Sei sulla pagina 1di 4

ALL'OMBRA DELLE ALTRUI RIVOLUZIONI

La parola “rivoluzione” CAPITOLO 1

Negli ultimi giorni di gennaio del 1967, la diciottesima edizione del festival di Sanremo, segnata dal
suicidio
di Luigi Tenco, aveva diffuso le note e il testo di una canzone dal titolo inequivocabile: “LA
RIVOLUZIONE”,
scritta da Mogol ed eseguita da Pettenati. Non incontrò il favore del pubblico, la rivoluzione immaginata
da
Mogol veniva combattuta senza armi e senza cannoni, senza morti né feriti, ma combattuta con le armi
dell’amore e del sorriso.
Negli stessi giorni riscuoteva successo “CONTESSA”, scritta da Pietrangeli. Questa parlava di operai che
occupavano una fabbrica e prendeva spunto da uno dei primi episodi di occupazione universitaria,
incitando a prendere la falce e a picchiare.
Dunque in quegli anni era chiaro che l’idea della rivoluzione fosse commerciabile e che i gusti dei giovani
stessero velocemente evolvendo verso un modello guerrigliero, piuttosto che l’hippy che aveva
caratterizzato gli anni precedenti.

PRIMA ‘68: la parola “rivoluzione” offriva una possibilità di definizione dei profondi sconvolgimenti
portati
dai giovani in ambito culturale, nei comportamenti individuali, nei costumi sessuali. Veniva usata
prevalentemente da osservatori esterni per dare un’unità di misura al cambiamento introdotto dal
movimento giovanile; l’idea era quella di una rivoluzione nonviolenta.
DOPO ‘68: la parola passò ad indicare un processo di sovvertimento degli assetti politici ed economici (il
cosiddetto sistema), governato da appartenenze ideologiche e, in alcuni casi, da logiche militari. Venne
usata largamente dai protagonisti stessi della contestazione ad indicare un’aspettativa di cambiamento;
si voleva solo una rivoluzione.

In quei mesi convulsi che precedettero l’evento Sessantotto, le due diverse idee della rivoluzione
convivevano mescolate nei comportamenti a volte contraddittori dei giovani, nei loro slogan, nella loro
ansia di cambiamento. Alcune clamorose manifestazioni segnalarono ancora la significativa presenza di
una cultura nonviolenta nel mondo della contestazione giovanile, che riusciva a farsi sentire in mezzo a
slogan di guerriglia, prima di spegnersi poco a poco.
Eventi importanti per il movimento nonviolento furono:
- La protesta contro la parata militare del 2 giugno 1967, avvenuta pochi giorni dopo lo sgombero
della polizia di un campeggio milanese abitato da hippies;
-La manifestazione del 4 novembre del ’67 per la pace in Vietnam, preceduta dall’operazione della
polizia che fece piazza pulita di nonviolenti, capelloni e radicali.
In parte a causa del fallimento dei movimenti nonviolenti e all’eccessiva violenza con cui reagivano gli
Stati del mondo, cresceva insofferenza, rabbia e frustrazione, per cui erano diventate necessarie armi
e violenza per sovvertire lo stato delle cose.
La parola “rivoluzionario” CAPITOLO 2
L’abuso del termine “rivoluzione” e di parole appartenenti al medesimo campo semantico rivela,
dunque, il
suo profondo radicamento nel linguaggio politico e dà la misura di quanto fosse ormai diffusa
l’omologazione culturale rispetto a questo termine; che era diventato un passaggio obbligato di ogni
rappresentazione individuale o collettiva. Naturalmente ognuno a suo modo, ognuno con i suoi metodi
ed
obiettivi, ma ugualmente impegnati in una corsa a chi fosse più rivoluzionario, a chi fosse più impegnato
nel
compito di cambiare il sistema, a chi proponesse un modello di uomo più distante da quello dominante.

Il mondo cattolico: nel maggio francese (del ‘68) “Civiltà cattolica” affermava che il cristianesimo fosse
profondamente rivoluzionario, sia nel versante religioso, sia in quello sociale. Qualche mese dopo, nella
stessa rivista si parlava di “rivoluzione cristiana dell’amore”, per cui il modello maoista o castrista era
considerato inaccettabile per il ricorso alla violenza distruggitrice come metodo rivoluzionari

Il Partito comunista: nel corso dei mesi precedenti al ’68, mentre la protesta giovanile montava
sconvolgendo le università e le piazze italiane, la stampa di partito fu invasa da una sovrabbondanza di
parole spese a ricordare che il Partito comunista era il soggetto più accreditato per raccogliere la
tradizione
insurrezionalista delle masse popolari e guidarle sulla strada della rivoluzione.
Tuttavia, l’allora Segretario del PCI, Longo non voleva far sfociare i conflitti in una rivoluzione violenta.
Mentre Berlinguer riteneva necessaria una rivendicazione della dimensione rivoluzionaria del Partito.

