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Paolo Naso
Editori Laterza
© 2021, Gius. Laterza & Figli
Sigle frequenti
Introduzione
I.
Iniziando dalla fine
Che cosa ha ucciso King?
Un omicidio “politico”
II.
Nel solco di una lunga storia
Le negro churches
Il Social Gospel
Le associazioni storiche
We shall overcome
La formazione
III.
Montgomery, la scuola di un leader
Rosa Parks, una militante
Leader per caso
L’opzione strategica della nonviolenza
Una strana compagnia e la nascita della SCLC
L’incontro con James Lawson
IV.
Un tempo per seminare,
un tempo per raccogliere
Movimentismo e separatismo
MLK e JFK
I freedom riders
In ritardo sul movimento
Da Albany a Birmingham
Sulla linea del fuoco
In cella a Birmingham
Uno scontro interno
Kennedy sul Rubicone
V.
Salite e discese
Dallas
Martin & Malcolm, avversari o fratelli separati?
Una foto
Selma
Watts
Chicago
Nuovi attori, nuove critiche
VI.
L’epilogo.
Come Mosè sul monte Nebo
Frogmore, l’accelerazione della svolta
Martin “Loser” King, il Perdente
«È una croce pesante»
Relazioni pericolose
Dal sogno all’incubo americano
Chiudendo il cerchio
Ringraziamenti
Cronologia
ad Angela e Daniele
Sigle frequenti
Se qualcuno di voi sarà presente quando arriverà il mio giorno, non voglio un lungo
funerale. E se riesci a convincere qualcuno a pronunciare l’elogio funebre, digli di non
parlare troppo a lungo... Digli di non menzionare che ho un Premio Nobel per la pace –
non è importante. Non dire che ho ricevuto altri 300 o 400 premi – questo non è
importante.
Digli di non menzionare dove sono andato a scuola. Vorrei che qualcuno menzionasse
quel giorno che Martin Luther King Jr. ha cercato di dare la vita servendo gli altri.
Vorrei che qualcuno dicesse che Martin Luther King Jr. ha cercato di amare. Voglio che
tu dica quel giorno che ho cercato di avere ragione sulla questione della guerra. Voglio
che tu possa dire quel giorno che ho provato a nutrire gli affamati.
Voglio che tu possa dire quel giorno che ho provato nella mia vita a vestire coloro che
sono nudi. Voglio che tu dica quel giorno che ho provato nella mia vita a visitare coloro
che erano in prigione. E voglio che tu dica che ho cercato
di amare e servire l’umanità.
Martin Luther King, 3 marzo 1968
Un omicidio “politico”
Perché King fu ucciso? A chi giovava di più la sua morte? E perché
l’omicidio ebbe luogo proprio a Memphis? Sono domande che si
trascinano da oltre cinquant’anni e che non hanno mai trovato una risposta
definitiva e certa. La nostra ipotesi di ricerca, anticipata nell’Introduzione,
è che per provare a capire il significato dell’attentato occorre innanzitutto
delineare il contesto nel quale fu pianificato ed eseguito.
Il 1968 era l’anno delle elezioni presidenziali, scadenza di eccezionale
rilievo sul piano politico perché il voto non avrebbe deciso soltanto il
futuro della Casa Bianca, ma anche quello della strategia militare americana
in una guerra logorante, controversa e per certi aspetti fallimentare come
quella in Vietnam. A gennaio l’offensiva del Têt scatenata da
nordvietnamiti e vietcong aveva sorpreso sia l’esercito americano che
quello sudvietnamita ed evidenziato le crepe tattiche della campagna
militare di Washington. In quel frangente la leadership del presidente
Lyndon Johnson si mostrò assai debole e confusa, al punto che egli stesso
aveva deciso di non candidarsi per un secondo mandato. In quelle stesse
settimane si registrava inoltre un efferato attacco contro la popolazione
civile di un villaggio vietnamita: il 16 marzo una compagnia della 11a
divisione di fanteria dell’esercito americano aveva commesso una strage
contro civili disarmati uccidendo nel villaggio di My Lai oltre cinquecento
persone. Benché questo fatto specifico sia poi venuto a galla solo a
novembre, da mesi la presidenza Johnson subiva le pressioni contrapposte
dei vertici militari che chiedevano più mezzi e più libertà d’azione da una
parte, e dei movimenti di massa per il ritiro dalla palude vietnamita
dall’altra. Nell’indecisione, il potere militare sembrava avere la meglio su
quello politico, e proprio su questo punto King attaccò frontalmente la
Casa Bianca e il presidente che pure aveva firmato le leggi sul diritto di
voto. Nonostante alcuni inviti alla Casa Bianca, dai primi mesi del 1967
King aveva di fatto interrotto le comunicazioni con un presidente «di cui
non aveva personalmente fiducia e le cui politiche giudicava sempre più
disgustose»49.
E qui si pongono altri interrogativi: che cosa era successo? Come si era
arrivati allo scontro tra il leader del civil rights movement e il presidente
Johnson che, rompendo gli indugi e pagando un prezzo importante sul
piano del consenso, aveva concesso quello che Kennedy non aveva voluto
e potuto riconoscere?
Pochi mesi dopo la firma del Voting Rights Act, King aveva già iniziato a
pensare alle mosse successive. E cercava idee, strategie, temi per quella che
sentiva come una nuova fase di mobilitazione che andasse oltre il tema del
voto e dell’eguaglianza e si aprisse a una più diretta e ampia partecipazione
dei bianchi.
Dal 1966, e con crescente intensità, King denunciava il nesso strutturale
tra militarismo e razzismo, che a loro volta erano espressione e
conseguenza del capitalismo. La tesi e l’utilizzo stesso del termine
“capitalismo” meritano una sottolineatura. Come vedremo in dettaglio nel
capitolo VI, nel 1966 si precisa una “svolta” o, meglio, una
radicalizzazione in senso economico-politico dell’analisi sui mali
dell’America. Negli anni delle marce e dei sit-in per conquistare il diritto
di voto il tema della disuguaglianza sociale era rimasto sospeso, ma a quel
punto King mirava a denunciare la struttura portante del sistema
americano che a suo avviso produceva razzismo, ingiustizia economica e
militarismo.
L’impegno su un tema di politica internazionale quale la guerra in
Vietnam, apparentemente distante dagli interessi primari della comunità
afroamericana, non era affatto scontato, e per questo, dopo aver anticipato
il tema in varie interviste, King decise di aderire all’invito dell’associazione
interreligiosa Clergy and Laity Concerned about Vietnam (CALC), che gli
aveva affidato il ruolo di keynote speaker in occasione di un dibattito nella
cornice solenne della Riverside Church di New York: sede prestigiosa
che, benché largamente finanziata da una famiglia di orientamento
conservatore come i Rockefeller, già negli anni ’60 si proponeva come
tempio del pacifismo di matrice cristiana. L’evento ebbe luogo il 4 aprile
del 1967 e King, per quanto ospite d’onore, intervenne in una tavola
rotonda aperta da John Bennett, presidente dello Union Theological
Seminary, vero e proprio think tank del protestantesimo liberal
nordamericano50. Prima di King prese la parola anche il rabbino Abraham
Joshua Heschel, anche lui personalità di primo piano del civil rights
movement. L’intervento di King aveva uno specifico obiettivo: dimostrare in
termini razionali e politicamente remunerativi che l’impegno contro la
guerra in Vietnam non andava a scapito del sostegno ai diritti civili, ma che
le due questioni potevano considerarsi come aspetti diversi di un’unica
strategia di mobilitazione a sostegno della causa degli afroamericani. Nella
sua analisi l’intervento militare in Vietnam aveva interrotto il percorso di
crescita di una nuova coscienza della “crisi razziale” americana e allargato il
gap economico e sociale tra bianchi e neri:
Fu allora che compresi che l’America non avrebbe mai investito i fondi e le energie
necessarie alla riabilitazione dei suoi poveri per il tempo che le avventure come la guerra
in Vietnam avrebbero continuato ad assorbire competenze e capitali come una diabolica
macchina di distruzione [...]. I giovani neri rovinati dalla nostra società, li prendiamo e li
mandiamo a ottomila miglia da casa loro per difendere delle libertà che non avevano
trovato né in Georgia né ad Harlem51.
Pochi spiritual come quello che chiede a Mosè di guidare il suo popolo
nella fuga dall’Egitto esprimono il senso profondo della spiritualità e della
teologia politica delle black churches nelle quali King si formò e che, per
molti aspetti, costituirono la base primaria del movimento che si raccolse
attorno a lui. Quelle chiese non erano soltanto il luogo primario della
socializzazione della comunità afroamericana, ma anche il deposito di
conservazione di una tradizione basata su uno specifico paradigma
teologico che, per semplificare, possiamo ricondurre all’Esodo. Così come
era accaduto per i Padri pellegrini sfuggiti alle persecuzioni in Europa,
anche per milioni di afroamericani il racconto del secondo libro della
Bibbia costituì il manifesto della propria condizione di uomini e donne
figli di schiavi che ancora cercavano la loro emancipazione, impegnati in
un lungo e doloroso cammino nel deserto ma anche fiduciosi nella
prossimità alla terra promessa dell’emancipazione e della parità nella dignità
umana e nei diritti civili. Dalle prime lotte a Montgomery sino all’ultimo
discorso pronunciato a Memphis, è stato questo il cuore della teologia di
King, il suo “sermone della vita”, come si dice di quei predicatori che
riescono a lasciare una traccia nella coscienza e nella vita di chi ascolta.
In questo capitolo vogliamo presentare un’altra tesi derivata dalla
ricostruzione di quel processo che, in pochi mesi, portò un giovane pastore
afroamericano ai vertici della popolarità e dell’autorevolezza nella
leadership del civil rights movement. L’idea che abbiamo maturato in questo
percorso è che King sia il “frutto maturo” di un solido movimento di
protesta e di resistenza morale e politica al razzismo che precede la nascita
di quello che convenzionalmente definiamo civil rights movement.
Il contesto53 nel quale egli crebbe era quello di “Jim Crow”, espressione
dall’origine incerta che indicava lo stereotipo del nero razzisticamente
stilizzato, che suonava e ballava inconsapevole della sua condizione di
sfruttato. Un’immagine a uso e consumo del razzismo bianco, rassicurante
e da qualcuno considerata persino divertente, al punto da produrre un vero
genere teatrale: i menestrels. Erano bianchi goffamente mascherati da neri
che si esibivano in balli, musiche e dialoghi che, imitando caricaturalmente
atteggiamenti dei neri, proponevano battute e argomenti esplicitamente
razzisti. Per estensione, “le leggi di Jim Crow” divennero quindi quelle
norme approvate dai singoli Stati, generalmente dopo il 1876, tese a
costruire una società segregata – scuole, servizi pubblici, mezzi di trasporto
– sotto il principio del “separati ma eguali”54. Tra le norme più odiose,
quelle che di fatto impedivano la registrazione e quindi la partecipazione al
voto. La stridente contraddizione stava nel fatto che dopo la Guerra civile,
nel 1870 era stato approvato il XV emendamento della Costituzione, che
sanciva e garantiva il diritto all’elettorato attivo anche per gli afroamericani.
Tuttavia, dal momento che erano i singoli Stati a definire le norme che
regolavano questo diritto, nel Sud esso veniva sostanzialmente negato: i
requisiti per accedere alla registrazione e al voto venivano infatti ristretti e
limitati, a seconda delle convenienze, con la precisa intenzione di escludere
i neri dal processo politico democratico. Tra le conseguenze di questa
divaricazione economica e politica tra Nord e Sud, antica almeno quanto la
Guerra civile, vi fu la “grande emigrazione” di molti afroamericani dal Sud
verso il Nord. Si calcola che se nel 1910 viveva nelle grandi città del Nord
– New York, Chicago, Philadelphia, Detroit, Cleveland e Pittsburgh – il
10% della popolazione nera; trent’anni dopo tale percentuale era salita al
25%.
King nacque e crebbe in un milieu religioso, politico e organizzativo che
fu la sua scuola di formazione, gli aprì gli occhi e gli ispirò la visione di una
nuova stagione di lotta contro il segregazionismo. Al tempo stesso fu il
network che gli garantì una base operativa senza la quale avrebbe potuto
fare ben poco. Sappiamo di non dire nulla di particolarmente nuovo, anche
se il tono agiografico di buona parte della letteratura sul personaggio –
come abbiamo visto a partire dalle biografie di alcuni dei suoi collaboratori
– tende a trascurare ciò che c’era “prima” di King e che contribuì a
rafforzare la sua leadership, certamente dotata di un grande carisma e di
un’acuta lucidità nell’analisi politica. Lo diremo con le parole di Ella Baker,
un’attivista dotata di grande talento organizzativo e politico che per alcuni
anni collaborò con la SCLC, prima della “rottura” con King e la sua
organizzazione per aderire alla formazione più radicale e movimentista
dello SNCC: «Ad essere onesti, io credo che il movimento abbia creato
Martin piuttosto che Martin abbia creato il movimento. Non è per
screditarlo, ma secondo me è così che bisognerebbe mettere le cose»55.
Ma ciò che la stessa Baker chiama «movimento» non nasce dal nulla. Esso
fu un soggetto politico che si andò strutturando dopo il boicottaggio di
Montgomery e che probabilmente raggiunse il suo apice di consenso ed
efficacia tra il 1963 e il 1965 e cioè, per indicare due fatti precisi, tra la già
citata manifestazione di Washington del 1963 e le marce di Selma del
1965. Prima del “movimento”, insomma, non c’era il deserto, ma una rete
di soggetti religiosi e laici attorno ai quali si era strutturata una società civile
afroamericana cosciente della sua identità, della sua tradizione e dei suoi
diritti.
Le negro churches
Le prime trame di questa rete, se non altro in senso cronologico, vanno
cercate nelle black churches o, secondo l’espressione del tempo, le negro
churches. Si trattava di luoghi comunitari di eccezionale importanza per la
comunità nera, una sorta di patrimonio collettivo che ne ha garantito la
coscienza e la coesione e, soprattutto, ne ha rafforzato il peso pubblico.
Resta celebre a riguardo la frase del grande studioso nero – in realtà aveva
radici haitiane, olandesi e ugonotte, quindi associate al calvinismo europeo
– W.E.B. Du Bois, che produsse le sue opere più importanti a inizio
Novecento, secondo cui «la chiesa nera è stata l’unica istituzione sociale tra
i neri che era iniziata nella foresta africana ed era sopravvissuta alla
schiavitù»56. Tecnicamente si tratta di comunità di diversa tradizione
teologica – battista, metodista, pentecostale – la cui origine risale alla
seconda metà del XVIII secolo, in piena epoca di schiavismo. La nascita di
queste comunità va ricondotta all’impossibilità per i neri di accedere al
sacramento eucaristico, quella che la tradizione protestante generalmente
definisce “Santa Cena”. I padroni bianchi erano lieti di mostrare il loro
volto benevolente e pietoso nel momento dell’incontro con il loro Dio,
ma non erano disponibili a condividere questo momento, e in qualche
occasione allontanarono violentemente i loro correligionari di colore dal
tavolo dal quale il pastore e gli anziani distribuivano il pane e il vino57.
Andò così a Savannah, Georgia, dove si ritiene che nel 1777 si sia costituita
la prima black church degli USA. Nel 1787, a Philadelphia, Absalon Jones e
Richard Allen costituirono la Free African Society, una chiesa a tutti gli
effetti, di cui divennero i primi “vescovi”, e di cui nel 1794 fu eretto il
primo tempio58.
L’azione missionaria di questi nuclei favorì la nascita di vere e proprie
denominazioni nazionali: la prima fu la National Baptist Convention of
America che circa un secolo dopo, nel 1895, raccoglieva circa 3 milioni di
afroamericani, concentrati soprattutto negli Stati del Sud. Dopo la Guerra
di secessione si organizzarono anche i metodisti, dando vita nel 1865 alla
African Methodist Episcopal (AME) Church. Discordie teologiche e
contenziosi sulla leadership determinarono delle divisioni e la nascita di
nuove denominazioni afroamericane come la Colored Methodist
Episcopal Church o l’African Methodist Episcopal Zion Church. Per un
padre della cultura afroamericana come W.E.B. Du Bois, queste comunità
erano «il centro sociale della vita dei neri degli Stati Uniti, e la più
caratteristica espressione del carattere africano»59; nelle parole di un altro
leader dell’emancipazione afroamericana come Booker T. Washington, la
chiesa nera «rappresentava le masse del popolo nero. Essa – spiegava – è
stata la prima istituzione a sviluppare la vita delle masse nere e ancora
esercita il ruolo più importante su di esse»60. Più recentemente, un altro
grande storico delle chiese nere, E. Franklin Frazier, ha affermato con
nettezza che «non fu ciò che rimaneva della cultura africana o l’esperienza
religiosa africana a garantire la nuova base della coesione sociale [della
comunità afroamericana, N.d.A.], ma la religione cristiana»61.
Già nei primi anni del XIX secolo, oltre che denominazioni nazionali,
crebbero innumerevoli chiese indipendenti a carattere locale, alcune con
una grande capacità di impatto sulla vita sociale e culturale della città in cui
operavano. Un esempio importante e tuttora molto significativo è quello
della Abyssinian Church di New York, una comunità battista istituita nel
1808 da una scissione dalla First Baptist Church dovuta al fatto che, nel
nome della segregazione razziale, questa chiesa costringeva gli
afroamericani a sedere in specifici posti loro riservati. Dopo la rottura, un
facoltoso gruppo di commercianti di origine etiopica investì nella
costruzione di una chiesa “nera” a Anthony Street (poi spostatasi a Worth
Street) denominata Baptist Abyssinian Church, nome evidentemente
ispirato dal gruppo dei fondatori. Negli anni la chiesa crebbe notevolmente
e nelle prime decadi del XX secolo, animata dall’energico pastore Adam
Clayton Powell, divenne un modello e un riferimento primario per la
comunità afroamericana della città. Nel 1922, grazie alle decime
regolarmente pagate dal 95% dei suoi membri, la chiesa si dotò di un
grande tempio nel quale si svolgevano, oltre alle consuete attività spirituali
e di culto, diverse iniziative sociali, culturali e persino economiche che,
producendo reddito, consentivano l’espansione della chiesa stessa.
La vitalità sociale e l’impegno pubblico delle negro churches sono ben
documentate, oltre che da una celebre raccolta di scritti curata da Du Bois
nel 190362, da una preziosa ricerca del 193363 condotta con metodo
scientifico dall’Institute of Social and Religious Research – un centro
finanziato dalla famiglia Rockefeller – e affidata a Benjamin E. Mays, come
abbiamo visto presidente del Morehouse College, dove King compì i suoi
primi studi accademici. La ricerca fu realizzata sul campo, raccogliendo dati
e interviste in oltre 600 chiese afroamericane e fu pubblicata con il titolo
The Negro’s Church. La conclusione principale confermava che la chiesa
nera «era la prima comunità o organizzazione pubblica che il nero
possedeva e controllava pienamente». All’autore non sfuggiva la particolare
struttura di quelle chiese, tutte protestanti e “congregazionaliste”,
governate cioè con procedure tipicamente democratiche. Ogni comunità
si costituiva in assemblea, approvava il bilancio, decideva l’organizzazione
interna e le iniziative da svolgere all’esterno. Allora come oggi il pastore era
assunto dalla comunità locale dopo essere stato ascoltato ed “eletto”
all’interno di una rosa di candidati. Oltre al pastore, l’assemblea di ogni
chiesa eleggeva il Consiglio degli anziani, laici che potevano coadiuvare
nelle funzioni pastorali. Durante il culto, importanti momenti della liturgia
erano affidati ai laici, che leggevano brani della Bibbia o guidavano la
comunità in preghiera. Nella particolare tradizione battista, inoltre, ampio
spazio era dedicato alle preghiere spontanee e alla testimonianza
individuale della propria fede. Vogliamo così dire che la particolare forma
teologica ed ecclesiologica delle chiese nere, propria della tradizione della
Riforma protestante, ebbe una funzione importante nel favorire la
partecipazione, la selezione della leadership, il confronto democratico. In
questo contesto sociale, un ruolo del tutto particolare avevano i pastori,
che, come notava già Du Bois, per il loro ruolo pubblico e la loro cultura
finivano per svolgere un ruolo primario nella costruzione dell’immagine
pubblica della comunità afroamericana64.
Oltre ad avere una insostituibile funzione sociale, le black churches furono
fabbrica di una teologia afroamericana che ha aiutato la comunità nera,
oltre che a riprendersi la Bibbia brandita dai padroni schiavisti per educarli
al rispetto delle gerarchie della piantagione, a costruire una teologia della
speranza e della dignità dell’uomo di colore65. L’adattamento delle
categorie bibliche all’esperienza individuale e collettiva dello schiavo e
della sua liberazione è il grande Leitmotiv della teologia delle negro churches,
che si esprime compiutamente e a livelli artistici molto alti, ad esempio, nel
canto spiritual. In questa peculiare espressione della spiritualità
afroamericana, la sofferenza della schiavitù, la promessa di una terra, il
cammino per raggiungerla, la fedeltà e l’infedeltà del popolo di Dio nel suo
cammino finiscono per costruire un paradigma autoreferenziale nel quale
la comunità degli schiavi o dei discendenti degli schiavi ritrova la sua storia
e la sua identità ma anche le ragioni della sua speranza e della sua fede. In
genere i negro spirituals si basavano su un preciso schema: il grido di
sofferenza, l’invocazione di aiuto e la speranza della redenzione. Dal punto
di vista degli schiavi tutto questo significava cantare la speranza della
liberazione e invocare l’intervento di Dio affinché essa avvenisse nel più
breve tempo possibile. Per i padroni, invece, era un canto di fede che
aiutava gli schiavi a prendere atto della loro condizione e a rinviare la loro
speranza di riscatto all’aldilà. Lo spiritual non “mascherava” il linguaggio
politico della protesta: esprimeva in categorie bibliche una fede che era
speranza e liberazione. In questo senso lo spiritual va letto in primo luogo
attraverso categorie teologiche. Il suo aspetto più geniale e popolare era
l’identificazione della sofferenza degli afroamericani nelle pene del popolo
d’Israele, costretto alla schiavitù in Egitto ma anche destinatario della
promessa di una terra in cui avrebbe riconquistato la sua libertà. In questo
senso il canto spiritual recupera dunque in toto il paradigma
veterotestamentario della liberazione attraverso l’Esodo, e lo applica allo
schiavo afroamericano66.
Un prodotto rilevante del mondo delle negro churches furono i predicatori
e i pastori: essi provenivano dal popolo afroamericano ma, grazie ai loro
studi e al prestigio sociale connesso con il loro ministero, finivano con
l’assumere un ruolo pubblico talora di primaria importanza. Il pastore
diventava il referente primario della comunità nelle sue relazioni esterne,
svolgeva un riconosciuto compito formativo e di indirizzo, aveva la
responsabilità di far quadrare i conti della sua congregazione. Aveva
insomma le qualità essenziali per diventare un “attivista”, il portavoce delle
richieste della base, il mediatore nel caso di trattative complesse e
impegnative. Come annotava Mays nella ricerca sociologica appena citata,
il pastore afroamericano era una delle persone più libere, nonché la più
influente sulla scena americana. La sua forza stava nel fatto che non
rispondeva a un’istituzione che doveva relazionarsi al potere bianco ma,
economicamente e ideologicamente indipendente, poteva far valere con
maggiore facilità, coerenza e libertà le ragioni della comunità
afroamericana. Era inoltre una persona di cultura e di grande carisma; per
definizione, doveva avere un ruolo pubblico sia all’interno sia all’esterno
della comunità. Tutte queste ragioni rendevano i pastori neri dei leader
naturali della loro comunità.
King a parte, quindi, non fu certo un caso che soprattutto nel Sud alcuni
pastori siano stati referenti primari del civil rights movement e protagonisti di
importanti battaglie politiche: così Fred Shuttlesworth a Birmingham
(Alabama), Ralph Abernathy a Montgomery (Alabama), Jesse Jackson a
Chicago, James Bevel e C.T. Vivian a Nashville (Tennessee), il già citato
Lawson a Memphis (Tennessee), e John Lewis, uno dei primi freedom riders,
giovani bianchi e neri che nel luglio del 1961 avviarono una campagna per
rendere effettive e rispettate le norme sulla desegregazione sui mezzi
pubblici.
In conclusione, ci pare evidente che il tessuto primario di quello che a
fine anni ’50 si struttura come movimento fosse in larga parte costituito
dalle negro churches. Per quanto iperbolica, aveva fondamento la parafrasi del
Vangelo di Giovanni citata da alcuni preachers: «All’inizio c’era la chiesa
nera e la chiesa nera era con la comunità nera, e la chiesa nera era la
comunità nera. Sin dall’inizio la chiesa nera era con la gente nera; tutto
veniva fatto attraverso la chiesa nera e senza la chiesa nera non si faceva
nulla. Nella chiesa nera c’era la vita; e la vita era la luce del popolo nero»67.
