breccia in alcuni settori della comunità bianca
moderata che sentivano prossima la fine ineluttabile di un’epoca.
Tornato dal suo lungo viaggio, King dovette fare i conti con la crisi
operativa della SCLC: problemi di budget, incomprensioni tra i leader e,
soprattutto, una certa confusione sulle priorità strategiche determinavano
un senso di frustrazione. Da Birmingham, l’energico Fred Shuttlesworth
lamentava la scarsa incidenza della nuova organizzazione, e in effetti
qualcosa non funzionava. King ne era cosciente e intuì che fosse giunto il
tempo di un cambiamento importante. Convocò quindi un consiglio di
famiglia al quale parteciparono anche i genitori per discutere di un
trasferimento a Atlanta, vera capitale del Sud e metropoli assai più centrale
di Montgomery. Oltre al fatto che la chiesa di Dexter Avenue soffriva per
la presenza di un pastore al tempo stesso così autorevole ed energico ma
anche spesso assente e concentrato su obiettivi più generali, King sentiva la
fatica della distanza dalla grande capitale del Sud e dalle reti di sostegno
familiare che Atlanta gli avrebbe potuto garantire. Fu scontata la reazione
positiva della famiglia che, nel trasferimento, vedeva la possibilità di un
“nuovo inizio” in una situazione meno esposta del fronte di Birmingham.
La comunità di Dexter Avenue provò a trattenere il suo pastore, arrivando
a proporgli di predicare una volta soltanto al mese e riconoscendogli così
ampio spazio di movimento per la sua missione nazionale. Ma la decisione
era presa, anche per motivi strettamente personali:
Ciò che ho fatto – disse nel suo sermone di saluto il 31 gennaio del 1960 – è stato
dare, dare, dare, dare senza potere mai fermarmi per raccogliermi e meditare come
dovrei [...] devo riorganizzare la mia persona e riorientare la mia vita [...]. Ho una sorta
di fastidiosa coscienza che qualcuno interpreterà la mia partenza da Montgomery come
il disimpegno dalla lotta per i diritti civili. E invece io sarò impegnato in questa lotta su
una scala più ampia. Non mi posso fermare ora. La storia mi ha spinto verso qualcosa a
cui non posso voltare le spalle144.
104 Garrow, Bearing the Cross, cit., p. 50.
105 Ivi, p. 51.
106 Adam Fairclough, Martin Luther King Jr., University of Georgia Press, Athens
1995, pp. 17-18; Ling, Martin Luther King, Jr., cit., p. 35.
107 Garrow, Bearing the Cross, cit., p. 15.
108 http://www.achievement.org/achiever/rosa-parks/#interview (consultato il 24
gennaio 2019).
109 «Fu la prima volta della mia vita – testimoniò Rosa Parks anni dopo
riferendosi al suo primo corso a Highlander – che vissi in un’atmosfera di assoluta
uguaglianza con persone di un’altra razza», Farmer, Lay Bare the Hearth, cit., p.
162.
110 Il verbale della riunione contenuto nei King Papers ci consente di individuare
almeno coloro che intervennero: due avvocati, Fred David Gray e Charles D.
Alford; un veterano, poi imprenditore nel settore delle pompe funebri, Rufus
Andrew Lewis; un’insegnante – unica donna in quella occasione –, Erna A.
Dungree; un addetto ai vagoni letto, colonna organizzativa della NAACP di
Montgomery, E.D. Nixon; infine ben sette pastori, compresi Martin Luther King
e Ralph Abernathy, TPMLK, vol. III, p. 68.
111 Lawrence D. Reddik, The Bus Boycott in Montgomery, in «Dissent», primavera
1956, p. 111, cit. in Fairclough, To Redeem the Soul of America, cit., p. 17. Reddik
partecipò alla riunione di costituzione della MIA, avviando così un lungo sodalizio
con King, al punto da accompagnarlo nel viaggio in India nel 1959.
112 TPMLK, vol. III, pp. 72, 73.
113 Garrow, Bearing the Cross, cit., p. 55.
114 Ling, Martin Luther King, Jr., cit. p. 48; Clayborne Carson, In Struggle: SNCC
and the Black Awakening of the 1960s, Harvard University Press, Cambridge,
Massachusetts, 1995, p. 115. Garrow riporta un altro testo che sembra rivolto a
una cerchia più ristretta di collaboratori: «noi non sosteniamo la violenza. Noi
vogliamo amare i nostri nemici. Io voglio che voi amiate i vostri nemici. Siate
buoni con loro. Amateli e fate loro sapere che li amate. Io non ho iniziato il
boicottaggio. Mi è stato chiesto da voi di servire come il vostro portavoce. Voglio
che si sappia per tutta la lunghezza e l’ampiezza di questa terra che se io sarò
fermato, non sarà fermato questo movimento. Se io sarò fermato, non si fermerà il
nostro lavoro. Perché noi stiamo facendo la cosa giusta, ciò che stiamo facendo è
giusto», Bearing the Cross, cit., pp. 60-61.
115 Ivi, p. 75.
116 The “New Negro” of the South: Behind the Montgomery Story, in TPMLK, vol. III,
p. 285. L’articolo apparse sul «Socialist Call» nel giugno del 1956, riprendendo il
testo di un discorso di King del 17 maggio alla NAACP di New York.
117 Ibidem.
118 Martin Luther King, Paul’s Letter to American Christians, sermone pronunciato
alla Dexter Avenue Church il 4 novembre 1956, in TPMLK, vol. III, p. 410,
nostra traduzione (trad. it. in Id., La forza di amare, cit., p. 251).
119 Ibidem (trad. it. in Id., La forza di amare, cit., p. 252).
120 Id., Facing the Challenge of a New Age, discorso pronunciato alla Holt Baptist
Church di Montgomery il 3 dicembre del 1956, in TPMLK, vol. III, p. 451.
121 Daniele Fiorentino, Alla ricerca della “Beloved Community”: le radici americane del
pensiero di Martin Luther King, in Naso (a cura di), Il sogno e la storia, cit., pp. 67 e 77.
122 Id., King Says Vision Told Him to Lead Integration Forces, sermone pronunciato
alla Dexter Church di Montgomery il 28 gennaio 1957, in TPMLK, vol. IV, p.
114.
123 L’FBI non ha mai reso pubbliche le prove della sua accusa a Levison ma per
anni ha usato la carta di una sua adesione giovanile al Partito comunista americano
per screditare King e il suo movimento. La vicenda assunse toni drammatici in
occasione di una visita di King alla Casa Bianca quando, prima di un incontro
informale con il presidente Kennedy avvenuto il 22 giugno del 1963, l’assistente
speciale per i diritti civili Harris Wofford gli disse forte e chiaro che il governo
degli Stati Uniti riteneva Levison «una minaccia primaria per la sicurezza
nazionale», che aveva una «linea diretta di collegamento con Mosca» e che era un
elemento chiave della rete di spionaggio sovietico: Branch, Parting the Waters, cit.,
p. 517. La tesi che Levison fosse vittima di un pregiudizio dell’FBI basato
sull’adesione giovanile al Partito comunista mai rinnovata in seguito, è affermata
da Burton Hersch, Bobby and J. Edgar, Carroll and Graf, New York 2007, p. 346.
Più dubbioso David Garrow, secondo il quale Levison “potrebbe” essere restato in
contatto con il Partito comunista americano sino al 1955: Id., The FBI and Martin
Luther King, Jr.: from Solo to Memphis, in «The New York Times», 14 settembre
1979, p. 42, cit. in Fairclough, To Redeem the Soul of America, cit., p. 30. Resta il
fatto che il sodalizio tra Levison e King continuò nel tempo e si incrinò soltanto
nel 1967 in seguito alla “svolta” sul Vietnam che l’avvocato newyorkese giudicò
azzardata e pericolosa: Garrow, Bearing the Cross, cit., p. 554.
124 Barbara Ransby, Ella Baker and the Black Freedom Movement: A Radical
Democratic Vision, The University of North Carolina Press, Chapel Hill 2003.
125 Lynne Olson, Freedom’s Daughters. The Unsung Heroines of the Civil Rights
Movement from 1830 to 1970, Simon & Schuster, New York 2001, p. 141.
126 Not-so-secret Life of Gay Civil Rights Leader Bayard Rustin, in «Chicago Tribune»,
1° febbraio 2012.
127 Fairclough, To Redeem the Soul of America, cit., p. 30.
128 TPMLK, vol. III, p. 408. Qui King ringrazia In Friendship per il sostegno alla
causa di Montgomery.
129 Ivi, p. 33.
130 Ibidem.
131 Ivi, p. 34.
132 Cfr. cap. 1 nota 3.
133 Garrow, Bearing the Cross, cit., p. 376.
134 Lewis V. Baldwin, Paul R. Dekar, In an Inescapable Network of Mutuality:
Martin Luther King, Jr. and the Globalization of Ethical Ideal, Cascade Books, Eugene,
Oregon, 2013, p. 79.
135 Professore alla Harvard Divinity School, Cox è ben noto per i suoi studi sulla
secolarizzazione (La città secolare, Vallecchi, Firenze 1968) e sul pentecostalismo
(Fire From Heaven, Da Capo Press, Cambridge 1995, un classico purtroppo mai
tradotto in italiano).
136 Milton Viorst, Fire in the Street, Simon & Schuster, New York 1981, p. 117;
David M. Tucker, Black Pastors and Leaders: Memphis 1819-1872, Memphis State
University Press, Memphis 1975, pp. 119-121. Sorprendentemente di Lawson
non esiste una biografia né, tanto meno, una autobiografia. Il lavoro più organico
sul personaggio è Dennis C. Dickerson, James M. Lawson: Methodism, Nonviolence
and the Civil Rights Movement, in «Methodist History», 52, 3, aprile 2014, pp. 168-
186.
137 Il fondatore del metodismo, John Wesley, prese una posizione nettamente
contraria alla schiavitù che, nei decenni successivi, trovò solo una parziale
applicazione nel metodismo americano. Cfr. Alberto Placucci, Chiese bianche e
schiavi neri. Cristianesimo e schiavitù negra negli USA (1619-1865), Gribaudi, Torino
1990, p. 173.
138 Paolo Naso, Metodismo e metodisti nel Civil Rights Movement, in Maria Fallica (a
cura di), Il metodismo nello spazio pubblico, Carocci, Roma 2019, pp. 83 sgg.
139 In effetti, di lì a poco, King ricevette un preciso riscontro della sua richiesta da
parte della Casa Bianca. Cfr. il riscontro di Sherman Adams per conto della Casa
Bianca, nota del 13 marzo 1957, in TPMLK, vol. IV, p. 148, e l’intervista con Etta
Moten Barnett del 15 marzo 1957, ivi, p. 145.
140 Martin Luther King, The Birth of a New Nation, sermone predicato a
Montgomery, Alabama, il 7 aprile del 1957, in TPMLK, vol. IV, p. 155.
141 Id., Dateci il voto trasformeremo il sud, in Naso (a cura di), L’“altro” Martin Luther
King, cit., p. 51.
142 Cfr. supra, cap. II, nota 31.
143 Echi della visita in Terra Santa seguita alla missione in India, in Martin Luther
King, La forza di amare, cit., p. 50.
144 Lessons From History, sermone del 31 gennaio 1960, in TPMLK, vol. V, p. 350.
IV.
Un tempo per seminare,
un tempo per raccogliere

Penso che il movimento abbia creato Martin,


piuttosto che Martin abbia creato il movimento.
E non è un discredito per lui.
Ella Baker

Il 1° febbraio del 1960 quattro studenti neri della facoltà di Agraria


dell’Università di Greensboro, in North Carolina, entrarono nella
caffetteria della popolare catena Woolworth e si sedettero in attesa del
cameriere. Come previsto e ben pianificato, questi non arrivò per
raccogliere l’ordine ma per intimare loro di andarsene perché in quel locale
non si servivano clienti di colore. Di fronte a quella intimazione “i
quattro”, come poi vennero apostrofati – Joseph McNeil, Franklin
McCain, Ezell Blair e David Richmond –, restarono fermi e impassibili sui
loro sgabelli, disobbedendo agli ordini dei gestori del locale prima e dei
poliziotti dopo. Se ne andarono solo all’ora di chiusura. Il giorno dopo la
storia si ripeté ma con un gruppo più ampio di dimostranti e con una
protesta che si estese ad altri esercizi; e così il giorno dopo ancora, fino al 5
febbraio. Nel linguaggio di oggi questa forma di mobilitazione divenne
“virale” al punto che si calcola che in quei mesi circa 70.000 studenti si
mobilitarono in diversi sit-in; 3600 dimostranti furono arrestati in quella
che «Time» definì «una protesta nonviolenta come negli USA non si era
mai vista»145. King espresse il suo sostegno a questa mobilitazione, che
però, pur ispirandosi ai metodi nonviolenti e alla “scuola di Montgomery”,
prescindeva dalla strategia pianificata dalla SCLC e dal suo leader e,
soprattutto, nasceva spontanea e indipendente. Il mentore di questa
giovanissima generazione di attivisti non fu il reverendo King ma il suo
collega James Lawson, Jim per i suoi interlocutori più diretti. Lo
accompagnava il carisma dell’obiettore di coscienza e del missionario che
aveva vissuto in prima persona l’eredità spirituale e politica del movimento
gandhiano. Rientrato in Tennessee nel 1956, tre anni dopo aveva dato vita
al Nashville Student Movement, che praticò una forma di protesta del
tutto analoga a quella di Greensboro. E k o k dd . Il valore
aggiunto dell’esperienza acquisita in India consentì a Lawson di animare
veri e propri seminari di formazione alla tecnica nonviolenta i cui
partecipanti, oltre a ricevere una formazione teorica, imparavano a
“resistere” psicologicamente e fisicamente alla violenza esercitata contro di
loro. Lo conferma il dettagliato codice di comportamento preparato da
Lawson e distribuito ai manifestanti:
Non reagite fisicamente o verbalmente se aggrediti.
Non ridete ad alta voce.
Non attaccate discorso col personale [di polizia, N.d.A.].
Non alzatevi finché non ricevete istruzioni dal leader.
Non bloccate gli ingressi al negozio o alle corsie.
Mostratevi sempre cordiali o cortesi.
Sedete eretti e sempre faccia al banco.
Riferite ogni episodio significativo al vostro leader.
Riferite tutte le informazioni al vostro leader.
Ricordate gli insegnamenti di Gesù Cristo, Mohandas K. Gandhi e Martin Luther
King.
Ricordate l’amore e la nonviolenza.
Dio vi benedica tutti146.

Da questi laboratori e grazie alla spinta organizzativa dell’instancabile Ella


Baker che operava per conto della SCLC, nel 1960 nacque lo Student
Nonviolent Coordinating Committee (SNCC, generalmente pronunciato
“Snik”), il quale in breve reclutò altri personaggi che avrebbero assunto un
ruolo di primo piano nel movimento per i diritti civili negli anni
successivi; tra gli altri James Bevel, come vedremo ispiratore del raduno di
Washington del 1963 e delle marce tra Selma e Montgomery nel 1965, e
poi, dopo la morte di King, schieratosi con la destra reaganiana e distrutto
da una poco edificante vicenda giudiziaria in seguito all’accusa di incesto147;
C.T. Vivian, che di lì a poco avrebbe organizzato i freedom buses sui quali
bianchi e neri, viaggiando insieme, sfidavano le autorità locali che, contro
ogni norma, continuavano a difendere la segregazione nei trasporti;
Stokely Carmichael, che da posizioni integrazioniste e nonviolente in
breve sposò l’ideologia del nazionalismo nero, diventando uno dei leader
del Black Panther Party; Diane Nash, una delle poche donne che
riuscirono a entrare nella ristretta leadership molto maschile del
movimento e della SCLC in particolare, intellettuale e attivista i cui meriti
non sono ancora del tutto stati riconosciuti148; John Lewis, all’inizio di una
brillante carriera politica che lo avrebbe portato ad essere una delle
personalità di spicco del Partito democratico; Marion Barry, poi
controverso sindaco di Washington, finito sotto i riflettori per il consumo
di droghe e per altri reati di ordine fiscale.
Queste rapidissime note biografiche sono sufficienti a dare la misura della
eterogeneità del gruppo e a spiegare perché, dopo una brillante partenza, lo
SNCC scoppiò sotto il peso delle sue contraddizioni interne149.

Movimentismo e separatismo
I primi mesi del 1960 furono intensi e produttivi, ma politicamente molto
complicati. La SCLC sosteneva le proteste, che però si avviavano in
autonomia e secondo uno schema tipicamente “movimentista”,
incoraggiato dalla Baker ma avversato dalla “vecchia guardia” della SCLC.
King e Lawson si posero in una posizione intermedia, evitando di porre il
cappello della SCLC su un’iniziativa che era nata in autonomia e mettendo
in campo energie nuove. Questo atteggiamento prudente si riflesse nel
fatto che al raduno SNCC convocato a Raleigh (North Carolina), presso la
Shaw University il 15 aprile, il relatore di punta fosse Lawson e non King,
che pure era in città. King si tenne qualche passo indietro, ma non
rinunciò ad esprimere pieno sostegno pubblico a un movimento che
giudicava «espressione dell’anelito del nuovo nero alla libertà e alla dignità
umana [...]. Una generazione di giovani – plaudiva – è emersa da decenni
di oscurità per affrontare a mani nude il potere dello Stato; ha abbandonato
le sue paure, ha sperimentato la solenne dignità di una lotta per la propria
liberazione»150. Con i pochi mezzi a disposizione – un budget di 800
dollari151 – la Baker organizzò la conferenza in ogni dettaglio, cercando di
bilanciare esigenze diverse, prima tra tutte quella di strutturare un evento
politico nel rispetto delle sensibilità e delle intenzioni degli studenti che
«non erano pagine bianche» sulle quali lei o King avrebbero potuto o
dovuto imporre un marchio152.
Nonostante l’abile regia e il passo indietro di King, le polemiche
esplosero comunque a seguito dell’intervento di Lawson che,
inaspettatamente, ebbe toni molto critici nei confronti delle componenti
“moderate” del movimento. «Questo movimento non è solo contro la
segregazione. È contro i neri alla zio Tom, contro la fiducia eccessiva che la
NAACP ripone nei tribunali e contro la futile tecnica della classe media di
mandare lettere ai centri di potere». Ridicolizzando «la via mediana
dell’adattamento al male sociale», invocò la strada di una «rivoluzione
nonviolenta»153.
La critica al moderatismo della NAACP suscitò un terremoto e mise
seriamente a rischio la strategia di King, tesa a evitare la contrapposizione
frontale con la più antica e – almeno al Sud – organizzata associazione
afroamericana. Roy Wilkins, segretario esecutivo della NAACP, arrivò a
scrivergli una lettera di fuoco nella quale si dichiarava «disorientato e
grandemente angosciato» dall’«immotivato attacco» subito da parte di uno
degli uomini di punta della SCLC154.
Infuriato contro King anche un altro esponente dell’establishment
afroamericano, il pastore e congressman Adam Clayton Powell, una delle
icone più celebrate della Black Harlem di quegli anni155. Powell fu
infastidito dal progetto di alcuni esponenti della SCLC di organizzare delle
manifestazioni in occasione delle imminenti conventions repubblicana e
democratica per attirare l’attenzione dei partecipanti e degli osservatori sul
tema del diritto di voto ai neri156. Il parlamentare nero non gradiva una
mobilitazione promossa da altri soggetti che avrebbe messo in ombra la sua
personale azione politica e il suo ruolo all’interno del Partito democratico.
Le critiche a King furono frontali e violente, sino all’accusa – invero non
originale – di essere condizionato da «interessi socialisti» e di essere
manipolato da una persona «come» Stanley Levison che, nel linguaggio
rude di certa politica, significava un ebreo e un comunista. King provò a
moderare i toni della polemica, ma lo spregiudicato Clayton Powell arrivò
a minacciarlo che, se non avesse licenziato Bayard Rustin e cancellato ogni
dimostrazione alla convention democratica, era pronto a spiattellare in
pubblico quella che lui riteneva una relazione omosessuale tra i due: il
leader della SCLC e il suo impiegato notoriamente gay157. Tra le accuse a
King questa appare la meno plausibile, eppure produsse almeno uno degli
effetti auspicati da Clayton Powell: le “forzate” dimissioni di Rustin
accolte da King che, forse troppo frettolosamente, intendeva chiudere la
polemica. Il fatto che le contestazioni alla convention democratica ebbero
comunque luogo, sia pure senza la presenza imbarazzante di King o di uno
dei suoi collaboratori più diretti, non cambia la sostanza di un braccio di
ferro vinto da Clayton Powell e dai suoi discutibili metodi158. Perché
questo esito? Perché questo cedimento, peraltro a fronte di un ricatto? Una
chiave ce la offre Lawson che, a caldo, commentò: «per temperamento
King non è un lottatore. È infastidito dalla prospettiva di divisioni interne
al movimento. E di conseguenza talvolta non solo non combatte per se
stesso ma neanche per difendere i suoi collaboratori»159.
Per Martin erano insomma giorni difficili, ulteriormente complicati dalle
critiche che egli riceveva “da sinistra” relativamente al fatto che lo SNCC
appariva più dinamico della SCLC e, da ultimo, da una denuncia per frode
fiscale che, però, si sarebbe felicemente risolta con una piena assoluzione il
28 maggio.
Non si risolvevano, invece, i problemi interni all’organizzazione della
SCLC, che non sembrava in grado di decollare nella sua funzione di
stimolo di una nuova fase di mobilitazione per i diritti civili. La speranza di
un rilancio fu affidata alla nomina di un nuovo direttore esecutivo a
servizio a pieno tempo che, nelle intenzioni, avrebbe dovuto garantire
maggiore efficienza e continuità operativa. La scelta cadde su Wyatt T.
Walker, pastore battista, già impegnato nella NAACP e poi cofondatore
del CORE. Il suo ingresso segnò l’uscita della “segretaria” Ella Baker,
l’unica donna nella leadership della SCLC, certamente la più radicale in
alcuni giudizi politici e quella che più si era spesa per un’ipotesi
“movimentista”, quella che affidava alla sua organizzazione il compito di
sostenere e accompagnare il “movimento” senza però pretendere di
esercitare un controllo direttivo su di esso. In larga misura King sosteneva
questa ipotesi ma, al tempo stesso, sentiva la Baker come eccentrica
rispetto ai suoi colleghi e al loro linguaggio pastorale, e talora troppo
autonoma nelle scelte. Il laconico commento di Lawson, sempre saggio e
ponderato nelle sue valutazioni, spiega molte cose: «Martin ha seri
problemi ad avere delle donne in una posizione dirigente»160. D’altra parte
la stessa Baker si sentiva probabilmente ingabbiata in una struttura che non
la rappresentava appieno e che non corrispondeva alla sua visione politica.
A pochi mesi dall’assassinio di Memphis, fu la stessa Baker a spiegare le
difficoltà e la complessità della sua collaborazione con King:
Penso di aver accettato il fatto che [King] fosse lì, in quel ruolo, per essere stato
riconosciuto un grande leader a seguito della vicenda di Montgomery, e che lui fosse
acclamato, periodicamente e ripetutamente, dalla nazione e dal mondo come un grande
leader. Ho accettato che questo potesse avere un valore simbolico. Voglio dire, il fatto
che egli fosse un simbolo aveva qualche valore. Ma non sono mai stata in grado di
valutare quale fosse il valore di questo simbolo. In altre parole, non sono mai stata in
grado di privilegiare il valore simbolico rispetto al bisogno di una leadership
consapevole. Com’è che ho accettato Martin, allora? Ho accettato il ruolo nel quale era
proiettato come un dato di fatto. Questo è stato il mio atteggiamento. Ecco: se una cosa
è utile, tu speri che con l’esperienza essa possa raggiungere il suo massimo potenziale.
Questa era la mia speranza per quanto lo riguardava. Vedi, non ho mai ritenuto
necessario che una sola persona incarnasse tutto ciò che è necessario nella leadership di
un gruppo di persone. Questa considerazione torna, di nuovo, al mio vecchio cliché su
un gruppo incentrato sui leader che si oppone a una leadership centrata sul gruppo. Il
gruppo viene prima, nella mia concezione. Quindi, per quanto riguardava Martin, per
quanto riguarda chiunque altro, era solo parte di un tutto. E la cosa più importante era,
ed è ancora nella mia mente, quella di far crescere le persone al punto che non abbiano
bisogno del leader forte e salvifico... Sì, non gli attribuisco i poteri di leadership né quel
successo che alcuni attribuiscono al movimento per i diritti civili. Vedete, per essere
onesti, penso che il movimento abbia creato Martin, piuttosto che Martin abbia creato il
movimento. E non è un discredito per lui. Questo è, per me, come dovrebbe essere...
Vedi, questa è la mia convinzione di base: non ho la propensione a adorare il leader
perché so che non è una cosa sana. Non esiste una sola persona in grado di soddisfare i
bisogni, voglio dire, le esigenze di leadership di un movimento161.

L’uscita della Baker dalla SCLC fu quindi morbida, senza clamori e


fratture, vissuta nella comune consapevolezza che le strade non si
dividevano per risibili scontri caratteriali, ma per diverse concezioni sulla
strategia del movimento e che, almeno occasionalmente, le strade si
sarebbero nuovamente incrociate.

MLK e JFK
Qualcosa, però, si muoveva anche sul piano politico nazionale, soprattutto
grazie alla candidatura di John F. Kennedy. Non fu King a cercare il
candidato democratico, piuttosto il contrario, anche per i suggerimenti di
alcuni consiglieri i quali percepivano chiaramente che il voto
afroamericano rischiava di andare in prevalenza a Nixon.
Il primo incontro tra il candidato e il reverendo ebbe luogo a New York
il 23 giugno del 1960. King rimase positivamente impressionato
dall’energia di Kennedy, ma non fu amore a prima vista ed anzi l’esito di
quell’incontro ci porta a ridimensionare l’idea di una naturale ed
immediata intesa tra il reverendo King e i Kennedy – John e Bob –
enfatizzata in certa letteratura italiana162.
Il voto contrario di JFK a un disegno di legge del 1957 in materia di
diritti civili non era il migliore biglietto da visita per il giovane democrat;
soprattutto contro di lui pesava il fatto che il partito che lo candidava alla
Casa Bianca aveva il suo baricentro di consensi proprio nelle regioni del
Sud che con maggiore forza resistevano alle politiche di integrazione.
Anche per questo, quel modesto voto afroamericano che riusciva
effettivamente ad esercitarsi, almeno in buona parte andava
tradizionalmente al Partito repubblicano, sia per omaggio alla memoria di
Abraham Lincoln sia per reazione ai Southern democrats tipo George
Wallace163, il governatore dell’Alabama noto per il suo lapidario motto
«segregazione oggi, segregazione domani, segregazione per sempre»,
ancora legati al modello sociale segregazionista164. Il fatto che il candidato
alla vicepresidenza, Lyndon Johnson, provenisse da uno Stato meridionale
di importanza strategica per numero di elettori quali il Texas, condizionava
ulteriormente il Partito democratico nel suo atteggiamento verso il civil
rights movement.
Nella conversazione, durata circa un’ora e mezza, Kennedy ammise che il
suo voto del 1957 era stato un «errore» e che il movimento «lo aveva
portato a un ripensamento» rendendogli evidenti le ingiustizie e le
indegnità che i neri dovevano fronteggiare nel Sud165. Quanto a King,
rimase impressionato dalla «franchezza e dai modi onesti» del suo
interlocutore, che allora gli apparve intellettualmente convinto
dell’urgenza dell’integrazione, «senza però esserne emotivamente
coinvolto»166.
Con la riapertura delle scuole e delle università il movimento dei sit-in
tornava in forze e, anche grazie alla sua forza mediatica, si imponeva al
centro del dibattito pubblico. Sua la formula jail not bail (“galera, non
cauzioni”), con la quale gli attivisti sottolineavano la loro intenzione di
scontare effettivamente le pene alle quali venivano condannati, sia per
“alzare” il livello di tensione che per dare la misura della loro
determinazione.
Sin qui, come abbiamo visto, King aveva un piede dentro questa nuova
dimensione del movimento – spontanea, incontrollata, aggregante – e un
piede fuori, ben piantato nelle relazioni politiche sia con le tradizionali
istituzioni e associazioni afroamericane – basti pensare al caso Clayton
Powell – che con le correnti progressiste del Congresso sulle quali
incombevano le elezioni presidenziali di novembre. In questa particolare
circostanza, il 18 ottobre King fu avvicinato da alcuni studenti di Atlanta
che gli chiesero di partecipare alla loro prossima azione. Gli argomenti
degli studenti furono molto diretti e anche pragmatici. Fu uno di loro,
Lonnie King – nessuna relazione di parentela con Martin –, a spiegargli
che se voleva mantenere la sua posizione tra i leader della lotta per i diritti
civili doveva andare in galera167.
Non era solo una questione di coraggio – gli attentati subiti a
Montgomery non lo avevano fermato né intimidito –, ma anche di
“cultura politica”. Per decenni l’azione primaria dei legali della NAACP
aveva mirato a tirar fuori gli attivisti dal carcere, anche pagando fior di
cauzioni, e non a rivendicare il significato politico – e persino il valore
morale168 – dell’arresto. «Il carcere non ci schiacciava – affermerà John
Lewis –. Io non avevo mai avuto tanta dignità prima. Era esaltante – è
qualcosa che ho appreso – il senso di indipendenza che ne deriva a una
persona libera». E poi, riferendosi a Lawson: «[lo accompagna] un’aura di
pace interiore e di saggezza che puoi sentire semplicemente
guardandolo»169. La mattina dopo, il 19 ottobre, King si presentò al sit-in
presso il ristorante Rich’s, che adottava procedure razziste e
segregazioniste, si sedette a un tavolo, cercò di ordinare. Come sempre gli
fu malamente risposto che in quel locale non si servivano i clienti di colore
e, intimatogli di alzarsi e andarsene, restò al suo posto. Arrivò la polizia,
che lo arrestò insieme ad altre trentacinque persone. King rischiava grosso
perché da settembre era libero su cauzione per aver guidato in Georgia con
una patente scaduta. Inoltre questa volta era chiaro che il caso non si
sarebbe risolto con una ammenda o un provvedimento amministrativo. La
vicenda arrivò ai media con la dichiarazione di King che disse di aver
sentito l’«obbligo morale» di aderire alla protesta degli studenti: «Io devo
fare quello che predico»170.
Come si è detto, erano i mesi della campagna per le presidenziali, e uno
degli uomini dell’entourage di Kennedy, Harris Wooford, pensò che
l’arresto del reverendo King potesse essere l’occasione offerta al suo
candidato per guadagnarsi il voto incerto degli afroamericani. D’intesa con
i Kennedy, mise quindi a disposizione di King legali di prim’ordine e,
soprattutto, cercò un’intesa tra Rich’s e i dimostranti. L’accordo prevedeva
la liberazione dei detenuti e la sospensione per un mese dei sit-in. Accordo
per tutti i dimostranti arrestati, tranne King, sul quale pendeva la recidiva
per aver compiuto un altro reato successivamente alla condanna per aver
guidato con la patente scaduta: il suo caso fu così stralciato da quello degli
altri dimostranti e lui fu trasferito nella prigione della contea di Dekalb, a
poche miglia da Atlanta171. Il tribunale locale stabilì quindi la condanna per
non avere rispettato le norme sulla libertà condizionata: quattro mesi di
lavori forzati nel carcere di Reidsville dove King, dopo aver avuto la
possibilità di abbracciare Coretta e il padre, fu immediatamente trasferito.
Durante l’intero viaggio – quasi sei ore di cellulare – fu tenuto incatenato
alle caviglie e gli furono strette le manette ai polsi. Giunto a destinazione
poté scrivere una lettera a Coretta, al quinto mese di gravidanza in attesa
del terzo figlio:
Ciao, cara. Oggi mi trovo tanto lontano da te e dai bambini. Sono nella prigione
statale di Reidsville, che dista 230 miglia da Atlanta [...]. Mi rendo conto che questa
intera vicenda è per te molto difficile da affrontare, soprattutto per la tua gravidanza, ma
come ti ho detto ieri questa è la croce che dobbiamo portare per la libertà della nostra
gente. Per questo ti scongiuro di essere forte nella fede e questo mi ridarà forza [...]. Io
ho la fede di credere che questo eccesso di sofferenza arrivato sulla nostra famiglia, in
qualche modo servirà a fare di Atlanta una città migliore, della Georgia uno Stato
migliore e dell’America un Paese migliore172.

