Maestri
e compagni
Passigli Editori
© 1984, 1994 Passigli Editori, via Doccia 5, Firenze
PREFAZIONE
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del materialismo volgare), passa attraverso l'auto-flagellazione
(il tema dell'« abbiamo sbagliato tutto, ci siamo creduti chi sa
chi e la storia è passata oltre senza accorgersi di noi »). per finire
nell'auto-distruzione (il tema, che io non esito a definire sini-
stro, del suicidio dell'intellettuale). Discorso difficile, ripeto,
quello degli intellettuali su se stessi, perché tanto l'auto-difesa
quanto l'auto-condanna sono l'espressione non già di un esame
critico, di una spassionata ricerca storica - e qui intendo
«spassionato» non come l'antitesi di «impegnato» ma come
l'antitesi di «tendenzioso» - , bensl di una coscienza distorta
(buona o cattiva che sia) del proprio ruolo.
Difficile anche, questo discorso, perché attraverso questa
coscienza distorta l'immagine che gl'intellettuali presentano di
se stessi è spesso falsa, non coincide con la realtà storica, con
la loro funzione reale, e pertanto per fare un discorso serio
sugl'intellettuali bisognerebbe prima di tutto fare un repertorio
di queste immagini e metterle alla prova dei fatti. Ci si accor-
gerebbe subito che è un repertorio molto vasto e vario, dal
quale si dovrebbe trarre l'avvertimento a non considerare gli
intellettuali come una categoria omogenea, o peggio una corpo-
razione come quella dei medici o una casta come quella dei
generali. Ne cito a caso alcune: interprete e portavoce dello
Spirito, missionario e funzionario dell'umanità, custode delle
verità eterne, difensore dei valori ultimi, mentore e pedagogo
della nazione, consigliere privilegiato del principe o al contrario
critico e antagonista del Potere, avanguardia della classe rivolu-
zionaria o guardiano integerrimo dell'ideologia del Partito-gui-
da, indispensabile mediatore, elaboratore delle grandi sintesi
storiche, provocatore d'idee, « franco tiratore», ascetico predi-
catore nel deserto, disinteressato scrutatore di fatti e soltanto
di fatti, cavaliere errante che combatte per la giusta causa an-
che se è perfettamente consapevole che è perduta, ideologo
della classe dominante o della classe che dovrebbe rovesciarla,
mistagogo o demistificatore, ora solenne come un sacerdote, ora
pedante come un erudito, oppure ardente come un profeta
freddo e compassato come un burocrate, imparziale come un
giudice, parzialissimO come chi combatte da una parte per ab-
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battere l'altra, di volta in volta, secondo le circostanze, impe-
gnato o indifferente, imperturbabile o fanatico, esaltante la vir-
tù dell'appassionamento o quella diametralmente opposta del
distacco, e via enumerando. Mi fermo qui per non tediarvi. Ma
potrei continuare. Ho voluto soltanto darvi un esempio della
molteplicità e della contraddittorietà degli atteggiamenti che
possono essere compresi nel concetto estremamente semplifican-
te e semplicistico dell'intellettuale. Sono tutti atteggiamenti che
hanno un qualche nesso con ciò che si può fare con le idee,
cioè con quei mezzi di formazione del consenso e del dissenso
di cui sono dispensatori appunto gl'intellettuali (e che costi-
tuisce la loro funzione specifica): incitare, eccitare, fomentare,
persuadere e dissuadere, consigliare, convincere, minacciare e
terrorizzare, educare e diseducare, elevare e deprimere, inco-
raggiare e scoraggiare, sedurre, lusingare, suggestionare, e natu-
ralmente anche, qualche volta, far riflettere.
Credo che un buon criterio per abbozzare una tipologia di
questi atteggiamenti e quindi delle diverse figure d'intellettuale,
sarebbe quello che tenesse conto del diverso modo di concepire
il rapporto col potere e in genere con la politica. Anzitutto
quale potere? Il potere costituito o il potere costituendo? Il
potere effettivo o il potere in fieri? E poi, la funzione dell'in-
tellettuale è quella di mettersi al servizio del potere, quale che
esso sia, stabilito o da stabilire, o di guidarlo, oppure di fare in
modo come se il potere non esistesse? Se il problema, ripeto, è
difficile, dipende proprio dal fatto che la posizione dell'intellet-
tuale in una determinata società è relativa al rapporto che egli
ritiene di dover instaurare con la politica, e questo rapporto
può essere diversissimo. Le ragioni del contendere degli intel-
lettuali fra loro sono astrattamente connesse al diverso modo
d'intendere questo rapporto, cioè col fatto che ognuno l'inten-
de a suo modo e ritiene il proprio modo il solo giusto. Scusate
se insisto, ma desidero mostrare la rozzezza di tutti i discorsi
generici su questi creatori, fabbricatori, manipolatori, organiz-
zatori, combinatori d'idee, che pur continuano ad avere un'at-
trattiva incredibile nella pubblicistica, e anche nella storiografia
corrente.
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Anche per questo ritengo salutare la lettura di un libro
come quello di Garin, che non ha alcuna tesi precostituita da
dimostrare, se non che il terreno su cui ci si muove quando si
fa storia di intellettuali (si badi non degli intellettuali) è un
terreno su cui bisogna camminare coi piedi di piombo, e che
dopo aver percorso e scavato pezzo per pezzo, e non essersi
limitati a guardare di sfuggita e dall'alto, ci si accorge essere
un terreno molto più accidentato di quel che si vada dicendo.
Nell'introduzione Garin parla di una c.ultura italiana « né mo-
nocorde né isolata» .6no allo scoppio della guerra 1915-1918;
di quanto « fu agitato di continuo ,.. lo schieramento degl'intcl-
lettuali all'epoca della «Voce»; dei « contrasti profondi» che
agitarono l'I talla in quegli anni e si ri.Bettevano nel mondo
delle idee; di « molteplicità di linee » della nostra cultura in
questo secolo. Nessuno più dubita che vi sia un nesso fra
cultura e società, che le idee siano il ri.Besso della società in cui
si formano, etc. etc. Ma guai a dimenticare che questo nesso
non è mai immediato, che le spiegazioni cosiddette strutturali
delle ideologie debbono essere condotte con la stessa sottigliez-
za e con la stessa cautela con cui i malfamati storici tradizionali
delle idee connettono fra loro le idee, deducendo le une dalle
altre. Anche su questo punto desidero dichiarare il mio consen-
so e il mio debito ai saggi di Garin, in cui si legge che « prete-
se spiegazioni profonde, strutturali, di mutamenti di idee mora-
li, filosofiche, religiose, politiche, fanno pensare solo alla chia-
mata in causa di un dio ascoso, inconoscibile, e perciò scono-
sciuto » 1 • La lettura del libro, delle singole storie d 'intellettuali
di cui è composto, conferma la tesi su cui sto insistendo della
complessità di tutta questa storia e della sua irriducibilità al-
l'unico principio e all'unico fine. Tra Croce e Gramsci, i due
pilastri, c'è posto per personalità diversissime fra loro, come
Vailati e Ban.6, come Cantimori e Curiel, per non parlare di
Serra o di Michelstaed.ter. Analizzandoli a uno a uno, questi
« intellettuali del XX secolo », ci si accorge quanto siano peri-
colose e sbagliate le generalizzazioni troppo facili rui ci si lascia
andare troppo spesso per amore di polemica. L'unica cauta
generalizzazione che mi sentirei di fare è che le grandi meta-
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morfosi sono avvenute non durante la prima crisi, all'avvento
del fascismo, ma durante la seconda, all'estenuazione e alla
caduta del fascismo. Il che mi consente di dire, anzi di ripetere
(perché l'ho già sostenuto altre volte, se pure senza successo),
che l'evento che ha inciso profondamente sulla cultura italiana
non è stato il fascismo - culturalmente povero e incondito -
ma, attraverso la crisi e la caduta del fascismo, il passaggio
all'età della restaurazione post-fascista o della ricostruzione na-
zionale.
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morale. Anni infernali, chi può dubitarne? Guerra di Etiopia,
guerra di Spagna, l'impero di sangue, l'« amicizia brutale )), le
leggi razziali, la guerra, il terrore (non immaginario, ma reale,
vissuto giorno per giorno) del dominio di Hitler nel mondo.
Mi rendo perfettamente conto che è difficile parlare delle stesse
cose (piuttosto oscure come sono le idee, le loro varie e ambi-
gue espressioni, i loro intricati conflitti), partendo da esperien-
ze tanto diverse; e non auguro a nessuno anni infernali per il
solo piacere di discutere con un avversario passato attraverso
gli stessi orrori. Certo, è difficile, nonostante l'abitudine profes-
sionale al distacco dello storico, far tacere in una materia come
questa i propri sentimenti e risentimenti. Non esito a dire che
quelle due tesi - l'esistenza di una cultura fascista e la sua
continuità o persistenza anche oggi - suscitano in me una
ripugnanza istintiva, la prima perché dà un appoggio insperato
e insospettato alle vanterie fasciste di allora e alle tristi riesu-
mazioni di oggi; la seconda, perché risolve la crisi di coscienza
di una generazione devastata nelle solite riverenze dell'italico
cortigiano o peggio nelle furberie- del più volgare ma non meno
italico Arlecchino servo di tutti i padroni. Ma quando nego
che vi sia stata una cultura fascista o contesto che la cultura
post-fascista sia stata soltanto un travestimento, cerco di far
tacere la passione e di far parlare la ragione.
Se c'è stata una cultura fascista nel secondo decennio tra
il 1935 e il 1945 (nel primo decennio sono tutti d'accordo nel
dire che se cultura fascista ci fu, questa fu di derivazione
idealistica, il che ci porterebbe a parlare di continuità, se mai,
sull'altro versante, cioè tra prefascismo e fascismo), noi che ci
siamo vissuti dentro non ce ne siamo accorti. A ogni modo,
fuori i nomi: il nome di un solo libro che conti, di un solo
autore che abbia lasciato il segno, cui si possa attribuire il
titolo o l'epiteto di fascista. Nicola Tranfaglia, col quale ci
siamo scambiati alcune battute polemiche, condannando come
moralistica la mia tesi, non ha addotto sino ad ora un solo
argomento che permetta di escludere il moralismo eguale e
contrario della tesi da lui sostenuta. Non a caso ha dato al suo
saggio, Intellettuali e fascismo, il sottotitolo Appunti per una
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storia da scrivere. Ebbene, scrivetela questa storia, e poi vedre-
mo. Fuori i nomi, dicevo. Alcuni nomi di autori e di opere
degli anni Trenta e Quaranta io li ho fatti e ripetuti più volte.
Attendo una smentita, attendo che mi si dimostri che le opere
che contarono e che contano di quel decennio, dalla Storia
come pensiero e come azione di Croce agli Elementi di una
esperienza religiosa di Aldo Capitini, da Lavorare stanca di
Pavese a Conversazione in Sicilia di Vittorini, dal Cavour di
Omodeo alle storie di Salvatorelli, siano opere fasciste; oppure
che vi siano opere da riesumare, da rileggere, che io abbia
dimenticate. Tutti coloro che hanno fatto lunghi viaggi (per
ripetere un'espressione che Garin ha accolto), hanno fatto un
viaggio dalla rozzezza e dal conformismo mentale propri dell'a-
dolescenza, magari di un'adolescenza prolungata com'è quella
che viene vissuta in un regime di soffoca.mento delle idee, di
censure capricciose, di propaganda ossessiva ed esclusiva, all'in-
telligenza, alla consapevolezza di sé, alla chiarezza razionale,
dalla presunzione dell'ignoranza alla modestia di chi comincia a
capire qualche cosa del mondo che lo circonda, dall'e1Iervescen-
za non saprei dire se più ingenua o più stolta alla serietà. Non
hanno fatto viaggi né lunghi né brevi dalla cultura fascista che
non è mai esistita, alla cultura antifascista, che non si saprebbe
poi neppure ben definire, perché alcuni approdarono al mar-
xismo, altri al radicalismo democratico, altri ancora al sociali-
smo liberale, etc. La crisi dell'idealismo ci fu; ma fu la crisi
dell'idealismo, non della cultura fascista: se mai il colpo di
grazia all'idealismo lo diedero i clericali di padre Gemelli o gli
esaltati di mistica fascista. Nell'ultimo decennio il fascismo non
ebbe neppur più una sua filosofia. Ebbe dei filosofi, o meglio
dei professori di filosofia, di cui non resta traccia se non nelle
pungenti Cronache dello stesso Garin, e che fecero professione
di fede fascista continuando a fare la filosofia, buona o cattiva
che fosse, che avevano sempre fatta. È altrettanto poco conclu-
dente il dire, come disse Zangrandi, che « la massa dei giovani
fu fascista in quanto credette che il fascismo fosse un'altra cosa
da quello che era», quanto il dire, come dicono i teorici della
continuità in malam partem, che la massa dei non più giovani
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fu antifascista perché non si accorse che il suo fascismo di oggi
era la copia esatta del suo fascismo di ieri. Sinora, ch'io sappia,
l'unica prova della continuità ideologica è stata la tesi del popu-
lismo che sarebbe passato senza sostanziali mutamenti dal fasci-
smo di sinistra a una certa sinistra antifascista che si è creduta
marxista senza esserlo. Ma a parte il fatto che una tesi di questo
genere riguarda una parte molto piccola della politica degli in-
tellettuali italiani del dopoguerra, ed è un bell'esempio delle
battaglie dentro casa che hanno travagliato in questi ultimi anni
la nostra sinistra, trovare un tratto di ideologia fascista nel
populismo a me pare storicamente fuorviante. Basta aver letto
il libro di Asor Rosa, il rivelatore di questa piaga, per sapere
che il populismo viene di lontano, è un elemento costante della
nostra letteratura (di tutte le letterature europee).
Uno degli argomenti preferiti è una certa analogia fra
« Primato » e « Politecnico», che fa dire a Romano Luperini
che « questo legame non fu comunque casuale, e va ben al cli
là dei comuni nomi dei collaboratori », e « mostra in un altro
dei suoi aspetti la continuità fra là cultura del periodo fascista
e quella post-fascista». È sin troppo facile ribattere che « Poli-
tecnico» assomiglia a «Primato» (posto che ci assomigli),
perché « Primato » non era più una rivista fascista fuor che
nell'etichetta e in qualche svolazzo obbligato. Sino a pochi anni
fa, quando non era cominciato il processo all'antifascismo,
« Primato » era stato la prova, da un lato, di una certa soprav-
vivenza di cultura non fascista sotto il fascismo, dall'altro lato,
dell'emergere, nella giovane generazione, di una coscienza mo-
rale e politica che si liberava da tutto il ciarpame di retorica
fascista di cui era stata imbottita. Nel passo che vi ho letto, al
contrario, quella stessa rivista viene addotta a prova che fra
cultura antifascista e cultura fascista non ci fu rottura. Non
viene neppure il sospetto che la rottura fosse avvenuta prima,
sia per la inconsistenza culturale del fascismo, sia perché, no-
nostante l'imperativo di credere-obbedire-combattere, c'erano
stati uomini che avevano continuato a pensare con la propria
testa. Eppure, continua il critico, Ferrata pubblicò su « Poli-
tecnico » con le stesse parole e quasi del tutto inalterato l'arti-
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colo su Cattaneo « che era apparso esattamente sei anni prima
nel numero iniziale di ' Primato ' ». Ho illustrato altrove la
reviviscenza di studi cattaneani avvenuta attorno al 1940, per
opera di scrittori non certo sospetti di fascismo, come Salvato-
relli, Einaudi, Spellanzon, Mario Fubini, Perticone 1 • Cattaneo
era stato uno dei pochi grandi della nostra storia che il fasci-
smo non aveva avuto il coraggio di metter sull'altare dei santi
patroni. La riscoperta di Cattaneo in quegli anni ebbe un si-
gnificato chiaramente se non dichiaratamente polemico: almeno
sino ad ora questo episodio della nostra vita culturale era stato
interpretato cosl. E chi ricorda l'entusiasmo con cui furono
lette le Considerazioni sulle cose d'Italia, pubblicate da Giulio
Einaudi nel 1942, crede di poter aggiungere una testimonianza
a favore dell'interpretazione corrente. E invece no: il fatto che
all'insegna di Cattaneo fosse uscita una delle più combattive
riviste del dopo fascismo sarebbe una prova, non già, come si è
sempre creduto, che l'antifascismo fosse cominciato prima, ma,
al contrario, che il fascismo fosse continuato anche dopo. Se
una qualche tesi si può ricavare da un episodio come quello
della fortuna di Cattaneo negli ultimi anni del fascismo, è, se
mai, che continuità c'è stata non fra cultura fascista e cultura
antifascista, ma di una certa cultura dominante di matrice libe-
rale e democratica attraverso e sotto il fascismo (come ho avuto
occasione di dire altrove 4 ). Ammetto che questo filone della
nostra cultura abbia potuto sopravvivere tanto da riapparire,
caduto il fascismo, intatto, perché era più innocuo, soprattutto
se lo si confronta con la tradizione di pensiero socialista, e in
specie marxista, che scomparve quasi del tutto. Ma fare questa
ammissione vuol dire ancora una volta fornire un argomento in
favore della tesi, che io credo più giusta, che se continuità c'è
stata, questa è avvenuta fra prefascismo e postfascismo, che è
poi la tesi della « restaurazione ».
Quanto poi al marxismo, che fosse morto non vuol dire
fosse stato ucciso soltanto dal fascismo. Il marxismo in quegli
anni si era sempre più venuto identificando con lo stalinismo, e
aveva cessato dall'esercitare quell'attrattiva sugl'intellettuali che
ha esercitato sinora nei tempi eroici (inutile dire quanto la
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rinascita del marxismo in questi ultimi anni debba alla rivolu-
zione cinese e alle rivoluzioni del terzo mondo, negli anni Venti
alla rivoluzione russa, o alla 6ne del secolo al rapido formarsi e
al successo dei partiti socialisti che sconvolgevano o si credeva
avrebbero sconvolto il quadro tradizionale del sistema parla-
mentare). La storia del marxismo in Italia durante il fascismo è
ancora da scrivere, ma è difficile da scrivere perché è una storia
sotterranea. Per non parlare di Gramsci, che scrive alcune fra
le pagine più importanti nella storia del marxismo italiano in
carcere, Morandi scrive, come ricorda Garin, Dall'idealismo al
marxismo nel carcere di Saluzzo, e Curiel scrive Materialismo
dialettico e scientismo al confino di Ventotene. Sono indicazio-
ni preziose. Ma sarà bene non dimenticare questa contro-indi-
cazione: il più autorevole teorico del marxismo del dopoguerra,
Galvano Della Volpe, non proviene dalle file dell'antifasci-
smo militante; e Antonio Banfi giunge al marxismo - a un
marxismo tutto di testa come quello di Antonio Labriola - a
conclusione di un lungo itinerario filosofico quando il fascismo
è ormai crollato. Non vorrei sbagliàre, ma ho l'impressione che
Garin veda l'importanza di Banfi più nel momento della crisi
del fascismo, ovvero tra il 1940 e il 1945, negli anni della
prima serie della rivista « Studi filosofici », che non negli anni
successivi, ovvero negli anni del marxismo dichiarato, e nota di
sfuggita, ma la nota è importante, « quale difficoltà dovesse
incontrare lo sforzo banfiano di presentare il marxismo come
un umanesimo e uno storicismo radicale che veniva ad incon-
trarsi col risultato del razionalismo critico, in cui lo sviluppo
del pensiero moderno si eleva a piena coscienza » 5 •
Per un'altra contro-indicazione mi offre lo spunto una no-
ta, completa pur nella sua stringatezza, su Eugenio Colorni 6 e
l'accenno a « una raccolta dei suoi lavori rimasti inediti », che
sembra « non abbia avuto attuazione ». Non svelo un segreto
dicendo che la raccolta è stata condotta a compimento da chi vi
parla con un'introduzione che dovrebbe mostrare, per riprende-
re le parole della nota citata, quanto « interessante» sia questo
documento « per comprendere la crisi sotterranea della cultura
filosofica italiana, parallela alla crisi politica» 7• Ebbene, Color-
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ni, amico di Morandi e di Curiel, collaboratore attivissimo del
Centro interno socialista, specie dopo gli arresti di Morandi e
Luzzatto, arrestato lui pure nel settembre 1938, non compie
affatto il passaggio ' morandiano ' dall'idealismo al marxismo,
bensl, dopo essersi liberato da un crocianesimo giovanile, vissu-
to del resto criticamente, si butta a capofitto nella filosofia della
scienza e nella psicanalisi. Di marxismo neppure il più pallido
segno. Non lo respinge perché semplicemente lo ignora. Biso-
gnerà giungere alla scoperta dei Quaderni di Gramsci per ac-
corgersi che il marxismo è un'arma di lotta politica e non,
com'è sempre stato in Italia, un prodotto libresco, un'occasione
di dibattito fra professori di filosofia.
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l'origine oscura di tutta la filosofia europea, di quella antiquis-
sima Italorum sapientia, inventata da Vico, riesumata da Gio-
berti e poi ricantata in mille modi dagli epigoni del gioberti-
smo, oppure il campo fecondo dove germogliò la libertà mo-
derna, attraverso la creazione della civiltà cittadina, e via di-
scorrendo. Per trovare argomenti a favore del nostro primato
non ci fu, per i maestri della nuova Italia, che l'imbarazzo della
scelta: vi erano buoni argomenti tanto per i reazionari quanto
per i liberali. Sembrava che i soli a doversi trovare in qualche
difficoltà fossero i rivoluzionari. Ma a costoro venne in soccor-
so Giuseppe Ferraci che nella sua Histoire des révolutions
d'Italie dimostrò che l'Italia aveva avuto nella sua lunga storia
non meno di settemila (diconsi settemila!) rivoluzioni.
È stupefacente la costanza - in questo caso bisogna
proprio parlare di continuità - dell'ideale del « mentore della
nazione », l'auto-designazione dell'intellettuale a protagonista
dell'educazione nazionale, che è prima di tutto educazione spi-
rituale e morale, iniziazione, da un lato, di un popolo, anzi di
una plebe, da secoli corrotta, ai Valori di una più alta vita
morale e civile, e contrapposizione, dall'altro, alla classe dei
politicanti che continuano a fare la parte dei corruttori con
l'elevazione del compromesso, del «trasformismo», dello
scambio di favori fra classi dominanti a regola fondamentale
del gioco politico. Ai giovani di « Hennes », che volevano
« rialzare il valore della vita, della razza, del lavoro e dell'in-
gegno» risposero i due direttori di «Leonardo», dichiarando
di mirare « a svegliare e trasformare anime». Pubblicando «Il
Regno», Corradini annunzia che avrebbe aiutato a « rialzare le
statue degli alti valori dell'uomo e della nazione dinanzi agli
occhi di quelli che risorgono». Dalle pagine della «Voce»
Giovanni Amendola esalta coloro che « fra il 1900 e il 1910
hanno tentato in vario modo di richiamare l'attenzione degli
Italiani sull'importanza della vita dello spirito». Uno scrittore
severo con se stesso, che ci è stato additato ad esempio come
simbolo dell'antiretorica, Renato Serra, si abbandona all'orato-
ria altisonante quando parla del « suo )I, Carducci, «il gran vec-
chio», che era stato « oltre che un poeta e un letterato, una
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guida e un maestro degli Italiani». Per restare nel clima della
«Voce», Boine scrive a Prezzolini una lunga lettera il 10 ago-
sto 191 O per respingere gli inni di guerra dei nazionalisti ma
nello stesso tempo per sostenere la necessità di un'unità morale
degli italiani e conclude: « Perché tant'altre cose bisognerà pur
fare perché questa nazione s'avvivi, ma urge anzitutto di darle
coscienza e certezza della sua solida e ben orientata nei secoli
travatura morale, affinché sulla robustezza di essa si attenti a
costruire e sulla sua disposizione si regoli. Con questo, che è
soprattutto opera di ampia e profonda cura, saremo, sl, vera-
mente sulla strada di una robusta e duratura educazione nazio-
nale» (dove non si capisce mai chi siano questi italiani non
mai ben definiti, cui dovrebbe rivolgersi l'attenzione degli edu-
catori). Si potrebbe continuare, ma vale per tutte la battuta di
Prezzolini (nell'articolo Parole di un uomo moderno, 1913):
« E un poeta, con quel lirismo il cui moto è quasi un prean-
nunzio di vita religiosa, e un filosofo, la cui dialettica è una
constatazione di vita religiosa, val più per un popolo di un
sociologo ».
In questa immagine cosl persistente dell'intellettuale edu-
catore confluiscono due tradizioni risorgimentali, l'una che ali-
menta il programma nazionale dei moderati, l'altra che alimen-
ta il programma dei democratici: giobertismo e mazzinianesi-
mo. Nella storia della cultura italiana si è posto mente più al
secondo che al primo. Ma il primo non è meno importante del
secondo per ricostruire la storia degli intellettuali italiani sino
al fascismo. A proposito di un brano di un'opera di Ernesto
Codignola che si richiama a Gioberti, Garin annota: « Il di-
scorso su Gioberti e il giobertismo - e poi su Gentile e il
gentilianesimo - sarebbe lungo e complesso » 8 • (Ma bisogne-
rebbe riprendere alcune pagine dello stesso Garin su questo
tema nella Introduzione alla Storia della filosofia italiana di
Gentile, del 1969). Gioberti e Gentile: il programma di educa-
zione nazionale dei moderati trova la sua più alta e ultima
espressione in Gentile, e via via nei gentiliani in forme sempre
più staccate dalla realtà del paese. E si salda e si perde nel
fascismo. (Sul nesso Gentile-Gioberti, cioè sulla continuazione
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della riforma religiosa e politica di Gioberti in Gentile ha
scritto qualche anno fa pagine illuminanti, e pour cause, Au-
gusto Del Noce). In uno dei momenti più drammatici della
storia d'Italia, Gentile scrive il saggio su Gioberti per additare
nella filosofia dell'autore del Primato « il catechismo della reli-
gione civile ed umana degli Italiani ». Tutta l'attività di storico
della filosofia di Gentile è rivolta a riscoprire, sulle ttacce della
« circolazione » spaventiana, una genuina filosofia italiana, dal
Rinascimento al Risorgimento, dal Risorgimento all'età con-
temporanea, cioè all'idealismo attuale. Un programma di rico-
struzione storica che accompagna ed è destinato a giustificare e
a rinsaldare il programma, ancora una volta, di rieducazione
nazionale. Non per nulla Gentile vede nel fascismo la continua-
zione del Risorgimento, di un Risorgimento interpretato secon-
do lo spirito della filosofia giobertiana, al di là della degenera-
zione democratica e positivistica che il fascismo avrebbe defini-
tivamente debellato. Se c'è una continuità tra una parte della
cultura prefascista e la cultura fascista (del fascismo di destra)
non mi par dubbio vada ricercata ìn questo permanente, più o
meno consapevole, giobertismo, inteso il « giobertismo » come
l'idea che l'Italia ha avuto la sua unità politica ma non ha
ancora fatto la sua rivoluzione dello Spirito. Ancora una in-
terpretazione del Risorgimento incompiuto, ma incompiuto non
già perché sia mancata una rivoluzione sociale, ma nel senso
opposto di un riscatto nazionale politico, cioè senza riforma
religiosa.
Ebbene, con la fine del fascismo, il giobertismo, e tutto
quello che esso ha rappresentato, spiritualismo, nazionalismo,
pedagogismo che cade dall'alto, è morto per sempre. Chi oggi
ripeterebbe quello che Giuseppe Saitta, facendo eco al suo
maestro, scriveva nella prefazione alla seconda edizione del suo
Gioberti (gennaio 1927): « I nemici di Gioberti furono e sono
immutabilmente i nemici d'Italia»? E perché non i nemici di
Cavour o di Garibaldi? Chi non si avvede di questa svolta,
temo non si sia reso conto quanto peso avesse nella cultura
prefascista la glorificazione della storia nazionale, quanto vivi,
attuali, fossero sentiti i problemi lasciati aperti dal Risorgimen-
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to, quanto il presente fosse considerato come la continuazione
di una storia tutta italiana, che avrebbe dovuto trovare dentro
se stessa il proprio svolgimento, quanto profondo sia stato il
magistero di una filosofia come quella di Gentile, che ora appa-
re non solo cosa morta ma addirittura incomprensibile (e in-
comprensibile ora ci appare che fosse allora cosl facilmente
compresa, ed esaltata). Una cultura che si riconobbe in una
filosofia come quella di Gentile - e si badi che all'insegna
dell'idealismo attuale ebbe corso e successo la seconda « Vo-
ce»; e non vi fu nessuno dei maggiori intellettuali italiani, da
Croce a Salvemini, da Gramsci a Gobetti (e potrei citare una
testimonianza anche di Aldo Capitini), che non abbia ricono-
sciuto in Gentile un maestro - , una cultura per cui Gentile fu
il filosofo per eccellenza, è certamente una cultura diversa da
quella di questi ultimi trent'anni, in cui non dico Gentile ma
tutto quello che il gentilianesimo ha rappresentato, non ha
trovato più nessuna eco. Qualcosa deve pur essere cambiato. Ma
che cosa? Rispondo: è avvenuto l'esaurimento di una certa
immagine dell'intellettuale, e insieme l'esaurimento dello sfor-
zo di cercarne i titoli di nobiltà in una tradizione nazionale che
non interessa più a nessuno. La prima guerra mondiale era stata
ancora per l'Italia una guerra nazionale; la seconda guerra
mondiale rappresenta per l'Italia la catastrofe di una politica
nazionale e imperiale anacronistica che cancella il nostro paese
dal novero delle potenze egemoniche. Non si tratta più di fare
gli italiani (che attraverso la lotta di liberazione avevano avuto
insieme la loro espiazione e il loro riscatto), ma di rifare l'Ita-
lia, attraverso una azione che non è più di educazione nazionale
ma di ricostruzione prima di tutto materiale.
So bene che il « Politecnico » di Vittorini non fu il « Po-
litecnico » di Cattaneo. Ma chi ricorda le discussioni che lo
prepararono (e io le ricordo benissimo) non può aver dimenti-
cato il significato di quel titolo. Si riesumava il gobettiano:
« Se ci richiedono dei simboli: Cattaneo invece di Gioberti;
Marx invece di Mazzini ». E come non ricordare che Gioberti
era stato una delle bestie nere, insieme con Rosmini, del giova-
ne collaboratore degli « Annali di statistica », fedele allievo di
24
Romagnosi, che un giorno scriverà a Ferrati: <e Ho letto quasi,
dico quasi, e con orribile tedio, il Rinnovamento»? Gioberti-
smo e cattaneismo, due concezioni contrapposte che Gobetti
aveva elevate ad antitesi ideali di due modi di concepire la
filosofia e la professione del filosofo, due interpretazioni della
storia passata d'Italia e del suo destino, due stili opposti di
pensiero e di linguaggio. (Ma non bisognerà dimenticare il se-
vero giudizio di Croce su Gioberti: <e Il suo fare era da predi-
catore», Discorsi di filosofia, I, p. 86). Il giobertismo era
morto. Avrebbe dovuto nascere dalle sue ceneri il cattaneismo,
che comportava prima di tutto il deporre vesti e gesti sacerdo-
tali, il ripudiare per sempre la santa retorica, gli appelli alla
fede (la fede in che cosa poi?), di cui erano rigonfi i discorsi di
Gentile e dei gentiliani, la presunzione di essere i depositari di
una sapienza riposta che avrebbe sollevato un popolo a dignità
di nazione (in nome di che cosa, in nome di che cosa, se non di
un sentimento di dignità nazionale che il fascismo aveva mac-
chiato e distrutto?) e, al contrario, l'assumere un compito più
umile ma più utile, che era quello di ricominciare ad occuparsi,
come aveva scritto Vittorini, <e del pane e del lavoro», e non
più soltanto dello Spirito.
Che poi questi propositi non si siano trasformati in azioni
incisive, che quei primi anni, in cui nacquero riviste e giornali
dal mattino alla sera come funghi dopo una notte di pioggia,
siano stati anni di tentativi più che di fatti compiuti, e anche
di grande confusione mentale - furono gli anni di tutte le
possibili confusioni, marxismo e prammatismo, marxismo ed
esistenzialismo, marxismo ed empirismo, e ahlmé anche mar-
xismo e zdanovismo - , nessuno può disconoscere. Ma la rot-
tura, indipendentemente dalle dichiarazioni programmatiche, c'è
stata. Diventammo insieme più aperti e meno provinciali. Più
cosmopolitici. Sotto la Nazione (con la n maiuscola) che non ci
aveva mai incantati, scoprimmo il paese, con tutte le sue pia-
ghe, e al di là del paese con tanti problemi irrisolti, gli altri
paesi, il mondo. I problemi non erano più nazionali ma europei
(era l'Europa di cui andavano in cerca gli Chabod ed i Morandi,
era <e La Nuova Europa» di Salvatorelli e De Ruggiero). E i
25
problemi nazionali non erano più problemi dello Spirito ma più
terra terra, sociali, economici, politici. Ci guardammo attorno
con la curiosità di ragazzi scappati di casa; leggemmo di tutto
con la voracità di chi era stato tanto tempo affamato. Facemmo
corsi accelerati di logica, di psicanalisi, di filosofia delle scienze,
e naturalmente anche di marxismo. Non avrei nulla a ridire a
colui che ci rimproverasse di essere stati degli imitatori talvolta
pedissequi, e talvolta addirittura poco fedeli. Certo, tutto ciò
che fu fatto allora tradisce la fretta, l'improvvisazione, e non
ha alcuna originalità. Fummo, nella migliore delle interpreta-
zioni, dei divulgatori. Però l'Italia fu rimessa rapidamente nel
circolo della cultura mondiale, e la cultura mondiale cominciò a
circolare rapidamente in I talla. Fu un periodo di « illumini-
smo », di grande, illimitata, fiducia nelle idee. Non esito a dire,'
anzi a ripetere, perché l'ho già scritto altre volte, che quel che
di spirito nuovo e innovatore vi fu nella Resistenza sopravvisse
non tanto nella politica - in cui rapidissimo fu il riflusso,
specie dopo le elezioni del 1948 - quanto nella culrura, la
quale si lasciò alle spalle definitivamente lo spiritualismo tradi-
zionale, l' « ideologia italiana », passò accanto all'esistenzialismo
senza smarrirsi, e lo interpretò a suo modo tanto da trasfor-
marlo in una cosa del tutto diversa, fece le prime prove con il
neo-empirismo, in genere con la filosofia della scienza, e ripro-
pose seriamente, nonostante il dogmatismo staliniano, lo srudio
di Marx e del marxismo (anche se oggi una nuova scuola di
teologi marxisti possa considerare errata o scorretta o peggio
iniqua la sopravalutazione degli scritti giovanili allora scoperti,
e rifiuti l'umanesimo di Marx come un'aberrazione). Non fu
una cultura rivoluzionaria, una cultura al servizio della rivolu-
zione. Questo no. Però fu, rispetto alla cultura tradizionale,
alla cultura tanto decantata delle riviste fiorentine, una rivolu-
zione della cultura, tanto da aver cancellato per un quarto di
secolo dal nostro paese (non faccio previsioni per l'avvenire) o
da aver fatto apparire ridicola, quando è riapparsa in questi
ultimi anni, una cultura di destra, che pure era stata - si
pensi a Pareto o a Croce, e beninteso a Gentile - la culrura
ufficiale e dominante dell'Italia prefascista e fascista, e da aver
26
relegato ai margini e reso sempre meno incisiva la cultura di
tradizione cattolica, che aveva annoverato durante il Risorgi-
mento uomini come Rosmini e Manzoni, e aveva avuto ancora
la forza di agitare le acque del piccolo mondo antico della
chiesa di Pio X con la rivolta del modernismo.
Non fu una cultura rivoluzionaria. Fu una cultura - oh,
orrore! - progressista. Dopo la quale, peraltro, certi ritorni
sono diventati impossibili. Per chi crede, come io fermamente
credo, che il progresso sia, come diceva Cattaneo, « faticoso,
lento e graduale », è già qualche cosa. Leggendo in questi gior-
ni l'ultimo libro su questo argomento, quello della Mangani, su
alcune riviste del fascismo 9, mi sono stupito che l'autrice, del
resto bravissima nel raccogliere documenti e nell'interpretarli,
non abbia mai lasciato sfuggire un commento sull'incredibile
vecchiume e rancidume del « lemmonioboreismo » di tanta par-
te di quei ribelli, sull'arcaismo e sul sentore di muffa che
emana dalle epiche battaglie di una rivista di punta come « Il
selvaggio » o della bolognese « Vita nova », sul fatto che in
mille e mille pagine non ci si imbatta mai in una sola indagine
seria sulla società italiana o sull'economia del tempo o sul
movimento operaio e contadino. È proprio il caso di dire:
« Evviva i ' Quaderni piacentini ' » ! Ma è anche il caso di ag-
giungere che i « Quaderni piacentini» non sarebbero stati pos-
sibili se la cultura italiana non avesse rotto con fatica - con
riluttanza magari, vent'anni prima, tanto i liberali tradizionali
quanto i marxisti, e i cattolici pure - con il santo spiritualismo,
e non avesse cominciato a rendersi conto sin d'allora che bi-
sognava studiare più economia più psicologia più sociologia,
liberarsi dal complesso della fedeltà a una tradizione filosofica
italiana che oltre tutto non era mai esistita. E imparare, impa-
rare, imparare, da quelli che ne sapevano più di noi.
Non sto facendo un'apologia. Faccio un confronto. E poi
quale apologia? Se le cose sono cambiate non è certo merito
degli uomini di cultura, ma delle trasformazioni profonde, reali,
della nostra società, che ci hanno costretto, per non restare
indietro, a guardare altrove. Ha ragione Garin quando dice alla
fine del saggio su Gramsci che sono tutt'altro che scomparsi gli
27
« antichi vizi», le « sintesi verbali scambiate per sintesi reali »,
e sono riemersi « i fantasmi maligni di un'età funesta». Ma,
suvvia, a me pare che non siano presi più tanto sul serio, e,
nonostante tutto, non facciano più paura a nessuno.
Tanto meno faccio l'apologia di una generazione. Quello
che penso della nostra generazione l'ho scritto alla fine della
prefazione ad un mio libro recente, che mi ha attirato qualche
severo e irritato rimprovero anche da parte di vecchi amici (ma
non, a dire il vero, dell'amico Garin). Non ho nessun motivo
per cambiare giudizio. Mi sono ritrovato nelle belle parole
scritte da Garin su Delio Canti.mori, che degli« intellettuali» di
questo libro è certamente colui al quale, se non altro per ra-
gioni di età, ci siamo sentiti più vicini e che abbiamo amato e
ammirato superando una certa scontrosità e ruvidezza di carat-
tere, resa più grave da una imbarazzante timidezza, che non
permetteva né una facile confidenza né un disinvolto colloquio.
Le parole sono queste: « L'amarezza presente in tante pagine
di Cantimori - comune a molti che si formano nei medesimi
anni - non si riferisce tanto agli errori giovanili, se pur vi
furono, quanto al prezzo pagato per riscoprire cose già scoper-
te, per conquistare dimensioni non nuove, per rompere le an-
gustie di una situazione determinata da altri, negli studi come
nella vita. Con molta misura Cantimori rifiutò sempre di parla-
re delle colpe dei padri: le scelte - ha ripetuto - le facemmo
noi, e sapevamo, o potevamo sapere» 10 • C'era da aspettarselo
che, passata una generazione, si ritornasse a parlare delle « col-
pe dei padri», con questa sola differenza, che i padri, ora,
siamo noi.
28
NOTE
29
CAPITOLO II
La non-61oso6a di Salvemini
31
del primo dei due termini. Nella sua Storia della rivoluzione
francese ammirò l'opera rischiaratrice, riformatrice, preparatri-
ce, dei (( philosophes », e avrebbe voluto tornarci su in una
nuova edizione per metterla in maggiore risalto. Credette nella
forza creatrice delle idee, della (( intelligenza », come avrebbe
detto il suo Cattaneo. In polemica contro la tesi di Chabod,
secondo cui l'idea di nazione era nata col romanticismo, delineò
in alcune beile e dense pagine il contrasto tra concezione illu-
ministica e concezione romantica dell'individuo e dello stato,
per combattere alcuni luoghi comuni idealistici circa la superio-
rità dello spirito romantico su quello illuministico 2 • Da buon
illuminista concepl la sua azione politica come quella del rifor-
matore di leggi e di costumi. Lottò contro l'arretratezza del suo
amato-detestato Mezzogiorno, contro gli avanzi di antichi privi-
legi, contro ogni forma di fanatismo politico e culturale. Pur
non essendo irreligioso fu avverso all'oscurantismo dericale.
Però, a differenza dei suoi grandi ispiratori, non fu un ottimi-
sta. Non credeva alle (( magnifiche sorti progressive»: non mi
pare sia stato molto notato, ma tra i quattro autori dell'Otto-
cento ch'egli prediligeva pose Leopardi 3 , Non so se si possa
parlare di una sua filosofia della storia: certo non credeva nel-
l'inevitabilità del passaggio dal regno delle tenebre al regno
della luce, dal regno della necessità al regno della libertà. Non
vedeva l'uomo uscire definitivamente dallo stato di minorità.
Dell'idea del processo indefinito che aveva entusiasmato i filo-
sofi del Settecento e dell'Ottocento disse che (( era stata co-
struita su una base tenue di fatti, cioè sull'esperienza soltanto
dei più civili paesi d'Europa nei secoli più recenti », e pertanto
lo storico avveduto non avrebbe dovuto fidarsene 4• Era solito
dire che i pessimisti avevano sempre ragione. Anzi, via via che
procedette nella lotta e nella presa di coscienza della complessi-
tà dei problemi e della materia sorda su cui bisognava operare,
il suo pessimismo diventò sempre più radicale. In una lettera
ad Armando Borghi del 13 settembre 1945 scrisse: (( Se cre-
dessi la umanità più intelligente e meno indifferente al suo
stesso male che essa non è, sarei anarchico anch'io. Purtroppo
la umanità, qual la vedo intorno a me, cioè i novecento novan-
32
tanove millesimi, e forse più, dell'umanità, è interessata solo a
mangiare, far figli e andare a scommettere alle corse dei cani».
E per questo, concludeva: « Tu sei anarchico, e io sono un
povero disgraziato democratico della scuola antidiluviana dura a
morire» 5•
Storicista: in che senso? Più ancora che illuminismo, sto-
ricismo è una espressione dai molti significati, anche contrad-
dittori tra loro. Cosl stra-usata, e mal-usata, da amici e nemici,
che sarebbe ora di metterla da pane. Se per « storicismo» s'in-
tende quel che s'intendeva nel linguaggio filosofico italiano, che
egli aborriva, la concezione del mondo per cui « la realtà è
storia», Salvemini, di questa « astrazione stratosferica», come
l'avrebbe chiamata se mai gli fosse capitata fra le mani, non
avrebbe saputo che farsene, e se avesse saputo che per essere
chiamati a buon diritto « storicisti » occorreva dichiararsene
convinti, avrebbe rinunciato volentieri a fregiarsi di quel titolo.