Il neofascismo e la rivoluzione anticomunista: già a partire dal ’66 avevano iniziato a moltiplicarsi dei
gruppi
di estrema destra, tra cui l’ASAN, che aveva sparso volantini nella sede romana dell’Unione Cristiana
contro
il gesto di disobbedienza civile (“gli uomini combattono”), o Ordine Nuovo, che aveva fatta stampare
volantini con la scritta cubitale “ERA ORA”, per festeggiare la presa del potere dei colonnelli in Grecia nel
’67. Pochi mesi dopo venivano lanciati volantini di matrice ideologica opposta ai precedenti in cui si
esortava a una “RIVOLUZIONE ANTICOMUNISTA”, per liberare la Grecia.
Se nella sinistra estrema l’idea della rivoluzione si veniva progressivamente definendo con i numerosi
focolai di guerriglia divampati in tutto il pianeta, per l’estrema destra si ricollegava all’idea di rivoluzione
fascista con i colpi di Stato avvenuti vicino ai confini italiani, per cui quella rappresentava un surrogato
della religione tradizionale.

I non violenti: da parecchi anni ormai i movimenti nonviolenti tendevano a rappresentare la propria
sceltacome rivoluzionaria, anzi, come la sola vera rivoluzione possibile; ciò era spesso ribadito da
Capitini,l’austero interprete delle teorie nonviolente in Italia e l’instancabile organizzatore di quasi tutte
le più importanti iniziative pacifiste e ugualmente da Danilo Dolci, definito il Gandhi italiano. Certo lo
sguardo era rivolto a una rivoluzione intesa come processo interiore che preludesse a un cambiamento
radicale nei rapporti tra gli individui e, attraverso quelli, nelle strutture sociali ed economiche.
Le parole della rivoluzione CAPITOLO 3
Il giorno della vigilia di Natale, a Roma, era atteso il Presidente degli Stati Uniti Lyndon B. Johnson per
una breve visita ufficiale a Paolo VI e un colloquio con le massime autorità dello Stato italiano.
I ragazzi del Centro antimperialista “Che Guevara” iniziarono a manifestare la loro rabbia contro i crimini
americani in Vietnam in lunghi cortei di utilitarie da cui spuntavano cartelli, ma il raduno fu velocemente
sciolto dalla polizia, con l’aiuto di alcuni militanti del Pci. Questo avvenne perché le parole del Che
agitate dai ragazzi del Centro antimperialista erano state prese come una provocazione dai militanti del
partito di massa, impegnato in quei mesi a riaffermare la propria identità rivoluzionaria.
In particolare nell’ambiente della sinistra estrema c’era l’idea che la rivoluzione incominciasse con le
parole, cioè che l’agire rivoluzionario spetti al linguaggio.
Anche per questa ragione i giovani contestatori diventarono insofferenti verso i tradizionali linguaggi
della politica e verso le consuete forme di trasmissione della parola dal vertice al base, e in particolare
del comizio, che aveva rappresentato sino ad allora una sorta di spazio sacro per tutti i Partiti. Divennero
sempre più frequenti le interruzioni dei riti politici collettivi da parte di giovani dell’estrema sinistra.

1966: Camilo Torres CAPITOLO 4


“LA RIVOLUZIONE NON SOLTANTO È CONSENTITA, MA ADDIRITTURA OBBLIGATORIA PER I CRISTIANI
CHE VEDONO IN ESSA L’UNICA MANIERA EFFICACE ED AMPIA PER REALIZZARE L’AMORE PER TUTTI”.
Queste erano state le parole del sacerdote colombiano Camilo Torres per spiegare perché a metà degli
anni sessanta, aveva lasciato il suo incarico ed imbracciato il fucile per servire la causa rivoluzionaria.
Il suo paese era dominato da un governo autoritario e abitato da un popolo composto per lo più da
contadini, e da diversi anni si erano sviluppati focolai di guerriglia, tenuti in vita da formazioni
clandestine. Torres era entrato in uno di questi gruppi, perché era necessario lottare per ottenere una
riforma agraria, ma il 15 febbraio del 1966 era stato braccato dai reparti antiguerriglia dell’esercito
regolare ed era stato ucciso.
In Italia la notizia non provocò forti reazioni emotive, ma si trattava di attendere un anno: il dibattito sul
tema Cristiani e rivoluzione esplose l’anno successivo con le parole del pontefice Paolo VI, che nel marzo
del 1967 aprivano la strada verso una “rivoluzione giusta”.