Nulla se non un intervento di eccezionale rilievo avrebbe potuto tirare


fuori King dalla prigione di Reidsville. Dalla Georgia, la partita giudiziaria
politica si spostava a Washington, dove Wooford continuava a tessere la sua
tela, evidentemente finalizzata a guadagnare il voto nero al candidato
democratico. Secondo varie ricostruzioni, fu lui a chiedere direttamente a
Kennedy di chiamare Coretta.
«Buongiorno signora King. Qui è il senatore Kennedy». Inizia così una
telefonata di pochi minuti. Forse è retorico ed eccessivo ritenere che «abbia
cambiato la storia e portato all’elezione di quel presidente degli Stati
Uniti», come si legge nell’autobiografia di Coretta King, ma certamente
apriva un canale di comunicazione destinato ad avere, tra alti e bassi,
accelerazioni e brusche frenate, qualche influenza sui fatti successivi. Del
resto le parole di congedo di JFK furono abbastanza impegnative: «Se c’è
qualcosa che posso fare, si senta libera di chiamarmi»173. La reazione alla
telefonata da parte di Daddy King – a lungo iscritto nelle liste del Partito
repubblicano – fu entusiastica, e vi sono pochi dubbi che da quel momento
lui e un buon gruppo di notabili afroamericani, superando la loro storica
affiliazione politica e qualche perplessità sui democratici del Sud, si
convinsero a puntare le loro carte su JFK.
Alle parole seguì un gesto risolutivo, e cioè una telefonata di Robert
Kennedy al giudice di competenza per chiedere di applicare una sospensiva
della sentenza su cauzione. La mossa, azzardata, ebbe l’effetto desiderato
perché il 27 ottobre King fu rilasciato dietro pagamento di una cauzione di
2000 dollari.
Il 1° novembre King tenne una conferenza stampa nella quale l’entourage
kennediano si aspettava una chiara espressione di sostegno al candidato
democratico, che però non arrivò. Non era ingratitudine nei confronti di
chi lo aveva letteralmente tirato fuori dal carcere, ma un atteggiamento
derivato dalla ferma convinzione che il movimento per i diritti civili non
avrebbe mai sfondato se si fosse appiattito sull’agenda di un solo partito.
«Dobbiamo rendere chiaro e cristallino – era la sua formula – che nessun
partito può millantare di avere il voto nero in tasca»174. Diverso
l’atteggiamento di Daddy King, che nel sermone domenicale pronunciato
alla Dexter Avenue Church annunciò che avrebbe votato per Kennedy
«nonostante fosse cattolico»175. L’affermazione va contestualizzata. Sino
all’elezione di Kennedy non vi era mai stato un presidente cattolico e –
siamo ancora prima del Concilio Vaticano II e quindi prima delle aperture
ecumeniche che ne seguirono – i rapporti tra cattolici e protestanti erano
di reciproca diffidenza. Da parte protestante, in particolare, si temeva una
confessionalizzazione dello Stato che avrebbe alterato i delicati equilibri
costruiti in virtù del I emendamento della Costituzione, che impedisce al
Congresso di privilegiare una confessione religiosa o di vietare il libero
esercizio di un culto. Il 12 settembre 1960 Kennedy incontrò
un’autorevole rappresentanza protestante per rassicurarla sul fatto che la sua
fede cattolica non avrebbe inciso sugli equilibri istituzionali176.
Il 1961 fu il primo anno di JFK alla Casa Bianca. Le attese erano notevoli
e il presidente giovane e ottimista sembrava la persona più adatta a
interpretare lo spirito americano di quegli anni di sviluppo e di continuo
progresso scientifico, messi però in ombra da una “questione razziale” che
avvelenava le relazioni tra bianchi e afroamericani. Per dirla con King, non
era solo una questione politica o legislativa, ma una ferita alla moralità
dell’America e al sogno democratico sul quale essa poggiava la sua identità
primaria. Secondo questa interpretazione “etica” della crisi americana,
King riteneva che il movimento di protesta e gli afroamericani stessero
facendo per l’America più di chiunque altro e che «il nero è lo strumento
di Dio per salvare l’anima dell’America»177.
Di nuovo, in espressioni come questa emerge una radicalità del pensiero
di King che non risiede nel suo antagonismo al potere bianco o
nell’estremizzare i metodi di lotta, ma nel riconoscere che il male
dell’America cova nella sua anima e nella sua coscienza. E il movimento
per i diritti civili non è semplicemente un nuovo soggetto politico, ma
l’interprete di un percorso di redenzione e di recupero di quella visione
ideale e profetica con cui l’America era nata. Anche i rapporti con la Casa
Bianca, evidentemente destinati a farsi più frequenti, vanno inquadrati in
questa cornice interpretativa per comprendere perché – in estrema e
asciutta sintesi – alla fine MLK e JFK non si siano mai davvero capiti.
«La nuova Amministrazione – scrisse King il 4 febbraio – ha l’opportunità
di essere la prima in cento anni di storia americana ad adottare un
approccio radicalmente nuovo alla questione dei diritti civili»178. Era
un’apertura di credito importante che riconosceva a Kennedy un ruolo
primario nel «processo di democratizzazione che la nostra nazione ha
messo troppo tempo a sviluppare ma che resta l’arma più potente per
guadagnare il rispetto e favorire l’emulazione di tutto il mondo»179. Una
chiusa patriottica sicuramente sentita – ricorre in tanti discorsi – ma che se
da una parte colloca il pensiero di King ancora all’interno dello schema
della Guerra fredda, dall’altra offriva al neopresidente un notevole assist per
procedere con decisione nel percorso di abolizione di tutte le norme e i
cavilli che nei fatti impedivano alla gran parte degli afroamericani di
esercitare il diritto di voto.
Di fronte a questa apertura la Casa Bianca non dette segnali di riscontro,
intendendo forse dimostrare che la questione dei diritti civili, per quanto
di grande rilievo e importanza, non era diventata la priorità assoluta della
nuova Amministrazione democratica.

I freedom riders
D’altra parte il movimento non si fermava e, anche questa volta per
iniziativa primaria dello SNCC e del CORE piuttosto che della SCLC,
decise una nuova forma di protesta, i freedom rides, “viaggi della libertà” in
cui viaggiatori bianchi e neri salivano insieme su autobus che, in omaggio
alla tradizione segregazionista ma ormai in contrasto con la legge,
ammettevano solo bianchi o solo neri. In un certo senso era un “ritorno”
allo spirito di Montgomery, ma anche un monito a prendere atto del fatto
che in alcuni Stati del Sud la storia si era fermata al tempo di Jim Crow. Il
primo freedom ride, organizzato da James Farmer del CORE e sostenuto
dallo SNCC, fu quello del pullman Greyhound che il 4 maggio del 1961,
partendo da Washington, era diretto a New Orleans, passando per
Virginia, North e South Carolina, Georgia, Alabama e Mississippi.
L’azione coinvolgeva tredici attivisti – tra di essi segnaliamo James Lawson,
come si è visto uomo della cerchia più ristretta dei collaboratori di King – e
veniva monitorata da un altro autobus sul quale erano saliti giornalisti e
osservatori. La tecnica dell’azione dei freedom riders prevedeva che ci fosse
almeno una coppia interrazziale seduta sui sedili affiancati e un viaggiatore
di colore nella parte anteriore del bus. Almeno un attivista si sarebbe
seduto rispettando i criteri segregazionisti così da non essere arrestato e
poter immediatamente segnalare eventuali soprusi e incidenti. Il viaggio
procedette senza sostanziali problemi in Virginia, ma arrivati in South
Carolina John Lewis, uno degli attivisti più noti e preparati alla resistenza
nonviolenta, fu fermato dalla polizia. Altri arresti seguirono lungo il
tragitto e la missione continuò fino in Alabama dove, come previsto, si
registrarono i fatti più violenti.
Domenica 14 marzo un gruppo di attivisti del Ku Klux Klan, alcuni dei
quali appena usciti da una chiesa, attaccarono un pullman della compagnia
Greyhound a Annison, in Alabama, rompendo i finestrini e sgonfiando i
pneumatici. Il secondo autobus, quello di accompagnamento, fu colpito da
una bomba che fece esplodere il serbatoio del carburante. Vi furono anche
difficoltà a curare i feriti presso gli ospedali circostanti che, temendo la
ritorsione degli uomini del Klan, chiusero le porte alle vittime degli
attentati. Dopo essere ripartito, quando finalmente arrivò a Birmingham,
l’autobus fu nuovamente attaccato dal KKK sotto gli occhi della polizia,
che non mosse un dito.
Nel tentativo estremo di riportare la calma e fermare le violenze,
Kennedy inviò in Alabama John Seigenthaler, un funzionario del
Dipartimento di Giustizia alle dirette dipendenze di Bob Kennedy, con il
compito primario di favorire una tregua.
Nonostante le violenze subite, i riders intendevano continuare il loro
viaggio e raggiungere Montgomery. Per parte loro, gli autisti della
Greyhound annunciarono che non avrebbero più guidato mezzi sui quali
fossero saliti freedom riders. Tutto faceva capire che il viaggio sarebbe finito a
Birmingham e, per salvare simbolicamente l’obiettivo finale, decisero di
arrivare a New Orleans in aereo. Era una mezza sconfitta o una mezza
vittoria? L’interrogativo pesava come un macigno sul movimento, che da
una parte era certamente riuscito ad attirare l’attenzione sulla violenza
razzista nel Sud e sulla permanenza di sacche di segregazione a dispetto di
ogni norma e sentenza. Dall’altra, però, non solo era mancato il
raggiungimento dell’obiettivo simbolico, ma – quel che era peggio – i
razzisti avevano mostrato di poter bloccare una protesta civile e
nonviolenta.
Ragioni di opportunità giudiziaria avevano indotto King a non
partecipare al primo freedom ride, ma certo l’ala più movimentista della
SCLC rappresentata e formata da James Lawson mordeva il freno e
riteneva necessario programmare nuovi viaggi. Fu soprattutto la già citata
giovane e preparata Diana Nash a spingere perché un gruppo di attivisti
salisse su un autobus per Birmingham: a coprirle le spalle e a sostenerla, il
solito Lawson180, allora residente a Nashville. Bisognava però vincere il
rifiuto degli autisti, che erano sì tenuti a garantire un servizio pubblico, ma
non potevano rischiare la vita ad ogni viaggio. La garanzia di adeguate
scorte che impedissero le scorribande violente del KKK, favorita da un
intervento della Casa Bianca sui governatori, rassicurò gli autisti e un
nuovo freedom ride, debitamente scortato, poté partire il 17 maggio, con
dieci attivisti a bordo, alla volta di Birmingham ed infine di Montgomery.
Ma arrivati a poche miglia dall’obiettivo la scorta si dileguò e nei pressi
della stazione dei pullman Greyhound – oggi monumento nazionale che
ricorda quell’episodio – il mezzo fu attaccato da un gruppo di suprematisti
bianchi che colpì i manifestanti con la solita brutalità razzista. Mazze da
baseball e tubi di ferro furono le armi utilizzate, in primo luogo contro
giornalisti e fotografi. Tra le vittime anche Seigenthaler, il funzionario
inviato da Washington, che restò ferito sull’asfalto per dieci minuti prima
che qualcuno si prendesse cura di lui. Fu lui a raccogliere lo sfogo del
commissario di polizia di Montgomery che, di fronte all’accaduto, affermò:
«Non abbiamo certo intenzione di schierare la polizia per un gruppo di
facinorosi che entrano nella nostra città»181.

In ritardo sul movimento


La rischiosa situazione giudiziaria aveva indotto King a non partecipare –
benché invitato – ai rides. Ma la mattina di domenica 21 maggio, quando
più di 1500 persone si erano raccolte per onorare i riders nella First Baptist
Church di Montgomery, quella di Ralph Abernathy, King volle essere
presente. E, rinunciando ad altri impegni, tornò nella “sua” Montgomery.
«Negli ultimi giorni – dichiarò nel suo messaggio – l’Alabama è
letteralmente diventata la scena di un regno del terrore. È sprofondata a un
livello di barbarie comparabile ai tragici giorni di Hitler in Germania». Mai
King era ricorso a un’immagine così forte e drammatica. Ma quello che più
conta in quel discorso è il convinto sostegno ai riders che avevano dato «il
magnifico esempio di un’azione forte e coraggiosa priva di violenza. Ciò di
cui sono convinto è che la nostra via sia la più creativa per liberarci dai
ceppi paralizzanti della segregazione»182. Mentre King e gli altri oratori si
alternavano al podio, una folla minacciosa di 3000 suprematisti circondò la
chiesa, tirando qualche sasso e scatenando il panico tra i presenti. La polizia
non interveniva e la situazione si faceva eccezionalmente grave. Un nastro
registrato trascritto nei King Papers ci consente di sentire la voce di King
che mandava messaggi rassicuranti alla folla, la quale però si sentiva
pericolosamente intrappolata: «State calmi, siamo insieme, non abbiamo
paura (Amen) e noi trionferemo (Giusto!). E allora state calmi»183. In un
clima di crescente tensione ebbe luogo una telefonata tra Bob Kennedy e
Martin Luther King, che accusò il suo interlocutore di averlo tradito.
«Ora, pastore – lo interruppe Bob Kennedy –, lei sa quanto me che se non
avessi inviato le truppe federali a proteggervi, ora sareste stati schiacciati
come le noci di Kelsey»184. Espressione irlandese che forse King non capì
nel dettaglio ma che fu sufficiente a chiudere la telefonata. La crisi si risolse
infatti quando finalmente, all’alba, le forze di polizia arrivarono a
proteggere le centinaia di persone raccolte in chiesa.
Il gravissimo incidente dette la misura del divario tra le intenzioni
riformatrici della Casa Bianca e la reale situazione negli Stati del Sud. King
concesse che forse Bob Kennedy apprezzava le pressione che il movimento
esercitava sulla Casa Bianca, ma resta il fatto che il presidente manteneva
un atteggiamento di ambigua esitazione e, come emerge in recenti studi
sulle relazioni tra JFK e MLK,
la Casa Bianca non diede modo di evidenziare alcuna leadership sui diritti civili; il
presidente non fece alcuna mossa di rilievo, neanche legislativa; non fece uso del suo
pulpito privilegiato per incoraggiare un ampio cambiamento culturale [...]. Benché
sperasse di affrontare il tema dei diritti civili con i suoi tempi, ben presto fu costretto a
confrontarsi con l’impazienza di Martin Luther King e di altri neri del Paese185.

Un giudizio politico molto severo, che però spiega come proprio in


quella circostanza King decise di accelerare e progressivamente di
radicalizzare la protesta. La storia correva veloce e persino i dirigenti della
NAACP osservarono che, in quelle circostanze, ognuno doveva «muoversi
più veloce di quanto non avesse mai fatto prima»186. Nella vicenda dei
freedom rides, la SCLC aveva dovuto “rincorrere” lo SNCC e il CORE per
non restare esclusa da quella che sarebbe diventata una grande protesta di
massa; ci pare però che, una volta scelta questa strada, King l’abbia
perseguita con convinzione e determinazione, mettendo la sua persona e la
sua organizzazione a disposizione di una causa condivisa con
convinzione187.
Le minacce, gli arresti e gli attentati non bloccarono i riders, che anzi nei
mesi successivi continuarono le loro azioni coinvolgendo personalità
bianche come il pastore William Sloan Coffin, allora cappellano a Yale e
successivamente pastore presso la prestigiosa Riverside Church di New
York, grande figura dell’opposizione alla guerra in Vietnam; gli ormai noti
Fred Shuttlesworth, Ralph Abernathy, Wyatt Tee Walker. Tutti sapevano
di scherzare col fuoco e che sarebbe bastato poco perché ci scappasse il
morto e addirittura di peggio. Era questa la paura della Casa Bianca, che
chiese un periodo di “raffreddamento” della tensione e, in buona sostanza,
la sospensione dei rides. La risposta di James Farmer, del CORE, fu
sferzante: «sono 350 anni che ci raffreddiamo e se ci raffreddiamo ancora
un po’ ci ritroviamo praticamente congelati»188.
In quella occasione King decise di non esporsi: lo tratteneva il rischio di
un arresto che, dati i precedenti, questa volta non si sarebbe risolto con una
cauzione o con un affidamento in prova. Ma a questo argomento se ne
aggiungeva un altro più politico: si era convinto, infatti, di essere l’unico a
potere garantire una mediazione tra il movimento e la Casa Bianca, utile a
proteggere i manifestanti. Il prezzo di questa scelta fu comunque altissimo.
Agli occhi di una nuova leva di attivisti, King non sembrava più “quello di
Montgomery” e alcuni di loro arrivarono a criticarlo apertamente. A
difenderlo, tra i militanti più giovani, John Lewis che capiva le ragioni che
suggerivano un atteggiamento più defilato. Resta il fatto che, almeno
secondo alcune ricostruzioni, King prese molto sul serio il suo ruolo di
contatto con la Casa Bianca e, in una conversazione con Bob Kennedy, si
spese a favore delle ragioni morali degli studenti. «È un fatto di coscienza e
di moralità – gli disse nel corso di una concitata telefonata svoltasi alle
21,15 del 24 maggio –. La nostra coscienza ci dice che la legge è sbagliata
[...] è difficile accettare la posizione degli oppressi... Io sono diverso da mio
padre – concluse –. Io sento il bisogno di essere libero ora»189. Una
telefonata tesa e difficile, per nulla risolutiva e utile soltanto a dare la misura
della distanza tra le due posizioni.
In pochi mesi il movimento era cresciuto e, soprattutto, aveva acquisito
coscienza delle sue potenzialità. Ogni parola tesa a valutare la situazione e i
rischi appariva una intromissione e, soprattutto, un tentativo di moderarne
e rallentarne la spinta propulsiva. Ma il mantenimento di quei livelli di
mobilitazione andava in rotta di collisione con la strategia della Casa
Bianca, che aveva bisogno di poter dimostrare di controllare la situazione e
di non essere in balia delle spinte estreme di una parte e dell’altra. Una
proposta messa in campo per spostare l’attenzione dalle azioni dirette, sia
pure nonviolente, a un programma di riforme fu il Voter Education Project,
un programma largamente finanziato da alcuni gruppi privati vicini alla
Casa Bianca con il quale si voleva favorire la partecipazione al voto
cercando di superare, nei limiti del possibile, tutti gli ostacoli frapposti alla
registrazione degli elettori di colore. La proposta fu discussa il 23 agosto, in
un tavolo che comprendeva rappresentanti della NAACP, dello SNCC,
del CORE, della NUL e ovviamente della SCLC. In generale il progetto
fu accolto con favore, anche se non mancarono i dubbi di chi temeva che
fosse una manovra “diversiva”. Quanto a King, sperava che la Casa Bianca
desse un segnale ricevendo formalmente una delegazione della SCLC da
lui stesso presieduta e, col passare del tempo, si convinceva che Kennedy,
pur mantenendo quell’intuito e quella qualità politica che gli aveva
riconosciuto al tempo della candidatura, mancava della «passione
morale»190 per portare avanti i suoi obiettivi.

Da Albany a Birmingham
Il pendolo tra azione sulle istituzioni e mobilitazioni di massa tornava su
queste ultime, senza le quali i programmi di riforme genericamente
avanzati da Kennedy non avrebbero mai potuto procedere. E così,
sull’onda dei successi raccolti – anche per meriti che andavano
primariamente attribuiti ad altri soggetti, come lo SNCC – all’inizio del
1962 King si preparava a guidare una nuova campagna ad Albany, una
cittadina della Georgia.
Anche in quel caso, egli e i suoi collaboratori della SCLC arrivarono “sul
campo” su invito di una rete già costituita che comprendeva esponenti
della NAACP e dello SNCC. Gli obiettivi della campagna, avviatasi nel
novembre del 1961, erano i soliti: conquistare la piena desegregazione e
favorire la registrazione di massa al voto dei neri. Questa volta, però, la
reazione ai sit-in e alle altre azioni nonviolente non ebbe la brutalità
controproducente sperimentata a Montgomery o a Birmingham: le forze
di polizia evitarono gli arresti di massa e l’esibizione gratuita della forza,
mantenendo al tempo stesso una linea di fermezza nella difesa della pratica
segregazionista. Nel tempo questa tecnica risultò efficace, perché riuscì a
fiaccare il movimento senza però che si lasciasse una traccia evidente delle
repressioni e delle violenze inflitte ai dimostranti. La percezione di una
campagna sostanzialmente inefficace fu presto evidente, e la sensazione di
sconfitta riaccese le ormai ricorrenti polemiche tra le varie organizzazioni
in campo, ciascuna delle quali riteneva di avere dato il meglio e il massimo
e lamentava, al contrario, il disimpegno e la scarsa mobilitazione delle altre.
Talora la tensione attraversava la stessa organizzazione, come accadeva
nello SNCC, dove iniziava ad emergere una dialettica non sempre
costruttiva tra un’anima più orientata all’azione e alla mobilitazione diretta
e un’altra – potremmo dire tradizionale – che puntava anche sulla
formazione della coscienza nonviolenta e sul rapporto con le altre
associazioni. In mezzo, come sempre, Ella Baker, che con buone
motivazioni politiche provava a spiegare che le due strategie non erano
alternative ma potevano interpretarsi come complementari191.
Certamente l’esito della campagna di Albany sollevò dei problemi di
strategia sui quali si interrogò lo stesso King che ammise:
L’errore che ho fatto è stato quello di protestare contro la segregazione in generale
piuttosto che contro un singolo e distinto aspetto di essa. La nostra protesta è stata così
vaga che non abbiamo ottenuto nulla e la gente è rimasta depressa e disperata. Sarebbe
stato meglio concentrarsi sull’integrazione degli autobus o delle mense. Una vittoria di
questo genere sarebbe stata simbolica, avrebbe galvanizzato il sostegno e rafforzato il
morale192.

Le azioni e gli arresti proseguirono nel 1962 e King, talora accusato di


non essere pronto a seguire il movimento fino alla fine, in quella campagna
finì in carcere per ben tre volte. Ad agosto, però, fu chiaro che il
movimento non riusciva a ottenere i risultati per i quali era nato e, sul
finire dell’estate, finì per cessare le proteste. Era una sconfitta, e i Kennedy
poterono tirare un respiro di sollievo.

Sulla linea del fuoco


La riflessione autocritica sull’esperienza di Albany indusse la SCLC a
promuovere la campagna successiva in una località in cui era più radicata e
strutturata o, quanto meno, dove poteva contare sul sostegno di forze locali
conosciute e sperimentate.
La scelta cadde su Birmingham, una città che sotto il profilo dei diritti
degli afroamericani appariva «molto vicina all’inferno»193. La
considerazione decisiva che indusse a promuovere un’azione di massa in
uno degli angoli più razzisti e segregazionisti degli Stati Uniti, tuttavia,
dovette essere la presenza di Fred Shuttlesworth: anche in questo caso un
pastore battista, leader dell’Alabama Christian Movement for Human
Rights (ACMHR), storicamente affiliato alla SCLC.
All’inizio di gennaio del 1963 le dirigenze della SCLC e del movimento
di Birmingham si incontrarono segretamente per mettere a punto il
“Project C”: Confrontation. Il piano, elaborato da C.T. Vivian, prevedeva
un’azione nonviolenta di massa che, preparata da un boicottaggio dei
negozi che applicavano le regole della segregazione, si immaginava avrebbe
alzato il livello della reazione di Eugene “Bull” Connor, capo della
sicurezza della città di Birmingham e fanatico segregazionista. Era una
letterale applicazione della nonviolenza gandhiana tesa a far emergere la
violenza dell’avversario sino a dimostrarne l’immoralità e la debolezza degli
argomenti difesi soltanto con la forza. King era perfettamente consapevole
del rischio connesso a quell’azione e non lo nascose ai suoi: «Vi devo dire
che secondo me, alcuni di quelli che siedono qui oggi, non usciranno vivi
da questa campagna»194. Nei giorni di Birmingham, solo in alcuni
momenti riusciva ad essere più leggero ed ironico, come quando, certo che
lo avrebbero arrestato quanto prima, confidava agli amici si sperare di finire
in cella «con qualcuno che almeno non russasse»195.
Benché alleati leali e fiduciosi l’uno nell’altro, King e Shuttlesworth
operavano con due prospettive diverse. Per il pastore di Birmingham
l’obiettivo primario era il miglioramento della qualità della vita dei neri
della città, cosa che per lui implicava la desegregazione, il riconoscimento
sociale della componente afroamericana, l’aumento dei salari dei lavoratori
di colore. King concepiva un progetto più ampio in cui, diversamente da
quanto era accaduto a Montgomery, la protesta non si esaurisse con il
raggiungimento degli obiettivi minimi ma si strutturasse in un movimento
di portata nazionale, capace di incidere sulle scelte di fondo
dell’Amministrazione.
Il giorno d’inizio della mobilitazione fu il 6 aprile quando i dimostranti
organizzarono una marcia verso la sede del Parlamento dello Stato, guidata
da Shuttlesworth in persona, senza che scoppiassero incidenti. Il rischio era
quello di una replica dell’azione di Albany, dove un atteggiamento più
accorto e meno violento della polizia era bastato a rendere la protesta poco
visibile e, alla fine, poco incisiva.
Pochi giorni prima, il 2 aprile, i cittadini di Birmingham avevano eletto il
loro sindaco, preferendo il moderato Albert Boutwell all’arcisegregazionista –
come egli stesso amava definirsi, “Bull” Connor. A sostegno del nuovo
sindaco si schierarono le forze imprenditoriali, che temevano – con piena
ragione – i metodi violenti e provocatori di Connor che avevano
conosciuto come capo della polizia.
La vittoria di Boutwell creò qualche imbarazzo in alcuni settori
eccezionalmente prudenti della NAACP, che propendevano per una
moratoria della campagna in attesa di vedere quale sarebbe stato il nuovo
corso dell’amministrazione cittadina. Le circostanze non favorirono la
moratoria. Un’ordinanza del 10 aprile emanata da un magistrato
dell’Alabama, William A. Jenkins, vietò la partecipazione a qualsiasi
manifestazione in città: un provvedimento che nei fatti intendeva vietare la
protesta proprio mentre stava prendendo forma. La stessa SCLC aveva
qualche esitazione alla disobbedienza civile nei confronti di un
pronunciamento della magistratura alla quale essa stessa si rivolgeva con
una certa, sia pure misurata, fiducia. Questa volta, però, non era possibile
mantenere questa posizione, e King per primo espresse chiaramente
l’intenzione di proseguire nell’azione di piazza. Mentre “Bull” Connor
dichiarava tronfiamente di voler «riempire tutti i posti disponibili nella
prigione locale», ebbe quindi inizio un’ondata di arresti sostanzialmente
preventivi. King capì che non si doveva sottrarre a questo destino, e
intorno a mezzogiorno del 12 aprile, venerdì della Settimana santa, lui,
Abernathy e Shuttlesworth uscirono dalla Sixth Avenue Zion Baptist
Church insieme a un gruppo di attivisti ben consapevoli di ciò a cui
andavano incontro in quell’anomalo “pellegrinaggio del Venerdì santo”.
Come previsto, King e Abernathy furono tra i primi ad essere fermati.
L’arresto plateale di due personalità così note era esattamente ciò che lo
staff della SCLC si aspettava; immediatamente la notizia fu comunicata alla
stampa e, ovviamente, a Coretta, la quale, ricordando l’invito di Kennedy
in una precedente telefonata, cercò di mettersi in contatto con la Casa
Bianca. Il primo tentativo, domenica 14 aprile, giorno di Pasqua, andò a
vuoto perché la famiglia presidenziale era in vacanza in Florida. Ma dopo
qualche ora Coretta fu richiamata da Bob Kennedy e il lunedì dallo stesso
presidente: si consolidava così una prassi che però non andava – o forse
non poteva andare – oltre la rassicurazione empatica sull’attenzione della
Casa Bianca al destino del pastore King. Era il giorno di Pasqua e i
manifestanti, dando vita a una nuova forma di protesta definita kneel in,
entravano in chiese “segregate”, si inginocchiavano (kneel) e si univano ai
partecipanti al culto o alla messa. In qualche caso furono accolti, in altri
malamente cacciati come provocatori e troublemakers196. D’altra parte a
Birmingham le chiese – anche le black churches – erano al tempo stesso il
cuore del movimento e la sua spina nel fianco. Fred Shuttlesworth era un
grande e carismatico leader, ma da varie testimonianze possiamo dedurre
che avesse una personalità molto forte e poco incline al confronto con gli
altri197; altre chiese nere erano su posizione moderate e temevano una
sovraesposizione politica; alcune chiese bianche, senza essere
segregazioniste, imputavano a King e al suo movimento di piombare a
Birmingham dall’esterno, di sconvolgere l’ordine pubblico senza essere
genuinamente intenzionate a cercare un accordo e una mediazione198.

In cella a Birmingham
King era ben consapevole di questa situazione e di avere puntati addosso
gli occhi di critici pronti a denunciare la sua carenza di leadership o il suo
opportunismo, la sua prudenza o il suo interventismo. Di fronte a ciò la
sua scelta, condivisa con la cerchia più stretta di collaboratori, fu di non
concedere ai suoi avversari – di “destra” e “di sinistra” – la exit strategy della
libertà su cauzione. Rimase quindi in cella, scrivendo su dei rotoli di carta
per le pulizie uno dei suoi testi più importanti e toccanti. La formula era
quella di una lettera in risposta a quei pastori che, sia pure con un
linguaggio moderato, lo avevano accusato di provocare disordini
economicamente dannosi sia per i bianchi che per i neri, di alimentare
tensioni sociali e di non avere la pazienza di aspettare gli effetti della nuova
amministrazione locale.
Noi sappiamo per dolorosa esperienza che la libertà non viene mai concessa
volontariamente dall’oppressore: deve essere richiesta dall’oppresso [...]. Sono anni che
sento la parola “aspettate”. Risuona nelle orecchie di ogni nero, gli è acutamente
familiare. Questo “aspettate” ha quasi sempre come significato “No! Mai!” [...].
Dobbiamo capire insieme [...] che la giustizia amministrata con ritardo è una giustizia
negata. Aspettiamo da oltre 340 anni i nostri diritti costituzionali, i diritti che Dio ci ha
concesso [...]. Ma quando avete visto folle malvage linciarvi madri e padri a piacere e
annegare sorelle e fratelli a capriccio; quando avete visto i poliziotti colmi d’odio che
imprecavano impunemente contro i vostri fratelli e sorelle neri mentre li prendevano a
calci e infierivano su di loro; quando vedete che la maggioranza dei venti milioni di
fratelli neri stanno soffocando in una gabbia opprimente di povertà nel bel mezzo di una
società affluente; [...] quando ti si umilia un giorno sì e uno no con i cartelli che dicono
“bianchi” e “persone di colore”; quando il tuo nome di battesimo diventa nigger e quello
di mezzo diventa “ragazzo”; [...] e quando tua moglie e tua madre non sono mai
chiamate “signore” [...] allora capirete perché troviamo difficile aspettare199.