Gli idealisti avevano divulgato un altro significato di storici-
smo, secondo cui essere storicisti voleva dire tener fermo il
primato della storia su ogni altra forma di sapere sino a giun-
gere all'identificazione di storia e filosofia. A parte il fatto che
anche questi concetti erano un prodotto tipico di quella « fab-
brica del buio », in cui, secondo Salvemini, consisteva la filo-
sofia idealistica (e più passano gli anni e più gli do ragione), e
quindi non erano comprensibili al « passerotto » che egli era,
non condivideva affatto quella tesi, anzi aveva un'idea comple-
tamente diversa, per non dire opposta, della storia. Egli non
aveva mai disgiunto - cosa abominevole per un idealista - la
storia dalla sociologia. Se la storia doveva essere scienza non
poteva esserlo se non nel senso in cui erano scienze le più
progredite scienze naturali. Se la storia doveva essere credibile,
doveva mettersi al passo con la metodologia scientifica più
progredita. Insomma la concezione della storia cui egli aveva
aderito e gli veniva per linea direttissima dal positivismo era
proprio l'opposto della concezione idealistica, cioè di quella
concezione donde era nato il nuovo termine « storicismo». In
una delle ultime pagine, che il Vivarelli pubblicandole ha
chiamate il suo « testamento », egli distinse due tipi di storici,
33
gli empiristi, alla cui schiera egli sosteneva di appartenere, e i
teologi. I primi guardano ai« risultati», i secondi cercano anche
i « fini », perché sanno o credono di sapere che la storia ha un
disegno oscuro ma perscrutabile 6 • Non c'è dubbio che in tutti i
sensi possibili di « storicismo », gli storicisti sono i secondi. I
primi sono puramente e semplicemente degli storici. Salvemini
non fu uno storicista ma uno storico, uno storico di razza, di
sicuro intuito, di solido mestiere, che a ventisei anni scrisse
un'opera di storia medioevale che ha fatto epoca, a trenta una
storia della rivoluzione francese - un argomento da far trema-
re - che fu elogiata da Albert Mathiez.
Sul marxismo di Salvemini si è già detto tutto, e qualche
cosa di più. Nel senso che oggi si dà a « marxista », inteso
come seguace di una dottrina più o meno compiuta e completa,
che si fa risalire a Marx, Salvemini non fu un marxista, per la
semplice ragione che egli non fu un dottrinario di alcuna dot-
trina 7 • Dei dottrinari diceva che erano le persone più pericolo-
se del mondo, e se ne stava alla larga 8 • Com'è noto, dalla
lettura giovanile di alcune opere storiche di Marx, trasse l'ispi-
razione a scrivere una storia delle classi sociali in Firenze nel
secolo XIII. Ma quando poi si trovò ad affrontare la storia del
fascismo, cui dedicò forse alcune delle maggiori sue opere di
storico, non ne diede esclusivamente, come pur fecero altri, un'in-
terpretazione rigidamente classistica. L'interesse per Marx e per
il marxismo si andò attenuando lungo gli anni: né sembra
avesse letto, prima o poi, le opere maggiori, che di fatto non
cita mai. Anche negli anni giovanili, del resto, non prese alcuna
parte alla disputa intorno al marxismo teorico, che scoppiò alla
fine del secolo, e fu una disputa essenzialmente filosofica, di cui
è difficile srorgere il nesso con il socialismo e con la storia del
movimento operaio e delle lotte del lavoro. Salvemini fu, al-
meno nei primi anni della sua milizia politica, socialista, ma
più socialista che marxista. Anzi, con l'andar del tempo il mar-
xismo diventò per lui uno dei tanti « ismi », da cui una perso-
na di buon senso doveva fuggire come la peste, una forma
d'indottrinamento che rendeva politicamente intolleranti e
mentalment~ sterili (e presuntuosi). « Il marxismo è un filtro
34
meraviglioso per svegliare le anime dormienti. Ma chi ne abusa,
rimbecillisce » 9• (Sarà bene, però, non dimenticare che questa
frase fu pronunciata nel 1949, quando il marxismo s'identifica-
va con lo stalinismo). Com'è stato recentemente osservato dal-
l'ultimo suo biografo 1°, egli arrivò al marxismo non tanto at-
traverso Labriola, che era (come dirà molto più tardi) « con
rispetto parlando, un filosofo » 11 , ma attraverso Loria. Curio-
samente il De Caro, che ha fatto questa osservazione, non cita
il passo a questo proposito più significativo che si trova in
Storia e scienza, opera della maturità, là dove si legge che
«Marx[ ... ] formulò la legge che tutti i mutamenti sociali, eco-
nomici, politici, giuridici, intellettuali, morali e religiosi, sono
l'effetto di mutamenti della tecnica della produzione» 12 • Alla
tesi marxiana della storia come storia di lotta di classi contrap-
poste, andò sovrapponendosi, sino a prevalere, con gli anni, a
contatto immediato con lo svolgimento della lotta politica in
Italia, la tesi paretiana e moschiana secondo cui la storia è il
teatro ove si agitano non le classi sociali ma le classi politiche
o élites in lotta per il predominio·. Mosca aveva recensito con
molti elogi, se pur con qualche riserva sulle conclusioni politi-
che, la Storia della rivoluzione francese 13 ; poi, quando aveva
pronunciato in parlamento il suo discorso contro il suffragio
universale, aveva criticato garbatamente il « suo amico persona-
le» Salvemini 1 4. Il quale, d'altro canto, aveva trovato in Mo-
sca un alleato nella campagna contro la guerra di Libia. In qud
compendio delle sue riflessioni sul mestiere di storico, che è
l'operetta scritta negli Stati Uniti nel 1938, Storia e scienza,
dopo aver esposto la legge moschiana delle minoranze organiz-
zate, commenta: « S'io non erro, tutta la storia corrobora la
legge di Mosca » 15 • L'adesione alla teoria delle élites serve
forse a far capire meglio il carattere delle sue battaglie che
furono sempre dirette contro le classi politiche di volta in volta
dominanti, quella giolittiana, quella fascista e quella post-fasci-
sta - i «politicanti» di turno, come paretianamente li chia-
mava 16 - e permette anche di comprendere meglio l'obiettivo
principale delle sue battaglie culturali, specie quelle che egli
combatté in prima persona dalle pagine dell'« Unità», volte alla
35
formazione di una nuova classe politica fatta di esperti e non
di ideologi, da sostituire a quelle corrotte che avrebbero con-
dotto il paese alla rovina (e lo condussero). Dopo la liberazio-
ne, più esasperato che mai per tutti i compromessi in rui i
partiti anche della sinistra si erano lasciati coinvolgere nel dar
vita a una democrazia falsa, fragile e precaria, ripeté, con una
ostinazione che gli stessi suoi amici trovarono esagerata e
talvolta ingiusta, l'accusa che fosse necessario preparare un
gruppo di giovani - ancora una volta un'élite - disposta
all'astinenza dalla politica di oggi per la conquista del potere
con accresciute esperienze e competenze, domani 17 •
Fu Salvemini un positivista? Da parte mia, non avendo
più il complesso di inferiorità dei positivisti superstiti dopo il
massacro fattone dagli idealisti e dagli irrazionalisti, nei primi
anni del secolo, sarei tentato di rispondere di sl. Non tanto per
la formazione ch'egli ebbe negli anni fiorentini, in quella uni-
versità di Firenze, dove si celebrava negli studi storici un seve-
ro metodo positivo e dove uno dei suoi maestri, Pasquale Vil-
lari, grazie alla memoria La filosofia positiva e il metodo sto-
rico (1866), fu elevato a padre del positivismo italiano 18 ; non
tanto per le letture che egli dichiarò di aver fatto in quegli
stessi anni di tutte le annate della « Rivista di filosofia scien-
tifica»; ma perché egli rimase tutta la vita non filosofo di
quella non-filosofia che era, mi si passi il bisticcio, la filosofia
più genuina di un giovane che era stato educato al metodo
positivo. Chi abbia una certa familiarità con la filosofia di Pare-
to, di rui Salvemini aveva letto il celebre Cours, istigato dai
due paretofili, con i quali ebbe dimestichezza, Carlo Piacei e
Francesco Papafava '9, troverà lo stesso atteggiamento di rifiuto
delle metafisicherie, quasi le stesse battute, lo stesso, in parte
infastidito in parte divertito, « non ci capisco niente». Nella
corrispondenza fra Pareto e Croce, testé pubblicata, sembra di
assistere a un dialogo di sordi e lo stesso Pareto lo attesta:
« Proprio tutte le parole da me usate, sono da voi intese in
senso diverso da quello che hanno per me [ ... ] . È proprio il dia-
logo: dove andate? vendo pesci» 20 • E il solito ritornello: voi
siete un metafisico, io un empirico; voi avrete ragione dal vo-
36
stro punto di vista ma io non capisco che cosa vogliate dire.
Questa non-filosofia non era affatto, come si va ripetendo, l'a-
borrimento delle idee generali {dal canto suo Pareto d'idee
generali ne aveva a bizzeffe, forse troppe), o la resa a discre-
zione ai fatti: Salvemini ha su questo punto idee molto precise.
Coloro che vogliono fatti e soltanto fatti, sono gli eruditi, non
sono gli storici. Chiunque scriva libri di storia senza idee gene-
rali è un raccoglitore di notizie, non uno scrittore di storia. Ciò
che il metodo positivo gli aveva insegnato erano soprattutto
due cose: primo, che le idee generali debbono essere messe alla
prova dei fatti e se la prova non riesce debbono essere scartate
anche se il loro autore per avventura fosse ad esse molto affe-
zionato; secondo, che i fatti debbono essere accertati col meto-
do del « trial and errar» che aveva fatto progredire le scienze
della natura, e non dedotti dalle idee generali, come si diceva
avesse fatto quell'hegeliano che, dovendo scrivere un trattato
sul cammello, non si era recato sul posto a studiare i cammelli
dal vero ma si era chiuso nel suo studio a dedurre i caratteri
del cammello dalla natura delle cos"e. In un paese di dottrinari,
in un paese in cui anche il marxismo era stato {ed.. è tuttora)
una bella occasione per una disputa filosofica, questa non-filo-
sofia che era poi la filosofia positiva, era, è stata e sarebbe
stata se avesse trovato un terreno più accogliente, una salutare
reazione. {Chi vive quotidianamente l'esperienza delle nostre
università, specie in questi anni di effervescenza ideologica, sa
che il discettare su ciò che ha veramente detto Marx sembra
molto più importante che l'affaticarsi a conoscere come siano
andate realmente le cose).
Salvemini scherzava volentieri su questa sua assoluta ceci-
tà filosofica, come quando racconta che Gentile, che egli co,..
nobbe nel 1907 al congresso napoletano della Federazione in-
segnanti scuole medie e con cui strinse subito una forte e
calda amicizia 21 , voleva convincerlo che anche lui era filosofo
perché ogni uomo è filosofo, se pure in fonna incosciente, e
commenta: « Se cosl stanno veramente le cose, io sono sempre
rimasto alla fase dell'incoscienza. Dicono anche che la filosofia
è il pensiero che pensa se stesso. A me il semplice pensare un
37
pensiero costa tanta fatica, che dopo averlo pensato non mi
resta più lena per costringerlo a pensare se stesso » 22 • Scherza-
va ma diceva in realtà cose molto serie. Aveva capito benissimo
che dietro la tanto esaltata reazione idealistica contro il gretto
e pedestre positivismo stava in agguato la boria speculativa di
una cultura pigra e chiusa su se stessa, che preferiva discutere
di trascendenza e d'immanenza piuttosto che arrampicarsi sui
pendii impervi della matematica, della logica, della psicologia,
della sociologia, dell'economia. Nei fedeli seguaci era la rivinci-
ta del vecchio umanesimo retorico sull'umanesimo scienti.fico,
nato con Galileo, poi morto, rinato e sempre destinato a rimo-
rire, ogni qual volta la schiera di coloro che chiosano Aristotele
diventa più numerosa e più chiassosa di coloro che vogliono
guardare nel canocchiale. Scelgo una citazione fra mille. Dei
piccolo-borghesi intellettuali meridionali diceva: « Tengono sul-
la punta delle dita Giordano Bruno, Tommaso Campanella,
Giovan Battista Vico, Giovanni Bovio, Giovanni Gentile, Be-
nedetto Croce. Ma nessuno si occupa di quanto succede, puta-
caso, nell'ufficio del lavoro del suo paese, dove la povera don-
nicciola[ ... ] è trattata come il cane in chiesa» 23 • Molti anni più
tardi, ripensando alla riforma Gentile, che aveva abbinato la
filosofia alla storia, disse: « Quella indigestione di vuotaggini
incomprese produce chiacchieroni presuntuosi, ai quali manca
ogni senso della realtà, e che credono di poter risolvere tutti i
problemi a furia di formule ventose, che spiegano tutto e non
dicono niente» 2•. Poteva scherzare sulla sua cecità filosofica,
perché, se la filosofia era la « fabbrica del buio », come si
poteva non essere ciechi? Ma non fece mai dell'anti-filosofia
indiscriminatamente, senza introdurre le debite distinzioni: c'e-
ra filosofia e filosofia. In un articolo del 1907 espresse molto
bene il proprio pensiero là dove, polemizzando contro i « gua-
sconi dell'idealismo » che « tendono a dimenticare che fuori
della rigida e metodica ricerca positiva non vi sono che nuvo-
le», protesta anche contro coloro che hanno visto nel positi-
vismo « non uno sforzo felice per perfezionare i metodi e im-
pedire gli sviamenti della speculazione filosofica, ma la negazio-
ne sistematica, incondizionata di ogni speculazione 610-
38
so6ca » 25 • Per due volte egli stesso si cimentò coi problemi di
metodo della storiografia, che erano i problemi filosofici per
eccellenza di una filosofia non speculativa, la prima volta all'i-
nizio (La storia considerata come scienza, 1902), la seconda
alla fine (Storia e scienza, 1938) della sua carriera di storico.
E, per quanto entrambe le volte fosse stato strapazzato da
Croce, che lo accusò, recensendo la prima memoria, di supersti-
zione scientifica, recensendo la seconda di irriflessiva recidivi-
tà 26, espresse alcune idee semplici ma non futili (specie nella
seconda memoria più completa e anche più matura) su alcuni
dei problemi più ardui e più dibattuti della conoscenza storica,
ponendosi immediatamente in quel solco di ricerche di metodolo-
gia della storiografia che, approfondite con successo in questi
ultimi venti anni dalla filosofia neo-empiristica, si sono dimo-
strate più feconde e sono anche più accreditate di quelle di
origine idealistica.
So bene, e ho avuto occasione di dirlo più volte, che il
positivismo fu in Italia una cattiva filosofia, che diventò facile
bersaglio degli idealisti (anche se· mi par difficile si potesse
inventare una filosofia più diseducativa di quella di Gentile).
Ma Salvemini ne fu completamente immune. Se non aveva mai
letto un rigo di Rosmini o di Gioberti o di Mamiani, lesse
probabilmente poco o nulla di Roberto Ardigò di cui non si
trova nei suoi scritti nessuna visibile traccia. Si può dire di
Salvemini ciò che è stato detto di Carlo Cattaneo: tenne in
pregio non il positivismo ma la positività. Che Cattaneo sia
stato il suo grande maestro, una fonte inesauribile d'ispirazione
è fuori di dubbio (o almeno, a me pare indubitabile). Inten-
diamoci, non perché a un certo momento leggendo Cattaneo
(come egli stesso racconta, nel 1899, quando era professore a
Lodi, auspice Arcangelo Ghisleri) abbia scoperto il federalismo,
in cui credette di aver trovato la soluzione della questione
meridionale, o perché ne abbia tratto suggerimenti capitali per
il saggio sui Partiti milanesi nel secolo XIX. Egli trovò in
Cattaneo tutto quello che andava oscuramente e faticosamente
cercando, uno splendido modello da imitare, in cui si compon-
gono armonicamente un'insuperata chiarezza d'intelletto e di
39
stile, rigore morale e radicalismo politico. Salvemini sarebbe
stato Salvemini anche senza l'incontro con Cattaneo; ma poiché
l'incontro c'è stato e dopo l'incontro avvenne l'illuminazione
- un'illuminazione durata tutta la vita - non ci si può sot-
trarre alla tentazione di un confronto. Anche Cattaneo combat-
té per tutta la vita le « scale braminiche» della filosofia italia-
na in difesa dell'empirismo lockiano e della filosofia civile di
Romagnosi; preferiva discutere di ferrovie, di tariffe doganali,
del monte delle sete, piuttosto che dei massimi problemi; cre-
deva nella funzione progressiva della scienza e nella forza
creatrice della libera intelligenza; era un « problemista » avanti
lettera. Fu, più che un uomo d'azione, un intellettuale militante:
la sua maggiore opera politica non fu, come accadde a Mazzini,
una setta o un partito, ma una rivista attorno a cui adunò una
schiera d'intelletti diversamente pensanti ma uniti nello studio
di problemi concreti; si accese d'entusiasmo per tutte quelle
riforme, per tutte quelle innovazioni istituzionali e tecniche che
avrebbero dovuto svecchiare un paese sotto tanti aspetti ancora
arretrato. Intransigente sino alla diffidenza verso le iniziative
politiche immediate, fece quasi sempre parte per se stesso e,
all'infuori delle memorande giornate della insurrezione milane-
se, preferl dare consigli inascoltati agli amici che scendere in
campo. Meno « pazzo » forse del suo discepolo, ma negli ultimi
anni non meno «malinconico». Fu anche lui, come disse di se
stesso Salvemini, « un masso erratico abbandonato nel piano
dal ghiacciaio ritiratosi sulle alte montagne » 27 • E in fondo in
fondo si compiacque di esserlo.
Cattaneo, memore di Galileo e del tutto ignaro di Augu-
sto Comte, amava chiamare la sua filosofia non positivismo ma
filosofia sperimentale. Ora, volendo chiudere il discorso iniziato
sin dalle prime battute, se proprio si vuole incasellare anche
Salvemini, preferirei parlare alla buona e anche per maggior
proprietà di empirismo piuttosto che di positivismo. Del resto,
verso la fine della vita, forse per inBuenza dell'ambiente anglo-
sassone in cui trascorse molti anni, espressioni come « empiri-
co » ed « empirismo » gli vengono più frequentemente sotto la
penna. Nel «testamento» già ricordato chiama «empirici» gli
40
storici alla cui schiera dichiara cli appartenere. E dopo aver
spiegato il carattere della loro storiografia conclude: « Questa è
la dottrina empirica sul processo storico, disincagliata dai sem-
plicismi e dalle spavalderie degli 'illuministi' (secolo
XVIII) e dei ' positivisti ' (seconda metà del secolo XIX) » 21 •
« Semplicismi » e « spavalderie »: credo non si potesse dire in
modo più appropriato e più chiaro quel che Salvemini rifiutava
delle filosofie che gli erano più affini. Solo un povero empirista
poteva accettare l'idea che la realtà fosse molto più complessa e
quindi più inafferrabile di quel che le filosofie sistematiche
avevano sinora lasciato credere, e pertanto ogni inno cli trionfo,
compreso l'inno di trionfo alla scienza che illuministi e positi-
visti avevano elevato (e il nostro Cattaneo con loro), fosse
ormai da mettere a tacere. Un giorno, discutendo l'eterno pro-
blema dell'insegnamento della filosofia nelle scuole secondarie
- problema che ogni generazione, che dico?, ogni congresso di
filosofi ridiscute partendo ab ovo - disse che se fosse stato in
lui avrebbe fatto leggere nel primo dei tre anni la Logica di
John Stuart Mili, uno dei testi carÌonici dell'empirismo 29 • Dico
e ripeto « empirismo » e non « positivismo » perché al positi-
vismo siamo abituati ad associare l'idea dello scientismo cioè
della scienza che non ha segreti e sfida il mistero. Salvemini
aveva fiducia nella scienza, aspirava ad essere uno storico ferra-
to nelle regole del metodo scientifico, ma era ben consapevole
dei limiti della conoscenza scientifica, specie di qudla storica.
Accettava la definizione di John Stuart Mili, appunto, che
chiamava la storia e le scienze sociali « scienze impedette » 30 •
Lasciava volentieri e senza invidia allo storico teologo la pre-
sunzione di conoscere il corso della storia. Allo storico empiri-
co raccomandava l'esercizio di due virtù: l'umiltà e la tolleran-
za. L'umiltà di fronte alla propria fallibilità, la tolleranza cli
fronte alla fallibilità degli altri, anche se poi l'umiltà non dove-
va confondersi con l'indifferenza scientifica, la tolleranza con
l'indifferenza morale. Franco Venturi in morte di Salvemini
rievocò la metafora dell'uomo che avanza nella foresta con una
candela, con cui Diderot aveva simboleggiato la fragilità e in-
sieme la necessità dell'umana conoscenza. Ma sarà bene non
41
dimenticare che questa metafora era stata usata già da Locke 31 ,
il principe degli empiristi, e, non a caso, il maestro del suo
Cattaneo. Venturi osserva giustamente che Salvemini non pen-
sò mai che la candela illuminasse tutta la foresta: « Era con-
vinto però che quella era l'unica possibile lampada e che il
fatto che fosse piccola, il fatto che in qualche momento fosse
anche fioca, non toglieva che fosse anche l'unica » 32 • Dove la
scienza non arrivava, gli soccorrevano quelli che egli chiamava
« gli impulsi morali». Della radice religiosa di questi impulsi
morali non fece mai mistero. Anzi lo dichiarò e confessò più
volte: «Lemie risposte [ai grandi problemi della vita morale]
- diceva - sono vecchie quanto il mondo: esse possono tutte
riassumersi nella vecchia massima di Cristo che noi dovremmo
fare agli altri ciò che vorremmo che gli altri facessero a
noi » n. Nell'ultima pagina del « testamento » confessa di es-
sersi smarrito come un fanciullo nella indagine dei massimi
problemi e alla fine di essersi acquietato comportandosi come la
vecchierella di Pascal che non riusciva a dimostrare l'esistenza
di Dio ma si regolava come se Dio esistesse. Il suo laicismo
fermissimo, aggressivo, intransigente, non fu mai l'espressione
di spirito irreligioso o volgarmente anticlericale. Nelle sue me-
morabili battaglie per la laicità della scuola egli fu ben più
intransigente di Gentile riguardo all'insegnamento religioso nel-
le scuole elementari, in antitesi al laicismo filosofico del teorico
dell'attualismo, che aveva per effetto la sostituzione della reli-
gione dell'immanenza alla religione della trascendenza e come
presupposto 1a concezione etica dello stato. Il suo fu un laici-
smo metodologico, da perfetto empirista, in tutto e per tutto
conforme alla concezione liberale dello stato, per cui lo stato
cessa di essere religiosamente confessionale non certo per diven-
tare confessionale filosoficamente. Cercando di fissare i punti di
convergenza e di divergenza con Gentile disse con la solita
chiarezza: « Mentre per me la libertà d'insegnamento è mezzo,
è fine, tutto, per lui non è che la via necessaria a raggiungere
l'unità » 34 • Quando venne il momento di scegliere tra la libertà
dell'individuo e l'unità dello stato i due amici presero strade
opposte, e non si sarebbero mai più incontrati.
42
Insisto sull'empirismo salveminiano, perché ritengo vi sia
uno strettissimo nesso tra mentalità empiristica e concezione
democratica della vita sociale. Anche in quest'ultimo quarto di
secolo la rinascita effimera dell'empirismo ha coinciso con il
periodo di maggiore impegno (e illusione) democratica. Mi
preme mettere in rilievo che Salvemini se ne rese conto benis-
simo. Scrisse:
La democrazia - intendo per democrazia la democrazia dello
stupido secolo XIX, e non le democrazie « progressive » o « popolari ,.
di questo secolo intelligente - deve consumare un tempo prezioso nel
persuadere maggioranze, spesso illuse e traviate da interessi non confes-
sabili; deve diffidare degli esperimenti non riusciti; spesso deve ricomin-
ciare a contare i nasi in ludi cartacei, come li chiamava il duce che
aveva sempre ragione, mentre sarebbe stato più spiccio rompere le teste
a manganellate; provare e riprovare; metodi da esaurire la pazienza
anche dei santi. La scelta fra i due metodi è morale prima che politica,
e dipende dalla dose di rispetto, che uno sente verso l'umanità dei
propri simili e verso la umanità di se stesso"·
43
dalla padella della denigrazione nella brace dell'apologia. La-
sciamo volentieri l'apologia alle chiese che hanno bisogno dei
loro santi, o ai partiti che crescono all'ombra dei loro capi (più
o meno) carismatici. Il Movimento Salvemini non è una chiesa
né un partito, e, se Dio vuole, neppure una setta. Niente apo-
logia, ma, ripeto, nei limiti del possibile, un giudizio storico.
Orbene un giudizio storico sul pensiero di Salvemini non può
prescindere dal tormentato corso della democrazia in Italia, di
questo benedetto paese in cui tutti gridano ai quattro venti
democrazia, democrazia, ma pochi ci credono sul serio e pochis-
simi agiscono di conseguenza. Di questo corso Salvemini è stato
un protagonista, con le sue passioni, con la sua impulsività, con
la sua irruenza, talora esagerata, coi suoi giudizi talora affrettati
(di cui onestamente si pentiva quando i fatti gli davano torto),
anche coi suoi errori (« spropositi » o (( corbellerie», come li
chiamava), che poi era il primo a riconoscere e a confessare,
ma con una fermezza incrollabile, con una vitalità inesauribile,
soprattutto con un'intransigenza di fronte a se stesso che resta
un esempio per tutti coloro che credono, come noi crediamo,
che la battaglia per un'Italia democratica sia una battaglia
difficile ma non disperata. Se poi fosse davvero disperata, mi
par di sentire la sua voce ad ammonirci: « Guai a coloro che,
disperando, si danno per vinti prima di aver combattuto».
44
NOTE
45
14 MosCA, Il Jramo11to dello SltJJo liberale, cit., p. 137. Salvemini parla
di Mosca come di « uomo di grande ingegno e di profonda culrura storica e
osservatore acuto e spregiudicato dei fatti sociali~ (Scritti sulla scuola, in Opere
V, a cura di L. Borghi e B. Finocchiaro, Milano, Feltrinelli, 1966, p. 6)2).
15 Storia e scienu, cit., p. 97. Passi d'ispirazione mosdiiana se ne tro-
vano parecchi nclle opere di Salvemini dal periodo dcli'« Unità» in poi. Due
di questi passi sono citati da SAITIA, op. cit., p. 90 e 92, nota 94.
16 Il problema dei rapporti tra Salvemini e Pareto meriterebbe una trat•
taz.ione a parte. Notizie si possono trarre dal primo volume dei C11rtegg,i, sinora
pubblicati, che comprende il periodo 1895-1911, a cura di E. Gencarelli, Milano,
Fdtrinclli, 1968. Salvemini ecatrò in rapporto C(ln Pan:to attraverso i due suoi
amici paretiani, Carlo Piacei e Francesco Papafava. Fu gradito ospite della villa
di Qligny nd gennaio 1911. In Storia e scienza cita il Tratt11to di sociologia
generale, nella traduzione inglese, il cui titolo, Mind and Society, viene ritra-
dotto in italiano con Spirito e società, ci~ con una traduzione che rende in-
comprensibile il riferimento (p. 50).
17 Basti per tutte questa citazione da una lettera a Franco Venturi, dcl
17 settembre 1946: « A me pare, airo Franco, che la sola cosa che possiate
fare voi appartenenti alla generai.ione al di sotto dei quarant'anni è di ricono-
scere che cogli uomini che hanno più di sessant'anni non c'è più niente da fare
in Italia. ~ una generazione assolutamente marcia e disfatta. D'altra parte,
questa generai.ione spregevole non può essere sostituita da un momento all'altro.
~ necessario lasciar tempo al tempo. E bisognerebbe che i migliori della vostra
generai.ione si rendessero conio che saranno necessari almeno dieci anni prima
che sia possibile in Italia ad un paio di centinaia di persone fra i venticinque e
i quarant'anni di farsi avanti e spazzar via nmo il vecchiume. Decidetevi una
buona volta a riconoscere che occom:unno dieci anni di lavoro in1elletluale,
paziente, metodico, tenace, per preparare quelle due o trecento persone che
debbono compiere nel i;econdo risorgimento italiano la funzione che compirono
fra il 1859 e il 1875 le due o trecento persone le quali costruirono l'Italia.
Bisogna che vi decidiate per dieci anni a rimanere a denti asciutti, a non diven•
tare né consiglieri comunali né deputati. Ma bisogna che vi teniate pronti fra
dieci anni a farvi avanti risolutamente e a divenwe sem.a transizione primi
ministri, ministri, ambasciatori, papi - tutto quello che è necessario per diri·
gcre un paese. Sappiate aspetwc • (Lettere Jllll'America, cit., vol. I, p. 381).
18 Su questo aspetto della formazione di Salvemini vedi soprattulto E.
GARIN, Gaetano Slllvemini neUa società itllliana del tempo suo, ncl volume di
AA.VV., Gaetano Slllvemini, cit., specie pp. 154·173. Dello stesso Garin, vedi
anche i saggi sulla cullura fiorentina dell'ultimo secolo nel volume La cultura
itllliana tra '800 e '900, Bari, Laterza, 1962, ove è ristampato anche il saggio
su Salvemini., sopra citato.
19 In una leucra dcl 14 ottobre 1896 Papafava invita Salvemini a mandare
la sua memoria sulla dignità cavalleresca (La dignità cavlllleresca del Com1,1ne
di Firente, 1896) a Pareto con queste parole: « Pareto non è socialista ma non
si può dire davvero che faccia la corte alla borghesia. Le mando Il grido del
popolo con un suo articolo. Pareto è fauo apposta per appre:zurc tullo il
valore eoonomico del Suo lavoro• (Carteggi, cit., p. 34). In una lettera del 16
novembre Salvemini. chiede in prestito a Placci il Cours di Pareto (or,. r:it., p. 38).
Manda a P~to in omaggio i Mag"4ti e popola11i, e ne riceve due cartoline con
un giudizio lusinghiero (op. r:it., p. 106). Dal canto suo Pareto cita questo libro
46
anch'essa una manifestazione dell'eterna lotta economica fra i gruppi umani,
divisi o venicalmente (popoli) o orizzontalmente (classi)•), vedi ancora i Car-
legg,i, ~\:/it&S:~~~~Stf~e!'!~u!8 iettere di Vilfredo Pareto a Benedetto
Croce, in « Revue eum~nnc des sciences sociales. Cahiers Vilfredo Pareto•,
X, n. 27, p. 158.
21 Di questa subi1anea e calorosa amicizia vi sono parecchie testimonianze
nel primo volume dei Carteggi, ma può bastare la seguente: « La nostra ami-
cizia, caro Gentile, non è di qudle che sicno destinate a dissolversi, perché
non si fondano né su un'intesa personale né su una semplice comunanza di
opinioni. Essa è nata da una omogeneilà di carattere morale, la quale non può
mutare come mutano gl'interessi e le idee. E da essa noi ricaviamo sempre il
maggiore di tutti i vantaggi: un reciproco miglioramento morale• (p. 382).
Z! Una pagina di storia antica, cit., p. 127.
23 D~'articolo La. Mafia del Nord (1952), in Opere IV, vol. Il, Movi-
mento socia/tria e questione meridionale, a cura di G. Arlé, Milano, Feltrinelli,
1963, p. 645.
24 Da un articolo .Storia e filosofia, pubblicato su « Il Mondo» del 20
marro 1955, ora in Italia teombinata, Torino, Einaudi, 1959, pp. 351-357. li
passo citato si trova a p. 354.
2S Il programma scolastico dei clericali (1907), in Scritti sulla scuola, cit.,
p. 892.
26 La prima recensione fu pubblicata con lo stesso titolo del saggio salve-
miniano, La storia considerala come scienza, nella « Rivista italiana di socio-
logia•, VI, 1902, pp. 273-276, quindi in Primi saggi, Bari, Laterz.a, 1919,
pp, 171-175; la seconda in « Quaderni della critica•, n. 13, marzo 1949,
pp. 93.95, quindi ristampata in Tene pagine sparse, Bari, Laterz.a, 1955, voi. Il,
pp. 101-104.
'El Una pagina di storia antica, cit., p. 129.
28 Empirici e teologi, cit., p. 45.
2P Storia e filosofia, cit., p. 352.
33 Storia e sdenu, cit., p. 93.
31 F. VENTUu, Salvemini storico, «Il Ponte•, XIII, 1957, p. 1794.
12 • Il nostro spirito è rome una candela che noi abbiamo davanti egli
occhi, e che diffonde luce sufficiente a illuminarci in tutte le nostre faccende.
Dobbiamo rontcntarci delle scoperte che possiamo fare per mczro di questa
luce• (Saggio sull'intelligenu umana, Introduzione, S 5).
47
CAPITOLO III
Salvemini e la democrazia
49
ma restando ben piantato sulla terra dei fatti, di cui è un
meticolosissimo raccoglitore, e da buon nominalista, come si con-
viene a un devoto seguace del metodo empirico, procedendo non
per apprendimento di essenze pure, ma per definizioni o ri-defini-
zioni di parole. Siccome gran parte degli scritti da cui si può
trarre la lezione democratica di Salvemini sono stati provocati
dall'avvento e dalla persistenza del fascismo, il tema da me
scelto « Salvemini e la democrazia» può essere considerato
come un capitolo del tema generale di questa sezione del no-
stro congresso: « Salvemini e il fascismo» 2 •
Non intendo soffermarmi sull'interpretazione salveminia-
na 3 del fascismo, anche perché è più facile definirla negativa-
mente - non è un'interpretazione classistica, non è economi-
cistica, non è moralistica, non è mera.mente politica né mera-
mente psicologica, anche se vengono messe in evidenza di vol-
ta in volta le cause economiche e quelle politiche, i fattori
psicologici e ideali, etc. - , che non positivamente. Intendo
soltanto mettere l'accento su un elemento costante di ogni di-
scorso di Salvemini sul fascismo, su quello che può ben consi-
derarsi il motivo conduttore della sua polemica antifascista: la
contrapposizione democrazia-dittatura, perché è proprio da
questa contrapposizione che egli è indotto a riflettere, se non
altro per contrasto, su ciò che è e su ciò che non è democrazia, e
a chiarire prima di tutto a se stesso e via via in una serie di
scontri con gli interlocutori più diversi, fra rui memorando
quello con Bernard Shaw, quali sono i princlpi in base ai quali
un governo possa legittimamente chiamarsi democratico. Sul
fascismo come dittatura basta una sola citazione:
50
saggio ammette che il passaggio dal regime fascista al nuovo
regime che non potrà essere se non democratico dovrà quasi
certamente avvenire attraverso un governo dittatoriale che egli
chiama « dittatura per la libertà » 5 • Ma risulta chiaramente dal
modo con cui tratteggia i caratteri di questo « governo provvi-
sorio » che una dittatura per essere legittima deve essere un
governo temporaneo, cioè tale da permettere nel più breve
tempo possibile il ritorno alle istituzioni della libertà, ed ecce-
zionale, cioè tale da essere la conseguenza necessaria ed indero-
gabile di circostanze straordinarie, di un vero e proprio stato di
necessità. Ora considerazioni ripetutamente fatte da Salvemini
in scritti diversi e in diverse occasioni sulle origini del fascismo
sono rivolte tutte quante a dimostrare, per un verso, che il
fascismo non era nato da uno stato di necessità, perché quando
avvenne la marcia su Roma la crisi economica aveva superato
la sua fase più acuta e il pericolo della rivoluzione bolscevica
era stato ormai allontanato se pure c'era mai stato, e, per
l'altro verso, che non aveva nessuno dei caratteri di un governo
provvisorio perché, al contrario, si era a poco a poco trasfor-
mato in regime, con la pretesa di ogni regime di durare nel
tempo. Con queste considerazioni, Salvemini era riuscito a dare
la più compiuta dimostrazione che il regime fascista non aveva
né l'uno né l'altro dei caratteri che possono fare di una dittatu-
ra in circostanze eccezionali e rigidamente predeterminate un
governo che gode di una sua propria legittimità. Anche ad
accogliere come possibile fonte di legittimazione di una dittatu-
ra non lo stato di necessità ma l'obiettivo finale, cioè un crite-
rio non più formale ma sostanziale che permette di distinguere
dittature restauratrici di un ordine legittimo sconvolto dalla
violenza di una fazione e dittature rivoluzionarie instauratrici
di un nuovo ordine là dove il vecchio ordine perde a poco a
poco di legittimità via via che perde di efficacia, in altre parole,
anche ad accogliere accanto a un criterio di legittimità stretta-
mente giuridico un criterio di legittimità storica, il fascismo
non acquista il carattere di regime legittimo: il fascismo non
ha restaurato un ordine antico né instaurato un ordine nuo-
vo; anzi ha sovvertito un regime libero senza instaurare un
51
ordine rivoluzionario; è stato un regime insieme liberticida e
controrivoluzionario.
Che le riflessioni di Salvemini sulla democrazia siano state
provocate dall'avvento del fascismo può essere provato dal fat-
to che nel Diario che egli comincia a tenere dal 18 novembre
1922, sotto la data 28 gennaio 1923, esattamente tre mesi
dopo la marcia su Roma, scrive di getto alcune pagine estre-
mamente interessanti sul concetto di democrazia, che non è
arrischiato considerare come una specie di memento per gli
immemori e insieme un affilamento di armi critiche che do-
vranno essere adoperate al momento opportuno. Il frammento
comincia cosl:
~ moda, oggi in Italia, fra gli uomini che si immaginano di essere
« rivoluzionari », disprezzare la « democrazia » quanto e più che non
facciano fascisti, nazionalisti, sognatori di gerarchie e di aristocrazie
rigide e chiuse. E questo disprezzo, che sindacalisti, repubblicani, socia-
listi, anarchici, ed anche uomini come Prezzolini, Gobetti etc., dimostra-
no per la «democrazia», è documento della incultura politica e della
incapacità ad analizzare le proprie idee, che è la malattia fondamentale
dei «democratici» italiani e non italiani 6•
52
allora, disprezzano la democrazia da sinistra e con ciò dimo-
strano di non sapere quello che si fanno (a spese loro e, ahi-
mé!, anche nostre), Quel che è perspicuo e corretto in queste
pagine è la distinzione fra due significati fondamentali di de-
mocrazia 7, secondoché per « democrazia » s'intendano le istitu-
zioni democratiche, cioè le libertà civili e politiche, il sistema
parlamentare, etc., oppure gli ideali democratici, cioè la giusti-
zia sociale, la libertà da ogni forma di sfruttamento e di op-
pressione. La distinzione salveminiana corrisponde, come ognun
vede, alla distinzione fra democrazia formale e democrazia so-
stanziale, o meglio fra democrazia strumentale, come insieme di
mezzi per il raggiungimento di certi fini, e democrazia finale,
come insieme di certi fini che non possono essere di solito
raggiunti che con quei mezzi. Il rapporto necessario fra l'una e
l'altra è stabilito senza equivoci:
Le istituzioni democratiche sono una parte degli ideali democratici,
in quanto il mezzo necessario a raggiungere il fine ideale fa parte
dell'ideale insieme col fine; ma da Jé sole non esauriscono l'ideale
democratico: questo si esaurisce nel fine, che debbono proporsi i demo-
cratici nella loro azione politica 8.
53
finisce presto o tardi per perderli tutt'e due, addito questa lezio-
ne salveminiana come esemplare e la considero ancora oggi
attualissima. Detto altrimenti: nel concetto di democrazia,
mezzi e fini formano un tutto inscindibile, nel senso che non si
ha vera democrazia sia nel caso in cui i mezzi impiegati non
servano al fine, cioè alla realizzazione degli ideali democratici,
sia nel caso in cui il fine sia raggiunto al di fuori di certi mezzi,
cioè attraverso metodi propri dei regimi dispotici che sono
destinati, ad onta delle migliori intenzioni dei loro fautori, a
lasciare il loro marchio sui risultati. Il principio del buon de-
mocratico, di colui che tiene nella massima considerazione gli
universali procedurali, è antitetico a quello del machiavellico,
di colui che tiene la mente e gli occhi fissi soltanto sul risulta-
to. La massima di quest'ultimo è, com'è noto: « Il fine san-
tifica i mezzi»; la massima del primo è al contrario: « I mezzi
santificano il fine ».
Chi peraltro soffermasse la propria attenzione soltanto sul-
le istituzioni democratiche enumerate da Salvemini, potrebbe
sollevare la facile obiezione che la democrazia cosl definita non
è nulla di diverso dal liberalismo. Ma appunto ciò che distin-
gue la democrazia dal liberalismo non sono tanto le istituzioni
quanto gli ideali. La democrazia allora può essere ridefinita
come un insieme di istituzioni (che anche un liberale può accet-
tare) per il raggiungimento di certi fini che sono diversi dai fini
cui tende il liberale puro. Anche su questo punto Salvemini è
molto preciso. « Se per liberalismo s'intende ' l'ideale liberale '
e se per democrazia s'intende ' l'ideale democratico', mi sem-
bra si possa dire che la democrazia è l'ammissione di tutti i
cittadini all'uso delle istituzioni liberali» 10 • Poco oltre, ancora
più sinteticamente: « La democrazia è un'estensione del libera-
lismo » 11 • Non dico che questa distinzione sia del tutto soddi-
sfacente. Oggi la distinzione fra liberalismo e democrazia viene
fatta, a mio parere più opportunamente e più nettamente, in
base alla distinzione fra libertà negativa e libertà positiva. Ma
occorre prima di tutto capire che cosa Salvemini voleva dire,
parlando della democrazia come estensione del liberalismo. Vo-
leva dire che storicamente i liberali erano coloro che avevano
54
fatto belle dichiarazioni intorno alle libertà civili e politiche ma
ritenevano fossero un cibo raffinato adatto non per tutte le
bocche e per rutti gli stomaci.
Sulla distinzione fra democrazia e liberalismo Salvemini
tornerà più volte anche in seguito, specie nello splendido sag·
gio del 1946, Che cosa è un liberale italiano, diretto polemica·
mente contro i grandi liberali, Einaudi e Croce, ma ben più
contro Croce che contro Einaudi, dove ha occasione di precisa-
re il suo pensiero. Non mi soffermo sulle pagine in cui critica
pungentemente l'astratta religione crociana della libertà in no-
me delle libertà concrete e storiche, perché a questa critica ho
ispirato un mio saggio crociano di vent'anni fa 1 2, e non mi
pare il caso di tornarci su, trattandosi di sentenza passata,
almeno per me, in giudicato. Mi sia permesso citare per lo
meno questo brano cui sono debitore di un'illuminazione lon-
tana e durevole:
Gli uomini hanno rivendicato sempre la libertà come garanzia
delle loro libertà, economiche, religiose, intellettuali, politiche e cosl via.