Il Social Gospel
A cavallo tra il XIX e il XX secolo le chiese afroamericane furono investite
da un’altra corrente teologica, questa volta trasversale alle diverse
denominazioni: il Social Gospel. Non fu il prodotto delle prestigiose
accademie europee o nordamericane, piuttosto la scoperta sul campo di
nuove frontiere della testimonianza cristiana nel contesto dello sviluppo
capitalistico e delle sue contraddizioni. L’ultimo quarto dell’Ottocento
americano fu costellato da una serie di mobilitazioni operaie che talvolta si
conclusero nel sangue: accadde nel 1877, nel 1886, nel 1892 e nel 189468.
Le chiese storiche del protestantesimo americano non seppero cogliere il
significato di quella stagione di proteste, che videro, piuttosto, come il
risultato del disordine morale prodotto dalla secolarizzazione e come una
minaccia all’ordine sociale stabilito. Intanto, nel 1877 era nato il Socialist
Labor Party e nel 1898 si era costituito il Socialist Democratic Party: in
generale, le chiese guardavano con preoccupazione alla crescita di queste
organizzazioni di massa, che da una parte sottraevano loro alcune energie e,
soprattutto, ponevano fine all’incontrastato monopolio delle strutture
ecclesiastiche nell’ambito dell’organizzazione sociale americana. Solo una
piccola minoranza di clergymen avvertì il pericolo di una spaccatura tra il
mondo operaio, che si stava organizzando sulla base di una linea di classe, e
la realtà delle chiese, con il loro storico e riconosciuto ruolo sociale. Una
minoranza ancora più esigua aderì al movimento socialista e nel 1890
nacque la Society of Christian Socialists, ma si trattò di esperienze
aleatorie, incapaci di lasciare una traccia profonda.
Furono un pastore e un teologo a dare forma a una testimonianza
cristiana intrecciata con l’impegno per la giustizia sociale nel contesto delle
lotte operaie di quegli anni: Washington Gladden e Walter
Rauschenbusch. Nel 1905 il primo pubblicò un libro significativamente
intitolato Christianity and Socialism; quanto a Rauschenbusch, nel 1907
scrisse Christianity and the Social Crisis e nel 1917 Theology for the Social
Gospel. «Il fondamentale convincimento dei profeti era che Dio chiede
giustizia e nient’altro se non la giustizia», scriveva Rauschenbusch nelle
pagine iniziali del suo primo libro che, in breve, divenne un vero e proprio
manifesto del Social Gospel, letto e apprezzato sia per la sua teologia sia per
la forte carica di impegno sociale che lo animava. «Ed è importante notare
– proseguiva – che la morale che i profeti avevano in mente nella loro
strenua insistenza sul tema della giustizia, non era meramente la morale
privata della propria famiglia ma era una morale pubblica sulla quale si
fondava la vita della nazione»69. Non stupisce che queste idee abbiano
avuto riscontri importanti soprattutto nell’ambito di alcuni settori della
leadership delle chiese nere. Il tema della moralità pubblica aveva evidenti
implicazioni politiche, ma, soprattutto, andava al cuore dell’immaginario
americano, del senso comune dell’appartenenza a una particolare nazione
alla quale Dio tributava doni speciali in virtù della sua rettitudine e della
fedeltà alla sua parola. Ma se la moralità era pubblica, diventava cioè una
categoria della politica e non solo dell’etica individuale, ecco che questo
meccanismo ideologico di autorappresentazione si inceppava. Quale
poteva essere la moralità del razzismo e della segregazione? Tanto più dopo
la ferita della Guerra di secessione e del suo esito, come era possibile
parlare di moralità pubblica in una comunità che negava pari dignità ai suoi
membri? La democrazia americana si era consolidata sulla retorica biblica
della “città sulla collina”70, di un luogo ideale benedetto da Dio e per
questo destinato a un eccezionale progresso sociale, ma proprio per questo
tenuto al rispetto di fondamentali principi biblici. E come era possibile
predicare l’uguaglianza di tutte le creature di Dio da una parte e mantenere
strutture sociali razziste e schiaviste dall’altra? Il Social Gospel nacque da
questi interrogativi laceranti ed ebbe la capacità di affermare con categorie
teologiche quello che le parole della politica faticavano a indicare come
senso comune. Non stupisce che tra i primi a condividere l’idea guida di
Rauschenbusch vi siano stati alcuni pastori afroamericani: tra i battisti,
L.K. Williams e Adam Clayton Powell, a capo della prestigiosa Abyssinian
Church di Harlem, a New York; James Walker Hood dell’African
Methodist Episcopal Zion Church e Reverdy C. Ransom, vescovo
dell’African Methodist Episcopal Church e responsabile di una grande
comunità di Chicago71. I testi di Ranson meriterebbero un’analisi molto
attenta perché mostrano alcune interessanti analogie con le parole e gli
scritti di Martin Luther King:
Mi potrete definire un sognatore – scrisse nel 1905 – quando vi dico che nella mia
visione le catene della razza e della classe si rompono per sempre. Vedo un’umanità con
braccia così lunghe che un fratello può prendere la mano del fratello dall’altra parte del
mare sino a che, in un cerchio che unisce il globo, ogni uomo sia unito al suo fratello in
un’amorevole stretta di mano lungo il mondo. Io vedo gli uomini di una nuova civiltà
gioire nel compimento dei nostri sogni dorati, riconoscendo un solo altare di famiglia,
quello dell’umanità; una sola fraternità, quella dell’essere umano; una sola paternità,
quella di Dio72.
Le associazioni storiche
Se le black churches costituirono il luogo primario della ricostruzione
identitaria dell’afroamericano e della sua cultura, attorno alle comunità di
fede erano nate le prime associazioni politiche tese a promuovere
l’emancipazione dei neri d’America. In alcune situazioni le due strutture –
quella religiosa e quella politica – erano praticamente coincidenti ed era
difficile dire dove finisse la prima e iniziasse la seconda.
L’organizzazione più importante e che meglio esprimeva questa sintesi
politico-religiosa fu la National Association for the Advancement of
Colored People (NAACP). Dopo una conferenza preparatoria svoltasi a
Niagara Falls, l’associazione venne costituita formalmente a New York il
12 febbraio del 1909, per volontà di un gruppo di bianchi e neri che
comprendeva W.E.B. Du Bois, l’intellettuale che a cavallo dei due secoli
contribuì al meglio a definire l’identità afroamericana, alcune donne, ebrei
e personalità eccentriche come William English Walling, un giornalista e
attivista bianco di orientamenti socialisti, la cui famiglia era stata
proprietaria di schiavi75.
Nei primi anni l’attività della NAACP si concentrò nelle cause legali
contro una serie di misure segregazioniste, rafforzate nel 1913 sotto la
presidenza di Woodrow Wilson. Negli anni della prima guerra mondiale
l’associazione ebbe un ruolo importante nel sostenere il diritto degli
afroamericani a combattere nell’esercito americano, ottenendo un risultato
giuridico e politico di grande importanza per il percorso di emancipazione
della popolazione di colore. Una importante svolta organizzativa arrivò nel
1916 con la nomina a segretario esecutivo di James Weldon Johnson:
scrittore, musicista, poeta e già ambasciatore del governo degli Stati Uniti
in Venezuela. Tra l’altro si devono a lui le parole di un canto, Lift Every
Voice and Sing, che per solennità e intensità è diventato una sorta di inno
nazionale della comunità afroamericana76.
In un paese in cui cresceva progressivamente il muro della segregazione
razziale, i figli della piccola borghesia nera composta da commercianti,
impiegati, professori e ministri di culto erano sicuramente privilegiati,
potendo contare, ad esempio, su un buon percorso di formazione scolastica
e in qualche caso accademica. D’altra parte, proprio perché la loro vita
sembrava scorrere lungo un binario parallelo ma secondario rispetto alla
società dei bianchi, con più acutezza percepivano la drammaticità e
l’ingiustizia del sistema sociale. La rassicurante formula politica era quella
della “separazione nell’uguaglianza”, codificata in una sentenza storica –
Plessy vs. Ferguson – che, di fatto, istituzionalizzò il sistema segregazionista
in tutti gli Stati. La sentenza fu pronunciata dalla Corte suprema nel 1896 e
per oltre cinquant’anni avrebbe pesantemente condizionato i rapporti
interrazziali.
La vicenda ebbe origine il 7 giugno 1892, quando Homer Plessy, un
produttore di scarpe francofono di origine creola residente in Louisiana,
salì su un treno della ferrovia della East Louisiana Railroad, sedendo in una
carrozza destinata ai soli bianchi. La sua carnagione sembrava bianca ma
qualche occhiuto e prevenuto controllore ebbe gioco facile nel fargli
ammettere che almeno uno dei suoi otto bisnonni era di colore – Plessy
era quindi un octoroon, nell’espressione del tempo – e che pertanto era
tenuto a sedere tra i “colored”. Fermato e incarcerato, Plessy querelò la
compagnia ferroviaria accusandola di avergli negato i diritti costituzionali
garantiti dal XIII e dal XIV emendamento77. Non ne ricavò nulla, perché il
giudice ritenne che la Louisiana aveva il diritto di regolare le compagnie
ferroviarie secondo suoi indiscutibili criteri. Plessy non si arrese e fece
ricorso, incassando però un’altra sconfitta. Deciso ad andare fino in fondo,
nel 1896, fece appello alla Corte suprema degli Stati Uniti che, a larga
maggioranza – sette voti a favore, uno solo contrario – respinse le accuse,
ritenendo che il passeggero non avesse subito alcuna discriminazione in
quanto il suo viaggio era stato garantito; che lo Stato della Louisiana,
pertanto, non avesse commesso alcun reato e che la sua legislazione non
violasse il XIV emendamento. Una sconfitta su tutti i fronti che sanciva la
compatibilità di segregazione e uguaglianza e, quel che è peggio, fissava
un’interpretazione della norma che non ammetteva flessibilità da parte di
chi era tenuto a farla rispettare. L’esercito faceva eccezione, ma scuole,
mezzi di trasporto, ospedali, bagni pubblici, panchine restavano segregati.
Al pari delle chiese che, come si è visto, avevano il non commendevole
primato di avere per prime alzato il muro della divisione tra bianchi e neri.
La NAACP, sorta con il convinto sostegno di tante black churches e di
molti dei loro leader, aveva il suo bacino più rilevante negli Stati del Sud, e
cioè nella classica Bible belt che parte dalla Virginia e si estende sino
all’Oklahoma, arrivando a tesserare nel 1944 circa 400.000 aderenti78. Ma
già all’inizio del Novecento il collasso strutturale dell’economia centrata
sulle grandi piantagioni del Sud e su un’ampia offerta di manodopera a
basso costo produceva i suoi effetti sul piano sociale. Iniziò in quegli anni,
infatti, quella “Grande migrazione” verso il Nord destinata a proseguire
nel tempo: si calcola che «negli anni ’40, 1.600.000 neri lasciarono il Sud,
seguiti da 1.500.000 negli anni ’50»79. In un certo senso la crisi di lungo
periodo seguita alla fine dello schiavismo trasferiva la questione “razziale”
dal Sud verso il Nord del Paese, aprendo nuovi scenari sociali e politici. Si
spiega in questo quadro la costituzione, nel 1911, della National Urban
League (NUL), che anche attraverso la sua rivista «Opportunity» svolse
un’importante funzione di orientamento, formazione e organizzazione
parasindacale dei neri trasferitisi al Nord. Soprattutto sotto la presidenza di
Whitney M. Young tra il 1961 e il 1971 i rapporti con la SCLC furono
sempre buoni, anche perché facilitati da una propensione di King a fare
rete con altre associazioni anche quando avevano una base sociale e un
orientamento diversi da quelli della sua organizzazione: «Noi – affermò nel
1960 nella convention che celebrava i cinquant’anni della NUL – dobbiamo
accettare l’altro come un partner necessario nella lotta complessa e ancora
avvincente per liberare il nero e così salvare l’anima dell’America»80.
We shall overcome
Un’originale istituzione che ebbe un ruolo decisivo nella formazione di
quadri del civil rights movement fu la Highlander Folk School, istituita nel
Tennessee nel 1932 per opera di tre giovani intellettuali bianchi: Myles
Horton, un convinto presbiteriano che aveva studiato teologia nel
prestigioso Union Theological Seminary di New York e che poi aveva
preferito darsi all’insegnamento; Don West, anch’egli educatore e
pedagogista; e James Dombroski, pastore metodista. Anima del gruppo fu
soprattutto Horton: entrato per diventare pastore, era uscito dallo Union
Theological Seminary piuttosto orientato verso le scienze sociali e in
particolare verso la pedagogia. Dopo un’esperienza di studio in Danimarca,
Horton si mise alla ricerca di una sede idonea ad aprire un luogo che fosse
“scuola popolare” da una parte e centro di azione sociale dall’altra. La
scuola si sarebbe rivolta sia ai farmers più poveri del Sud, sia ai lavoratori
dell’industria; sarebbe stata assolutamente desegregata, aperta alla
partecipazione di neri e di bianchi senza preclusioni o pregiudizi81. La sede
fu individuata sulle “montagne del Tennessee” – che in una prospettiva
italiana appaiono piuttosto modeste colline – e nel 1932 iniziarono i corsi.
In pochi anni, Highlander si accreditò come un centro specifico e originale
di formazione della coscienza della classe operaia negli anni successivi alla
Grande Depressione e quindi del New Deal rooseveltiano. Attivisti
sindacali, pastori del Social Gospel, militanti della NAACP e di altre
organizzazioni afroamericane, socialisti e persino comunisti si
incontrarono e si formarono in questa particolarissima scuola popolare.
Nel 1954, la sentenza che desegregava – almeno in teoria – il sistema
scolastico apriva anche per la Highlander Folk School una nuova fase: ora
si trattava di promuovere il rispetto della sentenza «il più rapidamente
possibile e con la minore violenza possibile». Si sviluppò quindi un nuovo
ciclo di corsi di formazione politica, ai quali parteciparono centinaia di
potenziali leader del movimento per la desegregazione, bianchi e neri. Tra
di essi anche una attivista della NAACP di Montgomery, Rosa Parks.
In quanto luogo di formazione, Highlander raccoglieva persone e
professionalità di ogni tipo, attori e musicisti del calibro di Pete Seeger.
Secondo varie fonti il 2 settembre del 1957, in occasione del
festeggiamento dei 25 anni dell’istituzione, fu proprio lui a prendere il
banjo e a intonare di fronte a King e agli altri partecipanti all’incontro il
canto We shall overcome, divenuto l’inno più popolare del civil rights
movement. Parole e melodia avevano una lunga storia. All’origine sembra
esserci un inno evangelico del primo Novecento intitolato I overcome
someday, scritto dal pastore metodista e compositore Charles Tindley.
Intorno al 1945, però, i musicisti gospel Atron Twigg e Kenneth Morris
riarrangiarono la musica e semplificarono il testo in modo che fosse più
facile da cantare in grandi gruppi e nel corso di manifestazioni pubbliche. E
in effetti tra il 1945 e il 1946 il canto fu utilizzato durante un lungo
sciopero contro la compagnia American Tobacco delle donne che
raccoglievano la materia prima a Charleston (South Carolina). In breve e
per motivi facilmente intuibili, il testo originario I will overcome si trasformò
nel più collettivo We shall overcome. Grazie a una delle scioperanti, Lucilla
Simmons, il canto arrivò a Highlander nel 1947, dove fu notato,
apprezzato e “passato” a Pete Seeger, che ne fece una hit, poi rilanciato da
Joan Baez. Secondo Myles Horton82, la strofa «We are not afraid» è
successiva perché fu creata nel corso di un’irruzione notturna della polizia a
Highlander e molti ragazzi, impauriti, dopo essersi rifugiati in un unico
locale, “inventarono” questa aggiunta che negli anni successivi, quelli delle
lotte e delle azioni dirette nonviolente, avrebbe avuto tanta importanza.
We shall overcome piacque a King, presente nel 1957 a Highlander. Diversi
testimoni ricordano che, nel viaggio di ritorno ad Atlanta, si ritrovò a
canticchiarlo in macchina. «In questo canto c’è qualcosa che ti afferra»,
disse ai suoi compagni83.
Altra associazione di riferimento per la comunità afroamericana fu il
Congress for Racial Equality (CORE), costituitosi a Chicago nel 1940 per
iniziativa di vari attivisti bianchi e neri, tra i quali James L. Farmer84: figlio
di un pastore e teologo metodista e cresciuto in una famiglia della buona
borghesia protestante afroamericana, di profonde convinzioni nonviolente,
collaborò con l’associazione di ispirazione cristiana Fellowship of
Reconciliation. Preferendo i metodi dell’azione diretta nonviolenta a
quelli dell’azione giudiziaria contro la discriminazione dei neri, il CORE
dichiarava la sua ispirazione gandhiana e la sua strategia di resistenza
nonviolenta e disobbedienza civile. L’obiettivo ambizioso di questo
piccolo ma coeso gruppo di persone era molto chiaro: “importare” negli
USA i metodi gandhiani sperimentati in India per promuovere la causa
dell’emancipazione della comunità afroamericana.
Ai fini del nostro racconto biografico, è importante citare almeno un’altra
associazione che ebbe un ruolo rilevante almeno nella prima fase del civil
rights movement: la Brotherhood of Sleeping Car Porters (BSCP), un
organismo sindacale dei lavoratori delle cuccette ferroviarie cresciuto a
partire dal 1925 sotto la guida di Asa Philip Randolph. Era il primo
sindacato nato e gestito da neri e organizzava lavoratori rispettati perché
svolgevano un lavoro dignitoso, stabile e in un settore strategico come
quello della grande mobilità.
Questo tessuto organizzativo – composto da chiese, sindacati,
organizzazioni ecumeniche, semplici associazioni locali – costituiva la rete
di autoprotezione della comunità nera e gestiva una sorta di welfare
comunitario, di primaria importanza sul piano sia economico che
culturale. Dava molta visibilità e autorevolezza pubblica a una comunità
altrimenti marginale e socialmente non rilevante.
La famiglia King si inseriva perfettamente in questo quadro sociale. Ben
radicata nella città di Atlanta, apparteneva a una piccola borghesia
economicamente non proprio agiata, ma comunque stimata e ben
considerata. Il padre – confidenzialmente Daddy King – non poteva
vantare grandi studi, ma la sua personalità e una convinta fede evangelica
gli avevano aperto le porte del servizio pastorale in alcune chiese battiste
della città. Nel 1926 si era sposato con Alberta Williams, posata figlia di un
pastore di una certa notorietà che predicava nella Ebenezer Church; scelta
felice, ma anche fortunata, perché nel 1931, morto il suocero, Daddy King
“ereditò” la cura di una bella chiesa di mattoni rossi sulla ricca Auburn
Avenue di Atlanta, nota in tutta la città anche per essere la sede della
sezione locale della NAACP. In una fase di crescita della chiesa, King Sr.
divenne il pastore di colore “meglio pagato della città” e, soprattutto, gli fu
data la possibilità di partecipare a importanti missioni all’estero. Il 15
gennaio del 1929, intanto, gli era nato il primo figlio al quale, insieme alla
moglie Alberta, aveva posto il suo stesso nome, Michael. Ma quando il
ragazzino aveva già 5 anni, il reverendo King Sr. fu invitato a partecipare a
una visita ecumenica in Germania al ritorno dalla quale, affascinato dalla
tradizione luterana di cui aveva percepito la grandezza teologica e culturale,
decise di cambiare il proprio nome e di riflesso quello del primogenito in
Martin Luther. Non sappiamo come la prese il diretto interessato, ma
diversi frequentatori della famiglia King concordano che, almeno per i
primi anni, King Jr. continuò a farsi chiamare Mike o – più
schematicamente – ML85.
Comunque si chiamasse, gli anni dell’infanzia coincisero con la Grande
Depressione, i cui effetti si dovevano percepire anche nelle stanze protette
della Ebenezer Church e dell’appartamento della famiglia pastorale. Come
tanti suoi colleghi neri, il padre aveva aderito al Social Gospel e alla
domenica, dopo aver martellato dal pulpito sui temi della giustizia sociale e
razziale, smessa la toga pastorale presiedeva la riunione della NAACP86.
Tuttavia Jim Crow continuava ad avvelenare le acque della convivenza:
uno status sociale più elevato non era in alcun modo sufficiente a
proteggere la borghesia nera dalla durezza delle leggi della segregazione.
Alcune biografie riportano episodi probabilmente veri perché confermati
dallo stesso King ma chiaramente enfatizzati in ragione di quello che King
sarebbe diventato da adulto. L’etichetta del tempo imponeva al nero che si
rivolgeva al bianco un linguaggio riverente costellato di “Yes Sir”, “No
Sir”, “Forgive me Ma’am”, “Excuse me Sir”. Al contrario, il bianco
poteva tranquillamente rivolgersi al nero con un secco “Boy”. Si racconta
che una volta Daddy King fu fermato da un poliziotto che gli intimò:
«Ragazzo, mostrami la patente». «Ma non vedi che c’è un bambino qui?»,
replicò polemico, indicando il figlio seduto a lato. «Quello è un ragazzo –
continuò – mentre io sono un uomo. Io sono il reverendo King». Superato
l’incidente Daddy King spiegò al figlio: «Vedi, io non mi preoccupo di
quanto tempo ancora devo vivere in questo sistema. Ma non lo accetterò
mai e lo combatterò finché vivrò»87.
Fa il paio con questo un altro aneddoto riportato in varie biografie che
racconta dei due King, padre e figlio neanche adolescente, che entrarono
in un negozio di scarpe di Atlanta e si sedettero su due sedie in prossimità
della porta. «Sapete che non potete sedere qui», inveì il commesso. Martin
Jr. si sentì a disagio. Abbassò gli occhi e si mise a giocherellare con le dita.
«Non c’è niente di male in questi sedili», replicò il padre. «È una regola. La
gente di colore siede nel retro del negozio». «E noi compriamo le scarpe
seduti qui – reagì ancora Daddy King –, o non le compreremo affatto». E
così prese Martin per mano e se ne andarono88. In questa carrellata si
inserisce un terzo aneddoto, che in questo caso coinvolge King Jr. e sua
mamma Alberta, che giunsero in prossimità di un ascensore ma poi presero
le scale. Ovvia la domanda del bambino: «Ma perché non prendiamo
l’ascensore?». «Questi ascensori sono per bianchi – fu la prevedibile risposta
–. Qui noi dobbiamo salire a piedi»89.
Piccoli traumi psicologici, certamente, incomparabili però con la
situazione disperata e disgraziata di altri ragazzi neri i cui genitori, non
sapendo che fare e dove andare, erano rimasti a vivere nelle vecchie
casupole degli schiavi delle piantagioni o si erano ritrovati, spaesati e privi
di reti di protezione, nei quartieri ghetto del Nord degli USA. A confronto
delle pagine che nella sua autobiografia Malcolm X dedica alla sua infanzia,
la condizione sociale di Martin Luther King Jr. appare quella di un
privilegiato, protetto da una solida rete familiare, dal riconoscimento
pubblico del padre e dalla collocazione sociale dell’intera famiglia.
La collocazione nella middle class nera non distrasse King dai temi pubblici
più scottanti, anzi nell’ambiente protetto della famiglia e della Ebenezer
Church trovò gli stimoli e gli strumenti per affinare una sua specifica
sensibilità rispetto ai temi della “razza”. Ancora dopo la seconda guerra
mondiale si registravano attentati esplicitamente razzisti, che però venivano
spesso derubricati a conseguenza di contenziosi e litigi personali. Nel
1946, a pochi giorni di distanza, in Georgia ci furono ben tre attentati di
matrice razzista. Nel primo, il 18 luglio, era morto Maceo Snipes, figura
importante della comunità nera perché veterano di guerra e unico
cittadino di colore riuscito ad iscriversi nelle liste elettorali della sua contea.
Fu ucciso il giorno dopo aver esercitato il suo diritto al voto, colpito da un
gruppo di quattro attivisti dal Ku Klux Klan, che arrivarono a casa sua su
un pick up e lo fecero uscire nel cortile di casa dove uno del gruppo –
come Snipes veterano di guerra – gli sparò alle spalle90. La vittima
designata, però, non morì subito ma in ospedale, in attesa di una
trasfusione di sangue mai arrivata perché mancava il black blood, il sangue
“dei neri”. Le ferree logiche della segregazione valevano anche per le
sacche di plasma. Le altre vittime erano due anonime coppie di colore della
città, scelte probabilmente proprio per la loro assoluta normalità. In un
clima difficile e teso, il diciassettenne Martin decise di scrivere una lettera
all’«Atlanta Constitution» il cui testo ha un valore simbolico perché,
compiti scolastici a parte, fu il suo primo testo pubblico:
Noi vogliamo ed abbiamo titolo ai diritti e alle opportunità fondamentali dei cittadini
americani. Il diritto di guadagnare con un lavoro per il quale siamo tagliati, grazie alla
nostra formazione e alla nostra abilità; uguali opportunità nell’educazione, nella salute,
nel divertimento e negli altri servizi pubblici; il diritto di voto; l’uguaglianza di fronte
alla legge; alcune delle stesse cortesie e buone maniere con le quali noi contribuiamo alle
relazioni umane91.