Nonostante il clamore dell’arresto di King e di altri attivisti, con il passare


dei giorni e senza alcuna novità di rilievo la protesta scemava, e si
prefigurava uno scenario analogo a quello, deprimente, di Albany. Il
rilascio di King il 20 aprile rischiava di indebolire ulteriormente la protesta
e occorreva ravvivare l’azione con un’azione clamorosa e inedita. James
Bevel, sino ad allora molto vicino a King, propose l’operazione più
azzardata e controversa: una grande marcia di bambini che avrebbero preso
in mano la bandiera dell’azione diretta. King valutò il progetto con
interesse ma espresse anche l’ovvia preoccupazione di esporre dei
minorenni a dei rischi gravissimi e di finire per subire l’effetto boomerang
della critica di aver agito con cinismo senza valutare gli effetti di quella
particolare forma di protesta200.
La prevista partenza di King per Memphis, per una importante riunione
amministrativa della SCLC sempre alle prese con problemi di bilancio
determinati anche dalle ingenti uscite per spese legali connesse alla
campagna in corso, mise James Bevel, riconosciuto esponente della SCLC
e fidato collaboratore di King, nella condizione di poter prendere delle
decisioni autonome. Convinto della necessità di una escalation, decise di
procedere lanciando un appello per una manifestazione di bambini – quella
che poi «Newsweek» battezzò la Children crusade – da tenersi il 2 maggio.
L’appuntamento fu fissato nei pressi della chiesa sulla 16a strada. Nel
frattempo chi intendeva partecipare era invitato a dei corsi di base di
tecniche nonviolente nei quali si spiegava ai bambini che cosa poteva
succedere e quali erano i rischi della loro azione. La risposta all’appello di
Bevel andò ben oltre le aspettative e, quando King tornò a Birmingham, fu
messo di fronte a un fatto compiuto per il quale si complimentò con lui
giudicandolo «una risorsa e un tattico intraprendente»201. L’attivismo di
Shuttlesworth fu evidentemente decisivo nel reclutamento di oltre mille
bambini, che iniziarono a cantare e a muoversi sotto una precisa regia
curata da Bevel e da Walker: camminando verso la City Hall presero a
entrare, ordinatamente, nei locali “segregati”. Per il «New York Times»,
l’atmosfera era quella di un picnic scolastico202, ma questo non valse a
frenare “Bull” Connor, che reagì con una prima tornata di circa
cinquecento arresti.
Il giorno dopo, 3 maggio, era prevista un’altra mobilitazione. Stavolta
però la tattica adottata dal capo della polizia non fu quella degli arresti, ma
una carica frontale contro i dimostranti, bambini compresi. Le critiche
iniziarono allora ad arrivare anche da “sinistra”, ad esempio da Malcolm X,
che censurò severamente quell’azione perché «i veri uomini non mettono i
loro bambini sulla linea del fuoco»203. I fotografi e cameramen, alcuni dei
quali avevano operato in zone di guerra, fecero il loro lavoro al meglio, e in
poche ore il mondo poté vedere le immagini raccapriccianti di bambini
che scivolavano per metri sull’asfalto sotto la spinta dei getti d’acqua; dei
cani ringhiosi scatenati contro di loro; dei giganti in uniforme che si
accanivano contro ragazzini inermi. Sotto il profilo mediatico, per “Bull”
Connor e i suoi metodi razzisti e brutali fu una sconfitta epocale: il
presidente Kennedy definì «vergognose» le foto delle violenze e aggiunse
che lo «avevano fatto star male»204; reagì ordinando la mobilitazione di
3000 militari che in dieci aerei C 47 volarono dalla base militare di Fort
Bragg, in North Carolina, per poi spostarsi verso Montgomery; altre
truppe furono movimentate dalla Georgia nel quadro di un’azione che non
escludeva il passaggio della Guardia nazionale dell’Alabama agli ordini
diretti del governo federale205. Un editoriale del «New York Times» definì
il comportamento della polizia di Birmingham «una vergogna
nazionale»206. Tutto questo non fermava le proteste né gli arresti, così
numerosi – 2500 persone – da indurre Connor a trasformare l’area
fieristica in una grande prigione di massa. Birmingham era il caso
nazionale, il luogo della coscienza che imponeva di schierarsi da una parte
o dall’altra. Di fronte ai fatti di maggio, la posizione intermedia della
prudenza e dell’attendismo, dei torti e delle ragioni sapientemente
distribuiti, non era più tenibile. E così arrivarono in città artisti come Joan
Baez, attori, uomini di chiesa, rabbini secondo cui il «silenzio contro la
segregazione era lo stesso silenzio nei confronti delle atrocità della
Shoah»207.
Ma mentre l’apparato di polizia continuava nella sua rozza azione
repressiva, King e i suoi – indirettamente legittimati dalla presenza in città
di un inviato del Dipartimento di Giustizia, Burke Marshall – lavoravano
alla ricerca di interlocutori per avviare un negoziato su quattro obiettivi
sostanziali: l’immediata desegregazione di tutte le strutture private e
pubbliche, dalle mense ai servizi igienici, dai negozi agli spogliatoi; la fine
delle discriminazioni salariali e l’immediato adeguamento dei salari degli
afroamericani a quello dei bianchi; la pressione delle forze economiche
della città perché l’amministrazione locale cessasse ogni procedimento
legale nei confronti dei dimostranti; l’impegno degli stessi soggetti
imprenditoriali a chiedere la costituzione di una commissione birazziale
[sic] in grado di affrontare preventivamente problemi e crisi208. I negoziati
proseguirono tra alti e bassi sino al 7 maggio, quando fu convocata una
riunione del fronte segregazionista organizzato nel Senior Citizen
Committee. Ai partecipanti era chiaro che se avessero rifiutato la sostanza
delle richieste del movimento, la tensione sarebbe salita ulteriormente,
provocando ulteriori danni all’economia cittadina, paralizzando per un
tempo indefinibile le attività commerciali e trasformando Birmingham nel
simbolo del più arretrato conservatorismo segregazionista. Era troppo. La
sera stessa il Committee e i leader della SCLC accettarono di incontrarsi in
una riunione esplorativa per verificare la possibilità di un accordo.

Uno scontro interno


All’incontro, gestito soprattutto dalle espressioni locali della comunità
nera, partecipò anche King. Assente, invece, Shuttlesworth, ricoverato in
ospedale in seguito a un trauma subito durante le azioni di polizia dei
giorni precedenti. L’incontro segnò dei progressi e, come segno di buona
volontà, i leader della protesta concessero la cancellazione delle
dimostrazioni previste per l’indomani.
La reazione di Shuttlesworth, venuto a conoscenza di questa concessione,
fu semplicemente furiosa: le ricostruzioni del confronto tra i due colleghi
si differenziano nella durezza dei toni ma non nella sostanza209. Di fronte al
collega che lo accusava di svendere il movimento, di essere un intruso e di
non averlo consultato su una questione così delicata, King oppose qualche
ragionamento sull’opportunità di dare un segnale costruttivo alla
controparte, all’opinione pubblica e alla Casa Bianca. Argomenti tutti privi
di senso per Shuttlesworth, che viveva la sua militanza nel movimento
come una vera e propria crociata,
una lotta tra le tenebre e la luce, tra ciò che è giusto e ciò che è sbagliato, tra il bene e il
male, tra un sistema corretto e la tirannia. A noi è assicurata la vittoria perché noi
utilizziamo le armi dello spirito [...]. Se devo andare sotto processo, Dio verrà con me.
Sono già stato in tribunale e in galera altre volte, e sono pronto a tornarci. Io sono già
stato di fronte ad altri giudici, in tutto lo Stato [dell’Alabama] e mi dispiace per loro. Io
ho ragione e loro hanno torto. Dio non è con questi giudici. Dio mi ha parlato e mi ha
detto che cosa devo fare [...]. Alla fine Dio prenderà il sopravvento anche sui tribunali e
li governerà [...]. Dio è con noi nelle corti federali [...]. Noi sappiamo che vinceremo
perché Dio è con noi210.

King aveva obiettivi anche politici; vittorie e sconfitte gli avevano


insegnato quando era il momento di “incassare” il risultato prima di
rilanciare la sua battaglia. Da qui la differenza e la tensione con il suo
collega di Birmingham, al quale offrì una concessione non solo simbolica:
la manifestazione dell’indomani non sarebbe stata “cancellata”, ma
semplicemente “sospesa”. Tra i due erano corse parole grosse e non
edificanti che danno l’idea di una divisione profonda che i protagonisti
cercarono di non enfatizzare. Tuttavia ci pare riduttivo interpretare lo
scontro come una “questione di caratteri” o di interessi politici
confliggenti tra l’attivista locale mosso da sentimenti puri e adamantini e il
“politicante” King che, venendo dalla tradizionale leadership
afroamericana, era invece più incline al compromesso211. Certamente,
però, King aveva un disegno nazionale e una prospettiva politica che a
molti leader locali, pur eccezionalmente generosi e dediti alla causa
integrazionista, invece difettava. Secondo una ricostruzione di
Shuttlesworth, nel momento in cui si convinse a firmare il Civil Rights Act,
Kennedy avrebbe detto che non si sarebbe arrivati a quel punto «se non per
quanto accaduto a Birmingham»212. Certamente era questo l’obiettivo che
King perseguiva sin dall’inizio della campagna e, pronto a raggiungere
l’accordo per incassare il risultato della vittoria conseguita sul campo, già
guardava avanti e pensava una grande mobilitazione nazionale. Il voto agli
afroamericani non era e non doveva apparire una concessione che arrivava
dall’alto, ma un diritto conquistato dal basso. In questa prospettiva, i
negoziati proseguirono e il 10 maggio lo stesso Shuttlesworth, rassicurato
sul suo ruolo, poté annunciare: «La città di Birmingham ha raggiunto un
accordo con la sua coscienza»213.
Il prezzo della vittoria era drammaticamente destinato a rivelarsi altissimo:
qualche mese dopo, il 15 settembre, lo scoppio di una bomba nel
seminterrato della chiesa battista sulla 16a strada uccise quattro bambine
che stavano partecipando alla scuola domenicale. Il sermone previsto per
quella domenica si intitolava L’amore che perdona214. La forza di un leader sta
anche nella sua capacità di reagire alle sconfitte, e non vi è ombra di dubbio
che la morte di quattro bambine costituì una ferita dolorosissima nella
coscienza del movimento di Birmingham e dello stesso Shuttlesworth.

Kennedy sul Rubicone


Nell’immediato diventava urgente ed essenziale spendere politicamente il
successo ottenuto a Birmingham per rilanciare la grande e a questo punto
prioritaria battaglia per il diritto di voto. Le mobilitazioni fecero il loro
effetto e l’11 giugno il presidente Kennedy pronunciò un discorso
televisivo messo in onda dalla CBS con il quale, dopo oltre un anno e
mezzo di presidenza, annunciava una serie di azioni nei confronti del
Congresso:
La prossima settimana domanderò al Congresso degli Stati Uniti di agire, di onorare
un principio che non è stato pienamente rispettato nel corso di questo secolo, il
principio secondo cui la razza non ha alcuna influenza nella vita né nella legge americana
[...].
Chiedo al Congresso di approvare una legislazione che conferisca a tutti gli americani
il diritto di essere serviti nelle strutture aperte al pubblico, hotel, ristoranti, teatri, negozi
e altre istituzioni simili [...].
Chiederò inoltre al Congresso di autorizzare il Governo Federale a partecipare in
modo più completo alle cause giudiziarie volte a porre termine alla segregazione
nell’istruzione pubblica [...].
Sarà necessario prevedere anche altre misure, tra cui una maggiore protezione del
diritto di voto. La legislazione, ripeto, non può, tuttavia, risolvere da sola questo
problema...

L’ultimo passaggio, forse quello più atteso, era anche quello più sfumato.
Kennedy capiva bene che quella del diritto di voto degli afroamericani non
era solo una questione legislativa, ma implicava un cambiamento culturale
radicale soprattutto nella comunità bianca. E forse per questo nel suo
discorso insistette spesso sulla dimensione “morale” di un nuovo corso
della politica americana.
Ciò che dobbiamo affrontare è prima di tutto un problema morale. È una questione
che risale già alle Scritture ed è chiara quanto la Costituzione Americana.
Il problema fondamentale è stabilire se tutti gli americani debbano ottenere gli stessi
diritti e pari opportunità; se intendiamo trattare i nostri concittadini americani come noi
stessi desidereremmo essere trattati. Se un americano, a causa della sua pelle scura, non
può mangiare in un ristorante aperto al pubblico, se non può mandare i suoi figli alla
scuola pubblica migliore, se non può votare per i pubblici funzionari che lo
rappresenteranno, se, in breve, non può condurre la vita piena e libera che tutti noi
desideriamo, chi tra noi sarebbe felice di condividere con lui il colore della pelle e
prendere il suo posto? Chi tra noi si accontenterebbe del consiglio di portare pazienza e
aspettare [...].
Noi predichiamo con convinzione la libertà in tutto il mondo e teniamo in gran conto
la nostra libertà in patria. Tuttavia, dobbiamo dichiarare al mondo e, cosa ancor più
importante, a ognuno di noi, che questa è la terra della libertà, ma non per i neri? Che
non abbiamo cittadini di seconda classe, eccezion fatta per i neri, che non abbiamo un
sistema di classi o di caste, nessun ghetto, nessuna razza dominante, salvo che nel caso
dei neri?
Dobbiamo affrontare questa crisi morale come un Paese e come un popolo unito215.

Era il passaggio del Rubicone o una mossa attendista? Nel discorso egli
sottolineò soprattutto il tema della desegregazione che, soprattutto grazie
all’azione dei magistrati, aveva trovato una sua soluzione giuridica. Sul
diritto di voto, invece, le sue parole furono vaghe: «maggiore protezione
del diritto di voto».
King dovette percepire chiaramente il rischio di questa formula e,
soprattutto, di un impantanamento del processo legislativo, con il pericolo
di un sostanziale fallimento dell’obiettivo finale di garantire l’effettivo
esercizio del diritto di voto. Da qui una strategia del doppio binario: da una
parte il sostegno all’iniziativa di Kennedy, il cui discorso dell’11 giugno
veniva giudicato «davvero grande»; dall’altra una spinta alla mobilitazione
di massa. È del 20 giugno una chiara formulazione di questa sua intenzione
quando, a pochi giorni dal discorso televisivo di Kennedy, disse ai suoi
collaboratori: «Appena inizia l’ostruzionismo credo che dovremo marciare
su Washington con 250.000 persone»216.
Esattamente quello che la Casa Bianca temeva, una prova di forza dei neri
nel momento più delicato del passaggio al Congresso delle norme
annunciate l’11 giugno. Ma in pochi giorni i Kennedy furono certi che i
preparativi per una manifestazione di massa andavano avanti, e allora
cambiarono strategia. Invece di uccidere il drago provarono a domarlo. La
formula fu quella di un invito alla Casa Bianca aperto ai principali leader
del movimento nella giornata del 22 giugno del 1963. JFK non concesse la
“foto di gruppo”, lasciando che a posare con King e gli altri leader
afroamericani fossero il fratello Bob e il vicepresidente Johnson, ma non
rinunciò a dire forte e chiaro quale fosse il suo pensiero: «Siamo in una
nuova fase, quella legislativa. Dimostrazioni sbagliate nel tempo sbagliato
daranno a quella gente la possibilità di dire che essi devono dare prova del
loro coraggio votando contro di noi»217. La legge sul diritto di voto,
sembrò dire il presidente, non potrà mai arrivare per pressioni di piazza.
Insomma, state fermi.
Questo detto con le buone. Il linguaggio cambiò in un colloquio privato
con King nel giardino delle rose della Casa Bianca, lontano da orecchie
indiscrete. Senza giri di parole, il presidente disse che l’FBI aveva prove
certe che alcuni dirigenti della SCLC appartenevano a reti comuniste.
Oltre al solito nome di Stanley Levison, gli fece anche quello di Jack
O’Dell218. King non lo difese con particolare fermezza – pur
puntualizzando che i suoi rapporti con gruppi comunisti erano cessati da
tempo e che aveva maturato idee del tutto diverse da quelle giovanili219 – e
la sua collaborazione con la SCLC finì di lì a poco. Tenne invece il punto
su Levison220.
Vincendo le ultime resistenze della NAACP, assai sensibile alle lusinghe
kennediane, il “pellegrinaggio” a Washington fu finalmente fissato per il
28 agosto e si sarebbe concluso in uno dei luoghi simbolicamente più
eloquenti e tormentati della storia americana: il Lincoln Memorial.
Quello che si annunciava come un raduno di massa rischiava di ridursi a
un pop show del politically correct. Non potendo fermare la macchina
organizzativa, i Kennedy tentarono di depotenziare la rilevanza politica
dell’evento, segnato da una pesante contraddizione: da una parte, infatti,
godeva della forzata benevolenza di Bob Kennedy, mentre dall’altra non
poteva non denunciare le esitazioni dell’Amministrazione Kennedy nel
portare al Congresso la tanto attesa legge sui diritti civili.
Dopo un periodo di vacanza con la famiglia ai primi di agosto, King
affidò al «New York Times Magazine» un articolo che precisava i
contenuti e gli obiettivi di quella mobilitazione, precisando che non si
limitavano all’approvazione della legge sui diritti civili ma riguardavano
anche la piena uguaglianza e «un’opportunità priva di ostacoli perché ogni
persona potesse finalmente dispiegare tutte le proprie capacità». Più
specificatamente, menzionò la richiesta di abitazioni e opportunità di
lavoro, «sempre che sia possibile stabilire delle priorità tra tutti i mali di cui
soffrono i neri»221. È chiaro l’intento di “forzare” i contenuti della
mobilitazione e di spingere l’Amministrazione ad alzare l’asticella dei
programmi di riforma annunciati.
Il braccio di ferro tra gli organizzatori e la Casa Bianca proseguì sino alle
ore immediatamente precedenti l’evento. I collaboratori dei Kennedy
avevano chiesto di poter leggere i testi in anticipo, e quello di John Lewis,
presidente dello SNCC – l’organizzazione già prendeva pieghe estremiste
che l’allontanavano dall’integrazionismo e dal pacifismo kinghiano – risultò
inaccettabile. In alcuni passaggi, infatti, definiva la legge sui diritti civili,
peraltro ancora non approvata, come un provvedimento che «era troppo
poco e arrivava troppo tardi». E poi sferrava un attacco diretto alla Casa
Bianca denunciando la «misera» leadership del Paese, «che ha costruito le
proprie carriere su compromessi immorali e che si è alleata a forme di
esplicito sfruttamento politico, economico e sociale»222. La disseminazione
nel testo della parola “rivoluzione” faceva il resto. Il discorso conteneva
espressioni inaccettabili non solo per la Casa Bianca, ma anche per il
cardinale Patrick O’Boyle, che avrebbe dovuto aprire l’incontro con una
preghiera. Al mattino il caso era ancora irrisolto, e O’Boyle minacciava che
se quelle parole fossero state pronunciate egli avrebbe clamorosamente
abbandonato la manifestazione. A pochi minuti dall’inizio un gruppo
ristretto discuteva animatamente sul retro del Lincoln Memorial. C’era
anche King, al quale viene attribuita una richiesta quasi implorante a
Lewis: «Ti conosco bene. Non credo che queste parole risuonino per
come sei tu».
145 «Time», 2 maggio 1960, p. 14; Fairclough, To Redeem the Soul of America, cit.,
p. 59.
146 Paul Lauter, Versions of Nashville. Visions of American Studies, in Id., From
Walden Pond to Jurassic Park. Activism, Culture and American Studies, Duke
University Press, Durham-London 2001, p. 77. Cit. in Sandro Portelli, Riti di
assenso, pratiche di protesta. Alle origini del movimento dei diritti civili negli Stati Uniti, in
Naso (a cura di), Il sogno e la storia, cit., p. 47.
147 James Bevel fu senza dubbio uno dei collaboratori di King più stretti e
influenti. Si sposò quattro volte – una delle sue mogli fu Diana Nash, altro
personaggio di primo piano del civil rights movement – ed ebbe 16 figli da sette
diverse donne. Morì nel 2008 di pancreatite senza essere riuscito a ribaltare la
sentenza che pochi mesi prima lo aveva condannato a 15 anni di carcere, The Rev.
James L. Bevel Dies at 72, in «Los Angeles Times», 24 dicembre 2008. Una lunga
intervista a Bevel, registrata il 14 gennaio del 2003 e quindi prima della sua
condanna, in HistoryMakers,
https://www.thehistorymakers.org/biography/reverend-james-bevel (consultato il
23 novembre 2020).
148 Lisa Mullins, Diane Nash: The Fire of the Civil Rights Movement, Barnhardt &
Ashe, Miami 2007.
149 Tra le migliori ricostruzioni dell’origine e dei primi cambiamenti attraversati
da questa associazione, Howard Zinn, The New Abolitionists, Beacon Press, Boston
1964.
150 Martin Luther King, La scottante verità sul Sud, in Naso (a cura di), L’“altro”
Martin Luther King, cit., pp. 747-779 (apparso il 24 maggio del 1960 su «The
Progressive»).
151 Fairclough, To Redeem the Soul of America, cit., p. 62.
152 Venturini, Con gli occhi fissi alla meta, cit., p. 146.
153 Fairclough, To Redeem the Soul of America, cit., p. 63. Incomprensibilmente la
versione del discorso di Lawson riportata in David W. Houck, David E. Dixon,
Rhetoric, Religion and the Civil Rights Movement, 1954-1965, Baylor University
Press, Taco, Texas, 2006, pp. 357-362 non riporta le frasi citate, quelle a nostro
avviso politicamente più rilevanti e controverse.
154 From Roy Wilkins, lettera del 27 aprile 1960, in TPMLK, vol. V, p. 445.
155 Clayton Powell fu un personaggio controverso quanto centrale della comunità
afroamericana. Pastore battista della notissima Abyssinian di New York, nel 1941
fu eletto per la prima volta al Congresso in rappresentanza del distretto di Harlem,
mantenendo il seggio sino al 1967, quando ne fu privato in seguito a un’accusa di
corruzione avallata dal suo stesso Partito democratico. King non intervenne in sua
difesa e questo silenzio può aver causato una reazione di astio e polemica da parte
di Powell. Vinta la causa legale intentata presso la Corte suprema, gli fu restituito il
seggio nel 1968 ma, nelle elezioni del 1970, lo perse e si ritirò definitivamente
dalla vita politica attiva. Cfr. Adam Clayton Powell, Jr., Adam by Adam,
Kensington Publishing Corporation, New York 2002.
156 To Adam Clayton Powell, lettera del 24 giugno 1960, in TPMLK, vol. V, pp.
480-481.
157 Secondo il racconto di Rustin ai suoi, Clayton Powell affermava di avere
qualche prova «che Martin ed io andiamo a letto insieme». L’affermazione destò
sconcerto tra i presenti, che in maggioranza sembravano orientati a respingere il
ricatto di Clayton Powell. King prese tempo sino a quando Rustin, con
disappunto, ruppe gli indugi e presentò le dimissioni: Garrow, Bearing the Cross,
cit., p. 140; Branch, Parting the Waters, cit., p. 328.
158 Dopo un esordio brillante come protagonista della Harlem Renaissance,
soprattutto ai tempi del suo pastorato presso la Abyssinian Church, già nel 1963 fu
accusato di frode nella rendicontazione dei fondi a sua disposizione come
parlamentare; successivamente fu accusato di falso in atto pubblico per avere
assunto come collaboratrice la sua terza moglie che invece risiedeva a Porto Rico;
infine, sempre più assenteista e concentrato su complesse vicende familiari e sulla
gestione di una proprietà nell’atollo di Bimini (Bahamas), nel 1970 perse il suo
storico seggio al Congresso. Col tempo i rapporti tra King e Clayton Powell si
normalizzarono e già nel gennaio del 1961 un King evidentemente benevolo e
pronto a mettere tra parentesi ricatti e maldicenze arrivò a complimentarsi con
Clayton Powell che aveva raggiunto l’agognata presidenza dello House Education
and Labor Committee, riconoscendo il suo «incrollabile impegno e lealtà senza
compromessi per la causa dei diritti civili della gente di colore», lettera del 28
gennaio 1961, in TPMLK, vol. VII, p. 132.
159 TPMLK, vol. VII, p. 34.
160 G.J. Barker-Benfield, Catherine Clinton, Portraits of American Women From
Settlement to the Present, Oxford University Press, New York 1998, p. 566.
161 Intervista a Ella Baker, a cura di John Britton, Oral History/Interview, The
Civil Rights Documentary Project, realizzata il 19 giugno del 1968. Il documento,
di grande significato umano e politico, è disponibile al sito
https://www.crmvet.org/nars/baker68.htm#baker68_mlk2 (consultato il 1°
febbraio 2019).
162 Pensiamo soprattutto a Veltroni, Il sogno spezzato, cit.; Furio Colombo,
L’America di Kennedy, Feltrinelli, Milano 1964.
163 Wallace fu una personalità di primo piano del Partito democratico del Sud:
più volte governatore dell’Alabama, per ben quattro volte si candidò alla
presidenza riuscendo anche a vincere le primarie in alcuni Stati. Ma il suo
estremismo razzista gli impedì l’ascesa ai vertici nazionali. Nel 1977 subì un
attentato di natura non politica che lo costrinse sulla sedia a rotelle. In questa
difficile condizione ebbe una conversione e si dichiarò «rinato in Cristo» (new born
in Christ) aderendo a una chiesa evangelica di matrice fondamentalista. Da qui una
confessione di peccato e una richiesta di perdono alla quale il suo più autorevole
biografo non sembra dare credito: «Wallace, come la maggior parte dei meridionali
della sua generazione, [aveva] genuinamente creduto che i neri fossero una razza
separata, inferiore», Dan T. Carter, The Politics of Rage: George Wallace, the Origins
of the New Conservatism, and the Transformation of American Politics, Simon &
Schuster, New York 1995, p. 236.
164 Alla fine degli anni ’40 una componente conservatrice del partito diede vita a
una scissione, poi sostanzialmente rientrata, che portò alla nascita dello States’
Rights Democratic Party, i cui aderenti vennero comunemente e irrisoriamente
detti dixiecrats in riferimento alla musica dixie propria di alcuni Stati del Sud. Sia
pure rientrati nel partito, molti esponenti di questa corrente e i loro sostenitori
occasionalmente negarono il voto a candidati democratici giudicati troppo liberal,
votando per gli avversari repubblicani.
165 TPMLK, Introduzione al vol. V, p. 31.
166 Ibidem.
167 Ivi, p. 36.
168 Cfr. Stephen G.N. Tuck, Beyond Atlanta: The Struggle for Racial Equality in
Georgia, 1940-1980, The University of Georgia Press, Athens 2001.
169 Roger S. Gottlieb, Joining Hands: Politics and Religion Together for Social Change,
Routledge, New York 2002, pp. 104 sgg.
170 Rebecca Burns, The Atlanta Student Movement: A Look Back, in «Atlanta», 1°
marzo 2010.
171 La polizia lo aveva fermato il 4 marzo ad Atlanta. Il processo aveva avuto
luogo il 23 settembre e si era concluso con la condanna a un’ammenda di 25
dollari e a una detenzione di 12 mesi, in libertà condizionata, TPMLK, vol. V, p.
37.
172 Martin Luther King alla moglie Coretta, dalla prigione di Reidsville, 26
ottobre 1960, in TPMLK, vol. V, p. 531.
173 Coretta King, My Life with Martin Luther King, Jr., cit., p. 196.
174 Fairclough, To Redeem the Soul of America, cit., p. 73.
175 Garrow, Bearing the Cross, cit., p. 148.
176 Il testo e la registrazione del discorso sono disponibili sul sito
www.jfklibrary.org (consultato il 24 maggio 2010).
177 Lewis V. Baldwin, There is a Balm in Gilead: The Cultural Roots of Martin Luther
King, Jr., Fortress Press, Minneapolis 1991, p. 231.
178 Equality Now: The President Has the Power, in «The Nation», 4 febbraio 1961, in
TPMLK, vol. VII, p. 139.
179 Ivi, p. 150.
180 James Lawson, How the Nashville Movement Kept the Riders Riding,
https://breachofpeace.com/blog/?p=57 (consultato il 21 ottobre 2020).
181 David Niven, The Politics of Injustice: The Kennedys, the Freedom Rides, and the
Electoral Consequences of a Moral Compromise, University of Tennessee Press,
Knoxville 2002, p. 82.
182 Discorso al Freedom Riders Rally presso la First Baptist Church di
Montgomery, 21 maggio 1961, in TPMLK, vol. VII, p. 231.
183 Ibidem.
184 Steven Levingston, Kennedy and King: The President, the Pastor, and the Battle
over Civil Rights, Hachette Books, New York 2017, p. 183.
185 Ivi, p. 197.
186 Così Thurgood Marshall, direttore dell’Ufficio legale della NAACP, ibidem.
187 È quindi discutibile l’affermazione secondo cui la SCLC e il CORE
«avrebbero sospeso la campagna» e che essa continuò solo grazie alla
determinazione di «giovani dello SNCC», Venturini, Con gli occhi fissi alla meta,
cit., p. 157. Una dichiarazione fatta da King il 23 maggio nel corso di una
conferenza stampa attesta infatti il contrario, e cioè la convinzione che i «freedom
rides possano e debbano continuare», Martin Luther King, Press Conference
Announcing the Continuation of the Freedom Rides, Montgomery 23 maggio 1961, in
TPMLK, vol. VII, p. 233.
188 Farmer, Lay Bare the Heart, cit., p. 206.
189 Levingston, Kennedy and King, cit., p. 190.
190 Levingston, Kennedy and King, cit., p. 206.
191 Cfr. Yohuru Williams, Rethinking the Black Freedom Movement, Routledge,
New York 2013, p. 29.
192 Wolfgang Mieder, Making a Way Out of No Way: Martin Luther King’s
Sermonic Proverbial Rhetoric, Peter Lang, New York 2010, p. 90.
193 Ling, Martin Luther King, Jr., cit., p. 105.
194 Ivi, p. 113.
195 Ivi, p. 115; Branch, Parting the Waters, cit., pp. 705-706.
196 Glee T. Eskew, But for Birmingham: The Local and National Movements in the
Civil Rights Struggle, University of North Carolina Press, Chapel Hill 1997, p. 58.
197 Vari pastori e gran parte dei professionisti neri ritenevano che semplicemente
lui non potesse «lavorare insieme alla gente», Garrow, Bearing the Cross, cit., p. 238.
E, come vedremo, anche i rapporti con King alla fine si fecero difficilissimi e non
furono compromessi soltanto per quella che appare, sulla base delle testimonianze
a nostra disposizione, una tenace pazienza di quest’ultimo.
198 Eskew, But for Birmingham, cit., p. 288.
199 Martin Luther King, Lettera da una prigione, in Id., Io ho un sogno, Scritti e discorsi
che hanno cambiato il mondo, SEI, Torino 1993, pp. 86, 87.
200 Fairclough, To Redeem the Soul of America, cit., p. 124.
201 Ivi, p. 125.
202 Foster Hailey, 500 Are Arrested in Negro Protest at Birmingham, in «The New
York Times», 3 maggio 1963, p. 1.
203 Eskew, But for Birmingham, cit., p. 266.
204 Garrow, Bearing the Cross, cit., p. 250.
205 Eskew, But for Birmingham, cit., p. 303.
206 Branch, Parting the Waters, cit., p. 764; Fairclough, To Reedem the Soul of
America, cit., p. 138.
207 Eskew, But for Birmingham, cit., p. 283.
208 Garrow, Bearing the Cross, cit., p. 252.
209 La versione di Fairclough riporta le seguenti parole di Shuttlesworth,
negativamente allusive al rapporto tra Kennedy e King: «Quando sei venuto a
Birmingham, non lo hai chiesto a Kennedy. Burke Marshall non era qui intorno.
C’erano delle persone che avevano fiducia in me perché sapevano che non avrei
mentito e non li avrei svenduti», Fairclough, To Redeem the Soul of America, cit., p.
128. Più colorita la versione di Garrow, che fa riferimento a due distinti momenti:
nel primo Shuttlesworth avrebbe detto: «Bene, Martin, chi ha deciso?... Bene,
Martin, mi è difficile capire come qualcuno possa avere deciso senza di me... Bene,
Martin, tu sai che cosa si dice ad Albany? Che tu sei arrivato, hai fomentato la
gente, avviato la lotta e poi te ne sei andato». Qualche ora dopo, di fronte a
Marshall Burke, Shuttlesworth sarebbe stato ancora più diretto e ruvido: «Che io
sia dannato se la cosa la mantieni così. Tu sei mister Grande, ma diventerai mister
SHIT [merda]. Mi spiace ma io non posso andare a compromessi con i miei
principi e con quello che abbiamo deciso», Eskew, But for Birmingham, cit., p. 288.
La fonte primaria è un’intervista dello stesso Shuttlesworth, in Henry Hampton,
Steve Fayer, Voices of Freedom, Bantam Books, New York 1990, pp. 136-137.
210 Police Intelligence Report, in Connor Papers, box 9, folder 25, p. 288, cit. in
Andrew M. Manis, M.A. Manisre, Fire You Can’t Put Out: The Civil Rights Life of
Birmingham’s Reverend Fred Shuttlesworth, University of Alabama Press, Tuscaloosa
1999.
211 Questa la tesi di Eskew, But for Birmingham, cit., p. 288.
212 Ivi, p. 310.
213 Ivi, p. 293.
214 Intervista a Christopher McNair, padre di una delle bambine uccise
nell’attentato, NPR, 15 settembre 1963,
https://www.npr.org/templates/story/story.php?storyId=94640715 (consultato il
12 febbraio 2019).
215 John F. Kennedy, Televised Address on Civil Rights, 11 giugno 1963, video e
testo tradotto in italiano al sito https://www.jfklibrary.org/learn/about-jfk/historic-
speeches/televised-address-to-the-nation-on-civil-rights (consultato il 6 febbraio
2018).
216 Ling, Martin Luther King, Jr., cit., p. 145; Garrow, Bearing the Cross, cit., p.
365.
217 Garrow, Bearing the Cross, cit., p. 272.
218 Ling, Martin Luther King, Jr., cit., p. 147; Garrow, Bearing the Cross, cit., p.
272.
219 Garrow, Bearing the Cross, cit., p. 235.
220 Charles Euchner, Nobody Turn Me Around: A People’s History of the 1963 March
on Washington, Beacon Press, Boston 2011, p. 73.
221 Martin Luther King, What the Marchers Really Want, in «The New York
Times Magazine», 25 agosto 1963.
222 John Lewis, Michael D’Orso, Walking with the Wind, Simon & Schuster, New
York 1998, p. 227.
V.
Salite e discese