1967: Ernesto “Che” Guevara CAPITOLO 5


La morte di Che Guevara, più che la sua vita, non soltanto diede una spinta decisiva alla deriva
rivoluzionaria che si agitava da tempo nell’ambito della contestazione giovanile, portando al centro degli
spazi di riflessione di un settore del movimento il tema della violenza rivoluzionaria.
L’esercito boliviano aveva fatto circolare le fotografie del corpo senza vita del Che per far capire che
Barrientos (e la Cia, con lui) aveva vinto, che la guerriglia era stata definitivamente sconfitta e i suoi
simboli estirpati; che il sogno rivoluzionario era irrimediabilmente tramontato. Ciò aveva prodotto
l’effettocontrario, fornendo: martire; il sangue del giusto e l’anima. Guevara divenne la trasfigurazione
del Cristo deposto, il Cristo della Sierra e il suo mito era stato celebrato con funzioni sia religiose che
laiche.

La morte di Guevara, da un lato, contribuì a spingere la contestazione verso la rivoluzione attribuendogli


una dimensione religiosa, ma dall’altro acuì le lacerazioni già presenti all’interno del movimento,
producendone di nuove. Il rapporto tra il Pci e i giovani militanti del partito divenne irrecuperabile.
Il Pci decise di fare una commemorazione ufficiale per il Che solo otto giorni dopo la sua scomparsa, ma
era già stato scavalcato nelle organizzazioni della commemorazione dai giovani radicali, come Prospero
Gallinari. Il Partito non volle confondersi con le iniziative delle ali estreme e fu sempre pronto a
prenderne le distanze.

1968: il reverendo King CAPITOLO 6


Sei mesi dopo la morte del più famoso guerrigliero del mondo, il 4 aprile 1968 moriva il profeta della
nonviolenza, Martin Luther King, freddato da un cecchino a Memphis, sulla terrazza della sua stanza
d’albergo. Negli Stati Uniti la figura e l’opera del reverendo erano oggetto di culto e venerazione da
parte di un largo settore della popolazione afroamericana e di molti studenti dell’università,
esattamente come nel sud del continente veniva venerato Che Guevara: dopo la sua morte, persino Elvis
Presley gli dedicò una canzone.
In molte città americane la notizia della sua scomparsa suscitò un’ondata di proteste popolari che, in
alcuni casi, si trasformarono in vere e proprie rivolte nei ghetti metropolitani.
Anche in Italia la morte del reverendo suscitò una forte ondata emotiva, amplificata da giornali e riviste
di ogni matrice culturale e ideologica: ugualmente a lui si attribuirono appellativi sacrali e religiosi.
A differenza di ciò che era successo con Che Guevara, il processo di mitizzazione non fu interno al
movimento di protesta, ma era stato indotto da soggetti istituzionali, appartenenti al mondo degli adulti.
Ci furono una serie di commemorazioni ufficiali ad opera del Pci, della Dc e della Chiesa cattolica: tutti
votati alla costruzione di un universo simbolico che voleva la nonviolenza.
Il sangue di King assunse un duplice significato: da un lato l’occasione per celebrare la virtù della
nonviolenza, per magnificare l’animo dell’uomo pacifico che non cede alla tentazione di rispondere con
la violenza alla violenza subita; dall’altro la dolorosa ma inevitabile constatazione di morte della corrente
della nonviolenza.
I giovani trasformarono l’assassinio di King in una nuova occasione di protesta contro l’imperialismo
americano e la violenza insita nella sua politica.
Dal 5 aprile a Roma, si tennero diverse manifestazioni lungo via Veneto, fino ad arrivare all’ambasciata
Usa.In particolare la prima sera, i giovani ebbero un duro scontro con la polizia che portò a diversi feriti.
Sei mesi dopo la morte di King, scomparve anche Aldo Capitini, l’esponente più in vista del movimento
nonviolento italiano: la sua morte chiuse simbolicamente la stagione eroica della nonviolenza italiana.
Dopo la strage di Piazza Fontana venne fatto nuovamente uso del termine “nonviolenza”, tuttavia la
strumentalizzazione dell’espressione da parte della cultura dominante, creava diffidenza in molti giovani
e li spingeva proprio sul versante della lotta violenta.

Potrebbero piacerti anche