La formazione
Evidentemente portato per gli studi accademici, King Jr. si iscrisse al
Morehouse College, una prestigiosa istituzione formativa della borghesia
nera di Atlanta che nel 1940 si arricchiva della presenza di un nuovo
presidente, Benjamin Mays, personalità già nota a livello nazionale sia per il
suo impegno nella NAACP che per la convinta adesione alla corrente
teologica del Social Gospel. Il nuovo presidente assumeva il suo incarico a
pochi mesi da un’esperienza di eccezionale importanza per un intellettuale
afroamericano di quegli anni: un viaggio in India nel quale aveva avuto
modo di conversare con il Mahatma Gandhi, circostanza che
indubbiamente contribuì ad accrescere l’autorevolezza del personaggio e la
curiosità attorno ai suoi indirizzi formativi e pedagogici. Grazie agli
appunti di quell’incontro disponiamo anche di un interessante frammento
della conversazione tra i due. Mays chiese l’opinione del Mahatma sul
sistema delle caste in India e ottenne una risposta che probabilmente lo
deluse: «coloro che hanno la pelle più scura non sono intrinsecamente
intoccabili, e tuttavia il sistema delle caste è una “necessaria ingiustizia
economica”»92.
Mays ebbe un ruolo di primo piano nella formazione di King, che in
varie occasioni lo riconobbe come suo principale mentore, al punto di
promettergli di pronunciare, a tempo debito, il discorso ufficiale di
commemorazione al suo funerale. Le cose andarono diversamente, e fu
invece il settantenne Mays a predicare in occasione del funerale del
trentanovenne Martin Luther King, il 9 aprile del 1968.
Conclusi gli studi al Morehouse College, la tappa successiva fu il Crozer
Theological Seminary, in Pennsylvania: non era una scelta scontata, dal
momento che il giovane, pur appassionato di teologia e radicato in una
comunità di fede, non aveva esplicitato la sua intenzione di dedicarsi al
pastorato. D’altra parte, il seminary apriva le porte anche ai corsi di
dottorato e quindi, ipoteticamente, alla carriera accademica. Crozer fu il
luogo di una maturazione teologica dovuta, soprattutto, all’incontro con la
scuola teologica neo-ortodossa avviata da Reinhold Niebuhr. Il suo
volume più importante e destinato a lasciare una traccia importante anche
nella formazione di King fu Moral Man and Immoral Society, pubblicato nel
1932. Niebuhr era nettamente critico nei confronti del positivismo liberale
che affidava a una imprecisata idea di progresso il compito di risolvere le
grandi sfide sociali di quel tempo. Ma egli ne aveva anche per il Social
Gospel, che con la sua volitiva predisposizione all’azione per la giustizia
finiva per mettere tra parentesi il peso del peccato che segna ogni azione
umana, anche quella meglio orientata verso i valori evangelici. Escludendo
il peccato dall’orizzonte dell’azione per la giustizia – riteneva – si fanno
promesse che non possono essere mantenute e si concepiscono sogni
destinati a svanire. L’intuizione della crisi dei regimi socialisti era già
presente nelle considerazioni di questo teologo dello Union Theological
Seminary di New York, che la leggeva anche in chiave teologica.
In piena coerenza con la tradizione protestante e il suo “pessimismo”
sulla natura umana, Niebuhr tornava sul tema del peccato e sul fatto che
l’uomo moderno avesse «perso confidenza nelle forze morali», ovvero in
quello spazio di giustizia che combina «amore e politica, spiritualità e
realismo». Moralità, allora, era un compromesso tra religione e politica,
reso necessario dallo specifico carattere della «società immorale»93.
È ovvio che, predicando un Vangelo vissuto nella lotta per la giustizia, il
Social Gospel avesse una facile presa emotiva nell’ambito di una comunità
sfruttata e segregata. D’altra parte la teologia neo-ortodossa di Niebuhr
richiamava temi teologici saldamente radicati nella tradizione propria della
Riforma protestante. Il giovane King, entrato in un seminario teologico di
alto livello, doveva misurarsi con questo dibattito, che nell’America di
quegli anni risultava senz’altro meno astratto e “ideologico” di quanto non
appaia oggi.
Il giovane King era entrato a Crozer con una forte passione civile che lo
indirizzava naturalmente verso la teologia del Social Gospel e, almeno
all’inizio dei suoi studi, faticava a comprendere le argomentazioni di
teologi come Niebuhr. Col tempo capì che, seppure in un linguaggio
meno militante, anche Niebuhr poneva il problema di una conversione
morale dell’America. E così, con l’apertura intellettuale propria di ogni
persona intelligente, cominciò a “pendolare” tra le due personalità della
teologia americana di quegli anni, ponendosi a metà strada tra la
concretezza dell’azione suggerita dal Social Gospel e la forza teologica della
critica nieburhiana allo status quo. Potremmo quasi concludere che King
fu dalla parte di Rauschenbusch con il cuore e da quella di Niebuhr con il
cervello94. Su un punto – e non di poco conto – King prenderà le distanze
da quest’ultimo: la teoria nonviolenta e il pacifismo che, in una fase matura
del suo pensiero ed a seguito dell’ascesa al potere del nazismo, Niebuhr
rigettò con fermezza95. «Il vero pacifismo – ribatteva King al famoso
teologo – non è un’irrealistica sottomissione al male, come sostiene
Niebuhr. È piuttosto una coraggiosa opposizione al male del potere del
bene, nella fiducia che sia meglio essere vittima che artefice della violenza,
poiché il secondo non fa che moltiplicare l’esistenza della violenza e
dell’amarezza nell’universo». A conclusione del percorso ordinario a
Crozer, Martin vinse una borsa di studio per un dottorato per il quale
scelse la sede di Boston. In sintesi, quella di King fu una formazione
accademica di alto livello, nettamente al di sopra di quella della media dei
suoi colleghi afroamericani e del tutto analoga a quella dei più colti pastori
bianchi. Era il frutto della sua origine borghese, certamente, e del
privilegio concesso al figlio di uno stimato preacher battista del Sud. Ma lui
ci mise del suo, con la sua curiosità intellettuale e una vivacità di pensiero
che lo indusse a letture del tutto peculiari per uno studente di teologia
nero degli anni ’50: i classici greci, ma anche Kant, Hegel e Nietzsche; la
teologia europea di Barth e Tillich, i testi di Martin Buber e il pensiero
sociologico americano, Gandhi e ovviamente la migliore teologia
americana di quegli anni96.
Entrato all’Università di Boston nel 1951, l’anno dopo Martin incontrò
Coretta Scott: come disse ai suoi, la ragazza aveva «carattere, intelligenza,
personalità e bellezza»97. Veniva da una famiglia metodista di commercianti
della piccola borghesia commerciale dell’Alabama, ed era finita a Boston
per accedere, grazie a una borsa di studio, al Conservatorio. Nonostante la
famiglia non potesse dirsi povera, per mantenersi agli studi aveva bisogno
di qualche lavoretto, che trovò agevolmente. Fu una sua amica che aveva
sposato il nipote di Benjamin Mays, come si ricorderà mentore di King al
Morehouse College, a parlarle di un giovane brillante che le aveva
candidamente confessato: «Qui [a Boston] ho incontrato decisamente
poche ragazze e nessuna di cui mi sia invaghito. Non è che conosci
qualche ragazza bella e attraente?»98.
Coretta era briosa e vivace e nella sua biografia, per quanto affidata alla
scrittura di sapienti editor, emerge l’ironia di un’aspettativa diversa, lontana
da pastori a rischio di fondamentalismo, tanto più se battisti: sia perché era
cresciuta in una famiglia metodista99, sia perché si identificava «con una
chiesa o una religione che fosse più liberale di quella nella quale era
cresciuta» e in questa ricerca religiosa sembrava intenzionata a studiare «i
quaccheri e gli unitariani»100.
Grazie alla mediazione dell’amica, l’incontro con il “reverendo” King
arrivò presto, e tutte le ubbie teologiche di Coretta sembrarono
improvvisamente evaporare di fronte al fascino del personaggio,
probabilmente perfetto ai suoi occhi di giovane donna pronta a
innamorarsi, se non le fosse apparso «un po’ basso»101. Difetto lieve e
trascurabile, perché qualche giorno dopo erano fidanzati e nel 1953
arrivarono le nozze mentre Martin, a dottorato ancora non concluso,
cercava un posto di lavoro. Come ogni padre, Daddy King aveva attivato i
suoi numerosi contatti perché il figlio trovasse lavoro ad Atlanta, magari un
part time da integrare con una posizione di co-pastore nella Ebenezer
Church102. Ma, come molti figli, King preferì invece allontanarsi dalla casa
paterna e dall’ambiente di Atlanta accettando di candidarsi nella Dexter
Avenue Baptist Church di Montgomery, in Alabama. Le chiese battiste
nelle quali King era cresciuto, in omaggio al loro congregazionalismo – la
centralità della chiesa locale dotata di un ampio potere decisionale –
eleggevano il proprio pastore, scegliendo tra una rosa di candidati o
semplicemente “approvandolo” con un voto assembleare. La Dexter
Avenue Church votò il 24 gennaio del 1954, approvando all’unanimità la
nomina di un pastore giovane, brillante e con un cognome noto e
rispettato, ma di cui nessuno poteva conoscere le intenzioni e i programmi
di vita. Comunicato a Coretta e al padre l’esito della votazione, le reazioni
non furono di entusiasmo. Daddy King sperava di tenere il figlio sotto la
sua ala protettrice; la giovane moglie cresciuta al Sud, che finalmente aveva
respirato l’aria fresca di Boston e vissuto in un ambiente meno segnato
dalla segregazione, temeva di tornare in un mondo dal quale si stava
felicemente emancipando103. Fu il primo braccio di ferro, vinto da Martin
come molti degli altri che seguirono.
Quattro mesi dopo, il 17 maggio, la Corte suprema votava la famosa
sentenza Brown vs. Board of Education che ribaltava il precedente schema
giuridico separate but equal e, almeno sul piano formale, stabiliva il principio
dell’integrazione scolastica. Meno di quattro mesi dopo, Martin viaggiava
nella Chevrolet regalatagli dal padre verso Montgomery, in Alabama, lo
Stato dove Jim Crow resisteva con più vigore, energie e spietatezza.
53 In questo capitolo abbiamo ripreso stralci della nostra precedente pubblicazione
Come una città sulla collina, cit., in particolare pp. 82-85 e, per il paragrafo sul Social
Gospel, pp. 73-79.
54 Era una dottrina giuridica che pur nel richiamo formale al XIV emendamento
della Costituzione, che garantiva uguale tutela dei diritti a tutti i cittadini,
legittimò la segregazione razziale. La segregazione fu ulteriormente rafforzata dalla
sentenza del 1896 che concluse il processo Plessy vs. Ferguson. Almeno sul piano
giudiziario, la svolta si ebbe solo nel 1954, quando nel processo Brown vs. Board
of Education la Corte suprema dichiarò incostituzionale la segregazione e privò di
ogni fondamento giuridico la formula “separati ma uguali”.
55 Ella J. Baker, intervista a cura di John Britton, 19 giugno 1968, Ralph J.
Bunche Oral History Collection, Howard University, Moorland-Spingarn
Research Center, Washington DC.
56 W.E.B. Du Bois, The Souls of Black Folk (1903), Fawcett World Library, New
York 1981, p. 142 (trad. it., Le anime del popolo nero, Le Lettere, Firenze 2007); cfr.
anche Barbara D. Savage, W.E.B. Du Bois and “The Negro Church”, in «The
Annals of the American Academy of Political and Social Science», vol. 568, marzo
2000, pp. 235-249.
57 A questa segregazione eucaristica si aggiungeva una predicazione che, quando si
rivolgeva agli schiavi, li esortava alla benevolenza e all’umiltà nei confronti del loro
padrone: «Dio mi premierà – si legge in un catechismo razzista a beneficio degli
schiavi –. E io ho davvero buone ragioni per essere contento e grato: e qualche
volta penso a come sarei se fossi libero e ricco e grande; allora sarei forse tentato di
servire me stesso più che il Signore [...]. Ma io sono qui a servire Dio, nella
situazione in cui egli mi ha posto. E sono qui per fare quello che il padrone mi
ordina», Slaveholder Attending Slave Service, Schomburg Center for Research in
Black Culture, The New York Public Library.
58 La storia dello sviluppo delle innumerevoli denominazioni protestanti degli
USA, in Sydney E. Ahlstrom, A Religious History of the American People, Yale
University Press, New Haven 2004; informazioni più schematiche in Craig D.
Atwood, Frank S. Mead, Samuel S. Hill, Handbook of Denominations in the United
States, Abingdon Press, Nashville 2005.
59 Savage, W.E.B. Du Bois and “The Negro Church”, cit.
60 Booker T. Washington, The Story of the Negro, Doubleday, New York 1909,
vol. I, p. 278.
61 Franklin G. Frazier, The Negro Church in America, Shocken Books, New York
1974, p. 70.
62 W.E.B. Du Bois (a cura di), The Negro Church, The Atlanta University Press,
Atlanta 1903, p. ii.
63 Benjamin E. Mays, Joseph W. Nicholson, The Negro’s Church (1933), Arno
Press, New York 1999.
64 Du Bois (a cura di), The Negro Church, cit., p. 190.
65 Frazier, The Negro Church in America, cit.
66 Charshee C. Lawrence-McIntyre, The Double Meaning of the Spirituals, in
«Journal of Black Studies», giugno 1987, p. 384; James H. Cone, Spirituals and the
Blues: An Interpretation, Orbis Books, Maryknoll 200410, p. 16. Cfr. anche Naso,
Come una città sulla collina, cit., pp. 66 sgg.
67 Joseph Washington, How Black is Black Religion?, in James J. Gardiner et al. (a
cura di), Quest for a Black Theology, Pilgrim Press, Philadelphia 1971, p. 18.
68 Melvyn Dubofsky, Joseph A. McCartin, Labor in America: A History, Wiley-
Blackwell, Chichester 2017.
69 Walter Rauschenbusch, Christianity and the Social Crisis (1907), HarperCollins,
New York 2007, pp. 3, 6.
70 Il riferimento è a un versetto del Vangelo di Matteo: «Voi siete la luce del
mondo; una città posta sopra una collina non può rimanere nascosta» (Matteo
5:14), al centro di un celebre sermone del 1630 di uno dei personaggi
politicamente e teologicamente più rappresentativi dell’America puritana e
coloniale, John Winthrop. Il riferimento all’America “come una città sulla
collina”, destinataria delle benedizioni divine e per questo carica di responsabilità
verso il mondo intero, è una formula retorica che, dopo aver ispirato il cosiddetto
“eccezionalismo americano”, arriva sino a noi e ricorre nel dibattito culturale e
politico attuale, cfr. Naso, Come una città sulla collina, cit.
71 A suo avviso il Social Gospel non era «il prodotto di una sofisticata fabbrica della
fantasia; non è un’evasione, non è un condensato o una scorciatoia per la
realizzazione di Cristo e della vita cristiana nella vita della gente. È un
insegnamento, un materno servizio di nutrimento; è cercare, attraverso specifiche
attività di servizio, di livellare le disuguaglianze e di colmare la distanza tra ricchi e
poveri, tra istruiti e ignoranti, tra virtuosi e depravati, tra indolenti e industriosi,
tra volgari e raffinati; è cercare di portare persone di tutte le età e di tutte le classi
della nostra comunità a contribuire al bene comune», Reverdy C. Ransom, The
Institutional Church, in Id., Making the Gospel Plain: The Writings of Bishop Reverdy
C. Ransom, a cura di Anthony B. Pinn, Trinity Press International, Harrisburg,
Pennsylvania, 1999, p. 128.
72 Anne H. Pinn, Anthony B. Pinn, Fortress Introduction to Black Church History,
Fortress Press, Minneapolis 2002, p. 155.
73 L’espressione nacque nel contesto dell’espansione degli USA verso Ovest nella
prima metà dell’Ottocento e intendeva dare una connotazione spirituale
all’acquisizione di nuovi territori che così si inscriveva nel quadro di una
benedizione della Provvidenza. La storia e soprattutto gli sviluppi politici più
recenti di questa formula in Anders Stephanson, Destino manifesto. L’espansionismo
americano e l’impero del Bene, Feltrinelli, Milano 2004.
74 Ibidem.
75 Cfr. Berry Craig, William English Walling: Kentucky’s Unknown Civil Rights
Hero, in «The Register of the Kentucky Historical Society», vol. 96, n. 4, autunno
1998, pp. 351-376.
76 La musica va invece attribuita al fratello John Rosamund: cfr. Timothy James,
The Story of the Black National Anthem, “Lift Ev’ry Voice and Sing”, written by James
Weldon Johnson, in «Selah», n. 1, 2013.
77 Il XIII emendamento, approvato nel 1865, vietava la schiavitù; il XIV,
proposto nel 1866 e ratificato nel 1868, ha come tema centrale la tutela degli ex
schiavi e, più in particolare, il loro diritto a un giusto processo e a una clausola di
uguale protezione in tutti gli Stati. La sentenza del 1954 della Corte suprema in
riferimento al processo Brown vs. Board of Education ebbe come principale base
giuridica proprio il XIV emendamento. La sentenza avrebbe dovuto segnare la fine
del sistema di segregazione scolastica.
78 Venturini, Con gli occhi fissi alla meta, cit., p. 29.
79 Ivi, p. 75.
80 TPMLK, vol. V, p. 507.
81 John Glen, Highlander: No Ordinary School, University of Tennessee Press,
Knoxville 1996, p. 18.
82 Dale Jacobs (a cura di), The Myles Horton Reader. Education for Social Change,
University of Tennessee Press, Knoxville 2003, p. 40.
83 We Shall Overcome. The Story Behind the Song, sul sito del Kennedy Center,
https://www.kennedy-center.org/education/resources-for-educators/classroom-
resources/media-and-interactives/media/music/story-behind-the-song/the-story-
behind-the-song/we-shall-overcome/ (consultato il 20 aprile 2020).
84 James L. Farmer, Lay Bare the Heart. An Autobiography of the Civil Rights
Movement, Arbor House, New York 1995.
85 Martin Luther King, The Autobiography of Martin Luther King, Jr., a cura di
Clayborne Carson, Grand Central Publishing, New York 20012, pp. 25-26 (trad.
it., «I have a dream». L’autobiografia del profeta dell’uguaglianza, Mondadori, Milano
2000).
86 Martin Luther King, Sr., Daddy King, Beacon Press, Boston 1980, p. xii.
87 Stephen B. Oates, Let the Trumpet Sound: A Life of Martin Luther King (1982),
HarperCollins, New York 1994, pp. 10-12.
88 Jean Dearby, Martin Luther King, Lerner Publications, Minneapolis 1990, p. 11.
89 Ibidem.
90 Erica Sterling, A Man whose Death Inspired the Teenager who Led the Movement,
The Georgia Civil Rights. Cold Cases Project at Emory University,
https://coldcases.emory.edu/maceo-snipes/#f6 (consultato il 20 gennaio 2019).
91 TPMLK, vol. I, articolo del 6 agosto 1946.
92 John Herbert Roper, The Magnificent Mays: A Biography of Benjamin Elijah
Mays, The University of South Carolina Press, Columbia 2000, p. 196.
93 Reinhold Niebuhr, Moral Man and Immoral Society; A Study in Ethics and Politics
(1932), Westminster John Knox Press, Louisville 2001 (trad. it., Uomo morale e
società immorale, Jaca Book, Milano 2018).
94 Per un inquadramento del dibattito teologico di quegli anni e delle relazioni tra
Rauschenbusch e Niebuhr, rimandiamo a Fulvio Ferrario, La teologia del Novecento,
Carocci, Roma 2011, p. 228. Cfr. anche Massimo Rubboli, Reinhold Niebuhr e il
suo tempo (1892-1971), FrancoAngeli, Milano 1986.
95 Martin Luther King, Stride Toward Freedom, Harper and Brothers, New York
1958, p. 98.
96 Cfr. John J. Ansbro, Martin Luther King, Jr.: The Making of a Mind, Orbis Book,
New York 1985.
97 Peter Ling, Martin Luther King, Jr., Routledge, New York 2015, p. 25.
98 Coretta King, My Life with Martin Luther King, Jr., cit., p. 53.
99 Molto divertente, perché emblematica di un tempo nel quale le convinzioni
teologiche avevano un peso decisivo nella vita delle persone, la descrizione del
dissenso tra metodisti e battisti sulla questione, dirimente, del battesimo: «Ricordo
mia madre e mio padre discutere con degli amici battisti se per essere salvati
bisognasse davvero immergersi nell’acqua. Io pensavo che non sarei mai diventata
battista se fosse stato necessario essere battezzati per immersione», ivi, p. 52.
100 Ivi, p. 53. Se i quaccheri rappresentano una componente radicale della
Riforma, caratterizzata per la sua impostazione nonviolenta e pacifista, rifiutando il
dogma della Trinità, gli unitariani – ai quali negli USA aderirono personalità come
il filosofo Ralph Waldo Emerson – rappresentavano invece un cristianesimo
teologicamente borderline, universalista e distante dall’ortodossia dogmatica del
protestantesimo in cui Coretta era cresciuta.
101 Ivi, p. 54.
102 Garrow, Bearing the Cross, cit., p. 48.
103 Coretta King, My Life with Martin Luther King, Jr., cit., p. 96.
III.
Montgomery, la scuola di un leader
In questo primo discorso da leader, per ora solo sulla carta dei verbali
della MIA, King mette efficacemente a fuoco alcuni elementi che, almeno
per un certo tempo, caratterizzeranno con costanza il suo pensiero e la sua
retorica: la comunità afroamericana è giunta al punto limite della sua
sopportazione; agirà con metodi nonviolenti; troverà ispirazione nella sua
fede cristiana; vincerà perché chiede all’America semplicemente di essere
se stessa, e cioè di onorare la sua identità e la sua tradizione democratica.
Sin dai primi giorni nei quali era stato dichiarato, il boicottaggio fece
registrare punte di adesione molto alte che, segnando un punto decisivo a
favore della protesta, suscitarono una serie di reazioni. Ai taxi che offrivano
un passaggio allo stesso prezzo del biglietto dell’autobus – 5 centesimi – fu
vietato di concedere corse per meno di 45 centesimi; come fu vietato il
servizio di trasporto alternativo garantito da volontari con una macchina a
disposizione. Tutto questo non fermò la protesta che, nelle settimane e nei
mesi, si fece sempre più massiccia suscitando reazioni sempre più violente:
gli organizzatori della protesta furono definiti «un gruppo di radicali neri
che hanno spezzato le buone relazioni tra i bianchi e i neri di
Montgomery»113; intanto fioccavano le denunce per l’organizzazione di un
boicottaggio ritenuto illegale. La linea dura della controparte era che
nessun negoziato sarebbe mai stato avviato sino a quando fosse proseguito
il boicottaggio. Intanto aumentavano le intimidazioni contro i leader, a
iniziare dallo stesso King che il 26 gennaio del 1956 fu fermato e arrestato
per avere guidato – secondo l’accusa – a una velocità di 5 miglia superiore
al limite consentito di 30. Le foto segnaletiche, scattate dopo che gli erano
state prelevate le impronte digitali, mostrano il volto di una persona
giovane evidentemente disorientata per ciò che gli stava succedendo e che
non capiva fino in fondo. Il 28 gennaio arrivò la sentenza del giudice, che
lo condannò a una multa di 14 dollari. In realtà era solo l’inizio di una
violenta escalation del terrorismo razzista.
La sera del 30 gennaio, mentre King parlava a una folla di duemila
persone raccolte nella First Baptist Church di Montgomery, una bomba
esplose nel porticato della sua casa sulla Dexter Avenue. Per Coretta,
Yolanda e un’amica di famiglia che erano in casa non ci furono
conseguenze; quando Martin accorse trafelato incontrò uno spiegamento
di polizia e una piccola folla molto agitata che capiva perfettamente il
messaggio politico contenuto in quella bomba. Martin, rassicurato sulle
condizioni dei suoi, sentì di dover dire qualcosa. Alzò le mani per chiedere
il silenzio e poi pronunciò poche parole:
Se avete delle armi, portatele a casa. Se non le avete, per favore non cercatele. Non
possiamo risolvere questo problema con la violenza. Dobbiamo reagire alla violenza con
la nonviolenza. Ama i tuoi nemici; benedici quelli che ti maledicono, prega per quelli
che ti usano malamente. Ricordate che questo movimento non si fermerà, perché Dio è
con esso114.