Nobody knows the trouble I’ve been through


Nobody knows my sorrow
Nobody knows the trouble I’ve seen
Glory hallelujah!
Sometimes I’m up, sometimes I’m down
Oh, yes, Lord
Sometimes I’m almost to the ground
Oh, yes, Lord
Although you see me going ’long so
Oh, yes, Lord
I have my trials here below
Oh, yes, Lord
If you get there before I do
Oh, yes, Lord
Tell all-a my friends I’m coming to Heaven!
Oh, yes, Lord
Negro spiritual 223

Il 28 agosto del 1963 migliaia di persone arrivarono a Washington DC con


ogni mezzo; in molti non riuscirono neanche ad avvicinarsi al Lincoln
Memorial. Gli arrivi furono ordinati e disciplinati da un efficiente servizio
d’ordine diretto da Bayard Rustin, uno degli esponenti storici della SCLC.
Fu subito chiaro che almeno in termini numerici la manifestazione
indetta dai “Big Six”224 – il nomignolo dei rappresentanti delle sei
organizzazioni più rappresentative del civil rights movement – sarebbe stata
un successo al di là delle previsioni. Gli organizzatori avevano convinto la
società ferroviaria MTA ad aumentare il numero delle corse da New York
alla capitale e le linee degli autobus di New York City furono affollate di
gente per tutta la notte. Per qualche ora l’America si fermò. Quella dello
sport, dello spettacolo, del lavoro. Gli occhi di tutti erano puntati su un
rettangolo erboso di Washington. Il presidente Kennedy e il suo entourage
seguivano l’evento alla televisione con un atteggiamento confuso di
apprezzamento per l’immagine dell’America che se ne percepiva – un
paese giovane, dinamico, plurale che non aveva paura di fare i conti con il
suo passato più oscuro – ma anche di ansia per gli effetti che ne potevano
derivare.
Il programma era intenso e prevedeva passaggi musicali – tra gli altri
cantarono Mahalia Jackson, Bob Dylan, Joan Baez, Paul and Mary – e,
ovviamente, i discorsi di dieci relatori: gli organizzatori, tre leader religiosi
(a rappresentare cattolici, protestanti ed ebrei) e il sindacalista Walter
Reuther. Nonostante la marea di donne presenti, a loro furono concessi
solo una generica menzione e brevi interventi tecnici. Tutto iniziò con
ordine e l’attesa si appuntava sul discorso di Lewis, il secondo e il più
giovane a parlare, ma soprattutto quello che si era presentato con un testo
non condiviso dagli altri organizzatori. Alla fine, il leader dello SNCC
decise di tagliare i passaggi più controversi e il programma corse veloce
sino al discorso di Martin Luther King, l’ultimo in programma. Non fu
una sua scelta, ma la conseguenza delle preferenze degli altri, che temevano
di parlare mentre parte del pubblico già si allontanava per tornare ai mezzi
di trasporto. L’inizio fu classicamente kinghiano: il riferimento alla
Dichiarazione d’indipendenza e alla Costituzione con le loro «sublimi
parole», quelle degli architetti della repubblica che affermavano «i diritti
inalienabili della vita, della libertà e del perseguimento della felicità». Ma
subito seguì una prima, efficace metafora, quella di una cambiale mai
pagata, una cambiale che gli afroamericani intendevano riscuotere, la
cambiale «delle ricchezze della libertà e della garanzia della giustizia». King
aveva catturato l’audience e procedeva con il tono cantilenante da
predicatore del Sud, quando, dalla folla, Mahalia Jackson, la grande
cantante nera, urlò: «Martin, parlagli di quel sogno, Martin!». E questi
iniziò a sgranare immagini che come nessun’altra catturarono l’anima e lo
spirito di tanti americani: il Mississippi razzista che «si trasformerà in
un’oasi di libertà e di giustizia»; i suoi quattro figli che un giorno vivranno
in una nazione in cui non saranno giudicati «per il colore della pelle ma per
le qualità del loro carattere»; le ragazzine e i ragazzini neri dell’Alabama che
un giorno «sapranno unire le loro mani con i ragazzini bianchi e le
ragazzine bianche come se fossero fratelli e sorelle». Immagini molto
concrete, inframmezzate da un grido di speranza ritmato e condiviso –
retoricamente un’anafora – «io ho un sogno». Infine, l’immagine di un
vento che attraversa tutta l’America e fa risuonare la libertà: dalle cime
prodigiose del New Hampshire, dalle poderose montagne dello Stato di
New York, dagli alti Allegheni della Pennsylvania; dalle montagne
rocciose del Colorado; dai dolci pendii della California; dalla Stone
Mountain della Georgia, dalla Lookout Mountain del Tennessee...
«Risuoni la libertà da ogni monte e monticello del Mississippi. Da ogni
pendice risuoni la libertà». Fino al climax retorico della conclusione in cui
tutti i figli di Dio, neri e bianchi, ebrei e gentili, cattolici e protestanti, si
uniscono per cantare il vecchio spiritual: «liberi, finalmente liberi. Grazie a
Dio onnipotente siamo finalmente liberi»225. Un finale entusiasmante e
collaudato in altre occasioni226 ma sempre capace di interpretare le
emozioni di migliaia di persone che condividevano la stessa visione di
un’America finalmente libera dal razzismo.
Per qualche minuto quel discorso catturò l’America e rappresentò la
sintesi migliore di ciò che essa poteva essere. Il giorno dopo i grandi
giornali plaudirono alla manifestazione. In particolare il «New York
Times» commentò che King aveva toccato tutti i temi della giornata
«meglio di chiunque altro. Era pieno del simbolismo di Lincoln e Gandhi e
delle cadenze della Bibbia. Era militante e triste, e mandò via la folla con
l’idea che era valsa la pena di affrontare un lungo viaggio»227. Lo riconobbe
anche Lewis che, come si è visto, avrebbe voluto pronunciare parole più
critiche e dure nei confronti dell’Amministrazione: «il Dottor King – disse
– ha avuto il potere, l’abilità e la capacità di trasformare quei gradini del
Lincoln Memorial in un’area monumentale che verrà riconosciuta per
sempre. Parlando come lui ha fatto, ha educato, ispirato, informato non
solo le persone lì presenti, ma tutti gli americani e le generazioni che
ancora dovevano nascere»228. Quel discorso suscitò emozioni intense anche
nello studio ovale della Casa Bianca: «Ragazzi, ha fatto un diavolo di
discorso»229, avrebbe commentato il presidente rivolto al fratello Bob. Se
l’avesse ascoltata, l’espressione non sarebbe piaciuta a un predicatore come
King, ma certo indicò la sorpresa di Kennedy, che evidentemente non
aveva ancora avuto occasione per apprezzare la forza della retorica di King.
Chi scrisse quel discorso? Dalle testimonianze dei suoi collaboratori più
stretti emerge che, sotto l’urgenza dell’organizzazione, nessuno avesse
pensato seriamente al discorso e che tutti facevano conto sul “mestiere” di
King, e la tesi più fondata è che sia interamente ascrivibile a lui. La
maggiore difficoltà derivava dalla scarsità del tempo a disposizione per
catturare l’attenzione di centinaia di migliaia di persone. Riguardando i
filmati, si nota come all’inizio King leggesse ma poi, dopo il suggerimento
della Jackson – «Martin, parlagli di quel sogno, Martin!» – abbia messo da
parte gli appunti per andare a braccio. Nulla di sorprendente per un
predicatore con la sua esperienza, e infatti King, semplicemente, riprese un
modulo retorico adottato con successo in altre occasioni. Improvvisò,
certo, ma con la sicurezza di chi sa bene che cosa dire e come dirlo.
Scavando nelle carte di King emergono appunti di altri discorsi in cui il
tema del “sogno” ricorre in forme del tutto analoghe a quella adottata a
Washington. Ad esempio un discorso del 1960 rivolto alla NAACP
intitolato The Negro and the American Dream230. Ma, probabilmente, la
versione originale fu quella pronunciata a Detroit nel giugno del 1963 che,
persino nell’intonazione, in molti passaggi richiamava quella di due mesi
dopo a Washington:
E così oggi pomeriggio ho un sogno. È un sogno profondamente radicato nel sogno
americano. Ho un sogno che un giorno, proprio in Georgia, Mississippi e Alabama, i
figli degli ex schiavi e i figli degli ex proprietari di schiavi potranno vivere insieme come
fratelli. Oggi pomeriggio ho un sogno che un giorno piccoli bambini bianchi e piccoli
neri potranno unire le loro mani come fratelli e sorelle [...]. Oggi pomeriggio ho un
sogno che i miei quattro figli piccoli non verranno su in giorni come quelli in cui sono
cresciuto io, ma saranno giudicati in base al contenuto del loro carattere, non al colore
della loro pelle. [...] Sì, oggi pomeriggio ho un sogno che un giorno in questa terra le
parole di Amos diventeranno reali e «il diritto scorrerà giù come le acque e la giustizia
come un potente fiume» [Amos 5:24, N.d.A.]. Stasera ho un sogno che un giorno
riconosceremo le parole di Jefferson che «tutti gli uomini sono creati uguali, che sono
dotati dal loro Creatore di certi diritti inalienabili, che tra questi ci sono Vita, Libertà e
ricerca della Felicità». Ho un sogno questo pomeriggio. Sogno che un giorno ogni valle
sarà esaltata e ogni collina sarà abbattuta; i luoghi storti saranno resi dritti e i luoghi
accidentati piani; e la gloria del Signore sarà rivelata e tutta l’umanità lo vedrà insieme.
Oggi pomeriggio ho il sogno che la fratellanza umana diventerà realtà in questo giorno.
E con questa fede uscirò e scaverò un tunnel di speranza attraverso la montagna della
disperazione. Con questa fede, uscirò con te e trasformerò gli oscuri ieri in luminosi
domani. Con questa fede, saremo in grado di raggiungere questo nuovo giorno in cui
tutti i figli di Dio, neri e bianchi, ebrei e gentili, protestanti e cattolici, saranno in grado
di unire le mani e cantare con i neri nello spirito del passato: Finalmente liberi!
Finalmente liberi! Grazie a Dio onnipotente, siamo finalmente liberi!231

L’evento di Washington confermò King nel ruolo di leader del


movimento. Tra le poche voci dissonanti quella di Malcolm X che, ancora
legato ai Black Muslims del reverendo Elijah Mohammed, continuava ad
affermare che l’uomo bianco era «il diavolo»232 e che la marcia di
Washington che intonava parole di giustizia e comunione interrazziale era
una «farsa»233.

Dallas
L’ottimismo generato dalla marcia del 28 agosto svanì all’improvviso il 22
novembre quando, a Dallas, il presidente JFK fu ucciso in un attentato.
Poche ore dopo, in una drammatica emergenza nazionale, Lyndon
Johnson giurava come trentaseiesimo presidente degli Stati Uniti sull’aereo
che riportava a Washington la salma di Kennedy. Accanto a lui, la vedova
Jacqueline con l’abito ancora macchiato di sangue.
La reazione di King alla notizia fu di sconcerto personale e di angoscia
politica. Ai suoi occhi quell’omicidio si iscriveva in un clima generale di
violenza che lo preoccupava sia come cittadino americano che come leader
del movimento per i diritti civili. I rapporti con il presidente non erano
stati sempre idilliaci, ma gli sembrava che il discorso presidenziale del 22
giugno e la reazione positiva alla mobilitazione di agosto avessero
determinato un beneaugurante clima di reciproca fiducia. Era come –
commentò con i suoi collaboratori – se esistessero due Kennedy: il primo
era quello conosciuto nei primi due anni di mandato, il secondo era quello
che sembrava aver capito la rilevanza morale dei temi razziali e si mostrava
«determinato a impegnarsi per affrontarli con coraggio»234. Ma questo era il
passato. Ora bisognava riprendere il filo del discorso con il nuovo
presidente, Lyndon Johnson, che King riuscì ad incontrare in tempi
decisamente rapidi, il 3 dicembre alla Casa Bianca. L’incontro fu giudicato
“fruttuoso”, ma il presidente non prese alcun impegno sui tempi di
presentazione al Congresso della legge sui diritti civili.
Le vacanze di Natale furono allietate dalla notizia che «Time» avrebbe
dedicato a King la copertina di “uomo dell’anno”: era un effetto dell’onda
lunga del successo di Washington che, peraltro, non appariva ancora
pronta a rifluire. Il 18 settembre dell’anno successivo, infatti, dopo un
lungo giro in Terra Santa e in Europa, fu ricevuto in udienza privata da
papa Paolo VI, che espresse il sostegno della Santa Sede alla causa
nonviolenta dei neri d’America. Il Concilio era ancora in corso e la stretta
di mano tra il papa e King era uno dei “segni dei tempi” che sembravano
aprire una nuova stagione, oltre che sulla scena geopolitica, anche nelle
relazioni ecumeniche. Ma anche la visita a Berlino del 13 settembre, su
invito dell’allora sindaco Willy Brandt, non passò inosservata. Del tutto
incurante del divieto di oltrepassare checkpoint Charlie, e complice
l’imbarazzo delle forze di polizia, King entrò nella parte orientale della città
dove lo aspettava Heinrich Grüber, pastore protestante e sopravvissuto ai
campi di sterminio nazisti. Abbiamo il testo del sermone nel quale definì
Berlino «il fulcro attorno al quale gira la ruota della storia». Ma omaggi
retorici a parte, parlò soprattutto di distensione, affermando che proprio
come l’America «sta dimostrando di essere il banco di prova di razze che
vivono insieme nonostante le loro differenze», così la città doveva testare
«la possibilità di coesistenza per le due ideologie che ora competono per il
dominio del mondo [...]. Ovunque avvenga la riconciliazione», ovunque
gli uomini abbattano le pareti divisorie dell’ostilità «che li separano dai loro
fratelli, lì Cristo continua a svolgere il suo ministero di riconciliazione»235.
Un altro successo politico e diplomatico che non dispiacque alla Casa
Bianca.
Di lì a poco un’altra notizia che confermava King come personalità di
livello internazionale: l’attribuzione del Premio Nobel per la pace. Il
reverendo non era a casa ma in ospedale per controlli di routine e, forse,
per rimediare al sovraccarico di lavoro e di stress seguito alla sua proiezione
a livello mondiale. Quando gli fu comunicata la notizia, apparve
ovviamente contento ma non del tutto sorpreso, dal momento che sapeva
della candidatura a suo favore avanzata da alcuni accademici e politici
svedesi. Da una parte era un eccezionale riconoscimento alla persona e al
movimento, dall’altra – come notò con la sua tipica premura Coretta – la
conferma che a quel punto suo marito non si sarebbe più potuto sottrarre a
quella vita e a quel ruolo236.
Ma le buone notizie si fermavano qui. Per il resto la situazione politica
restava bloccata, la SCLC era attraversata da tensioni per la leadership e,
all’esterno, aumentavano le aspettative e le critiche nei confronti di King.
Tra le più severe quelle di Malcolm X, ormai leader consacrato di una
nuova componente del movimento, che soprattutto alcuni settori giovanili
e intellettuali giudicavano più dinamico del reverendo King o, quanto
meno, capace di interpretare meglio il disagio e la frustrazione di tanti
giovani di colore per i quali il sogno americano restava una vuota e
provocatoria suggestione retorica.

Martin & Malcolm, avversari o fratelli separati?


Le biografie del reverendo battista cresciuto nel ceto medio e dell’attivista
musulmano formatosi per strada sembrano costruite apposta per metterle
in contrapposizione e ridurre così il loro scontro ideale e politico a una
questione di classe o di fede religiosa. In effetti, come si è visto, King
nacque nell’ambiente della borghesia nera di buona cultura e in una
famiglia di clergymen battisti. Anche il padre di Malcolm fu un predicatore
battista, seguace delle idee di Marcus Garvey237 secondo il quale il destino
dei neri d’America non doveva essere la ricerca di un’impossibile
integrazione negli USA ma il ritorno in Africa. Il padre morì quando
Malcolm aveva solo sei anni, ucciso da un gruppo di suprematisti bianchi
nel suo racconto; deceduto in conseguenza di un incidente stradale
secondo le ricostruzioni ufficiali. Quanto alla madre, era nata da un
rapporto violento subito dalla nonna di Malcolm da parte di un bianco, e
con la sua pelle ambrata, i capelli rossi e una cronica malattia nervosa
portava su di sé le tracce indelebili di quello stupro. Di quattro anni più
grande di Martin Luther King, Malcolm Little – questo il suo cognome,
che volle sostituire con una X in omaggio ai milioni di anonimi schiavi
deportati dall’Africa238 – nacque a Omaha, Stato del Nebraska, il 19
maggio del 1925. Insieme ai suoi sette fratelli, il giovane Malcolm – come
scrive nella sua Autobiografia – crebbe orfano di padre negli anni della
Grande Depressione, vedendo gli zii morire uccisi da un gruppo vicino al
Ku Klux Klan, subendo violenze e umiliazioni che pensò di superare
iniziando una piccola carriera criminale che, in breve, lo portò in carcere,
dove avvenne il suo incontro con la Nation of Islam e un cambiamento di
vita che, negli anni ’60, fece di lui uno dei più noti predicatori musulmani
di Harlem.
La segregazione che conoscono Malcolm X e Martin Luther King – ha scritto Bruno
Cartosio – è profondamente diversa. La prima, quella di Malcolm X, è la segregazione
delle grandi città, delle metropoli del Nord, dei ghetti metropolitani. La segregazione di
Martin Luther King è quella del Sud dove più pesante e concreta era l’eredità del sistema
schiavistico e dove restava più rigida una gerarchia sociale violenta che permetteva a
quella società di conservare una sorta di ordine in cui ognuno stava al proprio posto239.

E ancora, Martin era il figlio del Sud agricolo, quello che aveva portato il
peso più drammatico dello schiavismo e della Guerra civile: Malcolm,
invece, era nato e cresciuto nel Nord, dove la linea del colore era meno
brutale ma non per questo incideva di meno sulla vita del proletariato nero
costretto a lavori marginali e malpagati. Martin e Malcolm ebbero anche
diversi percorsi di fede: più lineare il primo, tutto interno alla spiritualità
afroamericana e alla tradizione delle black churches; segnato prima da una
conversione all’islam dei Black Muslims e poi dalla scoperta
dell’universalismo islamico, il secondo. Diversa anche la base di consenso:
per il pastore di Atlanta era l’America mainstream, bianchi e neri interessati
a un progetto di integrazione che sostenesse lo sviluppo del Paese; per
Malcolm erano piuttosto i giovani esclusi da quello sviluppo in ragione del
colore della pelle, quei famosi cats in the street con i quali egli si identificava
pienamente240. Agli opposti anche le strategie e gli obiettivi politici: azione
nonviolenta in vista di una società “integrata” per Martin; lotta anche
violenta in vista della conquista del Black Power per Malcolm. Fortemente
emblematico di questa posizione un celebre intervento di Malcolm
pronunciato nella Cory United Methodist Church il 3 aprile del 1964, che
sin dal titolo dava la misura della distanza tra i due leader: The ballot or the
bullet, il voto o il proiettile. «L’argomento di stasera è “La rivolta negra:
quali sviluppi avrà?” – esordì. – A mio modesto modo di vedere essa pone
un preciso dilemma: il voto o il proiettile»241. La tesi era chiara. La prima
strada – quella della protesta e della negoziazione politica – era fallita e non
restava che prenderne atto per imboccare risolutamente quella della lotta
violenta.
Se avete paura di servirvi di questa espressione – affermò Malcolm rivolto a un
pubblico che non comprendeva soltanto sostenitori della sua causa – ebbene tornatevene
in campagna, nel campo di cotone, oppure in qualche vicolo buio dei bassifondi. Si
pigliano tutti i voti dei neri e dopo ai neri non tocca niente. Tutto ciò che hanno fatto
una volta arrivati a Washington è stato dare dei grossi posti ad alcuni papaveri neri che
non ne avevano bisogno perché erano già sistemati. Questo è un imbroglio, un
tradimento, un abile modo di camuffare la verità.

Parole durissime rivolte ai leader più acclamati del movimento accusati,


in buona sostanza, di accontentarsi delle briciole che il potere bianco si
degnava di lasciare loro. Erano argomenti non nuovi ma del tutto coerenti
con un’impostazione politica che rivendicava il diritto degli afroamericani
a ricorrere a «ogni mezzo necessario» per raggiungere i propri obiettivi
strategici.
Ma l’oceanica distanza da Martin Luther King si misurava anche su un
altro tema, se vogliamo ancora più centrale: quello dell’appartenenza
all’America e alla sua tradizione morale, costituzionale e politica. Si
ricorderà come una delle prime immagini del discorso di King a
Washington il 4 agosto del 1963 contenesse un’orgogliosa rivendicazione
della tradizione americana e ponesse la questione dei neri d’America
all’interno di una questione democratica che attraversava gli Stati Uniti:
«Quando gli architetti della repubblica scrissero le sublimi parole della
Costituzione e la Dichiarazione d’Indipendenza – affermò – firmarono una
cambiale della quale ogni americano sarebbe diventato erede. Questa
cambiale permetteva che tutti gli uomini, sì, i neri tanto quanto i bianchi,
avrebbero goduto dei principi inalienabili della vita, della libertà e del
perseguimento della felicità»242. Meno di un anno dopo, Malcolm replicava
con un incipit ideologicamente opposto:
No, io non sono americano. Sono uno dei ventidue milioni di uomini dalla pelle nera
che sono vittime dell’americanismo, uno dei ventidue milioni di vittime della
democrazia che non è altro che un’ipocrisia travestita. Non vengo qui a parlarvi da
americano, da patriota, non sono uno che saluta la bandiera o che la tira fuori ad ogni
occasione, no! Io vi parlo da vittima del sistema americano; vedo l’America con gli occhi
della vittima e non riesco a vedere nessun sogno americano. Quello che vedo è un
incubo americano243.

Il “sogno” e l’“incubo”. Martin e Malcolm si dividevano anche sulla


forma retorica dei loro discorsi.
A parte il rispetto dovuto alla persona, Malcolm salvava ben poco di King
e della sua strategia da «Zii Tom che non parlano per la maggioranza dei
neri, non parlano per le masse negre. Essi parlano per la borghesia nera, per
quelli che hanno subito il lavaggio del cervello, per quelli che pensano
come i bianchi, per quella minoranza di classe media che si vergogna di
essere nera e non si vuole identificare con le masse nere e che sta cercando
di perdere la propria identità nera, mischiandosi, confondendosi,
sposandosi e integrandosi con l’uomo bianco»244. Con la sua prosa tagliente
liquidava grandi eventi come la marcia su Washington del 1963 come la
«buffonata [...] di bianchi davanti alla statua di un presidente morto da
cento anni e al quale, quando era vivo, noi non piacevamo»245.
Durissimo anche il giudizio sul metodo della nonviolenza, largamente
egemone nel movimento per i diritti civili almeno sino alle conquiste del
1965. Per Malcolm
la non violenza, il porgere l’altra guancia sono cose che non mi dicono niente. Non ho
mai sentito di una rivoluzione nonviolenta, o di una rivoluzione a cui si sia arrivati
porgendo l’altra guancia, e così credo sia criminale insegnare ad una persona, che viene
brutalizzata, a continuare ad accettare questa brutalità senza fare niente per difendersi. Se
è questo quello che insegna la filosofia cristiano-gandhiana, allora è criminale... è una
filosofia criminale246.

Quanto a King, adottò una strategia molto diversa e, evitando i toni della
polemica personale e diretta, riportava lo scontro a categorie politiche e al
giudizio sulle strategie:
Ho spesso desiderato che [Malcolm X, N.d.A.] parlasse meno di violenza, perché la
violenza non risolverà il nostro problema. E nella sua litania di articolazione della
disperazione del Negro senza offrire alcuna alternativa positiva e creativa, sento che
Malcolm ha reso a se stesso e al nostro popolo un grande disservizio. Nei ghetti neri
l’oratoria infuocata e demagogica, esortando i neri ad armarsi e prepararsi ad affrontare la
violenza come ha fatto lui, non può raccogliere altro che dolore247.

Ovviamente irritato e amareggiato dall’accusa facile di essere uno “Zio


Tom” aggiornato e ripulito come il personaggio del celebre romanzo di
Harriet Beecher Stowe, King replicava che Malcolm e i suoi seguaci non
capivano l’importanza della differenza tra «nonresistenza» al male e
«resistenza nonviolenta»248. Neanche nei momenti di massima tensione tra
Malcolm e Martin, infine, quest’ultimo volle utilizzare argomenti pesanti
come il rivendicato antisemitismo della Nation of Islam e gli spericolati
rapporti con l’American Nazi Party che si spinsero fino all’invito del loro
leader a un raduno della Nation of Islam svoltosi a Chicago, presso il
Chicago International Amphitheater, il 25 febbraio del 1962. In quella
sede uno scatto a firma della fotografa ebrea Eve Arnold per la Magnum
Photos ritrae il fondatore dell’American Nazi Party, George Lincoln
Rockwell, ed altri camerati in divisa nazista249 mentre ascoltavano Malcolm
X che pronunciava il discorso Separatismo o morte250. Le “relazioni
pericolose” tra i leader del separatismo nero e i movimenti suprematisti
bianchi non erano nuove e, se datavano almeno dai tempi di Marcus
Garvey, sarebbero proseguite fino a Louis Farrakhan, ultimo leader dei
Black Muslims251. Il fragile elemento alla base di questa relazione era la
comune opposizione all’idea di integrazione interrazziale che invece
costituiva il Leitmotiv della leadership di King.

Una foto
I due leader si incontrarono di persona solo una volta, il 26 marzo del
1964, dopo aver partecipato in momenti distinti a una breve conferenza
stampa svoltasi a margine del dibattito al Senato sulla legge per il diritto di
voto agli afroamericani. Una foto li ritrae insieme mentre si stringono la
mano e sorridono, apparentemente contenti di incontrarsi.
Nulla di quella foto del marzo 1964 lascia trasparire lo scontro tra le loro
diverse interpretazioni del razzismo americano e tra le loro contrapposte
strategie di lotta per i diritti della comunità afroamericana. Eppure, non si
trattava di una mera finzione buona per i media. Quella stretta di mano
avvenne in un momento politico delicatissimo, certamente segnato
dall’omicidio di John F. Kennedy avvenuto solo quattro mesi prima ma
anche caratterizzato dall’imminente approvazione di quella legge sul diritto
di voto per la quale King e il suo movimento si erano mobilitati da almeno
sette anni.
Gran parte degli studi sui due personaggi ha lungamente avallato
l’interpretazione polarizzata che ha finito per contrapporre due leader tra i
quali, soprattutto negli ultimi anni di una vita in tutti e due i casi spezzata
da un omicidio, crebbe invece una dialettica. A partire dagli studi di James
Cone degli anni ’90252, infatti, si è delineata una linea interpretativa tesa a
evidenziare due svolte che finirono per avvicinare i due personaggi. Per
Malcolm l’anno chiave fu il 1963, quando si consumò la rottura con il suo
maestro e mentore, il leader dei Black Muslims Elijah Muhammad. L’uscita
dalla Nation of Islam, resa pubblica l’8 marzo del 1964, ebbe una causa
remota ma, come sempre accade, fu anche il frutto di uno specifico scontro
con Elijah Muhammad. Guardando all’indietro, nei dieci anni precedenti
la Nation of Islam era cresciuta esponenzialmente, passando da qualche
centinaio di aderenti ad alcune migliaia253, e risultava più che evidente che
questa imprevedibile performance si doveva all’azione e al carisma di
Malcolm X assai più che alla predicazione di Elijah Muhammad o di altri
esponenti della Nation of Islam. Difficile immaginare che questo dato non
irritasse le “seconde file” dell’associazione e non generasse sentimenti
animosi nei confronti di Malcolm. Ma la tensione cresceva anche tra
Malcolm e Elijah, e su un tema etico delicato quale le svariate relazioni
sessuali che il capo della Nation of Islam, che predicava astinenza e fedeltà
coniugale, intratteneva con diverse donne del suo staff. Le goffe
giustificazioni del capo spirituale della Nation of Islam, che rivendicò per
sé il diritto divino a relazioni sessuali diverse e multiple come era accaduto
per i profeti biblici254, non fecero che accrescere l’autorevolezza di
Malcolm, che rafforzò la sua immagine “puritana” di uomo che aveva
conosciuto l’esperienza del peccato ma che poi si era convertito e restava
fedele alla nuova legge morale che orientava la sua vita.
Ma a determinare la rottura tra Elijah Muhammad e il suo seguace più
famoso intervenne anche un fatto specifico: a seguito dell’omicidio di
Kennedy, Malcolm affermò che «il presidente era rimasto vittima di una
violenza che non aveva saputo fermare». E a rafforzare un pensiero già
abbastanza chiaro volle aggiungere la metafora dei polli che tornano nel
pollaio per farsi arrostire. Un’immagine – disse – «che non mi ha mai fatto
soffrire»255. L’affermazione apparve smisurata e i toni suonarono
insopportabilmente cinici anche al capo della Nation of Islam che, con un
comunicato immediatamente ripreso dalle principali testate, gli impose il
silenzio stampa per novanta giorni256. La rottura era inevitabile e il 12
marzo del 1964 Malcolm annunciò il suo impegno in una nuova
associazione islamica di nome Muslim Mosque.
I passi successivi furono il viaggio in Egitto e il pellegrinaggio alla Mecca:
un’esperienza eccezionalmente intensa che produsse un cambiamento
spirituale e politico rilevante, espresso in una specifica autocritica.
Riferendosi al clima di fratellanza che sentiva attorno a sé, Malcolm sentiva
che il suo settarismo ed esclusivismo razziale appariva incompatibile con il
messaggio universalistico dell’islam, al punto da indurlo a rivedere «molte
delle mie posizioni precedenti e a scartare alcune delle mie conclusioni
[...]. Posso dire, basandomi sulle esperienze che ho avuto, di nutrire la
speranza che i bianchi della giovane generazione, gli studenti dei college e
delle università capiranno le cause del problema e molti di loro si
metteranno sulla strada spirituale della verità, l’unica rimasta all’America se
vuole evitare la catastrofe verso cui il razzismo inevitabilmente la
conduce»257. Il cambiamento più rilevante è quello relativo al “soggetto”
della trasformazione sociale, che non è più il nero ma una coalizione ampia
e articolata, interreligiosa, interrazziale e politicamente trasversale. È
Malcolm stesso a dirlo con parole molto chiare, che segnano una linea di
netta demarcazione tra il leader settario della Nation of Islam e il
musulmano ortodosso che riconosce il valore dell’incontro, del dialogo e
dell’azione comune tra bianchi e neri.
Da quando ho imparato la verità alla Mecca – ammise – tra i miei più cari amici ci
sono persone di tutte le specie: cristiani, ebrei, buddhisti, induisti, agnostici e persino
atei. Ho amici tra i capitalisti, i socialisti e i comunisti, alcuni sono moderati, altri
conservatori o estremisti e altri ancora hanno la mentalità di zio Tom: oggi i miei amici
sono di pelle nera, bruna, rossa, gialla ed anche bianca!258

Dal giorno della sua uscita dalla Nation of Islam, Malcolm subì svariate
minacce di morte e persino un attentato. Alle 2.30 di notte del 14 febbraio
del 1965, quando aveva appena concluso le interviste a Alex Haley che
sarebbero state alla base della sua Autobiografia259, varie bottiglie molotov
furono lanciate contro la sua casa di New York, nel Queens. Una
escalation culminata il 21 febbraio del 1965, quando il leader
afroamericano fu ucciso mentre parlava al pubblico raccolto nella
Haudubon Hall di Harlem. I sospetti caddero subito sulla Nation of Islam
e tutti e tre i condannati per l’omicidio appartenevano all’organizzazione e
alla cerchia più ristretta di Elijah Muhammad260. Il 26 febbraio, cinque
giorni dopo l’omicidio, Muhammad pronunciò parole assai gravi:
«Malcolm – affermò – ottenne esattamente ciò che predicava [...]. Non
volevamo uccidere Malcolm e non abbiamo tentato di ucciderlo. Ma
conosciamo l’insegnamento così infondato e folle che lo avrebbe portato
alla sua stessa fine»261.
Paradossalmente le parole più affettuose su Malcolm non vennero dai
suoi ex fratelli della Nation of Islam, ma dai suoi avversari della SCLC. In
un telegramma di condoglianze alla moglie di Malcolm, Betty Shabazz,
King scrisse:
Anche se non abbiamo sempre concordato sui metodi per risolvere il problema
razziale, ho sempre avuto un profondo affetto per Malcolm e ho sentito che aveva una
grande capacità di mettere il dito sull’esistenza e sulla radice del problema. Era un
eloquente portavoce del suo punto di vista e nessuno può onestamente dubitare che
Malcolm nutrisse una grande preoccupazione per i problemi che affrontiamo come
razza262.