Di una libertà disossata, sterilizzata, eterea, angelica, svuotata di ogni
contenuto, non hanno mai saputo che farsene. La libertà è come il sale;
ce ne vuole un pizzico in tutti i piatti, ma guai a servire in tavola un
piatto di sale e niente altro u.
55
Con questa insistenza sulla determinazione di concetti a-
stratti, come sono i concetti di liberalismo e di democrazia, non
vorrei dare l'impressione di voler far passare Salvemini per un
dottrinario. Salvemini fu prima di tutto uno storico. Non ho
bisogno di tornare ancora una volta sulla sua avversione per 1a
filosofia, cui ho dedicato il saggio citato al principio. Ma poiché
mi sono avventurato sul terreno delle dottrine politiche non
sarà male ricordare uno dei tanti brani antifilosofici per tener
lontano il pericolo di trascinarlo su un terreno non suo. A
proposito di Croce egli dice: « I filosofi vivono nelle nuvole
delle idee astratte e quando scendono in questa valle di lagrime
svolazzano liberamente da un punto all'altro, facendo perdere
1a tramontana a chi cerca di sapere dove mai si fermeran-
no» 16 • Ho detto di proposito che Salvemini era prima di tutto
uno storico: i concetti astratti che egli andava elaborando, e
definendo, erano in realtà ferri del mestiere di storico, stru-
menti di cui si serviva per interpretare la storia (e naturalmen-
te tanto più utili erano come strumenti quanto più erano rifini-
ti). La distinzione fra liberalismo e democrazia sarebbe rimasta
una distinzione dottrinale, se non se ne fosse ripetutamente
servito per risolvere un problema storico, il problema che egli
formulò con la ben nota domanda: « Fu l'Italia prefascista una
democrazia? ». Era evidente che per rispondere a questa do-
manda occorreva, se non si voleva giocare con le parole, stabi-
lire con rigore alcuni concetti, prima di tutto quello di demo-
crazia. Per quanto siano ormai passati quasi trent'anni da quel-
la pagina di diario da cui ho preso le mosse, quando scrive il
saggio sulla Italia prefascista (1952), il concetto di democrazia
non è cambiato di una virgola: « Un regime politico può essere
detto democratico solamente se riconosce tutti i diritti persona-
li, tutti i diritti politici, e tutti i diritti sociali, a tutti i cittadi-
ni, senza distinzione di classe sociale, di razza, di religione e di
opinione politica » 17 • Come si può notare, salvo l'aggiunta dei
diritti sociali (in omaggio alla costituzione repubblicana), l'idea
fondamentale che la democrazia consista nell'estensione del li-
beralismo non è sostanzialmente cambiata. In più, la tesi cen-
trale che la democrazia consista prima di tutto nelle istituzioni
56
democratiche, ossia nella democrazia formale e strumentale, è
rimasta immutata. Poco più oltre precisa: « Il simbolo più
visibile di un regime democratico è il suffragio universale » 18 •
Sulla base di questo criterio la risposta alla domanda, se l'Italia
prefascista fosse una democrazia, è netta: no, non era una
democrazia, era un'oligarchia. Ed era un'oligarchia perché sol-
tanto una classe politica ristretta godeva dei diritti civili e
politici. Era un regime, se si vuole, liberale, non era un regime
democratico. Con ciò, si badi, Salvem.ini non intendeva scaglia-
re nessun anatema nei riguardi di quel regime. Tra Croce che
lo esaltava e Farri che lo aveva condannato, Salvemini tenne
una posizione intermedia. Lo scandalo del fascismo era servito
a riabilitare anche il regime prefascista, anche il « ministro
della malavita» che, come scrisse nella introduzione a L'età
giolittiana di William Salomone, era stato « un parlamentare
straordinariamente accorto, che afferrava con estrema perspica-
cia e con fulminea rapidità le più lievi correnti di opinioni fra i
cinquecento politicanti che formavano la Camera dei deputa-
ti» 19 • Il giudizio più equilibrato sull'Italia prefascista Salve-
mini lo diede proprio in questa introduzione scrivendo:
Se per « democrazia l> s'intende un regime, nel quale tutti i diritti
personali e politici sono assicurati in misura eguale a tutti i cittadini,
senza privilegi sociali, religiosi, razziali, politici o sessuali, e sono assicu-
rati non solo dalla legge scritta ma nella effettiva pratica quotidiana [. .. J
si deve ammettere che l'Italia non ebbe fra il 1870 e il 1922 una
siffatta democrazia. Ma dove mai è esistita una democrazia perfetta?
Non è stata sempre ed ovunque la democrazia una « democrazia in
cammino».? 211 •
57
questo non è possibile, né lecito: solo i dittatori e i loro
consiglieri debbono essere competenti nel dire come sta la gen-
te. Non c'è da meravigliarsi se spesso la cura sia completamen-
te sbagliata 21 • L'enorme importanza che ha l'antitesi democra-
zia-dittatura nel pensiero salveminiano dipende dal fatto che
riflette l'antitesi altrimenti fondamentale fra visione empiristica
e visione speculativa della storia. Si confronti l'articolo Il mito
dell'uomo-Dio, pubblicato su « Giustizia e libertà » nel luglio
del 1934, dove egli traccia a rapidi ed efficacissimi tratti un
confronto fra democrazia e dittatura, con quella specie di te-
stamento pubblicato postumo da Vivarelli su « Il Ponte » del
1968, intitolato Empirici e teologi, dove espone a grandi linee
il suo credo filosofico 22 • Le analogie fra la democrazia e la
visione empiristica del mondo, da un lato, e fra la dittatura e
la visione metafisica, dall'altro, sono sorprendenti. L'empirista
al quale nessuno spirito santo o profano ha mai detto dove
vada il mondo, deve sempre essere disposto a riconoscere di
aver sbagliato, e quindi deve essere tollerante delle idee altrui,
e cedere il passo agli altri quando ha riconosciuto di aver torto.
L'unica forma di governo che gli si confà è quella fondata sul
principio della tolleranza, del rispetto della minoranza, che può
aver torto oggi ma ragione domani, sul concetto della verità
relativa e sempre rivedibile. Il metafisico, invece, parla sempre
a nome dello Spirito assoluto, o del Logos, o della Ragione, o
della Provvidenza, e quindi sa esattamente, in quanto interpre-
te di questi padroni dei destini umani che gli confidano i loro
segreti, dove sia diretta la Storia, giacché « quel Dio, o logos, o
idea, o ragione, comunque li chiamiate, non lasciano andare gli
uomini traballoni verso risultati non previsti, ma li guidano
verso fini da essi predisposti » n. Si capisce che la forma di
governo che più è adatta ai loro pensamenti è quella in cui la
verità è unica, scende dall'alto, non ammette confutazioni, e
quindi deve essere imposta anche ai recalcitranti per il loro
bene, cioè per la salvezza, se non sempre dei loro corpi, delle
loro anime.
L'articolo citato, Il mito dell'uomo-Dio, comincia con
queste parole:
58
La democrazia è basata sull'assunto che nessuno è infallibile e che
nessuno possiede il segreto dd buon governo. La dittatura è basata
sull'assunto che l'umanità è divisa in due parti ineguali: la massa, « il
gregge comune», che nulla sa e nulla capisce; e una minoranza, « i
pochi detti», i quali soli conoscono il segreto per la soluzione di tutti i
problemi2'4.
Oppure:
Niente è più difficile che rispettare nel proprio oppositore la
dignità umana comune ad entrambi, cioè tollerare la contraddizione.
Niente è più difficile che accettare di concorrere in posizione di parità
col proprio antagonista; che aver fiducia nel buon senso e ndla sanità
morale del paese; che affrontare con coraggio le lotte di oggi affinché
possa prepararsi una più larga e stabile cooperazione per domani. Il
dispotismo è assai più facile da concepire e da praticare della libertà. E
più facile schiacciare il cranio di un avversario che persuaderlo 26•
59
se compatta e omogenea che dovrebbe fornire il « personale » a
questo genere di dittatura. Indesiderabile, perché per un de-
mocratico integrale intransigente e radicale come Salvemini,
una dittatura, da qualunque parte provenga, è pur sempre una
dittatura, cioè quella tal forma di reggimento politico che fa a
pugni con il rispetto della libertà e della dignità umana.
60
democrazia politica, e si convenga almeno di distinguere una
dittatura n. 1 da una dittatura n. 2. Concludendo: « Noi con-
tinuiamo a definire come democrazia quella che i marxisti di
stretta osservanza chiamerebbero dittatura n. 1. E questo è
tutto» 29 • Non spendo parole - anche perché ne ho già spese
tante, molti anni fa, nel dibattito raccolto nel volume Politica e
cultura - per sottolineare la correttezza di queste osservazioni.
Ma non mi è sembrato inopportuno ricordarle perché uno dei
tratti caratteristici delle tesi della « continuità », cara a molti
storici della giovane generazione che non hanno vissuto gli
orrori del fascismo e del nazismo, è la confusione fra la ditta-
tura n. 1 e la dittatura n. 2.
La democrazia non è di per se stessa rivoluzionaria. Sal-
vemini ritorna spesso anche sul problema del rapporto fra de-
mocrazia e rivoluzione. Una volta intesa la democrazia come
l'insieme delle istituzioni democratiche, ne segue che il dispie-
gamento della democrazia è incompatibile con la pratica rivolu-
zionaria 30 • Rispetto al passato egli si era fatto la convinzione
che una delle ragioni dell'avvento del fascismo fosse una rivo-
luzione gridata e non mai eseguita: soleva dire che le grandi
reazioni nascono dalle rivoluzioni fallite 11 • Rispetto al futuro
egli non credeva, come si è detto, nella possibilità di una rivo-
luzione proletaria in Italia, per la semplice e forte ragione che
a suo giudizio non esisteva il proletariato 32 • Ammetteva che in
casi estremi, quando lo stato aveva esso stesso violato i princlpi
su cui si regge la democrazia, si dovesse ricorrere alla violenza.
Ma riconosceva che anche in questi casi « una rivoluzione non
è mai un bene», perché « lascia sempre dietro di sé attivo
quello spirito di violenza da cui è nata e senza cui non poteva
trionfare», e aggiungeva: « Chi predica a cuor leggero la rivo-
luzione per la rivoluzione, è altrettanto colpevole quanto chi
predica a cuor leggero la guerra per la guerra » 33 • Oltre alla
domanda se l'Italia fascista fosse stata una democrazia si pose
spesso negli ultimi anni anche la domanda se il Risorgimento
fosse stato una rivoluzione. Distingueva due significati di rivo-
luzione, e rispondeva che, se per « rivoluzione» s'intende un
movimento illegale e violento, il Risorgimento non fu una rivo-
61
luzione, ma se s'intende « un rinnovamento profondo di una
situazione tradizionale » lo fu M. Ma non capiva perché « la
politica diretta a promuovere una trasformazione totale attra-
verso un processo graduale dovesse essere chiamata rivoluzio-
naria » 35 • Al Comitato esecutivo del Partito socialista rivolu-
zionario italiano scrisse nell'agosto 1944:
La rivoluzione non è mai stata fine a se stessa. È stata sempre
metto per raggiungere fini necessari, che a1trimenti sarebbero rimasti
irraggiungibili. Lasciatemi aggiungere che se una rivoluzione deve essere
promossa con animo forte quando è necessaria, non è il caso di deside-
rarla come una manna del cielo. Se fosse possibile evitarla anche a costo
di rinunziare a qua1cuno dei fini immediati non vitali, io per conto mio
non esiterei ad evitarla. Un'operazione chirurgica può divenire necessa-
ria, ma è sempre un guaio, e chi può guarire senza di essa non l'accetta
per il solo gusto di pagare le spese dell'operazione 36•
62
democrazia rousseauiana, da cui è nato il mito della sovranità
popolare. Salvemini è un realista che non si fa molte illusioni
sulla maturità del popolo e sulla sua capacità di autogovernarsi.
E rispetto alle virtù dei propri simili, sia di quelli che stanno
in alto sia di quelli che stanno in basso nella scala sociale, è
più pessimista che ottimista. Col passare degli anni, anzi, di-
venta sempre più realista e sempre meno fiducioso nell'intelli-
genza e nella bontà delle masse. Ma il concetto che egli ha
della democrazia si adatta perfettamente a questo realismo e a
questo pessimismo:
63
zione classistica della storia, quella concezione dove si muovono
in un perpetuo antagonismo le grandi forze sociali, si avvicina
alla concezione elitistica, caratterizzata dalla contrapposizione
non fra classe e classe ma fra élite e massa. Il suo distacco dal
partito socialista, che è il primo partito di massa italiano, coin-
cide con la fondazione di una rivista di pochi ma buoni come
l'« Unità». Da allora nei momenti cruciali del paese il suo
programma politico si risolve in un programma di politica cul-
turale, cioè di un progetto a lunga scadenza di educazione
politica. Le tre grandi sconfitte che egli ha vissuto e sofferto,
quella del socialismo riformatore, dell'interventismo suscitatore
di un nuovo e più giusto assetto internazionale, del rinnova-
mento democratico dopo la guerra, lo hanno condotto a perde-
re ogni fiducia nelle spontanee virtù delle masse. Ma non giun-
ge sino a disperare della loro educabilità. In una pagina del
diario citato distingue due concezioni opposte circa le capacità
delle moltitudini a governarsi da sé. Vi sono coloro che credo-
no nella capacità, « per lo meno rudimentale », delle masse a
essere educate, e cercheranno di educarle. Vi sono altri invece
che considerano l'umanità incapace di agire razionalmente« salvo
una piccola minoranza destinata a comandare ». Per costoro il
solo governo possibile è il governo oligarchico 42 •
Non inganni la contrapposizione che sembra cosl netta fra
democrazia e oligarchia. La distinzione fra democratici sinceri e
democratici falsi è una distinzione fra due minoranze. Nel mo-
mento della delusione per la sconfitta si domanda quanti siano
i democratici sinceri. Risponde, consegnando la risposta a una
pagina di diario che forse non avrebbe mai dovuto vedere la
luce: « Debbono essere pochi assai ». E continua ancora più
amaramente: « [ ... ] e sono destinati a fare sempre cattiva fine:
perché le folle sono in realtà incolte e bambine, e sono più
facili a truffare che ad educare» 0 • Non saprei dire se quando
scriveva quella pagina (gennaio 1923) Salvemini avesse già ac-
colto completamente la teoria moschiana della classe politica.
Anche ammesso che non l'avesse ancora enunciata con la ferma
convinzione con cui la enuncerà e ripeterà negli scritti degli
ultimi anni, la contrapposizione fra democrazia e oligarchia co-
64
me contrapposizione fra minoranze che credono nell'educabilità
del popolo e minoranze che trattano il popolo unicamente come
massa da sfruttare e asservire, ne era un preannuncio. La piena
accettazione della teoria moschiana è ormai evidente nel saggio
del 1925, L'Italia politica del secolo XIX. Per quanto quasi
tutti coloro che si sono occupati delle idee di Salvemini abbia-
no accennato all'influsso delle idee moschiane sulle sue opere
della maturità 44 , non mi pare che il te.ma sia stato sinora
affrontato con l'attenzione che merita. Ritengo che le opere di
Salvemini della seconda maniera appartengano alla storia della
fortuna davvero straordinaria delle teorie della classe politica o
delle élites in Italia e nel mondo, e in particolare a quella
versione della teoria che viene onnai chiamata correntemente
dell'elitismo democratico, e che annovera in Italia personaggi
come Gobetti e Dorso, entrambi legati per diversi fili a Salve-
mini, e fuori d'Italia il sociologo Karl Mannheim, l'economista
d'origine austriaca Joseph Schumpeter, e in questi ultimi anni
uno dei più noti scienziati politici americani, Robert Dahl 45 •
Per chi conosca l'opera del Mosca· è per lo meno sorprendente
l'inizio del saggio sull'Italia del secolo XIX, testé citato: « La
storia del Risorgimento italiano è la storia delle esperienze,
attraverso cui le classi dirigenti italiane nel secolo XIX giunsero
ad organizzare il regime unitario, monarchico e costituziona-
le» 46 • La derivazione moschiana, anche nell'uso delle parole
(« classi dirigenti» e «organizzare») è evidente. Tanto più
quando in altri contesti Salvemini parla, anziché di « classi
dirigenti», di « minoranze organizzate», che è l'espressione
temica e specifica usata dal Mosca per indicare il gruppo politi-
co dirigente in ogni società. Ma il brano che non lascia dubbi
sulla forte e diretta influenza esercitata dalla lettura dell'opera
del Mosca è il seguente: « La storia non è fatta né dalle
moltitudini inerti, né dalle oligarchie paralitiche. La storia è
fatta dalle minoranze consapevoli ed attive, le quali, vincendo
le inerzie delle moltitudini, le trascinano, verso nuove condi-
zioni di vita, anche contro la loro immediata volontà » 47 • Solo
molti anni più tardi Salvemini denuncerà il proprio debito nei
riguardi dell'autore degli Elementi di scienza politica quando
65
nell'opera di metodologia della storiografia, Storia e scienza,
scritta negli Stati Uniti nel 1938, dopo aver esposto la teoria
della classe politica, affermerà: « S'io non erro, tutta la storia
corrobora la legge di Mosca » 48 • Ma già sin dal 1925, quando
scrive il saggio sulla storia d'Italia, non si può mettere in
dubbio la grande impressione che doveva aver suscitato in lui
la lettura dell'opera moschiana. Che Salvemini avesse letto l'o·
pera giovanile di Mosca, la Teorica dei governi, che contiene se
pur non sempre sviluppate a dovere le stesse tesi degli Elemen·
ti, è da lui stesso dichiarato in un caldo elogio che tesse di
quest'opera in uno scritto del 1908 (nel saggio La riforma
della scuola media) 49 • Ma non bisogna dimenticare che gli
Elementi, pubblicati primamente nel 1896, erano apparsi in
una edizione riveduta e grandemente ampliata nel 1923 ed
erano stati accolti al loro apparire da due recensioni molto
favorevoli di Croce e di Einaudi 50• Non è da escludere che
anche Salvemini avesse letto o riletto l'opera cosl esaltata su
per giù in quello stesso periodo di tempo 51 • Soprattutto non si
può passar sotto silenzio l'ammirazione schietta e sincera che
Salvemini nutrl per il Mosca, indipendentemente dall'apprez.
zamento delle di lui opere maggiori, vale a dire per uno studio-
so autorevole che aveva scritto una lusinghiera recensione della
Storia della rivoluzione francese 52, e del quale aveva potuto
constatare la convergenza delle opinioni in occasione della
guerra di Libia tanto da considerarlo come « uno dei più seri e
più profondi scrittori di cose politiche che abbia l'I talla » 53 e
da chiamare il libretto Italia e Libia, in cui Mosca aveva rac·
colto i propri scritti sulla questione libica, « aureo volumetto
che riassume in piccolo spazio con mirabile serietà e chiarezza
quanto di più sicuro può dirsi allo stato attuale delle nostre
cognizioni sulla nuova colonia italiana » 54 •
Secondo la teoria dell'elitismo democratico, l'affermazione
che in ogni regime è sempre una minoranza che detiene il
potere non è incompatibile con l'affermazione che vi sono te·
gimi molto diversi secondo i diversi rapporti che sussistono fra
élites e masse e fra élites ed élites. La teoria delle élites non è
in particolare incompatibile con il riconoscimento di un regime
66
democratico purché: a) le élites siano continuamente controlla-
te dalle non-élites, e b) vi siano più élites in concorrenza fra
loro. Per quanto la letteratura sulla teoria delle élites, in parti-
colare sull'elitismo democratico, si sia andata moltiplicando in
questi ultimi anni sl che par di assistere a una vera e propria
riscoperta di autori come Mosca e Pareto, e non solo in Italia,
non mi è mai accaduto di vedere citato il nome di Salvemini.
Eppure vi rientra a pieno diritto (come vi rientra del resto
anche Einaudi, ammiratore, non meno di Salvemini, di Mosca).
Dal 1925 i brani in cui Salvemini professa la sua convinzione
elitistica, spesso con espressioni identiche o simili, sono fre-
quenti. E quel che più importa ogni volta introduce la distin-
zione fra due diversi tipi di élites, o, come egli le chiama, di
« oligarchie », che permette di affermare la compatibilità fra
élites e democrazia. Fra i vari brani di questo tenore scelgo
come particolarmente significativo il seguente, tratto dalle Le-
zioni di Harvard:
In nessun regime democratico il. potere è nelle mani di tutta· la
popolazione o della sua maggioram:a. Il potere è nelle mani di quel
partito che per il momento è sostenuto dai voti della maggioram:a degli
elettori, e questa maggioranza non è la maggioranza di tutta la popola-
zione, ma solo di quella parte della popolazione che si interessa di poli-
tica almeno quel tanto da partecipare alle elezioni. Tutti i partiti sono
minoram:e organizzate, che cercano di ottenere l'appoggio della maggio-
ranza elettorale, e a sua volta questa maggioranza elettorale non è che
una minoranza dell'intera popolazione [ ... ] Nei regimi totalitari le cose
non vanno diverswnente. Ma c'è, Juttavia, una di9erenza sostanziale fra
un regime oligarchico o Jotalilario e un regime democratico. Sotto un
regime oligarchico o totalitario i diritti politici [ ... ] sono legalmente il
privilegio di una minoranza che possiede per diritto proprio il monopo-
lio del potere. Una costituzione democratica garantisce gli stessi diritti
politici a tutti i cittadini, senza distinzione di classe, religione, razza, o
appartenenza politica. Conseguentemente una democrazia è un regime di
libera conco"enz.a tra libere minoranze, anche in quei paesi dove le
masse sono politicamente educate ed organizzate. Ma questa non è una
buona ragione per considerare un regime democratico come identico ad
un regime oligarchico o totalitario 55•
67
dell'espressione moschiana « minoranze organizzate», anche per
la frase finale che definisce la democrazia come « libera concor-
renza fra libere minoranze».
Questo modo di definire la democrazia non è di Mosca ma
di Schumpeter. Com'è noto, nel libro Capitalismo, socialismo
e democrazia, Schumpeter definisce la democrazia attraverso la
definizione del metodo democratico e definisce il metodo de-
mocratico in questo modo: « Il metodo democratico è lo stru-
mento istituzionale per giungere a decisioni politiche, in base al
quale singoli individui ottengono il potere di decidere attraver-
so una competizione che ha per oggetto il voto popolare » 56 •
Questa definizione serve a Schumpeter per rigettare come irrea-
listica e falsa la dottrina classica della democrazia fondata sul
concetto di volontà generale e di bene comune, senza cadere
nella trappola delle dottrine reazionarie le quali deducono dalla
irrealizzabilità della democrazia come espressione della sovrani-
tà popolare la conclusione che tutti i governi sono egualmente
oligarchici. La prima edizione del libro apparve in inglese nel
1942, pubblicata dalla università di Harvard, dove Schumpeter
era, come Salvemini, professore. Le lezioni di Harvard, più
volte citate, furono scritte da Salvemini nel 1943. :È lecita la
congettura che Salvemini avesse letto il libro di Schumpeter, o
ne conoscesse alcune tesi centrali, e ne avesse tratto ispirazione
per completare le sue tesi sulla democrazia? Non ho elementi
per suffragarla, anche se l'appartenenza di entrambi allo stesso
clan accademico negli stessi anni la rende verosimile 57 • Sta di
fatto che la somiglianza è sorprendente. Mi limito a constatare
che oggi la tesi schumpeteriana secondo cui sulla base di una
stretta analogia col regime di concorrenza nella sfera economi-
ca, per democrazia s'intende un regime in cui non vi è un solo
gruppo dirigente ma vi sono più gruppi dirigenti in concorren-
za fra loro per l'accaparramento dei voti, è ben conosciuta e
riconosciuta, e che Salvemini ne diede una formulazione curio-
samente simile su per giù nello stesso periodo di tempo.
L'uso che il democratico fa della teoria delle élites allo
scopo di dimostrare che la distinzione fra diversi tipi di regime
passa non attraverso la distinzione fra democrazia ed oligarchia
68
ma fra diversi tipi di oligarchie, serve, come si è detto, a
evitare l'idealizzazione della sovranità popolare senza cadere nel
brutale realismo {cui indulgeva il Mosca) di chi considera ogni
regime come l'espressione della volontà di dominio di una mi-
noranza organizzata. Di fronte a chi pone il problema in termi-
ni dilemmatici: o democrazia o oligarchia, e conclude che, sic-
come la democrazia non è possibile, ergo non vi sono, non vi
sono stati e non vi saranno se non governi oligarchici, l'elitista
democratico risponde: « Tertium datur ». Tale fu la risposta
che Salvemini diede a Bernard Shaw nella lunga ed acre pole-
mica che ebbe con lo scrittore inglese, il quale, dal fatto che
anche il regime britannico non era una democrazia perfetta,
argomentava che il regime fascista era un buon regime e sotto
certi aspetti migliore dell'oligarchia britannica; Salvemini repli-
ca con questa interessante annotazione, che è un ultimo omag-
gio {ultimo anche in ordine di tempo) alla teoria dell'élites:
69
confutare in anticipo la tesi della continuità fra Italia prefasci-
sta e fascismo, tesi che non sai se sia fatta più per svalutare la
prima o per rivalutare il secondo. Proprio nel saggio Fu
l'Italia prefascista una democrazia? ritorna sulla teoria dell'éli-
tes e ribadisce il concetto che tutti i governi sono oligarchici
perché formati da minoranze ma la differenza è « fra minoranze
chiuse e minoranze aperte, fra minoranze rigide e minoranze
fluide, e soprattutto fra minoranze inette e minoranze capaci di
farsi valere» 59 • Nonostante tutti gli errori compiuti, le mino-
ranze che governarono l'Italia dopo l'Unità sino al fascismo
furono piuttosto del primo tipo che del secondo. L'Italia pre-
fascista fu, oltreché un'oligarchia di notabili, come si è visto,
una « rivoluzione dei ricchi » 60, ma non fu tale da non aver
permesso anche ai poveri di diventare meno poveri, alle plebi
di diventare popolo. « Se si confronta l'Italia quale era nel
1860 con l'Italia qua!e era nel 1914, non è possibile discono-
scere l'immenso progresso, non solo economico, ma anche poli-
tico e morale fatto in quel mezzo secolo » 61 •
Personalmente condivido nella sostanza questo giudizio. Il
fascismo non può essere giudicato isolandolo da quello che è
stato prima e da quello che è venuto dopo: solo inserendo il
ventennio fascista nel secolo di storia che va dall'Unità ad oggi
ci si può rendere conto di quanto sia stato grande il suo influs-
so negativo sul progresso civile e sociale del nostro paese.
Sarebbe peraltro far torto all'intelligenza di Salvemini attri-
buirgli l'idea che fosse bastato il progresso nella democrazia
formale prima del fascismo e l'arresto della stessa democrazia
formale durante il fascismo per distinguere l'età della luce dal-
l'età delle tenebre. Disse e ridisse di non aver mai creduto che
il suffragio universale fosse il toccasana di tutti i mali. Aveva
troppo alto il concetto della democrazia per limitarlo ad un
espediente, per quanto importante, non risolutivo. Scrisse: « La
fede nella democrazia rampolla dalla persuasione ottimista che
l'uomo impara a furia di prove ed errori, e se non comincia a
provare ed a errare, non imparerà mai; rampolla soprattutto da
una robusta fiducia nell'avvenire del proprio paese, e dal ri-
spetto che ogni uomo civile deve a se stesso e ai suoi concitta-
70
dini, anche quando questi sono su una via sbagliata: impare-
ranno sbagliando » 62 •
Mi piace concludere con questa citazione perché rivela
chiaramente pur nella sua brevità il nesso fra principio demo-
cratico e metodo empirico da cui ho preso le mosse. Ma poi
aveva davvero Salvemini quella persuasione ottimistica nella
capacità degli uomini di vivere democraticamente? Sl e no; sl
nei fatti, non sempre a parole 6l, « Se credessi la umanità -
scrisse una volta ad Armando Borghi - più intelligente e
meno indifferente al suo stesso male che essa non è, sarei
anarchico anch'io. Purtroppo la umanità, qual la vedo intorno a
me, cioè i novecentonovantanove millesimi, e forse più, dell'u-
manità, è interessata solo a mangiare, far figli e andare a
scommettere alle corse dei cani» 64 • Per fortuna Salvemini era
una di quelle rare persone che razzolano bene, anche se qualche
volta predicano male.
71
NOTE
r.i=
sioni, presentando la Mostra in onore di G. Salvcmini ideata da E. Rossi, il
giorno della inaugurazione a Torino, 27 novembre 1969, con UD breve disoorso
~d:~~i~;~nfnV: :it1!bde:f
6P=~oioc;! ~~ ~=d,
nella Stori4 della letteralwa italiana, Milano, Garzanti, 1969, voi. IX, pp. 167-176.
2 Il nesso fra empirismo e nominalismo è un bel problema filosofico, ma
non è tema per questo congresso. Mi limito a OSSCI"Vare clic chi è attento ai
fatti sa che bisogna mettere i artcllini (le parole!) al posto giusto.
~.~~ii~!J f.=}::, ~iH;ll~ni°;';~ YI,~iv~:1If1;;t 0
pp. IX-XXVIII.
4 Il primo dOflere: conquistare 14 Nuova Liberlà (1928), in Scrilli st.11
fascismo, voi. II, Opere VI, Milano, Fcltrinclli, 1966, p. 393.
5 lbid., p. 407.
6 Memorie e soliloqt.1i (18 novembre 1922-24 settembre 1923), in Scritti
u,l fascismo, voi. II, cit., pp. 101-102.
7 V cramcntc i significati di democrazia che Salvemini distingue in questo
passo SODO tre: oltre i due ricordati nel testo, inttoduce anche il significato di
« dcmocrazi.a 11- nel scnso dei « partiti che nei cinquant'anni passati hanno sven-
tolato la bandiera democratica ... 11- (op. cit., p. 103). Ma è un significato irrile-
vante per il nostro discorso. Da vedere anche le Lezioni sulla democrazia, pub-
blicate e commentate da S. Buccbi, nel volume Gaetano Salvemini tra storia e
politit:a, « Archivio Trimestrale 11-, Rassegna storica di studi sul movimento re-
pubblicano, VIII, 1982, n. 3-4.
8 ]bid., pp. 102-103.
9 Ibid., p. 102.
10 Ibid., pp. 104-105.
11 Ibid., p. 105.
12 N. BoBBIO, Benedello Croce e il liberalismo (1955), in Politica e crd-
lJ1Ta, Torino, Einaudi, 1955, pp, 211-268 (ora in edizione e reprint », 1974).
13 Che cosa è un liberale ilaliano nel 1946, in Scritti sul fascismo, voi. III,
cit., p. 366. Contemporaneo il saggio Il concetto Ji democrazia, in ,. Il Ponte 11-,
72
II, 1946, pp. 1'-26, in cui il pensiero di Salvcmini sul tema è sinteticamente
e incisivamente riassunto.
14 Ibid., p. 381.
1s Ibid., p. 380.
16 Ibid., p. 361.
17 Fu l'Italia prefasdsta una democrazia?,« Il Ponte•, VIII, 19-'2, p. 13.
18 Ibid., p. 14.
19 Introduzione a L'etiJ giolittilllUI di W. Salomone, in Il ministro della
malavita e altri scritti sull'Italia giolitti.ana, Opere VI, 1, Milano, Fcltrinclli,
1962, p. -'26. Vedi anche p. 530.
li) Ibid,, P• -'18, I
11 Il governo degli esperti (19}4), in Scritti sul fascismo, voi. II, cit., pp.
5'4-555.
22 Il mito Jell'uomc,.Dio (1934), in Scritti sul fascismo, vol. II, cit., pp.
549--'52; e Empiria e teologi, « Il Ponte•, XXIV, 1968, pp. 44-50.
ll Empirici e teologi, cit., p. 48.
24 Il mito deU'uomc,.Dio, cit., p. 549.
n Ibid., p. 550.
26 Ibid., p. 552.
71 Dittatura e democrflVJI (1932), in Scritti sul fascismo, voi. Il, cit., p.
457. Contro la dittatura comwili;ta 1111the Il primo dovere: conquist11re 14 NuoWJ
Libertà, cit., p. 402.
21 Lezioni di Harvard. L'Italia dal 1919 al 1929, in Scritti sul fascismo,
voi. I, Opere VI, Milano, Fdtrinelli, 1961, p. 343. lo stesso tema è tranato
anche in un capitolo di LI sorte dell'Italia (1943), in L'Italia visto daJJ'America,
Opere VII, Milano, Fdtrinelli, 1969, p. 217 ss., contro la tesi della immaturità
come carattere naturale e permanente del p0polo italiano.
211 Lezioni di Harvard, cit., p. 344. Per lo stesso concetto {distinzione &a
dittatura n. I e dittatura n. 2) vedi a.oche Naturt1 o dviJtiJ (1943), in L'Italia
vista dall'America, cit., p. 140.
JO Sulla distinzione &a democrazia e rivoluzione si vedano le considera-
zioni di Memorie e soliloqui, cit., p. 10-', là dove Salvemini, dopo aver osservato
cli.e i termini «democratico• e «rivoluzionario• vengono spesso confusi, pre-
cisa cli.e, mentre democratico si oppone a oligarca, rivoluzionario si oppone a
riformista.
31 La diJJaturo fascista in Italia (1928), in Scritti sul fascismo, vol. I,
cit., p. 32.
Jrazion~ ~;~b/k!~o~:O:f:tf;~~ }:mftaÌio(1~44tttoindf.~~r1~:rJiill~I:,'::::
cit.,in panicolarc p. 622 ss.
33 Il primo dovere: conquist11re la Nuova Libertà, cit., p. 394.
34 Fu l'Italia p,efascisto uno democrflVJI?, cit., p. 11.
35 Per una concentrazione repubblicona-socialista in Italia, cit., p. 604.
36 Ibid., p. 605.
:r, Prefazione a L'Italia visto dall'America, cit., p. XXVIII.
31 La sorte dell'ltali4, cit., p. 3-'5.
39 Un esame completo delle idee salvcminiane sulla dc:mocrazi.a dovrebbe
tener conto anche dei vari passi in cui l'occasione di confermare e di definire i
suoi ideali democratici gli è ollena dal confronto &a la dc:mocrazi.a, quale egli la
~1!//;;isj~O:,~:h~ : : t t t t t t v ~ , :,t;;:p~~· Eo=
ID L'Italia vista dall'Americo, cit., pp. 518-520. Non mi trattengo dal citare il
~ente brano: «La dottrina liberale non gauntiso: i medesimi diritti alla
vcruà c all'errore né prescinde dai principi morali. Sostiene soltanto che nessuna
73
autorità laica o cc:clesiastica ha il diritto di imporre le proprie credenze: filosofi-
che, religiose o politiche mandando gli avversari e gli eretid in galera o al
patibolo. Un liberale ha le proprie convinzioni e ritiene che le convinzioni op-
poote alle proprie sialio false, e non cont'Cde ad esse alrun diritto ad essere
accettate come vere, ma DOD si sente autorizzato ad obbligare gli avvenari a
inghiottire le sue convinzioni. Difende la tolleranza 'giuridica' non quella
'intellettuale'. La dottrina cattolica non permette né tolleranza intellettuale (e
qui coincide con la dottrina liberale) né tolleranza giuridica (e qui si scontra
colla dottrina liberale)• (p. !HS). Mi par difficile esprimere un concetto cosl
profondo con eosl poche parole.
-«1 La sorle dell'llalia, cit., p. }54.
41 Basti questa citazione: « La divisione tra /tucisti, antifascisli e indif-
ferenti non coincide con nessuna di/ferenziarione sociale. Fascisli, antifascisti e
indifferenti ne troviamo fra gli industriali come fra gli operai, fra i proprietari
di terre come fra i fittavoli, i mezzadri, i braccianti, fra i professori e fra gli
analfabeti, fra i bottegai e fra gli impiegati, fra i credenti e i miscredenti, nei
maschi e nelle femmine,. (Il primo dovere; conquistare la Nuova Libertà, cit.,
p. 400). Ma anche Lezioni di Harvard, p. 57}: « AJl'ingrossamento di questo
movimento contribuirono tutte le classi sociali; e, d'altra parte, uomini prove-
nienti da ogni classe sociale si trovarono presenti in tutti i gruppi antifascisti
[ ... ] La storia politica non è fatta dalle classi sociali ma dai partiti politici, i
quali sono formati da uomini provenienti da strati sociali diveni, m.1 legati
insieme da un fine comune-: la conquista dd potere politico ,._
42 Memorie e soliloqui, cit., p. 106.
43 Ibid., p. 106.
44 Già Walter Maturi notava nella voce Risorgimento della Encidopedia
italiana: « Il Salvemini tentò di dare un'autonomia alla storia politica, introducen-
dovi i concetti, elaborati dal Pareto, di classe politica e di circolazione delle
~t:as!t: :tn;1rd:i::e $~~aci~!:~i· Kia;!Jt ';~;r:,:
0 0
74
(La riforma della scuola, io Scritti sull4 scuola, Opere V, Milano, Fdtrinelli
1966, p. 632). lo UD passo dclle Lezioni di Harvard, confrontando Pareto e
Mosca, scrive: « Del resto la dottrina della élite in una forma dte suonasse
gradita ai partiti antidemocratici non fu Pareto a inventarla; lui l'aveva appresa
da Gaetano Mosca, UD brillante studioso che nel 1896 aveva elaborato siste-
maticamente una dottrina delle minoranze organirute definendole ' classi di-
rigenti ' con termine assai più proprio che non quello paretiano di ' "ite ',.
(op. cit., p. 370).
50 Rispettivamente in « La Critica,., XXI, 1923, pp. 374-381; e in « Il
Corriere della Sera•, del 2 giugno 1923, ora in Cron1J&he economiche e poli.
tkhe di un trentennio, Torino, Einaudi, 196', VII, pp. 264-268.
51 Dopo l'uscita di questo mio scritto, è appano l'articolo di C. MoNGAI.·
~~~ 5:,!;;~r: 0
::,;ti:)~~ta:s:::c: ~i:r:::~ ~11tti1A~;p~~5~3!:.t'J
notevole interesse, percM conferma con ulteriori dati che « l'opera di MosaJ.
resta[ ... ] un punto di riferimento per la ricerca storica e politica di Salvemini,.
(p. 327). Tra l'altro risulta da una lettera del 3 marzo 1925 che Mosca aveva
promesso all'amico di scrivere qualche cosa sugli Elementi di scienza politica,
usciti poco prima nella seconda edizione (p. 339). Tra gli inediti pubblicati da
Mongardini vi è l'articolo che Mosca scrisse per « Il Corriere della Sera•, quando
ai primi di gennaio 1909 si era sparsa la notizia che Salvemini fosse morto
con la sua famigli.a durante il terremoto di Messina.
52 Questa recensione apparve col titolo Un libro itali11t10 sulla rivoluzione
francese, « Il Corriere della Sera,. del 6 luglio 1908, ora in G. MosCJ., Il tra-
monto dello !lato liberale, a cura di A. Lombardo, Catania, Bonanno, 1971,
pp. 592-597.
SJ Falsificazioni tripoline. Il ,apporto Rohlfs, «L'Uniti•, I, n. 1, 16 di-
cembre 1911, ora in Scritti di politica este,à, voi. I, Come siamo andati iri Libia,
in Opere III, Milano, Feltrindli, 1963, p. 120.
54 Come siamo andati in Libia, dt., p. 195.
n Lezioni di Hlln)Qrd, cit., pp. 345-346. II corsivo~ mio.
S6 J, A. SoruMPHTER, Capitalismo, socialismo e democrazia, Milano, Edi-
zioni di Comunità, 1955, p. 252.
51 Sulla possibile conoscenza dd pensiero di Schumpeter da parte di Sal-
vemini vedi E. TAGLIACOZW, Maestro di democrazia. Di alcuni scritti degli
anni d'America, in Gaetano Salvemini tra storia e politica, cit., p. 791 in nota.
58 G. B. Sbaw e il fascismo, Parma, Guancia editore, 1955, che cito dagli
Scritti sul fascismo, voi. II, cit., p. )16. Per quanto la polemica risalga al
1927 le note, cui appartiene il brano citalo nel testo, furono apposte da Sal-
vemini in occasione della ristampa od 1955.
s, Fu l'Italia p,efascista una demomu..iaJ, «Il Ponte•, cit., p. 167.
1(1 LII rivoluzione del ricco fu il titolo che Salvemini diede al rifacimento
di una parte dd saggio Fu l'Italia p,efascista UM democrazia?, pubblicato a
più pUDtate sul «Ponte•. Questo rifacimento fu pubblicato nella Miscellanea
in onore di Roberto Cessi, Roma, 1958, pp. 167-181, ed ora in Scritti nd Risor-
gimento, eit., pp. 457-471.
61 Fu t'ltalia prefascista una democrazia?, cit., p. 297.
6Z Ibid., p. 288.
63 Sul pessimismo, lucido e sereno, di Salvemini ci sarebbe da scrivere
un altro saggio. Mi limito a trascrivere questa frase emblematica: « Egli [H.
Kobn] resta, tuttavia, un ottimista e non vuol aedere alla possibilità dcllo
sfacelo della nostra civiltà. Pw-e, una grande civiltl - quella del mondo
romano - crollò nel tc:t20 secolo; e non ~ certo che la nostra civiltà non
abbia I soc:c:ombere di fronte agli assalti dei nuovi barbari. Io non sostengo che
75
quelli che credono JJ.ella ragione oombattaoo una battaglia perduta. Ma dico
che oé la vittoria della ragione, llé quella della fori.a sooo si.cure. L'esito di-
penderà dall'ostinaziooe dei combattenti. e da eventi imprevedibili su cui
la volontà umana non ha akw1 controllo. E non è necessario credere ndla
vittoria. per iniziare la lotta e proseguirla., (Il ,;-ulto della violrnv,, 1937, in
Scritti sul fa.sdsmo, vol. II, dt., p. '.58.5).
64 Uttrrr d.ul'Amrrica, Bari, Laterza, 1967, vol. I, p. 170.
76
CAPITOLO IV
77
incarnazioni, una sorta di vecchia provvidenza discesa dal cielo
alla terra. Contro la tesi giovane-hegeliana della storia umana
fatta dalla Storia con la s maiuscola, Mondolfo cita il seguente
passo di Marx:
La storia non fa nulla, essa non possiede alcun enorme potere,
essa non combatte nessuna lotta. t. piuttosto l'uomo, l'uomo effettivo e
vivente, che fa tutto, che possiede e combatte; la storia non è qualche
cosa che si serva dell'uomo come mezzo per conseguire coi propri sforzi
degli scopi - quasi fosse una persona a se stante - , ma essa è
null'altro che l'attività dell'uomo che persegue i suoi scopi 2 .