Sul finire, il testo introduce – crediamo di poter dire per la prima volta
negli scritti pubblici di King – un tema di ordine politico: una prima
prudente, ma non superficiale critica al sistema economico americano, per
giunta negli anni di una rapida crescita.
Mi pare di capire che in America avete un sistema economico conosciuto come
capitalismo. Attraverso questo sistema economico siete stati in grado di fare meraviglie.
Siete diventati la nazione più ricca del mondo, e avete costruito il più grande sistema di
produzione che la storia abbia mai conosciuto. Tutto questo è meraviglioso. Ma,
americani, c’è il pericolo che abusiate del vostro capitalismo. Continuo a sostenere che il
denaro può essere la radice di tutti i mali [...]. Siete inclini a giudicare il successo della
vostra professione in base all’indice del vostro stipendio e alle dimensioni del passo della
vostra automobile, piuttosto che alla qualità del vostro servizio all’umanità. L’uso
improprio del capitalismo può anche portare a un tragico sfruttamento. Questo è
accaduto spesso nella vostra nazione. Mi dicono che un decimo dell’uno per cento della
popolazione controlla più del quaranta per cento della ricchezza. America, quante volte
hai tolto alle masse ciò che era loro necessario per garantire il lusso delle classi più agiate.
Se volete essere una nazione veramente cristiana dovete risolvere questo problema. Non
si può risolvere il problema rivolgendosi al comunismo, perché il comunismo si basa su
un relativismo etico e su un materialismo metafisico che nessun cristiano può accettare.
Potete lavorare nel quadro della democrazia per realizzare una migliore distribuzione
della ricchezza. Potete usare le vostre potenti risorse economiche per cancellare la
povertà dalla faccia della terra. Dio non ha mai voluto che un gruppo di persone vivesse
in una ricchezza sovrabbondante e superflua, mentre altri vivono in un’abietta povertà
mortificante. Dio vuole che tutti i suoi figli abbiano il necessario per i bisogni
fondamentali della vita119.
Movimentismo e separatismo
I primi mesi del 1960 furono intensi e produttivi, ma politicamente molto
complicati. La SCLC sosteneva le proteste, che però si avviavano in
autonomia e secondo uno schema tipicamente “movimentista”,
incoraggiato dalla Baker ma avversato dalla “vecchia guardia” della SCLC.
King e Lawson si posero in una posizione intermedia, evitando di porre il
cappello della SCLC su un’iniziativa che era nata in autonomia e mettendo
in campo energie nuove. Questo atteggiamento prudente si riflesse nel
fatto che al raduno SNCC convocato a Raleigh (North Carolina), presso la
Shaw University il 15 aprile, il relatore di punta fosse Lawson e non King,
che pure era in città. King si tenne qualche passo indietro, ma non
rinunciò ad esprimere pieno sostegno pubblico a un movimento che
giudicava «espressione dell’anelito del nuovo nero alla libertà e alla dignità
umana [...]. Una generazione di giovani – plaudiva – è emersa da decenni
di oscurità per affrontare a mani nude il potere dello Stato; ha abbandonato
le sue paure, ha sperimentato la solenne dignità di una lotta per la propria
liberazione»150. Con i pochi mezzi a disposizione – un budget di 800
dollari151 – la Baker organizzò la conferenza in ogni dettaglio, cercando di
bilanciare esigenze diverse, prima tra tutte quella di strutturare un evento
politico nel rispetto delle sensibilità e delle intenzioni degli studenti che
«non erano pagine bianche» sulle quali lei o King avrebbero potuto o
dovuto imporre un marchio152.
Nonostante l’abile regia e il passo indietro di King, le polemiche
esplosero comunque a seguito dell’intervento di Lawson che,
inaspettatamente, ebbe toni molto critici nei confronti delle componenti
“moderate” del movimento. «Questo movimento non è solo contro la
segregazione. È contro i neri alla zio Tom, contro la fiducia eccessiva che la
NAACP ripone nei tribunali e contro la futile tecnica della classe media di
mandare lettere ai centri di potere». Ridicolizzando «la via mediana
dell’adattamento al male sociale», invocò la strada di una «rivoluzione
nonviolenta»153.
La critica al moderatismo della NAACP suscitò un terremoto e mise
seriamente a rischio la strategia di King, tesa a evitare la contrapposizione
frontale con la più antica e – almeno al Sud – organizzata associazione
afroamericana. Roy Wilkins, segretario esecutivo della NAACP, arrivò a
scrivergli una lettera di fuoco nella quale si dichiarava «disorientato e
grandemente angosciato» dall’«immotivato attacco» subito da parte di uno
degli uomini di punta della SCLC154.
Infuriato contro King anche un altro esponente dell’establishment
afroamericano, il pastore e congressman Adam Clayton Powell, una delle
icone più celebrate della Black Harlem di quegli anni155. Powell fu
infastidito dal progetto di alcuni esponenti della SCLC di organizzare delle
manifestazioni in occasione delle imminenti conventions repubblicana e
democratica per attirare l’attenzione dei partecipanti e degli osservatori sul
tema del diritto di voto ai neri156. Il parlamentare nero non gradiva una
mobilitazione promossa da altri soggetti che avrebbe messo in ombra la sua
personale azione politica e il suo ruolo all’interno del Partito democratico.
Le critiche a King furono frontali e violente, sino all’accusa – invero non
originale – di essere condizionato da «interessi socialisti» e di essere
manipolato da una persona «come» Stanley Levison che, nel linguaggio
rude di certa politica, significava un ebreo e un comunista. King provò a
moderare i toni della polemica, ma lo spregiudicato Clayton Powell arrivò
a minacciarlo che, se non avesse licenziato Bayard Rustin e cancellato ogni
dimostrazione alla convention democratica, era pronto a spiattellare in
pubblico quella che lui riteneva una relazione omosessuale tra i due: il
leader della SCLC e il suo impiegato notoriamente gay157. Tra le accuse a
King questa appare la meno plausibile, eppure produsse almeno uno degli
effetti auspicati da Clayton Powell: le “forzate” dimissioni di Rustin
accolte da King che, forse troppo frettolosamente, intendeva chiudere la
polemica. Il fatto che le contestazioni alla convention democratica ebbero
comunque luogo, sia pure senza la presenza imbarazzante di King o di uno
dei suoi collaboratori più diretti, non cambia la sostanza di un braccio di
ferro vinto da Clayton Powell e dai suoi discutibili metodi158. Perché
questo esito? Perché questo cedimento, peraltro a fronte di un ricatto? Una
chiave ce la offre Lawson che, a caldo, commentò: «per temperamento
King non è un lottatore. È infastidito dalla prospettiva di divisioni interne
al movimento. E di conseguenza talvolta non solo non combatte per se
stesso ma neanche per difendere i suoi collaboratori»159.
Per Martin erano insomma giorni difficili, ulteriormente complicati dalle
critiche che egli riceveva “da sinistra” relativamente al fatto che lo SNCC
appariva più dinamico della SCLC e, da ultimo, da una denuncia per frode
fiscale che, però, si sarebbe felicemente risolta con una piena assoluzione il
28 maggio.
Non si risolvevano, invece, i problemi interni all’organizzazione della
SCLC, che non sembrava in grado di decollare nella sua funzione di
stimolo di una nuova fase di mobilitazione per i diritti civili. La speranza di
un rilancio fu affidata alla nomina di un nuovo direttore esecutivo a
servizio a pieno tempo che, nelle intenzioni, avrebbe dovuto garantire
maggiore efficienza e continuità operativa. La scelta cadde su Wyatt T.
Walker, pastore battista, già impegnato nella NAACP e poi cofondatore
del CORE. Il suo ingresso segnò l’uscita della “segretaria” Ella Baker,
l’unica donna nella leadership della SCLC, certamente la più radicale in
alcuni giudizi politici e quella che più si era spesa per un’ipotesi
“movimentista”, quella che affidava alla sua organizzazione il compito di
sostenere e accompagnare il “movimento” senza però pretendere di
esercitare un controllo direttivo su di esso. In larga misura King sosteneva
questa ipotesi ma, al tempo stesso, sentiva la Baker come eccentrica
rispetto ai suoi colleghi e al loro linguaggio pastorale, e talora troppo
autonoma nelle scelte. Il laconico commento di Lawson, sempre saggio e
ponderato nelle sue valutazioni, spiega molte cose: «Martin ha seri
problemi ad avere delle donne in una posizione dirigente»160. D’altra parte
la stessa Baker si sentiva probabilmente ingabbiata in una struttura che non
la rappresentava appieno e che non corrispondeva alla sua visione politica.
A pochi mesi dall’assassinio di Memphis, fu la stessa Baker a spiegare le
difficoltà e la complessità della sua collaborazione con King:
Penso di aver accettato il fatto che [King] fosse lì, in quel ruolo, per essere stato
riconosciuto un grande leader a seguito della vicenda di Montgomery, e che lui fosse
acclamato, periodicamente e ripetutamente, dalla nazione e dal mondo come un grande
leader. Ho accettato che questo potesse avere un valore simbolico. Voglio dire, il fatto
che egli fosse un simbolo aveva qualche valore. Ma non sono mai stata in grado di
valutare quale fosse il valore di questo simbolo. In altre parole, non sono mai stata in
grado di privilegiare il valore simbolico rispetto al bisogno di una leadership
consapevole. Com’è che ho accettato Martin, allora? Ho accettato il ruolo nel quale era
proiettato come un dato di fatto. Questo è stato il mio atteggiamento. Ecco: se una cosa
è utile, tu speri che con l’esperienza essa possa raggiungere il suo massimo potenziale.
Questa era la mia speranza per quanto lo riguardava. Vedi, non ho mai ritenuto
necessario che una sola persona incarnasse tutto ciò che è necessario nella leadership di
un gruppo di persone. Questa considerazione torna, di nuovo, al mio vecchio cliché su
un gruppo incentrato sui leader che si oppone a una leadership centrata sul gruppo. Il
gruppo viene prima, nella mia concezione. Quindi, per quanto riguardava Martin, per
quanto riguarda chiunque altro, era solo parte di un tutto. E la cosa più importante era,
ed è ancora nella mia mente, quella di far crescere le persone al punto che non abbiano
bisogno del leader forte e salvifico... Sì, non gli attribuisco i poteri di leadership né quel
successo che alcuni attribuiscono al movimento per i diritti civili. Vedete, per essere
onesti, penso che il movimento abbia creato Martin, piuttosto che Martin abbia creato il
movimento. E non è un discredito per lui. Questo è, per me, come dovrebbe essere...
Vedi, questa è la mia convinzione di base: non ho la propensione a adorare il leader
perché so che non è una cosa sana. Non esiste una sola persona in grado di soddisfare i
bisogni, voglio dire, le esigenze di leadership di un movimento161.
MLK e JFK
Qualcosa, però, si muoveva anche sul piano politico nazionale, soprattutto
grazie alla candidatura di John F. Kennedy. Non fu King a cercare il
candidato democratico, piuttosto il contrario, anche per i suggerimenti di
alcuni consiglieri i quali percepivano chiaramente che il voto
afroamericano rischiava di andare in prevalenza a Nixon.
Il primo incontro tra il candidato e il reverendo ebbe luogo a New York
il 23 giugno del 1960. King rimase positivamente impressionato
dall’energia di Kennedy, ma non fu amore a prima vista ed anzi l’esito di
quell’incontro ci porta a ridimensionare l’idea di una naturale ed
immediata intesa tra il reverendo King e i Kennedy – John e Bob –
enfatizzata in certa letteratura italiana162.
Il voto contrario di JFK a un disegno di legge del 1957 in materia di
diritti civili non era il migliore biglietto da visita per il giovane democrat;
soprattutto contro di lui pesava il fatto che il partito che lo candidava alla
Casa Bianca aveva il suo baricentro di consensi proprio nelle regioni del
Sud che con maggiore forza resistevano alle politiche di integrazione.
Anche per questo, quel modesto voto afroamericano che riusciva
effettivamente ad esercitarsi, almeno in buona parte andava
tradizionalmente al Partito repubblicano, sia per omaggio alla memoria di
Abraham Lincoln sia per reazione ai Southern democrats tipo George
Wallace163, il governatore dell’Alabama noto per il suo lapidario motto
«segregazione oggi, segregazione domani, segregazione per sempre»,
ancora legati al modello sociale segregazionista164. Il fatto che il candidato
alla vicepresidenza, Lyndon Johnson, provenisse da uno Stato meridionale
di importanza strategica per numero di elettori quali il Texas, condizionava
ulteriormente il Partito democratico nel suo atteggiamento verso il civil
rights movement.
Nella conversazione, durata circa un’ora e mezza, Kennedy ammise che il
suo voto del 1957 era stato un «errore» e che il movimento «lo aveva
portato a un ripensamento» rendendogli evidenti le ingiustizie e le
indegnità che i neri dovevano fronteggiare nel Sud165. Quanto a King,
rimase impressionato dalla «franchezza e dai modi onesti» del suo
interlocutore, che allora gli apparve intellettualmente convinto
dell’urgenza dell’integrazione, «senza però esserne emotivamente
coinvolto»166.
Con la riapertura delle scuole e delle università il movimento dei sit-in
tornava in forze e, anche grazie alla sua forza mediatica, si imponeva al
centro del dibattito pubblico. Sua la formula jail not bail (“galera, non
cauzioni”), con la quale gli attivisti sottolineavano la loro intenzione di
scontare effettivamente le pene alle quali venivano condannati, sia per
“alzare” il livello di tensione che per dare la misura della loro
determinazione.
Sin qui, come abbiamo visto, King aveva un piede dentro questa nuova
dimensione del movimento – spontanea, incontrollata, aggregante – e un
piede fuori, ben piantato nelle relazioni politiche sia con le tradizionali
istituzioni e associazioni afroamericane – basti pensare al caso Clayton
Powell – che con le correnti progressiste del Congresso sulle quali
incombevano le elezioni presidenziali di novembre. In questa particolare
circostanza, il 18 ottobre King fu avvicinato da alcuni studenti di Atlanta
che gli chiesero di partecipare alla loro prossima azione. Gli argomenti
degli studenti furono molto diretti e anche pragmatici. Fu uno di loro,
Lonnie King – nessuna relazione di parentela con Martin –, a spiegargli
che se voleva mantenere la sua posizione tra i leader della lotta per i diritti
civili doveva andare in galera167.
Non era solo una questione di coraggio – gli attentati subiti a
Montgomery non lo avevano fermato né intimidito –, ma anche di
“cultura politica”. Per decenni l’azione primaria dei legali della NAACP
aveva mirato a tirar fuori gli attivisti dal carcere, anche pagando fior di
cauzioni, e non a rivendicare il significato politico – e persino il valore
morale168 – dell’arresto. «Il carcere non ci schiacciava – affermerà John
Lewis –. Io non avevo mai avuto tanta dignità prima. Era esaltante – è
qualcosa che ho appreso – il senso di indipendenza che ne deriva a una
persona libera». E poi, riferendosi a Lawson: «[lo accompagna] un’aura di
pace interiore e di saggezza che puoi sentire semplicemente
guardandolo»169. La mattina dopo, il 19 ottobre, King si presentò al sit-in
presso il ristorante Rich’s, che adottava procedure razziste e
segregazioniste, si sedette a un tavolo, cercò di ordinare. Come sempre gli
fu malamente risposto che in quel locale non si servivano i clienti di colore
e, intimatogli di alzarsi e andarsene, restò al suo posto. Arrivò la polizia,
che lo arrestò insieme ad altre trentacinque persone. King rischiava grosso
perché da settembre era libero su cauzione per aver guidato in Georgia con
una patente scaduta. Inoltre questa volta era chiaro che il caso non si
sarebbe risolto con una ammenda o un provvedimento amministrativo. La
vicenda arrivò ai media con la dichiarazione di King che disse di aver
sentito l’«obbligo morale» di aderire alla protesta degli studenti: «Io devo
fare quello che predico»170.
Come si è detto, erano i mesi della campagna per le presidenziali, e uno
degli uomini dell’entourage di Kennedy, Harris Wooford, pensò che
l’arresto del reverendo King potesse essere l’occasione offerta al suo
candidato per guadagnarsi il voto incerto degli afroamericani. D’intesa con
i Kennedy, mise quindi a disposizione di King legali di prim’ordine e,
soprattutto, cercò un’intesa tra Rich’s e i dimostranti. L’accordo prevedeva
la liberazione dei detenuti e la sospensione per un mese dei sit-in. Accordo
per tutti i dimostranti arrestati, tranne King, sul quale pendeva la recidiva
per aver compiuto un altro reato successivamente alla condanna per aver
guidato con la patente scaduta: il suo caso fu così stralciato da quello degli
altri dimostranti e lui fu trasferito nella prigione della contea di Dekalb, a
poche miglia da Atlanta171. Il tribunale locale stabilì quindi la condanna per
non avere rispettato le norme sulla libertà condizionata: quattro mesi di
lavori forzati nel carcere di Reidsville dove King, dopo aver avuto la
possibilità di abbracciare Coretta e il padre, fu immediatamente trasferito.
Durante l’intero viaggio – quasi sei ore di cellulare – fu tenuto incatenato
alle caviglie e gli furono strette le manette ai polsi. Giunto a destinazione
poté scrivere una lettera a Coretta, al quinto mese di gravidanza in attesa
del terzo figlio:
Ciao, cara. Oggi mi trovo tanto lontano da te e dai bambini. Sono nella prigione
statale di Reidsville, che dista 230 miglia da Atlanta [...]. Mi rendo conto che questa
intera vicenda è per te molto difficile da affrontare, soprattutto per la tua gravidanza, ma
come ti ho detto ieri questa è la croce che dobbiamo portare per la libertà della nostra
gente. Per questo ti scongiuro di essere forte nella fede e questo mi ridarà forza [...]. Io
ho la fede di credere che questo eccesso di sofferenza arrivato sulla nostra famiglia, in
qualche modo servirà a fare di Atlanta una città migliore, della Georgia uno Stato
migliore e dell’America un Paese migliore172.
I freedom riders
D’altra parte il movimento non si fermava e, anche questa volta per
iniziativa primaria dello SNCC e del CORE piuttosto che della SCLC,
decise una nuova forma di protesta, i freedom rides, “viaggi della libertà” in
cui viaggiatori bianchi e neri salivano insieme su autobus che, in omaggio
alla tradizione segregazionista ma ormai in contrasto con la legge,
ammettevano solo bianchi o solo neri. In un certo senso era un “ritorno”
allo spirito di Montgomery, ma anche un monito a prendere atto del fatto
che in alcuni Stati del Sud la storia si era fermata al tempo di Jim Crow. Il
primo freedom ride, organizzato da James Farmer del CORE e sostenuto
dallo SNCC, fu quello del pullman Greyhound che il 4 maggio del 1961,
partendo da Washington, era diretto a New Orleans, passando per
Virginia, North e South Carolina, Georgia, Alabama e Mississippi.
L’azione coinvolgeva tredici attivisti – tra di essi segnaliamo James Lawson,
come si è visto uomo della cerchia più ristretta dei collaboratori di King – e
veniva monitorata da un altro autobus sul quale erano saliti giornalisti e
osservatori. La tecnica dell’azione dei freedom riders prevedeva che ci fosse
almeno una coppia interrazziale seduta sui sedili affiancati e un viaggiatore
di colore nella parte anteriore del bus. Almeno un attivista si sarebbe
seduto rispettando i criteri segregazionisti così da non essere arrestato e
poter immediatamente segnalare eventuali soprusi e incidenti. Il viaggio
procedette senza sostanziali problemi in Virginia, ma arrivati in South
Carolina John Lewis, uno degli attivisti più noti e preparati alla resistenza
nonviolenta, fu fermato dalla polizia. Altri arresti seguirono lungo il
tragitto e la missione continuò fino in Alabama dove, come previsto, si
registrarono i fatti più violenti.
Domenica 14 marzo un gruppo di attivisti del Ku Klux Klan, alcuni dei
quali appena usciti da una chiesa, attaccarono un pullman della compagnia
Greyhound a Annison, in Alabama, rompendo i finestrini e sgonfiando i
pneumatici. Il secondo autobus, quello di accompagnamento, fu colpito da
una bomba che fece esplodere il serbatoio del carburante. Vi furono anche
difficoltà a curare i feriti presso gli ospedali circostanti che, temendo la
ritorsione degli uomini del Klan, chiusero le porte alle vittime degli
attentati. Dopo essere ripartito, quando finalmente arrivò a Birmingham,
l’autobus fu nuovamente attaccato dal KKK sotto gli occhi della polizia,
che non mosse un dito.
Nel tentativo estremo di riportare la calma e fermare le violenze,
Kennedy inviò in Alabama John Seigenthaler, un funzionario del
Dipartimento di Giustizia alle dirette dipendenze di Bob Kennedy, con il
compito primario di favorire una tregua.
Nonostante le violenze subite, i riders intendevano continuare il loro
viaggio e raggiungere Montgomery. Per parte loro, gli autisti della
Greyhound annunciarono che non avrebbero più guidato mezzi sui quali
fossero saliti freedom riders. Tutto faceva capire che il viaggio sarebbe finito a
Birmingham e, per salvare simbolicamente l’obiettivo finale, decisero di
arrivare a New Orleans in aereo. Era una mezza sconfitta o una mezza
vittoria? L’interrogativo pesava come un macigno sul movimento, che da
una parte era certamente riuscito ad attirare l’attenzione sulla violenza
razzista nel Sud e sulla permanenza di sacche di segregazione a dispetto di
ogni norma e sentenza. Dall’altra, però, non solo era mancato il
raggiungimento dell’obiettivo simbolico, ma – quel che era peggio – i
razzisti avevano mostrato di poter bloccare una protesta civile e
nonviolenta.
Ragioni di opportunità giudiziaria avevano indotto King a non
partecipare al primo freedom ride, ma certo l’ala più movimentista della
SCLC rappresentata e formata da James Lawson mordeva il freno e
riteneva necessario programmare nuovi viaggi. Fu soprattutto la già citata
giovane e preparata Diana Nash a spingere perché un gruppo di attivisti
salisse su un autobus per Birmingham: a coprirle le spalle e a sostenerla, il
solito Lawson180, allora residente a Nashville. Bisognava però vincere il
rifiuto degli autisti, che erano sì tenuti a garantire un servizio pubblico, ma
non potevano rischiare la vita ad ogni viaggio. La garanzia di adeguate
scorte che impedissero le scorribande violente del KKK, favorita da un
intervento della Casa Bianca sui governatori, rassicurò gli autisti e un
nuovo freedom ride, debitamente scortato, poté partire il 17 maggio, con
dieci attivisti a bordo, alla volta di Birmingham ed infine di Montgomery.
Ma arrivati a poche miglia dall’obiettivo la scorta si dileguò e nei pressi
della stazione dei pullman Greyhound – oggi monumento nazionale che
ricorda quell’episodio – il mezzo fu attaccato da un gruppo di suprematisti
bianchi che colpì i manifestanti con la solita brutalità razzista. Mazze da
baseball e tubi di ferro furono le armi utilizzate, in primo luogo contro
giornalisti e fotografi. Tra le vittime anche Seigenthaler, il funzionario
inviato da Washington, che restò ferito sull’asfalto per dieci minuti prima
che qualcuno si prendesse cura di lui. Fu lui a raccogliere lo sfogo del
commissario di polizia di Montgomery che, di fronte all’accaduto, affermò:
«Non abbiamo certo intenzione di schierare la polizia per un gruppo di
facinorosi che entrano nella nostra città»181.
Da Albany a Birmingham
Il pendolo tra azione sulle istituzioni e mobilitazioni di massa tornava su
queste ultime, senza le quali i programmi di riforme genericamente
avanzati da Kennedy non avrebbero mai potuto procedere. E così,
sull’onda dei successi raccolti – anche per meriti che andavano
primariamente attribuiti ad altri soggetti, come lo SNCC – all’inizio del
1962 King si preparava a guidare una nuova campagna ad Albany, una
cittadina della Georgia.