Un recente studio sui rapporti tra Martin e Malcolm delinea uno scenario
inverso che sottolinea che sia l’uno che l’altro intrapresero un percorso
che, almeno idealmente, li avrebbe avvicinati. L’efficace metafora utilizzata
per descrivere la complementarità dei due leader è quella della “spada” e
dello “scudo”, l’arma per attaccare il sistema del razzismo e la protezione
necessaria a difendere una comunità discriminata263.
Rivedendo le carte di quegli anni e i significativi riposizionamenti
strategici di King e di Malcolm, non possiamo non chiederci che cosa
sarebbe accaduto se i due fossero vissuti più a lungo e avessero potuto
chiarire analisi e prospettive di lotta. Ma non sta a una ricostruzione storica
speculare su ipotesi non dimostrabili, quindi ci limitiamo a rimandare a un
brillante testo teatrale, The Meeting264, che fa riferimento a un immaginario
incontro tra i due leader in un albergo di New York.

Selma
Nonostante i successi internazionali King restava un sorvegliato speciale, e
più o meno negli stessi giorni in cui gli accademici svedesi votavano per
concedergli il Premio Nobel per la pace, il direttore dell’FBI ripetutamente
lo definì «il bugiardo più noto di tutto il paese»265. La viscerale antipatia di
Edgar J. Hoover [il direttore dell’FBI, N.d.A.] per King era cosa nota da
tempo, ma la circostanza di questo attacco frontale superò i limiti della
correttezza istituzionale, al punto da indurre Johnson a organizzare un
incontro tra i due che ebbe luogo nella sede dell’FBI il 1° dicembre del
1964. Dalle poche informazioni che trapelarono266, possiamo dedurre che
si trattò di un incontro meramente formale che non sancì neanche una
tregua ma, almeno formalmente, ricompose una crisi che, esplodendo,
avrebbe messo in difficoltà la Casa Bianca.
D’altra parte, pressato dai vertici militari e in particolare dal generale
Westmoreland, Johnson si trovava sempre più coinvolto nel paludoso
scenario vietnamita e non riteneva quella finestra politica utile a onorare il
suo impegno per la legge sui diritti civili.
In un drammatico up and down tra riconoscimenti e critiche, il 10
dicembre King pronunciò il suo discorso di accettazione del Nobel di
fronte all’Accademia di Svezia. Il discorso pronunciato in quella austera
cornice espresse contenuti nettamente politici quando King dichiarò di
accettare il premio mentre in America ventidue milioni di eroi «si trovano
impegnati in una battaglia costruttiva per porre fine alla lunga notte
dell’ingiustizia razziale [...] Mi viene alla mente – proseguì toccando il
tema sociale – che la povertà debilitante e attanagliante affligge la mia gente
e la inchioda al gradino più basso della scala economica [...]. Io confido –
concluse con un implicito riferimento alla guerra – che perfino tra gli
scoppi dei mortai e il sibilo delle pallottole che oggi sentiamo intorno a noi
esista la speranza di un domani più luminoso»267.
Rientrato rapidamente ad Atlanta, trovò una situazione di effervescenza a
Selma, in Alabama, dove da mesi Jim Bevel e altri dirigenti della SCLC
stavano sostenendo una campagna per la registrazione al voto. Le
manifestazioni di protesta venivano fermate dalla polizia e i partecipanti
sistematicamente arrestati, sia pure per breve tempo. La tattica repressiva,
insomma, era assai esplicita: Selma non sarebbe mai diventata un’altra
Montgomery o un’altra Birmingham. L’idea del gruppo di attivisti che
operava a Selma – tra di loro Amelia Boynton Robinson268 – fu quella di
far esplodere il caso coinvolgendo King in prima persona e arrivando a
ipotizzare un gesto di disobbedienza civile che poteva arrivare al suo
arresto. Il 1° febbraio del 1965 bastò assai poco perché questa possibile
evenienza si realizzasse effettivamente. I manifestanti si ritrovarono alla
Brown Chapel e iniziarono a marciare compatti, senza disperdersi
all’ordine della polizia. Pochi isolati dopo furono fermate 260 persone,
King compreso. «Devo confessare che questo è un tentativo deliberato di
denunciare le drammatiche situazioni di questa città, di questo Stato e di
questa comunità»269, gridò alla stampa. Mai così esplicitamente King aveva
fatto riferimento al concetto gandhiano di disobbedienza civile. L’aveva
praticata e insegnata, ma mai rivendicata come in questo caso. Gli arresti
proseguirono nei giorni successivi, mentre Andrew Young, che si era
intenzionalmente protetto dalla repressione, continuava a coordinare le
azioni sul campo. In pochi giorni l’obiettivo dell’arresto fu raggiunto: il
caso di Selma era arrivato in cronaca nazionale e aveva attirato l’attenzione
del presidente, al punto da indurlo a premere con vigore sulle autorità
locali perché ammettessero le registrazioni al voto. «Tutti gli americani –
dichiarò – si dovrebbero indignare quando a un americano è negato il
diritto di voto. La perdita di quel diritto per un solo cittadino mina la
libertà di ogni cittadino»270. Chi cantò vittoria sottovalutava la forza della
reazione locale e la determinazione del governatore Wallace, che insieme
agli apparati amministrativi statali e locali riuscì a impedire significativi
progressi nel meccanismo di registrazione dei votanti. La decisione della
SCLC fu di “tornare a Selma” per una marcia da concludersi,
simbolicamente, a Montgomery dove “tutto era iniziato” dieci anni prima.
Probabilmente gli organizzatori immaginavano uno scenario analogo a
quello della precedente manifestazione del 1° febbraio. Ma questa volta –
era domenica 7 marzo – lo sceriffo Clark, capo delle forze di polizia locali,
aveva schierato i suoi uomini appena al di là del ponte Edmund Pettus.
Appena i manifestanti lo avessero imboccato si sarebbero trovati in un
pericolosissimo cul de sac. Come sempre, i manifestanti si erano raccolti alla
Brown Chapel e, preso atto del posizionamento della polizia, discutevano
se mantenere il progetto iniziale di attraversare il ponte. King non era
presente. Intenzionalmente i suoi e gli stessi apparati di sicurezza avevano
fatto di tutto per evitare che si esponesse in quella che si annunciava come
un’iniziativa ad altissimo rischio. Fu raggiunto al telefono da Abernathy –
anche lui ad Atlanta –, a sua volta sollecitato da Williams e Bevel che
chiedevano istruzioni ma lasciavano intendere che loro erano per forzare il
blocco. Secondo la versione di Williams, sia pure con riluttanza, King
diede la sua approvazione, e 500 persone si misero pacificamente in marcia
verso il Pettus Bridge. Giunse l’alt e, mentre ancora avevano l’impressione
di poter negoziare, i manifestanti si videro attaccare prima con i manganelli
e subito dopo con i gas lacrimogeni. Fu la Bloody Sunday del movimento
per i diritti civili. «Poi hanno caricato – racconterà Amelia Robinson –.
Sono venuti da destra. Sono venuti da sinistra. Uno [dei soldati] ha gridato:
“Corri!”. Ho pensato: “Perché dovrei correre?”. Quindi un ufficiale a
cavallo mi ha colpito alle spalle e, per la seconda volta, sulla parte posteriore
del collo. Ho perso conoscenza»271. Andò molto peggio a James Reeb,
pastore bianco della Chiesa unitariana universalista, che, arrivato da Boston
per sostenere i manifestanti, fu intercettato da un gruppo di suprematisti e
ucciso l’11 marzo. Nessuno è mai stato condannato per quell’omicidio.
Ancora una volta i media svolsero un ruolo centrale nel documentare la
gratuita e inusitata violenza di forze di polizia che caricavano cittadini
inermi che non opponevano nessuna resistenza. Alla vittoria militare
corrispose, insomma, una grave sconfitta morale, che spostò quote
importanti dell’opinione pubblica, anche bianca e moderata, dalla parte dei
manifestanti di Selma. Questa volta King colse l’attimo e, convinto che il
ferro andava battuto finché era caldo, partì immediatamente per Selma. La
decisione fu avversata dalla Casa Bianca e criticata da alcuni leader del
movimento come James Farmer (CORE), convinti che si dovesse fermare
ogni dimostrazione, almeno in attesa di acque più calme. Furono ore di
grande confusione e tensione nelle quali King fece in tempo a cambiare
opinione almeno tre volte, oscillando tra attesa e mobilitazione. Qualcosa,
all’ultimo istante, dovette convincerlo a optare per la conferma della
mobilitazione. Il 14 marzo, guidato da King, un gruppo di qualche
centinaio di persone abbandonò la Brown Chapel, si incamminò verso il
Pettus Bridge e, in un silenzio surreale, qualcuno si mise a pregare, poi si
levò il canto We shall overcome. A nessuno era chiaro che cosa sarebbe
successo fino a quando, di fronte a poliziotti sorpresi e increduli, seguendo
le mosse di King i manifestanti tornarono ordinatamente sui loro passi,
evitando la replica dello scontro con la polizia. Fu la mossa individuale e
azzardata di King che, senza consultarsi con nessuno, decise per un
ripiegamento che sembrava contrastare e contraddire la tattica di confronto
adottata solo due giorni prima. Isolato e bersagliato da critiche, King
ritenne che la scelta del dietro front era stata politicamente vincente e per
questo individualmente continuò a negoziare con il tribunale locale per
una terza marcia, finalmente autorizzata da un giudice per domenica 21
marzo. Il presidente Johnson fu costretto a prendersi le sue responsabilità e,
per prevenire l’estremismo repressivo del governatore Wallace, spiegò
1800 soldati federali che avrebbero dovuto garantire l’ordinato
svolgimento della manifestazione. Al tempo stesso, il 15 marzo al Senato,
pronunciò un memorabile discorso nel quale – nei giorni caldi della crisi di
Selma – riconobbe formalmente il ruolo del civil rights movement arrivando a
citarne e a fare proprio lo slogan più famoso:
Il vero eroe in questa lotta è il Nero americano. Le sue azioni e le sue proteste, il
coraggio di mettere a rischio la propria sicurezza e anche quello di rischiare la propria
vita, hanno risvegliato la coscienza di questa nazione. Le sue manifestazioni sono state
organizzate per richiamare l’attenzione all’ingiustizia, destinate a provocare il
cambiamento, concepite per suscitare la riforma. Egli ci chiede di trasformare in realtà la
promessa dell’America [...]. Questo grande paese, ricco, instancabile è in grado di offrire
opportunità e istruzione e speranza a tutti: bianchi e neri, al Nord e al Sud, mezzadri e
abitanti della città. Questi sono i nemici: la povertà, l’ignoranza, la malattia. Sono loro i
nemici e non i nostri simili, non il nostro vicino di casa. E anche su questi nemici, la
povertà, le malattie e l’ignoranza, noi trionferemo (we shall overcome)272.

Era un segnale anche alle autorità dell’Alabama, messe alle strette da una
sentenza che autorizzava la marcia da Selma a Montgomery. Il 21 marzo,
domenica mattina presto, varie migliaia di persone erano già pronte a
marciare fino a Montgomery con la protezione di un giudice ma sotto la
minaccia delle forze di polizia. Si calcola che, all’arrivo a Montgomery, il
24, i manifestanti fossero circa 25.000. Arrivati finalmente a destinazione,
King tenne un breve discorso: «Ci dicevano che non saremmo arrivati. E
c’erano quelli che dicevano che saremmo arrivati solo sui loro cadaveri, ma
oggi tutto il mondo sa che siamo qui [...]. Siamo in marcia [...] siamo in
marcia verso la terra della libertà». Parafrasando il Salmo 13, il cui autore si
chiede quando tempo sarebbero durate le sofferenze di Israele, rispose:
«Non molto, perché le bugie non durano in eterno [...] quanto tempo?
Non molto [perché] il Signore ha liberato il lampo mortale della sua spada
tremenda e veloce. La sua verità è in marcia [...]. Oh anima mia sii pronta a
rispondergli. Piedi miei giubilate. Il nostro Dio marcia risoluto con noi»273.
Gli fece eco il rabbino Abraham Heschel – testimone della Shoah, sfuggito
alle persecuzioni in Polonia e poi teologo di punta dell’ebraismo americano
– che, ripensando al cammino di quella giornata affermò: «Era come se le
mie gambe stessero pregando»274.
Un successo a tutto tondo. Ma come in tutte le battaglie per i diritti civili
ottenuto a prezzo di vite umane. Mentre rientrava dalla marcia, una donna
bianca di trent’anni, Viola Liuzzo, rimase vittima di un attentato compiuto
da attivisti del Ku Klux Klan. A conclusione di un processo farsa
incentrato sulle qualità morali della vittima, i suoi assassini furono assolti275.

Watts
Erano mesi inquieti, animati da spinte contraddittorie e non tutte
incanalabili nell’azione nonviolenta.
Il disorientamento e una sensazione di crisi crescevano soprattutto tra gli
afroamericani del Nord, tra coloro che erano cresciuti nei ghetti invece che
nelle piantagioni, tra i blue collars delle metropoli industriali, lontano dalle
brutalità di Jim Crow ma anch’essi sottoposti a discriminazioni e abusi.
Erano i luoghi nei quali il tema della razza scoloriva sullo sfondo della lotta
di classe, ponendo problemi che attraversavano l’intero spettro delle classi
povere americane.
La centralità di questa dinamica politica emerse in tutta la sua
drammaticità nell’estate del 1965, quando l’11 agosto la polizia fermò a
Watts, un sobborgo di Los Angeles, Marquette Freye, un afroamericano
accusato di guidare in stato di ebbrezza. A provocare le prime reazioni
violente fu il sequestro dell’auto, vera e propria scintilla di una rivolta
durata quattro giorni, alla fine dei quali il bilancio fu gravissimo: 34 morti,
1032 feriti e 3952 arresti oltre, ovviamente, alla devastazione di interi
quartieri. Gli scontri colsero King mentre era impegnato in una
convention dei Disciples of Christ – una battagliera denominazione di
tradizione riformata – a Porto Rico, e l’orientamento generale del suo staff
era piuttosto scettico sull’opportunità di un intervento in quella vicenda:
ormai troppo radicalizzata la situazione, troppo alti i rischi di fallimento.
Come spesso accadeva nelle situazioni più difficili, però, quando maturava
una convinzione King tendeva a fare di testa sua e a ignorare i consigli del
suo staff. Da qui la partenza e l’arrivo a Los Angeles, una serie di incontri
istituzionali e, alla fine, la visita ai quartieri devastati. King ne ricavò una
profonda emozione e, secondo quanto riferisce Bayard Rustin, il suo
collaboratore “comunista” che lo aveva accompagnato in quella
circostanza, arrivò a una severa conclusione: «Vedi Bayard – disse –, ho
lavorato perché queste persone avessero il diritto di mangiarsi un
hamburger e ora devo fare qualcosa [...] per aiutarli a trovare il danaro per
comprarselo»276. Nelle ore successive, King precisò il suo pensiero
utilizzando parole non ovvie né di circostanza: «È stata la rivolta di classe
dei non privilegiati contro i privilegiati – dichiarò in una conferenza
stampa – [...] la sostanza della questione è economica»277. È significativo
che, prima di stigmatizzare la violenza, King proponesse un’analisi delle
condizioni che l’avevano generata, e lo facesse con pochi ma densi termini
di ordine politico: «classe», «privilegiati», «questione economica». Viene da
dire che siamo di fronte all’inizio di una svolta che spostava l’asse
dell’analisi del razzismo americano dalla storia alla politica, e cioè dal
richiamo al retaggio del sistema schiavistico alla denuncia delle
contraddizioni di un sistema di potere e di relazioni tra le classi sociali.
Intanto, il 6 agosto, il presidente Johnson firmò il Voting Rights Act con il
quale si intendeva garantire il diritto di voto alla minoranza afroamericana,
rimuovendo quegli ostacoli burocratici e culturali che soprattutto negli
Stati del Sud contribuivano a limitarlo. Raggiunto questo storico obiettivo,
i vertici della SCLC sentivano che non era il momento di festeggiare ma di
rilanciare, soprattutto in quelle aree del Paese dove il movimento faticava a
radicarsi e, soprattutto, sentiva più forte la concorrenza dei gruppi più
radicali. L’idea generale era quella di promuovere campagne di
mobilitazione analoghe a quelle realizzate nel Sud. Il confronto si incentrò
su quale fosse la città più adatta a lanciare una nuova campagna sul tema –
ancora generico – del contrasto alla povertà. Una visita esplorativa
realizzata a Chicago nel mese di luglio dette, sin dall’inizio, risultati assai
incoraggianti: vari inviti a predicare nelle chiese protestanti ma anche
l’attenzione da parte della chiesa cattolica locale, il successo di
partecipazione a numerose conferenze, l’interesse riscontrato in vari
incontri privati dettero a King e al suo staff l’impressione che Chicago fosse
il posto giusto per tentare una nuova avventura al Nord. I giorni della
preparazione e della programmazione della mobilitazione furono
particolarmente densi e faticosi, al punto che King contrasse una leggera
bronchite che lo costrinse a rallentare il ritmo e a concedersi qualche
giorno di tregua. L’argomento decisivo che convinse la SCLC a impegnarsi
a Chicago dovette essere la presenza e l’attivismo del Coordinating
Council of Community Organizations (CCCO), un’associazione
ombrello che garantiva una base operativa e una rete di contatti già
funzionali e attivi nei principali quartieri della città.
Il problema politico e comunicativo della SCLC era che al Nord i ghetti e
le discriminazioni non erano così evidenti come al Sud e molti bianchi,
pur genericamente antirazzisti, non riuscivano a cogliere la profondità e le
dimensioni dell’ingiustizia sociale. Nel frattempo cresceva di intensità
l’impegno militare americano in Vietnam e, sia pure ancora non
organicamente, il tema finiva per intrecciarsi a quello della lotta alla
discriminazione razziale e alla povertà. Benché non di stretta competenza
della SCLC, il tema esplodeva nel dibattito pubblico e oscurava la
mobilitazione antirazzista. Ma al di là di questa osservazione, King si
convinceva che la questione dell’escalation militare avesse più di qualche
implicazione con i temi della razza e dei diritti.
Nei mesi in cui si contavano a migliaia i feretri rimpatriati dall’Estremo
Oriente, King rafforzava la sua convinzione che il tema del Vietnam
diventasse sempre più centrale e che attraversasse anche la questione dei
diritti civili. Il dilemma politico era evidente: da una parte egli poteva
accentuare la critica alla guerra e alla politica militare di Johnson, subendo
però il contraccolpo dell’accusa di antipatriottismo e di ingenerosità nei
confronti del presidente che aveva firmato la legge sui diritti civili; dall’altra
aveva buone ragioni per tenere bassi i toni sulla politica estera per
concentrarsi su quella che in molti, ad iniziare dai suoi più stretti
collaboratori, ritenevano la sua missione principale, e cioè rappresentare gli
interessi e le richieste della comunità afroamericana, rischiando però di
apparire fuori tempo e fuori luogo in un momento nel quale emergevano
altre priorità.
Era quest’ultima la posizione della dirigenza della SCLC, che nell’agosto
del 1965 approvò una linea strategica che non accoglieva l’istanza pacifista
di King ma ribadiva la centralità, e per molti aspetti l’esclusività, della lotta
al razzismo278. Per King era una sonora sconfitta alla quale, però, non
sembrò dare peso dal momento che a partire dal novembre del 1965, in
una serie di dichiarazioni e conferenze, esplicitò la sua scelta di campo:
Non posso stare fermo di fronte a questa follia – dichiarò ripetutamente in quei giorni
– e osservare la continua escalation della guerra senza parlare contro di essa. Non credo
che la nostra nazione abbia fatto abbastanza per indicare che vuole una soluzione e
[come pastore] sento il mandato, sopra ogni altro dovere, di questa vocazione a cercare
la pace tra gli uomini e a farlo a dispetto dell’isteria e del disprezzo279.

Non sappiamo dire quanta consapevolezza King avesse del prezzo che
questo schieramento avrebbe comportato in termini di calo di popolarità,
ma quel che è certo è che la sua fu una delle prime e delle più autorevoli
voci a schierarsi con nettezza contro l’intervento militare in Vietnam. Ci
pare importante sottolineare che si tratta di posizioni assunte nel 1965,
quando la critica e la mobilitazione antimilitarista era solo agli inizi.
Chicago
La campagna nella metropoli del Nord si sviluppò a partire dai primi mesi
del 1966 anche grazie all’intervento di un nuovo collaboratore, lo studente
in teologia Jesse Jackson. Obiettivo del progetto – denominato Breadbasket,
“borsa della spesa” – era aumentare i guadagni della comunità nera
costringendo gli esercizi commerciali ad assumere personale di colore. Lo
strumento di pressione per raggiungere questo obiettivo era il boicottaggio
dei negozi che mantenevano misure discriminatorie nei confronti degli
afroamericani. La lista dei negozi da boicottare veniva compilata sulla base
di segnalazioni da parte dei pastori delle varie chiese cittadine, che così
formarono una rete capillare di informazione sulla disapplicazione delle
vecchie e delle nuove norme in tema di parità dei diritti. La domenica
mattina questa lista veniva distribuita ai partecipanti al culto e la “borsa
della spesa” si trasformava in una vera e propria “arma nonviolenta” contro
la discriminazione e lo sfruttamento razzista. Nei rapporti tra la SCLC e le
reti locali non ci furono solo rose e fiori. Da una parte e dall’altra vi erano
caratteri forti ma soprattutto vi era un conflitto di priorità: per lo staff di
King l’Operazione Breadbasket era un tassello di un disegno strategico più
generale, mentre per le varie associazioni di Chicago l’obiettivo primario
era l’aumento del reddito degli afroamericani.
A pochi mesi dall’assassinio di Malcolm X, un messaggio distensivo
venne invece da Elijah Muhammad, ormai tornato unico leader dei Black
Muslims della Nation of Islam, che volle incontrare King. Dopo anni di
dura contrapposizione il semplice incontro tra i due leader, avvenuto il 23
febbraio nella residenza di Muhammad, costituiva una clamorosa notizia,
anche perché in passato King aveva sempre trovato buone scuse per negarsi
agli insistenti inviti della Nation of Islam. Premesso che non esistono
verbali di quell’incontro ma soltanto sparuti appunti di alcuni testimoni,
viene da chiedersi quale ne fosse il senso politico. Certamente può
considerarsi come l’atto di omaggio del “giovane” pastore al vecchio
leader, presente sulla scena pubblica da un tempo assai maggiore280, ma ci
pare una ragione debole a fronte della lucidità e della intenzionalità delle
mosse con cui King perseguiva il suo disegno strategico di quel momento,
e cioè radicare un movimento nonviolento di massa anche nel Nord del
Paese. È probabile che King volesse capire meglio la strategia della Nation
of Islam e, soprattutto, contrattare un “patto di non aggressione” con
almeno una frangia del movimento nazionalista nero. In effetti dagli
appunti dei presenti emerge l’idea di un “fronte comune” e di qualche
reciproca concessione nel riconoscimento di alcune ragioni dell’altro281.
Ma le frizioni erano anche interne al nucleo di attivisti della SCLC che
erano stati inviati a Chicago – tra gli altri James Bevel, Andrew Young,
Wyatt T. Walker e Jackson che, benché originario del South Carolina,
ormai da anni studiava al Chicago Theological Seminary e, pur essendo il
più giovane, appariva più radicato e noto dei suoi colleghi. Nonostante
queste tensioni e la cronica penuria di fondi, l’Operazione Breadbasket
decollò con successo. Delle cinque aziende principali che erano finite nel
mirino della protesta, tre accettarono subito di assumere significative quote
di afroamericani; le altre due lo fecero dopo aver subito qualche mese di
boicottaggio. Si calcola che nei primi quindici mesi di operatività, il
progetto produsse 2000 nuovi posti di lavoro e un incremento di 15
milioni di dollari nel reddito della comunità afroamericana282.