78
Il significato polemico di questo modo d'intendere il mar-
xismo stava nella contrapposizione a tutte quelle forme di an-
timarxismo volgare che, fraintendendo intenzionalmente e ma-
levolmente il concetto di materialismo, accusavano i movimenti
che al marxismo e al socialismo in genere si ispiravano di
predicare l'avvento di una società in cui gl'interessi materiali
avrebbero preso il sopravvento sui valori spirituali, la soddisfa-
zione dei bisogni del ventre, come si diceva, su quelli dello
spirito. ~ già stato notato più volte che una delle caratteristi-
che del marxismo italiano (per cui è stato anche coniato il
termine «italo-marxismo)>) è sempre stata una certa antipatia
per l'interpretazione materialistica dell'opera di Marx, proprio
a causa della confusione che poteva essere compiuta e di fatto
veniva continuamente compiuta fra il materialismo come cate-
goria filosofica e il materialismo come categoria etica, fra il
significato alto e il significato volgare del termine « materiali-
sta». Nel 1903 Corradini tuonava dalle pagine del «Regno»
contro coloro che « in luogo d'ogni ordine di idee generose))
avevano posto « l'ira dei più bass.i istinti della cupidigia e della
distruzione ». Chiunque abbia qualche dimestichezza con la cul-
tura reazionaria o anche soltanto antisocialista dell'epoca, sa
che di frasi di questo genere si potrebbe riempire un volume.
Quando Mandolfo raccolse nel libro di cui sto parlando i
principali scritti sul marxismo e lo intitolò Umanismo di Marx
erano passati sessant'anni, cioè più di mezzo secolo, dai primi
articoli (il volume, ho detto, usd nel 1968, e il primo articolo
ivi pubblicato apparve sulla « Critica sociale )) nel 1908, con un
titolo che era un programma: La fine del marxismo?). Il titolo,
e ancora più quello che significava, non avevano perduto nulla
della loro attualità e della loro forza polemica.
Durante gli anni del fascismo - quando ormai in Italia il
dibattito sul marxismo era spento e lo stesso Mandolfo era
ritornato agli studi prediletti di filosofia greca, e non aveva più
scritto sull'argomento se non alcune voci dell'Enciclopedia
Treccani, che Gentile gli aveva a.flìdato, come comunismo, ser
cialismo, materialismo storico, socialdemocrazia - erano stati
pubblicati, come tutti sanno, gli scritti filosofici giovanili di
79
Marx, di cui i più importanti erano i Manoscritti del 1844 e
L'ideologia tedesca, che in Italia saranno conosciuti, studiati e
pubblicati soltanto dopo la liberazione, e quindi Mondolfo non li
conosceva quando condusse la sua battaglia durante circa ven-
t'anni, dall'inizio del secolo sino al 1926, per una interpretazio-
ne non deterministica del marxismo. Quali siano stati i pro-
blemi d'interpretazione che questi scritti hanno provocato non
è il caso neppure di riassumere tanto sono complessi, aggrovi-
gliati e spesso puramente dottrinali. Basti accennare al fatto
che secondo alcuni interpreti essi sono serviti per capire meglio
il pensiero di Marx e sono tali che non se ne può assoluta.men-
te prescindere per un'interpretazione finalmente corretta e
compiuta della concezione marxiana dell'uomo e della storia;
per altri al contrario appartengono ad una fase di non perfetta
maturazione del giovane Marx, che non si è ancora sottratto
all'influsso feuerbachiano, e sono da espungere se si vuole arri-
vare nel cuore del sistema marxiano. Ciò che importa dire in
questa sede è che questi scritti, in modo particolare i cosiddetti
Manoscritti del 1844, possono essere considerati tra gli scritti
di Marx quelli che offrono maggiori argomenti all'interpreta-
zione umanistica del marxismo. Uno dei temi principali su cui
Marx (che, non bisogna dimenticarlo, ha allora soltanto venti-
sei anni) è tratto a riflettere dai primi studi di economia politi-
ca è il tema del lavoro alienato, cioè, come ho già detto, della
condizione di disumanizzazione in cui è gettato l'operaio della
fabbrica moderna. E allora il comunismo gli appare come il
principio di riappropriazione da parte dell'uomo della propria
essenza. Non si potrebbe concepire una definizione di umani-
smo nella specifica accezione di umanismo etico migliore che
quella che si può leggere ad esempio in una frase come questa:
Il comunismo come soppressione positiva della proprietà privata
intesa come autoestraniazione dell'uomo, e quindi come reale appropria-
zione dell'essenza dell'uomo mediante l'uomo e per l'uomo; perciò come
ritorno dell'uomo per sé, dell'uomo come essere sociale, cioè umano,
ritorno completo, fatto cosciente, maturato entro tutta la ricchezza dello
svolgimento storico sino ad oggi. Questo comunismo s'identifica, in
quanto naturalismo giunto al proprio compimento, con l'umanismo, in
quanto umanismo giunto al proprio compimento, col naturalismo 5,
80
Naturalmente Mandolfo non mancò di far rilevare in uno
degli ultimi scritti il conforto che questi scritti giovanili di
Marx davano alla interpretazione del marxismo che egli aveva
difesa per tanti anni contro i critici di destra che lo riducevano
a materialismo volgare e contro gli interpreti positivisti che ne
facevano una manifestazione di determinismo non meno volgare.
In tutte queste opere - egli scrive in un saggio pubblicato
primamente in spagnolo col titolo El humani!mo de Marx nel 1964 -
il pensiero filosofico di Marx si determina già nelle sue linee essenziali,
anzi si esprime in forma più ampia e completa che negli scritti posterio-
ri (compreso Il capitale), che non hanno più per oggetto i s,roblemi
filosofici, ma quelli economici, politici e storici. Le opere dei tre anni
ricordati - dal 1843 al 1845 - sono decisive per la formazione del
pensiero di Marx e per l'espressione delle sue concezioni filosofiche: in
esse troviamo una rivendicazione dell'uomo reale concreto, dell'uomo
attivo capace di libertà e creatore della storia 6•
81
che io ho già avuto occasione di considerare come una delle
manifestazioni più preoccupanti della sterilità delle dispute pu-
ramente dottrinali fra marxisti 7, che lasciano il tempo che tro-
vano quando non lo rendono più burrascoso, Althusser scaglia
tutti i suoi fulmini e esibisce tutti i suoi argomenti contro un
malcapitato marxista inglese che aveva avuto la sfrontatezza di
sostenere che sono gli uomini che fanno la storia.
Per quanto riguarda l'umanismo nella sua dimensione eti-
ca, non ho bisogno di ricordare che nel 1968, l'anno in cui usci
il libro di Mandolfo, con quel titolo, avvenne la crisi ceco-
slovacca, che fece emergere, se pur presto soffocati, fermenti
nuovi in un paese da anni sotto la disciplina e la stretta os-
servanza dello stato-guida, e che da allora è venuta l'abitudine di
designare il nuovo corso con l'espressione, divenuta di dominio
pubblico, di « socialismo dal volto umano». Un'espressione di
questo genere contiene un chiaro richiamo, fortemente polemi-
co, alla concezione umanistica del marxismo, è un ammonimen-
to a non dimenticare l'equazione marxismo = umanismo. Par-
lare di « volto umano » significa che vi può essere, e che anzi
vi è stato e vi è tuttora, un socialismo dal volto disumano, o
meglio ancora che il volto umano appartiene all'essenza stessa
del socialismo proprio in quanto venga ricondotto alla sua ma-
trice marxiana. Se quando Mandolfo aveva scritto i suoi primi
saggi l'accusa al marxismo di non essere umanistico dal punto
di vista etico veniva dai conservatori, dai liberali, dai naziona-
listi, dai reazionari, da tutti coloro che erano stati presi dalla
grande paura dell'avvento delle masse, nel 1968, durante i
fatti di Praga, l'accusa poteva essere formulata all'interno stes-
so dei partiti del movimento operaio, ed era chiaro che l'e-
spressione « socialismo dal volto umano » conteneva una freccia-
ta polemica diretta non tanto agli avversari quanto ai compa-
gni, perché ormai l'ostacolo da abbattere, una volta identificato
lo stalinismo con il contrario del socialismo umanistico, era
dentro la stessa cittadella del socialismo.
Detto questo, e reso cosl omaggio a una tradizione cui il
titolo del libro di Mandolfo ci richiama, debbo dire che gene-
ralmente non parlo molto volentieri di umanismo socialista
82
o di socialismo dal volto umano, perché, pur rendendomi conto
della carica .polemica che tali espressioni contengono, le trovo
non solo viziate da una certa retorica di tradizione spiritualisti-
ca, ma anche concettualmente troppo evanescenti per essere
usate in un discorso che deve andare al di là della critica poli-
tica occasionale.
Anche nelle osservazioni critiche che seguono mi servo
ancora della distinzione fra umanesimo come concezione del
mondo e come etica.
Se quando si dice che questo mondo degli uomini è fatto
dagli uomini si vuol dire che non è fatto da Dio o da una forza
superiore agli uomini che li guida senza che essi se ne rendano
ben conto, che è poi l'idea del gran burattinaio che costruisce
la trama, assegna le parti e tiene ben saldi i fili dei vari perso-
naggi nelle proprie mani, umanismo ha un significato abbastan-
za preciso ma anche soltanto negativo, e non dice nulla di più
e di diverso di altre espressioni filosofiche che erano abituali
nel linguaggio dei dotti negli anni delle battaglie mondolfiane,
come immanentismo o storicismo. Questa equiparazione si tro-
va del resto in alcuni passi di Gramsci, come ad esempio il
seguente: « Dalla critica dell'hegelismo nascono l'idealismo
moderno e la filosofia della prassi. L'immanentismo hegeliano
diventa storicismo; ma è storicismo assoluto solo con la filo-
sofia della prassi, storicismo assoluto o umanesimo assoluto» 8 •
Ma quando si voglia passare dal significato negativo al significa~
to positivo, diventa subito evidente che ci troviamo fra le mani
un'arma che punge ma non taglia. Il mondo delle nazioni è
fatto dagli uomini. Ma quali uomini? Tutti o solo una parte? E
quale parte? Lo stesso Vico sapeva benissimo che la storia era
un continuo avvicendarsi di classi dominanti e che questo avvi-
cendamento dipendeva spesso dalla rivolta delle classi dominate,
onde in ogni epoca storica bisogna distinguere chi questa storia
la fa da chi la subisce, il protagonista dall'antagonista, l'attore
dallo spettatore. Quella persistente connotazione eulogica che
ha in tutti i nostri discorsi la parola « umanesimo» diventa
subito sospetta, anzi falsa, non appena ci accorgiamo che gli
uomini hanno fatto la storia e continuano a farla contro altri
83
uomini, e che insomma la storia umana, ripeto «umana», nel
senso di una concezione umanistica della storia, è una storia di
terrore, di lagrime e di sangue. Inoltre gli uomini fanno la
storia in un ambiente dato (uso di proposito questa parola cosl
frequente nel linguaggio mondolfiano) che li condiziona, e cer-
tamente non permette loro di agire a loro arbitrio. Quali siano
i limiti di questo condizionamento non è problema che si possa
risolvere su due piedi (sinora non l'hanno risolto in modo
soddisfacente neppure coloro che sono stati a lungo seduti a
meditarci su, perché nessuno per quanto sapiente possiede tutti
i dati che gli permettono di risolverlo). Però che questo condi-
zionamento esista è indubbio.
Il problema del rapporto fra il fare umano, la «prassi»,
come si diceva, e l'ambiente in cui la prassi si svolge, fra la
volontà soggettiva e le condizioni oggettive, insomma fra l'uo-
mo e la natura, è sempre stato uno dei problemi principali del
marxismo teorico e occupa il primo posto anche nel pensiero di
Mandolfo. Partendo dalla terza tesi su Feuerbach, secondo la
quale gli uomini sono il prodotto dell'ambiente e nello stesso
tempo l'ambiente viene mutato dagli uomini {Marx lascia aper-
ta la porta ad una soluzione non unilaterale, non dogmatica,
non rigida, non esclusivistica, ma dialettica del problema),
Mandolfo difese dai primi scritti agli ultimi un'interpretazione
del marxismo che andava al di là del materialismo e dell'idea-
lismo e che non poteva dirsi se non con una certa forzatura
umanistica (nel senso appunto che gli uomini fanno la storia
ma in condizioni date, di cui debbono tener conto nel loro
agire se non vogliono condannarla alla sterilità o al fallimento).
Prendo la citazione da uno degli ultimi scritti del suo periodo
aureo, che fu quello in cui con molto rigore combatté una
battaglia sui due fronti della teoria e della polemica politica,
apparso su -c< Quarto stato» nell'aprile 1926, e intitolato con
una formula che contiene in nuce una professione di fede filo-
sofica, Né materialismo né idealismo, ma realismo critico-pratico:
... noi dobbiamo riconoscere momenti necessari (della realtà sto-
rica) tanto il dato quanto l'azione, tanto le condizioni preformate quanto
le aspirazioni e la volontà di rovesciamento, che contro esse si volgono.
84
La realtà piena è la storia, in cui passato e fururo s'incontrano sempre
nel presente; è la praxis, che s'arrovescia di continuo contro se stessa~.
85
pienamente e liberamente tutte le facoltà caratteristicamente
umane, o, come diceva il giovane Marx, certo più « speculati-
vo» del Marx maturo, colui che attua la identità fra l'indivi-
duo e il genere umano, l'uomo totale, come egli anche lo chia-
ma, a me francamente pare una proposta molto vaga. Ancora
più vaga mi pare una delle concezioni che oggi hanno molto
seguito fra i neo-marxisti, che l'uomo sia caratterizzato dai suoi
bisogni e che la società umana sia quella in cui l'uomo riuscirà
a soddisfare i bisogni essenziahnente umani. Quali sono le fa-
coltà caratteristiche umane, quali sono i bisogni essenz.iahnente
umani? Confesso che non ho trovato sinora risposte soddisfa-
centi a queste domande. Fra l'altro è sin troppo facile l'obie-
zione che a una domanda del genere non si può rispondere se
non proponendo ancora una volta un ideale di uomo. Ma ap-
punto, quale uomo?
Mai come in questi anni, in cui sociologia e antropologia,
psicologia e psicanalisi, hanno fatto valere le loro pretese, del
resto non ingiustificate, di entrare coi loro scandagli nel terreno
che un tempo era riservato alla morale e alla religione, l'imma-
gine tradizionale dell'uomo, quella dell'uomo come animale ra-
zionale, è stata smontata e nessuno è riuscito sinora coi pezzi
che si trova fra le mani a rimontarne una nuova. Mai come in
questi ultimi tempi c'è stata maggiore incertezza, fra gli stessi
movimenti radicali, su quello che dovrebbe essere un nuovo
umanesimo, ed è una incertezza che a mio parere denuncia una
gravjssima crisi negli stessi valori fondamentali di cui questi
movimenti si sono fatti portatori, e una frattura altrettanto
grave all'interno di questi movimenti. Basti porsi questa do-
manda: l'uomo nuovo è destinato a realizzarsi nel lavoro se
pure non alienato oppure nell'astensione dal lavoro, nel nego-
zio, come avrebbero detto gli antichi, o nell'ozio? Già gli anti-
chi avevano contrapposto la vita attiva alla vita contemplativa,
e si erano domandati quale delle due fosse superiore. I moder-
ni sono ancora Il a porsi le stesse domande, e a dare risposte
contraddittorie, credendo di avere scoperto nuove frontiere. (È
impressionante l'ignoranza, talora addirittura sprezzante, della
profondità storica dei problemi. Sarebbe anche irritante se non
86
fosse ricorrente, e se non fosse anch'essa un carattere della
storia umana che riscopre continuamente se stessa e per questo
si svolge tanto lentamente che sembra essere sempre allo stesso
punto). Oggi sembrano diffondersi con la rapidità del fulmine,
per lo meno nei paesi capitalistici, che sono quelli in cui piaccia
o non piaccia si agitano le grandi idee, l'idea della superiorità
dell'etica del piacere su quella del dovere, della liberazione
degli istinti su quella della loro disciplina, della soddisfazione
dei bisogni su quella ascetica della loro mortificazione, della
conquista dei beni terreni su quella della rinuncia, della felicità
su quella della perfezione, l'idea insomma di una nuova società
in cui l'homo faber venga a poco a poco sostituito dall'homo
ludens. Se mi volgo indietro e rileggo alcune pagine di Gramsci
(per restare nell'universo dell'etica socialista), m'imbatto in una
immagine dell'uomo completamente diversa: la morale dei « pro-
duttori » è fondata su una rigida autodisciplina, sul senso del
dovere, su una concezione severa, austera, rigoristica della vita
che ha del religioso. Le cose poi si sono maledettamente compli-
cate da quando all'immagine tradi'zionale dell'uomo nuovo si è
venuta affiancando l'immagine veramente inedita, non sembri un
paradosso, della « donna nuova». I nostri diversi umanismi sono
sempre stati concezioni dell'uomo nel senso ristretto della paro-
la: se noi facessimo una storia delle virtù esaltate nei diversi
tempi come virtù dell'uomo ci accorgeremmo che sono sempre
state generalmente virtù maschili. La donna non ha avuto mai
alcuna parte nella storia dell'etica umanistica. Neppure nella
storia dell'umanesimo socialista. Anche i grandi egualitari, co-
me Rousseau, si sono dimenticati, nei loro sistemi morali, del-
l'altra metà del genere umano. L'autore del Manifesto degli
Eguali, Sylvain Maréchal, uno degli egualitari più radicali e, a
parer suo, consequenziali, propugnava l'assoluto analfabetismo
delle donne e discettava su Les inconvénients que les femmes
sachent lire.
Ho sinora considerato separatamente l'umanismo come
concezione della storia, e l'umanismo come etica. Ma nella sto-
ria del pensiero di Mondolfo c'è un momento, che è poi uno
dei momenti cruciali nella storia del socialismo e del movimen-
87
to operaio, in cui i due aspetti si richiamano l'uno con l'altro.
Mi riferisco al periodo della rivoluzione russa. Sono gli anni in
cui scende per cosl dire dalla cattedra (anche se Gramsci in un
articolo sferzante gli rimprovera la serietà accademica con cui il
professore boccia Lenin perché la sua azione rivoluzionaria non
rientra negli schemi di un preteso marxismo scientifico costrui-
to a tavolino dai nuovi dottori di Salamanca) e partecipa più
direttamente alla battaglia politica scrivendo una lunga serie di
articoli sulla rivoluzione che raccoglie in varie edizioni del libro
Sulle orme di Marx. In questi scritti, che rappresentano forse
l'espressione più compiuta e consapevole in Italia di quell'o-
rientamento critico nei riguardi del leninismo che per comodità
può essere chiamato il punto di vista menscevico, Mandolfo dà
sulla rivoluzione un giudizio storico e un giudizio etico che
sono strettamente intrecciati. Il giudizio etico che consiste so-
prattutto nella condanna del terrore è desunto da un giudizio
storico che si fonda o pretende di fondarsi su una determinata
interpretazione del marxismo inteso come concezione della sto-
ria. Il terrore è necessario perché la rivoluzione è stata prema-
tura, e la rivoluzione è stata prematura perché Lenin non ha
rispettato il canone fondamentale fissato una volta per sempre
da Marx in un celeberrimo passo della introduzione alla Critica
dell'economia politica secondo cui « una formazione sociale non
perisce finché non si siano sviluppate tutte le forze produttive
a cui può dare corso )) e « nuovi e superiori rapporti di produ-
zione non subentrano mai, prima che siano maturate in seno alla
vecchia società le condizioni materiali della loro esistenza ».
Sul tema della rivoluzione prematura e del rapporto fra
rivoluzione socialista e arretratezza russa sono state scritte a
caldo e a freddo migliaia di pagine: è ancora uno dei grandi
temi della storiografia contemporanea, come dimostra l'interesse
suscitato dal saggio di Roy Medvedev, La rivoluzione d'ottobre
era inelut1abile?, dove il problema del « terrore » e della sua
pretesa necessità occupa un posto importante nella valutazione
di certe misure sbagliate o intempestive prese dal governo dei
bolscevichi. Sin dal 1917 la rivista dei riformisti « Critica socia-
le» aveva espresso con fermezza l'opinione che per le condizioni
88
arretrate della società russa la rivoluzione socialista era impos-
sibile, sentenziando che « la storia qualche volta procede a
salti, dopo lunghe stasi, ma nessun salto può varcare gli ocea-
ni ». Dal canto suo, la Confederazione del lavoro, pur salutan-
do « col cuore gonfio d'esultanza » la caduta del vecchio regi-
me, precisava: « Non perciò la rivoluzione è compiutamente
proletaria. Per quanto audace lo sbalzo in avanti del proletaria-
to, è fatale che la direzione della cosa pubblica resterà nelle
mani della borghesia ». Quando i bolscevichi presero il potere,
rifiutarono di dare la loro adesione al nuovo governo impu-
gnando come arma di lotta la distinzione fra marxismo e leni-
nismo, destinata a fare molta strada.
Mondolfo scrisse il primo articolo sull'argomento nel
febbraio 1919, in risposta a un articolo di Arturo Labriola il
quale aveva sostenuto la continuità fra Marx e Lenin come
continuità fra la teoria e la sua applicazione pratica. A questo
articolo aveva già risposto Turati, il quale aveva scritto di non
aver mai sospettato che « conquista del potere da parte del
proletariato volesse dire usurpaziorie del potere e terrore siste-
matico da parte di una setta[ ... ], sostituzione del Soviet ai Par-
lamenti [ ... ] negazione di ogni libertà e di ogni democrazia», e
concludeva affermando che Lenin non doveva assumere il pote-
re perché in quelle condizioni era evidente che non avrebbe
potuto mantenerlo se non col terrore 12 • Con linguaggio più
pacato ma nello stesso ordine di idee, Mondolfo, citando e
ricitando i famosi passi marxiani della Critica dell'economia
politica, spiegava che« l'essenziale e il proprio del marxismo [ ... ]
sta nel suo carattere critico-pratico », il quale consiste in una
« concezione realistica della storia e nel trarre da questa viva
coscienza storica la stessa teoria del movimento proletario»; e
si domandava: « Che c'è di tutto questo, che pure, ripeto, è
l'essenza del marxismo, nella praxis leninista? Era forse giunta
l'economia capitalistica in Russia al pieno sviluppo di tutte le
forze produttive che era capace di dare? Poteva quindi in Rus-
sia Lenin avviare ... l'era socialista?». Concludeva citando un
altrettanto famoso brano di Engels che era e ha continuato ad
essere uno dei testi canonici della teoria delle rivoluzioni che
89
non si devono fare: il peggio che « possa capitare al capo di un
partito estremo è di venir costretto ad assumere il potere
quando il movimento non è ancor maturo per il dominio de1la
classe ch'esso rappresenta e per l'attuazione delle misure che la
signoria di questa classe richiede » 13 •
Nella prefazione alla prima edizione di Sulle orme di
Marx, datata settembre 1919, Mandolfo riprendendo e riassu-
mendo l'argomento citava Kautsky il cui libro Dittatura del
proletariato era uscito nel 1918, e per condannare la violenza
ingiusti..6cata si valeva della stessa metafora. Kautsky aveva
scritto:
Mandolfo:
L'ostetrico [ ... ] dovrebbe uccidere la gestante per liberare il feto, sia
pur questo embrione informe, privo dello sviluppo degli organi della sua
vitalitil; i ferri chirurgici dovrebbero compiere il miracolo di tenerlo in
vita, e farlo formare e crescere dopo averlo tratto alla luce 15•
90
Il bolscevismo, salito al potere con la illusione di un'attuazione
anticipata del comunismo saltando la fase dello sviluppo dell'economia
capitalistica, è costretto oggi a farsi esso mediatore e strumento del
risorgere del capitalismo, ed a collaborare con questo come governo,
svolgendo un'azione di cosl spinto rifonnismo, quale nessun riformista
d'Occidente avrebbe pensata e teorizzata neppure avanti la guerra 16•
91
e la coscienza raziona.le dei programmi e delle teorie politiche
dei capi che le guidano o che credendo di guidarle ne sono in
realtà guidati. Di fronte a Rosa Luxemburg che in uno scritto
sulla rivoluzione russa, pubblicato postumo e oggi diventato
famoso, riconosce la inevitabilità del trapasso da Kerenski a
Lenin, e quindi si pone in una prospettiva di storia universale
che si può dire leninista, pur criticando la riforma agraria, Mon-
dolfo risponde che Lenin e i bolscevichi, del cui potere conte-
sta i titoli di legittimità, non potevano agire diversamente,
perché « non erano arbitri dell'indiriv.o della propria azione,
una volta che, aperta la diga al torrente delle masse contadine,
all'impeto di quelle non potevano far argine o imprimere la
direzione desiderata col fragile meno del timone della loro
nave, che non erano nemmeno padroni di manovrare a loro
talento » 17 • Dà ragione invece a Otto Bauer (trascelgo fra gli
scrittori coi quali il Mondolfo si misura quelli storicamente più
importanti), il quale scrive che la ricostruzione di un'economia
capitalistica non può avvenire sotto la dittatura del partito
comunista e che il nuovo regime economico richiede un nuovo
regime politico, anche se dubita sia imminente la trasformazio-
ne, che pur egli prevede ed auspica, del governo russo in una
democrazia ".
C:Ome si vede, sono i grandi avvenimenti della rivoluzione
in Europa e della crisi del vecchio stato in Italia che riaccen-
dono anche nel nostro paese la discussione teorica intorno al
marxismo. Di questa discussione teorica Mandolfo è, tra il
1919 e il 1926, uno dei maggiori animatori. Quando Gobetti
dedica un fascicolo della sua rivista giovanile « Energie Nove »
nel giugno 1919 a un dibattito sul socialismo, invita Mondolfo
a esporre la difesa degli ideali socialisti, e cosl lo presenta:
« ... poiché non volevamo offrire ai nostri lettori un circolo
chiuso, quasi rivelazione di verità assoluta, abbiamo ricercato
anche scritti (come quello magistrale del Mandolfo) che riflet-
tessero un altro punto di vista» 19 • In questo articolo, intitola-
to Il socialismo e il momento storico presente, Mandolfo espo-
ne sinteticamente il suo punto di vista, la sua « dottrina», con
la quale intende respingere tanto il fatalismo impotente dei
92
riformisti quanto il volontarismo impaziente dei massimalisti.
Enuncia cioè una tesi cui resterà fedele negli anni del grande
dibattito e che ripeterà soltanto con variazioni in margine negli
scritti successivi, nei quali prende posizione di volta in volta di
fronte alle due tesi opposte - fatalismo o volontarismo, pri-
mato delle condizioni oggettive o primato delle forze soggetti-
ve? - , cercando di mediarle in una sintesi di materialismo e
di idealismo proposta come la interpretazione più genuina del
pensiero di Marx. Volendo tener ferma questa interpretazione
che si muove continuamente su due sponde opposte, egli è
costretto a condurre una battaglia su diversi fronti: contro i
critici di sinistra che giustificano la rivoluzione russa come rivo-
luzione marxistica (Longobardi), contro i critici di destra che
considerano il materialismo storico un cane morto (Balbino
Giuliano e Gaetano Mosca). E anche contro i giovani indoci-
li che tendono oramai ad andare oltre il marxismo, e a disso-
ciare il socialismo dalla filosofia di Marx, come Carlo Rosselli.
Per una coincidenza che ora può apparire quasi un segno del
destino, l'ultimo scritto di argomento marxistico prima del lun-
go silenzio è in polemica con un comunista, Giuseppe Montal-
bano, il quale rimprovera il Mondolfo di confondere il mar-
xismo con la « predicazione evangelica dei principi umanitari »
e chiama questa confusione « una delle più grandi contraffazio-
ni del marxismo che siano state volutamente tentate dai so-
cialdemocratici » 20 • Mandolfo risponde energicamente di non
aver mai confuso il socialismo con l'astratto umanitarismo e di
averlo sempre radicato alla lotta di classe, alla lotta del proleta-
riato, per la propria emancipazione.
È passato più di mezzo secolo. C'è stata in mezzo la più
tragica e sanguinosa guerra che mai l'umanità abbia subito; una
nuova rivoluzione socialista nel più grande paese del mondo; la
liberazione dal giogo coloniale diretto di quasi tutti i paesi
della terra; la trasformazione della comunità internazionale in
comunità per la prima volta veramente universale. Eppure nel
mondo delle cosiddette democrazie occidentali, o se si vuole
degli stati capitalistici più avanzati, in cui possiamo mettere, se
pure in coda, l'Italia, quelle discussioni sono tutt'altro che
93
inattuali. Basta guardarsi attorno, leggere i giornali e le riviste
dei partiti della sinistra, tanto di quella storica quanto di quella
non storica, per accorgersi che sono più attuali che mai, anche
nel loro aspetto che io considero negativo, o per lo meno poco
fecondo, cioè nel richiamarsi ai sacri testi. In fondo, tanto
Mandolfo quanto i suoi interlocutori, tanto i marxisti che in-
tendevano dissociare il pensiero di Marx dalla prassi di Lenin,
quanto i leninisti che interpretavano la prassi di Lenin come la
continuazione del pensiero di Marx, indulgevano alle lusinghe
di una disputa meramente dottrinale, nella quale entrambi
gl'interlocutori, dall'una parte e dall'altra, invece di mettere le
loro teorie a confronto coi fatti, preferivano giudicare i fatti in
base alle loro teorie. Il punto di partenza degli uni e degli altri
era: « Marx ha detto». Ma che cosa aveva .detto Marx? Per
coloro per i quali Marx aveva detto che le rivoluzioni non
s'improvvisano e quando s'improvvisano sono destinate a fallire
o a convertirsi nel loro contrario, la rivoluzione bolscevica era
da condannare. Per coloro per cui Marx aveva detto invece che
le rivoluzioni si fanno quando si possono fare, e quel che conta
è il risultato, la stessa rivoluzione era da approvare. Chi aveva
ragione? Una volta impostata la discussione in questo modo,
come discussione intorno alla marxisticità (scusatemi l'espres-
sione) della rivoluzione, potevano avere ragione tutti e due. Ma
era una ragione appunto che per essere troppo compiacente
non serviva a nessuno. (Non da ora sono convinto che la
maggior parte delle teorie di cui ci serviamo per capire e giudi-
care la storia sono delle derivazioni nel senso paretiano della
parola, cioè sono razionalizzazioni postume dei nostri apprez-
zamenti che non sono razionali, perché hanno a che vedere
molto più con la nostra facoltà di desiderare che non con il
nostro giudizio critico). Data l'indiscussa autorità di Marx nel
movimento socialista europeo, chi per ragioni etico-politiche
non approvava la presa del potere da parte dei bolscevichi era
indotto a teorizzare il non-marxismo della rivoluzione. Chi
l'approvava per ragioni non dissimili, era indotto a costruire
una teoria dell'ortodossia marxista del leninismo. Il che com-
portava fra l'altro la conseguenza, generalmente spiacevole in
94
pratica, che le due parti avverse finivano per dividersi, secondo
i punti di vista, in ortodossi e rinnegati. Ma la rivoluzione
faceva il suo corso indipendentemente dalle teorie, non tenendo
conto di quel che aveva detto Marx, e neppure di quel che
aveva detto Lenin prima della rivoluzione (come ad esempio
nel suo scritto sullo stato che prefigurava una democrazia come
quella della Comune, che in Russia e nei paesi socialisti non si
è mai avverata), né chiedendosi se Marx redivivo l'avrebbe
approvata.
Quelle discussioni peraltro sono attuali, anzi più attuali
che mai, per il loro intrinseco contenuto. Il nucleo di problemi
intorno cui ruotavano era il rapporto fra democrazia e sociali-
smo e, guarda un po', il concetto di dittatura del proletariato, di
cui da un partito comunista è stata ufficialmente dichiarata la
morte soltanto pochi mesi fa. Chi si vada a rileggere il libro
allora più noto del marxista più autorevole nel mondo occiden-
tale, La dittatura del proletariato di Karl Kautsky, apparso nel
1918, e tra.dotto in italiano dalla casa ~itrice dell'« Avanti! » nel
1921, non può restare impressionato nel trovarci gran parte
degli argomenti che ci siamo andati ripetendo gli uni contro gli
altri in questi anni. Da ciò traggo conferma che la storia
non è quel gran fiume in cui non si è mai bagnati dalla stessa
acqua: talvolta la corrente torna indietro e ripassa, tal'altra,
forse per la presenza di una diga a valle che ci è sconosciuta, la
corrente si ferma e l'acqua in cui ci si bagna è sempre la stessa.
La ragione per cui la storia ci appare sempre nuova è che, non
so dire se fortunatamente o sfortunatamente, ogni generazione
tende a far tabula rasa del passato e a ricominciare tutto da
capo, sicché la storia assomiglia spesso più alla tela di Penelope
che non a quelle grandi e stupende fabbriche del duomo che
una generazione tramandava all'altra sino a che erano finite
(ma molte a dire il vero sono rimaste a metà). Non resisto aila
tentazione, anche a costo di ripetere cose stranote, di citare
uno dei primi capoversi del saggio kautskiano:
95
contrasto fra due metodi fondamentalmente diversi: quello democratico
e quello dittatoriale. Entrambe le tendenze vogliono la stessa cosa:
liberare, per mezzo del socialismo, il proletariato, e con esso l'umanità.
Ma la via che gli uni tengono è considerata dagli altri una via sbagliata,
che conduce alla rovina 21 •
96
era che la rivoluzione cosl com'era stata voluta e attuata dai
bolscevichi non avrebbe mai condotto all'instaurazione del so-
cialismo, ma avrebbe prodotto una nuova forma di dispotismo,
un dispotismo che avrebbe non soppresso ma sublimato il capi-
talismo nella nuova forma del capitalismo di stato.
Vi sono due modi di trarre la lezione dalla storia, uno
giusto e uno sbagliato. Sbagliato è domandarsi che cosa sarebbe
accaduto se le cose fossero andate altrimenti. Giusto è doman-
darsi invece perché è accaduto proprio quello che è accaduto e
non altro. Il primo modo è sbagliato perché la storia, come si
dice, non si fa coi « se », e non si fa coi « se» per la semplice
ragione che è già tanto difficile capire perché le cose sono
andate cosl e non altrimenti, figuriamoci poi immaginare quello
che non è avvenuto! Coloro che si pongono il problema in
questi termini in rapporto alla rivoluzione russa finiscono per
smarrirsi in un vicolo cieco: che cosa sarebbe avvenuto se
Lenin non avesse sciolto l'assemblea costituente, non avesse
preso il sopravvento sconfiggendo tutti gli avversari, avesse
dimostrato maggiore moderazione, etc.? La concatenazione delle
cause nella storia è tanto complessa che provando a toglierne
una per vedere che cosa succede si rischia di fare come il
bambino che togliendo una carta dal castello di carte lo fa
crollare: fuor di metafora, non si traccia il disegno di un'altra
storia ma ci si trova di fronte a infinite storie diverse tutte
egualmente possibili. Solo partendo dal necessario possiamo sa-
pere che cosa è impossibile. Ma una volta rifiutato il necessario
tutto diventa possibile. Proviamo a porci il problema quale ci
viene suggerito dalla critica dei menscevichi secondo cui la
Russia prima di arrivare al socialismo avrebbe dovuto passare
attraverso la fase della rivoluzione borghese: che cosa sarebbe
avvenuto se in Russia si fosse attuata la rivoluzione borghese?
Possiamo rispondere per analogia. In tutti i paesi in cui è
avvenuta la rivoluzione borghese, la fase ulteriore del processo
storico, cosl com'era stato preconizzato dal marxismo, non si è
verificata. Sarebbe accaduto lo stesso in Russia? Ma allora la
Russia sarebbe rimasta un paese a economia capitalistica sino
ad oggi, cosl come sono rimasti tali i governi degli stati che
97
allora erano e sono ancora capitalistici? E se la Russia fosse
rimasta uno stato capitalistico sarebbe venuto il fascismo? Se il
fascismo non fosse venuto sarebbe scoppiata la seconda guerra
mondiale? Basta porsi domande di questo genere per rendersi
conto che in un universo in cui tutto si tiene basta un piccolo
« se » per sfasciarlo e per rendere impossibile una sua qualsiasi
ricomposizione.
Il modo giusto di trarre ammaestramenti dalla storia, di-
cevo, è quello di domandarsi perché è accaduto proprio quello
che è accaduto, per cercare di dare alla storia un corso diverso
se ci siamo convinti che quello che è accaduto sarebbe bene
non accadesse più. La differenza fra i due atteggiamenti, ridotta
ai minimi termini, può essere espressa in questo modo: un
conto è dire « sarebbe stato desiderabile che fosse avvenuto
etc. », un altro conto dire « è desiderabile che dopo quel che è
avvenuto e che non possiamo fare in modo che non sia avvenu-
to etc. ». Nel primo caso la storia è occasione per un rimpian-
to; il secondo per un ripensa.memo. Non ho dubbi sul fatto (e
me ne rallegro) che la discussione di oggi su democrazia e
socialismo sia di questo secondo tipo. ì. una lezione che trae
alimento dalla lezione dei fatti, da quello che è avvenuto, non da
quello che sarebbe potuto accadere. Una discussione che guarda
non indietro ma avanti, o per lo meno guarda indietro quel
tanto che è necessario per non ripetere gli errori del passato.
Non mi so spiegare in altro modo la profonda - dico « pro-
fonda » perché sono convinto che sia profonda - trasforma-
zione dei partiti comunisti dei paesi che hanno regimi demo-
cratici, il cosiddetto eurocomunismo. Io credo, o m'illudo di
credere, che questa profonda trasformazione derivi da quella
che io considero la più grande lezione storica dei nostri tempi:
non vi sono che due forme fondamentali e antitetiche di reg-
gimento politico; o democrazia o dittatura. Tertium non datur.
Può darsi che vi sia una terza via fra capitalismo e socialismo.
Una terza via fra democrazia e dittatura sinora nessuno l'ha
scoperta. Chi cerca il socialismo per vie non democratiche, avrà
perduto i vantaggi della democrazia senza ottenere quelli del
socialismo. O più sinteticamente: volete il socialismo senza
98
democrazia? Avrete perduto la democrazia e non avrete trovato
il socialismo. Oggi esaltiamo i popoli, come il Portogallo, la
Spagna, che hanno scosso dopo tanti anni il giogo del dispo-
tismo. Che dovremo dire di un popolo che al contrario vivendo
in un regime democratico lo sta distruggendo giorno per giorno
con le proprie mani? Felici i popoli, come noi siamo stati felici
un giorno, che ritrovano la libertà perduta. Infelici, folli, mille
volte folli, quelli, come noi siamo già stati una volta nella
nostra storia, che precipitano in servitù, servendosi della li-
bertà per distruggere il regime che la protegge.
Qualche giorno fa ho scritto su « La Stampa » un artico-
lo che da alcuni mi è stato rimproverato, Il dovere di essere
pessimisti 22 • Il modo sbagliato di scrivere la storia passata, la
storia fatta coi « se», non è più sbagliato, anzi è l'unico giusto,
quando ci poniamo il problema della storia da fare, cioè quando
questo espediente non è usato retroattivamente ma proiettiva-
mente. La mia conclusione era tratta credo in modo inecce-
pibile da una serie di «se», come i seguenti: se la società
civile continua questo processo -che sembra inarrestabile di
disgregazione, se la società politica non riesce a trovare un
minimo accordo su alcuni punti fonda.mentali per ristabilire
l'ordine pubblico e dare un inizio di soluzione alla crisi econo-
mica, se Io stato continua a non essere in grado di assolvere ad
alcune delle sue funzioni fondamentali, - e potrei continuare
con una filastrocca di altri « se li>, tutti perfetta.mente giustifi-
cati - , allora è inevitabile che ... Fornmatamente di fronte alla
storia da fare non sia.mo nella condizione in cui ci troviamo di
fronte alla storia passata, che è quella di non poterci porre
altra domanda che quella del perché è accaduto quel che è
accaduto. Ci troviamo nella condizione di poter fare in modo
che non accada quello che sembra inevitabile. Per questo il
dovere di essere pessimisti oggi verso l'avvenire è la premessa
per non essere domani, verso il passato, critici pentiti e impo-
tenti.
99
NOTE
=~=
pp. 1-34; Mondolfo e la rivoluzione russa, in AA.VV., Filoso/ili e mar"ismo
nell'opera di Rodolfo Mondolfo, Firenze, La Nuova Italia, 1979, pp. 201-24.
UM, p~ ~S('t!~~o t ~~o ~;:f::t;:, ~:dJ~
C:~to n3!n_ 1
e Rinascita• che ho sott'occhio (Roma, 1954) si trova a p. 100. La traduzione
di cui si serve Mondollo (che peraltro oon cita la fonte) è divcna.
J Rovistando in so{JiJJa (1911), in UM, p. 81.
4 Tra l'ideale e l'IZXione (1911), in UM, p. 87.
5 ManoscriJJi economico-fiJosofid del 1844, Torino, Einaudi, 1968, p. 111.
6 LJ eoncezione dell'uomo in Man (1%2), in UM, p. 325.
7 Mi riferisco a un passo del mio libretto Quale socialismo?, Torino,
Einaudi, 1976, pp. 31-32.
8 A. GRAMSCI, Quaderni del c•cere, edizione critica a cura di V. Gcr-
rataoa, Torino, Einaudi, 1975, pp. 1826-27.
!o ~~·d'~l~r. Leninismo e m1mrismo di Rodolfo Mondolfo,
dine nuovo, 1919-1920, Torino, Einaudi, 19.54, p. 373.
in
L'or-
11 Traggo questa citazione e la seguente da S. CA.Mm, 1.4 rivoluzione
russa e il socialismo italiano (1917-1921), Pisa, Nistri-Llschi, 1974, p. 58.
12 F. TURATI, Commento a Leninismo e marxismo di A. l.ABUOLA, in
e Critica sociale•, :XXIX, n. 2, 16-31 gennaio 1919, p. 23.
Il Leninismo e marxiJmo (1919), in UM, pp. 14~149; anche in Sulle
orme di Marx, Bologna, Cappelli, 1923, voi. I, p. 108.
taJur, '.:aiT~ :lf1i~ t~~C:, 'Lttt;1J, :"la 1!i~: ::iu~:(1~~
1938), Milano, Fdtrinclli, 1976, p. 237.
0 0
100
11 Ibid., p. 261. (Altre citazioni di Bauu a p. 147 e p. 184).
4'Ji~:t~~r~:.'~S:~~ :~~- :: fP. giugno 1919, p. 76. Ora anche in
Scritti
t"fl7iT~"::~i~edi,fJ!;!),d~ ~1:,~,r:;,di~:·Milano, Sooetà editrice
21
Avanti!, 1921, pp. J-6.
22 L'articolo è apparso il 5 giugno 1977, ora in N. Boee10, Le ideologie
e il potere in crisi, Firenze, Le Monnier, 1981, pp. 157-161.