Anche in quel caso, egli e i suoi collaboratori della SCLC arrivarono “sul
campo” su invito di una rete già costituita che comprendeva esponenti
della NAACP e dello SNCC. Gli obiettivi della campagna, avviatasi nel
novembre del 1961, erano i soliti: conquistare la piena desegregazione e
favorire la registrazione di massa al voto dei neri. Questa volta, però, la
reazione ai sit-in e alle altre azioni nonviolente non ebbe la brutalità
controproducente sperimentata a Montgomery o a Birmingham: le forze
di polizia evitarono gli arresti di massa e l’esibizione gratuita della forza,
mantenendo al tempo stesso una linea di fermezza nella difesa della pratica
segregazionista. Nel tempo questa tecnica risultò efficace, perché riuscì a
fiaccare il movimento senza però che si lasciasse una traccia evidente delle
repressioni e delle violenze inflitte ai dimostranti. La percezione di una
campagna sostanzialmente inefficace fu presto evidente, e la sensazione di
sconfitta riaccese le ormai ricorrenti polemiche tra le varie organizzazioni
in campo, ciascuna delle quali riteneva di avere dato il meglio e il massimo
e lamentava, al contrario, il disimpegno e la scarsa mobilitazione delle altre.
Talora la tensione attraversava la stessa organizzazione, come accadeva
nello SNCC, dove iniziava ad emergere una dialettica non sempre
costruttiva tra un’anima più orientata all’azione e alla mobilitazione diretta
e un’altra – potremmo dire tradizionale – che puntava anche sulla
formazione della coscienza nonviolenta e sul rapporto con le altre
associazioni. In mezzo, come sempre, Ella Baker, che con buone
motivazioni politiche provava a spiegare che le due strategie non erano
alternative ma potevano interpretarsi come complementari191.
Certamente l’esito della campagna di Albany sollevò dei problemi di
strategia sui quali si interrogò lo stesso King che ammise:
L’errore che ho fatto è stato quello di protestare contro la segregazione in generale
piuttosto che contro un singolo e distinto aspetto di essa. La nostra protesta è stata così
vaga che non abbiamo ottenuto nulla e la gente è rimasta depressa e disperata. Sarebbe
stato meglio concentrarsi sull’integrazione degli autobus o delle mense. Una vittoria di
questo genere sarebbe stata simbolica, avrebbe galvanizzato il sostegno e rafforzato il
morale192.
In cella a Birmingham
King era ben consapevole di questa situazione e di avere puntati addosso
gli occhi di critici pronti a denunciare la sua carenza di leadership o il suo
opportunismo, la sua prudenza o il suo interventismo. Di fronte a ciò la
sua scelta, condivisa con la cerchia più stretta di collaboratori, fu di non
concedere ai suoi avversari – di “destra” e “di sinistra” – la exit strategy della
libertà su cauzione. Rimase quindi in cella, scrivendo su dei rotoli di carta
per le pulizie uno dei suoi testi più importanti e toccanti. La formula era
quella di una lettera in risposta a quei pastori che, sia pure con un
linguaggio moderato, lo avevano accusato di provocare disordini
economicamente dannosi sia per i bianchi che per i neri, di alimentare
tensioni sociali e di non avere la pazienza di aspettare gli effetti della nuova
amministrazione locale.
Noi sappiamo per dolorosa esperienza che la libertà non viene mai concessa
volontariamente dall’oppressore: deve essere richiesta dall’oppresso [...]. Sono anni che
sento la parola “aspettate”. Risuona nelle orecchie di ogni nero, gli è acutamente
familiare. Questo “aspettate” ha quasi sempre come significato “No! Mai!” [...].
Dobbiamo capire insieme [...] che la giustizia amministrata con ritardo è una giustizia
negata. Aspettiamo da oltre 340 anni i nostri diritti costituzionali, i diritti che Dio ci ha
concesso [...]. Ma quando avete visto folle malvage linciarvi madri e padri a piacere e
annegare sorelle e fratelli a capriccio; quando avete visto i poliziotti colmi d’odio che
imprecavano impunemente contro i vostri fratelli e sorelle neri mentre li prendevano a
calci e infierivano su di loro; quando vedete che la maggioranza dei venti milioni di
fratelli neri stanno soffocando in una gabbia opprimente di povertà nel bel mezzo di una
società affluente; [...] quando ti si umilia un giorno sì e uno no con i cartelli che dicono
“bianchi” e “persone di colore”; quando il tuo nome di battesimo diventa nigger e quello
di mezzo diventa “ragazzo”; [...] e quando tua moglie e tua madre non sono mai
chiamate “signore” [...] allora capirete perché troviamo difficile aspettare199.
L’ultimo passaggio, forse quello più atteso, era anche quello più sfumato.
Kennedy capiva bene che quella del diritto di voto degli afroamericani non
era solo una questione legislativa, ma implicava un cambiamento culturale
radicale soprattutto nella comunità bianca. E forse per questo nel suo
discorso insistette spesso sulla dimensione “morale” di un nuovo corso
della politica americana.
Ciò che dobbiamo affrontare è prima di tutto un problema morale. È una questione
che risale già alle Scritture ed è chiara quanto la Costituzione Americana.
Il problema fondamentale è stabilire se tutti gli americani debbano ottenere gli stessi
diritti e pari opportunità; se intendiamo trattare i nostri concittadini americani come noi
stessi desidereremmo essere trattati. Se un americano, a causa della sua pelle scura, non
può mangiare in un ristorante aperto al pubblico, se non può mandare i suoi figli alla
scuola pubblica migliore, se non può votare per i pubblici funzionari che lo
rappresenteranno, se, in breve, non può condurre la vita piena e libera che tutti noi
desideriamo, chi tra noi sarebbe felice di condividere con lui il colore della pelle e
prendere il suo posto? Chi tra noi si accontenterebbe del consiglio di portare pazienza e
aspettare [...].
Noi predichiamo con convinzione la libertà in tutto il mondo e teniamo in gran conto
la nostra libertà in patria. Tuttavia, dobbiamo dichiarare al mondo e, cosa ancor più
importante, a ognuno di noi, che questa è la terra della libertà, ma non per i neri? Che
non abbiamo cittadini di seconda classe, eccezion fatta per i neri, che non abbiamo un
sistema di classi o di caste, nessun ghetto, nessuna razza dominante, salvo che nel caso
dei neri?
Dobbiamo affrontare questa crisi morale come un Paese e come un popolo unito215.
Era il passaggio del Rubicone o una mossa attendista? Nel discorso egli
sottolineò soprattutto il tema della desegregazione che, soprattutto grazie
all’azione dei magistrati, aveva trovato una sua soluzione giuridica. Sul
diritto di voto, invece, le sue parole furono vaghe: «maggiore protezione
del diritto di voto».
King dovette percepire chiaramente il rischio di questa formula e,
soprattutto, di un impantanamento del processo legislativo, con il pericolo
di un sostanziale fallimento dell’obiettivo finale di garantire l’effettivo
esercizio del diritto di voto. Da qui una strategia del doppio binario: da una
parte il sostegno all’iniziativa di Kennedy, il cui discorso dell’11 giugno
veniva giudicato «davvero grande»; dall’altra una spinta alla mobilitazione
di massa. È del 20 giugno una chiara formulazione di questa sua intenzione
quando, a pochi giorni dal discorso televisivo di Kennedy, disse ai suoi
collaboratori: «Appena inizia l’ostruzionismo credo che dovremo marciare
su Washington con 250.000 persone»216.
Esattamente quello che la Casa Bianca temeva, una prova di forza dei neri
nel momento più delicato del passaggio al Congresso delle norme
annunciate l’11 giugno. Ma in pochi giorni i Kennedy furono certi che i
preparativi per una manifestazione di massa andavano avanti, e allora
cambiarono strategia. Invece di uccidere il drago provarono a domarlo. La
formula fu quella di un invito alla Casa Bianca aperto ai principali leader
del movimento nella giornata del 22 giugno del 1963. JFK non concesse la
“foto di gruppo”, lasciando che a posare con King e gli altri leader
afroamericani fossero il fratello Bob e il vicepresidente Johnson, ma non
rinunciò a dire forte e chiaro quale fosse il suo pensiero: «Siamo in una
nuova fase, quella legislativa. Dimostrazioni sbagliate nel tempo sbagliato
daranno a quella gente la possibilità di dire che essi devono dare prova del
loro coraggio votando contro di noi»217. La legge sul diritto di voto,
sembrò dire il presidente, non potrà mai arrivare per pressioni di piazza.
Insomma, state fermi.
Questo detto con le buone. Il linguaggio cambiò in un colloquio privato
con King nel giardino delle rose della Casa Bianca, lontano da orecchie
indiscrete. Senza giri di parole, il presidente disse che l’FBI aveva prove
certe che alcuni dirigenti della SCLC appartenevano a reti comuniste.
Oltre al solito nome di Stanley Levison, gli fece anche quello di Jack
O’Dell218. King non lo difese con particolare fermezza – pur
puntualizzando che i suoi rapporti con gruppi comunisti erano cessati da
tempo e che aveva maturato idee del tutto diverse da quelle giovanili219 – e
la sua collaborazione con la SCLC finì di lì a poco. Tenne invece il punto
su Levison220.
Vincendo le ultime resistenze della NAACP, assai sensibile alle lusinghe
kennediane, il “pellegrinaggio” a Washington fu finalmente fissato per il
28 agosto e si sarebbe concluso in uno dei luoghi simbolicamente più
eloquenti e tormentati della storia americana: il Lincoln Memorial.
Quello che si annunciava come un raduno di massa rischiava di ridursi a
un pop show del politically correct. Non potendo fermare la macchina
organizzativa, i Kennedy tentarono di depotenziare la rilevanza politica
dell’evento, segnato da una pesante contraddizione: da una parte, infatti,
godeva della forzata benevolenza di Bob Kennedy, mentre dall’altra non
poteva non denunciare le esitazioni dell’Amministrazione Kennedy nel
portare al Congresso la tanto attesa legge sui diritti civili.
Dopo un periodo di vacanza con la famiglia ai primi di agosto, King
affidò al «New York Times Magazine» un articolo che precisava i
contenuti e gli obiettivi di quella mobilitazione, precisando che non si
limitavano all’approvazione della legge sui diritti civili ma riguardavano
anche la piena uguaglianza e «un’opportunità priva di ostacoli perché ogni
persona potesse finalmente dispiegare tutte le proprie capacità». Più
specificatamente, menzionò la richiesta di abitazioni e opportunità di
lavoro, «sempre che sia possibile stabilire delle priorità tra tutti i mali di cui
soffrono i neri»221. È chiaro l’intento di “forzare” i contenuti della
mobilitazione e di spingere l’Amministrazione ad alzare l’asticella dei
programmi di riforma annunciati.
Il braccio di ferro tra gli organizzatori e la Casa Bianca proseguì sino alle
ore immediatamente precedenti l’evento. I collaboratori dei Kennedy
avevano chiesto di poter leggere i testi in anticipo, e quello di John Lewis,
presidente dello SNCC – l’organizzazione già prendeva pieghe estremiste
che l’allontanavano dall’integrazionismo e dal pacifismo kinghiano – risultò
inaccettabile. In alcuni passaggi, infatti, definiva la legge sui diritti civili,
peraltro ancora non approvata, come un provvedimento che «era troppo
poco e arrivava troppo tardi». E poi sferrava un attacco diretto alla Casa
Bianca denunciando la «misera» leadership del Paese, «che ha costruito le
proprie carriere su compromessi immorali e che si è alleata a forme di
esplicito sfruttamento politico, economico e sociale»222. La disseminazione
nel testo della parola “rivoluzione” faceva il resto. Il discorso conteneva
espressioni inaccettabili non solo per la Casa Bianca, ma anche per il
cardinale Patrick O’Boyle, che avrebbe dovuto aprire l’incontro con una
preghiera. Al mattino il caso era ancora irrisolto, e O’Boyle minacciava che
se quelle parole fossero state pronunciate egli avrebbe clamorosamente
abbandonato la manifestazione. A pochi minuti dall’inizio un gruppo
ristretto discuteva animatamente sul retro del Lincoln Memorial. C’era
anche King, al quale viene attribuita una richiesta quasi implorante a
Lewis: «Ti conosco bene. Non credo che queste parole risuonino per
come sei tu».
145 «Time», 2 maggio 1960, p. 14; Fairclough, To Redeem the Soul of America, cit.,
p. 59.
146 Paul Lauter, Versions of Nashville. Visions of American Studies, in Id., From
Walden Pond to Jurassic Park. Activism, Culture and American Studies, Duke
University Press, Durham-London 2001, p. 77. Cit. in Sandro Portelli, Riti di
assenso, pratiche di protesta. Alle origini del movimento dei diritti civili negli Stati Uniti, in
Naso (a cura di), Il sogno e la storia, cit., p. 47.
147 James Bevel fu senza dubbio uno dei collaboratori di King più stretti e
influenti. Si sposò quattro volte – una delle sue mogli fu Diana Nash, altro
personaggio di primo piano del civil rights movement – ed ebbe 16 figli da sette
diverse donne. Morì nel 2008 di pancreatite senza essere riuscito a ribaltare la
sentenza che pochi mesi prima lo aveva condannato a 15 anni di carcere, The Rev.
James L. Bevel Dies at 72, in «Los Angeles Times», 24 dicembre 2008. Una lunga
intervista a Bevel, registrata il 14 gennaio del 2003 e quindi prima della sua
condanna, in HistoryMakers,
https://www.thehistorymakers.org/biography/reverend-james-bevel (consultato il
23 novembre 2020).
148 Lisa Mullins, Diane Nash: The Fire of the Civil Rights Movement, Barnhardt &
Ashe, Miami 2007.
149 Tra le migliori ricostruzioni dell’origine e dei primi cambiamenti attraversati
da questa associazione, Howard Zinn, The New Abolitionists, Beacon Press, Boston
1964.
150 Martin Luther King, La scottante verità sul Sud, in Naso (a cura di), L’“altro”
Martin Luther King, cit., pp. 747-779 (apparso il 24 maggio del 1960 su «The
Progressive»).
151 Fairclough, To Redeem the Soul of America, cit., p. 62.
152 Venturini, Con gli occhi fissi alla meta, cit., p. 146.
153 Fairclough, To Redeem the Soul of America, cit., p. 63. Incomprensibilmente la
versione del discorso di Lawson riportata in David W. Houck, David E. Dixon,
Rhetoric, Religion and the Civil Rights Movement, 1954-1965, Baylor University
Press, Taco, Texas, 2006, pp. 357-362 non riporta le frasi citate, quelle a nostro
avviso politicamente più rilevanti e controverse.
154 From Roy Wilkins, lettera del 27 aprile 1960, in TPMLK, vol. V, p. 445.
155 Clayton Powell fu un personaggio controverso quanto centrale della comunità
afroamericana. Pastore battista della notissima Abyssinian di New York, nel 1941
fu eletto per la prima volta al Congresso in rappresentanza del distretto di Harlem,
mantenendo il seggio sino al 1967, quando ne fu privato in seguito a un’accusa di
corruzione avallata dal suo stesso Partito democratico. King non intervenne in sua
difesa e questo silenzio può aver causato una reazione di astio e polemica da parte
di Powell. Vinta la causa legale intentata presso la Corte suprema, gli fu restituito il
seggio nel 1968 ma, nelle elezioni del 1970, lo perse e si ritirò definitivamente
dalla vita politica attiva. Cfr. Adam Clayton Powell, Jr., Adam by Adam,
Kensington Publishing Corporation, New York 2002.
156 To Adam Clayton Powell, lettera del 24 giugno 1960, in TPMLK, vol. V, pp.
480-481.
157 Secondo il racconto di Rustin ai suoi, Clayton Powell affermava di avere
qualche prova «che Martin ed io andiamo a letto insieme». L’affermazione destò
sconcerto tra i presenti, che in maggioranza sembravano orientati a respingere il
ricatto di Clayton Powell. King prese tempo sino a quando Rustin, con
disappunto, ruppe gli indugi e presentò le dimissioni: Garrow, Bearing the Cross,
cit., p. 140; Branch, Parting the Waters, cit., p. 328.
158 Dopo un esordio brillante come protagonista della Harlem Renaissance,
soprattutto ai tempi del suo pastorato presso la Abyssinian Church, già nel 1963 fu
accusato di frode nella rendicontazione dei fondi a sua disposizione come
parlamentare; successivamente fu accusato di falso in atto pubblico per avere
assunto come collaboratrice la sua terza moglie che invece risiedeva a Porto Rico;
infine, sempre più assenteista e concentrato su complesse vicende familiari e sulla
gestione di una proprietà nell’atollo di Bimini (Bahamas), nel 1970 perse il suo
storico seggio al Congresso. Col tempo i rapporti tra King e Clayton Powell si
normalizzarono e già nel gennaio del 1961 un King evidentemente benevolo e
pronto a mettere tra parentesi ricatti e maldicenze arrivò a complimentarsi con
Clayton Powell che aveva raggiunto l’agognata presidenza dello House Education
and Labor Committee, riconoscendo il suo «incrollabile impegno e lealtà senza
compromessi per la causa dei diritti civili della gente di colore», lettera del 28
gennaio 1961, in TPMLK, vol. VII, p. 132.
159 TPMLK, vol. VII, p. 34.
160 G.J. Barker-Benfield, Catherine Clinton, Portraits of American Women From
Settlement to the Present, Oxford University Press, New York 1998, p. 566.
161 Intervista a Ella Baker, a cura di John Britton, Oral History/Interview, The
Civil Rights Documentary Project, realizzata il 19 giugno del 1968. Il documento,
di grande significato umano e politico, è disponibile al sito
https://www.crmvet.org/nars/baker68.htm#baker68_mlk2 (consultato il 1°
febbraio 2019).
162 Pensiamo soprattutto a Veltroni, Il sogno spezzato, cit.; Furio Colombo,
L’America di Kennedy, Feltrinelli, Milano 1964.
163 Wallace fu una personalità di primo piano del Partito democratico del Sud:
più volte governatore dell’Alabama, per ben quattro volte si candidò alla
presidenza riuscendo anche a vincere le primarie in alcuni Stati. Ma il suo
estremismo razzista gli impedì l’ascesa ai vertici nazionali. Nel 1977 subì un
attentato di natura non politica che lo costrinse sulla sedia a rotelle. In questa
difficile condizione ebbe una conversione e si dichiarò «rinato in Cristo» (new born
in Christ) aderendo a una chiesa evangelica di matrice fondamentalista. Da qui una
confessione di peccato e una richiesta di perdono alla quale il suo più autorevole
biografo non sembra dare credito: «Wallace, come la maggior parte dei meridionali
della sua generazione, [aveva] genuinamente creduto che i neri fossero una razza
separata, inferiore», Dan T. Carter, The Politics of Rage: George Wallace, the Origins
of the New Conservatism, and the Transformation of American Politics, Simon &
Schuster, New York 1995, p. 236.
164 Alla fine degli anni ’40 una componente conservatrice del partito diede vita a
una scissione, poi sostanzialmente rientrata, che portò alla nascita dello States’
Rights Democratic Party, i cui aderenti vennero comunemente e irrisoriamente
detti dixiecrats in riferimento alla musica dixie propria di alcuni Stati del Sud. Sia
pure rientrati nel partito, molti esponenti di questa corrente e i loro sostenitori
occasionalmente negarono il voto a candidati democratici giudicati troppo liberal,
votando per gli avversari repubblicani.
165 TPMLK, Introduzione al vol. V, p. 31.
166 Ibidem.
167 Ivi, p. 36.
168 Cfr. Stephen G.N. Tuck, Beyond Atlanta: The Struggle for Racial Equality in
Georgia, 1940-1980, The University of Georgia Press, Athens 2001.
169 Roger S. Gottlieb, Joining Hands: Politics and Religion Together for Social Change,
Routledge, New York 2002, pp. 104 sgg.
170 Rebecca Burns, The Atlanta Student Movement: A Look Back, in «Atlanta», 1°
marzo 2010.
171 La polizia lo aveva fermato il 4 marzo ad Atlanta. Il processo aveva avuto
luogo il 23 settembre e si era concluso con la condanna a un’ammenda di 25
dollari e a una detenzione di 12 mesi, in libertà condizionata, TPMLK, vol. V, p.
37.
172 Martin Luther King alla moglie Coretta, dalla prigione di Reidsville, 26
ottobre 1960, in TPMLK, vol. V, p. 531.
173 Coretta King, My Life with Martin Luther King, Jr., cit., p. 196.
174 Fairclough, To Redeem the Soul of America, cit., p. 73.
175 Garrow, Bearing the Cross, cit., p. 148.
176 Il testo e la registrazione del discorso sono disponibili sul sito
www.jfklibrary.org (consultato il 24 maggio 2010).
177 Lewis V. Baldwin, There is a Balm in Gilead: The Cultural Roots of Martin Luther
King, Jr., Fortress Press, Minneapolis 1991, p. 231.
178 Equality Now: The President Has the Power, in «The Nation», 4 febbraio 1961, in
TPMLK, vol. VII, p. 139.
179 Ivi, p. 150.
180 James Lawson, How the Nashville Movement Kept the Riders Riding,
https://breachofpeace.com/blog/?p=57 (consultato il 21 ottobre 2020).
181 David Niven, The Politics of Injustice: The Kennedys, the Freedom Rides, and the
Electoral Consequences of a Moral Compromise, University of Tennessee Press,
Knoxville 2002, p. 82.
182 Discorso al Freedom Riders Rally presso la First Baptist Church di
Montgomery, 21 maggio 1961, in TPMLK, vol. VII, p. 231.
183 Ibidem.
184 Steven Levingston, Kennedy and King: The President, the Pastor, and the Battle
over Civil Rights, Hachette Books, New York 2017, p. 183.
185 Ivi, p. 197.
186 Così Thurgood Marshall, direttore dell’Ufficio legale della NAACP, ibidem.
187 È quindi discutibile l’affermazione secondo cui la SCLC e il CORE
«avrebbero sospeso la campagna» e che essa continuò solo grazie alla
determinazione di «giovani dello SNCC», Venturini, Con gli occhi fissi alla meta,
cit., p. 157. Una dichiarazione fatta da King il 23 maggio nel corso di una
conferenza stampa attesta infatti il contrario, e cioè la convinzione che i «freedom
rides possano e debbano continuare», Martin Luther King, Press Conference
Announcing the Continuation of the Freedom Rides, Montgomery 23 maggio 1961, in
TPMLK, vol. VII, p. 233.
188 Farmer, Lay Bare the Heart, cit., p. 206.
189 Levingston, Kennedy and King, cit., p. 190.
190 Levingston, Kennedy and King, cit., p. 206.
191 Cfr. Yohuru Williams, Rethinking the Black Freedom Movement, Routledge,
New York 2013, p. 29.
192 Wolfgang Mieder, Making a Way Out of No Way: Martin Luther King’s
Sermonic Proverbial Rhetoric, Peter Lang, New York 2010, p. 90.
193 Ling, Martin Luther King, Jr., cit., p. 105.
194 Ivi, p. 113.
195 Ivi, p. 115; Branch, Parting the Waters, cit., pp. 705-706.
196 Glee T. Eskew, But for Birmingham: The Local and National Movements in the
Civil Rights Struggle, University of North Carolina Press, Chapel Hill 1997, p. 58.
197 Vari pastori e gran parte dei professionisti neri ritenevano che semplicemente
lui non potesse «lavorare insieme alla gente», Garrow, Bearing the Cross, cit., p. 238.
E, come vedremo, anche i rapporti con King alla fine si fecero difficilissimi e non
furono compromessi soltanto per quella che appare, sulla base delle testimonianze
a nostra disposizione, una tenace pazienza di quest’ultimo.
198 Eskew, But for Birmingham, cit., p. 288.
199 Martin Luther King, Lettera da una prigione, in Id., Io ho un sogno, Scritti e discorsi
che hanno cambiato il mondo, SEI, Torino 1993, pp. 86, 87.
200 Fairclough, To Redeem the Soul of America, cit., p. 124.
201 Ivi, p. 125.
202 Foster Hailey, 500 Are Arrested in Negro Protest at Birmingham, in «The New
York Times», 3 maggio 1963, p. 1.
203 Eskew, But for Birmingham, cit., p. 266.
204 Garrow, Bearing the Cross, cit., p. 250.
205 Eskew, But for Birmingham, cit., p. 303.
206 Branch, Parting the Waters, cit., p. 764; Fairclough, To Reedem the Soul of
America, cit., p. 138.
207 Eskew, But for Birmingham, cit., p. 283.
208 Garrow, Bearing the Cross, cit., p. 252.
209 La versione di Fairclough riporta le seguenti parole di Shuttlesworth,
negativamente allusive al rapporto tra Kennedy e King: «Quando sei venuto a
Birmingham, non lo hai chiesto a Kennedy. Burke Marshall non era qui intorno.
C’erano delle persone che avevano fiducia in me perché sapevano che non avrei
mentito e non li avrei svenduti», Fairclough, To Redeem the Soul of America, cit., p.