Nuovi attori, nuove critiche


Ma a fronte di qualche successo, nel complesso la SCLC sembrava perdere
la centralità della scena. A parte i nazionalisti neri eredi di Malcolm X, si
organizzavano nuovi soggetti politici ed altri, che sino ad allora avevano
gravitato intorno a King, presero strade nettamente differenziate. Lo
SNCC, dopo essersi progressivamente distaccato dall’originale piattaforma
integrazionista e nonviolenta, nel maggio del 1966 elesse come segretario
generale Stokely Carmichael, al quale si deve l’ideazione dello slogan Black
Power, con il quale si rinnegava, oltre che la nonviolenza, la stessa filosofia
dell’integrazione tra bianchi e neri:
negli ultimi sei anni – affermò in un discorso del 29 ottobre del 1966 – questo paese si è
nutrito con una talidomide dell’integrazione, e [...] alcuni neri hanno camminato lungo
una strada di sogni parlando di sedersi accanto ai bianchi; e [...] questo non ha iniziato a
risolvere il problema; [...] la gente dovrebbe capire questo; che noi non abbiamo mai
combattuto per il diritto di integrarci, noi stavamo combattendo contro la supremazia
bianca. Ora, se vogliamo comprendere la supremazia bianca dobbiamo abbandonare il
concetto sbagliato che i bianchi possano dare la libertà a qualcuno. Nessun uomo può
dare a qualcuno la sua libertà. Un uomo nasce libero. Si può rendere schiavo un uomo
dopo che egli è nato libero, e in effetti è quello che fa questo paese283.
Del tutto analoga la parabola di un’altra storica associazione di ispirazione
nonviolenta – all’origine collegata con la Fellowship of Reconciliation –, il
CORE, che nel 1966 sostituì il leader moderato James Farmer con Floyd
McKissick, un avvocato che non faceva mistero delle sue simpatie per una
strategia di scontro con il potere bianco, che in breve avrebbe allontanato
dall’organizzazione tutti i membri bianchi.
L’evento culminante della calda estate politica del 1966 fu una marcia da
Memphis a Jackson, in Tennessee, ideata con l’obiettivo di sensibilizzare la
popolazione di colore a esercitare effettivamente il proprio diritto di voto.
La scarsa affluenza di afroamericani alle urne dopo l’emanazione del Voting
Rights Act e le massicce mobilitazioni che lo avevano sollecitato segnavano
un’oggettiva sconfitta del movimento per i diritti civili e della sua strategia.
L’idea di una marcia che intendeva richiamare l’attenzione sul diritto di
voto e sull’importanza di esercitarlo fu di James Meredith, primo studente
nero ad accedere – sotto scorta degli agenti federali appositamente inviati
da John F. Kennedy nel 1962 – alla University of Mississippi. Studente
modello, Meredith avviò il suo cammino il 5 giugno ma, il giorno dopo, fu
ferito con un colpo di arma da fuoco esploso da James Aubrey Norvell, un
razzista bianco. In brevissimo tempo quella marcia, destinata a non
oltrepassare i confini della cronaca locale, diede luogo a una mobilitazione
alla quale aderirono le principali organizzazioni del movimento e tra
queste, ovviamente, la SCLC, così come le altre sigle che stavano
adottando strategie diverse e più radicali. Ma, soprattutto dopo il ferimento
di Meredith, quella marcia stava assumendo un’importanza del tutto
particolare e costituiva una vetrina troppo esposta per poterla trascurare.
Dopo giorni in cui Carmichael ed altri insistevano nel lanciare lo slogan
estremistico del Black Power, King – che seguì solo alcuni tratti della marcia
cercando di mantenere altri impegni già in agenda – decise di ritagliarsi
uno spazio per contrastare la piega politica che l’iniziativa stava assumendo.
King lamentò che alcune associazioni strumentalizzavano la marcia
imponendo slogan e canti di parte e chiese un atteggiamento più
cooperativo e responsabile da parte dei gruppi più radicali. Nella tappa di
Yazoo, piccola cittadina del Mississippi, il 21 giugno del 1966 si lasciò
andare a un vero e proprio sfogo: «Sono stanco della guerra in Vietnam,
sono stanco della guerra e dei conflitti nel mondo; sono stanco delle
sparatorie; sono stanco dell’odio. Sono stanco dell’egoismo. Sono stanco
del male. Non userò la violenza, e non importa chi la incoraggia»284.
In autunno King tornò su questi temi con un lungo e meditato articolo
apparso su «Ebony». In quelle righe egli volle rivendicare con precisione e
nel dettaglio i successi della strategia nonviolenta, sottolineando come
anche gli ultimi tre anni – quelli di un evidente declino della popolarità del
leader e della sua strategia – avessero in realtà dimostrato «la forza di una
minoranza impegnata, moralmente solida, di guidare una nazione»285. In
questa analisi King allargava il suo sguardo a due scenari internazionali:
l’Africa – dove rilevava l’impegno di alcuni paesi nella lotta «contro la
povertà, l’analfabetismo e la sovversiva influenza del neocolonialismo»286 –
e l’Asia teatro della guerra in Vietnam. E sottolineava come fossero stati i
neri a mettere il Paese in movimento contro i nemici costituiti dalla
povertà, dal degrado urbano e da un’istruzione non adeguata287. La strategia
muoveva da queste premesse: «La rivoluzione razziale americana è stata una
rivoluzione per includere e non per abbattere. Noi vogliamo una quota
nell’economia americana, nel mercato immobiliare, nel sistema educativo e
nelle opportunità sociali. Questo stesso obiettivo indica che un
cambiamento sociale in America deve essere nonviolento»288.
Ma se l’intenzione era chiara, lo era assai meno la strategia da adottare per
convogliare in azioni nonviolente di massa le spinte radicali che
provenivano da alcuni ambienti studenteschi, dallo SNCC e dal Black
Power. Il semplice innesto dei metodi vincenti al Sud, da Montgomery a
Selma, non aveva prodotto al Nord risultati di rilievo e permanenti.
Occorreva quindi un ripensamento di obiettivi e metodi di mobilitazione.
L’incarico di impostare una riflessione teorica all’interno della SCLC su
questo tema fu affidato a Stanley Levison, che il 16 agosto presentò un
rapporto ai vertici dell’organizzazione289. Il suo punto di partenza era la
rabbia e la frustrazione di settori della comunità nera ai quali, di fronte alle
ingiustizie che subivano e all’immobilità del potere bianco, non si poteva
chiedere ancora pazienza e moderazione. Occorreva un’idea nuova che
utilizzasse la rabbia «come forza costruttiva e creativa [...]. La
disobbedienza civile – spiegò quindi Levison – può utilizzare la militanza
sprecata nelle rivolte per impadronirsi di vestiti o generi alimentari che
molti non volevano nemmeno». Disobbedienza civile di massa: era questo
il metodo che, ispirato dalle esperienze di boicottaggio realizzate a Chicago
con l’Operazione Breadbasket, proponeva di applicare su larga scala anche
nei contesti industriali e metropolitani. «Non è un programma facile da
realizzare – concludeva con una nota di pessimismo. – Le rivolte sono più
facili [...] perché non hanno bisogno di organizzazione. Per ottenere dei
risultati dovremo formare una massa di persone disciplinate, che possano
rimanere motivate e determinate, evitando scontri drammatici»290. Fu in
questo contesto che per la prima volta maturò l’idea di una grande marcia
su Washington che, rievocando la storica mobilitazione del 1963, ponesse
al centro del dibattito politico i temi della povertà e della ingiustizia sociale.
L’idea della marcia fu accolta dalla Casa Bianca – la campagna elettorale
era imminente – e già ad agosto Bob Kennedy in persona chiese a una
collaboratrice di King, Marian Wright Edelman, di esprimere agli
organizzatori il sostegno per un’iniziativa tesa a «rendere visibile la fame e
la povertà» mentre l’attenzione del paese era rivolta alla guerra del Vietnam.
La Edelman svolse la sua missione291 e in un altro incontro a Frogmore,
svoltosi tra il 27 novembre e il 1° dicembre, i vertici della SCLC decisero il
piano d’azione. L’idea con la quale King arrivò all’incontro era quella di
manifestazioni che si sviluppassero in tutta la città, arrivando a bloccarla. I
suoi aggettivi furono «nonviolenta, ma militante e drammatica, dinamica,
dirompente, capace di attirare l’attenzione come i disordini ma senza
distruggere la proprietà»292. L’impostazione non piacque a molti e, se
Rustin e Jackson esplicitarono il loro dissenso preferendo forme di lotta
con un minore impatto sulla popolazione di Washington, altri avevano
serie perplessità che però non dichiararono subito. Il neodirettore
esecutivo della SCLC, William Rutherford, così descriveva la situazione:
«praticamente nessuno nello staff pensava che la priorità, la mossa
successiva, dovesse concentrarsi sui poveri o sulla questione della povertà
in America. All’epoca James Bevel voleva rimanere concentrato sulla lotta
nei bassifondi delle città del Nord; Hosea Williams promuoveva campagne
di registrazione degli elettori nel Sud; Jesse Jackson voleva continuare a
sviluppare l’Operazione Breadbasket». Quanto a Andrew Young, era
preoccupato per il budget della SCLC293.
Tra incertezze e malumori, il 4 dicembre si arrivò comunque a indicare
una data: il 2 maggio dell’anno successivo. A febbraio del 1968 King si
recò a Washington per affinare l’organizzazione della manifestazione e
cercare fondi. Nel febbraio 1968, King specificò le richieste: 30 miliardi di
dollari per un fondo per finanziare misure contro la povertà, per la piena
occupazione, il reddito garantito e la costruzione annuale di 500.000
residenze a prezzi accessibili294.
Per promuovere la marcia, King programmò un intenso tour che, come
abbiamo visto, lo avrebbe portato a Memphis. Tra le tappe di questo
itinerario anche Marks, una piccola cittadina del Mississippi con poco più
di mille abitanti, visitata il 18 marzo del 1968. Una tappa chiave, che King
volle citare nel suo sermone alla Cattedrale nazionale di Washington,
spesso definito il tempio della nazione:
L’altro giorno ero a Marks, nel Mississippi – disse – nella contea di Whitman, la contea
più povera degli Stati Uniti. Ve lo dico: ho visto centinaia di ragazzini neri e ragazze
nere che camminavano per le strade scalzi. Ho visto le loro madri e padri che cercavano
di portare avanti un piccolo programma [di piccola impresa, N.d.A.], Head Start, ma
non avevano soldi. Il governo federale non li aveva finanziati, ma stavano cercando di
continuare. Hanno raccolto un po’ di soldi qua e là; cercando di procurarsi del cibo per
nutrire i bambini; cercando di insegnare loro qualcosa. E ho visto madri e padri che mi
dicevano che non erano soltanto disoccupati, ma non avevano alcun tipo di reddito,
nessuna pensione di anzianità, nessun assegno sociale, niente. Chiesi: «Come vivete?». E
loro mi hanno risposto: «Beh, andiamo in giro, andiamo in giro dai vicini e chiediamo
loro qualcosa. Quando arriva la stagione delle bacche, raccogliamo bacche. Quando
arriva la stagione dei conigli, cacciamo e catturiamo alcuni conigli. E questo è tutto»295.

Nelle intenzioni di King, quella che si stava configurando come “la


Marcia dei poveri” sarebbe partita proprio da Marks e idealmente avrebbe
dovuto congiungere un angolo remoto di povertà con il simbolo del potere
politico ed economico degli USA:
Veniamo a Washington in una mobilitazione per i poveri. Sì, porteremo masse
stanche, povere, rannicchiate. Porteremo coloro che hanno conosciuto lunghi anni di
sofferenza e abbandono. Porteremo coloro che hanno avuto la sensazione che la vita sia
un corridoio lungo e desolato senza segni di uscita. Porteremo bambini, adulti e anziani,
persone che non hanno mai visto un dottore o un dentista in vita loro [...]. Stiamo
arrivando per chiedere al governo di affrontare il problema della povertà. [...] Questa è la
sfida che l’America deve affrontare. [...] L’America non ha adempiuto ai suoi obblighi e
alle sue responsabilità verso i poveri. [...] Questa è la domanda che l’America deve
affrontare oggi. Ma c’è un’altra sfida [...] dobbiamo trovare un’alternativa alla guerra e
allo spargimento di sangue. [...] Il presidente Kennedy disse una volta: «L’umanità deve
porre fine alla guerra o la guerra metterà fine all’umanità». Il mondo deve udire questo
grido. Prego Dio che l’America lo ascolti prima che sia troppo tardi, perché oggi stiamo
combattendo una guerra. Sono convinto che sia una delle guerre più ingiuste che sia
mai stata combattuta nella storia del mondo [...]. Ogni volta che ne uccidiamo uno [un
vietcong, N.d.A.], spendiamo circa cinquecentomila dollari, mentre spendiamo solo
cinquantatré dollari all’anno per ogni persona segnata dalla povertà296.

La morte di King modificò i programmi. La Poor People’s March,


tenacemente difesa da Coretta King, si fece ma non raccolse gli effetti
sperati. Si concluse con un confuso accampamento di 3000 persone a
Washington e non ebbe alcun impatto politico. Il congresso non approvò
mai alcun Economic Bill of Rights, così che, come disse Bill Rutherford, da
poco direttore esecutivo della SCLC, quella battaglia fu la “Little Bighorn”
del movimento297.
223 «Nessuno sa i guai che ho passato, / Nessuno conosce la mia pena. / Nessuno
sa i problemi che ho visto, / Gloria, gloria alleluja. / A volte sono su, a volte sono
giù, / Oh, sì, Signore! / A volte sono quasi a terra, / Oh, sì, Signore! / Anche se mi
vedi andare così lontano, / Oh, sì, Signore! / Io ho i miei problemi qui con me, /
Oh, sì, Signore / Se tu ci andrai prima di me, / Oh, sì, Signore! / Dì a tutti i miei
amici che io sto arrivando in cielo, / Oh, sì Signore!» Si tratta di un negro spiritual
afroamericano risalente a molto prima della Guerra civile e dell’abolizione della
schiavitù, ma i cui versi furono pubblicati per la prima volta soltanto nel 1867,
nella raccolta intitolata Slave Songs of the United States composta da 136 canti e
curata dagli abolizionisti William Francis Allen, Lucy McKim Garrison e Charles
Pickard Ware. Gilbert Chase, America’s Music: From the Pilgrims to the Present,
University of Illinois Press, Urbana 2000.
224 Per promuovere l’organizzazione fu costituito il Council for United Civil
Rights Leadership (CUCRL), giornalisticamente detto il gruppo dei “Big Six”.
Comprendeva il sindacalista Philip Randolph, che venne scelto come
organizzatore tecnico della marcia, James Farmer (CORE), John Lewis (SNCC),
Martin Luther King Jr. (SCLC), Roy Wilkins (NAACP) e Whitney Young
(NUL).
225 Martin Luther King, Io ho un sogno, in Id., Io ho un sogno, cit., pp. 99-103.
226 Come altre parti del discorso I have a dream, anche questa non era inedita. Ad
esempio la ritroviamo alla conclusione di un discorso tenuto il 23 giugno dello
stesso anno a Detroit. Una sommaria analisi strutturale di uno dei discorsi più
celebri della retorica americana nella ricostruzione del King Institute:
https://kinginstitute.stanford.edu/encyclopedia/i-have-dream (consultato il 24
novembre 2020).
227 James Reston, I Have a Dream...: Peroration by Dr. King Sums Up a Day the
Capital Will Remember, in «The New York Times», 29 agosto 1963.
228 John Lewis, A “Dream ‘Remembered’”, in «NewsHour», 28 agosto 2003.
229 Levingston, Kennedy and King, cit., p. 425.
230 “The Negro and the American Dream”, Excerpt from Address at the Annual Freedom
Mass Meeting of the North Carolina State Conference of Branches of the NAACP,
discorso pronunciato il 25 settembre 1960, in TPMLK, vol. V, p. 508.
231 Address at the Freedom Rally in Cobo Hall, pronunciato probabilmente il 23
giugno 1963, in A Call to Conscience: The Landmark Speeches of Martin Luther King,
Jr., a cura di Carson Clayborn e Kris Shepard, Hachette, New York 2001, anche
in https://kinginstitute.stanford.edu/king-papers/documents/address-freedom-
rally-cobo-hall (consultato il 22 ottobre 2020).
232 Malcolm X, Autobiografia di Malcolm X, redatta con la collaborazione di Alex
Haley, Einaudi, Torino 1967, p. 167.
233 Ivi, p. 284.
234 Levingston, Kennedy and King, cit., p. xiv.
235 What Martin Luther King Jr. Said About Walls During His 1964 Visit to Berlin, in
«Time», 19 gennaio 2019.
236 Laura T. McCarty, Coretta Scott King: A Biography, Greenwood Press,
Westport, Connecticut-London 2008, p. 41.
237 Marcus Garvey fu una figura di primo piano del nazionalismo nero. Nato in
Giamaica nel 1887, nel 1916 si trasferì a New York, dove avviò una compagnia
navale e, a partire dalla personale interpretazione di alcuni testi antichi che
profetizzavano l’avvento di un re africano, predicò un controesodo degli
afroamericani verso la loro terra d’origine. L’incoronazione in Etiopia di Ras
Tafari Maconnen – poi Hailé Selassié – avvenuta il 2 novembre del 1930 fu
considerata l’inveramento della profezia e dette impulso al rastafarianesimo e a
fenomeni culturali ad esso connessi, quali la cultura rasta e la musica reggae. Dopo
aver costituito l’Universal Negro Improvement Association e l’African
Communities League e fondato la rivista «Negro World», nel 1925 fu arrestato per
irregolarità fiscali nella gestione della sua compagnia. Nel 1927 fu graziato dal
presidente Coolidge, che ordinò il suo rimpatrio in Giamaica. Morì a Londra nel
1940, riconosciuto esponente di una cultura del nazionalismo nero che si
contrapponeva all’idea di integrazione multietnica. Cfr. Marcus Garvey, The
Philosophy and Opinions of Marcus Garvey, Or, Africa for the Africans, Atheneum,
New York 1992.
238 Malcolm X, Contro il potere bianco, Introduzione di Furio Gambino,
Manifestolibri, Roma 1993, p. 15.
239 Bruno Cartosio, I lunghi anni Sessanta: movimenti sociali e cultura politica negli
Stati Uniti, Feltrinelli, Milano 2012.
240 Roberto Giammanco, Introduzione ad Autobiografia di Malcolm X, cit., p. xi.
241 Il discorso, con traduzioni non sempre accurate, è reperibile su vari siti web.
242 Martin Luther King, Io ho un sogno, cit., p. 100.
243 Cit. in Roberto Giammanco, Malcolm X: rifiuto, sfida, messaggio, Dedalo, Bari
1994, p. 197.
244 Malcolm X, The End of White World Supremacy, cit. in Lewis Baldwin, To
Make the Wounded Whole: Cultural Legacy of Martin Luther King, Fortress Press,
Minneapolis 1992, p. 32.
245 Branch, Parting the Waters, cit., p. 874.
246 Malcolm X, Intervista con A.B. Spellman del 19 marzo 1964, in Id., Ultimi
discorsi, PGreco, Milano 2016.
247 Martin Luther King, «I have a dream». L’autobiografia, cit., p. 364.
248 Ivi, p. 363.
249 https://pro.magnumphotos.com/image/LON47142.html.
250 Malcolm X, Ultimi discorsi, cit.
251 Dana Johnson, Separation or Death: One Hundred Years of White Supremacist-
Black Nationalist Alliances in America, in «The Spark», Religion 355, autunno 2007.
252 Cone, Malcolm & Martin & America, cit.; sulla stessa linea uno dei più
autorevoli biografi di Martin Luther King, Clayborne Carson, The Unfinished
Dialogue of Martin Luther King, Jr. and Malcolm X, in «A Critical Journal of Black
Politics, Culture, and Society», vol. 7, n. 1, 2005; Michael Eric Dyson, Martin and
Malcolm, in «Transition», n. 56, 1993, p. 48; Bruno Cartosio, L’ultimo King, tra
sogno e incubo, in Naso (a cura di), Il sogno e la storia, cit., pp. 181 sgg.
253 Manning Marable, Malcolm X: A Life of Reinvention, Viking, New York 2011,
p. 123.
254 Malcolm X, The Last Speeches, a cura di Bruce Perry, Pathfinder Press, New
York 1989, pp. 230-234.
255 Malcolm X, God’s Judgment of White America, discorso del 1° dicembre 1963 a
New York, presso il Manhattan Center, in Id., The End of the White World
Supremacy, Arcade Pub., New York 2011.
256 Malcolm X Silenced for Remarks On Assassination of Kennedy; Head of Muslims
Suspends Second Most Powerful Figure in Movement, in «The New York Times», 5
dicembre 1963.
257 Autobiografia di Malcolm X, cit., p. 346.
258 Ivi, p. 381.
259 Dopo l’assassinio, la casa editrice Doubleday rinunciò alla pubblicazione,
perdendo un anticipo sui diritti di 30.000 dollari; l’opera uscì nel 1965 per i tipi
della Grove Press: cfr. Manning Marable, Rediscovering Malcolm’s Life: A Historian’s
Adventures in Living History, in «Souls», vol. 7, n. 1, 2005, p. 33.
260 Thomas Hagan, noto anche come Talmadge Hayer, l’unico reo confesso, fu
condannato all’ergastolo ma rimesso in libertà per buona condotta nel 2010, dopo
12 anni di semilibertà; Muhammad Abdul Aziz, alias Norman 3X Butler, e Khalil
Islam, alias Thomas 15X Johnson, sempre dichiaratisi non colpevoli, furono
rimessi in libertà rispettivamente nel 1985 e nel 1987. Sulla superficialità
dell’indagine e sulle smagliature della protezione che l’FBI avrebbe dovuto
garantire a Malcolm, si veda Marable, Malcolm X, cit.
261 Claude Andrew Clegg III, An Original Man: The Life and Times of Elijah
Muhammad, St. Martin’s Griffin, New York 1997, p. 232.
262 Martin Luther King, telegramma a Betty Shabazz del 26 febbraio 1965, in The
Martin Luther King Jr. Research and Education Institute,
https://kinginstitute.stanford.edu/, archiviato il 1° febbraio 2016.
263 Peniel E. Joseph, The Sword and the Shield: The Revolutionary Lives of Malcolm X
and Martin Luther King Jr., Basic Books, New York 2020.
264 The Meeting, dramma teatrale americano del 1987, firmato da Jeff Stetson. Nel
1989 la PBS ha anche prodotto e mandato in onda la versione televisiva dell’opera.
265 «Herald Tribune», 19 novembre 1964.
266 JPat Brown, The Reverend and the Director: FBI Files Capture the One and Only
Face-to-face Meeting between J. Edgar Hoover and Martin Luther King, Jr., in
«Muckrock», 21 gennaio 2019,
https://www.muckrock.com/news/archives/2019/jan/21/fbi-mlk-hoover-meeting/
(consultato il 22 ottobre 2020).
267 Martin Luther King, Discorso di accettazione del Premio Nobel, Stoccolma, 10
dicembre 1964, https://www.nobelprize.org/prizes/peace/1964/king/26142-
martin-luther-king-jr-acceptance-speech-1964/ (consultato il 22 ottobre 2020).
268 Personaggio di primo piano del movimento, il 7 marzo del 2015, a 104 anni,
insieme al presidente Obama, ha ripercorso la strada dalla Brown Chapel al Pettus
Bridge. Le sue memorie della Bloody Sunday in Bridge across Jordan, Schiller
Institute, Washington DC 1991.
269 Garrow, Bearing the Cross, cit., p. 382.
270 Conferenza stampa del 12 febbraio 1965.
271 Amelia Boynton Robinson, 103-year-old Activist: I Was Almost Killed Fighting
for Freedom, intervista a cura di Jane Ridley, in «New York Post», 1° dicembre
2014.
272 Lyndon Johnson, We Shall Overcome, discorso pronunciato al Senato il 15
marzo del 1965; cfr., Bruno Cartosio (a cura di), Senza illusioni. I neri negli Stati
Uniti dagli anni Sessanta alla rivolta di Los Angeles, Shake edizioni, Milano 1995, p.
28.
273 Martin Luther King, Dio marcia risoluto, in Id., Io ho un sogno, cit., p. 125.
274 Paola Ricci Sindoni, Heschel. Dio è pathos, EMP, Padova 2002, p. 165.
275 Mary Stanton, From Selma to Sorrow: The Life and Death of Viola Liuzzo,
University of Georgia Press, Athens 1998.
276 King espresse questo pensiero ripetutamente come emerge nelle note sia di
Rustin che dello stesso FBI, in Garrow, Bearing the Cross, cit., p. 696.
277 «Los Angeles Times», 20 agosto 1965.
278 «Dobbiamo ancora affermare [...] che la funzione primaria della nostra
organizzazione è quella di assicurare i pieni diritti di cittadinanza ai cittadini neri di
questo paese [...]. Le nostre risorse non sono sufficienti per assumerci il peso di
due questioni [...]. Per questo premiamo perché le dimostrazioni di massa della
SCLC e le azioni di movimento siano limitate alla questione della fratellanza
razziale», in «The New York Times», 9 gennaio 1966.
279 «The New York Times», 11 novembre 1965, p. 30; ivi, 15 novembre 1965,
p. 1.
280 Clegg, An Original Man, cit., p. 237.
281 Ivi, p. 238.
282 Martin L. Deppe, Operation Breadbasket: An Untold Story of Civil Rights in
Chicago 1966-1971, University of Georgia Press, Athens 2016.
283 Stokely Carmichael, discorso a Berkeley del 29 ottobre 1966, in American
Rethoric. Top 100 speeches, online (consultato il 29 aprile 2020).
284 «The New York Times», 23 giugno 1966, in Garrow, Bearing the Cross, cit., p.
485.
285 Martin Luther King, Nonviolence: The Only Road to Freedom, in «Ebony», 21
ottobre 1966, pp. 27-30, in Washington (a cura di), A Testament of Hope, cit., p.
59.
286 Washington (a cura di), A Testament of Hope, cit., p. 56.
287 Ivi, p. 59.
288 Ivi, p. 58.
289 Amy Nathan Wright, Civil Rights’ “Unfinished Business”: Poverty, Race, and the
1968 Poor People’s Campaign, University of Texas Press, Austin 2007, p. 152.
290 Lo studio di Levison venne fatto proprio da King, che lo pubblicò in un
pamphlet di 6 pagine: Martin Luther King, The Crisis in America’s Cities: An
Analysis of Social Disorder and a Plan of Action Against Poverty, Discrimination, and
Racism in Urban America, Southern Christian Leadership Conference, Atlanta, 15
agosto 1967.
291 Marian Wright Edelman, Still Hungry in America, in «Philadelphia Tribune»,
21 febbraio 2012.
292 Gerald McKnight, The Last Crusade: Martin Luther King, Jr., the FBI, and the
Poor People’s Campaign, Westview Press, Boulder, Colorado, 1998, p. 20.
293 Wright, Civil Rights’ “Unfinished Business”, cit., p. 20.
294 Mark Engler, Dr. Martin Luther King’s Economics: Through Jobs, Freedom, in
«The Nation», 15 gennaio 2010.
295 Martin Luther King, Remaining Awake Through a Great Revolution, 31 marzo
1968, https://kinginstitute.stanford.edu/king-papers/publications/knock-
midnight-inspiration-great-sermons-reverend-martin-luther-king-jr-10
(consultato il 20 aprile 2020).
296 Ibidem.
297 William Rutheford, intervista del 22 novembre 1988, online sul sito
Washington University Digital Gateway Texts (consultato il 20 aprile 2020).
VI.
L’epilogo.
Come Mosè sul monte Nebo

Poi Mosè salì dalle steppe di Moab sul monte Nebo [...].
Il Signore gli mostrò tutto il paese [...] tutto il paese di Giuda fino al Mar Mediterraneo
[...]. Il Signore gli disse: «Questo è il paese per il quale io ho giurato ad Abramo, a Isacco
e a Giacobbe: “Lo darò alla tua discendenza”. Te l’ho fatto vedere con i tuoi occhi, ma
tu non vi entrerai!».
Deuteronomio

Due anni dopo l’omicidio di John F. Kennedy, anche quello di Malcolm


X aveva mostrato quanto erano forti le pulsioni distruttive nell’America
politica di quegli anni, che avrebbero raggiunto il loro picco nel 1968, con
gli omicidi di Martin Luther King e di Bob Kennedy. La tensione pubblica
per l’escalation militare in Vietnam fungeva da combustibile potente,
capace di alimentare uno scontro oscuro e violento sul quale, ancora oggi,
non è stata fatta tutta la necessaria chiarezza.
Quelli tra il 1965 e il 1968 furono anni non solo di altissima tensione
politica e di profonda trasformazione sociale, ma anche di una
incontrollabile accelerazione degli eventi globali. In un arco di tempo
molto limitato si erano alternati incubi di guerra e speranze di pace, lotte di
liberazione e pressioni neocoloniali. Focalizzando la nostra attenzione sugli
USA, a tutto questo si aggiunsero delitti politici deflagranti – John F.
Kennedy, Malcolm X, Martin Luther King, Bob Kennedy – che dettero la
misura della portata dello scontro tra un blocco sociale in disgregazione e
un cumulo di nuove spinte che cercavano di promuovere nuovi equilibri
sociali e politici. Per dirla con Bruno Cartosio, furono anni «lunghi»298 nei
quali l’azione del reverendo King e di un ampio movimento di massa per la
pace fu l’espressione forse più visibile di una novità che avanzava, per
quanto ancora informe e confusa. Sulla base della documentazione ad oggi
disponibile, crediamo di poter affermare che l’omicidio di Martin Luther
King maturò nel quadro di questa accelerazione della storia destinata a
produrre cambiamenti importanti nell’ordine internazionale. Nel
particolare contesto degli USA, la spaccatura verticale dell’opinione
pubblica sulla guerra in Vietnam si aggiungeva alla netta percezione che
stessero definitivamente crollando i pilastri concettuali e giuridici che
avevano sorretto il sistema della segregazione e prodotto larghe sacche di
marginalità sociale ed economica. Questa era stata la lezione più amara
dell’azione intrapresa a Chicago: vittorie parziali, simboliche, precarie, che
però nella sostanza e nella generalità non cambiavano la condizione degli
afroamericani e, più in generale, delle fasce sociali più povere.
In questa fase in cui si consumava l’epilogo della storia del reverendo
King, la questione della “razza” iniziava a intrecciarsi con quella della
povertà. Il tema maturava da tempo, ma fu in una riunione dello staff della
SCLC, convocata ad Atlanta il 12 ottobre del 1966, che fu discusso e
condiviso. La riunione fu convocata con un ordine del giorno ampio:
«l’analisi a tutto campo dell’intera situazione». I contenuti di quell’incontro
furono resi pubblici due giorni dopo nel corso di una conferenza stampa
nella quale King, dopo aver condannato l’estremismo violento e il
separatismo di alcune componenti del movimento per i diritti civili,
pronunciò le parole che in quel momento più gli stavano a cuore: «Il più
grande problema e la più grande contraddizione degli USA è nel fatto che
conta trentacinque milioni di poveri in un tempo nel quale le risorse del
Paese sono così abbondanti che la stessa esistenza della povertà è un
anacronismo»299. I giornalisti non capirono o non vollero capire e, messa
tra parentesi la denuncia dell’intollerabile povertà americana, titolarono i
loro pezzi sull’intenzione di King di spaccare il movimento, dividendo
“moderati” e “radicali” e quindi indebolendone la forza e la
rappresentatività300. Non era così e, al contrario, King si rammaricò di
questo fraintendimento che però rifletteva una crescente difficoltà del
leader della SCLC di sintonizzarsi con gli organi di stampa e con una parte
dell’opinione pubblica che pure lo sosteneva.

Frogmore, l’accelerazione della svolta


Benché maturasse da tempo, possiamo individuare una data precisa che
segnò un’accelerazione dell’impegno antimilitarista di King che, come si è
visto, era condiviso solo da una parte del suo staff. Il 13 novembre del 1966
convocò infatti un’altra riunione strategica presso il Penn Center di
Frogmore (South Carolina), prevedendo ben tre giorni di discussione e
confronto con i suoi più diretti collaboratori. Erano giorni difficili, di
incertezza sulla strategia da adottare nei confronti delle componenti più
radicali del movimento; lo stesso King, in una fase di ripensamento e di
crescente isolamento politico, ammetteva: «Sto ancora cercando me stesso.
Non ho tutte le risposte [...]. In questo periodo non abbiamo ottenuto
granché [...]. I cambiamenti avvenuti in questo periodo sono stati, al
meglio, di superficie; in realtà non sono stati cambiamenti di sostanza». Un
giudizio severo e duramente autocritico, aggravato dalla considerazione
che i più recenti avvenimenti avevano dimostrato che «le radici del
razzismo in America sono molto profonde» e che «la nostra società è
ancora strutturata sulla base del razzismo». In quella occasione King fece
spesso uso della parola “rivoluzione”, arrivando ad una delle sue
affermazioni più nette e radicali: secondo cui «c’è qualcosa di sbagliato nel
sistema economico della nostra nazione, qualcosa di sbagliato nel
capitalismo». King ragionava ad alta voce. Gli era ben chiaro che ormai era
un osservato speciale e che, per il bene della sua azione, non poteva
perdere consensi alla sua destra, avvicinandosi troppo ai movimenti
emergenti di un nuovo separatismo nero, politicamente radicale; ma al
tempo stesso non poteva rompere con “compagni di strada” che, magari
sbagliando linguaggio e metodo, ormai costituivano una componente
essenziale del movimento. Dagli appunti di alcuni dei presenti e dai
dettagliati report del convegno di Frogmore custoditi negli archivi dell’FBI
che evidentemente riuscì a monitorare l’incontro – come già sottolineato, i
King Papers ancora non ci consegnano le carte originali di quell’incontro –
emerge una discussione a tutto campo, severa e problematica. Per King la
SCLC doveva spostarsi da una «inadeguata fase di protesta a una stagione di
resistenza di massa, attiva e nonviolenta di fronte ai mali del sistema
moderno». Si trattava insomma di definire «un metodo che disgreghi le
nostre città, se necessario, per provocare una crisi che costringa la nazione a
guardare alla situazione, a drammatizzarla, ma allo stesso tempo non
distrugga né la vita né la proprietà»301. «Quando dico che ci deve essere una
migliore distribuzione della ricchezza e che forse l’America deve muoversi
verso un socialismo democratico, non permetterò a nessuno di mettermi
in un vicolo cieco attribuendomi che dobbiamo essere comunisti o
marxisti». Sia negli scritti giovanili che in quelli più maturi, King espresse
una severa critica al marxismo, soprattutto nella sua concezione del
materialismo storico, ma questo non gli impedì di comprenderne la critica
al capitalismo e alle sue contraddizioni:
Nonostante le lacune della sua analisi, Marx ha sollevato alcune questioni
fondamentali. Sin dalla mia prima adolescenza sono stato profondamente colpito dal
divario tra ricchezza superflua e povertà assoluta, e la mia lettura di Marx mi ha reso
sempre più consapevole di questo gap. Sebbene il capitalismo americano moderno abbia
notevolmente ridotto il divario attraverso le riforme sociali, c’è ancora bisogno di una
migliore distribuzione della ricchezza. Inoltre, Marx aveva rivelato il pericolo della
motivazione del profitto come unica base di un sistema economico: il capitalismo corre
sempre il pericolo di spingere gli uomini a preoccuparsi più di guadagnarsi da vivere che
di guadagnarsi una vita. Siamo inclini a giudicare il successo dall’indice dei nostri
stipendi o dalle dimensioni delle nostre automobili, piuttosto che dalla qualità del nostro
servizio e rapporto con l’umanità – quindi il capitalismo può portare a un materialismo
pratico che è pernicioso quanto il materialismo insegnato dal comunismo [...] Ho letto
Marx come ho letto tutti i più influenti pensatori della storia – da un punto di vista
dialettico, arrivando a una conclusione che combina un sì e un no entrambi parziali.
Nella misura in cui Marx ha postulato un materialismo metafisico, un relativismo etico
e un totalitarismo strangolante, ho risposto con un no inequivocabile; ma nella misura
in cui ha indicato le debolezze del capitalismo tradizionale, ha contribuito alla crescita di
una precisa autocoscienza nelle masse e ha sfidato la coscienza sociale delle chiese
cristiane, ho risposto con un deciso sì302.