101
CAPITOLO V
103
con una prodigiosa facilità che non cade mai nell'improvvisa-
zione, spinto da un'ansia quasi febbrile, chiamato e guidato da
una imperiosa voce interiore che non gli dava tregua ovunque
vi fosse un sopruso da rintuzzare, un'ingiustizia da riparare, gli
ideali sognati e sofferti da non lasciar calpestare, centinaia e
centinaia di saggi, articoli, discorsi, resoconti di viaggi, note,
noterelle, recensioni. Di questi scritti i più numerosi apparvero
su « Il Ponte», la rivista da lui ideata e promossa (ma il titolo
gli era stato suggerito da Corrado Tumiati), fondata nell'aprile
del 1945, diretta sino alla morte con quotidiana sollecitudine;
altri dispersi in giornali quotidiani, quali « La Nazione del
Popolo » di Firenze, « Il Nuovo Corriere » di Firenze, e da
ultimo « La Stampa » di Torino, o di partito, quali « L'Italia
libera » e il « Non Mollare », organi del Partito d'Azione, ri-
spettivamente di Roma e di Firenze, in settimanali, riviste poli-
tiche e di cultura, numeri unici, opuscoli commemorativi.
Se poi si tien conto del fatto che in quegli anni Cala-
mandrei non abbandonò gli studi di procedura civile, in genere
gli studi giuridici nel senso tecnico della parola, sl da fornire
materia al sesto volume di Studi sul processo civile, uscito
postumo nel 1957 (il precedente era uscito nel 1947), né lasciò
inaridire l'antica vena letteraria con gli scritti sul Cellini, ed
altre composizioni minori, tra le quali la bella conferenza sulla
propria città (Parlare di Firenze, letta nel 1955 in varie città
della Svizzera, e pubblicata nel 1956), scrisse comparse e arrin-
ghe, che un giorno o l'altro dovranno essere riesumate e tra-
scelte per essere pubblicate, quegli anni ci appaiono sempre più
come la straordinaria felice stagione di un uomo ormai giunto
alla piena maturità dopo la tragica caduta delle speranze giova-
nili, attraverso un lungo tirocinio di studi severi e una silenzio-
sa disperata meditazione sulle rovine della patria, improvvisa-
mente risuscitato dalla libertà riconquistata, e quindi chiamato
a propugnarla, a difenderla, a invocarla contro i nemici di ieri
e i falsi amici di oggi, con incorruttibile energia. Quella felice
stagione fu uno dei miracoli della libertà (che non ne fece
molti, a dire il vero, nel nostro paese). Per questo non abbia-
mo voluto che i frutti rimanessero dispersi. Li abbiamo raccolti
104
con reverente gratitudine per riascoltare una voce, forse la più
limpida, che ci aiutasse a non lasciarci prendere dallo sconforto
di fronte a tanti disinganni, e servisse ai giovani, ai nostri figli,
che non sanno rendersi conto di cosl diffusa fiacchezza morale
dopo tanti sacrifici e tante illusioni, a ritrovare il senso e la
dignità di una tradizione civile 1 •
105
era ancora quello patriottico della vittoria giusta contro l'antico
oppressore; ma appunto perché giusta la vittoria non doveva
rendere tracotanti. Laureatosi in legge a Pisa nel 1912 sotto la
guida di Carlo Lessona, troncò bruscamente gli svaghi poetici e
si gettò anima e corpo negli studi giuridici: nello stesso anno
della laurea pubblicò il primo articolo, anticipazione del libro
uscito l'anno successivo, La chiamata in garantia (1913). Con
questo libro e altri saggi apparsi l'anno seguente, ottenne nel
1915, a soli ventisei anni, la cattedra di procedura civile al-
l'Università di Messina.
Il dopoguerra impose nuovi compiti anche ai giuristi. Nel-
la prefazione alla sua prima importante opera dopo gli anni di
guerra, La cassazione civile (1920), scrisse:
106
allora fu sempre presente là dove si svolgesse qualche manife.
stazione di protesta contro la sopraffazione: si schierò tra colo--
ro che furono « ingenuamente ostinati nel credere che contro il
manganello bastassero i manifesti » (« continuavano a firmar
manifesti, e quelli continuavano a bastonare») 9 • Intervenne
nella difesa di Salvemini, ingiuriato, contrastato nel suo inse-
gnamento, arrestato e processato, infine costretto all'esilio. Co-
me membro del Consiglio dell'Ordine degli Avvocati di Firenze
scrisse la protesta contro il saccheggio di alcuni studi di avvo--
cati, perpetrato lo stesso 31 dicembre 1924. Fu tra gli iscritti
alla società segreta « Italia libera» che si costitul in Firenze
dopo il delitto Matteotti. Firmò il Manifesto che Croce scrisse
in opposizione al Manifesto degli intellettuali fascisti, apparso
il 1 maggio 1925. Fece parte dell'Unione Nazionale fondata da
Giovanni A.mendola e fu uno dei componenti del suo consiglio
direttivo.
Nonostante questa molteplice attività di politico militante,
Calamandrei non diventò neppure negli anni che vanno dal
1919 al 1925 scrittore politico nel senso stretto della parola.
Dei due articoli pubblicati su « L'Unità », poc'anzi menzionati,
il primo proponeva il metodo degli « spunti di conversazione »
introdotti da Lombardo--Radice per diffondere la cultura politi-
ca tra i profani, il secondo commentava un libro di Franco
Ciarlantini sul modo migliore di governare l'Alto Adige rispet~
tando il diritto locale. Seguirono due articoli dedicati al pr<>
blema della scuola, in cui prese posizione contro gli scioperi
degli studenti, Sciopero di coscient.a (1920) e « Voliamo le
vachant.e » (1921). Diede la propria collaborazione al libro di
Giorgio Pasquali, L'Università di domani (1923), con due ampi
saggi, nel primo dei quali, sulla riforma della Facoltà di Giuri-
sprudenza, sostenne la necessità di un biennio propedeutico,
criticò il metodo didattico tradizionale fondato sulla lezione
cattedratica, fece l'elogio del metodo delle esercitazioni, difese
la libertà dello studente di scegliere il programma di studi,
propose l'abolizione degli esami speciali da sostituire con un
esame di stato alla fine del corso per l'abilitazione alle profes-
sioni; nel secondo, sostenne, contro l'opinione del Pasquali, il
107
sistema dei concorsi per la nomina dei professori universitari.
Pure di natura scolastica furono i temi di cui fu relatore presso
il Circolo di Cultura nel 1923-24: L'ordinamento didattico del-
le facoltà universitarie e Come si scrive la storia nei libri di
testo.
108
venti che sembrano dar ragione giomo per giorno a tutti i
cialtroni, a tutti gli avventurieri, a tutti i farabutti» 14 • Quando
la guerra ormai divampa, e la Germania corre di vittoria in
vittoria, scrive: « Se la guerra finirà con la vittoria della Ger-
mania agli uomini della mia generazione e della mia fede non
resta che morire » 15 • E poco più oltre: « Questo sarà la fine
della mia vita, del gusto ndla vita, della voglia di sopravvivere,
una schiavitù di un millennio» 16 • L'angoscia si fa sempre più
lacerante, si vive come ombre: più che un'angoscia una lenta
agonia, « una continua sofferenza anche fisica, questo continuo
senso di sfinimento allo stomaco e al cuore » 17 • Nel giorno
della dichiarazione di guerra dell'Italia annota: « L'infamia è
cosl enorme che se ne rimane come schiacciati » 18 •
Bisogna ri.tlettere su questo stato d'animo di vergogna e
insieme di fedeltà pura, senza speranza, ai propri ideali, per
comprendere l'intensità della partecipazione, che fu di Cala-
mandrei e di tanti antifascisti della sua generazione, al graduale
rovesciamento delle posizioni sul fronte internazionale e ad o-
gni moto che contribul a produrre egual rovesciamento anche
sul fronte interno. Quanto più doloroso era stato il senso di
impotenza di fronte all'immane catastrofe, quanto più fosche le
previsioni, tanto più alto l'entusiasmo quando si cominciò a
intravedere il principio del nuovo corso, e a poco a poco si
formò sempre più profonda la convinzione che la barbarie non
avrebbe trionfato. Si poteva dare di nuovo un senso alla storia
che era parsa per qualche anno diretta da forze demoniache. A
questo rovesciamento aveva dato il proprio contributo negli
ultimi anni anche l'Italia: dunque coloro che non avevano ce-
duto, pur disperando, non erano i superstiti di una civiltà finita
per sempre. Avevano ragione coloro che per vent'anni avevano
avuto torto ed erano stati disprezzati dai vincitori, dileggiati
dagli opportunisti, commiserati dai vili.
Dal suo rifugio in un piccolo paese dell'Umbria, segul con
trepidazione, con fierezza, con struggimento, la crescita del mo-
vimento partigiano, la graduale trasformazione dell'insurrezione
popolare in guerra di liberazione. Nacque in lui durante quei
mesi il sentimento di ammirazione e di gratitudine per l'Italia
109
del popolo, che avrebbe trasfigurato la guerra di liberazione in
epopea popolare e dato impeto, vigore, forza di persuasione e
di commozione, ai discorsi coi quali sarebbe passato:.& città in
città a celebrarla. Trascorse gli ultimi mesi prima della libera-
zione scrivendo la lunga introduzione a Dei delitti e delle pene
di Cesare Beccaria, apparso l'anno seguente nella collezione In
ventiquattresimo del Le Monnier, diretta da Pietro Pancrazi 19 •
Era per lui un tema nuovo, un tema straordinario adatto a
tempi straordinari: l'impegno che vi dedicò segna bene il mo-
mento in cui dal giurista nasce lo scrittore politico. Quel com-
mento gli permise di animare i suoi interessi di studioso di
diritto con la sua vocazione di moralista e insieme di esprimere
dopo tanto silenzio una fervida invocazione alla libertà, e la
speranza io una società più umana e più giusta. Si ricorderà del
suo Beccaria quando nel discorso commemorativo del decennale
della Resistenza, tenuto il 28 febbraio 1954, ripeterà le di lui
' parole lapidarie ': « Non vi è libertà ogni qual volta le leggi
permettono che, in alcuni eventi, l'uomo cessi di esser persona
e diventi cosa» 20 • In maggio, come scrive all'amico Pietro
Pancrazi, la introduzione era finita « da un pezzo » 21 • Nel mese
di agosto, due mesi dopo la liberazione di Roma, quasi negli
stessi giorni della liberazione di Firenze, apparve su « L'Italia
libera» di Roma il primo articolo d'argomento politico.
110
sociale, prendeva atto della situazione reale che non consentiva
trasformazioni radicali del vecchio assetto se non attraverso il
procedimento legalitario di un'assemblea costituente, la quale
sarebbe stata « non l'epilogo, ma il prologo di una rivoluzione
sociale » 25 •
La convinzione che la situazione italiana avesse carattere
rivoluzionario era fondata su un giudizio storico e su un'inter-
pretazione giuridica. Storicamente, il vecchio stato non poteva
più risorgere perché era crollato col fascismo dal quale si era
lasciato stringere in un abbraccio mortale. « Il fascismo non era
un flagello piombato dal cielo sulla moltitudine innocente, ma
una tabe spirituale lungamente maturata nell'interno di tutta
una società» 26 : un tumore maligno che non si poteva amputa-
re senza distruggere l'organismo su cui era cresciuto. Caduto il
fascismo non poteva rimanere in vita lo statuto per la sempli-
cissima ragione « che lo statuto, da molto tempo, non c'era
più » 21 • Prima del fascismo c'era una monarchia rappresentati-
va; ma durante il fascismo cessò di essere rappresentativa e a
guardare sotto le etichette anche ·di essere monarchia. Giuridi-
camente, la rottura col passato era avvenuta col decreto legge
luogotenenziale del 25 giugno 1944 (n. 151), che doveva esse-
re considerato « l'atto di nascita del nuovo ordinamento de-
mocratico italiano » li e come tale « indubbiamente un atto rivo-
luzionario » 2~. Questo decreto, deferendo al popolo italiano la
scelta delle forme costituzionali del nuovo stato, attraverso
l'elezione di un'assemblea costituente, abrogava il decreto del 2
agosto 194 3 col quale, immediatamente dopo il colpo di stato
del 25 luglio, il re, promettendo la ricostituzione della Camera
dei deputati elettiva a quattro mesi dalla cessazione della guer-
ra, aveva tentato la via della pura e semplice restaurazione.
Non era affatto una proroga della vecchia Costituzione, ma il
germe di un ordinamento nuovo. Il periodo che era cominciato
col decreto del 25 giugno era un singolare periodo di « vacanza
giuridica»: Calamandrei lo battezzò col fortunato nome di
« limbo costituzionale».
A dire il vero un regime di piena rottura col passato e
insieme di vuoto giuridico, in attesa che il popolo italiano
111
potesse esercitare attraverso libere elezioni la sua sovranità,
richiedeva una situazione di equidistanza tra i due poteri in
conflitto, quello della monarchia e quello del Comitato di Libe-
razione Nazionale. Questa equidistanza non si era avverata:
l'istituto monarchico non era venuto meno anche se dopo la
liberazione di Roma, dal 5 giugno 1944, si era presentato sotto
le nuove e ambigue spoglie della « luogotenenza generale »: al
luogotenente e non al CLN come avrebbe voluto il Partito
d'Azione, fu di fatto riconosciuta la prerogativa sovrana del-
l'investitura dei governi che si succedettero dopo il giugno
1944. Per dare un fondamento alla tesi della « vacanza costitu-
zionale», Calamandrei propose della figura e dei poteri del luo-
gotenente un'interpretazione restrittiva, sia per quel che ri-
guarda le funzioni sia per quel che riguarda la durata: sostenne,
da un lato, che l'istituzione del luogotenente era dovuta ad uno
stato di necessità creato dalla guerra in corso, e quindi ubbidi-
va all'esigenza della continuità militare che nulla aveva a che
vedere con la continuità costituzionale; dall'altro, che a libera-
zione avvenuta, il governo pre-provvisorio in carica nel periodo
della tregua istituzionale (« governo provvisorio al quadra-
to » 30), avrebbe dovuto trasmettere il potere ad un governo
provvisorio incaricato di preparare la Costituente e il luogote-
nente cedere il potere ad un consiglio di reggenza, eletto dallo
stesso governo. Era un'interpretazione giuridica, manifestamen-
te determinata in ultima istanza da una scelta politica: tra i
due poteri in conflitto, la vecchia monarchia tramontante e il
sorgente Comitato di Liberazione, Calamandrei non aveva esi-
tato a riconoscere l'unica e intera sovranità del secondo. Ai
Comitati di Liberazione Nazionale, « diretta rappresentanza del
popolo italiano rimasto in piedi dopo la catastrofe » 31 , « organi
nuovi di ricostruzione rivoluzionaria » 32, doveva essere attri-
buita la « funzione costituzionale » di portare a termine la libe-
razione dell'Italia dal fascismo. Di conseguenza, il governo cui
sarebbe stato affidato il compito storico di dare una nuova
costituzione al popolo italiano, doveva essere non il governo
del luogotenente ma il governo dei Comitati di Liberazione.
Salutò il governo Parri (giugno 1945) come una prova di ma-
112
turità del popolo italiano che aveva saputo « senza bisogno di
nuovo sangue, inserire negli sconvolti congegni costituzionali le
forze rinnovatrici della sua rivoluzione democratica» 33 : la sua
investitura era stata ricevuta solo formalmente dal luogotenen-
te, di fatto imposta dal Comitato di Liberazione. Era l'auspica-
to governo provvisorio, incaricato di preparare la Costituente:
il vero e proprio « governo della Costituente » 34 •
Ma il governo Parri fu una meteora. Alla sua caduta Ca-
lamand.rei denunciò con parole roventi il disfattismo politico
che si era rivelato attraverso la « opposizione dei liberti», di
coloro che « anche restituiti alla libertà, non riescono a dimen-
ticarsi di essere stati, fino a ieri, miserandi schiavi » 35 • Dietro
la crisi del governo dei Comitati di Liberazione si doveva in-
travedere un tentativo della monarchia e delle forze politiche
che la sostenevano di riprendere il terreno perduto e di imbri-
gliare e ritardare la corsa inarrestabile verso la Costituente e la
Repubblica? Accanto alla battaglia contro i fautori della conti-
nuità costituzionale, egli condusse in quei mesi una polemica
non meno serrata in difesa della 'sovranità della Costituente.
Nonostante i limiti che il decreto del 25 giugno aveva segnati
al potere della Costituente, cui era demandato il compito esclu-
sivo di 'deliberare la nuova Costituzione dello stato', era con-
vinto che, almeno teoricamente, la Costituente, una volta elet-
ta, avrebbe riunito in sé tutti i poteri, e dunque non solo
quello di deliberare la nuova costituzione, ma anche i poteri
legislativo, amministrativo e giudiziario. Ammetteva peraltro
che praticamente, con un atto di autolimitazione, l'Assemblea
avrebbe dovuto rinunciare a quelle funzioni che di fatto non
sarebbe stata in grado di svolgere, e dare l'investitura ad un
governo provvisorio, delegato ad esercitare il potere esecutivo e
il potere legislativo ordinario. Ma col decreto legge luogotenen-
ziale del 16 marzo 1946 (n. 98) che istitul il referendum isti-
tuzionale, quella che era sembrata sino allora « una conquista
irrevocabile », cioè il principio di « tutti i poteri alla Costituen-
te», veniva improvvisamente revocata: la scelta istituzionale
era sottratta all'Assemblea e deferita alla consultazione popolare.
A nome del Partito d'Azione Calamand.rei tenne 1'8 marzo
113
alla Consulta nazionale il suo primo discorso parlamentare
contro il referendum istituzionale: parlò di « cataclisma costitu-
zionale», di « colpo di stato»; pur riconoscendo che il referen·
dum poteva essere accolto come un minor male di fronte ad un
presunto suggerimento di alcuni giuristi americani di mantenere
in carica il regime luogotenenziale sino alla fine dei lavori della
Costituente, ne mise in evidenza due gravi pericoli, il possibile
conflitto tra la soluzione che alla questione istituzionale avreb-
be dato il referendum e un'eventuale diversa deliberazione del-
la Costituente pur sempre sovrana, e la minaccia all'unità d'Ita-
lia. In un articolo di alcuni giorni precedente (Ombre e luci
del referendum istituzionale, 2 marzo 1946), ne aveva indicato
con maggior durezza le ombre, tra esse anche quella di costitui-
re « una irrimediabile infrazione della promessa contenuta nel
decreto del 25 giugno 1944 » 36 , ma ne aveva altresl messo in
risalto le luci: il referendum risolveva il problema del trapasso
dal governo provvisorio al governo della Costituente (problema
che lo aveva più volte tormentato e di cui aveva proposto
soluzioni di incerta attuazione) e semplificava i termini della
battaglia elettorale. Concludeva che non bisognava essere pes-
simisti: l'essenziale era ormai vincere la battaglia della repub-
blica anche col referendum. Ritornando ancora una volta sul
problema, quando ormai il decreto era stato approvato, accet-
tava il fatto compiuto, parlava non più di colpo di stato ma di
operazione chirurgica, e richiamava l'attenzione sui pericoli di
questa innovazione solo per trarne qualche riflessione sulla ne-
cessità di dare un'impostazione diversa, più leale, più sincera e
più chiara da entrambe le parti alla battaglia elettorale (Stra-
tegia del referendum, aprile 1946). Per questo, quando il vec-
chio re ritornò alla ribalta per abdicare in favore del figlio il
quale diventò inopinatamente re d'Italia (10 maggio 1946),
considerò il gesto come una sleale infrazione della tregua costi-
tuzionale, un fraudolento tentativo di sovversione, un « mise-
revole, illusorio, ridicolo colpo di stato in articulo mortis » 11 •
Di fronte a questo ritorno dei fantasmi, non c'era ormai che
una risposta: il voto del popolo. Alla vigilia della consultazione
elettorale scriverà: « Il 2 giugno non saranno elezioni: sarà la
114
riconciliazione di un popolo » n. Proclamata la Repubblica, sa-
luterà nella paziente, consapevole conquista, « un miracolo della
ragione».
115
L'apparizione dei diritti sociali nelle costituzioni è, più che il
punto d'arrivo di una rivoluzione già compiuta, il punto di partenza di
una rivoluzione (o di una evoluzione) che si mette in cammino~.
116
ne politica» u. E aggiungeva che per ottenere questo risultato
occorrevano due virtù:
la saggezza che cerca i modelli nelle esperienze dd passato e la
fantasia che trova i nuovi meccanismi giuridici per aprire le strade
ddl'avvenire44.
117
Solo quando una rivoluzione vittoriosa ha esaurito il suo ciclo
storico, può senza residui essere fissata in leggi: una rivoluzione rimasta
a mezzo bisogna che si contenti di platonici sfoghi oratori%.
118
discorso evocò lo spettro dello stato confessionale, incompatibi-
le con lo spirito ddla Costituzione e in particolare con la
libertà di coscienza, e negò, richiamandosi alla comune soffe-
renza di cattolici e non cattolici durante la guerra di liberazio-
ne, che l'art. 7 fosse necessario per ristabilire la pace religiosa
in Italia. Ritornando sull'argomento in un articolo di giugno
parlò di « innesto confessionale »; col confessionismo, che era
perfettamente al suo posto in uno stato autoritario come quello
fascista, si era inserito in un ordinamento democratico un
« corpo estraneo », che avrebbe potuto avere maligne conseguen-
ze. Strettamente connessa alla critica dell'art. 7, fu la posizione
assunta di fronte all'art. 24 del Progetto che prevedeva l'indis-
solubilità del matrimonio, poi respinta, anche per eHetto dd di
lui intervento, nell'art. 29 del testo costituzionale: strettamente
connesso perché l'indissolubilità dd matrimonio era insieme
una postilla del Concordato (rifiutata dal fascismo e riesumata
dalla Democrazia Cristiana) e una prima manifestazione di
quello stato confessionale che menne veniva rigettato a parole
era accolto di soppiatto, quando· se ne presentava l'occasione
propizia, negli istituti.
119
zione e alla sua attuazione. Ma gli spiriti erano pronti? Come
dirà qualche anno più tardi, ricorrendo il decimo anniversario
della guerra di liberazione, la Costituzione era nella sua parte
migliore « lo spirito della Resistenza tradotto in formule giuri-
diche» 50; in uno dei suoi ultimi articoli, la chiamerà « il pro-
gramma politico della Resistenza» 51 • Ora quel che si era a
poco a poco affievolito, via via che ci si allontanava dai tempi
eroici, era lo spirito della Resistenza; già nell'ottobre del 1946
era nata quella « facilità di oblio », quel « rifiuto di trarre le
conseguenze logiche dell'esperienza sofferta », quel « riattaccarsi
con pigra nostalgia alle comode e cieche viltà del passato » cui
egli diede il nome di « desistenza » 52 • Poiché alla rivoluzione
giuridica non era seguita la rivoluzione sociale ed economica, la
vecchia classe dirigente era rimasta al potere, le strutture dello
stato erano state solo formalmente non anche sostanzialmente
trasformate: dietro una rivoluzione sbandierata ma illusoria, si
apriva la strada e stava facendo grandi passi una « restaurazione
clandestina ». E sovra tutto, « soverchiante ogni altro sentimen-
to, una mortale stanchezza, un imperioso bisogno di immobilità
e di obllo, che si avvicina al collasso» 53 • Fenomeno ancor più
grave: esaurito il compito dei costituenti, l'alleanza forzata che
aveva tenuto insieme partiti politici diversi e antitetici si era
sciolta. Era prevedibile che di fronte al nuovo problema, che
non era più quello di stabilire una piattaforma comune ma
quello di governare il paese, ognuno avrebbe ripreso le proprie
posizioni.
La rottura fu, di fatto, lacerante: con le elezioni del 18
aprile allo spirito del compromesso succedette lo spirito della
crociata. Tra il partito della Democrazia Cristiana e i partiti
delle sinistre riuniti nel fronte popolare avvenne l'urto di due
opposte intransigenze: Calamandrei, pur aderendo alla lista di
Unità Socialista che si poneva al di fuori dei due blocchi con-
trapposti come eserciti schierati in campo, assunse la posizione
di chi fa parte per se stesso. Ne diede la prova più alta quando
parlando a nome dei socialisti indipendenti « dei quali - disse
- son rimasto l'unico rappresentante nel gruppo di 'Unità
Socialista ' » 54 , fece la sua dichiarazione di voto contrario al-
120
l'approvazione del Patto Atlantico (seduta del 16 marzo 1949).
Era una scelta che impegnava « la nostra anima » e non si pote-
va delegarla a nessun altro. Non c'era che un modo per decide-
re: interrogare la propria coscienza. Le ultime parole sono cri-
stalline:
Io so che qualcuno della maggioranza, prima di decidersi a votare,
si è raccolto lungamente in preghiera. Lo ricordo con rispetto e con
commozione: se egli voterà a favore, vuol dire che in tal senso la
risposta della sua intima voce avrà messo in pace la sua coscienza. Ma
per pregare non ci si raccoglie soltanto nelle chiese: anche noi, dopo
essere stati lungamente raccolti con noi stessi, abbiamo udito in fondo
alla nostra coscienza una voce che ci mette tranquilli. E la voce ci ha
detto: Noss.
121
governo oppure una potenza ben altrimenti superiore, che si
poneva nel suo magistero universale al di fuori e al di sopra di
tutti gli stati e quindi anche dello stato italiano? Questa po-
tenza non aveva esitato a lanciare una scomunica ( 1 luglio
1949) che aveva finito per diventare « un'arma potentissima di
propaganda politica, ed anzi di manovra militare » 51 • Di fronte
ad una politica diventata fideistica era naturale che stesse sul-
l'altro piatto della bilancia una religione divenuta instrumen-
tum regni.
La conseguenza più grave di questa politica di intolleranza
si rivelò nella corruzione della vita parlamentare. Gli scritti più
importanti di questo periodo sono rivolti all'analisi della crisi
del parlamento. Già in uno scritto del 1947, Patologia della
corruzione parlamentare, Calamandrei aveva esaminati i vari
modi in cui un uomo politico può approfittare della sua fun-
zione pubblica per conseguire una illecita utilità privata attra-
verso vantaggi di carriera, incarichi retribuiti, esercizio di in-
fluenza politica, accresciuto prestigio professionale, abuso della
pratica delle raccomandazioni: queste varietà patologiche poi
erano aggravate e complicate quando interveniva oltre l'interes-
se personale anche la ragione di partito, di fronte alla quale si
faceva passare per buona la massima che il fine giustifica i
mezzi. Ma il motivo di maggiore preoccupazione per il destino
del parlamento era connesso all'analisi del meccanismo più de-
licato e insieme più vitale del suo funzionamento: il rapporto
tra maggioranza e minoranza, In un articolo del 1948, Mag-
gioranza e opposizione, partendo dalla concezione classica e
sempre attuale, secondo cui il buon funzionamento di un par-
lamento dipende dalla presenza di una maggioranza che non
vuole stravincere e di una minoranza convinta di non dover
restare eternamente perdente, osservò che nel nostro parlamen-
to questi rapporti erano profondamente alterati: da un lato vi
era una maggioranza che mostrava una « sprezzante noncuran-
za )I, per i diritti della opposizione, credendosi infallibile, e dal-
l'altro una minoranza che, avendo fiducia più nell'azione diret-
ta che nella discussione parlamentare, usava argomenti atti
più ad eccitare che a persuadere. Alla fine della legislatura
122
riassunse la sua esperienza di parlamentare deluso nell'ampio
saggio L'ostruzionismo di maggioranza, in cui illustrò, espo-
nendo minutamente un esempio concreto, la tattica ritardatrice
adottata dalla maggioranza per impedire l'approvazione di un
disegno di legge, vulgo per« insabbiare» un provvedimento co-
stituzionalmente doveroso ma ingrato. Definl la legislatura che
stava per chiudersi la legislatura dell'« ostruzionismo di mag-
gioranza contro la Costituzione» 58 • La novità e l'apparente
paradosso dell'espediente stavano in ciò, che l'ostruzionismo è
di solito conosciuto come una manovra della minoranza, che se
ne vale per impedire o ritardare l'approvazione di un disegno
di legge contrario ai propri princlpi; la maggioranza non ha
bisogno di ricorrere all'ostruzionismo perché per respingere un
provvedimento non desiderato ha un'arma ben più potente e
sicura, il voto. Nel nostro parlamento, invece, era stata intro-
dotta una singolare innovazione: quella di una maggioranza che
fa l'ostruzionismo ai disegni di legge da essa stessa proposti.
Ma per quanto strana fosse questa invenzione, la spiegazione
non era difficile da trovare: la nubva maggioranza non poteva
sottrarsi al compito politicamente vincolante di attuare la Co-
stituzione, ma poiché era un compito sgradito, nel suo animo
« il palpito della fedeltà costituzionale » si era andato a poco a
poco ritardando. La diagnosi era di « brachicardia costituziona-
le progressiva» 59 • Mentre l'ostruzionismo di minoranza è tatti-
co, quello di maggioranza è strategico: può durare un'intera
legislatura. Purché non manchino i buoni strateghi; e non man-
carono. L'esempio concreto su cui Calamandrei si diffonde - e
a proposito del quale era già intervenuto in parlamento il 28
novembre 1950 (vedi il discorso intitolato Si mette in peri-
colo la costituzionalità della Corte Costituzionale) - è quello
delle incredibili peripezie che attraversò il disegno di legge
sulla istituzione e sul funzionamento della Corte Costituzio-
nale, presentato in Senato il 14 luglio 1948, approvato soltanto
il 14 marzo 1953 (ma al momento in cui scriveva, Calamandrei
non sapeva che l'avventura non era ancora finita).
Si poteva prevedere che chi aveva cominciato col non
attuare la Costituzione finisse per violarla. La previsione non si
123
dimostrò infondata. La prima legislatura terminò con un vero e
proprio « attentato » alla Costituzione: la nuova legge dettorale,
che attribui un premio di maggioranza alla lista o alle liste
apparentate che avessero conseguito la maggioranza assoluta.
Cala.m.andrei, scindendo la propria responsabilità da quella de]
gruppo politico cui aveva aderito, a nome di altri sette deputati
socialisti democratici, dichiarò con la solita fermezza la propria
opposi2ione. In questa occasione pronunciò il suo ultimo di-
scorso parlamentare (12 dicembre 1952): difese quella sana e
vitale democrazia parlamentare che era stata consacrata dalla
Costituzione, cioè quella forma di governo in cui nessun partito
è depositario della verità, dove non vi sono governi e tanto
meno partiti infallibili, denunciò la illegalità e ancor più la
scorrettezza della nuova legge, indirizzò un chiaro ammonimen-
to a coloro che gridavano al pericolo da sinistra mentre la
minaccia più grave alla democrazia italiana proveniva da destra,
espresse la sua inalterata fiducia nd socialismo democratico che
proponendo una reale alternativa all'interno del sistema avreb-
be esso solo pennesso di salvare il sistema stesso. Le ultime
parole da lui pronunciate in parlamento sono una professione
di fede:
Le nostre persone passano, non contano; i calcoli elettorali, il
numero dei seggi, sono trascurabili miserie: quello che conta [ ... ] è lasciare
aperte verso l'avvenire, nelle nostre coscienze e nd paese, le strade
pacifiche che attraverso la democrazia parlamentare portano a quelle
plaghe ove la libertà è tutt'uno col socialismo 60 •
124
mocrazia e la vittoria elettorale, avevano tradito la democrazia
cd erano stati sconfitti:
125
aver indotto contadini senza lavoro ad occupare terre incolte a
scopo dimostrativo, e lo studio critico sul processo intentato
dal Tribunale Militare contro i giornalisti Renzo Renzi e Guido
Aristarco, per un reato di stampa commesso quando erano en-
trambi ormai da tempo militari in congedo. In entrambi gli
scritti risuona la costante invocazione alla Costituzione « che è
costata tanto sangue e tanto dolore » 64 • Se i prindpi di solida-
rietà proclamati dalla Costituzione avessero avuto un inizio di
attuazione, un uomo come Dolci non sarebbe sceso in campo a
dividere coi disertori, con gli affamati, le loro sofferenze e la
loro sete di giustizia. L'episodio del processo ai due giornalisti
era, d'altra parte, una nuova manifestazione di quel clima di
« disfattismo costituzionale » che aveva asfissiato la vita politica
italiana degli ultimi anni 65 • In occasione della condanna a mor-
te dei coniugi Rosenberg (20 giugno 1953) lancia un appello
contro la pena di morte. Denuncia gli abusi e i piccoli soprusi
della polizia ora per la incostituzionale politica discriminatoria
o dilatoria nella concessione dei passaporti, ora per l'arbitrario
divieto della Festa dell'Unità alle Cascine. Si preoccupa per
le conseguenze morali ed economiche degli errori giudiziari e
per l'incuria dello stato nel ripararli. Si indigna contro certe
liste di proscrizione, pubblicate da un ignobile giornale, non
solo tollerato ma forse favorito da chi dovrebbe sconfessarlo.
Quando Walter Lippmann enuncia il principio che una vittoria
elettorale socialcomunista sarebbe un terremoto meno grave di
quel che si potrebbe prevedere perché i partiti non comunisti
dominano l'apparato statale, le forze annate e la polizia, pro-
testa contro l'assimilazione della democrazia italiana uscita dalla
Resistenza al regime delle repubblichette sudamericane « dove
le libertà costituzionali segnate sulla carta sono interpretate al
momento giusto dai pistoleros pagati dai grandi finanzieri d'ol-
tre confine )I, 66 • Rimprovera ancora una volta al partito domi-
nante quell'« incancreni.mento costituzionale, più pericoloso di
un colpo di stato », fatto anche « di sospettosa inquisizione
poliziesca )I, 67 , che mettendo in forse ogni giorno l'eguaglianza,
la libertà e il pane del cittadino contribuisce ad aumentare il
partito degli scontenti, degli sfiduciati, di coloro che, non ere-
126
dendo più alla proclamata democrazia, vanno ad ingrossare le
file del Partito Comunista.
Tutti i temi della sua critica politica sono alla fine esposti,
precisati e documentati nel saggio La Costituzione e le leggi
per attuarla, pubblicato nel volume laterziano Dieci anni dopo,
nel 1955. Questo saggio è un esame senza illusioni e una
contestazione senza indulgenze della politica restauratrice che
ha ispirato il governo nel primo decennio dopo la liberazione.
Alla mancata attuazione di organi e di istituti fondamentali
previsti dalla Costituzione fa riscontro la baldanzosa sopravvi-
venza di istituzioni del vecchio regime e del fascismo. La mag-
gior parte dei diritti di libertà solennemente garantiti, sono
violati o malamente protetti; i diritti politici, messi in dubbio;
i diritti sociali rimasti una platonica promessa senza conseguen-
ze. Col pretesto di combattere il totalitarismo di sinistra si è
chiuso un occhio alla crescita del totalitarismo di destra. Le
pagine più concitate sono ancora una volta quelle dedicate a
combattere la politica delle discriminazioni: senza il contributo
dato dal Partito Comunista alla guerra di liberazione prima e
alla formazione del nuovo stato poi, la repubblica consacrata
dalla Costituzione non sarebbe nata. E poi non è buon metodo,
per impedire una paventata distruzione della democrazia doma-
ni, cominciare col distruggerla oggi. Dopo dieci anni, l'Italia è
retta da una costituzione materiale che non assomiglia più per
nulla alla costituzione formale: non repubblica parlamentare
ma governo di partito o addirittura di polizia. Eppure la con-
clusione, per quanto amara, non è disperata: la china precipito-
sa può essere arrestata. Il saggio si chiude con un atto di
fiducia nel fermento del « solidarismo cristiano il quale sente di
avere tanta strada da percorrere verso l'avvenire insieme col
socialismo» 68 • La democrazia italiana è a un bivio: la scelta
ultima non è ancora decisa.
Dopo che ebbe scritto questo saggio, due avvenimenti
negli ultimi mesi della sua vita contribuirono a infondergli
qualche speranza nell'avvenire: il messaggio del nuovo presi-
dente della repubblica, Giovanni Gronchi (giugno 1955), che
sembrava dar nuovo vigore alla funzione propulsiva dell'organo
127
supremo dello stato e riconosceva la necessità che la Costitu-
zione fosse compiuta negli istituti previsti; e l'istituzione della
Corte Costituzionale. Si veniva disegnando, se pure attraverso
un processo faticoso, la struttura originale di « questa nostra
repubblica», che non è né parlamentare né presidenziale, ma un
tertium gmus, un ordinamento in a.ii il parlamento non è più
onnipotente perché è inserito in una costituzione insieme rigida
e programmatica, che in quanto programmatica lo stimola, in
quanto rigida lo raffrena, e ove a garanzia di queste limitazioni
stanno due organi superiori al parlamento stesso, il presidente
della repubblica e la Corte Costituzionale. Si poteva conclude-
re, senza abbandonani a troppo facili illusioni, che il secondo
decennio sarebbe cominciato sotto più fausti auspici?
128
volte dai compromessi dei politicanti, sulla suada della onestà e della
serietà civile, segnata da Mazzini 12 •
129
politica serve a spiegare il frequente appello alla coscienza più
che alla ragione di stato o di partito, e la condanna, o più
indulgentemente la commiserazione, per coloro che dovevano
dire una cosa ma ne pensavano un'altra, e che talora dovevano
votare in modo diverso da ciò che avevano pensato e detto.
Ogniqualvolta disse « no )) in parlamento, motivò il suo rifiuto
invocando le ragioni della coscienza, le uniche ragioni cui era
disposto ad ubbidire. Tre di queste circostanze furono memo-
rabili: l'art. 7, il Patto Atlantico, la legge elettorale del 1953.
Nella prima ammoni:
Quando i voti si danno non più per fedeltà alle proprie opinioni,
ma per calcoli di corridoio in contrasto colla propria coscienza, il siste-
ma parlamentare degenera in parlamentarismo e la democrazia è in
pericolo 71 •
lJO
rizzante, è proprio questa: di aiutarci a camminare in questo duro
passaggio attraverso la vita, pur sapendo che quando si erriverà là dove
si credeva fosse l'arcobaleno, ritroveremo soltanto un po' di nebbia; ma
l'ercobaleno sarà ancora più in là, e noi continueremo ad inseguirlo
senza fermarci 82 ,
131
Io mi rifiuto di credere - disse una volta - a quell'insegnamen·
to che mi è stato dato la prima volta che sono entrato in quest'aula,
cioè che in politica invece è sempre presunta la malafede, e che quando
una persona in quest'aula dice una cosa, si ha il dovere che egli pensi
assolutamente il contrario 88 •
Concluse:
132
siderò « uno degli illusi che continuano ad aver fede nella
ragione » 91 • In uno dei suoi discorsi più drammatici (Mantener
fede alla Costituzione, aprile 1950), protestando contro le limi-
tazioni delle libertà civili approvate dal governo, disse che no-
nostante tutto gli uomini dovevano continuare ad aver fede
nella ragione « ed a credere che essa è capace di vincere gli
astri» 92 •
Bisogno di verità e fede nella ragione sono i due caratteri
essenziali dell'uomo libero: contraddistinguono l'uomo libero,
rispettivamente, dal conformista e dal fanatico. Calamandrei fu
un uomo libero: combatté con pari energia il conformismo dei
pavidi e il fanatismo degli intolleranti. Negli anni della guerra
fredda si rifiutò di accettare ' il feroce dilemma ' che divideva il
mondo in eletti e reprobi. Di fronte ad Oppenheimer, sospetta-
to di tradimento per aver avuto scrupoli di coscienza durante la
fabbricazione della bomba all'idrogeno, espresse con parole mi-
rabili la sua fede di uomo di ragione:
Beati coloro che dubitano, colorO che esitano, coloro che s'accor-
gono che l'esplosivo di cui è carica la bomba è, prima che l'idrogeno, il
fanatismo e il terrore 93.
133
cratica e radicale fosse finalmente giunta, o per lo meno il
vergognoso crollo della vecchia classe politica e la fine inevita-
bile della monarchia lo avrebbero reso più facile.
Calamandrei non elaborò mai una vera e propria dottrina
politica: da giurista si preoccupò piuttosto delle impalcature,
degli strumenti giuridici più adatti per assicurare lo sviluppo
della democrazia, di una democrazia reale e non soltanto forma-
le, in Italia, e l'instaurazione di una pace stabile nell'ordine
internazionale. Credeva fermamente nel valore etico dello stato
di diritto, cioè dello stato che attraverso il principio di legalità
assicura il beneficio della certezza del diritto, « prima condizio-
ne di ogni libertà » 94 • Una delle accuse che muove più frequen-
temente al fascismo, definito come regime dell'illegalismo di
stato, fu quella di aver adulterato la legalità e di aver distrutto
negli italiani il rispetto della legge: uno dei primi compiti del
nuovo stato era proprio ciuello di ristabilire la fiducia nella
legge e nello stato, mettendo in piedi un edificio in cui ciascu-
no potesse abitare senza dover temere ad ogni scossone che
crollasse il pavimento o il tetto. Ogniqualvolta la nuova legalità
repubblicana parve minacciata intervenne, come si è detto, con
veemenza. Ma lo stato di diritto era soltanto la condizione, se
pur non condizione necessaria, per lo sviluppo della democrazia
in Italia, il quale dipendeva, ex parte populi, dal formarsi di
un costume democratico, fatto di buon senso, di spirito critico,
di tolleranza delle idee altrui e di indipendenza nelle proprie,
da cui eravamo ancora molto lontani, ex parte principis, dalla
volontà politica di attuare, se pure gradualmente, i precetti
programmatici della carta costituzionale. Per quanto Calaman-
drei non abbia mai costituito intenzionalmente, in tutte le sue
parti, una dottrina, non è difficile ricostruirla attraverso gli
sparsi frammenti e gli accenni occasionali, e richiamandosi, co-
me direbbe un giurista, allo spirito del sistema.
La concezione democratica è una fede morale prima che
un programma politico: alla sua base sta un'idea di solidale
autonomia, cioè l'idea che « la libertà di uno dipende scambie-
volmente dalla libertà degli altri, e che l'autonomia propria non
può essere assicurata che dal rispetto, che è limitazione recipro-
134
ca, delle autonomie altrui » 95 • Il principio centrale della de-
mocrazia risiede nella solidarietà più che nella libertà, nella
interdipendenza più che nella indipendenza. Di conseguenza l'i-
dea democratica implica un programma di riforma non solo
politica ma anche economica: il logico sviluppo della democra-
zia politica è la democrazia sociale; anzi in un certo senso solo
la democrazia sociale è vera democrazia, in quanto sviluppo e
compimento dell'ideale democratico. Per democrazia sociale si
intende
un ordinnmento costituzionale in cui la partecipazione attiva di
tutti i cittadini alla vita politica della comunità sia garantita non soltan-
to dalle tradizionali libertà politiche[ ... ]. ma altresl dai nuovi diritti socia-
li, in forza dei quali è data ugualmente ad ogni cittadino la possibilità
economica di valersi in maniera effettiva delle libertà politiche 96 •
135
li. Nel discorso contro la legge elettorale maggioritaria, espose
questo punto fondamentale con la massima chiarezza:
lo, pur essendo socialista, - disse - continuo a credere nella
democrazia parlamentare, non come un periodo di transizione, non come
un espediente temporaneo, non come un ponte per arrivare alla dittatura
di sinistra, ma come durevole sistema di democrazia politica, atto a
permettere la trasformazione economica di questa società, senza bisogno
di rinunziare alle libertà politiche 99,
136
namento tra cristianesimo e socialismo, in un incontro « dello
spirito cristiano col socialismo democratico», che sarebbe av-
venuto « sotto il segno della Resistenza » 102 •
Quello che Calamandrei chiamò il suo socialismo, era es-
senzialmente un impulso del a.iore. Sarebbe vano andarne a
cercare l'origine o la derivazione in questa o quella corrente di
idee. Nasceva non da una riflessione su questa o quella teoria,
ma da uno spontaneo sentimento di solidarietà per gli umili
contro i potenti, per i poveri contro i ricchi non mai sazi, per i
poveri che nonostante le promesse diventavano sempre più
poveri e i ricchi che, nonostante le truci minacce, diventavano
sempre più ricchi, per coloro che stentavano il loro pane contro
i beati possidentes che non volevano mutamenti. Ricorre spesso
in questi scritti, con senso spregiativo, la parola «privilegio»:
questo socialismo era nutrito dall'insofferenza contro ogni for-
ma di privilegio; era anelito di eguaglianza, alimentato da una
ammirazione genuina per le virtù popolaresche della gente
comune, per la saggezza, il buon senso, la pazienza, lo spirito
di sacrificio di un popolo tradiziònalmente malgovernato, in-
gannato e bastonato. Socialismo umanitario nel senso schietto e
ottocentesco della parola: la grande divisione nella società non
era tra proletari e capitalisti, ma tra umili e prepotenti.