128. Più colorita la versione di Garrow, che fa riferimento a due distinti momenti:
nel primo Shuttlesworth avrebbe detto: «Bene, Martin, chi ha deciso?... Bene,
Martin, mi è difficile capire come qualcuno possa avere deciso senza di me... Bene,
Martin, tu sai che cosa si dice ad Albany? Che tu sei arrivato, hai fomentato la
gente, avviato la lotta e poi te ne sei andato». Qualche ora dopo, di fronte a
Marshall Burke, Shuttlesworth sarebbe stato ancora più diretto e ruvido: «Che io
sia dannato se la cosa la mantieni così. Tu sei mister Grande, ma diventerai mister
SHIT [merda]. Mi spiace ma io non posso andare a compromessi con i miei
principi e con quello che abbiamo deciso», Eskew, But for Birmingham, cit., p. 288.
La fonte primaria è un’intervista dello stesso Shuttlesworth, in Henry Hampton,
Steve Fayer, Voices of Freedom, Bantam Books, New York 1990, pp. 136-137.
210 Police Intelligence Report, in Connor Papers, box 9, folder 25, p. 288, cit. in
Andrew M. Manis, M.A. Manisre, Fire You Can’t Put Out: The Civil Rights Life of
Birmingham’s Reverend Fred Shuttlesworth, University of Alabama Press, Tuscaloosa
1999.
211 Questa la tesi di Eskew, But for Birmingham, cit., p. 288.
212 Ivi, p. 310.
213 Ivi, p. 293.
214 Intervista a Christopher McNair, padre di una delle bambine uccise
nell’attentato, NPR, 15 settembre 1963,
https://www.npr.org/templates/story/story.php?storyId=94640715 (consultato il
12 febbraio 2019).
215 John F. Kennedy, Televised Address on Civil Rights, 11 giugno 1963, video e
testo tradotto in italiano al sito https://www.jfklibrary.org/learn/about-jfk/historic-
speeches/televised-address-to-the-nation-on-civil-rights (consultato il 6 febbraio
2018).
216 Ling, Martin Luther King, Jr., cit., p. 145; Garrow, Bearing the Cross, cit., p.
365.
217 Garrow, Bearing the Cross, cit., p. 272.
218 Ling, Martin Luther King, Jr., cit., p. 147; Garrow, Bearing the Cross, cit., p.
272.
219 Garrow, Bearing the Cross, cit., p. 235.
220 Charles Euchner, Nobody Turn Me Around: A People’s History of the 1963 March
on Washington, Beacon Press, Boston 2011, p. 73.
221 Martin Luther King, What the Marchers Really Want, in «The New York
Times Magazine», 25 agosto 1963.
222 John Lewis, Michael D’Orso, Walking with the Wind, Simon & Schuster, New
York 1998, p. 227.
V.
Salite e discese
Dallas
L’ottimismo generato dalla marcia del 28 agosto svanì all’improvviso il 22
novembre quando, a Dallas, il presidente JFK fu ucciso in un attentato.
Poche ore dopo, in una drammatica emergenza nazionale, Lyndon
Johnson giurava come trentaseiesimo presidente degli Stati Uniti sull’aereo
che riportava a Washington la salma di Kennedy. Accanto a lui, la vedova
Jacqueline con l’abito ancora macchiato di sangue.
La reazione di King alla notizia fu di sconcerto personale e di angoscia
politica. Ai suoi occhi quell’omicidio si iscriveva in un clima generale di
violenza che lo preoccupava sia come cittadino americano che come leader
del movimento per i diritti civili. I rapporti con il presidente non erano
stati sempre idilliaci, ma gli sembrava che il discorso presidenziale del 22
giugno e la reazione positiva alla mobilitazione di agosto avessero
determinato un beneaugurante clima di reciproca fiducia. Era come –
commentò con i suoi collaboratori – se esistessero due Kennedy: il primo
era quello conosciuto nei primi due anni di mandato, il secondo era quello
che sembrava aver capito la rilevanza morale dei temi razziali e si mostrava
«determinato a impegnarsi per affrontarli con coraggio»234. Ma questo era il
passato. Ora bisognava riprendere il filo del discorso con il nuovo
presidente, Lyndon Johnson, che King riuscì ad incontrare in tempi
decisamente rapidi, il 3 dicembre alla Casa Bianca. L’incontro fu giudicato
“fruttuoso”, ma il presidente non prese alcun impegno sui tempi di
presentazione al Congresso della legge sui diritti civili.
Le vacanze di Natale furono allietate dalla notizia che «Time» avrebbe
dedicato a King la copertina di “uomo dell’anno”: era un effetto dell’onda
lunga del successo di Washington che, peraltro, non appariva ancora
pronta a rifluire. Il 18 settembre dell’anno successivo, infatti, dopo un
lungo giro in Terra Santa e in Europa, fu ricevuto in udienza privata da
papa Paolo VI, che espresse il sostegno della Santa Sede alla causa
nonviolenta dei neri d’America. Il Concilio era ancora in corso e la stretta
di mano tra il papa e King era uno dei “segni dei tempi” che sembravano
aprire una nuova stagione, oltre che sulla scena geopolitica, anche nelle
relazioni ecumeniche. Ma anche la visita a Berlino del 13 settembre, su
invito dell’allora sindaco Willy Brandt, non passò inosservata. Del tutto
incurante del divieto di oltrepassare checkpoint Charlie, e complice
l’imbarazzo delle forze di polizia, King entrò nella parte orientale della città
dove lo aspettava Heinrich Grüber, pastore protestante e sopravvissuto ai
campi di sterminio nazisti. Abbiamo il testo del sermone nel quale definì
Berlino «il fulcro attorno al quale gira la ruota della storia». Ma omaggi
retorici a parte, parlò soprattutto di distensione, affermando che proprio
come l’America «sta dimostrando di essere il banco di prova di razze che
vivono insieme nonostante le loro differenze», così la città doveva testare
«la possibilità di coesistenza per le due ideologie che ora competono per il
dominio del mondo [...]. Ovunque avvenga la riconciliazione», ovunque
gli uomini abbattano le pareti divisorie dell’ostilità «che li separano dai loro
fratelli, lì Cristo continua a svolgere il suo ministero di riconciliazione»235.
Un altro successo politico e diplomatico che non dispiacque alla Casa
Bianca.
Di lì a poco un’altra notizia che confermava King come personalità di
livello internazionale: l’attribuzione del Premio Nobel per la pace. Il
reverendo non era a casa ma in ospedale per controlli di routine e, forse,
per rimediare al sovraccarico di lavoro e di stress seguito alla sua proiezione
a livello mondiale. Quando gli fu comunicata la notizia, apparve
ovviamente contento ma non del tutto sorpreso, dal momento che sapeva
della candidatura a suo favore avanzata da alcuni accademici e politici
svedesi. Da una parte era un eccezionale riconoscimento alla persona e al
movimento, dall’altra – come notò con la sua tipica premura Coretta – la
conferma che a quel punto suo marito non si sarebbe più potuto sottrarre a
quella vita e a quel ruolo236.
Ma le buone notizie si fermavano qui. Per il resto la situazione politica
restava bloccata, la SCLC era attraversata da tensioni per la leadership e,
all’esterno, aumentavano le aspettative e le critiche nei confronti di King.
Tra le più severe quelle di Malcolm X, ormai leader consacrato di una
nuova componente del movimento, che soprattutto alcuni settori giovanili
e intellettuali giudicavano più dinamico del reverendo King o, quanto
meno, capace di interpretare meglio il disagio e la frustrazione di tanti
giovani di colore per i quali il sogno americano restava una vuota e
provocatoria suggestione retorica.
E ancora, Martin era il figlio del Sud agricolo, quello che aveva portato il
peso più drammatico dello schiavismo e della Guerra civile: Malcolm,
invece, era nato e cresciuto nel Nord, dove la linea del colore era meno
brutale ma non per questo incideva di meno sulla vita del proletariato nero
costretto a lavori marginali e malpagati. Martin e Malcolm ebbero anche
diversi percorsi di fede: più lineare il primo, tutto interno alla spiritualità
afroamericana e alla tradizione delle black churches; segnato prima da una
conversione all’islam dei Black Muslims e poi dalla scoperta
dell’universalismo islamico, il secondo. Diversa anche la base di consenso:
per il pastore di Atlanta era l’America mainstream, bianchi e neri interessati
a un progetto di integrazione che sostenesse lo sviluppo del Paese; per
Malcolm erano piuttosto i giovani esclusi da quello sviluppo in ragione del
colore della pelle, quei famosi cats in the street con i quali egli si identificava
pienamente240. Agli opposti anche le strategie e gli obiettivi politici: azione
nonviolenta in vista di una società “integrata” per Martin; lotta anche
violenta in vista della conquista del Black Power per Malcolm. Fortemente
emblematico di questa posizione un celebre intervento di Malcolm
pronunciato nella Cory United Methodist Church il 3 aprile del 1964, che
sin dal titolo dava la misura della distanza tra i due leader: The ballot or the
bullet, il voto o il proiettile. «L’argomento di stasera è “La rivolta negra:
quali sviluppi avrà?” – esordì. – A mio modesto modo di vedere essa pone
un preciso dilemma: il voto o il proiettile»241. La tesi era chiara. La prima
strada – quella della protesta e della negoziazione politica – era fallita e non
restava che prenderne atto per imboccare risolutamente quella della lotta
violenta.
Se avete paura di servirvi di questa espressione – affermò Malcolm rivolto a un
pubblico che non comprendeva soltanto sostenitori della sua causa – ebbene tornatevene
in campagna, nel campo di cotone, oppure in qualche vicolo buio dei bassifondi. Si
pigliano tutti i voti dei neri e dopo ai neri non tocca niente. Tutto ciò che hanno fatto
una volta arrivati a Washington è stato dare dei grossi posti ad alcuni papaveri neri che
non ne avevano bisogno perché erano già sistemati. Questo è un imbroglio, un
tradimento, un abile modo di camuffare la verità.
Quanto a King, adottò una strategia molto diversa e, evitando i toni della
polemica personale e diretta, riportava lo scontro a categorie politiche e al
giudizio sulle strategie:
Ho spesso desiderato che [Malcolm X, N.d.A.] parlasse meno di violenza, perché la
violenza non risolverà il nostro problema. E nella sua litania di articolazione della
disperazione del Negro senza offrire alcuna alternativa positiva e creativa, sento che
Malcolm ha reso a se stesso e al nostro popolo un grande disservizio. Nei ghetti neri
l’oratoria infuocata e demagogica, esortando i neri ad armarsi e prepararsi ad affrontare la
violenza come ha fatto lui, non può raccogliere altro che dolore247.
Una foto
I due leader si incontrarono di persona solo una volta, il 26 marzo del
1964, dopo aver partecipato in momenti distinti a una breve conferenza
stampa svoltasi a margine del dibattito al Senato sulla legge per il diritto di
voto agli afroamericani. Una foto li ritrae insieme mentre si stringono la
mano e sorridono, apparentemente contenti di incontrarsi.
Nulla di quella foto del marzo 1964 lascia trasparire lo scontro tra le loro
diverse interpretazioni del razzismo americano e tra le loro contrapposte
strategie di lotta per i diritti della comunità afroamericana. Eppure, non si
trattava di una mera finzione buona per i media. Quella stretta di mano
avvenne in un momento politico delicatissimo, certamente segnato
dall’omicidio di John F. Kennedy avvenuto solo quattro mesi prima ma
anche caratterizzato dall’imminente approvazione di quella legge sul diritto
di voto per la quale King e il suo movimento si erano mobilitati da almeno
sette anni.
Gran parte degli studi sui due personaggi ha lungamente avallato
l’interpretazione polarizzata che ha finito per contrapporre due leader tra i
quali, soprattutto negli ultimi anni di una vita in tutti e due i casi spezzata
da un omicidio, crebbe invece una dialettica. A partire dagli studi di James
Cone degli anni ’90252, infatti, si è delineata una linea interpretativa tesa a
evidenziare due svolte che finirono per avvicinare i due personaggi. Per
Malcolm l’anno chiave fu il 1963, quando si consumò la rottura con il suo
maestro e mentore, il leader dei Black Muslims Elijah Muhammad. L’uscita
dalla Nation of Islam, resa pubblica l’8 marzo del 1964, ebbe una causa
remota ma, come sempre accade, fu anche il frutto di uno specifico scontro
con Elijah Muhammad. Guardando all’indietro, nei dieci anni precedenti
la Nation of Islam era cresciuta esponenzialmente, passando da qualche
centinaio di aderenti ad alcune migliaia253, e risultava più che evidente che
questa imprevedibile performance si doveva all’azione e al carisma di
Malcolm X assai più che alla predicazione di Elijah Muhammad o di altri
esponenti della Nation of Islam. Difficile immaginare che questo dato non
irritasse le “seconde file” dell’associazione e non generasse sentimenti
animosi nei confronti di Malcolm. Ma la tensione cresceva anche tra
Malcolm e Elijah, e su un tema etico delicato quale le svariate relazioni
sessuali che il capo della Nation of Islam, che predicava astinenza e fedeltà
coniugale, intratteneva con diverse donne del suo staff. Le goffe
giustificazioni del capo spirituale della Nation of Islam, che rivendicò per
sé il diritto divino a relazioni sessuali diverse e multiple come era accaduto
per i profeti biblici254, non fecero che accrescere l’autorevolezza di
Malcolm, che rafforzò la sua immagine “puritana” di uomo che aveva
conosciuto l’esperienza del peccato ma che poi si era convertito e restava
fedele alla nuova legge morale che orientava la sua vita.
Ma a determinare la rottura tra Elijah Muhammad e il suo seguace più
famoso intervenne anche un fatto specifico: a seguito dell’omicidio di
Kennedy, Malcolm affermò che «il presidente era rimasto vittima di una
violenza che non aveva saputo fermare». E a rafforzare un pensiero già
abbastanza chiaro volle aggiungere la metafora dei polli che tornano nel
pollaio per farsi arrostire. Un’immagine – disse – «che non mi ha mai fatto
soffrire»255. L’affermazione apparve smisurata e i toni suonarono
insopportabilmente cinici anche al capo della Nation of Islam che, con un
comunicato immediatamente ripreso dalle principali testate, gli impose il
silenzio stampa per novanta giorni256. La rottura era inevitabile e il 12
marzo del 1964 Malcolm annunciò il suo impegno in una nuova
associazione islamica di nome Muslim Mosque.
I passi successivi furono il viaggio in Egitto e il pellegrinaggio alla Mecca:
un’esperienza eccezionalmente intensa che produsse un cambiamento
spirituale e politico rilevante, espresso in una specifica autocritica.
Riferendosi al clima di fratellanza che sentiva attorno a sé, Malcolm sentiva
che il suo settarismo ed esclusivismo razziale appariva incompatibile con il
messaggio universalistico dell’islam, al punto da indurlo a rivedere «molte
delle mie posizioni precedenti e a scartare alcune delle mie conclusioni
[...]. Posso dire, basandomi sulle esperienze che ho avuto, di nutrire la
speranza che i bianchi della giovane generazione, gli studenti dei college e
delle università capiranno le cause del problema e molti di loro si
metteranno sulla strada spirituale della verità, l’unica rimasta all’America se
vuole evitare la catastrofe verso cui il razzismo inevitabilmente la
conduce»257. Il cambiamento più rilevante è quello relativo al “soggetto”
della trasformazione sociale, che non è più il nero ma una coalizione ampia
e articolata, interreligiosa, interrazziale e politicamente trasversale. È
Malcolm stesso a dirlo con parole molto chiare, che segnano una linea di
netta demarcazione tra il leader settario della Nation of Islam e il
musulmano ortodosso che riconosce il valore dell’incontro, del dialogo e
dell’azione comune tra bianchi e neri.
Da quando ho imparato la verità alla Mecca – ammise – tra i miei più cari amici ci
sono persone di tutte le specie: cristiani, ebrei, buddhisti, induisti, agnostici e persino
atei. Ho amici tra i capitalisti, i socialisti e i comunisti, alcuni sono moderati, altri
conservatori o estremisti e altri ancora hanno la mentalità di zio Tom: oggi i miei amici
sono di pelle nera, bruna, rossa, gialla ed anche bianca!258
Dal giorno della sua uscita dalla Nation of Islam, Malcolm subì svariate
minacce di morte e persino un attentato. Alle 2.30 di notte del 14 febbraio
del 1965, quando aveva appena concluso le interviste a Alex Haley che
sarebbero state alla base della sua Autobiografia259, varie bottiglie molotov
furono lanciate contro la sua casa di New York, nel Queens. Una
escalation culminata il 21 febbraio del 1965, quando il leader
afroamericano fu ucciso mentre parlava al pubblico raccolto nella
Haudubon Hall di Harlem. I sospetti caddero subito sulla Nation of Islam
e tutti e tre i condannati per l’omicidio appartenevano all’organizzazione e
alla cerchia più ristretta di Elijah Muhammad260. Il 26 febbraio, cinque
giorni dopo l’omicidio, Muhammad pronunciò parole assai gravi:
«Malcolm – affermò – ottenne esattamente ciò che predicava [...]. Non
volevamo uccidere Malcolm e non abbiamo tentato di ucciderlo. Ma
conosciamo l’insegnamento così infondato e folle che lo avrebbe portato
alla sua stessa fine»261.
Paradossalmente le parole più affettuose su Malcolm non vennero dai
suoi ex fratelli della Nation of Islam, ma dai suoi avversari della SCLC. In
un telegramma di condoglianze alla moglie di Malcolm, Betty Shabazz,
King scrisse:
Anche se non abbiamo sempre concordato sui metodi per risolvere il problema
razziale, ho sempre avuto un profondo affetto per Malcolm e ho sentito che aveva una
grande capacità di mettere il dito sull’esistenza e sulla radice del problema. Era un
eloquente portavoce del suo punto di vista e nessuno può onestamente dubitare che
Malcolm nutrisse una grande preoccupazione per i problemi che affrontiamo come
razza262.
Un recente studio sui rapporti tra Martin e Malcolm delinea uno scenario
inverso che sottolinea che sia l’uno che l’altro intrapresero un percorso
che, almeno idealmente, li avrebbe avvicinati. L’efficace metafora utilizzata
per descrivere la complementarità dei due leader è quella della “spada” e
dello “scudo”, l’arma per attaccare il sistema del razzismo e la protezione
necessaria a difendere una comunità discriminata263.
Rivedendo le carte di quegli anni e i significativi riposizionamenti
strategici di King e di Malcolm, non possiamo non chiederci che cosa
sarebbe accaduto se i due fossero vissuti più a lungo e avessero potuto
chiarire analisi e prospettive di lotta. Ma non sta a una ricostruzione storica
speculare su ipotesi non dimostrabili, quindi ci limitiamo a rimandare a un
brillante testo teatrale, The Meeting264, che fa riferimento a un immaginario
incontro tra i due leader in un albergo di New York.
Selma
Nonostante i successi internazionali King restava un sorvegliato speciale, e
più o meno negli stessi giorni in cui gli accademici svedesi votavano per
concedergli il Premio Nobel per la pace, il direttore dell’FBI ripetutamente
lo definì «il bugiardo più noto di tutto il paese»265. La viscerale antipatia di
Edgar J. Hoover [il direttore dell’FBI, N.d.A.] per King era cosa nota da
tempo, ma la circostanza di questo attacco frontale superò i limiti della
correttezza istituzionale, al punto da indurre Johnson a organizzare un
incontro tra i due che ebbe luogo nella sede dell’FBI il 1° dicembre del
1964. Dalle poche informazioni che trapelarono266, possiamo dedurre che
si trattò di un incontro meramente formale che non sancì neanche una
tregua ma, almeno formalmente, ricompose una crisi che, esplodendo,
avrebbe messo in difficoltà la Casa Bianca.
D’altra parte, pressato dai vertici militari e in particolare dal generale
Westmoreland, Johnson si trovava sempre più coinvolto nel paludoso
scenario vietnamita e non riteneva quella finestra politica utile a onorare il
suo impegno per la legge sui diritti civili.
In un drammatico up and down tra riconoscimenti e critiche, il 10
dicembre King pronunciò il suo discorso di accettazione del Nobel di
fronte all’Accademia di Svezia. Il discorso pronunciato in quella austera
cornice espresse contenuti nettamente politici quando King dichiarò di
accettare il premio mentre in America ventidue milioni di eroi «si trovano
impegnati in una battaglia costruttiva per porre fine alla lunga notte
dell’ingiustizia razziale [...] Mi viene alla mente – proseguì toccando il
tema sociale – che la povertà debilitante e attanagliante affligge la mia gente
e la inchioda al gradino più basso della scala economica [...]. Io confido –
concluse con un implicito riferimento alla guerra – che perfino tra gli
scoppi dei mortai e il sibilo delle pallottole che oggi sentiamo intorno a noi
esista la speranza di un domani più luminoso»267.
Rientrato rapidamente ad Atlanta, trovò una situazione di effervescenza a
Selma, in Alabama, dove da mesi Jim Bevel e altri dirigenti della SCLC
stavano sostenendo una campagna per la registrazione al voto. Le
manifestazioni di protesta venivano fermate dalla polizia e i partecipanti
sistematicamente arrestati, sia pure per breve tempo. La tattica repressiva,
insomma, era assai esplicita: Selma non sarebbe mai diventata un’altra
Montgomery o un’altra Birmingham. L’idea del gruppo di attivisti che
operava a Selma – tra di loro Amelia Boynton Robinson268 – fu quella di
far esplodere il caso coinvolgendo King in prima persona e arrivando a
ipotizzare un gesto di disobbedienza civile che poteva arrivare al suo
arresto. Il 1° febbraio del 1965 bastò assai poco perché questa possibile
evenienza si realizzasse effettivamente. I manifestanti si ritrovarono alla
Brown Chapel e iniziarono a marciare compatti, senza disperdersi
all’ordine della polizia. Pochi isolati dopo furono fermate 260 persone,
King compreso. «Devo confessare che questo è un tentativo deliberato di
denunciare le drammatiche situazioni di questa città, di questo Stato e di
questa comunità»269, gridò alla stampa. Mai così esplicitamente King aveva
fatto riferimento al concetto gandhiano di disobbedienza civile. L’aveva
praticata e insegnata, ma mai rivendicata come in questo caso. Gli arresti
proseguirono nei giorni successivi, mentre Andrew Young, che si era
intenzionalmente protetto dalla repressione, continuava a coordinare le
azioni sul campo. In pochi giorni l’obiettivo dell’arresto fu raggiunto: il
caso di Selma era arrivato in cronaca nazionale e aveva attirato l’attenzione
del presidente, al punto da indurlo a premere con vigore sulle autorità
locali perché ammettessero le registrazioni al voto. «Tutti gli americani –
dichiarò – si dovrebbero indignare quando a un americano è negato il
diritto di voto. La perdita di quel diritto per un solo cittadino mina la
libertà di ogni cittadino»270. Chi cantò vittoria sottovalutava la forza della
reazione locale e la determinazione del governatore Wallace, che insieme
agli apparati amministrativi statali e locali riuscì a impedire significativi
progressi nel meccanismo di registrazione dei votanti. La decisione della
SCLC fu di “tornare a Selma” per una marcia da concludersi,
simbolicamente, a Montgomery dove “tutto era iniziato” dieci anni prima.
Probabilmente gli organizzatori immaginavano uno scenario analogo a
quello della precedente manifestazione del 1° febbraio. Ma questa volta –
era domenica 7 marzo – lo sceriffo Clark, capo delle forze di polizia locali,
aveva schierato i suoi uomini appena al di là del ponte Edmund Pettus.
Appena i manifestanti lo avessero imboccato si sarebbero trovati in un
pericolosissimo cul de sac. Come sempre, i manifestanti si erano raccolti alla
Brown Chapel e, preso atto del posizionamento della polizia, discutevano
se mantenere il progetto iniziale di attraversare il ponte. King non era
presente. Intenzionalmente i suoi e gli stessi apparati di sicurezza avevano
fatto di tutto per evitare che si esponesse in quella che si annunciava come
un’iniziativa ad altissimo rischio. Fu raggiunto al telefono da Abernathy –
anche lui ad Atlanta –, a sua volta sollecitato da Williams e Bevel che
chiedevano istruzioni ma lasciavano intendere che loro erano per forzare il
blocco. Secondo la versione di Williams, sia pure con riluttanza, King
diede la sua approvazione, e 500 persone si misero pacificamente in marcia
verso il Pettus Bridge. Giunse l’alt e, mentre ancora avevano l’impressione
di poter negoziare, i manifestanti si videro attaccare prima con i manganelli
e subito dopo con i gas lacrimogeni. Fu la Bloody Sunday del movimento
per i diritti civili. «Poi hanno caricato – racconterà Amelia Robinson –.