Echi di queste idee si ritrovano negli appunti della riunione di Frogmore


– la fonte primaria è sempre quella dell’FBI e quindi va presa con la dovuta
prudenza – in cui King avrebbe affermato: «il marxismo non sarebbe
sbagliato in termini di obiettivi che il movimento dovrebbe perseguire».
Secondo il rapporto dell’FBI, in quella occasione King lesse una relazione
ma, nelle note a margine, troviamo ulteriori riferimenti di grande
importanza: «Dobbiamo onestamente assumere il fatto che il movimento
deve orientarsi verso la ristrutturazione dell’intera società americana [...].
Dobbiamo sviluppare programmi che portino la nazione intera verso
un’entrata annuale garantita [...]. Tre mali: razzismo, materialismo e
militarismo. Sono gemelli inseparabili»303. Insieme ai rapporti dell’FBI, i
verbali e le note dell’incontro di Frogmore ci consentono di dire che in
quella sede si formalizzò una svolta che inseriva la questione razziale in
un’agenda più ampia, ambiziosa e controversa di cambiamento della
struttura economica e sociale degli Stati Uniti. Pur assumendo la
“parzialità” di quei rapporti e persino la possibile e intenzionale
estremizzazione dei termini e dei contenuti del confronto da parte
dell’FBI, emerge chiara la critica a un “sistema” che troverà puntuali
riferimenti nelle parole e nelle azioni di King dei mesi che gli restavano da
vivere, un anno e mezzo all’incirca.
L’evidenza della sostanziale correttezza dei rapporti che abbiamo del
convegno di Frogmore ci è data dalle prese di posizione pubbliche seguite
a quell’incontro. Il 15 dicembre, ad esempio, King fu invitato a
un’audizione presso una commissione del Senato nella quale sedeva anche
Bob Kennedy.
Noi miriamo troppo in basso. Il nostro obiettivo non è di portare a un limitato,
particolare livello coloro che sono discriminati ma ridurre il divario tra loro e il resto
della società americana. Mentre gli standard di vita aumentano per gli americani
benestanti, non possiamo mantenere i poveri ai vecchi livelli di sussistenza [...]. Il
problema non è che non c’è denaro disponibile ma che è stato sperperato per la guerra
in Vietnam e la impressionante assurdità di un programma spaziale con equipaggio [...].
Al momento la guerra alla povertà non è neanche una battaglia, a stento è una
scaramuccia304.

Con una metafora militare King mirava e colpiva al cuore la “guerra alla
povertà”, solennemente dichiarata da Johnson nel 1964305, giudicando del
tutto inadeguati i mezzi con i quali il presidente intendeva combatterla.
Già in passato riforme frammentarie e improvvisate avevano dimostrato
che occorrevano misure strategiche in grado di ridurre il tasso di povertà.
«Io sono convinto che l’approccio più semplice si dimostra il più
rivoluzionario [...] – era la proposta di King –, un sussidio annuale
garantito [...]. La nostra enfasi deve spostarsi dall’attenzione esclusiva a
mettere la gente a lavorare a quella che consente alla gente di
consumare»306.
Quasi come una meteora in quei mesi conclusivi del 1966 si sparse la
voce di una possibile candidatura di King alla Casa Bianca in occasione
delle presidenziali del 1968. Ipotesi immediatamente accantonata sia per
l’altissimo rischio che la candidatura non decollasse, sia per gli effetti
deleteri che avrebbe prodotto sul movimento. Non era tempo di azzardi,
semmai di una riflessione seria e rigorosa sullo stato del movimento e sulle
sue strategie alla luce di quella evoluzione del pensiero di King che si era
esplicitata a Frogmore. L’occasione venne tra gennaio e febbraio del 1967,
nel corso di una breve vacanza in Giamaica nella quale King,
accompagnato dalla moglie Coretta, poté dedicarsi alla versione finale del
suo quarto e ultimo libro, Dove stiamo andando: verso il caos o la comunità?307.

Martin “Loser” King, il Perdente


Il libro condensa una riflessione e un travaglio maturati nei due anni
precedenti. Un periodo complicato, segnato da alcune sconfitte o da
vittorie parziali come quella della campagna di Chicago. Anni fortemente
condizionati dalla crescente centralità del tema della guerra in Vietnam,
che offuscava la questione razziale. Un periodo, infine, in cui emergevano
nuove leadership politiche, certamente meno popolari e carismatiche di
quella di King, eppure capaci di mobilitare nuove generazioni di militanti
delusi da una strategia imperniata sui tempi lunghi di una rivoluzione
morale e dell’integrazione razziale, e perseguita con i metodi della
nonviolenza. Nell’introduzione di Vincent Harding all’edizione del 2010,
assente nella pubblicazione originale del 1967, si sottolinea la continuità tra
alcune delle acquisizioni del convegno di Frogmore e il nuovo testo. Il
riferimento più importante è a quelle battute sul “sistema americano” che
abbiamo già riportato nelle righe precedenti: «C’è qualcosa di sbagliato nel
sistema economico della nostra nazione [...]. Qualcosa è sbagliato nel
capitalismo [...]. Ci deve essere una migliore distribuzione della ricchezza,
e forse l’America deve muoversi verso un socialismo democratico»308.
Poche frasi che però formalizzavano il nuovo approccio al tema della
“razza”, che diventava una variabile della stratificazione sociale
dell’America: in sintesi il razzismo come aspetto di una questione più
ampia che rimandava agli assetti del potere negli USA di quegli anni.
Ci preoccupiamo maggiormente delle dimensioni del potere e della ricchezza della
nostra società o di cercare una società più giusta? Non perseguire la giustizia non è
soltanto una colpa morale. Senza di essa le tensioni sociali cresceranno e la turbolenza
nelle strade persisterà [...]. Troppi di coloro che vivono nell’America opulenta ignorano
quelli che vivono nell’America dei poveri [...]. Ignorare il male è divenire suo
complice309.
Come prevedibile, una componente anche rilevante di coloro che
avevano marciato insieme a King “per i diritti civili” non era disponibile a
seguirlo in questo nuovo cammino politico, e molti dei circoli che lo
avevano celebrato negli anni delle campagne antisegregazioniste presero le
distanze dalla nuova strategia che si delineava. Altri, più semplicemente,
non capirono e gettarono lo sguardo nostalgico a quando “King era King”,
il leader che anche grazie al suo background religioso aveva saputo parlare
agli americani, bianchi e neri, che si erano fatti catturare dal sogno di un
paese unito e riconciliato almeno sul tema “della razza”, quello che
storicamente più lo aveva diviso e lacerato. «Martin Luther King – scrisse la
prestigiosa “New York Review of Books” – una volta aveva la capacità di
parlare con le persone, il potere di cambiarle evocando immagini di
rivoluzione. Ma il dovere di un rivoluzionario è di fare rivoluzioni [...], e
King non ne ha fatta alcuna». Il testo proseguiva con un giudizio severo
sull’esito della campagna di Chicago, che a detta della testata mostrava un
King «superato dai suoi tempi, superato dagli eventi che avrebbe potuto
aiutare a produrre, ma che non poteva prevedere. Non è probabile – questa
la perentoria profezia della testata – che riacquisti il comando»310. Al
contrario, sia pure anni dopo, acuti interpreti della dinamica razziale
nordamericana come Cornel West311 esprimeranno un giudizio molto
positivo su questa opera di King che collegando «la riflessione della mente
alla lotta per la libertà», consegnava al mondo l’ultima grande espressione
della sua visione e lanciava «la sua sfida più profetica al potere» indicando «il
suo programma più avanzato per i poveri della Terra»312.
Tuttavia vi sono pochi dubbi sul fatto che, in seguito alla svolta pacifista e
sociale della sua strategia, la popolarità di King fosse in netto declino.
Secondo un sondaggio del maggio del 1967, il 72% dei bianchi e il 55%
dei neri disapprovava la nuova agenda e, anche tra coloro che lo avevano
incensato nei momenti alti del Premio Nobel e dei riconoscimenti
pubblici, vi era chi lo ridicolizzava con l’appellativo, usato per la prima
volta da Adam Clayton Powell, di Martin “Loser” King: il Perdente313.
King aveva piena coscienza dell’isolamento che cresceva attorno a lui. Lo
testimonia egli stesso in un discorso che riprenderemo più avanti,
considerandolo il “manifesto” dell’“altro” Martin Luther King. A chi gli
chiedeva il senso della svolta pacifista e sociale ed esprimeva dubbi
sull’opportunità di un così rilevante cambiamento di strategia, King
replicava: «Ci sono dei momenti in cui il silenzio è tradimento. È il nostro
caso, oggi, per quanto riguarda il Vietnam». La tesi era già stata espressa ma,
nella solenne cornice della Riverside Church di New York – tempio del
protestantesimo liberal, teologicamente il più accreditato degli USA di
quegli anni –, acquistò un’eccezionale rilevanza pubblica. «Durante questi
due anni, quando ho cessato di tradire con il mio silenzio, e ho detto tutto
quello che avevo nel cuore, quando ho chiesto che si cessasse totalmente di
distruggere il Vietnam, molte persone hanno dubitato della saggezza della
mia posizione»314. Ma a questa autocritica che, dato il contesto e il
personaggio, suonava come confessione di peccato, seguiva una domanda
diretta: «Perché lei, Dr. King, prende posizione in questa guerra?». La
risposta fu sapientemente didattica e articolata in tre grandi motivazioni: la
prima era che l’impegno in Vietnam oscurava la lotta contro la povertà che
affliggeva i neri, con il risultato che i piani per smantellarla «ne uscivano
sviliti come se si trattasse di un qualsiasi gioco politico divenuto inutile in
una società presa dalla furia della guerra»315. In secondo luogo la guerra,
oltre a distruggere le speranze di tanti poveri, «mandava i giovani neri
rovinati dalla nostra società» a morire a dodicimila chilometri da casa loro
per «difendere delle libertà che essi non avevano trovato né in Georgia né
ad Harlem». «Crudele ironia – chiosava. – Tutti i giorni vediamo sui nostri
schermi televisivi soldati bianchi e neri uccidere e morire insieme per una
nazione che si è mostrata incapace di farli sedere insieme nella stessa
scuola»316. Era l’argomento della falsità ideologica di una missione
compiuta nel nome di una libertà negata agli stessi americani di colore.
Il terzo tema era di stretta attualità e rimandava a una nuova analisi della
violenza predicata e praticata da alcuni settori del movimento. «Ho
compreso che non potrei più levare la voce contro la violenza degli
oppressi dei ghetti, senza aver prima denunciato il più grande produttore di
violenza del mondo d’oggi, il governo della mia stessa nazione»317. Ma
nello stile tipico di ogni buon sermone di un predicatore protestante, la
chiusura deve essere propositiva e deve dare a chi l’ascolta il senso di una
missione in cui riconoscersi e per la quale impegnarsi.
La nostra sola speranza d’oggi dipende dalla nostra attitudine a realizzare lo spirito
rivoluzionario, a metterci in campo in un mondo, talvolta ostile, per dichiarare una lotta
eterna alla povertà, al razzismo e al militarismo [...]. Per questo bisogna iniziare subito
[...]. È la nostra vocazione di figli di Dio [...]. A noi la scelta [...]. Anche se
preferiremmo temporeggiare, bisogna scegliere in questo momento cruciale della storia
umana318.

«È una croce pesante»


Il discorso fu uno spartiacque. Per qualcuno fu la prima e
sorprendentemente negativa dichiarazione pubblica del reverendo King
contro la guerra in Vietnam – in realtà, come si è visto, il tema era
sull’agenda della SCLC già dal 1965319 –, mentre per altri era la conferma
di una svolta che, almeno in quel tempo ancora lontano dalle grandi
proteste di massa contro la guerra, confermava una sospetta
radicalizzazione. Il «New York Times» intonò il coro delle critiche a un
«errore» che metteva insieme due questioni «distinte e separate» come
quelle dei diritti civili e della difesa della democrazia in Estremo Oriente,
profetizzando che questa confusione «realisticamente poteva risultare
disastrosa per entrambe le cause»320.
Non fu da meno il «Washington Post», che titolò A Tragedy e giudicò il
discorso di King «una grave offesa ai suoi alleati naturali [...]. E una ancor
più grave offesa a se stesso. Molti di coloro che l’hanno ascoltato con
rispetto – spiegava la testata – non gli accorderanno più la stessa fiducia.
Egli ha diminuito la sua utilità alla causa, al paese e alla sua gente. E questa
è una grande tragedia»321. A palle incatenate seguì «Life», che denunciò il
«cattivo servizio» e persino il «tradimento della causa per la quale aveva
lavorato così a lungo»322. Attacchi di “fuoco amico” giunsero anche dalla
NAACP, che in una risoluzione ufficiale arrivava a definire l’intreccio tra
diritti civili e lotta per la pace «un grave errore tattico»323, e persino dalla
cerchia più ristretta di collaboratori come Bayard Rustin, Roy Wilkins e
Whitney Young.
Quanto all’FBI, non rinunciò certo a buttare benzina sul fuoco,
affermando che con le sue ultime dichiarazioni il reverendo King aveva
finalmente reso chiaro di essere «uno strumento nelle mani di forze
sovversive che cercano di minare la nazione»324.
Vi sono pochi dubbi sul fatto che il tono solenne del discorso, la cornice
in cui era stato pronunciato e i toni diretti ed espliciti che lo avevano
caratterizzato non erano passati inosservati e avevano segnato un “prima” e
un “dopo” sul piano della popolarità e persino dell’autorevolezza di King.
Prexy Nesbitt, storico e attivista del movimento assai vicino a King
nell’Operazione Breadbasket a Chicago, è convinto che quel discorso segnò
il suo destino, suscitando reazioni così violente e drammatiche da armare la
mano di un killer. «I razzisti dicevano: “Si è spinto troppo avanti. Ora ci
dice pure come governare il nostro paese. Chi si crede di essere?”»325.
Più sfumata la valutazione di Clayborne Carson, storico e biografo di
King, secondo cui in realtà quel discorso non mutò una scelta che era già
stata maturata: «C’erano un sacco di persone – spiega – che preferivano
King morto e che, se non sarebbero arrivate a ucciderlo, certamente non
sarebbero state disturbate dalla sua morte. La mia impressione è che in ogni
caso non sarebbe sopravvissuto agli anni ’60»326. Di quei giorni difficili
James Lawson, rimasto vicino a King al quale aveva trasmesso le tecniche e
lo spirito della nonviolenza gandhiana, disse che il suo leader stava
portando «una croce pesante»327. Quanto a King, le polemiche non lo
indussero ad alcun serio ripensamento, ma lo condussero a qualche
riflessione sulla sua vita, sulla continua sovraesposizione, sul senso più
profondo di quello che stava facendo. Traccia di questi pensieri emerse
clamorosamente nel corso di una predica a Chicago, nel corso della quale –
sorprendentemente – parlò dei suoi ultimi giorni, chiedendo un funerale
breve, con un’eulogia di due o tre minuti soltanto, desiderando di essere
ricordato soltanto «come un servitore buono e leale», «un testimone per il
mio Signore»328.

Relazioni pericolose
Da appunti e da qualche confessione emerge che erano giorni difficili,
complicati da ormai acclarate relazioni extraconiugali che gli toglievano
serenità e lo portavano a pensare addirittura al momento della sua morte.
Nella sua autobiografia, Ralph Abernathy che insieme a Martin ebbe
modo di passare più tempo di chiunque altro, dedica alcune pagine al
tema. Benché strumentalizzate a fini commerciali, sono righe rispettose di
King e del suo diritto alla privacy e nel complesso tendono a giustificare
comportamenti determinati dallo stress, dalla continua sovraesposizione e
dalle lunghe assenze da casa. Abernathy racconta anche un episodio
interessante, purtroppo non datandolo ma forse collocabile al 10 luglio
1962, quando insieme a King fu arrestato per aver organizzato delle
proteste ad Albany (New York). Finito in cella insieme a Martin, Ralph
ritenne di non avere migliore occasione per affrontare di petto il tema che
gli provocava tanta sofferenza personale e politica: «Martin, non puoi
nascondere la natura di certe amicizie [...]. Quindi qualunque sia la
relazione con lei – il riferimento è a una donna con cui King intratteneva
una relazione – devi ridimensionarla. Con gli uomini di Hoover nascosti
sotto il letto, semplicemente non puoi continuare così». «Seduto sul bordo
della branda – così Abernathy descrive la reazione del suo collega e
compagno – rimase a lungo a fissare il muro [...] quando rispose aveva un
tono cordiale ma fermo. “Ralph, quello che dici può essere giusto, ma non
mi importa. Né mi preoccupo di quello che il signor Hoover pensa o dice.
L’FBI può fare quello che vuole ma non ho alcuna intenzione di troncare
questa relazione”. Annuii e cambiai argomento. Fui deluso della sua
reazione ma la capii»329.
Coretta non poteva non sapere ma reagì con distacco, per dirla con
Abernathy, sollevandosi «al di sopra di tutti i meschini tentativi di rovinare
il [...] matrimonio, rifiutandosi addirittura di dare spazio a simili
pensieri»330. «Se anche avessi avuto qualche sospetto – dichiarò anni dopo –
non lo avrei detto a Martin. Non avrei voluto sovraccaricarlo di problemi
così triviali [...] tutti gli altri affari non avevano spazio nella profonda
relazione di cui noi godevamo»331.
In vari sermoni King ha fatto riferimento alla sua condizione di
“peccatore”, e non potremo mai capire se con quella espressione egli abbia
inteso confessare una colpa o richiamare il più generico principio teologico
di una condizione umana necessariamente segnata dal peccato. Certo, vari
autorevoli esegeti del suo pensiero optano per la prima ipotesi332, ritenendo
che King abbia voluto rendere una pubblica confessione delle proprie
colpe pronunciando – come fece in alcuni sermoni alla Ebenezer Church
di Atlanta, che potremmo definire la “chiesa di famiglia” – parole che
potrebbero confermarla:
Non avete bisogno di uscire da qui oggi dicendo che Martin Luther King è un santo.
Io voglio che voi sappiate che io sono un peccatore come tutti i figli di Dio [...]. Se
posso lasciarvi qualcosa, stamattina, lasciate che vi esorti ad essere sicuri di navigare sulla
robusta barca della fede. Il vento sta per soffiare. Arrivano le tempeste della delusione.
Arrivano le agonie e le angosce della vita. Ma siate sicuri che la vostra barca sia forte, e
siate anche molto sicuri di avere un’ancora. In tempi come questi, c’è bisogno di
un’ancora. E siate molto sicuri che la vostra ancora regga.
Sarà buio a volte, e sarà triste e faticoso, e le tribolazioni arriveranno [...].
C’è una schizofrenia, come la chiamerebbero gli psicologi o gli psichiatri, dentro tutti
noi. Ci sono momenti in cui tutti sappiamo che in qualche modo in noi ci sono un Mr
Hyde e un Dottor Jekyll. [...] Dio non ci giudica per i singoli errori che facciamo, ma
per la piega generale che diamo alla nostra vita333.

Dobbiamo davvero leggere questi frammenti come una confessione di


peccato? Se voleva esserlo è assai prudente, generica e ambigua, perché in
queste parole non si coglieva nulla che non potesse essere affermato dal più
puritano e moralista dei predicatori. Al più possono essere considerate spia
di un travaglio morale o di un messaggio – comunque assai implicito –
rivolto ai più stretti collaboratori che conoscevano la sua condotta e non
sapevano come reagire, se non mettendo a tacere voci e indiscrezioni.
L’argomento chiave che legittimava questo comportamento era la tattica
diffamatoria e manipolatoria dell’FBI. La pressioni dell’FBI su King datano
dai suoi esordi a Montgomery e avevano raggiunto livelli inusitati.
L’episodio più grave ebbe luogo il 21 novembre del 1964334, quando un
corriere consegnò a Coretta un plico anonimo contenente registrazioni
che intendevano provare l’infedeltà del marito, accompagnate da una
lettera che invitava King ad abbandonare l’impegno pubblico, a rinunciare
al Nobel per la pace e persino a suicidarsi per evitare lo scandalo derivato
dalla minacciata diffusione alla stampa di quei materiali335. La prova che si
trattava di una manipolazione dell’FBI è arrivata quasi casualmente nel
1977, quando in un archivio riservato dell’FBI a Media, Pennsylvania, fu
ritrovata una copia della lettera inviata a King e la si poté formalmente
attribuire a William Sullivan, vicedirettore dell’FBI336.
Era una nuova tattica intimidatoria che, dopo aver utilizzato all’estremo
l’accusa di comunismo, ora tendeva a screditare – più che la politica – la
moralità del reverendo, puntando sulla carta dell’infedeltà coniugale.
Ipotizziamo, insomma, che di fronte alla denuncia morale e politica della
guerra in Vietnam le tecniche spionistiche e psicologiche si facessero
ancora più dure e spregiudicate.
Ciclicamente emergono nuove prove che attesterebbero comportamenti
sessuali inappropriati del reverendo King337 e, ogni volta, si scatena un
dibattito smisurato e fuori tempo tra chi vuole glorificarne la memoria
ignorando le ombre che pure emergono dall’analisi delle carte e delle
testimonianze, e chi, all’opposto, pretende di utilizzare argomenti morali
per distruggerne la personalità e l’azione politica. È chiaro che, se a oltre
cinquant’anni dall’assassinio per qualcuno è ancora storicamente
interessante e plausibile la discussione sulla moralità di King nella sfera più
privata della sua vita, è perché sono ancora aperte le ferite di quegli anni e
non si è affatto concluso quel processo di autocoscienza del peccato
originale dell’America costituito dal razzismo338, da lui denunciato con una
forza e un’autorevolezza che non ebbe nessun altro leader del civil rights
movement. Ciò che resta come dato consolidato dall’esame dei documenti
raccolti dall’FBI sulla vita privata di King è che questi ebbe effettivamente
varie relazioni extraconiugali ma che, nonostante l’odio razzista che il
direttore dell’agenzia Edgar J. Hoover provava per lui e la sua causa339, la
Casa Bianca non volle mai fare uso di quei materiali che avrebbero quanto
meno screditato il più noto dei leader del movimento per i diritti civili.
C’è da chiedersi come mai non solo Kennedy ma neanche Johnson, i cui
rapporti con King si erano fatti assai tesi, abbiano utilizzato i corposi
rapporti dell’FBI e, tutto sommato, abbiano assecondato una linea di
rispetto e di tutela della privacy del reverendo King. Se per JFK possiamo
ipotizzare che non volesse ferire con l’arma con cui rischiava di perire –
come noto i rumors sulla sua condotta familiare erano boati –, per il suo
successore questo argomento non ha alcun fondamento. La nostra ipotesi è
un’altra. Di fronte all’emergere di nuovi leader assai più radicali di King, il
reverendo appariva un “usato” più sicuro e affidabile, persino
“conveniente”, dal momento che il suo credito politico era in declino.
Paradossalmente, in quella difficile contingenza la Casa Bianca aveva più
bisogno di King di quanto King non avesse bisogno della Casa Bianca.

Dal sogno all’incubo americano


Negli ultimi mesi del 1967 King affinò la sua analisi sul sistema americano
e, nel corso della già citata riunione di Frogmore del 27 novembre del
1967, aggiornò il bilancio di anni di mobilitazione e avanzò una serie di
proposte. Certamente il movimento aveva vinto alcune battaglie, ma –
denunciava – i risultati erano ancora limitati:
la struttura del potere sta ancora cercando di mantenere il muro della segregazione e
della diseguaglianza sostanzialmente intatto [...]. Non sono del tutto ottimista [...] ma
non sono pronto ad accettare la sconfitta. Dobbiamo formulare un programma e
dobbiamo elaborare delle tattiche che non si basino sulla buona volontà del governo ma,
invece, costringano autorità non indolenti ad assolvere a mandati di giustizia [...]. La
protesta nonviolenta deve maturare a un nuovo livello [...] di disobbedienza civile di
massa340.

Nell’analisi di quei giorni King arrivò a esplicitare la sua critica


anticapitalistica in varie interviste che sostanzialmente convergevano
nell’idea che nel capitalismo, almeno per come si era sviluppato negli USA,
ci fosse «qualcosa di sbagliato» e che il movimento non era interessato a
integrarsi in questa «struttura di valori». «Il potere deve essere ricollocato –
affermò. – Deve avere luogo una redistribuzione radicale del potere»341.
In questo processo di radicalizzazione dell’analisi e degli obiettivi, il capo
della SCLC arrivò a toccare il tabù dell’ottimismo sui destini dell’America,
di cui il suo celebre discorso I have a dream del 1963 era stato una delle
espressioni più solenni e retoricamente efficaci. Se per anni egli era stato
l’uomo che aveva rinnovato il “sogno americano” – contrapponendosi così
a Malcolm X, che invece profetizzava l’incubo di una società
strutturalmente marcata dalla violenza del razzismo –, così concedeva un
punto importante al leader al quale tante volte si era opposto.
Lo fece con una lunga e meditata intervista televisiva a Sander Vanocur
della rete NBC, in cui, tre anni e mezzo dopo il trionfo di Washington,
con il volto tirato e solenne ammise che quel sogno «per molti aspetti si era
trasformato in un incubo». L’analisi era autocritica e impietosa:
Non voglio perdere la speranza. Continuo a sperare, ho fiducia nel futuro. Ma devo
analizzare alcuni fatti degli ultimi tre anni e direi degli ultimi mesi. Ho vissuto una
ricerca interiore e sono passato attraverso momenti di agonia, arrivando alla conclusione
che di fronte a noi abbiamo ancora molti giorni difficili e che un po’ dell’ottimismo del
passato debba essere temperato con un solido realismo. E il fatto realistico è che
dobbiamo compiere un cammino ancora molto, molto lungo. Siamo coinvolti in una
guerra sul suolo asiatico che, se non è controllata e fermata, può avvelenare il suolo della
nostra nazione342.

Non era uno sfogo occasionale. Il fiducioso ottimismo nella capacità


dell’America di convertire la sua anima vacillava di fronte alla resistenza
della cultura razzista e all’emergere di nuove sfide che aggravavano la
condizione materiale degli afroamericani come i costi materiali e umani
della guerra in Vietnam.
Nel 1963 [...] a Washington [...] cercai di parlare alla nazione di un sogno che avevo, e
devo confessare [...] che non molto tempo dopo aver parlato di quel sogno cominciai a
vederlo trasformarsi in un incubo [...]. Fu quando quattro bellissime [...] bambine nere
furono assassinate in una chiesa di Birmingham, Alabama343. Vidi quel sogno diventare
un incubo attraversando i ghetti della nazione e vedendo i fratelli e le sorelle neri che
perivano in un’isola solitaria di povertà nel mezzo di un vasto oceano di prosperità
materiali. [...] Vidi quel sogno trasformarsi in un incubo a mano a mano che vedevo
l’escalation della guerra in Vietnam [...]344.

Ma in quei mesi le assonanze con il linguaggio politico di Malcolm erano


più d’una. Se il leader musulmano ucciso nel 1965 aveva denunciato
l’America come una potenza coloniale con 22 milioni di afroamericani
colonizzati dal loro stesso Stato e deprivati dei loro diritti345, due anni dopo
King esprimeva concetti del tutto analoghi: «Lo slum [il quartiere degradato
dove si concentrava la popolazione nera e povera, N.d.A.] – affermò – è
poco più che una colonia interna i cui abitanti sono politicamente
dominati, economicamente sfruttati, segregati e umiliati ad ogni
angolo»346. Era la teoria del “colonialismo interno”, un concetto che
collocava le lotte degli afroamericani nel contesto più ampio dei
movimenti di liberazione. Pur guardando al mondo, però, King non
perdeva di vista l’America e il tema della povertà di milioni di americani,
sia neri che bianchi. E dopo mesi di discussioni con il suo staff, il 4
dicembre del 1967 lanciò ufficialmente quella “campagna dei poveri” di
cui si parlava da mesi:
I poveri non possono desiderare a lungo di essere placati dal fascino di exploit
multimiliardari nello spazio. Poveri che ogni giorno fanno i conti con la discriminazione
razziale in ogni aspetto della loro vita non possono essere ingannati da gesti paternalistici
e promesse a metà. Poveri che sono trattati con derisione e subiscono l’abuso di un
sistema economico, ben presto concluderanno logicamente che non hanno alcun
interesse razionale a uccidere delle persone a 12.000 miglia di distanza, nel nome della
difesa di quel sistema. Abbiamo intenzione di incanalare la rabbia esplosiva e la
frustrazione delle persone nere in un grande movimento militante e non violento di
proporzioni enormi, a Washington e in altre aree347.

Era l’inizio di una lunga battaglia politica dall’esito assai incerto. Le


critiche e i distinguo arrivavano anche dall’interno della cerchia dei
collaboratori, a iniziare da Jesse Jackson, che dopo i personali successi
nell’Operazione Breadbasket di Chicago cercava di emergere con una
propria posizione autonoma.
Fu in questo momento difficile che James Lawson – si ricorderà il suo
ruolo nella formazione nonviolenta di King –, in quel momento pastore
della Centenary Methodist Church di Memphis, chiese l’aiuto della SCLC
per affrontare una crisi che rischiava di bloccare la città. Tutto nasceva dalla
difficile situazione dei netturbini che da mesi erano in agitazione per varie
ragioni: insoddisfacenti condizioni di lavoro, mezzi tecnici obsoleti, un
incidente con due vittime occorso il 1° febbraio, il rifiuto dell’azienda di
riconoscere un’indennità alle famiglie e, soprattutto, l’insensibilità
dell’amministrazione comunale per la condizione di una categoria di
lavoratori in assoluta maggioranza di colore. La protesta si fece più dura
quando il sindaco Henry Loeb si mostrò indisponibile persino ad aprire
una trattativa e i netturbini indissero uno sciopero di tre giorni a partire dal
20 febbraio, sfilando per la città con dei cartelli che riportavano tutti la
stessa scritta: I am a man. Il 22, pressato da un imponente sit-in di massa
incoraggiato dai pastori delle chiese afroamericane e da alcuni dei loro
colleghi bianchi, il Consiglio comunale approvò una risoluzione che
impegnava l’amministrazione ad andare incontro alle richieste dei
netturbini riconoscendo loro, ad esempio, il salario minimo orario. Un
voto inutile, immediatamente smentito dal sindaco, secondo il quale non
c’erano ragioni per cedere alle proteste di piazza. «Quando un pubblico
ufficiale ordina a un gruppo di uomini di tornare al lavoro “e poi
parliamo” e li tratta come se non fossero uomini – dichiarò Lawson –,
questo è razzismo. Perché al cuore del razzismo c’è esattamente l’idea che
un uomo non sia un uomo»348.
Come altre volte era accaduto, le foto dei lavoratori, tutti neri, ignorati e
umiliati dai loro stessi amministratori, ebbero un notevole impatto
sull’opinione pubblica e il piccolo, isolato caso di Memphis arrivò sulle
cronache nazionali. Inoltre la leadership di Lawson, il suo carisma e la sua
autorevolezza contribuirono ad allargare il cerchio della protesta, che
coinvolse studenti e ceti medi della comunità bianca. Tutti questi fattori
convinsero King a impegnarsi in prima persona anche nelle proteste di
Memphis che oltretutto, nella sua visione strategica, avrebbero potuto
contribuire a preparare la Marcia dei poveri su Washington. La data
dell’incontro pubblico fu fissata per il 18 marzo, quando King parlò di
fronte a una platea di 25.000 persone. Il giorno dopo ripartì per Atlanta
lasciando però “sul campo” James Bevel e Ralph Abernathy, che avrebbero
collaborato all’organizzazione di una mobilitazione generale fissata per il 22
marzo. La previsione di un violento temporale, però, impose di rinviare
l’iniziativa al 28. Le cose non andarono come gli organizzatori speravano.
Iniziata con le migliori premesse e la partecipazione di migliaia di studenti,
la marcia lungo la città assunse a un certo punto un carattere violento:
macchine distrutte, negozi vandalizzati e attacchi contro le forze
dell’ordine spinsero King e i suoi ad abbandonare precipitosamente la
manifestazione. Il rientro ad Atlanta fu mesto e carico di tensione, perché
di fatto la mobilitazione era stata sconfitta, il sindaco aveva dichiarato la
legge marziale e non era stato raggiunto neanche uno degli obiettivi della
mobilitazione.
Il 30 marzo, ad Atlanta, ebbe luogo una riunione dello staff della SCLC
nella quale, oltre che posizioni diverse sulle contromisure da adottare
riguardo ai fatti di Memphis, emersero anche tensioni interpersonali.
Come abbiamo già visto, King attraversava un momento personale
difficile, e gli eventi degli ultimi giorni gli davano la sgradevole
impressione di sentirsi ingabbiato in una trappola dalla quale non sapeva
come uscire e, in mancanza di idee migliori da parte dei suoi collaboratori,
alla fine decise di rischiare la carta più rischiosa: tornare a Memphis, per
dimostrare che la sua azione non si faceva fermare né dai divieti di un
sindaco razzista né dall’esibizionismo violento di settori del movimento alla
ricerca di visibilità e protagonismo. Il 3 aprile Abernathy lo andò a
prendere nella sua casa di Atlanta, fece colazione insieme a Coretta e poi in
aeroporto si incontrò con Bernard Lee, Andrew Young e Dorothy Cotton
per volare insieme verso Memphis.