Avendo scelto la sua parte a fianco degli umili contro i
prepotenti, Calamandrei non abbandonò mai il campo, non tol-
lerando faziose discriminazioni tra i partiti che rappresentavano
in diversa guisa e con diversi intenti la massa dei diseredati, la
moltitudine di coloro che avevano diritti, a lungo calpestati, da
rivendicare. Pur avendo criticato senza sottintesi lo stato co-
munista, gli ideali e i metodi di lotta del Partito Comunista in
Italia, non accettò mai la cruda alternativa: o di qua o di là.
Non confuse mai l'intransigenza con l'intolleranza, la fedeltà
alle proprie idee con la faziosità, la sincerità verso se stesso con
la falsa purezza di chi non vuol farsi contaminare, il non essere
comunisti con l'anticomunismo. Attraverso l'eroica partecipa-
zione alla guerra di liberazione, mediante il contributo dato alla
elaborazione della Costituzione, i comunisti avevano acquistato
il diritto di essere considerati cittadini come tutti gli altri.
137
Difese in più occasioni la loro lealtà costituzionale contro le
insinuazioni, i sospetti, o peggio contro i ripetuti tentativi,
palesi od occulti, di metterli al bando della vita pubblica. Non
ammise mai che si prendesse pretesto dalla differenza di opi-
nioni e di scopi ultimi per gettare un anatema, e si inventasse
la peste per gridare agli untori. Nel saggio del 1955, più volte
ricordato, sulla mancata attuazione della Costituzione, alcune
pagine sono dedicate alla difesa della posizione costituzionale
del Partito Comunista Italiano e alla critica della politica di
discriminazione e di persecuzione. Il vero pericolo per i privi-
legiati
non è nel remoto pericolo comunista, ma è nella presenza di una
Costituzione democratica, che, se fosse lealmente attuata, porterebbe in
breve, in forma pacifica, alla graduale riduzione dei loro privilegi 103 •
138
di interdipendenza contrapposta a indipendenza, che gli servirà
poi in più luoghi per contraddistinguere la democrazia moderna
da quella ormai sorpassata dei regimi d'anteguerra: « Il federa-
lismo, prima che una dottrina politica, è la espressione di que-
sta raggiunta coscienza morale della interdipendenza della sorte
umana » 105 • Inoltre la federazione europea, concepita come ter-
za potenza tra i due blocchi contrapposti, era l'aspetto interna-
zionale di quella esigenza di mediazione tra i due grandi partiti
in conflitto, che egli aveva ripetutamente fatto valere nd dibat-
tito politico italiano: mirava al superamento della « guerra
fredda » internazionale, di cui la guerra fredda tra maggioranza
ed opposizione nel parlamento italiano era un triste effetto, ed
esprimeva abominio di quello spirito di crociata che aveva
avvelenato la lotta politica e messo a repentaglio la pace sociale
raggiunta con la caduta del fascismo. Quando disse no al Patto
Atlantico, trasse argomento per il primo motivo addotto dalla
concezione federalistica della pace europea, sostenendo che un
patto militare destinato a trasformare alcuni stati europei in
satelliti di uno dei blocchi avrebbe allontanato la nascita di
quella federazione europea
che noi auspichiamo né alleata né ostile, ma mediatrice tra i due
blocchi opposti, e capace di conciliare in una sua sintesi di democrazia
socialista due esigenze per noi ugualmente preziose e irrinunciabili,
quella della libertà democratica e parlamentare, e quella della giustizia
sociaieU:16•
139
Assemblea costituente europea, che egli preparò come relazio-
ne per il II Congresso internazionale dell'Unione europea dei
federalisti, svoltosi a Roma nel novembre del 1948.
A chi rinfacciava ai federalisti di essere incorreggibili so-
gnatori, rispose più volte prendendo le difese della realtà del-
l'utopia. Ancora nell'aprile del 1950, in uno dei momenti cul-
minanti della guerra fredda (scoppierà di Il a pochi mesi la
guerra di Corea}, lancerà un « appello all'unità ewupea », in cui,
condannando le unificazioni parziali o solo funzionali, riconfer-
merà la sua convinzione nell'unificazione politica come unica
soluzione permettente all'Europa di ritrovare nell'unità la ra-
gione della propria missione storica. Aveva accolto con eccessi-
ve speranze l'approvazione dello Statuto del Consiglio d'Europa
il 5 maggio 1949; ma vede con apprensione la formazione di
un esercito europeo, come dispositivo strategico dell'Alleanza
atlantica, che infrange l'ideale di un'Europa mediatrice tra i
due grandi blocchi, e apre la strada al riarmo tedesco. Al mo-
mento in cui si stanno preparando gli accordi per la istituzione
della Comunità europea di difesa (CED), tra la fine del 1951 e
il principio del 1952, dichiara il suo dissenso contro il federa-
lismo trasfonnato in una macchina di guerra. Ormai è diventa-
to un federalista perplesso. Da questo momento in poi sembra
che la fiammata federalistica dei prini anni si sia spenta. Nel
saggio in un certo senso conclusivo del suo pensiero politico,
La Costituzione e le leggi per attuarla, più volte citato, sulla
questione del federalismo, che coinvolge l'interpretazione del-
l'art. 11, è caduto il più completo silenzio.
Resta il grande problema, insoluto, della guerra: cinquan-
tacinque milioni tra morti, feriti e dispersi, a che scopo?
Se una sola crocefissione fu destinata a ricomprare tutto il male
della terra, per quale riscatto sono stati innalzati questi cinquantacinque
milioni di croci, che si profilano, come un'immensa selva, su tutti gli
orizzonti del mondo 10'1?
140
ca? Si profila lo spettro della guerra atomica. Calamandrei re-
gistra con prontezza se pur con sgomento questo dato assolu-
tamente nuovo della storia universale: in una nota sul processo
di Norimberga, del novembre 1946, commenta che in quella
sentenza « c'è implicita per domani la condanna della spietata
inumanità della bomba atomica» 191 • Coglie l'occasione dal
primo esperimento della bomba H, che « è andato abbastanza
bene», per scrivere un commento ironico su coloro che lavora-
no in grande per la civiltà. È arrivata l'era della« mega.morte»,
la nuova riserva aurea su cui si edificano i bilanci dei padroni
del mondo. Eppure bisogna ragionare (se ci si riesce) di questa
bomba, anche se il parlarne e rivelarne l'orrore possa farci
accusare dagli spiriti forti, dai realisti con i piedi ben piantati
su questa terra, di« pietismo atomico». Ma la sconfinata poten-
za della bomba atomica porta, come credono gli ottimisti ad
oltranza, alla scomparsa definitiva della guerra o non, piuttosto,
alla guerra preventiva? Non è da vedere nel carattere risolutivo
di queste nuove armi la ragione fondamentale della vanità di
tutti i tentativi di indurre i due dpposti fanatismi ad accordar-
si? La bomba termonucleare non è forse essa stessa l'espressio-
ne tecnica del totalitarismo politico? Bomba atomica e totalita-
rismo hanno congiunto indissolubilmente i loro destini: l'una
prolunga la vita dell'altro. E allora quale altro compito spetta
all'uomo di ragione se non quello di ricominciare ancora una
volta la lotta contro ogni fonna di fanatismo, da cui nasce
l'impulso di sopraffazione e di distruzione dell'avversario sino
alla sua scomparsa totale, la politica del terrore? Certo, il com-
pito è chiaro, ma è altrettanto chiaro il risultato? Quale spe-
ranza di vittoria si può nutrire in una battaglia ad armi cosl
impari, com'è quella che si combatte tra chi ha la forza ma è
cieco e chi vede ma è impotente? Nonostante la serietà delle
proprie convinzioni, l'ostinazione nel professarle, talvolta fu
preso da un'angoscia profonda. Un giorno si sparge la voce che
in Corea una delle parti ha iniziato la guerra batteriologica.
L'uomo di ragione detta la sua sentenza:
141
lenza, la scienza, dopo avere per tanti secoli lottato daJla parte dell'uo-
mo, ora, collo stesso metodico impegno, si è messa dalla parte della
pestilenza 109•
142
ta, se pur molto raramente, trionfassero nel corso storico Ie
buone cause. Egli fu, nel più ampio significato della parola,
l'avvocato della buona causa, che un giorno o l'altro, non si sa
quando né come, vincerà. Per individuarla si lasciò guidare dal
suo istinto morale che non falliva, per difenderla si fece tra-
sportare dal suo entusiasmo che resisteva alle prove più scorag-
gianti, per vincerla si affidò alla forza irresistibile della sua
indignazione che gli dettò le pagine più nobili e più avvincenti.
Uno dei suoi sentimenti fondamentali, che spiega tante vicende
della sua opera di politico senza parte, fu lo sdegno morale:
sdegno di fronte alla viltà, alla bassezza, alla slealtà, alla furbe-
ria, alla ipocrisia, alla volontà di dominio. Sdegno, non ira e
tanto meno furore che non ascolta ragioni: stese la mano agli
avversari che stimava, riconobbe i propri errori, non nascose i
propri dubbi, rispettò nell'avversario il galantuomo, ammirò gli
uomini di fede profonda anche se opposta alla sua, s'inchinò
con reverenza dinnanzi alla serietà di una vocazione, alla since-
rità di una professione di fede.
Un allievo che gli fu vicino per tanti anni, negli anni più
tempestosi, scrisse, parlando della sua fede religiosa, che « non
credeva di averla, ma si regolava come se Dio ci fosse, e fosse
un Dio severo» 111 • Egli stesso un giorno, parlando del carat-
tere religioso e morale della Resistenza, scrisse:
Religione vuol dire serietà della vita, impegno per i valori morali,
coerenza tra il pensiero e l'azione: la religione noo è soltanto quella che
si celebra nelle cerimonie liturgiche lll.
143
della morte » 114 • Non rivelava volentieri il proprio animo cli
fronte ai grandi problemi, aveva il pudore dei recessi reconditi;
ma accade talora di trovare il suo pensiero più segreto durante
una pausa, in un breve inciso, in una rapida allusione. Una
noterella che reca un titolo frivolo (Ritorno al Paneroni) con-
tiene questo frammento essenziale:
Io penso [ ... J che in certi spiriti sia proprio questa disperata consa-
pevolezza del proprio nulla che raddoppia l'impegno. Una delle virtù più
misteriose, e tuttavia più operose dell'uomo è questa: che quanto più
capisce che tutto quello che fa è vano, e più si accorge che vivere non è
che passare, e più si sforza di lasciare segni duraturi del suo passag-
gio •15.
144
NOTE
145
25 lbid., voi. I/1, p. 280.
n Ibitl., vol.1/1, p. 111.
• Ibid., voi. II, p. 420.
21 Ibid., voi. 1/1, p. 106.
30 lbid., voi. 1/1, p, 120.
li !biti., vol. 1/1, p. 122.
32 lbid., voi. 1/1, p. 131.
li ll,id., voi. 1/1, p. 138.
K Ibid., voi. 1/1, p. 176.
.u Ibid., voi. 1/1, p. 187.
» Ibid., voi. I/1, p. 211.
37 Ibid., voi. 1/1, p. 239.
li Ibid., vol. 1/1, p. 24,.
:,, Ibid., voi. II, p. 393.
• lbid., vol. 1/1, p. 1.57.
41 Ibid., voi. 1/1, p. 193.
4Z lbid., vol. 1/1, p. 278.
43/bid.,vol.l/1,p.'279.
_.. Ibid., voL I/1, p. 279.
G lbid., voi. 1/1, p. 29).
• Ibid., voi. 1/1, p. 293.
:• ~ vol~J·n!li Scritti ,olilici, cit,
Ibid., voi. 1/1, p. 314.
• Ibid., vot.
51 lbid., vol.
Il, p.51,.
1/2, p. 143.
52 lbid., voi. 1/1, p. 280.
» Ibid., vol. 1/1, p. 344 e seg,
5' Ibid., voi. li, p. 210.
:51 1t~:: :I: ~h.P/i:..~ Rl-
Ibitl., voi. 1/1, p. 423.
SI lbid., voi. l/1, p, 551.
: 1t~~:: ~: H~/·1~·
: 1:~~:· voi. 1/2, p. 22.
61 lbid.
61 lbid., voi. 1/2, p. 171.
15 Ibid., voi. II, p. 605.
" Ibitl., wl. l/2, p. 94.
ffl lbid., wl. l/2, p. 97.
• Jbid., voL II, p. '576.
• lbid., voi. 1/1, p. 101.
10 lbid., wl. l/1, p. 102.
11 /1,id., wl. 1/1, p. 27'.
!14 Scri11i
~;~. 1/;,• ,-c;,;.,:J;·rkl Powromo, iD
politici, dt., voi. l/1, p. 127.
e D Ponte•, D. cit., p. 167 •
15 lbid., wl. l/1, p. 222.
76 lbiJ., wl. 1/1, p. 314.
71 lbid., wl. l/1, p. )14.
11 lbid., wl. II, p. 2U.
7' lbid., wl. li, p. )02•
• lbid., voi. li, p. )O).
146
conHui~ ~i:u::, 1:u~~~n~'~ll'lJ~:! :::: ~ l~°::sd ~li;
formava nelle elezioni del 1948 un cartello denorale, denominato 'Unità Se;
cialista ', di cui Calamandrei fu candidato. Successivamente, dalla scissione Ro-
mita dal PSI e da quella Mondolfo dal PSLI, nacque - con la conHuenza
dell'Unione dei Socialisti - il PSU, che per due anni tentò di costituire una
"'terza forza,. sociaJista (fra PSI e PSLI), finché una lieve maggioranza deter-
minò, nd marzo 19.51, la fusione col PSLI che, da allora, si chiamò PSDI. Il
dissenso sulla legge denorale dd 1953 determinò, però, l'uscita di Calaman-
drei e dei suoi amici dal PSDI e la decisione di presentarsi a quelle elezioni
con la lista di ' Unità popolare', che vi giuocò un ruolo decisivo. Vi parteci-
parono anche scissionisti repubblicani (come Parri e Zuccarini) ed indipendenti
(come Jemolo e Olivetti).
82 S~itti politici, cit., vol 1/2, p. 407.
u lbid., voi. 1/2, p. 416.
M A. GAI.ANTE GARRONE, u,, 'ingem,o' itJ pli11'lametJlo, in ., 11 Ponte .. ,
n. cit., pp. 114-141.
es S~itti politid, cit., vol. II, p. 298.
16 Jbid., voi. 1/1, p. 597.
~ Ibid., voi. II, p. 610.
• lbid., voi. II, p. 56.
~ Jbid., voi. 1/2, p. 287.
go lhid., voi. 1/1, p. 493.
91 Jhid., voi. 1/1, p. 411.
92 Jhid, voi. II, p. 294.
93 lhid., voi. 1/2, p. 80.
114 Jbid., voi. II, p. 507.
95 Jhid., voi. 1/2, p. 414.
116 Jhid., voi. II, p. 395.
91 Jbid., voi. II, p. 395.
1111 lbid., vol. II, p. 304.
99 Jbid., vol. II, p. 305.
JOO Ibid., voi. 1/1, p. 408.
101 Ibid., voi. 1/1, p. 507.
102 lbid., voi. 1/2, p. 23.
103 Ibid., voi. II, p. 557.
ICN Ibid., voi. 1/2, p. 555.
1os lbid., voi. 1/1, p. 160.
106 Ibid., voi. II, p. 211.
101 Jbid., voi. 1/1, p. 158.
108 Ibid., voi. 1/1, p. 284.
109 Ibid., voi. 1/1, p. 492.
110 Ibid., voi. 1/2, p. 212.
111 P. BARILE, I.A110rare con lui, in "'Il Ponte"• n. cit., p. 152.
112 Scritti politici, cit., voi. 1/2, p. 51.
IU [bid., voi. Il, p. 32.
114 Ibid., voi. 1/2, p. 565.
115 lbid., voi. 1/2, p. 298.
147
CAPITOLO VI
149
Ora il maestro è lui, e i maestri superstiti a lui, sono i suoi
scolari. E non possono essi non rifare con lui maestro quello che esso
scolaro fece con loro maestri: non possono cioè non prenderlo terribil-
mente alla lettera [. .. ] Bisogna restargli fedeli. E se restar fedeli a Piero
vuol dire sequestrarsi dalla realtà circostante, da questa realtà bisogna
che ci sequestriamo. E se restargli fedeli vuol dire rinumiare ad onori, a
benefici, a vantaggi, a vantaggi o a benefici rinunzieremo. Se restar
fedeli a Piero vuol dire restar soli con la memoria di lui, e noi, con la
sua memoria, soli, resteremo. Soltanto a questo patto potremo ancora
pensare a lui senza rimorsi. ·
150
che, l'unione fra il padre e il piccinerro era stata perfetta. Il
padre, che era venuto nella capitale per avvicinarsi al mondo
della grande politica ed aveva dovuto accontentarsi di un im-
pieguccio ai Dock (Dock che fa rima con Moloch), aveva trova-
to una compensazione al suo « avverso destino » nel sottrarre il
bambino che gli era nato quando era ormai cinquantenne alla
sorte che lo aveva piegato e umiliato, e nel farsi scolaro con lui
scolaro, piccino con lui piccino, « ritrovando gli anni e le im-
pressioni della scuola», ritrovando« la sua puerizia, la sua non
mai esaurita puerizia, che ripullulava ora, conservata alla pueri-
zia nuova del figliolo, in quel nuovo terreno, sotto quel sole
nuovo». Dunque
151
assorto le belle storie e favole che gli racconta e se le fa
ripetere, e va all'università dove trova altri maestri e altri
compagni, comincia il distacco.
Loro due di nuovo sotto lo stesso tetto. Papà quello ma Urlfn
tanto diverso: lunghi silenzi fra i due, che pensano ore ed ore l'uno
accanto all'altro, e non si confessano i loro pensieri: Carlin almeno non
confessa i suoi, ché quelli di papà sono trasparenti come vetro: « Che
cos'ha questo ragazzo, Dio santo? Chi me l'ha cangiato cosl? ».
152
ria, avesse avuto l'impressione di essere riuscito almeno in par-
te ad avverare il sogno del padre. Aveva studiato il latino,
aveva preso la laurea, non aveva composto versi (almeno a mia
conoscenza) ma aveva scritto libri, o meglio un libro, che era
apparso da poco, editore Gobetti, Scuola classica e vita moder-
na. Aveva visto stampato il suo nome nei fogli dei giornali
grandi (attraverso la presentazione e la sollecitazione di Luigi
Einaudi era diventato collaboratore per i problemi scolastici
nientemeno che del « Corriere della Sera»-). Aveva insegnato
tante belle cose agli altri; prima di arrivare a Torino era stato
a Brescia, prima di Brescia a Sondrio, e cosl a ritroso a Reggio
Calabria, a Basa in Sardegna etc. Ma aveva anche giovato al
paese con la parola e con le opere? Da quando aveva conosciu-
to il meraviglioso giovinetto che lo aveva invitato a collaborare
a « La rivoluzione liberale», era diventato uno dei più assidui
e ascoltati scrittori di un giornale che sarà destinato a lasciare
una profonda traccia nella storia della lotta disperata contro il
fascismo. Il bilancio poteva considerarsi in pareggio. La co-
scienza poteva essere tranquilla. Il figlio diventato adulto sug-
gella questo stato d'animo con le parole:
153
camente - collaboratori e del suo direttore uno degli ultimi e più
stretti amici.
Come il padre con lui, cosl lui con Gobetti. In una delle
tante rievocazioni dei suoi rapporti con il fondatore di « Rivo-
luzione liberale», ricorda come tornato a Torino dopo più di
vent'anni non trova più i vecchi amici e neppure li cerca. I
suoi nuovi amici sono gli amici di Gobetti e grazie a Gobetti
viene in contatto con una nuova generazione, con la generazio-
ne crociana che non riconosceva per suo dittatore un poeta
(fosse Carducci o D'Annunzio) ma un filosofo (sono parole di
Borgese). E conclude:
Chiusa quindi per me con la gr11Dde guerra, cioè con l'ultima
campagna pet l'indipendenza e l'unità d'Italia, la mia prima esistenza,
cominciava a quarantadue anni la mia seconda esistenza, quella della
campagna per la libenà d'Italia, quella appunto per la rivoluzione libe-
rale, con quei ragazzi, sotto la guida di uno di loro.
L'analogia con la svolta della vita del padre è sorprenden-
te. Anche per Carlin, non più Carlin, come per monsù
Bartòmlin liberatosi dalla servitù del cognato Pietro, incipit vita
nova quando la giovinezza è passata da un pezzo. Una vita
nuova, la vita vera: la vita in cui uno realizza finalmente se
stesso. Non già che Monti avesse aspettato Gobetti per scrivere
su riviste di grido. Aveva cominciato sin dal 1909 su « I nuovi
doveri » di Lombardo Rad.ice, poi aveva continuato con « La
Voce» cli Prezzolini, « L'Unità » di Salvemini. Ma era sem-
pre stata una collaborazione sporadica o rivolta quasi esclu-
siva.mente ai problemi della scuola. A « La rivoluzione liberale »
invece la collaborazione è continua, frequente e anche rispetto
alle materie trattate ampia e impegnativa. Scrive una quaran-
tina di articoli in quattro anni. Inizia con una serie di articoli
richiestagli dallo stesso Gobetti sul problema della burocrazia,
un tema che gli permette di criticare non soltanto il funziona-
mento dell'amministrazione in Italia ma anche il Partito Socia-
lista, che chiede sempre maggiori interventi dallo stato, tanto da
meritare di essere chiamato il partito della burocrazia universa-
le, e di condannare il metodo di governo instaurato o meglio
consolidato da Giolitti che ha trasformato in ministri i grandi
154
funzionari esautorando il parlamento, onde « il regno d'Italia
non è mai stato una monarchia costituzionale ma è stato sem-
pre una dittatura burocratica ». La prosegue con alcuni inter-
venti sulla interpretazione del fascismo in un franco dibattito
con Luigi Salvatorelli di cui la rivista di Gobetti ha pubblicato
il primo capitolo del libro, edito dallo stesso Gobetti, Il Na-
z.ional/ascismo, e con una serie di articoli sul problema della
scuola.
Interviene poi anche con articoli che Gobetti gli pubblica
come articoli di fondo sulla questione fascista. Nel maggio del
1923, pochi mesi dopo la marcia su Roma, enuncia una tesi su
cui tornerà altre volte: di fronte al fascismo che sta distrug-
gendo Io stato liberale, non congiure ma opposizione costitu-
zionale. Opposizione costituzionale per due ragioni, prima di
tutto perché l'opposizione rivoluzionaria è fallita e non è più
possibile e poi perché non avendo mai avuto l'Italia un'opposi-
zione costituzionale vera e propria, il promuoverla sarebbe dar
vita finalmente alla « nostra rivoluzione liberale». Ma i vecchi
liberali sono disposti a questa opposizione senza quartiere? Nel
gennaio del 1924 comincia a dubitarne dando ragione a Gobet-
ti che aveva commentato il primo articolo affermando che chi
invoca la costituzione è destinato a fare il gioco di Mussolini.
Ed è ormai incline a credere che non ci siano « più pericolosi
fomentatori di disordine di quelli che si chiamano uomini d'or-
dine» e che per ristabilire l'ordine bisogna rivolgersi parados-
salmente ai partiti chiamati del disordine. Nel maggio precisa il
suo pensiero sul genere di opposizione che occorre svolgere
contro il fascismo: gli italiani hanno conosciuto e praticato
nella loro storia di città rissose, di signorie dispotiche, di go-
verni stranieri, tre forme di opposizione, la congiura, l'appello
allo straniero, lo scandalo. Ora è venuto il momento di mostra-
re che l'unica opposizione degna di un popolo civile è la coali-
zione di tutti coloro che credono nella libertà:
Libertà, libertà, libertà: deve diventare come un'ossessione. Tutte
le libertà: di pensiero, di stampa, di riunione, di organizzazione, d'in-
segnamento, di commercio; la libertà sopra l'unità; la libertà sopra
l'internazionale; la libertà sopra tutto.
155
Nel novembre il titolo dell'articolo Congiure al chiaro
giorno è già di per se stesso eloquente. Vi sono due Italie
(tema gobettiano), quella della vecchia borghesia che si è getta-
ta nelle mani del fascismo e quella dei contadini, degli operai,
dei borghesi che non si piegano. Tra le due è aperta una sfida
mortale, che Monti presenta lapidariamente con questo detto:
« Alla vecchia Italia pensateci voi: noi penseremo alla nostra».
Di quale fosse la stima che Gobetti ebbe per Monti si
possono addurre molte prove a cominciare dall'elogio del libro
Scuola classica e vita moderna sulla « Rivista di Milano » ove
lo pone fra « gli scrittori dell'eresia che continuano nella scuola
del giornalismo, nella scienza, i primi moti del Risorgimento »
(e quale fosse il significato positivo che Gobetti dava alla paro-
la 'eresia' è ben noto). Ma forse la testimonianza più interes-
sante è, nello stesso scritto, il brano in cui, riassumendo il pen-
siero di Monti intorno a un motivo centrale, la lotta antiburo-
cratica, precisa che organo di questa battaglia è la rivista testé
fondata, « La rivoluzione liberale », e che la rivista è sorta
dall'incontro di quattro pensieri, il proprio liberalismo rivolu-
zionario, insieme con il tradizionalismo di Ansaldo, la critica
ll>indacale di Formentini e il federalismo di Monti. Che cosa
intenda per federalismo risulta da quello che ha scritto poco
prima circa la lotta antiburocratica. Federalismo nel senso cat-
taneano della parola passato attraverso Salvemini, riscopritore
sin dai suoi anni giovanili di Cattaneo, e del quale tanto Go-
betti quanto Monti si considerano direttamente discepoli. Ma al
di là del significato che si voglia attribuire alla parola, quel che
conta è il rilievo davvero singolare che Gobetti dà all'apporto
di Monti all'indirizzo politico della rivista.
Le affinità fra il pensiero di Monti e quello di Gobetti
sono molteplici tanto che sarei tentato di parlare di un certo
gobettismo di Monti. Identica interpretazione del Risorgi.mento
come rivoluzione incompiuta o abortita (Monti scrisse una vol-
ta che l'Italia era nata di sette mesi), e dell'Italia post-unitaria
che non era stata uno stato liberale come i suoi difensori (da
ultimo anche Croce) l'avevano presentata. Identico atteggia-
mento critico nei riguardi del Partito Socialista, responsabile del
156
progressivo processo di burocratizzazione, e incipienti simpatie
per i comunisti torinesi che avevano imposto sin dall'inizio una
battaglia nuova nel movimento operaio in favore di una de-
mocrazia dei consigli (Monti nel secondo dopoguerra pur con-
tinuando a definirsi un liberale scriverà sull'« Unità )j, e riporrà
la sua fiducia nel Partito Comunista di cui apprezza alcune virtù
morali, lo spirito di disciplina, il coraggio, l'intransigenza anti-
fascista). Rispetto al fascismo, entrambi antifascisti della prima
ora, entrambi convinti che il fascismo non sia un incidente ma
affondi le radici nella storia d'Italia. Entrambi hanno una con-
cezione eminentemente etica della politica: la politica è una
cosa seria, è l'attività che mira alla instaurazione della città
terrena intesa come comunità di liberi ed eguali. La politica è
missione, educazione civile, e come tale è fatta da piccoli grup-
pi di intellettuali che si atteggiano a mentori della nazione o
del popolo o della classe. Gobetti si batte per la formazione di
un gruppo dirigente e disdegna i partiti presenti. Monti con-
verte i suoi interessi per la politica scolastica nell'idea di una
grande scuola di politica, i cui adepti saranno principahnente i
suoi scolari. Gobetti significa infine rivoluzione liberale. Una
formula che comprende tre idee fondamentali: l'idea che una
rivoluzione o è apportatrice di libertà o si trasforma inevita-
bilmente nel suo contrario; l'idea che la trasformazione dello
stato italiano non potrà avvenire se non attraverso un processo
rivoluzionario, un processo che altri paesi hanno avuto con la
riforma o con la rivoluzione mentre l'Italia ha avuto la contro-
riforma invece della riforma, e il Risorgimento che invece di
una rivoluzione è stato una conquista militare compiuta dall'al-
to; l'idea che nell'età dell'avvento del quarto stato, la rivolu-
zione non potrà essere fatta se non dal movimento operaio,
non dalla borghesia che gettandosi nelle braccia del fascismo ha
dimostrato di aver esaurito il suo compito storico. Se si rileg-
gono i suoi scritti politici di questo periodo alla luce di queste
tesi, mi pare di poter dire che Monti è stato uno degli inter-
preti più rigorosi e più convinti del messaggio gobettiano.
Chi voglia una prova decisiva si vada a rileggere quel
curioso libretto che egli pubblicò subito dopo la liberazione,
157
intitolato Realtà del Partito d'Azione. 'f.: una summula di prin-
cipi gobettiani. Basti una sola citazione:
Ex-socialisti, sindacalisti, ex-radicali, ex-nazionalisti, indipendenti e
i selvaggi di varie fogge, coloro che s'eran domandati per anni prima
della guerra - e durante - « Chi siamo? Che cosa siamo? » e finita la
guerra accennavano a riprendere la lagna. Quando quel ragazzo trovò
per essi la risposta: « Ve lo dico io chi siete» e, come quelli guardava-
no stupefatti, egli soggiungeva, o per illuminarli o per confonderli ancor
più: « dei liberali rivoluzionari».
158
Sam6ssi: il fanciullo incolpevole che scherza col fuoco e ride del
pericolo, la vita raccomandata a un filo: e sempre gli va bene, ché il filo
tiene, ed esso attraversa libero, illeso, la fiamma e approda incolume al
lido, e scala la muraglia vertiginosa, e corre ridendo sull'orlo del tetto a
dieci metri da terra, e ridiscende leggero tra i grandi - che stavan a
guardarlo dal basso, inchiodati dal terrore - e stupisce della loro
trepidazione e delle loro rampogne; e sarebbe un eroe se avesse avuto
coscienza, ma se avesse avuto coscienza un attimo, mentre si trovava
lassù, sarebbe bastato quell'attimo per farlo morire.
159
dando ascolto a Gobetti, da Giuseppe Baretti). Monti fu, nel
senso più schietto della parola, come del resto Gobetti, un
piemontesista. (Che non vuol dire, si badi, un piemontese re-
gionalista o peggio razzista; basterebbe ricordare all'inizio della
sua carriera di professore la domanda esaudita di andare a
insegnare nel Sud per portare la propria piccola pietra alla
formazione della nuova Italia, e l'interesse di Gobetti per la
questione meridionale, sl che « La rivoluzione liberale » divenne
a un certo punto la voce più autorevole dei giovani meridiona-
listi, da Dorso a Fiore). Non parlo delle molte e belle pagine
scritte da Monti su Torino « falsa magra », « città cartesiana di
avanti la lettera », che ognuno può leggere amorevolmente rac-
colte da Giovanni Tesio nel volume Viaggio nella città, pubbli-
cato dalla Famija turineisa nel 1977. Mi rifaccio al saggio sul
Piemonte pubblicato nel 1949 su« Il Ponte»: un piccolo pre-
ziosissimo breviario del piemontese perfetto. Rappresentato be-
ne da questo episodio tratto non a caso dalla vita di A16.eri:
« La loro virtù: saper obbedire per saper comandare, lavorare
e far lavorare; il loro ideale 'impiegarsi da sé - è l'Alfieri
sempre che parla - sotto gli auspici della beatissima indipen-
denza'». Il conte A16.eri e il fedelissimo suo servo Elia, e la
scenataccia scoppiata fra i due a Madrid: il padrone che tira il
candeliere in testa al servo, il servo che piglia per il collo il
padrone; e la morale che ne trae A16.eri:
del resto io non ho mai battuto nessuno che mi servisse se non come avrei
fatto con un eguale [ ... ] e nelle pochissime volte che una tal cosa mi
avvenne avrei sempre approvato e stimato quei servi che m'avessero
risalutato con lo stesso picchiare: atteso che io non intendevo mai di
battere un servo come padrone, ma di altercare da uomo a uomo.
160
figlio di un padre che ha sfidato l'avverso destino per tentare la
fortuna e la gloria, e dell'amico di quel disperato sacerdote
dell'intransigenza che fu Gobetti, avete capito. Ma il più bel
commento è ancora una volta quello che possiamo trarre dalle
parole di lui:
161
lenta, che scandisce bene le parole, e frena ma non nasconde la
commozione:
E papà a raccontare pazientemente, ancora una volta, l'antica
storia, che è sempre quella, ma che al bimbo piace cosl com'è, perché
un poco gli scema l'uggia del ritorno stracco fra le case, e per un attimo
lo riporta lassù.
162
cui uno dei suoi allievi che non l'ha mai dimenticato, Carlo
Mussa Ivaldi, domandandosi qual ne fosse il segreto, risponde
che era, questo segreto, il saper tradurre i valori letterari in
valori interiori e civili. E ricorda questo episodio. Monti viene
arrestato. Il funzionario dell'Ovra, alludendo agli altri arrestati,
quasi tutti suoi allievi, gli chiede: « Ma cosa insegnate a scuo-
la?». E Monti: « A rispettare le idee». « Ma quali idee? ». E
Monti lapidario: « Le loro idee ».
163
CAPITOLO VII
165
(io, suo coetaneo, pubblicai il primo articolo proprio nel 1934).
Uscito di prigione nel 1936, l'intensissimo lavoro editoriale per
la casa editrice Einaudi negli anni della sua fondazione e del
suo primo sviluppo, il continuo interessamento per le cose del-
la politica, l'inquietudine, il turbamento per il tragico corso
della storia europea dalla guerra di Spagna alla seconda guerra
mondiale, il confino dal 1940 in poi, lo distolsero dagli studi;
o per lo meno non gli permisero la concentrazione necessaria
per un'opera di lunga lena, cui, dopo l'attività giovanile di
saggista, frammentaria e spesso occasionale, profondamente a-
spirava. Tra il 1934 e il 1940 l'opera di maggiore impegno fu
l'edizione critica dei Canti di Leopardi per gli « Scrittori d'Ita-
lia» di Laterza: ma anche questo fu un lavoro in parte occasiona-
le, un saggio di addestramento filologico, una specie di tirocinio
obbligato per impadronirsi del mestiere. Nei primi mesi del
194 3 concepl il disegno di una serie di riflessioni sul Risorgi-
mento, ma al momento della morte (febbraio 1944) non se ne
trovò che un capitolo. La non comune versatilità, che gli per-
metteva di curare un'edizione critica dei Canti con la stessa
sicurezza con cui aveva trattato argomenti vari di letteratura
russa, ove la sua competenza era da specialista, o di elaborare
sempre nuovi progetti di libri, passando dalla storia alla lette--
rattna, dalla letteratura russa a quella italiana o francese, inco-
raggiò, credo, una certa dissipazione, di cui egli stesso si rende-
va perfettamente conto; sicuramente non favorl, negli anni del-
la maturità, lo studio in una sola direzione. La severità del
giudizio riferita prima che agli altri a se stesso, fece da freno, e
contribui anch'essa a inaridire un campo che negli anni della
prima aratura era stato rigoglioso. Si aggiungano l'immensa
energia ed intelligenza e capacità critica ch'egli prodigò, come
editore, per gli altri, correggendo o rivedendo da cima a fondo
traduzioni, testi, prefazioni, commenti: lavoro anonimo, di cui
non resta traccia che nel ricordo degli amici (quanto deve, ad
esempio, la mia edizione della Città del Sole ai suoi suggeri-
menti, ai suoi incitamenti, alle sue lezioni di correttezza filolo-
gica?) e nel robusto e unitario impianto delle collane editoriali
che ideò, promosse e diresse.
166
Quando entrò in liceo, alla fine del 1924, pur avendo
poco più di quindici anni, non era un ragazzo come tutti gli
altri, neppure all'aspetto: capelli neri, duri, tagliati a spazzola,
barba rasa già fitta e ricoprente tutto il volto, occhi bruni e
incavati, resi ancor più profondi da due sopracciglia foltissime,
sguardo calmo, sicuro, che metteva soggezione e incuteva ri-
spetto; lineamenti marcati, volto pallido, scuro, quasi tenebrer
so, testa grossa rispetto al tronco, fragile, le gambe leggermente
inarcate, quasi dovessero reggere un peso troppo grave. Di
famiglia russa, proveniente allora da Berlino, aveva trascorso
gran parte della sua vita a Viareggio. Aveva una buona pro-
nuncia, assai migliore della nostra, come aveva subito osservato
l'insegnante d'italiano, Umberto Cosmo, che era veneto e non
pronunciava le doppie ma toscaneggiava nell'uso delle vocali
aperte e chiuse. Leone parlava lentamente, pacatamente, con un
certo sforzo, quasi dovesse cercare le parole, ma trovava sem-
pre quella esatta; le sue frasi erano composte, compiute, lunghe
ma non mai tortuose; non perdeva il filo anche nei discorsi più
difficili; parlava adagio, ma era come se scrivesse; parlava in-
somma, noi dicevamo, come un libro stampato. Quando Co-
smo, che lo rivelò e ne fece il capoclasse, rivolgeva qualche
domanda a tutta la scolaresca, sapevamo benissimo che Leone
ci avrebbe tolto d'imbarazzo: alzava la mano, e rispondeva per
tutti, quasi sempre con una precisione che suscitava il compia-
ciuto consenso del professore e l'ammirato stupore dei com-
pagni. Componeva con estrema facilità: appena dettato il tema,
si chinava sul foglio e cominciava a scrivere, una riga dopo
l'altra, quasi senza pentimenti, con una scrittura nitida, ben
disegnata, regolare, piccola e larga, che rimase, passando gli
anni, sempre eguale (mentre scrivo, ho sott'occhio una sua
cartolina postale del luglio 1925) *. Ricordo ancora la nostra
impressione alla lettura, cui Cosmo lo aveva invitato, del primo
tema sulle Ricordanze del Settembrini che cominciava con una
minuta affettuosa descrizione della fisionomia del Settembrini,
~:~:.urg,
* Ho pubblicato brani di lettere a me indirizzate in Dialogo con Uon~
«Resistenza•, XXXIII, n. 4, aprile 1969, nel 25° anniversario della
167
quale appariva dal ritratto apposto all'edizione scolastica del
Morano: un vero e proprio piccolo brano letterario.
La cultura di Ginzburg era nutrita di tutte quelle letture
che in liceo vengono di solito ignorate: era una cultura viva,
attuale, militante. Aveva letto D'Annunzio e Pascoli, Verga e
Pirandello. Ammirava i classici, ma preferiva i moderni: il
romanzo francese, soprattutto, da Stendhal a Anatole France
(Le rouge et le noir era uno dei suoi libri prediletti). Leggeva
con avidità ma con discernimento, con gusto di lettore raffinato
e curioso, che non rinuncia al proprio giudizio critico, i roman-
zi del tempo, Rubé e I vivi e i morti di Borgese, Angela di
Fracchia, Moscardino di Pea. Essendo vissuto per molti anni a
Viareggio, si era accostato all'ambiente letterario che anche al-
lora vi si riuniva d'estate: sapeva vita, morte e miracoli di tutti
i letterati italiani, Ne aveva conosciuti personalmente parecchi,
da Enrico Pea ad Achille Campanile. Era stato accolto come un
amico nella casa di Gioacchino Forzano. Frequentava i teatri e
i concerti, non come uno qualunque del pubblico, ma come chi
è addentro alle segrete cose: a Viareggio aveva stretto amicizia
con Cele Abba, sorella di Marta; a Torino, durante la felice
stagione del Teatro di Gualino, frequentava Vittorio Gui. Leg-
geva con molta compunzione i quotidiani, « La Stampa », il
« Corriere della Sera». Accadeva d'incontrarlo per la strada col
volto immerso nelle ampie pagine di un giornale, immobile sul
marciapiede o procedente a passi lentissimi. Imparai da lui a
conoscere i nomi dei più noti giornalisti, chi teneva la rubrica
del teatro sul «Corriere», chi quella dei concerti sulla « Stam-
pa». Aveva una memoria di ferro, e una prodigiosa facilità di
assimilare cose udite o lette. Ma non era mai un ripetitore. I
suoi giudizi erano genuini; i suoi commenti contenevano sem-
pre qualcosa d'inedito. Ciò che diceva portava l'impronta di
una personalità ormai formata che non si lasciava guidare dal-
l'opinione corrente. Esprimeva le proprie convinzioni letterarie
con sicurezza, da uomo del mestiere, mostrando un fiuto infal-
libile nel discernere il buono dal cattivo, il durevole dall'effime-
ro, lo scrittore serio dal superficiale o dal ciarlatano. Per i
brillanti, i beniamini del pubblico, non aveva alcuna indulgen-
168
za; li giudicava con una severità cosl spietata che noi, che non
andavamo tanto per il sottile, lo accusavamo talvolta di partito
preso o di presunzione o di eccessivo rigore prodotto dall'inizio
di una deformazione professionale.
I due poli estremi erano rappresentati da Croce e da Pa-
pini. Croce veniva allora pubblicando gli Elementi di politica e
gli studi sull'età barocca. Papini aveva concluso in quegli anni
la serie delle sue capriole, convertendosi al cattolicesimo (dal
nazionalismo del « Regno», dal futurismo e dall'immoralismo
del tempo di « Lacerba », al cattolicesimo era stato un triplice
salto mortale): la Storia di Cristo, uscita nel 1921, era ancora
un libro del giorno. Leone era crociano ardentissimo, e rimarrà
crociano devoto, fedele, riconoscente fino alla fine. Fu lui che
negli anni del liceo mi pose tra le mani i primi libri di Croce.