Sono venuti da destra. Sono venuti da sinistra. Uno [dei soldati] ha gridato:
“Corri!”. Ho pensato: “Perché dovrei correre?”. Quindi un ufficiale a
cavallo mi ha colpito alle spalle e, per la seconda volta, sulla parte posteriore
del collo. Ho perso conoscenza»271. Andò molto peggio a James Reeb,
pastore bianco della Chiesa unitariana universalista, che, arrivato da Boston
per sostenere i manifestanti, fu intercettato da un gruppo di suprematisti e
ucciso l’11 marzo. Nessuno è mai stato condannato per quell’omicidio.
Ancora una volta i media svolsero un ruolo centrale nel documentare la
gratuita e inusitata violenza di forze di polizia che caricavano cittadini
inermi che non opponevano nessuna resistenza. Alla vittoria militare
corrispose, insomma, una grave sconfitta morale, che spostò quote
importanti dell’opinione pubblica, anche bianca e moderata, dalla parte dei
manifestanti di Selma. Questa volta King colse l’attimo e, convinto che il
ferro andava battuto finché era caldo, partì immediatamente per Selma. La
decisione fu avversata dalla Casa Bianca e criticata da alcuni leader del
movimento come James Farmer (CORE), convinti che si dovesse fermare
ogni dimostrazione, almeno in attesa di acque più calme. Furono ore di
grande confusione e tensione nelle quali King fece in tempo a cambiare
opinione almeno tre volte, oscillando tra attesa e mobilitazione. Qualcosa,
all’ultimo istante, dovette convincerlo a optare per la conferma della
mobilitazione. Il 14 marzo, guidato da King, un gruppo di qualche
centinaio di persone abbandonò la Brown Chapel, si incamminò verso il
Pettus Bridge e, in un silenzio surreale, qualcuno si mise a pregare, poi si
levò il canto We shall overcome. A nessuno era chiaro che cosa sarebbe
successo fino a quando, di fronte a poliziotti sorpresi e increduli, seguendo
le mosse di King i manifestanti tornarono ordinatamente sui loro passi,
evitando la replica dello scontro con la polizia. Fu la mossa individuale e
azzardata di King che, senza consultarsi con nessuno, decise per un
ripiegamento che sembrava contrastare e contraddire la tattica di confronto
adottata solo due giorni prima. Isolato e bersagliato da critiche, King
ritenne che la scelta del dietro front era stata politicamente vincente e per
questo individualmente continuò a negoziare con il tribunale locale per
una terza marcia, finalmente autorizzata da un giudice per domenica 21
marzo. Il presidente Johnson fu costretto a prendersi le sue responsabilità e,
per prevenire l’estremismo repressivo del governatore Wallace, spiegò
1800 soldati federali che avrebbero dovuto garantire l’ordinato
svolgimento della manifestazione. Al tempo stesso, il 15 marzo al Senato,
pronunciò un memorabile discorso nel quale – nei giorni caldi della crisi di
Selma – riconobbe formalmente il ruolo del civil rights movement arrivando a
citarne e a fare proprio lo slogan più famoso:
Il vero eroe in questa lotta è il Nero americano. Le sue azioni e le sue proteste, il
coraggio di mettere a rischio la propria sicurezza e anche quello di rischiare la propria
vita, hanno risvegliato la coscienza di questa nazione. Le sue manifestazioni sono state
organizzate per richiamare l’attenzione all’ingiustizia, destinate a provocare il
cambiamento, concepite per suscitare la riforma. Egli ci chiede di trasformare in realtà la
promessa dell’America [...]. Questo grande paese, ricco, instancabile è in grado di offrire
opportunità e istruzione e speranza a tutti: bianchi e neri, al Nord e al Sud, mezzadri e
abitanti della città. Questi sono i nemici: la povertà, l’ignoranza, la malattia. Sono loro i
nemici e non i nostri simili, non il nostro vicino di casa. E anche su questi nemici, la
povertà, le malattie e l’ignoranza, noi trionferemo (we shall overcome)272.
Era un segnale anche alle autorità dell’Alabama, messe alle strette da una
sentenza che autorizzava la marcia da Selma a Montgomery. Il 21 marzo,
domenica mattina presto, varie migliaia di persone erano già pronte a
marciare fino a Montgomery con la protezione di un giudice ma sotto la
minaccia delle forze di polizia. Si calcola che, all’arrivo a Montgomery, il
24, i manifestanti fossero circa 25.000. Arrivati finalmente a destinazione,
King tenne un breve discorso: «Ci dicevano che non saremmo arrivati. E
c’erano quelli che dicevano che saremmo arrivati solo sui loro cadaveri, ma
oggi tutto il mondo sa che siamo qui [...]. Siamo in marcia [...] siamo in
marcia verso la terra della libertà». Parafrasando il Salmo 13, il cui autore si
chiede quando tempo sarebbero durate le sofferenze di Israele, rispose:
«Non molto, perché le bugie non durano in eterno [...] quanto tempo?
Non molto [perché] il Signore ha liberato il lampo mortale della sua spada
tremenda e veloce. La sua verità è in marcia [...]. Oh anima mia sii pronta a
rispondergli. Piedi miei giubilate. Il nostro Dio marcia risoluto con noi»273.
Gli fece eco il rabbino Abraham Heschel – testimone della Shoah, sfuggito
alle persecuzioni in Polonia e poi teologo di punta dell’ebraismo americano
– che, ripensando al cammino di quella giornata affermò: «Era come se le
mie gambe stessero pregando»274.
Un successo a tutto tondo. Ma come in tutte le battaglie per i diritti civili
ottenuto a prezzo di vite umane. Mentre rientrava dalla marcia, una donna
bianca di trent’anni, Viola Liuzzo, rimase vittima di un attentato compiuto
da attivisti del Ku Klux Klan. A conclusione di un processo farsa
incentrato sulle qualità morali della vittima, i suoi assassini furono assolti275.
Watts
Erano mesi inquieti, animati da spinte contraddittorie e non tutte
incanalabili nell’azione nonviolenta.
Il disorientamento e una sensazione di crisi crescevano soprattutto tra gli
afroamericani del Nord, tra coloro che erano cresciuti nei ghetti invece che
nelle piantagioni, tra i blue collars delle metropoli industriali, lontano dalle
brutalità di Jim Crow ma anch’essi sottoposti a discriminazioni e abusi.
Erano i luoghi nei quali il tema della razza scoloriva sullo sfondo della lotta
di classe, ponendo problemi che attraversavano l’intero spettro delle classi
povere americane.
La centralità di questa dinamica politica emerse in tutta la sua
drammaticità nell’estate del 1965, quando l’11 agosto la polizia fermò a
Watts, un sobborgo di Los Angeles, Marquette Freye, un afroamericano
accusato di guidare in stato di ebbrezza. A provocare le prime reazioni
violente fu il sequestro dell’auto, vera e propria scintilla di una rivolta
durata quattro giorni, alla fine dei quali il bilancio fu gravissimo: 34 morti,
1032 feriti e 3952 arresti oltre, ovviamente, alla devastazione di interi
quartieri. Gli scontri colsero King mentre era impegnato in una
convention dei Disciples of Christ – una battagliera denominazione di
tradizione riformata – a Porto Rico, e l’orientamento generale del suo staff
era piuttosto scettico sull’opportunità di un intervento in quella vicenda:
ormai troppo radicalizzata la situazione, troppo alti i rischi di fallimento.
Come spesso accadeva nelle situazioni più difficili, però, quando maturava
una convinzione King tendeva a fare di testa sua e a ignorare i consigli del
suo staff. Da qui la partenza e l’arrivo a Los Angeles, una serie di incontri
istituzionali e, alla fine, la visita ai quartieri devastati. King ne ricavò una
profonda emozione e, secondo quanto riferisce Bayard Rustin, il suo
collaboratore “comunista” che lo aveva accompagnato in quella
circostanza, arrivò a una severa conclusione: «Vedi Bayard – disse –, ho
lavorato perché queste persone avessero il diritto di mangiarsi un
hamburger e ora devo fare qualcosa [...] per aiutarli a trovare il danaro per
comprarselo»276. Nelle ore successive, King precisò il suo pensiero
utilizzando parole non ovvie né di circostanza: «È stata la rivolta di classe
dei non privilegiati contro i privilegiati – dichiarò in una conferenza
stampa – [...] la sostanza della questione è economica»277. È significativo
che, prima di stigmatizzare la violenza, King proponesse un’analisi delle
condizioni che l’avevano generata, e lo facesse con pochi ma densi termini
di ordine politico: «classe», «privilegiati», «questione economica». Viene da
dire che siamo di fronte all’inizio di una svolta che spostava l’asse
dell’analisi del razzismo americano dalla storia alla politica, e cioè dal
richiamo al retaggio del sistema schiavistico alla denuncia delle
contraddizioni di un sistema di potere e di relazioni tra le classi sociali.
Intanto, il 6 agosto, il presidente Johnson firmò il Voting Rights Act con il
quale si intendeva garantire il diritto di voto alla minoranza afroamericana,
rimuovendo quegli ostacoli burocratici e culturali che soprattutto negli
Stati del Sud contribuivano a limitarlo. Raggiunto questo storico obiettivo,
i vertici della SCLC sentivano che non era il momento di festeggiare ma di
rilanciare, soprattutto in quelle aree del Paese dove il movimento faticava a
radicarsi e, soprattutto, sentiva più forte la concorrenza dei gruppi più
radicali. L’idea generale era quella di promuovere campagne di
mobilitazione analoghe a quelle realizzate nel Sud. Il confronto si incentrò
su quale fosse la città più adatta a lanciare una nuova campagna sul tema –
ancora generico – del contrasto alla povertà. Una visita esplorativa
realizzata a Chicago nel mese di luglio dette, sin dall’inizio, risultati assai
incoraggianti: vari inviti a predicare nelle chiese protestanti ma anche
l’attenzione da parte della chiesa cattolica locale, il successo di
partecipazione a numerose conferenze, l’interesse riscontrato in vari
incontri privati dettero a King e al suo staff l’impressione che Chicago fosse
il posto giusto per tentare una nuova avventura al Nord. I giorni della
preparazione e della programmazione della mobilitazione furono
particolarmente densi e faticosi, al punto che King contrasse una leggera
bronchite che lo costrinse a rallentare il ritmo e a concedersi qualche
giorno di tregua. L’argomento decisivo che convinse la SCLC a impegnarsi
a Chicago dovette essere la presenza e l’attivismo del Coordinating
Council of Community Organizations (CCCO), un’associazione
ombrello che garantiva una base operativa e una rete di contatti già
funzionali e attivi nei principali quartieri della città.
Il problema politico e comunicativo della SCLC era che al Nord i ghetti e
le discriminazioni non erano così evidenti come al Sud e molti bianchi,
pur genericamente antirazzisti, non riuscivano a cogliere la profondità e le
dimensioni dell’ingiustizia sociale. Nel frattempo cresceva di intensità
l’impegno militare americano in Vietnam e, sia pure ancora non
organicamente, il tema finiva per intrecciarsi a quello della lotta alla
discriminazione razziale e alla povertà. Benché non di stretta competenza
della SCLC, il tema esplodeva nel dibattito pubblico e oscurava la
mobilitazione antirazzista. Ma al di là di questa osservazione, King si
convinceva che la questione dell’escalation militare avesse più di qualche
implicazione con i temi della razza e dei diritti.
Nei mesi in cui si contavano a migliaia i feretri rimpatriati dall’Estremo
Oriente, King rafforzava la sua convinzione che il tema del Vietnam
diventasse sempre più centrale e che attraversasse anche la questione dei
diritti civili. Il dilemma politico era evidente: da una parte egli poteva
accentuare la critica alla guerra e alla politica militare di Johnson, subendo
però il contraccolpo dell’accusa di antipatriottismo e di ingenerosità nei
confronti del presidente che aveva firmato la legge sui diritti civili; dall’altra
aveva buone ragioni per tenere bassi i toni sulla politica estera per
concentrarsi su quella che in molti, ad iniziare dai suoi più stretti
collaboratori, ritenevano la sua missione principale, e cioè rappresentare gli
interessi e le richieste della comunità afroamericana, rischiando però di
apparire fuori tempo e fuori luogo in un momento nel quale emergevano
altre priorità.
Era quest’ultima la posizione della dirigenza della SCLC, che nell’agosto
del 1965 approvò una linea strategica che non accoglieva l’istanza pacifista
di King ma ribadiva la centralità, e per molti aspetti l’esclusività, della lotta
al razzismo278. Per King era una sonora sconfitta alla quale, però, non
sembrò dare peso dal momento che a partire dal novembre del 1965, in
una serie di dichiarazioni e conferenze, esplicitò la sua scelta di campo:
Non posso stare fermo di fronte a questa follia – dichiarò ripetutamente in quei giorni
– e osservare la continua escalation della guerra senza parlare contro di essa. Non credo
che la nostra nazione abbia fatto abbastanza per indicare che vuole una soluzione e
[come pastore] sento il mandato, sopra ogni altro dovere, di questa vocazione a cercare
la pace tra gli uomini e a farlo a dispetto dell’isteria e del disprezzo279.
Non sappiamo dire quanta consapevolezza King avesse del prezzo che
questo schieramento avrebbe comportato in termini di calo di popolarità,
ma quel che è certo è che la sua fu una delle prime e delle più autorevoli
voci a schierarsi con nettezza contro l’intervento militare in Vietnam. Ci
pare importante sottolineare che si tratta di posizioni assunte nel 1965,
quando la critica e la mobilitazione antimilitarista era solo agli inizi.
Chicago
La campagna nella metropoli del Nord si sviluppò a partire dai primi mesi
del 1966 anche grazie all’intervento di un nuovo collaboratore, lo studente
in teologia Jesse Jackson. Obiettivo del progetto – denominato Breadbasket,
“borsa della spesa” – era aumentare i guadagni della comunità nera
costringendo gli esercizi commerciali ad assumere personale di colore. Lo
strumento di pressione per raggiungere questo obiettivo era il boicottaggio
dei negozi che mantenevano misure discriminatorie nei confronti degli
afroamericani. La lista dei negozi da boicottare veniva compilata sulla base
di segnalazioni da parte dei pastori delle varie chiese cittadine, che così
formarono una rete capillare di informazione sulla disapplicazione delle
vecchie e delle nuove norme in tema di parità dei diritti. La domenica
mattina questa lista veniva distribuita ai partecipanti al culto e la “borsa
della spesa” si trasformava in una vera e propria “arma nonviolenta” contro
la discriminazione e lo sfruttamento razzista. Nei rapporti tra la SCLC e le
reti locali non ci furono solo rose e fiori. Da una parte e dall’altra vi erano
caratteri forti ma soprattutto vi era un conflitto di priorità: per lo staff di
King l’Operazione Breadbasket era un tassello di un disegno strategico più
generale, mentre per le varie associazioni di Chicago l’obiettivo primario
era l’aumento del reddito degli afroamericani.
A pochi mesi dall’assassinio di Malcolm X, un messaggio distensivo
venne invece da Elijah Muhammad, ormai tornato unico leader dei Black
Muslims della Nation of Islam, che volle incontrare King. Dopo anni di
dura contrapposizione il semplice incontro tra i due leader, avvenuto il 23
febbraio nella residenza di Muhammad, costituiva una clamorosa notizia,
anche perché in passato King aveva sempre trovato buone scuse per negarsi
agli insistenti inviti della Nation of Islam. Premesso che non esistono
verbali di quell’incontro ma soltanto sparuti appunti di alcuni testimoni,
viene da chiedersi quale ne fosse il senso politico. Certamente può
considerarsi come l’atto di omaggio del “giovane” pastore al vecchio
leader, presente sulla scena pubblica da un tempo assai maggiore280, ma ci
pare una ragione debole a fronte della lucidità e della intenzionalità delle
mosse con cui King perseguiva il suo disegno strategico di quel momento,
e cioè radicare un movimento nonviolento di massa anche nel Nord del
Paese. È probabile che King volesse capire meglio la strategia della Nation
of Islam e, soprattutto, contrattare un “patto di non aggressione” con
almeno una frangia del movimento nazionalista nero. In effetti dagli
appunti dei presenti emerge l’idea di un “fronte comune” e di qualche
reciproca concessione nel riconoscimento di alcune ragioni dell’altro281.
Ma le frizioni erano anche interne al nucleo di attivisti della SCLC che
erano stati inviati a Chicago – tra gli altri James Bevel, Andrew Young,
Wyatt T. Walker e Jackson che, benché originario del South Carolina,
ormai da anni studiava al Chicago Theological Seminary e, pur essendo il
più giovane, appariva più radicato e noto dei suoi colleghi. Nonostante
queste tensioni e la cronica penuria di fondi, l’Operazione Breadbasket
decollò con successo. Delle cinque aziende principali che erano finite nel
mirino della protesta, tre accettarono subito di assumere significative quote
di afroamericani; le altre due lo fecero dopo aver subito qualche mese di
boicottaggio. Si calcola che nei primi quindici mesi di operatività, il
progetto produsse 2000 nuovi posti di lavoro e un incremento di 15
milioni di dollari nel reddito della comunità afroamericana282.
Poi Mosè salì dalle steppe di Moab sul monte Nebo [...].
Il Signore gli mostrò tutto il paese [...] tutto il paese di Giuda fino al Mar Mediterraneo
[...]. Il Signore gli disse: «Questo è il paese per il quale io ho giurato ad Abramo, a Isacco
e a Giacobbe: “Lo darò alla tua discendenza”. Te l’ho fatto vedere con i tuoi occhi, ma
tu non vi entrerai!».
Deuteronomio
Con una metafora militare King mirava e colpiva al cuore la “guerra alla
povertà”, solennemente dichiarata da Johnson nel 1964305, giudicando del
tutto inadeguati i mezzi con i quali il presidente intendeva combatterla.
Già in passato riforme frammentarie e improvvisate avevano dimostrato
che occorrevano misure strategiche in grado di ridurre il tasso di povertà.
«Io sono convinto che l’approccio più semplice si dimostra il più
rivoluzionario [...] – era la proposta di King –, un sussidio annuale
garantito [...]. La nostra enfasi deve spostarsi dall’attenzione esclusiva a
mettere la gente a lavorare a quella che consente alla gente di
consumare»306.
Quasi come una meteora in quei mesi conclusivi del 1966 si sparse la
voce di una possibile candidatura di King alla Casa Bianca in occasione
delle presidenziali del 1968. Ipotesi immediatamente accantonata sia per
l’altissimo rischio che la candidatura non decollasse, sia per gli effetti
deleteri che avrebbe prodotto sul movimento. Non era tempo di azzardi,
semmai di una riflessione seria e rigorosa sullo stato del movimento e sulle
sue strategie alla luce di quella evoluzione del pensiero di King che si era
esplicitata a Frogmore. L’occasione venne tra gennaio e febbraio del 1967,
nel corso di una breve vacanza in Giamaica nella quale King,
accompagnato dalla moglie Coretta, poté dedicarsi alla versione finale del
suo quarto e ultimo libro, Dove stiamo andando: verso il caos o la comunità?307.
Relazioni pericolose
Da appunti e da qualche confessione emerge che erano giorni difficili,
complicati da ormai acclarate relazioni extraconiugali che gli toglievano
serenità e lo portavano a pensare addirittura al momento della sua morte.
Nella sua autobiografia, Ralph Abernathy che insieme a Martin ebbe
modo di passare più tempo di chiunque altro, dedica alcune pagine al
tema. Benché strumentalizzate a fini commerciali, sono righe rispettose di
King e del suo diritto alla privacy e nel complesso tendono a giustificare
comportamenti determinati dallo stress, dalla continua sovraesposizione e
dalle lunghe assenze da casa. Abernathy racconta anche un episodio
interessante, purtroppo non datandolo ma forse collocabile al 10 luglio
1962, quando insieme a King fu arrestato per aver organizzato delle
proteste ad Albany (New York). Finito in cella insieme a Martin, Ralph
ritenne di non avere migliore occasione per affrontare di petto il tema che
gli provocava tanta sofferenza personale e politica: «Martin, non puoi
nascondere la natura di certe amicizie [...]. Quindi qualunque sia la
relazione con lei – il riferimento è a una donna con cui King intratteneva
una relazione – devi ridimensionarla. Con gli uomini di Hoover nascosti
sotto il letto, semplicemente non puoi continuare così». «Seduto sul bordo
della branda – così Abernathy descrive la reazione del suo collega e
compagno – rimase a lungo a fissare il muro [...] quando rispose aveva un
tono cordiale ma fermo. “Ralph, quello che dici può essere giusto, ma non
mi importa. Né mi preoccupo di quello che il signor Hoover pensa o dice.
L’FBI può fare quello che vuole ma non ho alcuna intenzione di troncare
questa relazione”. Annuii e cambiai argomento. Fui deluso della sua
reazione ma la capii»329.
Coretta non poteva non sapere ma reagì con distacco, per dirla con
Abernathy, sollevandosi «al di sopra di tutti i meschini tentativi di rovinare
il [...] matrimonio, rifiutandosi addirittura di dare spazio a simili
pensieri»330. «Se anche avessi avuto qualche sospetto – dichiarò anni dopo –
non lo avrei detto a Martin. Non avrei voluto sovraccaricarlo di problemi
così triviali [...] tutti gli altri affari non avevano spazio nella profonda
relazione di cui noi godevamo»331.
In vari sermoni King ha fatto riferimento alla sua condizione di
“peccatore”, e non potremo mai capire se con quella espressione egli abbia
inteso confessare una colpa o richiamare il più generico principio teologico
di una condizione umana necessariamente segnata dal peccato. Certo, vari
autorevoli esegeti del suo pensiero optano per la prima ipotesi332, ritenendo
che King abbia voluto rendere una pubblica confessione delle proprie
colpe pronunciando – come fece in alcuni sermoni alla Ebenezer Church
di Atlanta, che potremmo definire la “chiesa di famiglia” – parole che
potrebbero confermarla:
Non avete bisogno di uscire da qui oggi dicendo che Martin Luther King è un santo.
Io voglio che voi sappiate che io sono un peccatore come tutti i figli di Dio [...]. Se
posso lasciarvi qualcosa, stamattina, lasciate che vi esorti ad essere sicuri di navigare sulla
robusta barca della fede. Il vento sta per soffiare. Arrivano le tempeste della delusione.
Arrivano le agonie e le angosce della vita. Ma siate sicuri che la vostra barca sia forte, e
siate anche molto sicuri di avere un’ancora. In tempi come questi, c’è bisogno di
un’ancora. E siate molto sicuri che la vostra ancora regga.
Sarà buio a volte, e sarà triste e faticoso, e le tribolazioni arriveranno [...].
C’è una schizofrenia, come la chiamerebbero gli psicologi o gli psichiatri, dentro tutti
noi. Ci sono momenti in cui tutti sappiamo che in qualche modo in noi ci sono un Mr
Hyde e un Dottor Jekyll. [...] Dio non ci giudica per i singoli errori che facciamo, ma
per la piega generale che diamo alla nostra vita333.
Chiudendo il cerchio
Quel viaggio fu l’ultimo miglio di un condannato a morte. In quel
frangente politico King era isolato come mai era accaduto e il crollo del
consenso si registrava soprattutto in quelle componenti liberal che solo
pochi anni prima lo avevano osannato e celebrato come il leader
nonviolento e moderato, quello che parlava citando la Bibbia e la
Costituzione e che, a suo modo, rinverdiva la radicata retorica
dell’eccezionalismo americano: l’idea, cioè, che la storia delle colonie
americane che si liberarono dal colonialismo inglese e costituirono il
nucleo degli Stati Uniti di oggi non si iscriva in una semplice vicenda
geopolitica, ma sia il frutto di un piano di Dio che ha benedetto quella
terra e quel popolo349. Diversamente da altri leader – a iniziare da Malcolm
X –, King aveva saputo riappropriarsi di questi moduli retorici
fondamentali della tradizione americana, applicandoli però alla condizione
degli afroamericani. Egli non contestò mai il primato morale di una società
nata a partire da colonie puritane mosse dall’onerosa vocazione a costruire
una comunità civile sorretta dai principi evangelici; semmai ne denunciò
l’incoerenza determinata dalla schiavitù prima, dalla segregazione poi e
infine dall’ingiustizia sociale che, in percentuale assai maggiore di quanto
non accadesse ai bianchi, condannava gli afroamericani alla povertà. La
guerra in Vietnam fu il detonatore che fece scoppiare questa eccezionale
contraddizione e che indusse King a denunciare non più il singolo
provvedimento o particolari decisioni politiche ma il “sistema” americano
nel suo complesso. La parola chiave che meglio ci aiuta a comprendere
questo processo è, probabilmente, “tradimento”. King denunciava che,
con le sue politiche razziste e militariste, l’America tradiva le promesse
solenni contenute nella Dichiarazione d’indipendenza e nella
Costituzione. Al tempo stesso egli si sentì tradito da settori dell’opinione
pubblica pronti a seguirlo quando predicava la nonviolenza e l’integrazione
razziale ma scettici, se non allarmati, quando chiese loro una mobilitazione
contro la guerra e l’ingiustizia sociale. Le critiche degli amici di un tempo,
sempre più pesanti e difficili da accettare, dovettero ferirlo più delle
invettive razziste o dell’arroganza degli apparati di sicurezza dello Stato che
da sempre lo avevano trattato alla stregua di un pericolo pubblico.