Chiudendo il cerchio
Quel viaggio fu l’ultimo miglio di un condannato a morte. In quel
frangente politico King era isolato come mai era accaduto e il crollo del
consenso si registrava soprattutto in quelle componenti liberal che solo
pochi anni prima lo avevano osannato e celebrato come il leader
nonviolento e moderato, quello che parlava citando la Bibbia e la
Costituzione e che, a suo modo, rinverdiva la radicata retorica
dell’eccezionalismo americano: l’idea, cioè, che la storia delle colonie
americane che si liberarono dal colonialismo inglese e costituirono il
nucleo degli Stati Uniti di oggi non si iscriva in una semplice vicenda
geopolitica, ma sia il frutto di un piano di Dio che ha benedetto quella
terra e quel popolo349. Diversamente da altri leader – a iniziare da Malcolm
X –, King aveva saputo riappropriarsi di questi moduli retorici
fondamentali della tradizione americana, applicandoli però alla condizione
degli afroamericani. Egli non contestò mai il primato morale di una società
nata a partire da colonie puritane mosse dall’onerosa vocazione a costruire
una comunità civile sorretta dai principi evangelici; semmai ne denunciò
l’incoerenza determinata dalla schiavitù prima, dalla segregazione poi e
infine dall’ingiustizia sociale che, in percentuale assai maggiore di quanto
non accadesse ai bianchi, condannava gli afroamericani alla povertà. La
guerra in Vietnam fu il detonatore che fece scoppiare questa eccezionale
contraddizione e che indusse King a denunciare non più il singolo
provvedimento o particolari decisioni politiche ma il “sistema” americano
nel suo complesso. La parola chiave che meglio ci aiuta a comprendere
questo processo è, probabilmente, “tradimento”. King denunciava che,
con le sue politiche razziste e militariste, l’America tradiva le promesse
solenni contenute nella Dichiarazione d’indipendenza e nella
Costituzione. Al tempo stesso egli si sentì tradito da settori dell’opinione
pubblica pronti a seguirlo quando predicava la nonviolenza e l’integrazione
razziale ma scettici, se non allarmati, quando chiese loro una mobilitazione
contro la guerra e l’ingiustizia sociale. Le critiche degli amici di un tempo,
sempre più pesanti e difficili da accettare, dovettero ferirlo più delle
invettive razziste o dell’arroganza degli apparati di sicurezza dello Stato che
da sempre lo avevano trattato alla stregua di un pericolo pubblico.
I titoli polemici, se non ironici o insolenti, del «New York Times» e di
altre voci liberal, insieme alle critiche di esponenti democratici impegnati a
sostenere patriotticamente lo sforzo bellico, scavarono attorno a King un
solco che in soli due anni lo isolò progressivamente, facendone un
bersaglio sin troppo facile. Pur avvertendo il rischio dell’isolamento, King
scelse di proseguire per la sua strada e in vari discorsi pronunciati nel 1967
cercò di spiegare il senso della sua radicalizzazione. A chi gli ricordava i
gloriosi tempi di Montgomery, Birmingham o Selma, egli replicava che la
situazione era cambiata e, in un certo senso, si era fatta molto più
complicata:
Oggi è più difficile – disse all’Università di Stanford in un discorso troppo poco citato
ma eccezionalmente rivelatore dei suoi pensieri di quei mesi –, perché ora stiamo
lottando per una vera uguaglianza. È molto più facile integrare chi siede al bancone di
una mensa piuttosto che garantire un reddito sostenibile e un buon lavoro. È molto più
facile garantire il diritto di voto che garantire il diritto a vivere in abitazioni dignitose e
sane. È molto più facile integrare un parco pubblico che rendere reale un’educazione
autentica, di qualità e integrata. E così oggi stiamo lottando per qualcosa che dice che
chiediamo un’eguale uguaglianza. Non è semplicemente una lotta contro il
comportamento estremista nei confronti dei neri. E sono convinto che molte delle
stesse persone che ci hanno sostenuto nella lotta nel Sud non sono disposte ad andare
fino in fondo ora [...]. Ho visto tante persone che hanno sostenuto moralmente e
persino finanziariamente quello che stavamo facendo a Birmingham e Selma, persone
davvero indignate contro il comportamento estremista di Bull Connor e Jim Clark
verso i neri, ma non disposte a credere nella vera uguaglianza per i neri. E penso che
questo sia ciò che dobbiamo vedere ora, e questo è ciò che rende la lotta molto più
difficile.

Demolendo la retorica del Paese che garantisce opportunità a tutti, in


quei mesi King denunciava la convivenza di due Americhe,
una ricca ed opulenta, l’altra composta da milioni di uomini affamati di lavoro, che
camminano quotidianamente per le strade alla ricerca di posti di lavoro che non
esistono. In questa America milioni di persone si trovano a vivere in baraccopoli
infestate dai topi e piene di parassiti. In questa America milioni di persone muoiono su
un’isola solitaria di povertà nel mezzo di un vasto oceano di prosperità materiale350.

Era l’America dei portoricani, degli indiani, dei bianchi poveri residenti
nelle zone depresse. Ma soprattutto dei neri afroamericani. Una comunità
numerosa e coesa che però, in larga misura, in quel frangente non capì il
suo leader e non condivise il passaggio da un’agenda centrata sui diritti
civili e le rivendicazioni sociali a un’azione contro la guerra in Vietnam.
Per molti afroamericani, inserendo la questione razziale nella più ampia
questione sociale, le si toglieva centralità e rilevanza. Altre critiche
arrivavano anche dalla sinistra dei settori più radicali di un movimento
urbano e studentesco che King faticava a egemonizzare ma che pure, come
abbiamo cercato di dimostrare, si sforzava di capire. Il reverendo che nel
mattino del 3 aprile del 1968 volava da Atlanta a Memphis era insomma
una persona moralmente provata e politicamente isolata351, ma
decisamente orientata ad aprire una nuova fase del civil rights movement.
Ogni minuto delle poche ore trascorse tra l’arrivo in Tennessee e la sua
uccisione è noto e documentato. Sappiamo che arrivò in albergo alle 11.20
e prese possesso della stanza numero 306 al secondo piano, dotata di un
lungo balcone; pochi minuti dopo iniziò un briefing con il collega James
Lawson, quello che l’aveva invitato a Memphis a sostenere la lotta dei
netturbini. Nei pressi dell’hotel c’era un gran movimento di agenti
dell’FBI che diedero da pensare a King e ai suoi collaboratori i quali, alle
15.17, iniziarono una riunione di programmazione. Dopo un momento di
relax, la partecipazione – come si è visto, controvoglia – alla
manifestazione al Mason Temple, dove pronunciò la sua strana profezia di
morte352. Poi la lunga e movimentata serata353. Alle 9 del mattino dopo, un
briefing con Andrew Young e poi l’incontro con gli organizzatori della
mobilitazione. Affettuoso il tributo di Jim Lawson che, rivolto ai
giornalisti, dichiarò: «Per quanto mi riguarda, King è il primo profeta degli
Stati Uniti e secondo me è, se non altro, la nostra più potente voce di
speranza».
Alle 13.05 King scende nella hall e incontra suo fratello. Segue una
conversazione informale con alcuni colleghi di Memphis, tra i quali
Samuel Billy Kyles, che lo invita a cena per la sera. Qualche minuto prima
delle 18 va a prendere una boccata d’aria sul balcone del secondo piano.
«Dottor King, fa freschetto. Si metta un soprabito», furono le ultime parole
del suo autista di quella sera, Solomon Jones. Alle 18.01 del 4 aprile 1968
un colpo di fucile sparato da James Earl Ray uccise il reverendo King.
Meno di due mesi dopo, il 6 giugno, fu ucciso anche Robert F. Kennedy.
Non fu la fine dell’America né delle lotte per i diritti civili, per la pace e la
giustizia sociale. Ma quel movimento, che era stato guidato da un leader
con la Bibbia in una mano e la Costituzione degli Stati Uniti nell’altra, non
fu più lo stesso.
298 Cartosio, I lunghi anni Sessanta, cit.
299 Garrow, Bearing the Cross, cit., p. 533.
300 «The New York Times», 14 ottobre 1966.
301 Michael K. Honey, Going Down Jericho Road: The Memphis Strike, Martin
Luther King’s Last Campaign, Norton & Co., New York 2007, p. 97.
302 King, Stride Toward Freedom, cit., p. 82.
303 David J. Garrow, The FBI and Martin Luther King Jr: From “Solo” to Memphis,
Norton, New York 1981, p. 179. Il file FBI di riferimento è il 100-438794-1643,
dedicato alla SCLC; cfr. anche Id., Bearing the Cross, cit., pp. 536 e 537, note 11 e
13 del cap. 10.
304 Garrow, Bearing the Cross, cit., p. 539.
305 «Questa amministrazione oggi – dichiarò Johnson nel Discorso sullo stato
dell’Unione l’8 gennaio 1964 –, qui e ora, dichiara guerra incondizionata alla
povertà in America. Invito questo Congresso e tutti gli americani a unirsi a me in
questo sforzo. Non sarà una lotta breve o facile, non sarà sufficiente una singola
arma o strategia, ma non ci fermeremo finché questa guerra non sarà vinta». Cfr.
Martha J. Bailey, Sheldon Danzinger (a cura di), Legacies of the War on Poverty,
Russell Sage, New York 2013.
306 Garrow, Bearing the Cross, cit., p. 539.
307 Martin Luther King, Where Do We Go from Here: Chaos or Community?,
Beacon Press, Boston 1967; un’edizione riveduta è stata pubblicata nel 2010,
sempre per i tipi della Beacon Press. L’edizione italiana è stata pubblicata nel 1970
nella collana della SEI che annovera anche altri testi kinghiani.
308 Martin Luther King, Dove stiamo andando, cit., p. 122.
309 Ibidem.
310 Andrew Kopkind, Soul Power, in «The New York Review of Books», 24
agosto 1967, pp. 3-6.
311 Autore di Race Matters, cit., un testo di grande rilievo nel dibattito politico sul
razzismo in America. Nonostante un taglio politicamente molto radicale, il
volume fu ben accolto al suo apparire dalla critica. Ad esempio il «Washington
Post» scrisse che il libro conteneva dei passaggi «commoventi quanto i sermoni di
Martin Luther King, profondi quanto The Souls of Black Folk di Du Bois, esaltanti
nella loro prospettiva di liberazione quanto i primi saggi di James Baldwin», David
Nicholson, Race Culture and Morality, in «The Washington Post», 13 giugno 1993
e Manning Marable, La crisi del colore e della democrazia, in Cartosio (a cura di), Senza
illusioni, cit., p. 58.
312 West (a cura di), The Radical King, cit., p. XV.
313 Oates, Let the Trumpet Sound, cit., p. 433.
314 Martin Luther King, Oltre il Vietnam, cit., p. 7.
315 Ivi, p. 11.
316 Ivi, p. 12.
317 Ivi, p. 13.
318 Ivi, p. 48.
319 Il 12 agosto del 1965, in occasione dell’Assemblea annuale della SCLC, King
chiese ufficialmente la fine dei bombardamenti in Vietnam e l’intervento di
mediazione delle Nazioni Unite: «ciò che si chiede – affermò – è un piccolo passo
che possa determinare un nuovo spirito di mutua fiducia». Tornò sul tema qualche
mese dopo affermando: «Come ministro del Vangelo, considero la guerra un male.
Io devo gridarlo, quando vedo la guerra che monta», Opposes Vietnam War, in «The
New York Times», 11 novembre 1965.
320 Dr. King’s Error, editoriale del 7 aprile 1967.
321 A Tragedy, in «The Washington Post», 6 aprile 1967.
322 Dr. King’s Disservice to His Cause, in «Life», 21 aprile 1967.
323 N.A.A.C.P. Decries Stand of Dr. King on Vietnam; Calls it a “Serious Tactical
Mistake” to Merge Rights and Peace, in «The New York Times», 11 aprile 1967.
324 Peter Knight, Conspiracy Theories in American History: An Encyclopedia, vol. 1,
ABC Clio, Santa Barbara, California, 2003, p. 408.
325 Beyond Vietnam: The MLK Speech that Caused an Uproar, speciale di «USA
Today», 16 febbraio 2018.
326 Intervista a Clayborne Carson, ivi.
327 Garrow, Bearing the Cross, cit., p. 555.
328 Sermone pronunciato nella New Covenant Baptist Church di Chicago il 9
aprile 1967, in Lewis V. Baldwin, Rufus Burrow (a cura di), The Domestication of
Martin Luther King Jr., Cascade Books, Eugene, Oregon, 2013, p. 130.
329 Abernathy, ...e le mura crollarono, cit., p. 308.
330 Ivi, p. 306.
331 Garrow, Bearing the Cross, cit., p. 374.
332 Così Michael Eric Dyson, “I May Not Get There with You”: The True Martin
Luther King, Jr., in John A. Kirk (a cura di), Martin Luther King Jr. and the Civil
Rights Movement: Controversies and Debates, Palgrave Macmillan, New York 2007,
p. 170.
333 Martin Luther King, Unfulfilled Dreams, sermone pronunciato il 3 marzo
1968, https://kinginstitute.stanford.edu/king-papers/documents/unfulfilled-
dreams (consultato il 23 ottobre 2020).
334 È riferito da Abernathy, nella sua autobiografia, ...e le mura crollarono, cit., p.
306.
335 È nota, ad esempio, la celebre quanto rozza falsificazione fotografica che
intendeva accreditare la partecipazione di King a una scuola di formazione
comunista mentre il contesto era quello della Highlander Folk School di
Monteagle, Tennessee, e lo scatto ritraeva i partecipanti a un convegno in
occasione del Labor Day del 1957.
336 Beverly Gage, What an Uncensored Letter to M.L.K. Reveals, in «The New York
Times Magazine», 11 novembre 2014, ripubblicato il 25 giugno 2017; Richard
Gid Powers, Broken: The Troubled Past and Uncertain Future of the FBI, Free Press,
New York 2004, p. 245.
337 L’ultimo set di documenti è stato esaminato nel 2019 da David Garrow, come
si è detto uno dei più autorevoli e rigorosi studiosi di King, che è arrivato a
definire il reverendo un «libertino del sesso» e a denunciare episodi in apparenza
assai gravi. Si tratta però di materiali FBI “sospesi” e quindi ricchi di chiose e note
marginali non ufficiali, la cui piena attendibilità è ancora da verificare. Cfr. David
Garrow, The Troubling Legacy of Martin Luther King, in «Standpoint», 30 maggio
2019. Si noti che la pubblicazione è avvenuta su un giornale inglese non
particolarmente autorevole. Sulle polemiche determinate da queste rivelazioni di
Garrow, cfr. David Greenberg, How to Make Sense of the Shocking New MLK
Documents, in «Politico Magazine», 4 giugno 2019.
338 Wallis, America’s Original Sin, cit.
339 Garrow, The FBI and Martin Luther King, Jr., cit.; Rodney P.J. Carlisle,
Geoffrey Golson, America in Revolt During the 1960s and 1970s, ABC-CLIO, Santa
Barbara, California, 2008, in particolare p. 91.
340 Garrow, Bearing the Cross, cit., p. 581.
341 Ibidem.
342 Martin Luther King, intervista alla NBC del 7 maggio 1967,
https://www.nbcnews.com/nightly-news/king-1967-my-dream-has-turned-
nightmare-flna8C11013179 (consultato il 20 aprile 2020).
343 Cfr. cap. IV, p. 131.
344 Martin Luther King, sermone di Natale alla Ebenezer Church di Atlanta, 24
dicembre, in Naso (a cura di), L’“altro” Martin Luther King, cit., p. 176.
345 Cfr. supra, p. 149.
346 Barbara Arneil, Domestic Colonies: The Turn Inward to Colony, Oxford
University Press, Oxford-New York 2017, p. 8.
347 Il testo originale al sito https://www.crmvet.org/docs/6712_mlk_ppc-anc.pdf
(consultato il 24 aprile 2020).
348 Debbie Elliott, When MLK Was Killed, He Was In Memphis Fighting For
Economic Justice, https://www.npr.org/2018/03/28/597308044/the-memphis-
sanitation-workers-strike-kings-last-cause-for-economic-justice (consultato il 20
aprile 2020).
349 La letteratura sull’argomento è assai ampia. Ci limitiamo a segnalare lo storico
volume di Tiziano Bonazzi, Il sacro esperimento. Teologia e politica nell’America
puritana, il Mulino, Bologna 1970; Emilio Gentile, La democrazia di Dio. La religione
americana nell’era dell’impero e del terrore, Laterza, Roma-Bari 2006; Marco Nese, Gli
eletti di Dio. Lo spirito religioso dell’America, Editori Riuniti, Roma 2008.
350 Martin Luther King, The Two Americas, discorso del 14 aprile 1967,
pronunciato alla Stanford University, https://kinginstitute.stanford.edu/news/50-
years-ago-martin-luther-king-jr-speaks-stanford-university. King pronunciò
discorsi assai simili e con lo stesso titolo anche in altre occasioni, ad esempio alla
Grosse Point High School, nell’area di Detroit, il 14 marzo del 1968, meno di un
mese prima di essere ucciso.
351 Joseph Rosenbloom, Redemption. Martin Luther King Jr.’s Last 31 Hours,
Beacon Press, New York 2018.
352 Cfr. supra, p. 31.
353 Cfr. supra, p. 21, nota 3.
Ringraziamenti

La mia gratitudine va a quanti in diverso modo mi hanno incoraggiato a tornare agli


studi su King e il suo movimento. Un particolare ringraziamento va agli amici
professoressa Clara Spinelli e professor Filippo Falcone, che hanno letto il testo in
anteprima apportando utili correzioni e dandomi preziosi suggerimenti per la redazione
finale.
Cronologia

La vita e l’azione Gli avvenimenti


di Martin Luther King negli Stati Uniti

1929 15 gennaio. Ad Atlanta, Georgia, nasce Il crollo della borsa di New York determina una
Michael King (dal 1934, Martin Luther) drammatica recessione in tutto il Paese, che ferma la
King Jr. crescita economica seguita alla prima guerra
mondiale.

1947 Viene nominato assistente presso la chiesa


diretta da suo padre, la Ebenezer Church di
Atlanta.

1948 25 febbraio. Viene consacrato al ministero


pastorale.
Giugno. Consegue il baccellierato presso il
Morehouse College di Atlanta.
Settembre. Inizia il dottorato al Crozer
Seminary, in Pennsylvania

1951 Giugno. Consegue la laurea in teologia e si


iscrive a un dottorato presso l’Università di
Boston.

1953 18 giugno. Si sposa con Coretta Scott.

1954 31 ottobre (Giornata di commemorazione 17 maggio. La Corte suprema approva la sentenza


della Riforma protestante). King viene Brown vs. Board of Education che dichiara
insediato pastore della Dexter Avenue incostituzionale la segregazione nelle scuole
Church di Montgomery, Alabama. pubbliche.

1955 5 giugno. Consegue il dottorato in Filosofia e 1° dicembre. Rosa Parks infrange le norme sulla
teologia sistematica presso l’Università di segregazione razziale sugli autobus di Montgomery
Boston. e viene arrestata.
17 novembre. Nasce la prima figlia, Yolanda 5 dicembre. Inizia il boicottaggio della compagnia
Denise. degli autobus di Montgomery.
5 dicembre. Nei giorni della mobilitazione di 10 dicembre. La compagnia degli autobus sospende
Montgomery seguita all’arresto di Rosa il servizio a Montgomery.
Parks, all’unanimità viene nominato
presidente della MIA.

1956 26 gennaio. King viene arrestato e poi 4 giugno. La Corte distrettuale sentenzia che la
rilasciato su cauzione per eccesso di velocità. segregazione razziale sugli autobus è
30 gennaio. Una bomba esplode sotto il incostituzionale.
porticato della casa King. 13 novembre. La Corte suprema conferma la
21 dicembre. È tra i primi a salire sugli sentenza della Corte distrettuale.
autobus desegregati di Montgomery. 21 dicembre. Gli autobus di Montgomery sono
desegregati.

1957 27 gennaio. Una bomba viene trovata Settembre. Il presidente Eisenhower federalizza la
inesplosa sul porticato anteriore della casa di Guardia nazionale dell’Arkansas per scortare nove
King. studenti di colore in una scuola interamente
14 febbraio. A New Orleans si costituisce frequentata da bianchi.
ufficialmente la SCLC. King è il presidente.
6 marzo. Insieme alla moglie partecipa alla
cerimonia per l’indipendenza del Ghana,
dove incontra casualmente il vicepresidente
Nixon.
17 maggio. Presso il Lincoln Memorial di
Washington pronuncia il discorso Dateci il
voto.
23 ottobre. Nasce il secondo figlio, Martin
Luther III.

1958 23 giugno. Insieme ad altri esponenti del


movimento per i diritti civili, viene ricevuto
alla Casa Bianca dal presidente Eisenhower.
3 settembre. Viene arrestato e rilasciato su
cauzione nel corso di una manifestazione nei
pressi del tribunale di Montgomery.
4 settembre. Arrivato a giudizio, viene
assolto del reato imputatogli il giorno prima.
17 settembre. L’editore di New York Harper
& Row pubblica La strada per la libertà,
volume in cui King racconta la mobilitazione
di Montgomery.
20 settembre. Mentre firma delle copie del
suo ultimo libro, viene ferito al petto da un
colpo di pistola sparato da una donna inferma
di mente. La ferita non risulta grave.

1959 2-10 marzo. Per la prima volta King e sua


moglie visitano l’India per studiare le
tecniche della nonviolenza gandhiana. Li
riceve il primo ministro Nehru.
29 novembre. Ormai lanciato sulla ribalta
nazionale, lascia la Dexter Avenue Church di
Montgomery.

1960 24 gennaio. Con la famiglia si trasferisce ad 1° febbraio. Primo sit-in degli studenti di
Atlanta, dove diventa co-pastore della Greensboro, North Carolina.
Ebenezer Church insieme a suo padre. 15 aprile. Per promuovere la mobilitazione tra gli
24 giugno. Incontra il candidato democratico studenti a Raleigh, North Carolina, viene costituito
alle presidenziali, John F. Kennedy. lo SNCC. Keynote speakers dell’evento sono King e il
19 ottobre. Nel corso di un sit-in ad Atlanta reverendo James Lawson.
viene arrestato per aver oltrepassato le
transenne che limitavano l’azione dei
dimostranti. L’accusa cade pochi giorni dopo.
1961 Nasce il terzo figlio, Dexter Scott. 4 maggio. Ha luogo la prima azione dei freedom riders,
Maggio. Iniziano i freedom rides e King gruppo nato all’interno del CORE, che partono da
sostiene le prime azioni che si svolgono a Washington DC con un pullman della compagnia
Montgomery. Greyhound.
15 dicembre. In risposta a una sollecitazione 14 maggio. Il pullman viene incendiato nei pressi di
da Albany, Georgia, King e i suoi avviano Anniston, Alabama; i riders vengono poi picchiati da
una serie di azioni contro la permanenza della gruppi razzisti al loro arrivo a Birmingham. Giunti
segregazione. infine a Jackson, Mississippi, vengono tenuti in
arresto per periodi varianti da 40 a 60 giorni.

1962 27 febbraio. King è processato e condannato 3-5 maggio. Per fermare le marce di protesta a
per le proteste ad Albany. Birmingham, Eugene “Bull” Connor, capo della
2 maggio. Diverse associazioni e chiese di sicurezza di Birmingham, ordina l’uso di cani e
Birmingham, Alabama, chiedono e idranti contro i manifestanti, bambini compresi.
ottengono il sostegno di King per la loro 13 maggio. Dopo giorni di scontri e un attentato
mobilitazione antirazzista. all’albergo che ospitava King, a seguito dell’invio di
27 luglio. King è arrestato per aver truppe federali da parte del presidente Kennedy,
partecipato a una veglia di preghiera nei viene ristabilito l’ordine a Birmingham.
pressi del municipio di Albany e per aver 20 maggio. La Corte suprema dichiara
ostruito il marciapiede. incostituzionali le norme di segregazione della
Settembre. King pubblica il libro La forza di popolazione approvate a Birmingham.
amare, ancora una volta edito da Harper and 11 giugno. Il governatore razzista dell’Alabama,
Row. George Wallace, si oppone fisicamente all’ingresso
degli studenti di colore nell’università locale. La
situazione si sbloccherà solo dopo che il presidente
Kennedy avrà posto sotto il potere federale la
Guardia nazionale dell’Alabama.
20 settembre. Lo studente nero James Meredith
cerca di iscriversi all’Università del Mississippi. Le
autorità accademiche respingono l’iscrizione, che
viene però resa valida dalla Corte suprema.
1° ottobre. Il primo studente afroamericano entra
nell’Università del Mississippi, scortato da guardie
federali.

1963 28 marzo. Nasce la quarta e ultima figlia di 22 novembre. Il presidente John F. Kennedy viene
Martin Luther e Coretta King, Berenice. ucciso a Dallas.
Marzo-aprile. A seguito della sua
partecipazione alle azioni di protesta a
Birmingham, viene recluso.
16 aprile. Scrive la Lettera dal carcere di
Birmingham.
23 giugno. King guida una marcia “per la
libertà” a Detroit alla quale partecipano
125.000 persone. È la prova generale della
marcia per il lavoro e la libertà convocata a
Washington.
28 agosto. 250.000 persone partecipano al
più ampio raduno di massa per i diritti civili.
King pronuncia il suo discorso più famoso, I
have a dream.

1964 Gennaio. Per «Time», King è l’uomo


dell’anno.
26 marzo. King e Malcolm X si incontrano
brevemente alla Casa Bianca nel corso di una
conferenza stampa alla quale avevano
partecipato in momenti diversi, e si stringono
la mano di fronte ai fotografi. Risulta l’unico
incontro tra i due leader.
Maggio-giugno. Dopo aver partecipato a
varie manifestazioni a Augustine, Florida,
viene arrestato.
Giugno. Pubblica il volume Why we Can’t
Wait.
2 luglio. Assiste alla firma del Public
Accomodation Bill, parte del Civil Rights Act del
1964, firmato dal presidente Johnson alla
Casa Bianca.
13 settembre. Su invito del sindaco Willy
Brandt, visita Berlino.
18 settembre. King e sua moglie sono
ricevuti in Vaticano da papa Paolo VI.
10 dicembre. Viene insignito del Premio
Nobel per la pace.

1965 2 febbraio. Viene arrestato a Selma, Alabama, 21 febbraio. A New York viene ucciso Malcolm X,
durante una manifestazione per il diritto di già leader dei Black Muslims, poi convertitosi
voto. all’islam sunnita.
25 marzo. King parla a conclusione della 7 marzo. A Selma, Alabama, un gruppo di
marcia da Selma a Montgomery. Secondo dimostranti tra cui Hosea Williams della SCLC
varie fonti è in quella circostanza che We shall viene attaccato dalla polizia mentre attraversa il
overcome diventa l’“inno” del movimento. Pettus Bridge per raggiungere Montgomery.
Luglio. King e il suo staff iniziano a 9 marzo. Attentato razzista contro il pastore della
pianificare un intervento a Chicago. Chiesa universalista unitariana James Reeb. Bianco,
intendeva partecipare alla marcia di protesta da
Selma a Montgomery.
15 marzo. Il presidente Johnson si rivolge al Paese
per annunciare il Voting Rights Bill che presenterà al
Congresso due giorni dopo. Conclude il suo
discorso con l’espressione We shall overcome, che
richiama il canto più popolare del civil rights
movement.
21-25 marzo. In un clima di grande tensione ha
finalmente luogo la marcia da Selma a Montgomery
che inizia con 3000 persone. Alla fine i dimostranti
saranno almeno 25.000.
25 marzo. A conclusione della marcia, un gruppo di
suprematisti bianchi uccide Viola Liuzzo, una donna
bianca che aveva partecipato alla marcia.
6 agosto. Il presidente Johnson firma il Voting Rights
Act.
11-16 agosto. Rivolta del ghetto di Watts, a Los
Angeles. Decine di vittime e milioni di dollari di
danni.

1966 Gennaio. Si trasferisce per alcuni mesi a 6 giugno. Lo studente James Meredith viene ferito
Chicago per partecipare direttamente a una mentre compie la “Marcia contro la paura” da
Memphis, Tennessee, a Jackson, Mississippi.
campagna contro la povertà e la Giugno. Stokely Carmichael, preso il controllo
discriminazione abitativa subita dai neri. dello SNCC, lancia lo slogan Black Power.
23 febbraio. Incontra Elijah Muhammad,
ormai leader incontrastato dei Black Muslims
dopo l’uccisione di Malcolm X.
16 maggio. Dopo essersi pronunciato con
forza contro la guerra in Vietnam, accetta la
copresidenza dell’associazione Clergy and
Laity Concerned about Vietnam.
6 giugno. Dopo il ferimento di James
Meredith, insieme ad altri continua la sua
simbolica marcia per i diritti.

1967 Gennaio. In Giamaica King conclude la 12-17 luglio. Violenti scontri tra polizia e
scrittura del suo ultimo libro, Where Do We dimostranti a Newark, New Jersey, alla fine dei
Go from Here? quali si contano 43 vittime.
4 aprile. A New York, nella cornice della
grandiosa Riverside Church, pronuncia un
altro discorso di grande importanza contro la
guerra in Vietnam.
30 ottobre. Viene condannato a 4 giorni di
detenzione per fatti risalenti alle proteste di
Birmingham del 1963.
27 novembre. Lancia la proposta di una
“Campagna dei poveri” da concludersi con
una marcia a New York.

1968 28 marzo. A Memphis, partecipa a una 12 febbraio. A Memphis inizia uno sciopero dei
marcia di protesta a sostegno dei netturbini. netturbini che protestano per ottenere aumenti
Scoppiano degli scontri e alla fine si contano salariali e migliori condizioni di lavoro. I netturbini
un decesso e cinquanta feriti. si rivolgono a King per un sostegno alla loro causa.
3 aprile. Pronuncia il suo ultimo discorso, I 6 giugno. In seguito a un attentato subito nel corso
have been on the Mountaintop. della campagna elettorale, a Los Angeles muore
4 aprile. Mentre si affaccia dal balcone del Robert Kennedy, candidato alle presidenziali.
Lorraine Motel per salutare degli amici, viene
ucciso con un singolo colpo di fucile sparato
da James Earl Ray.

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