Ma il nostro Croce era allora l'autore dell'estetica e il critico
letterario: la Storia d'Italia uscirà nel 1928, quando ormai
saremo all'università. Nell'aprile dello stesso anno Leone co-
noscerà personalmente Croce, a Torino, in casa dei cognati di
lui, e inizierà col filosofo un'afièttuosa relazione durata poi
tutta la vita. Nel maggio del 1925, l'anno della nostra prima
liceo, Croce aveva abbandonato il suo atteggiamento di neutra-
lità nei riguardi del fascismo, e si era messo, con la risposta al
Manifesto di Gentile, alla testa degli intellettuali antifascisti.
La familiarità coi libri di Croce, era, allora, per un giovane che
si avviava agli studi, la vera prova di maturità.
L'iniziazione a Croce offriva un criterio indiscutibile per
distinguere in modo alquanto settario (non posso negarlo) gli
illuminati dai brancolanti nelle tenebre, gli spiriti moderni dai
sorpassati, i liberati dai vari sonni dogmatici, da coloro che
erano ancora avviluppati nelle ragnatele del conformismo reli-
gioso, del positivismo, dello scientismo, del filologismo, e via
dicendo. Più che una dottrina - l'unica teoria crociana allora
a noi nota era quella dell'arte come intuizione - il crocianesi-
mo era un metodo, nel senso pregnante di via regia della vera
conoscenza. Esso permetteva di identificare le differenze essen-
ziali che dovevano essere tratte alla luce e quelle inessenziali
che dovevano essere ripudiate: la differenza tra arte e moralità,
169
ad esempio, era essenziale, quella tra lirica e dramma era ines-
senziale. E ciò permetteva di dar la caccia a tutte le cosiddette
questioni mal poste, che trovavamo con soverchia facilità un po'
dappertutto. Era una via verso l'unità piuttosto che verso la
distinzione, verso la sintesi più che verso l'analisi: uno stru-
mento che ci serviva a sgombrare il terreno da molto ciarpame
(di qua il senso di liberazione e di conquista), ma aveva l'in-
conveniente di lasciarci troppo spesso a mani vuote (di qui la
sterilità di quegli studi estetici o storici o di storia della filo-
sofia, estremamente rarefatti, poco sostanziosi, in cui la citazio-
ne tesruale sostituiva la ricerca o la riflessione critica). L'autori-
tà di Croce era indiscussa: armati dei suoi concetti, ci sentiva-
mo superiori ai nostri stessi maestri, che non li avevano accolti
o li avevano sdegnosamente rifiutati. Croce era la voce del
tempo: stare dalla parte di Croce voleva dire essere nella cor-
rente della storia. L'adesione a Croce dava sicurezza, infondeva
fiducia, apriva nuovi orizzonti di ricerca, permetteva di assume-
re una posizione polemica contro molta parte della cultura sco-
lastica e accademica, scioglieva dai vincoli della fede tradiziona-
le, ci faceva sentire estranei alle convenzioni, ai pregiudizi cor-
renti, invitava a mettere in questione tutto quello che avevamo
appreso, e a ricominciare da capo. Ancor oggi, passata molt'ac-
qua sotto i ponti della filosofia, a poche letture filosofiche son
disposto a riconoscere la funzione stimolatrice della pagina cro-
ciana, sia nota critica o schermaglia o recensione o saggio si-
stematico, anche se la semplicità possa apparirmi talora sem-
plificazione, la chiarezza svuotamento, la sintesi suggestiva una
formula impaziente, la forza del ragionamento dipendente più
dall'abilità dello scrittore che dalla bontà degli argomenti. Ma
allora non avevamo termini di raffronto (e anche se li avessimo
cercati, non li avremmo trovati salvo a cadere sulla china
sdrucciolevole che finiva in Gentile). Oltretutto, Croce era,
personalmente, un esempio di libertà intellettuale, di saggezza,
di dignità, di operosità, di serietà negli studi: adunava in sé
tutte le qualità dell'educatore, che gli altri autori o maestri
possedevano solo parzialmente. Non posso oggi dissociare que-
sta lezione di Croce da quella di Leone, che ne fu l'appassiona-
170
to e autentico interprete. Negli scaffali della sua biblioteca,
eravamo abituati a veder spiccare, tra le opere complete in
russo di Tolstoj e Dostoevskij, i celebri «mattoni» dell'edizio-
ne laterziana. Ricordo che la prima opera di Croce da me
posseduta, i Nuovi saggi di estetica, di cui era uscita un'edizio-
ne nel 1926, mi fu donata da lui.
Non aveva ancora terminato il liceo che già aveva iniziato
la sua rapida carriera di letterato: nel 1927, la traduzione di
Taras Bul'ba; nel 1928, la traduzione di Anna Karenina, i primi
articoli di letteratura russa, auspice Augusto Monti, su « Il
Baretti». Iscrittosi a legge per una specie di gesto polemico
contro il letterato puro, in parte anche per non contrastare i
desideri paterni, dopo un anno di puro mestiere letterario,
riconosciuto l'errore, si era iscritto al secondo anno di lettere,
per coltivare, con più severa e regolare disciplina, gli studi
filologici. I professori con cui ebbe maggior dimestichezza fu-
rono, se ben ricordo, Augusto Rostagni, Arturo Farinelli, Fer-
dinando Neri, cui si rivolse per la tesi di laurea sul Maupas-
sant, Matteo Bartoli e Santorre Debenedetti, del quale diventò
più tardi amico, confidente e collaboratore, quando ideò la
« Nuova Raccolta » per Giulio Einaudi. Accanto alla scuola dei
maestri, c'era la scuola dei compagni, più spontanea e immedia-
ta, forse anche più eccitante, che si svolgeva, senza orario pre-
stabilito, sotto le arcate del cortile del palazzo universitario. Il
gruppo dei più affiatati era composto, oltre che da Ginzburg,
da Cesare Pavese, Massimo Mila, Giulio Carlo Argan, Carlo
Dionisotti, Enzo Monferini, il filosofo della compagnia, Adolfo
Ruata, e, qualche anno più tardi, Renzo Giua. C'era sl un altro
:filosofo, Ludovico Geymonat, ma faceva parte per se stesso,
positivo e positivista, in continua polemica coi crociani, salvo a
farsi arrestare, anche lui nel 1929, come firmatario d'una lette-
ra d'omaggio a Croce per il discorso in Senato contro i Patti
Lateranensi.
Tra i compagni, Ginzburg godeva di particolare prestigio
non solo culturale ma anche morale. La sua sicurezza era frutto
non soltanto di una cultura più ampia e solida, più agguerrita
di fronte alle tentazioni della buona figura a buon mercato, ma
171
anche di una consapevolezza del proprio compito, già piena-
mente conquistata nell'età dei conflitti, delle lacerazioni, dei
cedimenti. Se gli scritti da lui pubblicati non danno la piena
misura della sua capacità di critico e di scrittore, sono ancor
più inadeguati a rappresentare la sua personalità morale. La
nostra meraviglia, mescolata talora all'affettuosa parodia, per la
varietà dei suoi interessi culturali e la vastità delle sue infor-
mazioni, cedeva all'ammirazione incondizionata per il vigore
delle sue convinzioni. Sui diciott'anni, la sua personalità era
ormai pienamente formata. Leone era prima di tutto un uomo
di carattere: sapeva quel che voleva. Sulle questioni di princi-
pio non aveva tentennamenti, e non c'era lusinga che riuscisse
a smuoverlo da una decisione presa. In etica era un rigorista:
non era disposto a concessioni per motivi di opportunità. Tra
la morale della legge o della giusti.zia e quella dell'equità, egli
propendeva certamente per la prima, ma la legge, ch'egli se-
guiva, era una legge interiore, intimamente creduta e sofferta,
di cui egli stesso era stato con sforzo certamente doloroso, ma
con mente lucidissima, legislatore. La sua moralità non aveva
fondamenti oltremondani: per quanto rispettoso, da buon libe-
rale, delle fedi altrui, non praticava alcuna religione, e non
credo avesse mai avuto un'educazione religiosa. Del resto, il
problema religioso non era un problema su cui ci si soffermasse
volentieri, un po' per pudore di scoprire i propri sentimenti o
le proprie inquietudini, un po' perché, uscendo dall'adolescen-
za, la crisi dei valori tramandati e familiari, accompagnata dal
desiderio di farne tabula rasa e di costruire con le proprie mani
il proprio edificio, coinvolgeva prima d'ogni altra cosa le cre-
denze religiose. Non saprei meglio definire il carattere della
moralità del nostro amico se non chiamandola kantiana: cer-
tamente le leggi che egli osservava gli si presentavano sotto
forma di imperativi categorici, ovvero di leggi che debbono
essere ubbidite incondizionatamente, senza ala.ma considerazio-
ne delle circostanze in cui la legge viene di volta in volta
applicata; al di sopra delle singole massime adatte ai vari casi
della vita, egli aveva posto una massima fondamentale, la legge
delle leggi, secondo la quale bisogna fare in ogni caso il pro-
172
prio dovere per nessun'altra ragione che è il nostro dovere,
indipendentemente da ogni considerazione di fini prossimi o
lontani. La fonte di questa legge suprema era la coscienza mo-
rale, la propria coscienza morale, qud principio per cui ciascu-
no è legislatore di se stesso e da cui nasce l'autonomia della
legislazione morale contrapposta all'eteronomia delle morali re-
ligiose o sociali.
Fondato su quest'etica della legge autonoma e razionale, il
mondo morale di Leone aveva alcuni tratti caratteristici: la
sicurezza incrollabile dei principi, che lo faceva apparire ardito
nel concepimento dei programmi, saldo nelle decisioni, fiducio-
so nei risultati delle proprie azioni, spesso nella veste del con-
sigliere o del mentore cui si ricorre volentieri nei momenti
difficili, certi di trame uno stimolo, un insegnamento, e magari
un incoraggiamento o un'approvazione; l'intransigenza nella fe-
deltà ai principi posti e accettati, che imprimeva ad ogni suo
gesto, sguardo, affermazione, il carattere della serietà, del rifiu-
to di ogni frivolezza e di ogni concessione all'edonismo, e gli
faceva assumere talora quel tono pedagogico, che metteva sog-
gezione e non mancava di suscitare anche qualche animosità tra
i più scanzonati; la coerenza, ovvero la costanza nelle conclu-
sioni che debbono essere tratte dai principi, dalla quale discen-
devano il bando di ogni compromesso, di ogni doppiezza o
sdoppiamento, la dirittura della condotta, il tener fermi gli
impegni, la dedizione assoluta alle idee professate. Il mondo
morale di Leone dava l'impressione di un porto tranquillo, ove
si cerca un rifugio e magari una riparazione, oppure di una
fortezza inespugnabile, cui si chiede protezione. Per quanto
possa sembrare temerario penetrare nel segreto di una coscien-
za, oserei dire che gli fosse estranea l'angoscia (intendo l'an-
goscia nel senso filosofico della parola, cosl come se ne comin-
ciò a parlare negli anni Quaranta); non che egli non conoscesse
il turbamento di fronte alla responsabilità di una scelta, ma,
appunto, era turbamento, inquietudine, dolorosa determinazio-
ne, non « timore e tremore » di fronte al Dio ascoso, o smar-
rimento di fronte alla perversità irrimediabile del destino. Tra i
due poli opposti della olimpicità, propria della tradizione urna-
173
nistica, e della insecuritas, propria della tradizione cristiana, il
suo sentire morale era attratto piuttosto dal primo che dal
secondo.
Pur nelle avversità, da cui la sua vita fu segnata e prova-
ta, non perdette, o per lo meno non diede mai a divedere di
aver perso, la serenità, la calma interiore, quella imperturbabi-
lità, che è segno di forza d'animo, di chiarezza conquistata e
tenuta ben ferma, come se, crociana.mente, non la persona,
l'individuo, fosse in gioco, ma l'opera, quella che conta nel
corso storico. Sdegnato di fronte al male, non mai sdegnoso;
corrucciato per le debolezze e gli errori, non mai « irato ai
sacri numi », giudicava gli uomini, grandi e piccoli, con un
metro severo. Aveva un particolare intuito nel cogliere le pic-
cole debolezze, le meschinità, gli accomodamenti, le leggerezze
commesse per soddisfare vanità e ambizioni sbagliate. Non si
sfuggiva al suo sguardo scrutatore, che inchiodava, talora face-
va venir voglia di sottrarsi al giogo, irritava, ma si finiva di
riconoscere che aveva ragione. Penso che molti amici, che gli
furono vicini negli anni della propria formazione, debbano a lui
la scoperta della vita morale: intendo per « vita morale» una
disciplina ragionata e consapevole degli istinti, la sottomissione
degli interessi particolari ad alcuni valori universali, che sono i
valori per cui gli uomini hanno creato i beni che durano e non
sono consumati dal tempo, e che vengono riproposti continua-
Dlente come ideali per il futuro, la convinzione che la vita è una
cosa terribilmente seria, e ogni distrazione, ogni abbandono, so-
no una perdita che deve essere recuperata con rinnovato rigore.
Leone era un esempio di vita moralmente impegnata. Ci faceva
l'impressione di un uomo che uscisse da un altro mondo: e
questo mondo, per cui ci pareva talora faticosa e scomoda la
sua amicizia, troppo duro il suo sguardo, troppo teso e rigido il
dito puntato, accompagnato dal solenne: « tu non devi », era il
mondo della coscienza morale. Imparammo da lui a non tradi-
re? Avremmo dovuto, tanta assidua e generosa fu la scuola cui
fummo quotidianamente presenti. Imparammo comunque a
capire il prezzo degli ideali traditi.
Leone aveva il culto dell'amicizia. La sanità della sua na-
174
tura si mostrava anche nel fatto che il rigore non era fine a se
stesso, non aveva niente a che vedere con la pedanteria mora-
listica, con la puntigliosa osservanza dei doveri personali, ma
era volto al perfezionamento di se stessi solo come via al mi-
glioramento dei rapporti con gli altri. L'abituale scrupolosità
nell'adempimento dei propri doveri poteva far credere che egli
seguisse un'etica della perfezione; ma a contatto con gli altri,
soprattutto nella cerchia degli amici, si capiva che egli aveva in
mente un ideale più vasto, più comprensivo, più umano, vorrei
dire, una etica della comunione. Amava la conversazione, la
compagnia, il mondo: era anche un uomo di società. Non era
un solitario: anzi aveva bisogno di espandersi, di comunicare,
di conoscere molta gente per scambiare idee, impressioni su
fatti, libri, persone, per dare e ricevere notizie del giorno (e
per questo era sempre informatissimo d'ogni cosa). La rete
delle sue relazioni era vasta e fittissima. Gli faceva piacere
conoscere sempre nuove persone, che poi analizzava, soppesava,
catalogava, e aggiungeva alla sua raccolta di tipi. Le cose di cui
era più curioso, in fondo, erano proprio gli uomini vivi, con le
loro virtù, vizi e stranezze (la sua segreta ambizione fu sempre
quella di fare lo scrittore di racconti psicologici). Amava la
compagnia dei coetanei, ma anche dei grandi, i quali in genere
lo ammiravano e lo tenevano in gran conto, stupefatti della sua
assennatezza, dell'equilibrio dei suoi giudizi e delle sue opinio-
ni. Stava volentieri con le ragazze della nostra età, compagne di
scuola, amiche delle vacanze, signorine della buona società: le
trattava da pari a pari, senza timidezza né orgoglio, senza
complessi di inferiorità né spirito di conquista; si con.fidava con
loro e ne riceveva le confidenze. Era innamorato della loro
grazia e gentilezza e di quella sensibilità femminile per le cose
del cuore, che rende meno selvatica e ispida e scontrosa la vita
di un adolescente. Con gli amici era affabilissimo: la pratica
continua dell'amicizia rappresentò una parte importante della
sua vita. Quando c'incontravamo, o andavamo a trovarlo a casa
(per alcuni anni in via Pastrengo 13, poi in via Vico 2), gli si
apriva il cuore. Un amico era sempre il benvenuto, l'ospite
inviato dagli dèi: la mamma o la sorella preparavano una taua
175
di tè, alla maniera russa, squisita. Qualche volta gli amici arri-
vavano a gruppi: Leone non si scomponeva, e se non c'era una
seggiola per tutti, alcuni si sedevano sul letto. Ma non chiude-
va la porta in faccia a nessuno: anzi, alla festosità un po'
rumorosa dell'invasione, rispondeva con la cordialità più discre-
ta, ma non meno festosa, di una lieta accoglienza. Quante ore
della nostra vita - ore che hanno contato nel nostro destino,
ore incancellabili nella memoria, intense, piene di propositi fu-
turi e di affetti presenti, godute minuto per minuto - abbiamo
trascorso accanto a quella scrivania ricoperta da una spessa
carta assorbente verde, con gli occhi rivolti alla libreria di cui
mi pare ancora di rivedere ad uno ad uno i dorsi dei volumi?
Quelle quattro pareti sono state la nostra Accademia, la nostra
Stoa, il luogo in cui si è ricevuta l'educazione formatrice, da
cui si esce finalmente più adulti, più nutriti e saldi: lunghi
colloqui a due, a tre, a quattro, che facevano e disfacevano il
mondo, mettevano in scompiglio credenze, opinioni ricevute,
pregiudizi, rovistavano i recessi più nascosti dell'anima, li met-
tevano a nudo, li rivoltavano sino a che non si vedesse il
fondo. Talora ne uscii vinto, col senso di una sconfitta irrepa-
rabile, del fallimento; ma poi mi davo una ragione, trovavo
sempre una tavola a cui aggrapparmi, e riprendevamo il filo del
discorso interrotto e ricominciavamo insieme la strada. Più
spesso ne uscivo scosso, turbato, col cuore in subbuglio; ma
era un turbamento salutare che aiutava a fare un passo innanzi
nel chiarimento di se stessi e nella comprensione della dura
realtà (la realtà mi parve sempre spessa, densa, inaccessibile, e
perciò inclinavo negli anni dell'adolescenza al solipsismo). Leo-
ne mi aiutò, mi porse la mano quando ero titubante, mi inco-
raggiò quand'ero sfiduciato; soprattutto mi diede il conforto di
un'indomita forza accompagnata da una accattivante dolcezza,
un esempio corroborante di coraggio verso gli eventi e di pa-
zienza verso gli uomini, di rigidezza nelle idee temperate da
una pudica delicatezza nei sentimenti. Era l'esempio di cui ave-
vo bisogno per non sentirmi continuamente in balia delle mie
inquietudini, inibito dal timore che avevo del mio prossimo,
diviso dal conflitto che in me si combatteva tra l'attrazione
176
degli ideali superiori e l'urto con la realtà che sentivo ingrata,
ostile, soverchiante. Leone, il grande mediatore: mi mise in
pace con me stesso, con gli altri, con le cose che non compren-
devo, cui recalcitravo. Mi iniziò al « lungo viaggio», che si
sarebbe concluso nel « sangue d'Europa », e abbiamo termina-
to, dolorosamente, senza di lui.
Agli amici Leone diede tutto se stesso; ma era, d'altra
parte, esigentissirno. Guai a non farsi vivi con lui per qualche
tempo, a non telefonargli, a non scrivergli quando si andava in
vacanza. L'amicizia era un fuoco sacro, che doveva essere ali-
mentato giorno per giorno perché non si spegnesse. Soprattutto
rappresentava, come l'amore, forse più che l'amore, l'esempio
genuino di un rapporto umano disinteressato, da cui esula ogni
motivo egoistico ed è dominato soltanto dal desiderio di stare
insieme con nessun altro scopo che quello di godere del reci-
proco beneficio derivante dallo scambio dei doni dell'intelligen-
za e del cuore. La società di amici è la società etica per eccel-
lenza, fondata su regole non scritte, cui si ubbidisce sponta-
neamente, non per timore di una qualsiasi sanzione, e neppure
per supina reverenza ad un'autorità superiore, ma per il piacere
che si trae dalla loro osservanza: un frammento reale dell'idea-
le regno dei fini, ove gli uomini per convivere non avranno
bisogno che di leggi liberamente consentite. Ma, appunto, non
vi è amicizia al di fuori di una vita morale intensamente vissu-
ta, della pratica di alcune virtù etiche tradizionali, che nessun
codice morale può ignorare.
La virtù per eccellenza, che Leone metteva in pratica esi-
gendone l'osservanza, e contrassegnò i rapporti d'amicizia con
lui, fu la sincerità. Tra i racconti giovanili, ve n'era uno intito-
lato Sincerità, e rappresentava benf: il suo umore. Se avessi
scritto un saggio sull'esperienza di quegli anni, lo avrei intitola-
to: Leone o della sincerità. Delle lezioni di umana comprensio-
ne che traemmo, in quegli anni, quella della sincerità assoluta,
come fondamento della vita morale, fu, per me, la più costrut-
tiva. Il codice della sincerità, di cui Leone era, di volta in
volta, legislatore, giudice ed esecutore, comprendeva sostan-
zialmente due articoli fondamentali: 1) gli amici non debbono
177
avere segreti fra loro; 2) ciascuno, per non aver segreti di
fronte agli altri, non deve aver segreti di fronte a se stesso. Il
patto dell'amicizia comprendeva la promessa tacita di mantener
fede a queste due regole fondamentali: chi le violava, si mette-
va al di fuori dd sodalizio. La prima regola esigeva l'esercizio
della franchezza; la seconda, della chiarezza interiore. L'osser-
vanza di entrambe implicava una guerra aperta a ogni forma di
simulazione e di dissimulazione, una caccia senza tregua all'i-
pocrisia (verso gli altri). ai comodi pretesti (verso se stessi).
Leone era un inquisitore infallibile, anche se poi come giudice
inclinasse all'indulgenza. Di fronte a lui ogni menzogna era ban-
dita, perché era sentita come un'onta, una violazione dd patto,
una rottura della solidarietà, una perdita di quella fiducia, da cui
ci sentivamo sorretti e di cui avevamo bisogno. Ma per non ca-
dere nella menzogna, magari inavvertita, nell'infingimento acco-
modante, occotteva conoscere a fondo se stessi, fare il quoti-
diano esame di coscienza, esaminare i motivi delle proprie a-
zioni. Ricordo le lunghe disquisizioni, cui amavamo dedicarci,
mettendo innanzi argomenti pro e contro un certo modo di
comportarci, e gli interrogatori, cui ci sottoponevamo, per
giungere a un chiarimento e a un accordo, anche se dovevamo
concludere constatando il disaccordo. Ma se qualche volta mi
ribellavo, me ne pentivo, interpretando quella mia reazione
come una forma di pigrizia spirituale, di rivolta interessata
contro la voce del dovere, e finivo per convincermi che il suo
giudizio, nonostante appelli e contrappelli, era quasi sempre
infallibile. Mi accorsi a poco a poco che mi accadeva di ver-
gognarmi dinnanzi a Leone di azioni di cui non mi ero mai
vergognato di fronte a me stesso. I suoi convincimenti diventa-
rono negli anni della maturazione il metro per misurare il bene
e il male, la voce della coscienza. Che cosa avrebbe detto Leo-
ne? Che cosa avrebbe fatto Leone? Non dico che questo conti-
nuo raffronto non fosse imbarazzante, e talora addirittura pe-
noso. Ma costitul una grande forza, e un ineguagliabile incita-
mento all'analisi dei propri sentimenti e dei motivi reali delle
proprie azioni.
L'antifascismo di Ginzburg fu sin dall'inizio una manife-
178
stazione spontanea e conseguente delle sue convinzioni morali.
Quando ci conoscemmo, tra i quindici e i sedici anni, egli era
già antifascista convinto e irriducibile. Ricordo una delle prime
volte che venne a casa mia, nell'inverno del 1925: gettando lo
sguardo su una rivista illustrata ove era riprodotto un ritratto
di Mussolini, pronunciò una frase sprezzante. Rimasi colpito
per la sicurezza e la decisione con cui furono pronunciate quel-
le parole: a quel tempo io non avevo idee politiche precise; in
una famiglia borghese e poco educata politicamente come la
mia c'era, se mai, una propensione per il fascismo. Cominciaro-
no presto le discussioni all'uscita di scuola (erano anni decisi-
vi per la sconfitta delle opposizioni e per l'instaurazione del
regime): Leone teneva testa ai filo-fascisti che andavano cre-
scendo di numero e di faccia tosta, e lo poteva fare con una
certa facilità perché, come ho già detto, era molto più informa-
to degli altri, leggeva i giornali, si teneva al corrente e aveva
un'idea personale degli avvenimenti, mentre noi generalmente
ripetevamo cose sentite dire in famiglia o da compagni più
anziani. Anche in queste schermaglie dimostrava la sua superio-
rità, cui tutti finivano per inchinarsi; nessuno osava rintuzzare
con acrimonia le sue buone ragioni e tanto meno compiere
gesti d'intolleranza.
Non saprei dire quale fosse stato il primo ambiente in cui
era maturata la sua passione antifascista: certamente, quando
venne a Torino, il suo giudizio sul regime era già dato e scon-
tato. L'ambiente torinese, in cui si trovò a vivere e con cui
prese a poco a poco contatto, contribui a rafforzarlo o a preci-
sarlo. Tra i nostri professori di liceo, i due più autorevoli nel
campo degli studi, Umberto Cosmo e Zino Zini, erano stati
politicamente impegnati o addirittura militanti. Cosmo appar-
teneva al gruppo politico giolittiano; come neutralista aveva
passato qualche brutto quarto d'ora per istigazione dei naziona-
listi arrabbiati nel periodo di Caporetto; era stato addetto cul-
turale all'Ambasciata di Berlino con Frassati nei primi anni del
dopoguerra ed era assiduo collaboratore di « La Stampa». Zini,
che proveniva dal socialismo positivistico della fin di secolo, si
era schierato, essendo consigliere comunale a Torino, col gru~
179
po dei comunisti, e aveva collaborato a « L'Ordine Nuovo»:
un suo opuscolo filosofico del 1921, Il Congresso dei morti, in
cui levava un grido di protesta contro l'inutilità delle guerre,
gli aveva dato fama di disfattista, traditore della patria, sovver-
sivo vitando. Era invece un uomo mite, distintissimo, con l'aria
del gentiluomo colto e raffinato, un po' assente, atteggiato a
dignitoso distacco, disilluso: amava ragionare fra sé e sé, talché
pochi lo seguivano con attenzione. Rimase nostro professore
per tutti e tre gli anni del liceo, mentre Cosmo, destituito nel
1926, fu sostituito da un giovanissimo supplente: Franco An-
tonicelli. Né Cosmo né Zini ci parlavano di politica (del resto,
neppure i professori filo-fascisti); ma la loro presenza era di
per se stessa un ammonimento, una vivente smentita alle inso-
lenze che venivano vomitate ogni giorno sugli oppositori (stra-
no, ma i due professori migliori erano antifascisti), e un invito
a non indugiare nel conformismo, a non lasciarci adescare dalla
propaganda. Solo una volta - e fu nei primi mesi di scuola -
Cosmo, entrando in classe col giornale spiegato, ci disse con
voce accorata di aver appreso la notizia della morte di uno dei
suoi migliori allievi, Piero Gobetti: un'impressione che non mi
si è più cancellata dalla memoria. Eppure, allora non sapevo
chi fosse Gobetti, forse non l'avevo mai sentito nominare. Solo
Ginzburg lo sapeva e alla fine della lezione ce ne parlò.
Leone era venuto in contatto con la tradizione gobettiana
attraverso Augusto Monti, che insegnava italiano nella B. Mon-
ti aveva scoperto Ginzburg durante gli esami di ammissione al
liceo, e non essendo poi diventato nostro professore (noi era-
vamo nella sezione A), aveva avuto con Leone contatti personali
più diretti (all'inizio attraverso la biblioteca del d'Azeglio).
Monti era stato amico di Gobetti e collaboratore di « La Rivolu-
zione Liberale»; aveva pubblicato pochi anni prima (1923),
nelle edizioni di Gobetti, un libro, Scuola classica e vita mo-
derna, che Ginzburg citava con ammirazione e ci incitava a
leggere. In un passo, che io leggerò molti anni più tardi, Go-
betti aveva scritto che « la rivoluzione liberale era sorta dall'in-
contro di quattro pensieri: il federalismo di Monti, il tradizio-
nalismo di Ansaldo, la critica sindacale di Form.entini e il libe-
180
ralismo rivoluzionario di chi scrive». Quando arrivammo all'u-
niversità, il gruppo gobettiano era ormai disperso: tra la nostra
generazione e quella dei gobettiani c'erano sette o otto anni di
distacco, tanti da rendere estremamente difficili e rari i contatti.
Di quella generazione solo Franco Antonicelli, che avevamo
conosciuto come supplente d'italiano in seconda liceo, si unl
stabilmente a noi (anche lui abitava, come quasi tutti noi, nel
rione della Crocetta), prese parte alle nostre riunioni, strinse
saldissima affettuosa amicizia con Leone. Il nuovo gruppo che
Monti raccolse nel 1928, e tenne riunito per qualche anno,
comprendeva alcuni suoi ex allievi della B, come Pavese, Mila,
Monferini, Tullio Pinelli, Remo Giachero, Vaudagna; Leone e
me della A; compagni d'università come Argan; vecchi amici
come Sturani; e in più Antonicelli, Ci si riuniva, una volta alla
settimana, nelle prime ore del pomeriggio, al caffè Rattazzi, un
locale piuttosto squallido, con pochi avventori, nella via omo-
ni.ma, allora morta. Monti ordinava regolarmente un capillaire e
muoveva i 6.li della conversazione, che non era necessariamente
politica. Il rigidissimo professore d'Ìtaliano era diventato ormai
un compagno più anziano, fra tutti il più estroso e brioso: gli
occhi, dietro lenti spessissime, che in classe, a sentir i suoi
allievi, agghiacciavano come quelli del basilisco, erano vispi,
sbarazzini, ammiccanti; il volto pallido, magro, scavato, imma-
gine della severità, si distendeva ed animava, e il famoso cipi-
glio si apriva nella risata sbottante che accompagnava la con-
clusione di un aneddoto, di una storiella paesana, più che rac-
contata, recitata con gesti, frasi dialettali, qualche brano, quan-
do occorreva, cantato con voce stentorea. La lezione del Rat-
tazzi consistette, almeno per me, nel farmi toccare con mano il
distacco tra la cultura accademica, che si fucina nelle scuole, e
quella militante, che si forma tra compagni e maestri scesi dalla
cattedra, intorno ai problemi vivi la cui soluzione richiede an-
che un impegno personale, e nel premunirci, tutti quanti, con-
tro la malattia del sussiego.
L'eredità gobettiana non ci appariva soltanto, attraverso
Monti, un ideale da tramandare: era ancor viva, allora, l'ultima
rivista che Gobetti aveva fondato alla fine del 1924, « Il Baret-
181
ti». Monti, che ne era diventato di fatto l'animatore e il re-
sponsabile, era ben deciso a non lasciarla morire. Il gruppetto
del Rattazzi servl anche a questo scopo con qualche abbona-
mento racimolato e soprattutto con la nuova leva di collabora-
tori giovan.issimi - Ginzburg, Mila - che esso offrl alle pagi-
ne della rivista, via via sempre più abbandonate dai vecchi
collaboratori e dai grossi nomi. Quando usci l'articolo di Ginz-
burg su Anna Karenina fu un avvenimento. Gobetti aveva
fondato, accanto a « La Rivoluzione Liberale », un foglio lette-
rario come « Il Baretti», perché, destinato forse ad avere più
lunga vita, avrebbe permesso al gruppo di collaboratori di non
disperdersi e di accrescersi. Questa previsione non fu smentita
dai fatti. Proprio nei suoi ultimi numeri, esso raccolse i primi
scritti dei migliori rappresentanti della nuova generazione tori-
nese, che si affacciavano alla vita culturale e politica, e fece da
ponte tra due gruppi di persone che non si erano mai conosciu-
te personalmente. Morto « Il Baretti», e non essendo più tem-
po da riviste di polemica politica, l'idea di una rivista culturale,
scritta da antifascisti, non venne mai meno. Monti ha ricordato
in un articolo, Einaudiana (su «L'Unità» del 2 gennaio 1959),
il progetto di una rivista che avrebbe dovuto essere intitolata
« La tavola rotonda». Ma non si andò molto al di là del
titolo: chi l'aveva chiara in testa era solo Leone, che l'aveva
ideata e ne andava parlando come se avesse già in tasca il
primo numero.
Dovevano passare alcuni anni, e maturare, insieme con gli
eventi, i giovani del Rattazzi, perché il progetto lungamente
accarezzato potesse diventare realtà. Solo nel 1934 uscirà, coi
tipi della casa editrice Einaudi, allora allora fondata, « La Cul-
tura», che ereditava della vecchia rivista di De Lollis - di cui
Leone nel frattempo era diventato uno dei più ricercati colla-
boratori - null'altro che la testata, mutati quasi tutti i colla-
boratori e la redazione, diverso il formato non più di rivista
universitaria ma di giornale a più fogli, agile, senza copertina,
la periodicità diventata mensile da trimestrale, altro l'indirizzo,
altri gli interessi, meno letteratura e più storia, meno erudizio-
ne e più attualità: una rivista militante per quel tanto di mili-
182
zia che si poteva ancora esercitare sgusciando tra i reticolati
della censura senza saltare in aria al primo passo (in aria,
naturalmente, si saltò dopo un annetto, e i redattori andarono
a finire quasi rutti in prigione). Era quel tipo di milizia che lo
stesso Gobetti si era proposto quando aveva detto, nell'intro-
duzione a La rivoluzione liberale, che la nuova generazione
avrebbe dovuto essere una generazione di storici. Non credo
che allora pensassimo alla frase di Gobctti. Ma Ginzburg, che
sapeva quel che voleva, ebbe sempre chiara l'idea che il primo
dovere dell'intellettuale antifascista fosse quello di coltivare se-
riamente gli studi umanistici per non lasciare il vuoto tra il
passato che stava per essere seppellito e la rinascita furura (che
a noi non sembrava più cosl imminente come a coloro che
avevano combattuto a viso aperto), e di dare, tra gli studi
umanistici, la preferenza alla ricerca e alla riflessione storica
che sola avrebbe permesso di rendersi conto degli errori del
passato, della decadenza del presente e dei rimedi necessari per
uscire da questa senza ricadere nei primi. Ginzburg impersonò
molto bene l'ideale della generazioiie di storici, il cui avvento
Gobetti aveva pronosticato. Non a caso, nel momento in cui fu
più libero dalle cure editoriali, sentendo avvicinarsi il momento
della catastrofe, pensò di esercitarsi in una serie di riflessioni
sul Risorgimento, proprio come aveva fatto Gobetti, se pur con
una preparazione accademicamente più ortodossa. In fondo,
non tanto Gobetti, impegnato fino all'ultimo respiro nella lotta
politica diretta, polemista acceso, più abile a impugnar la frusta
che a maneggiar la bilancia, amante dei giudizi taglienti, delle
sintesi rapide, storico per necessità, moralista per vocazione,
quanto lui, Leone, sarebbe poruto essere lo storico preannun-
ciato, lui che si era fatto le ossa sui classici, aveva letto Croce e
Omodeo, e procedeva sul difficile terreno della ricerca protetto
da una buona armatura di snidi filologici.
La continuità dell'ispirazione e del pensiero politico go-
bettiano in Ginzburg sarà evidente a chi leggerà i pochi scritti
politici che di lui ci sono rimasti. A parte il fatto che uno di
questi scritti è dedicato ad una analisi del Paradosso dello
spirito russo, che rivela, tra l'altro, la comune ammirazione per
183
Trockij (di cui Leone tradurrà gran parte della Storia della
rivoluzione russa), Ginzburg fece sua, come Gobetti, la conce-
zione etica del liberalismo, quella concezione che sarà poi e-
sposta e canonizzata dal Croce col nome di « religione della
libertà ». Era ormai illanguidita la concezione giuridica del li-
beralismo come teoria dei limiti del potere dello stato, o per lo
meno messa in disparte dal sopravvivere delle ideologie demo-
cratiche per le quali, una volta che il potere fosse stato distri-
buito a tutti, non ci sarebbe più stato bisogno di limitarlo. Il
lievito perenne del liberalismo si manifestava nell'idea che la
caratteristica dell'etica moderna, contrapposta all'antica, consi-
stesse, com'è stato detto recentemente con felice espressione,
nell'essere un'etica agonistica, ovvero un'etica fondata sul prin-
cipio che progresso morale e civile si dia soltanto là dove la
massima libertà di espansione dell'individuo, consentita dagli
obblighi della pacifica convivenza, rende possibile l'antagonismo
in tutte le forme, politico, economico, sociale, religioso, cultu-
rale. Se non si riesce a cogliere questo particolare aspetto del-
l'idea liberale, elevata a concezione del mondo e della storia,
non si può comprendere l'insistente fedeltà a questa tradizione
di uomini come Gobetti e Ginzburg, che avevano rotto ogni
rapporto col liberalismo politico dell'Italia postrisorgimentale,
né la influenza di Croce sui gruppi antifascisti delle più giovani
generazioni, che non ne condividevano affatto il conservatori-
smo politico, insomma su uomini che erano, in politica, non
liberali, ma democratici. Di fronte a un fascismo che aveva
soffocato nella violenza la lotta politica, questa concezione etica
del liberalismo diventava l'antitesi più diretta ed evidente di
ogni forma di dispotismo, l'espressione più nobile della resi-
stenza alla tirannia. Si può dire che non si poteva essere conse-
guentemente, radicalmente, antifascisti senza essere in questo
senso liberali.
Nel campo più strettamente politico e istituzionale, Ginz-
burg raccolse di Gobetti, attraverso Cattaneo, l'amore per le
autonomie locali, per la cosiddetta sovranità dal basso, per
quella libertà minuta, popolaresca, che non può essere conser-
vata se la gente, come diceva Cattaneo, non ci tiene sopra le
184
mani. Di qua Ia critica ai vecchi partiti diventati macchine
troppo pesanti, manovrate da oligarchie ristrette, Ia preferenza
data ai sindacati come strumenti di lotta politica, e la speranza
riposta nei consigli operai. L'idea del decentramento era stata
un motivo costante del radicalismo politico, e in definitiva
l'espressione della prevalenza del politico sull'economico, con
cui il radicalismo, per quante concessioni facesse sul terreno
della questione sociale al socialismo, non sarebbe mai potuto
confluire stabilmente nel movimento socialista. Anche in questo
atteggiamento di sospetto verso il socialismo Ginzburg percor-
reva la strada aperta da Gobetti, in una direzione che sarà una
delle componenti storiche del Partito d'Azione. Infine, gobet-
tiana fu l'intransigenza antifascista, la resistenza al fascismo
come fatto morale prima che politico, come valore culturale
oltre che politico. Coi fascisti non era possibile alcun compro-
messo: la lotta era lotta, e non si poteva essere che vincitori o
vinti. Era un antifascismo fatto di disdegno, di fierezza d'essere
dalla parte giusta, senza risentimenti o acredine per fatti perso-
nali (la nuova generazione non si Sentiva sconfitta per la sem-
plice ragione che non aveva combattuto e aveva trovato il
fascismo già installato nei posti di comando), ricco della tradi-
zione risorgimentale e della lunga pratica delle civili libertà che
al Risorgimento era seguita, senza infatuazione per il recente
passato che era passato ed era stato sommerso anche a causa
dei propri errori, nutrito di quella cultura storica, umana e
umanistica che permetteva di distinguere, senza possibilità di
sbagliarsi, la civiltà dalla barbarie, i germi di progresso da
quelli di decadenza, la durevole conquista dall'avventura, il
pensiero dalla retorica.
Gobetti rappresentò la fase di rottura, con più entusiasmo
che speranze, Ginzburg quella della preparazione lenta, circo-
spetta, paziente, ma alimentata da una speranza ostinata; il
primo, il momento della lotta rapida, disperata, che brucia in
due anni tutte le energie di una vita, il secondo, il momento
dell'organizzazione meticolosa, a lunga scadenza, ogni giomo un
esile filo, salvo a ricominciare il giorno dopo con un filo ancor
più esile, se il primo di spezza; l'uno, lo spirito delle crociate,
185
l'alto, delle catacombe. Furono entrambi risvegliatori di co-
scienze, stimolatori di energie, animatori instancabili ed ascolta-
tori, maestri di vita fra i diciotto e i venticinque anni, scrutato-
ri di anime, moralisti senza debolezze, letterati sino al midollo,
ma insieme uomini vivi a contatto con altri uomini vivi. Eppu-
re furono, per temperamento, diversissimi: Gobetti incande-
scente, Ginzburg rigido e pacato; tanto l'uno fu agile nella
concezione e nell'esecuzione, tanto l'altro era lento e circospet-
to. Certo, non si può paragonare l'opera scritta di Gobetti a
quella di Ginzburg, non soltanto per il timbro diverso - la
prima è quella di un politico letterato, la seconda di un lettera-
to politico - , ma anche, e soprattutto, per la diversa impor-
tanza storica: la prima dà l'impressione di una fioritura mera-
vigliosa, di un progetto pienamente realizzato, l'altra è rimasta
un abbozzo, un progetto incompiuto. Chi legge le opere di
Gobetti, non ha bisogno d'altro, tanto esse sono rivelatrici del
suo ingegno; i pochi scritti di Ginzburg, invece, sono una tra-
ma leggera e rada, che dev'essere riempita dalle tracce lasciate
dall'opera non scritta, dai ricordi sull'uomo, sulla sua figura
morale e intellettuale, sul vuoto che lasciò attorno a sé, in
breve da una orditura di eventi che non si sono trasformati in
parole stampate.
Di fronte a chi muore di morte prematura e violenta si
suol dire, a guisa di consolazione, che la vita aveva concluso
ormai il suo ciclo e il destino era compiuto. Ma dinnanzi alla
morte di Ginzburg, una simile consolazione non è possibile:
sarebbe una stoltezza o una viltà. L'ultima lettera di Giaime
Pintor è una conclusione; anche l'ultima poesia di Pavese. Ma
l'opera di Leone è rimasta tragicamente incompiuta, e nessuno
ha udito le sue ultime parole. Spesso tra amici ci sorprendiamo
a domandarci: « Quale atteggiamento avrebbe assunto Leo-
ne?», oppure, con un senso di trepidazione: « Che cosa sareb-
be diventato Leone? ». Questo è il segno che la sua morte ha
lasciato un vuoto, che questo vuoto non è stato più colmato e,
dopo, non siamo stati più come prima. Sappiamo anche che il
prezzo pagato è stato troppo alto, e non ci sarà restituito. La
sua morte ci ha fatto apparire ancor più forsennato il furore
186
degli uomini, ancor più abiette le ideologie di sangue e di
strage che l'hanno scatenato, ancor più truci i volti dei fanatici
incontrati sulla nostra strada, ancor più orrendi e inespiabili i
massacri senza fine e senza scopo. E nulla, nulla abbiamo fatto
di fronte al male che è stato compiuto. I gesti stupendi, come
quello di Giaime, le nobili vite, come quella di Leone, sono
stati inghiottiti dal mare della storia, sempre in burrasca; un
relitto si erge per un attimo sulla cresta dell'onda, e poi è
sommerso; ricomparirà per un altro attimo più avanti, ma tra
un'onda e l'altra c'è solo furia, squallore, paura e impotenza. E
non possiamo chiedere conto a nessuno. A chi chiedere conto
della morte di Leone? Parole grandi come Dio, Storia, Spirito
del mondo, o Natura (la Natura di Leopardi, che egli amava),
ci sembrano parole troppo grosse per un fatto in fondo cosl
piccolo, quotidiano, come la morte di un uomo; concetti troppo
alti, astratti e astrusi, per un evento cosl terra terra, che si
ripete ogni giorno tra l'indifferenza o il fastidio degli spettatori.