I titoli polemici, se non ironici o insolenti, del «New York Times» e di
altre voci liberal, insieme alle critiche di esponenti democratici impegnati a
sostenere patriotticamente lo sforzo bellico, scavarono attorno a King un
solco che in soli due anni lo isolò progressivamente, facendone un
bersaglio sin troppo facile. Pur avvertendo il rischio dell’isolamento, King
scelse di proseguire per la sua strada e in vari discorsi pronunciati nel 1967
cercò di spiegare il senso della sua radicalizzazione. A chi gli ricordava i
gloriosi tempi di Montgomery, Birmingham o Selma, egli replicava che la
situazione era cambiata e, in un certo senso, si era fatta molto più
complicata:
Oggi è più difficile – disse all’Università di Stanford in un discorso troppo poco citato
ma eccezionalmente rivelatore dei suoi pensieri di quei mesi –, perché ora stiamo
lottando per una vera uguaglianza. È molto più facile integrare chi siede al bancone di
una mensa piuttosto che garantire un reddito sostenibile e un buon lavoro. È molto più
facile garantire il diritto di voto che garantire il diritto a vivere in abitazioni dignitose e
sane. È molto più facile integrare un parco pubblico che rendere reale un’educazione
autentica, di qualità e integrata. E così oggi stiamo lottando per qualcosa che dice che
chiediamo un’eguale uguaglianza. Non è semplicemente una lotta contro il
comportamento estremista nei confronti dei neri. E sono convinto che molte delle
stesse persone che ci hanno sostenuto nella lotta nel Sud non sono disposte ad andare
fino in fondo ora [...]. Ho visto tante persone che hanno sostenuto moralmente e
persino finanziariamente quello che stavamo facendo a Birmingham e Selma, persone
davvero indignate contro il comportamento estremista di Bull Connor e Jim Clark
verso i neri, ma non disposte a credere nella vera uguaglianza per i neri. E penso che
questo sia ciò che dobbiamo vedere ora, e questo è ciò che rende la lotta molto più
difficile.
Era l’America dei portoricani, degli indiani, dei bianchi poveri residenti
nelle zone depresse. Ma soprattutto dei neri afroamericani. Una comunità
numerosa e coesa che però, in larga misura, in quel frangente non capì il
suo leader e non condivise il passaggio da un’agenda centrata sui diritti
civili e le rivendicazioni sociali a un’azione contro la guerra in Vietnam.
Per molti afroamericani, inserendo la questione razziale nella più ampia
questione sociale, le si toglieva centralità e rilevanza. Altre critiche
arrivavano anche dalla sinistra dei settori più radicali di un movimento
urbano e studentesco che King faticava a egemonizzare ma che pure, come
abbiamo cercato di dimostrare, si sforzava di capire. Il reverendo che nel
mattino del 3 aprile del 1968 volava da Atlanta a Memphis era insomma
una persona moralmente provata e politicamente isolata351, ma
decisamente orientata ad aprire una nuova fase del civil rights movement.
Ogni minuto delle poche ore trascorse tra l’arrivo in Tennessee e la sua
uccisione è noto e documentato. Sappiamo che arrivò in albergo alle 11.20
e prese possesso della stanza numero 306 al secondo piano, dotata di un
lungo balcone; pochi minuti dopo iniziò un briefing con il collega James
Lawson, quello che l’aveva invitato a Memphis a sostenere la lotta dei
netturbini. Nei pressi dell’hotel c’era un gran movimento di agenti
dell’FBI che diedero da pensare a King e ai suoi collaboratori i quali, alle
15.17, iniziarono una riunione di programmazione. Dopo un momento di
relax, la partecipazione – come si è visto, controvoglia – alla
manifestazione al Mason Temple, dove pronunciò la sua strana profezia di
morte352. Poi la lunga e movimentata serata353. Alle 9 del mattino dopo, un
briefing con Andrew Young e poi l’incontro con gli organizzatori della
mobilitazione. Affettuoso il tributo di Jim Lawson che, rivolto ai
giornalisti, dichiarò: «Per quanto mi riguarda, King è il primo profeta degli
Stati Uniti e secondo me è, se non altro, la nostra più potente voce di
speranza».
Alle 13.05 King scende nella hall e incontra suo fratello. Segue una
conversazione informale con alcuni colleghi di Memphis, tra i quali
Samuel Billy Kyles, che lo invita a cena per la sera. Qualche minuto prima
delle 18 va a prendere una boccata d’aria sul balcone del secondo piano.
«Dottor King, fa freschetto. Si metta un soprabito», furono le ultime parole
del suo autista di quella sera, Solomon Jones. Alle 18.01 del 4 aprile 1968
un colpo di fucile sparato da James Earl Ray uccise il reverendo King.
Meno di due mesi dopo, il 6 giugno, fu ucciso anche Robert F. Kennedy.
Non fu la fine dell’America né delle lotte per i diritti civili, per la pace e la
giustizia sociale. Ma quel movimento, che era stato guidato da un leader
con la Bibbia in una mano e la Costituzione degli Stati Uniti nell’altra, non
fu più lo stesso.
298 Cartosio, I lunghi anni Sessanta, cit.
299 Garrow, Bearing the Cross, cit., p. 533.
300 «The New York Times», 14 ottobre 1966.
301 Michael K. Honey, Going Down Jericho Road: The Memphis Strike, Martin
Luther King’s Last Campaign, Norton & Co., New York 2007, p. 97.
302 King, Stride Toward Freedom, cit., p. 82.
303 David J. Garrow, The FBI and Martin Luther King Jr: From “Solo” to Memphis,
Norton, New York 1981, p. 179. Il file FBI di riferimento è il 100-438794-1643,
dedicato alla SCLC; cfr. anche Id., Bearing the Cross, cit., pp. 536 e 537, note 11 e
13 del cap. 10.
304 Garrow, Bearing the Cross, cit., p. 539.
305 «Questa amministrazione oggi – dichiarò Johnson nel Discorso sullo stato
dell’Unione l’8 gennaio 1964 –, qui e ora, dichiara guerra incondizionata alla
povertà in America. Invito questo Congresso e tutti gli americani a unirsi a me in
questo sforzo. Non sarà una lotta breve o facile, non sarà sufficiente una singola
arma o strategia, ma non ci fermeremo finché questa guerra non sarà vinta». Cfr.
Martha J. Bailey, Sheldon Danzinger (a cura di), Legacies of the War on Poverty,
Russell Sage, New York 2013.
306 Garrow, Bearing the Cross, cit., p. 539.
307 Martin Luther King, Where Do We Go from Here: Chaos or Community?,
Beacon Press, Boston 1967; un’edizione riveduta è stata pubblicata nel 2010,
sempre per i tipi della Beacon Press. L’edizione italiana è stata pubblicata nel 1970
nella collana della SEI che annovera anche altri testi kinghiani.
308 Martin Luther King, Dove stiamo andando, cit., p. 122.
309 Ibidem.
310 Andrew Kopkind, Soul Power, in «The New York Review of Books», 24
agosto 1967, pp. 3-6.
311 Autore di Race Matters, cit., un testo di grande rilievo nel dibattito politico sul
razzismo in America. Nonostante un taglio politicamente molto radicale, il
volume fu ben accolto al suo apparire dalla critica. Ad esempio il «Washington
Post» scrisse che il libro conteneva dei passaggi «commoventi quanto i sermoni di
Martin Luther King, profondi quanto The Souls of Black Folk di Du Bois, esaltanti
nella loro prospettiva di liberazione quanto i primi saggi di James Baldwin», David
Nicholson, Race Culture and Morality, in «The Washington Post», 13 giugno 1993
e Manning Marable, La crisi del colore e della democrazia, in Cartosio (a cura di), Senza
illusioni, cit., p. 58.
312 West (a cura di), The Radical King, cit., p. XV.
313 Oates, Let the Trumpet Sound, cit., p. 433.
314 Martin Luther King, Oltre il Vietnam, cit., p. 7.
315 Ivi, p. 11.
316 Ivi, p. 12.
317 Ivi, p. 13.
318 Ivi, p. 48.
319 Il 12 agosto del 1965, in occasione dell’Assemblea annuale della SCLC, King
chiese ufficialmente la fine dei bombardamenti in Vietnam e l’intervento di
mediazione delle Nazioni Unite: «ciò che si chiede – affermò – è un piccolo passo
che possa determinare un nuovo spirito di mutua fiducia». Tornò sul tema qualche
mese dopo affermando: «Come ministro del Vangelo, considero la guerra un male.
Io devo gridarlo, quando vedo la guerra che monta», Opposes Vietnam War, in «The
New York Times», 11 novembre 1965.
320 Dr. King’s Error, editoriale del 7 aprile 1967.
321 A Tragedy, in «The Washington Post», 6 aprile 1967.
322 Dr. King’s Disservice to His Cause, in «Life», 21 aprile 1967.
323 N.A.A.C.P. Decries Stand of Dr. King on Vietnam; Calls it a “Serious Tactical
Mistake” to Merge Rights and Peace, in «The New York Times», 11 aprile 1967.
324 Peter Knight, Conspiracy Theories in American History: An Encyclopedia, vol. 1,
ABC Clio, Santa Barbara, California, 2003, p. 408.
325 Beyond Vietnam: The MLK Speech that Caused an Uproar, speciale di «USA
Today», 16 febbraio 2018.
326 Intervista a Clayborne Carson, ivi.
327 Garrow, Bearing the Cross, cit., p. 555.
328 Sermone pronunciato nella New Covenant Baptist Church di Chicago il 9
aprile 1967, in Lewis V. Baldwin, Rufus Burrow (a cura di), The Domestication of
Martin Luther King Jr., Cascade Books, Eugene, Oregon, 2013, p. 130.
329 Abernathy, ...e le mura crollarono, cit., p. 308.
330 Ivi, p. 306.
331 Garrow, Bearing the Cross, cit., p. 374.
332 Così Michael Eric Dyson, “I May Not Get There with You”: The True Martin
Luther King, Jr., in John A. Kirk (a cura di), Martin Luther King Jr. and the Civil
Rights Movement: Controversies and Debates, Palgrave Macmillan, New York 2007,
p. 170.
333 Martin Luther King, Unfulfilled Dreams, sermone pronunciato il 3 marzo
1968, https://kinginstitute.stanford.edu/king-papers/documents/unfulfilled-
dreams (consultato il 23 ottobre 2020).
334 È riferito da Abernathy, nella sua autobiografia, ...e le mura crollarono, cit., p.
306.
335 È nota, ad esempio, la celebre quanto rozza falsificazione fotografica che
intendeva accreditare la partecipazione di King a una scuola di formazione
comunista mentre il contesto era quello della Highlander Folk School di
Monteagle, Tennessee, e lo scatto ritraeva i partecipanti a un convegno in
occasione del Labor Day del 1957.
336 Beverly Gage, What an Uncensored Letter to M.L.K. Reveals, in «The New York
Times Magazine», 11 novembre 2014, ripubblicato il 25 giugno 2017; Richard
Gid Powers, Broken: The Troubled Past and Uncertain Future of the FBI, Free Press,
New York 2004, p. 245.
337 L’ultimo set di documenti è stato esaminato nel 2019 da David Garrow, come
si è detto uno dei più autorevoli e rigorosi studiosi di King, che è arrivato a
definire il reverendo un «libertino del sesso» e a denunciare episodi in apparenza
assai gravi. Si tratta però di materiali FBI “sospesi” e quindi ricchi di chiose e note
marginali non ufficiali, la cui piena attendibilità è ancora da verificare. Cfr. David
Garrow, The Troubling Legacy of Martin Luther King, in «Standpoint», 30 maggio
2019. Si noti che la pubblicazione è avvenuta su un giornale inglese non
particolarmente autorevole. Sulle polemiche determinate da queste rivelazioni di
Garrow, cfr. David Greenberg, How to Make Sense of the Shocking New MLK
Documents, in «Politico Magazine», 4 giugno 2019.
338 Wallis, America’s Original Sin, cit.
339 Garrow, The FBI and Martin Luther King, Jr., cit.; Rodney P.J. Carlisle,
Geoffrey Golson, America in Revolt During the 1960s and 1970s, ABC-CLIO, Santa
Barbara, California, 2008, in particolare p. 91.
340 Garrow, Bearing the Cross, cit., p. 581.
341 Ibidem.
342 Martin Luther King, intervista alla NBC del 7 maggio 1967,
https://www.nbcnews.com/nightly-news/king-1967-my-dream-has-turned-
nightmare-flna8C11013179 (consultato il 20 aprile 2020).
343 Cfr. cap. IV, p. 131.
344 Martin Luther King, sermone di Natale alla Ebenezer Church di Atlanta, 24
dicembre, in Naso (a cura di), L’“altro” Martin Luther King, cit., p. 176.
345 Cfr. supra, p. 149.
346 Barbara Arneil, Domestic Colonies: The Turn Inward to Colony, Oxford
University Press, Oxford-New York 2017, p. 8.
347 Il testo originale al sito https://www.crmvet.org/docs/6712_mlk_ppc-anc.pdf
(consultato il 24 aprile 2020).
348 Debbie Elliott, When MLK Was Killed, He Was In Memphis Fighting For
Economic Justice, https://www.npr.org/2018/03/28/597308044/the-memphis-
sanitation-workers-strike-kings-last-cause-for-economic-justice (consultato il 20
aprile 2020).
349 La letteratura sull’argomento è assai ampia. Ci limitiamo a segnalare lo storico
volume di Tiziano Bonazzi, Il sacro esperimento. Teologia e politica nell’America
puritana, il Mulino, Bologna 1970; Emilio Gentile, La democrazia di Dio. La religione
americana nell’era dell’impero e del terrore, Laterza, Roma-Bari 2006; Marco Nese, Gli
eletti di Dio. Lo spirito religioso dell’America, Editori Riuniti, Roma 2008.
350 Martin Luther King, The Two Americas, discorso del 14 aprile 1967,
pronunciato alla Stanford University, https://kinginstitute.stanford.edu/news/50-
years-ago-martin-luther-king-jr-speaks-stanford-university. King pronunciò
discorsi assai simili e con lo stesso titolo anche in altre occasioni, ad esempio alla
Grosse Point High School, nell’area di Detroit, il 14 marzo del 1968, meno di un
mese prima di essere ucciso.
351 Joseph Rosenbloom, Redemption. Martin Luther King Jr.’s Last 31 Hours,
Beacon Press, New York 2018.
352 Cfr. supra, p. 31.
353 Cfr. supra, p. 21, nota 3.
Ringraziamenti
1929 15 gennaio. Ad Atlanta, Georgia, nasce Il crollo della borsa di New York determina una
Michael King (dal 1934, Martin Luther) drammatica recessione in tutto il Paese, che ferma la
King Jr. crescita economica seguita alla prima guerra
mondiale.
1955 5 giugno. Consegue il dottorato in Filosofia e 1° dicembre. Rosa Parks infrange le norme sulla
teologia sistematica presso l’Università di segregazione razziale sugli autobus di Montgomery
Boston. e viene arrestata.
17 novembre. Nasce la prima figlia, Yolanda 5 dicembre. Inizia il boicottaggio della compagnia
Denise. degli autobus di Montgomery.
5 dicembre. Nei giorni della mobilitazione di 10 dicembre. La compagnia degli autobus sospende
Montgomery seguita all’arresto di Rosa il servizio a Montgomery.
Parks, all’unanimità viene nominato
presidente della MIA.
1956 26 gennaio. King viene arrestato e poi 4 giugno. La Corte distrettuale sentenzia che la
rilasciato su cauzione per eccesso di velocità. segregazione razziale sugli autobus è
30 gennaio. Una bomba esplode sotto il incostituzionale.
porticato della casa King. 13 novembre. La Corte suprema conferma la
21 dicembre. È tra i primi a salire sugli sentenza della Corte distrettuale.
autobus desegregati di Montgomery. 21 dicembre. Gli autobus di Montgomery sono
desegregati.
1957 27 gennaio. Una bomba viene trovata Settembre. Il presidente Eisenhower federalizza la
inesplosa sul porticato anteriore della casa di Guardia nazionale dell’Arkansas per scortare nove
King. studenti di colore in una scuola interamente
14 febbraio. A New Orleans si costituisce frequentata da bianchi.
ufficialmente la SCLC. King è il presidente.
6 marzo. Insieme alla moglie partecipa alla
cerimonia per l’indipendenza del Ghana,
dove incontra casualmente il vicepresidente
Nixon.
17 maggio. Presso il Lincoln Memorial di
Washington pronuncia il discorso Dateci il
voto.
23 ottobre. Nasce il secondo figlio, Martin
Luther III.
1960 24 gennaio. Con la famiglia si trasferisce ad 1° febbraio. Primo sit-in degli studenti di
Atlanta, dove diventa co-pastore della Greensboro, North Carolina.
Ebenezer Church insieme a suo padre. 15 aprile. Per promuovere la mobilitazione tra gli
24 giugno. Incontra il candidato democratico studenti a Raleigh, North Carolina, viene costituito
alle presidenziali, John F. Kennedy. lo SNCC. Keynote speakers dell’evento sono King e il
19 ottobre. Nel corso di un sit-in ad Atlanta reverendo James Lawson.
viene arrestato per aver oltrepassato le
transenne che limitavano l’azione dei
dimostranti. L’accusa cade pochi giorni dopo.
1961 Nasce il terzo figlio, Dexter Scott. 4 maggio. Ha luogo la prima azione dei freedom riders,
Maggio. Iniziano i freedom rides e King gruppo nato all’interno del CORE, che partono da
sostiene le prime azioni che si svolgono a Washington DC con un pullman della compagnia
Montgomery. Greyhound.
15 dicembre. In risposta a una sollecitazione 14 maggio. Il pullman viene incendiato nei pressi di
da Albany, Georgia, King e i suoi avviano Anniston, Alabama; i riders vengono poi picchiati da
una serie di azioni contro la permanenza della gruppi razzisti al loro arrivo a Birmingham. Giunti
segregazione. infine a Jackson, Mississippi, vengono tenuti in
arresto per periodi varianti da 40 a 60 giorni.
1962 27 febbraio. King è processato e condannato 3-5 maggio. Per fermare le marce di protesta a
per le proteste ad Albany. Birmingham, Eugene “Bull” Connor, capo della
2 maggio. Diverse associazioni e chiese di sicurezza di Birmingham, ordina l’uso di cani e
Birmingham, Alabama, chiedono e idranti contro i manifestanti, bambini compresi.
ottengono il sostegno di King per la loro 13 maggio. Dopo giorni di scontri e un attentato
mobilitazione antirazzista. all’albergo che ospitava King, a seguito dell’invio di
27 luglio. King è arrestato per aver truppe federali da parte del presidente Kennedy,
partecipato a una veglia di preghiera nei viene ristabilito l’ordine a Birmingham.
pressi del municipio di Albany e per aver 20 maggio. La Corte suprema dichiara
ostruito il marciapiede. incostituzionali le norme di segregazione della
Settembre. King pubblica il libro La forza di popolazione approvate a Birmingham.
amare, ancora una volta edito da Harper and 11 giugno. Il governatore razzista dell’Alabama,
Row. George Wallace, si oppone fisicamente all’ingresso
degli studenti di colore nell’università locale. La
situazione si sbloccherà solo dopo che il presidente
Kennedy avrà posto sotto il potere federale la
Guardia nazionale dell’Alabama.
20 settembre. Lo studente nero James Meredith
cerca di iscriversi all’Università del Mississippi. Le
autorità accademiche respingono l’iscrizione, che
viene però resa valida dalla Corte suprema.
1° ottobre. Il primo studente afroamericano entra
nell’Università del Mississippi, scortato da guardie
federali.
1963 28 marzo. Nasce la quarta e ultima figlia di 22 novembre. Il presidente John F. Kennedy viene
Martin Luther e Coretta King, Berenice. ucciso a Dallas.
Marzo-aprile. A seguito della sua
partecipazione alle azioni di protesta a
Birmingham, viene recluso.
16 aprile. Scrive la Lettera dal carcere di
Birmingham.
23 giugno. King guida una marcia “per la
libertà” a Detroit alla quale partecipano
125.000 persone. È la prova generale della
marcia per il lavoro e la libertà convocata a
Washington.
28 agosto. 250.000 persone partecipano al
più ampio raduno di massa per i diritti civili.
King pronuncia il suo discorso più famoso, I
have a dream.
1965 2 febbraio. Viene arrestato a Selma, Alabama, 21 febbraio. A New York viene ucciso Malcolm X,
durante una manifestazione per il diritto di già leader dei Black Muslims, poi convertitosi
voto. all’islam sunnita.
25 marzo. King parla a conclusione della 7 marzo. A Selma, Alabama, un gruppo di
marcia da Selma a Montgomery. Secondo dimostranti tra cui Hosea Williams della SCLC
varie fonti è in quella circostanza che We shall viene attaccato dalla polizia mentre attraversa il
overcome diventa l’“inno” del movimento. Pettus Bridge per raggiungere Montgomery.
Luglio. King e il suo staff iniziano a 9 marzo. Attentato razzista contro il pastore della
pianificare un intervento a Chicago. Chiesa universalista unitariana James Reeb. Bianco,
intendeva partecipare alla marcia di protesta da
Selma a Montgomery.
15 marzo. Il presidente Johnson si rivolge al Paese
per annunciare il Voting Rights Bill che presenterà al
Congresso due giorni dopo. Conclude il suo
discorso con l’espressione We shall overcome, che
richiama il canto più popolare del civil rights
movement.
21-25 marzo. In un clima di grande tensione ha
finalmente luogo la marcia da Selma a Montgomery
che inizia con 3000 persone. Alla fine i dimostranti
saranno almeno 25.000.
25 marzo. A conclusione della marcia, un gruppo di
suprematisti bianchi uccide Viola Liuzzo, una donna
bianca che aveva partecipato alla marcia.
6 agosto. Il presidente Johnson firma il Voting Rights
Act.
11-16 agosto. Rivolta del ghetto di Watts, a Los
Angeles. Decine di vittime e milioni di dollari di
danni.
1966 Gennaio. Si trasferisce per alcuni mesi a 6 giugno. Lo studente James Meredith viene ferito
Chicago per partecipare direttamente a una mentre compie la “Marcia contro la paura” da
Memphis, Tennessee, a Jackson, Mississippi.
campagna contro la povertà e la Giugno. Stokely Carmichael, preso il controllo
discriminazione abitativa subita dai neri. dello SNCC, lancia lo slogan Black Power.
23 febbraio. Incontra Elijah Muhammad,
ormai leader incontrastato dei Black Muslims
dopo l’uccisione di Malcolm X.
16 maggio. Dopo essersi pronunciato con
forza contro la guerra in Vietnam, accetta la
copresidenza dell’associazione Clergy and
Laity Concerned about Vietnam.
6 giugno. Dopo il ferimento di James
Meredith, insieme ad altri continua la sua
simbolica marcia per i diritti.
1967 Gennaio. In Giamaica King conclude la 12-17 luglio. Violenti scontri tra polizia e
scrittura del suo ultimo libro, Where Do We dimostranti a Newark, New Jersey, alla fine dei
Go from Here? quali si contano 43 vittime.
4 aprile. A New York, nella cornice della
grandiosa Riverside Church, pronuncia un
altro discorso di grande importanza contro la
guerra in Vietnam.
30 ottobre. Viene condannato a 4 giorni di
detenzione per fatti risalenti alle proteste di
Birmingham del 1963.
27 novembre. Lancia la proposta di una
“Campagna dei poveri” da concludersi con
una marcia a New York.
1968 28 marzo. A Memphis, partecipa a una 12 febbraio. A Memphis inizia uno sciopero dei
marcia di protesta a sostegno dei netturbini. netturbini che protestano per ottenere aumenti
Scoppiano degli scontri e alla fine si contano salariali e migliori condizioni di lavoro. I netturbini
un decesso e cinquanta feriti. si rivolgono a King per un sostegno alla loro causa.
3 aprile. Pronuncia il suo ultimo discorso, I 6 giugno. In seguito a un attentato subito nel corso
have been on the Mountaintop. della campagna elettorale, a Los Angeles muore
4 aprile. Mentre si affaccia dal balcone del Robert Kennedy, candidato alle presidenziali.
Lorraine Motel per salutare degli amici, viene
ucciso con un singolo colpo di fucile sparato
da James Earl Ray.