Ma Leone è morto senza dire fa sua ultima parola, senza dire
addio a nessuno, senza concludere la sua opera, senza lasciarci
un messaggio. Per questo non possiamo rassegnarci; né perd~
nare. È morto solo, come se non avesse più nulla da dire. E
invece il suo discorso era appena cominciato. Gli siamo grati
della lezione di umanità, di nobiltà, di coraggio, di serenità, di
fiducia nella vita, di fermezza nella tragedia, che egli ci ha
lasciata. Ma avremmo voluto averlo ancora con noi.
Son passati ormai molti anni, ma il timbro della sua voce,
il suo sguardo, il suo modo di parlare e di ridere sono rimasti
vivi nella mia memoria, come se l'avessi salutato ieri per l'ul-
tima volta. Se lo richiamo alla mente, mi sorprendo di sentirlo
cosl vicino, cosl presente, cosl accanto a me, dentro di me,
come se fosse diventato parte di me stesso. Lo ritrovo in ogni
passo della mia vita, nella mia continua sorpresa di essere an-
cora vivo e di aver fatto tante cose, buone e cattive, dopo di
lui e senza di lui. La vita mi è apparsa sempre non come un
tutto continuo, ma come un insieme di attimi staccati, emer-
genti dallo spessore opaco e indifferente del tempo: non so
come dire, scintille che nascono, sl, dallo stesso ceppo, ma
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indipendenti le une dalle altre, senza alcun rapporto tra loro,
ciascuna colla sua luce, più o meno fioca. La mia vita non è
altro che tre o quattro di queste scintille: una di queste è stata
accesa da Leone, e, per quel poco lume che ha dato, la luce era
anche la sua.
188
CAPITOLO VIII
189
non era un politico: il suo antifascismo nasceva da un atto di
rivolta morale contro le soverchierie dei potenti, contro la ri-
balderia dei piccoli despoti, contro la stupida guerra fascista e
contro l'atroce guerra tedesca. Impersonava molto bene la figu-
ra del credente nella religione della libertà. Aveva radunato
attorno a sé un gruppetto di amici, cui faceva da maestro,
socraticamente, senza cattedra e senza testi, passeggiando per le
strade e le colline della sua città. Di mestiere era letterato: si
era laureato in lettere a Padova nel 1934 con una tesi di laurea
polemica su Antonio Fogazzaro. Poi si era occupato di teatro
francese, in ispecie di Henry Becque, su cui scrisse un saggio
pubblicato postumo. Si era formato filosoficamente su Croce e
politicamente sulla tradizione liberale del nostro risorgimento
da Cavour a Omodeo. Era un ammiratore di Tocqueville; e mi
dicono, ma non ricordo, anche di Rousseau. Ma non era un
liberale nel senso politico della parola: liberalsocialismo e Par-
tito d'Azione erano formule di rinnovamento, partendo dal
basso, e per un giovane di ceto borghese, già un modo di
mettersi dall'altra parte. Scrisse poco per il pubblico. Raccolse i
suoi pensieri più intimi in un diario che tenne negli anni della
formazione: gli unici sermoni di cui riconosceva la legittimità e
l'utilità erano quelli rivolti a se stesso. Era un taciturno. I
lunghi discorsi gli costavano molta fatica: sapeva del resto che
basta una parola, un gesto, uno sguardo per comunicare il
proprio pensiero quando il pensiero è intenso e l'interlocutore
è disposto ad ascoltare.
Semplicissimo nei modi, nel tratto, nel vestire. Il suo bel
volto illuminato da due occhi chiarissimi era lo specchio di
questo candore. Candido ma non debole o impacciato; anzi,
sicuro di sé, diritto, fisicamente robusto, dava subito l'impres-
sione di un uomo solido, volitivo, che non si perde in pen-
sieri vaghi, in progetti velleitari, in programmi confusi. Aveva
il culto della chiarezza morale e intelletruale. Questa chiarezza,
che gli aveva fatto trovare subito la strada giusta tra le due
opposte tentazioni della rinuncia e ddla faziosità, era sostenuta
da un indomito coraggio. Era il coraggio dell'uomo insieme
semplice e forte, che si accompagnava ad uno stato d'animo
190
costante di suprema pacatezza. Toni era un uomo tranquillo,
lui nato nella città delle « furie »: tranquillo, non dico sereno,
più forse per la sicureua ragionata delle proprie convinzioni
che per natura; coi nervi a posto e con un severo dominio
delle proprie passioni. Passò attraverso le tempeste della giovi-
nezza: ne usd ogni volta profondamente rinnovato. La maturi-
tà rappresentò per lui il momento in cui si va incontro alle
grandi decisioni con la coscienza in pace. Non subl il proprio
destino, lo accettò; e non vi si sottrasse, una volta che l'ebbe
riconosciuto.
La grande decisione dopo 1'8 settembre fu presa subito:
andare in montagna. Vi erano due possibilità per chi non vole-
va rinunciare alla lotta: continuare in città il lavoro politico
clandestino o darsi alla macchia per addestrarsi alla resistenza
armata. Toni scelse senza esitazione la seconda. Passò i primi
mesi, dal settembre al novembre, in Friuli, presso il confine
jugoslavo. Poi accorse nei monti del bellunese, dove nel marzo
lo raggiunse la piccola pattuglia degli amici vicentini. Ma con-
tinuò a mantenere gli antichi legami con la città, in modo
particolare con Padova, nella cui università si era stabilita du-
rante il rettorato di Concetto Marchesi, sino ai primi di di-
cembre del 1943, una delle roccaforti della resistenza. Lo vidi
l'ultima volta pochi giorni prima del mio arresto (7 dicembre
194 3): era venuto a portarmi una prima relazione militare
della zona in cui operava e io avrei dovuto trasmetterla al
Comitato di Liberazione. Poi le nostre sorti si divisero.
Il primo inverno in montagna di Toni fu un periodo di
tirocinio, di preparazione, di allenamento alla fame, al freddo,
alla guerriglia improvvisata, fatta di colpi di mano e di mortali
trabocchetti: dai monti del bellunese si spostò, dopo i rastrel-
lamenti d'aprile, coi suoi uomini, alcuni inglesi, un russo, sul-
l'Altopiano di Asiago. Ebbe sempre attorno a sé i suoi amici.
Ma fu sin dal primo momento il comandante. I suoi commilito-
ni erano uomini nuovi: lui solo era in grado di stabilire un
legame tra la lotta politica di ieri e la lotta militare di oggi.
Uno di loro ha descritto l'arrivo di Toni sull'Altopiano con
queste parole:
191
Senza di lui non avevamo veramente senso, eravamo un gruppo di
studenti alla macchia, scrupolosi e malcontenti; con lui diventavamo
tutta un'altra cosa. Per quest'uomo passava la sola tradizione alla quale
si poteva senza arrossire dare il nome di italiana; Antonio era un
italiano in un senso in cui nessun altro nostro conoscente lo era; stando
vicino a lui ci sentivamo entrare anche noi in questa tradizione. Sape-
vamo appena ripetere qualche nome, Salvemini, Gobetti, Rosselli,
Gramsci, ma la virtù della cosa ci investiva. Eravamo catecumeni, ap-
prendisti italiani 2.
192
un secondo tempo in collegamento con reparti della V Armata
alleata, sul crinale appenninico nella zona del Monte Belvedere.
Giuriolo era stato ufficiale degli alpini. Doveva aver fatto,
bene o male, il suo esercizio di comando di uomini. Ma la
guerra partigiana era una guerra nuova, una guerra popolare.
Bisognava dimenticare quel che si era appreso nelle scuole mili-
tari e cominciare daccapo. Toni fu un comandante di tipo nuo-
vo. Il migliore elogio di lui fu scritto da un suo compagno
d'arme: « Capitano senza galloni e senza stellette». Ancora
oggi i suoi compagni lo chiamano maestro, comandante-mae-
stro. Per capire che cosa abbia rappresentato per i suoi uomini,
bisogna liberarsi dall'abitudine di considerare la caserma e la
scuola come due termini antitetici. Egli fu insieme comandante
e maestro, e comandante solo perché insieme maestro. La sua
banda fu una scuola di uomini, non di soldati, di soldati in
quanto, prima di tutto, uomini. Dicono ancora i suoi compa-
gni: « Con Toni abbiamo imparato a capire che cosa significa
vivere una vita degna di uomini ». « Quello che abbiamo impa-
rato in quei pochi mesi non l'abbiamo più dimenticato ». « :8
stata una lezione per tutta la vita: l'unica vera lezione della
nostra vita ». « Ci ha insegnato a vivere » (il che è lo stesso, a
morire). Quando dovettero scegliere la parola giusta da mettere
sul cippo, trovarono l'unica parola che era capace di esprimere
insieme la loro ammirazione e il significato della sua missione:
« apostolo». Sul cippo sta scritto: « Al capitano Giuriolo a-
postolo della libertà ».
Toni comandava non con ordini perentori, che si devono
ubbidire per forza, ma con l'esempio dell'uomo giusto e ragio-
nevole, che scuote dal di dentro anche l'anima più indurita. I
suoi compagni lo ubbidivano non per timore ma per rispetto,
perché era giusto cosl come diceva, perché gli volevano bene.
Poiché era un'anima cristallina gli leggevano dentro anche i
pensieri più segreti. E non avevano bisogno per intendersi di
molti discorsi: si capivano per cenni. Chi aveva dimestichezza
con lui sapeva quel che il capitano riteneva giusto e ingiusto:
la legge del comandante era puramente e semplicemente la
legge della giustizia, non quella della vendetta o dell'odio o del
193
risentimento, della giustizia fondata sul concetto della suprema
e intoccabile dignità di ogni uomo, anche del nemico. Se non
era la legge della giustizia, era quella della pietà. La guerra era
la guerra; ma gli uomini erano pur sempre uomini. Rispettò
sempre i prigionieri tedeschi, anche quando gli orrori cui si
trovò dinnanzi lo fecero vacillare e tremare. Ma non bisognava
cedere all'impeto della passione esacerbata: virtù contro furore.
La guerra pattigiana era una guerra diversa da tutte le altre,
non solo perché era una guerra di volontari ma anche perché
era una guerra redentrice. La redenzione comincia prima di
tutto da noi stessi, anche nelle più piccole cose. Un giorno,
capitati in una cascina abbandonata, vi trovarono una cassa pie-
na di calze e calzettoni di lana: « Queste almeno ce le lascerai
prendere. A chi serviranno domani?». Disse che non doveva-
no: era roba d'altri e bisognava rispettarla. Fece capire che
impossessandosi di quella misera roba avrebbero offeso prima
di tutto lui, che era responsabile delle loro azioni. La roba non
fu toccata. Uno di loro, uscendo dalla cascina, commentò in
dialetto, scuotendo il capo come se fosse immerso in profondi
pensieri: « Guarda che cosa mi ha insegnato quest'uomo: a
star coi piedi fradici per rispettare un paio di calze di gente
che non abbiamo mai conosciuto».
Il caposaldo della concezione politica di Toni era la de-
mocrazia integrale come autonomia, governo dal basso, aboli-
zione di gerarchie fittizie, fondate su privilegi di casta, o di
censo, eliminazione di ogni differenza tra governanti e governa-
ti. C'era nel suo modo d'intendere la democrazia come discute-
re insieme e decidere insieme, una venatura capitiniana. Del
resto, partigiano per convinzione ma combattente per necessità,
egli era afiascinato, sulle orme di Aldo Capitini, dall'etica della
non-violenza. Cercò di attuare questa sua concezione della de-
mocrazia integrale nella piccola comunità della brigata Matteot-
ti che fu per cinque mesi, sino alla morte, il suo asilo, il suo
mondo, e insieme la sua difesa dal mondo. Le azioni da com-
piere venivano discusse da tutti e i compiti distribuiti secondo
una concorde volontà. Alla sera, tutti attorno a lui, seduti per
terra nel bosco o sul pavimento dei casolari che provvisoria-
194
mente li ospitavano (ma gli spostamenti da luogo a luogo furo-
no rapidi e continui), i partigiani dibattevano i loro casi perso-
nali, ponevano problemi, prendevano le deliberazioni necessa-
rie. Si ricordano ancora i suoi motti, le sue massime, le sue
alzate di spalle, le sue risposte brevi, secche, a guisa di apolo-
go. Aveva in gran fastidio i chiacchieroni. Pierino, il ragazzo
dai calzoni corti e dalla maglietta « sdrucita e pidocchiosa »,
come leggo in una testimonianza del tempo, paffuto e spettina-
to, che aveva diviso la sorte della brigata e sarebbe morto
accanto al suo comandante, un giorno lesse il proprio diario.
Alla fine Toni, severo e bonario insieme, commentò: « Troppe
parole per cosl poche cose ». Il ragazzo capl a modo suo il
commento e rispose: « Le cose come le intendete voi vanno
meglio fatte che dette». Questa parsimonia di parole esprime-
va una radicata abitudine alla riflessione, e anche un bisogno di
sincerità: le parole spesso nascondono e tradiscono il pensiero
genuino. Chi parla troppo, ragiona poco. Per resistere alla vita
dura, quasi selvaggia dei partigiani, bisogna saper ragionare,
ponderare il pro e il contro, se no si correva continuamente il
rischio di inselvatichire, di intristire nella sfiducia e di inasprir-
si nelle inutili querimonie. Ancora Pierino, tornato un giorno
da una città ormai liberata, esplose in una invettiva contro
quelli che comandavano, perché erano sempre gli stessi e il
popolo, come sempre, non contava nulla. Toni, calmissimo:
« La strada è più lunga e difficile di quanto pensavi, ma non è
sbagliata».
Toni non era uomo da fare molte concessioni alla debolez-
za professionale di esibire la propria c.ultura storica e letteraria,
di svelare la propria segreta aspirazione a diventare uno scritto-
re. Ma non mancarono, nelle ore perdute, discussioni anche sui
problemi della cultura: Toni credeva nel valore civile della
poesia, non in quanto civile ma in quanto buona poesia. Mi
dicono che il suo libro preferito in quei mesi fosse L'armata a
cavallo di Babcl, epopea scabra e dura di una guerra partigiana
violenta, aspra, combattuta senza pietà, nell'orrore, ma da uo-
mini schietti. La leggevano insieme, e la faceva leggere. Non
scrisse diari. Non lasciò traccia scritta della sua vita di parti-
195
giano. Non ne ebbe né il tempo né l'occasione. Forse non volle
rompere la grande quiete della montagna, turbare il raccogli-
mento, le ore di meditazione solitaria che trascorrevano tra
quei monti desolati, deserti, devastati dalla guena e dalla guer-
riglia, dove le poche, pochissime case di contadini, semidistrut-
te, davano il senso di una miseria senza rimedio, ma accende-
vano, quanto più erano miserabili, il fuoco della speranza, la
volontà del rinnovamento. Non scrisse più nulla, e morl senza
poter dire neppure una parola.
Quando Toni assunse il comando della brigata nel luglio
del 1944, l'Appennino tosco-emiliano era diventato, e lo sarà
ancor più dopo la liberazione di Firenze, la linea più avanzata
dello schieramento tedesco. Dal luglio al dicembre l'azione del-
la brigata si svolse in tre tempi. Primo tempo: il compito
principale dei partigiani era di molestare i presldi nemici che si
andavano attestando sulle posizioni strategiche per far fronte
all'offensiva alleata, di tenere sgombri i valichi per facilitare
l'avanzata delle truppe alleate, e di creare eventuali zone libere
alle spalle dei tedeschi per aiutare gli alleati ad aprirsi un varco
tra le file del nemico accerchiato, come accadde nella ormai
leggendaria battaglia di Montefiorino, alla fine di luglio, cui la
brigata partecipò a fianco della brigata Garibaldi di Modena,
subendo un duro rastrellamento tedesco. Sotto la pressione del-
la V Armata, le truppe tedesche intanto si venivano attestando
nel settore sulla cosiddetta « linea verde » che correva da sud-
ovest verso nord-est, dal passo dell'Abetone al Monte Belvedere.
Secondo tempo: la brigata di Toni ebbe il compito di occupare
permanentemente la zona compresa tra la « linea verde » e i posti
più avanzati della V Armata. Furono occupati Castelluccio,
Boschi, Molino del Pallone, Granaglione, Lustrola, Borgo Ca-
panne, nei pressi della Porretta. Il crinale Castelluccio-Porretta
cadde quasi totalmente in mano dei partigiani. I tedeschi bat-
tono ormai ovunque in ritirata. Alla fine di settembre le avan-
guardie della formazione di Toni prendono contatto in Ponetta
con le avanguardie della formazione « Sambuca pistoiese », e
avvengono anche i primi contatti con le pattuglie alleate, segui-
ti dalla consegna dei prigionieri tedeschi. Terzo tempo: entro
196
la metà di ottobre le truppe anglo-americane occupano la zona
già liberata dalla brigata Matteotti, ma questa ed altre brigate
Umitrofe non vengono, come di solito accade, disarmate, bensl
inviate ad operare come pattugUe di punta che dovranno essere
impiegate insieme con i soldati alleati, frammiste ad essi. La
brigata di Toni accetta le condizioni e d'ora innanzi sarà inte-
grata, pur mantenendo la propria autonomia, nell'esercito allea-
to che avanza.
Il 4 novembre alcuni volontari della Matteotti, collabo-
rando con truppe americane, occupano AHrico (Gaggio Monta-
no). Quindi comincia l'offensiva della V Armata contro il Mon-
te Belvedere (quota 140), dove i tedeschi hanno stabilito una
piazzaforte munitissima. Ad essa cooperano i partigiani di una
brigata Garibaldi che occupano il passo di Corona {quota 94 3),
da un lato, e quelli della Matteotti, che occupano Calcinara
(quota 945), dall'altro; ma l'accerchiamento fallisce. I tedeschi,
resi audaci anche dal proclama Alexander del 10 novembre, che
metteva in quarantena il movimento partigiano, contrattaccano
su tutto il fronte. Nella zona della· brigata Matteotti, il violento
contrattacco avviene il 27 novembre: Corona deve essere ab-
bandonata. Calcinata, pur resistendo sino a notte inoltrata, vie-
ne abbandonata all'alba del 28 novembre per ordine del U>
mando alleato. Ma Toni non si dà per vinto: il giorno dopo, al
comando di una pattuglia di nove partigiani e due americani, si
spinge nella zona di Montilocco (quota 915) ad est del Monte
Belvedere. Si scontra con i tedeschi. Quando non ha più muni-
zioni, invece di ritirarsi, con un gesto che è insieme di spaval-
deria e di disarmata innocenza, intima la resa ai munitissimi
avversari: e questi si arrendono. Prende otto prigionieri e li
consegna senza torcere loro un capello agli alleati.
Tra 1'11 e il 12 dicembre, il Comando alleato chiese ai
partigiani di Toni di prendere parte a una nuova azione contro
la piazzaforte tedesca di Monte Belvedere. 41 I partigiani emi-
liani - scrive il Battaglia - non stanno dunque mai fermi sul
terreno, ma sono sospinti, come da un istinto irrefrenabile, al
contrattacco o all'attacco che coglie di sorpresa l'avversario» 3•
Approfittando della lunga notte invernale, si misero in cammi-
197
no, l'ala sinistra americana verso Polla, l'ala destra guidata da
Toni, verso Corona. Ma la strada verso Corona è minata; i
mezzi corazzati non possono proseguire; e gli uomini di Toni
sono costretti a compiere una deviazione a monte della strada.
Ciononostante arrivano alle prime luci del mattino al passo,
l'espugnano, mentre i tedeschi occupanti lasciano sul terreno
alcuni morti e ingente bottino. Poi improvvisamente ricomincia
il fuoco dalle falde del Monte Belvedere e dal crinale di Polla.
La posizione della brigata, vulnerabilissima, quasi accerchiata e
in posizione sfavorevole, non può più essere mantenuta. Occor-
re sganciarsi e ripiegare. Ma Toni non può abbandonare i feriti
tra cui Pierino, il compagno adolescente. i! deciso a non ab-
bandonare il posto sino a che non avrà visto raccogliere i feriti
e al sicuro i superstiti. Si muove in mezzo alle raffiche. Riuscirà
a mettersi in salvo?
Non pensò certamente in quel momento alla sua salvezza:
se poté formulare qualche pensiero, forse, si diede a riflettere
serenamente sul suo destino, che era un destino di morte. Fu
colpito improvvisamente al cuore e cadde senza un grido, boc-
coni, per terra, schiacciando col peso del corpo stramazzato il
fucile a tracolla che gli attraversava il petto (il fucile, in sicura,
che non aveva mai sparato).
Erano le dieci di mattina del 12 dicembre. Toni aveva
trentadue anni. Era morto da uomo forte e libero, come era
vissuto, con quella calma sovrana che l'aveva sostenuto nei
momenti difficili. Senza un gesto di più. Morto da partigiano
dopo aver sognato, forse, di diventare uno scrittore. In realtà
non aveva mai cambiato mestiere, l'unico mestiere che valesse
la pena di fare e che conosceva cosl bene: il mestiere dell'uo-
mo libero. Quella notte cadde la prima neve, una nevicata
abbondante: il suo corpo abbandonato ne fu ricoperto, e non
fu poi rintracciato il giorno dopo dalla pietà dei compagni
accorsi. Riaffiorò in primavera col disgelo, intatto; ma i tede-
schi lo avevano collegato - consueto gesto di dispregio per i
cadaveri - con una mina. Fu quindi liberato e sepolto, e là
dove cadde, vi è ora il cippo solitario e spoglio come era lui,
ma dritto e saldo all'ombra di alcuni alberelli, allora scheletriti
198
dall'imperversare della guerra, ora di nuovo frondosi, nel silen-
zio della montagna: il nome scritto su due pagine di un libro
aperto.
Il governatore di Lizzano propose la medaglia d'oro che
gli fu concessa con una motivazione in cui lo si addita, fra
l'altro, come (( esempio luminoso di eccezionale ardimento e di
generoso altruismo ». La sua brigata continuò valorosamente
nel suo nome la lotta sino alla fine senza darsi altro capo:
bastavano il suo ricordo, il suo esempio, una presenza al di là
della morte. E qui siano ricordati i suoi caduti dal giugno 1944
al febbraio 1945: Angelo Abbona, Ivo Agostini, Angelo Ago-
stini, Amedeo Binacchi, Paolo Bichecchi, Lino Degli Esposti,
Pierino Galiani, Cesare Gianni, Jele Lorenzini, Ettore Gubelli-
ni, Edmo Guccini, Silvio Guidetti, Gino Guidetti, Cirillo Ma-
sotti, Giuseppe Morganti, Amos Mezzani, Elio Pozzi, Germano
Sabbatini, Alfiero Tomesani, Armando Taruffi, Pietro Torlaini,
Nino Venturi, Attilio Vivarelli.
Toni fu un eroe senza gesti. Il suo eroismo era dentro,
non fuori, nell'animo incorrotto,·non nelle parole, nelle frasi
solenni. E proprio perché fu un eroe senza gesti rappresentò
bene la figura del combattente di questa guerra straordinaria,
quale fu la guerra di liberazione, che trascendeva i confini di una
patria, gli odi di parte, la politica delle fazioni. A guerre ecce-
zionali occorrono, per giustificarle di fronte a noi stessi, uomini
eccezionali. Giuriolo è stato uno di questi. Per lui, anche per
lui, la Resistenza è rimasta nel nostro cuore come una feconda
stagione dell'Italia e dell'Europa, nonostante le rovine, le stra-
gi, le sofferenze di tutti. Nel commento a Becque si legge, tra
parentesi, questo passo, che è certamente una annotazione auto-
biografica. Parlando dei doveri dello scrittore verso la patria,
avverte che lo scrittore deve partecipare alla vita politica ma
non sostituirsi ai politici. E subito dopo aggiunge in un inciso:
199
compatte a ristabilire le basi della vita sociale su un nuovo e migliore
equilibrio'.
200
lacrime e sangue. Ma di lacrime e sangue è fatta la storia
umana. Sino a quando? Sino a quando? Forse non c'è che una
risposta. Sino a quando tutti gli uomini non saranno diventati
giusti di quella giustizia che condusse Toni Giuriolo, il nostro
amico, il vostro comandante, a morire il 12 dicembre 1944,
vent'anni or sono, senza ira né odio, in una guerra che l'ira
aveva scatenata e l'odio resa implacabile.
Antonio Barolini, il poeta della sua Vicenza, scrisse alla
sua memoria questi mesti versi profetici:
201
NOTE
202
CAPITOLO IX
Eugenio Colomi
203
rendersi ragione: è il mondo dell'imperativo categorico, cioè di
un comando che deve essere ubbidito non per piacere ma per
dovere, anzi con sofferenza, e col senso di non averlo mai
compiuto sino in fondo, perché l'ideale è per sua natura sem-
pre al di là e la perfezione morale è irraggiungibile (ma guai a
colui che non si sfona di raggiungerla). L'ideale della perfezio-
ne è sempre accompagnato da un forte complesso di colpa: non
è da escludere che alla base dell'interesse per la psicanalisi
degli anni della maturità sia un'adolescenza quale si rivela in
alcune pagine autobiografiche e attraverso lo stesso gusto al-
l'autobiografismo, non comune in un giovane, dominata da un
fortissimo super-ego, implacabile, che ha bisogno per placarsi di
vittime (il compimento del dovere è sempre un sacrificio di sé).
A temprare e a definire il carattere dell'adolescente con-
tribuisce il contatto, anzi l'urto, coi cugini Sereni, Enrico, En-
zo, Emilio, di alcuni anni più vecchi di lui, ma, come egli ce li
descrive, dando un significato profondo a questo episodio, più
maturi ed emancipati, tanto sicuri di sé quanto lui è indeciso,
problematico, sempre in cerca di se stesso, desideroso di farsi
comprendere e stimare piuttosto che d'imporsi e ferire. Ne
subisce il fascino, pur cercando continuamente di sottrarvisi.
Sebbene li senta superiori per forza, per conoscenza delle cose
del mondo, per libertà di giudizio, è verso di loro in continuo
atteggiamento di confronto e di sfida. Dipenderà dal modo
come andrà a finire questa sfida il successo di quella difficile
impresa che è la fonnazione della propria personalità. Quando
ha quattordici anni, per influenza di Enzo, diventato sionista
fervente, religiosissimo, volge anch'egli la propria mente al sio-
nismo, si mette a studiare l'ebraico, si prepara ad andare in
Palestina, come Enzo che vi si reca da pioniere nel 1927 (e
morirà in un lager, dopo essersi fatto paracadutare in Italia
durante la guerra). Il sionismo è soltanto una fiammata giova-
nile. Se ne allontana senza rimpianti quando il consolidamento
del fascismo fa apparire più urgente e più drammatico il pro-
blema italiano, e lo induce a mettersi in contatto coi primi
gruppi clandestini di antifascisti militanti che si vengono for-
mando tra giovani intellettuali dopo le leggi eccezionali. Proba-
204
bilmente non è stata estranea a questo volgere le spalle ad
un'esperienza che più che politica è religiosa, la decisione ma-
turata ben presto, sin dagli anni del liceo - racconta egli
stesso di aver letto con entusiasmo in quegli anni il Brevia-
rio di estetica di Croce - di darsi agli studi filosofici.
Compiuti gli studi classici al liceo Manzoni, si iscrive alla
Facoltà di lettere e filosofia di Milano nel 1926, dove, al ricor-
do dei compagni, i maestri cui si sente più legato sono Borgese
e Maninetti. Si laurea nel 19 30 con Martinetti, presentando
una tesi su Leibniz, che peraltro non è un autore martinettiano
(ma in quegli anni svolge un corso libero su Leibniz Giovanni
Emanuele Barié, allievo di Martinetti). Per chi cerca di liberar-
si da Croce, non dando una scrollata di spalle alla filosofia né
buttandosi a capofitto negli studi specialistici, ma continuando
a fare il filosofo con la propria testa, e ha cominciato a capire
che fare filosofia senza un qualche rudimento di cultura scien-
tifica significa parlare a vuoto, la filosofia di Leibniz costituisce
un ottimo campo di esplorazione. « Si butta sui pluralisti -
egli cosl descrive la svolta - , sugli individualisti, sugli empi-
riocriticisti: si addentra nel labirinto di Leibniz ». Ormai cerca
nella filosofia non tanto una concezione del mondo quanto un
metodo, una emendatio intellectus, una istruzione per l'uso
rigoroso della ragione. E Leibniz può servire egregiamente allo
scopo: per impadronirsene approfondisce lo studio della mate-
matica, per cui ha mostrato sin dal liceo una inclinazione spic-
catissima.
Nel 1931 e 1932 collabora con assiduità alla rivista mila-
nese « Il convegno», diretta da Enzo Ferrieri: nel 1931 la
rivista entra nel dodicesimo anno di vita con propositi di rin-
novamento. Già vi collaborano alcuni suoi compagni di univer-
sità come Guido Piovene e Guido Morpurgo Tagliabue, il qua-
le recensisce il saggio sull'estetica di Benedetto Croce parlando
dell'autore come di « spirito limpido, ricchissimo d'umanità » 1 •
Eugenio vi scrive recensioni di libri che gli offrano occasione di
porre quesiti di estetica (che è negli anni universitari il suo
tema prediletto). Nel 1931 pubblica sulla « Rivista di filo-
sofia », che dal 1927 è diventata la rivista di Martinetti, una
205
nota critica al libro, allora uscito, di Paolo Treves (che insieme
al fratello Piero appartiene alla cerchia degli amici) sulla filo-
sofia politica di Tommaso Campanella. Nel 1932 su « La cultu-
ra» di Cesare De Lollis il saggio, già ricordato, sull'estetica di
Croce.
Nello stesso periodo entra in contatto coi primi gruppi
antifascisti che dopo il 1925 cominciano a riorganizzarsi nella
clandestinità attorno a riviste tra il letterario e il politico e
che dopo l'emanazione delle leggi eccezionali hanno la vita
contata. Con lo pseudonimo G. Rosenberg pubblica il suo pri-
mo articolo, peraltro non politico, L'estetica di Roberto Ardi-
gò e del positivismo italiano nella seconda metà dell'Ottocen-
to, nel 1928, su «Pietre», la rivista nata a Genova nel 1926
all'annunzio della morte di Piero Gobetti, diventata milanese
nel dicembre 1927 per iniziativa di Lelio Basso, che ne fa un
luogo d'incontro di giovani avversi al regime 2 • Secondo la te-
stimonianza di Lucio Luzzatto, partecipa in un primo tempo
all'attività del gruppo milanese di « Giustizia e Libertà », e
mantiene contatti col nucleo torinese che fa capo prima a Leo-
ne Ginzburg, arrestato nel 1934, e poi a Vittorio Foa, arrestato
nel 1935. Ne è una prova tra l'altro la sua collaborazione alla
nuova serie di « La cultura », ideata e di fatto diretta da Ginz-
burg, primo tentativo di uscire allo scoperto da parte del
gru)>po che si era formato attorno all'appena nata casa editrice
,li Ciulio Einaudi: vi scrisse un breve saggio-recensione di ar-
gomento leibniziano. Con frequenti viaggi all'estero collabora
alla diffusione dei « Quaderni di Giustizia e Libertà », una
delle attività più rischiose del gruppo (che non svolge e non
può svolgere che opera di proselitismo). Quando con gli arresti
torinesi del maggio 1935 il gruppo giellista è sgominato, pren-
de contatto con il Centro interno socialista, che era stato isti-
tuito nell'estate del 1934 a Milano, per opera di Morandi,
Basso, Lucio Luzzatto ed altri, allo scopo di riannodare le fila
del Partito Socialista in Italia in connessione con il partito
dell'emigrazione: questa svolta è determinata, oltre che da vec-
chie amicizie come quella di Basso, da una scelta politica che,
orientando l'impegno del militante verso un partito di classe, gli
206
appare più rigorosa. Già nel numero del primo agosto del 1935
scrive su « Politica socialista » il primo articolo, con Io pseu-
donimo di Agostini. Dopo gli arresti di Luzzatto e di Morandi,
avvenuti nell'aprile del 1937, diventa uno dei maggiori respon-
sabili dell'attività del Centro, che intanto si è diffuso in varie
città della Lombardia e del Veneto 3 •
Prosegue instancabilmente gli studi filosofici. Subito dopo
la laurea compie un viaggio di studi a Berlino, donde fuma con
la data del novembre 1931 un suo contributo apparso su « Il
convegno » e v'incontra Croce, come Io stesso Croce ricorderà
molti anni più tardi 4; e dove conosce Ursula Hirschmann, che
sposa alla fine del 1935 e da cui ha tre figlie, Silvia, Renata,
Eva. Nel 1932-33 è lettore d'italiano all'Università di Marbur-
go. Con l'avvento al potere di Hitler ritorna in Italia; avendo
nel frattempo vinto un concorso per l'insegnamento della filo-
sofia nei licei, viene destinato a una cattedra di filosofia e
pedagogia prima a Voghera, poi all'Istituto magistrale « Giosuè
Carducci» di Trieste, ove rimane dal 1934 sino all'arresto
avvenuto nel 1938. Sono forse gli anni più intensi della sua
vita, divisi tra lo studio e la milizia politica. Mantiene il colle-
gamento tra il gruppo triestino del Centro e il gruppo milane-
se. Nel 1937 va a Parigi per prendere parte al congresso carte-
siano e vi conosce Carlo Rosselli. Dopo gli arresti milanesi di
Luzzatto e Morandi è ormai segnato sul libro nero della polizia
politica cui non sfugge neppure il minimo passo delle persone
sospette che si recano all'estero. Mentre va in questura per
chledere il rinnovo del passaporto col pretesto di un nuovo
viaggio a Parigi, dove dovrebbe incontrare l'editore Hermann
per la pubblicazione del libro su Leibniz, è arrestato l'otto
settembre 1938. Scatenata da alcuni mesi la campagna razziale,
l'arresto di Colami a Trieste, che coinckle con l'arresto di un
altro ebreo antifascista, Dino Philipson, a Firenze, provoca un
violento attacco da parte della stampa fascista contro un pre-
sunto complotto ebraico: è una delle prime occasioni per il
regime di denunciare a tinte fosche e con spudorate menzogne
la cospirazione antifascista e antinazionale dell'ebraismo inter-
nazionale. Il « Piccolo di Trieste» esce il 17 ottobre con un
207
articolo dal titolo La tenebrosa figura dell'antifascista ebreo
pro/. Colorni e un pezzo di colore su La doppia vita del prof.
Colorni. « Il Corriere della Sera» del 18 ottobre, sotto il titolo
ad effetto La trama giudaico-antifascista stroncata dalla vigile
azione della polizia, parla dell' « ambigua figura del prof. Color-
ni » 5.
In seguito all'arresto e al trasferimento dell'istruttoria a
Milano, viene rinchiuso nel carcere di Varese, dove resta alcuni
mesi, in attesa del processo che non avrà mai luogo, sino al
gennaio 1939. Quindi è assegnato al confino di Ventotene per
cinque anni. Vi rimane meno di tre anni perché alla fine del
1941 in seguito a sua domanda viene trasferito sul continente, a
Melfi.
Gli anni del confino sono anni decisivi per la sua formazione
intellettuale e politica. Stringe amicizia con Altiero Spinelli ed
Ernesto Rossi e aderisce alle idee federalistiche pur restando
socialista. Approfondisce gli studi filosofici e le riflessioni sulla
struttura della scienza, come risulta dai Dialoghi di Commodo,
che riproducono disrussioni avvenute fra lui e i suoi amici più
intimi (oltre Spinelli e Rossi, anche Manlio Rossi-Daria) nell'i-
sola di Ventotene e a Melfi.
Da Melfi riesce a scappare nel maggio 194 3 avendo otte-
nuto un permesso di recarsi a Potenza per una visita medica.
Va a Roma dove vive clandestina.mente e riprende il collega-
mento coi gruppi socialisti che si vanno in quegli ultimi mesi
del regime organizzando intorno al ricostiruito Partito Sociali-
sta di Unità Proletaria, che risulta dalla fusione del gruppo
giovanile del Movimento di unità proletaria (MUP) e del Parti-
to Socialista Italiano (PSI). Dopo il 25 luglio partecipa al
convegno che si svolge a Milano in casa di Mario Alberto
Rollier il 27 e 28 agosto e da cui nasce il Movimento federali-
sta europeo. Dopo l'B settembre è di nuovo a Roma: la sua
attività diventa, secondo la concorde testimonianza dei com-
pagni di lotta, febbrile. ~ capo-redattore dell'« Avanti! » clan-
destino e uno degli organizzatori del centro militare del Partito
Socialista; nello stesso tempo cura l'edizione del Manifesto di
Ventotene e ne scrive la prefazione. Partecipa a gruppi di azio-
208
ne partigiana in città. A pochi giorni dalla liberazione di Roma,
il 28 maggio, fermato da una pattuglia in via Livorno (presso
Piazza Bologna), tenta di fuggire, si rifugia nell'androne di un
portone, ma è crivellato di colpi. Trasportato all'Ospedale San
Giovanni, muore il 30 maggio.
209
Ma tu hai preferito rifugiarti, gentilianamente, - rimprovera
Commodo a Severo - nell'autocreatività dello spirito, e nel processo di
autofonnazione; parole magiche, tali che se si cerca di chiarirne con
tranquillità il significato, si diventa maniaci della scienza[ ... ]. E dopo aver
fatto una mezza dozzina di altrettanti giochetti, sentirai con supremo
sprezzo che questo è un discutere a vuoto.
210
idealismo ha dato alla sua speculazione, è libero da ogni impegno verso
l'una o l'altra delle dottrine che ad esso si riconducono'.
211
In questo modo di servirsi di Croce contro Croce, Colorni
mostra ormai qualche cosa di più che un atteggiamento d'in-
soddisfazione verso l'idealismo: lascia intravedere verso quale
direzione si muovono le sue preferenze filosofiche, soprattutto
là dove crede di poter cogliere l'elemento positivo della filo-
sofia crociana nell'essere non già un idealismo come Io stesso
Croce ritiene che sia, ma un empirismo trascendentale, le cui
premesse gnoseologiche dovrebbero essere ricercate nell'empi-
rismo idealistico inglese del Settecento, e di cui si può vedere
una certa parentela con alcune forme di contingentismo e di
empiriocriticismo contemporanei. Ormai si era buttato, come si
può leggere in un brano autobiografico, sugli empiriocriticisti e
su Leibniz: ed ora ritrovava in Croce per difenderlo contro lui
stesso gli autori cui si andava avvicinando.
Sin da questo primo scritto si ha l'impressione che Color-
ni, dissolvendo il sistema crociano, tenda a dissolvere il concet-
to stesso di sistema, la concezione sistematica della filosofia, e,
attraverso la critica alla filosofia di Croce, metta in discussione,
se non proprio la filosofia, un certo modo di fare filosofia che
non lo soddisfa più, la filosofia come concezione del mondo. In
una delle pagine autobiografiche più volte citate, ricordando i
suoi primi ardori filosofici, commenta ironicamente:
Egli usa oramai correntemente le parole grosse, Io, Spirito, Pen-
siero, Pensiero di chi? Degli uomini naturalmente. Eppure, se dici « il
pensiero umano», anziché « il Pensiero», ti sembra di aver peI$0 tutto
[. .. ] Filosofia è sentire, compenetrarsi, vivere di una maiuscola a capo di
una parola.
212
lato, egli continuerà a dire che « la sua professione è il filoso-
fo » e che la più alta speranza della sua vita è « il riuscire a
veder chiaro nel campo filosofico ». Dall'altro, in un brano
scritto due anni dopo (nel 1939) ma riferentesi a un episodio
accaduto su per giù nel periodo dei passi appena citati, narran-
do gl'incontri e le discussioni col « Poeta » (Umberto Saba),
scrive: « Un giorno mi domandò a bruciapelo: ' ! cosl sicu-
ro, lei, di essere sano? E perché fa filosofia? '. Da quel gior-
no, io non faccio più filosofia ». Da allora - egli spiega -
ha cambiato mestiere, e avendo cambiato mestiere si sente più
libero. Non ha più orrore per le scienze naturali né il bisogno
di scrivere difficile: « La parola ' empirico ' non è più per me
un insulto. E da quel giorno non mi entra più in testa che cosa
significhi l'Universale». Forse si tratta soltanto di una questio-
ne di parole e di diversità di accento: tra la filosofia che inten-
de professare dopo essersi liberato dalla filosofia dei filosofi e la
non filosofia cui giunge, messo a nudo dalla domanda del poeta,
c'è una certa parentela, forse sono la stessa cosa. :f: comunque
un modo di pensare in cui « empirico » non è più un insulto.
La vecchia lezione degli empiriocriticisti, che è poi la lezione, si
badi bene, donde sono nati il neo-empirismo del Circolo di
Vienna e il radicalismo contemporaneo, che non si sa più se
dire ami-metafisico o ad.dirittura anti-filosofico, ha dato i suoi
frutti.
Tornando un poco indietro, alla critica di Croce, l'insod-
disfazione nasceva, si è detto, non dai singoli concetti ma dal-
l'ordine in cui erano stati collocati. Andando alla ricerca di un
nuovo ordine dovette balenargli l'idea che il problema stesso
dell'ordine fosse un problema mal posto. Esiste davvero un or-
dine? Prima di escogitare un nuovo ordine, come hanno di
solito fatto i filosofi, non sarebbe il caso di domandarsi se un
ordine qualunque esista? O se, al contrario, questi elementi che
il filosofo cerca invano di comporre in un ordine « possano
vivere cosl separati, paralleli, autonomi, senza svilupparsi ne-
cessariamente l'uno nell'altro, senza gerarchie e precedenze?».
Per rispondere a queste domande non vi era forse miglior
banco di prova dell'opera del filosofo che più di ogni altro
213
aveva con maggior rigore scomposto l'universo sin nelle sue più
piccole parti e poi lo aveva ricomposto nell'ordine più perfet-
to: il filosofo della monade e dell'armonia prestabilita.
214
prendendo lo spunto da un'annotazione di Gentile, isolando e
ingigantendo il tema della spiritualità dell'essere, aveva fatto di
Leibniz un idealista avanti lettera. Dopo aver osservato che
nella parte dedicata a Leibniz si trovano continui riferimenti al
pensiero di Barié e in quella in cui Barié espone il proprio
pensiero si ritrovano continui riferimenti a Leibniz, conclude:
(( Per dir subito il nostro appunto principale, avremmo preferi-
to nella parte storica meno Barié, nella teoretica meno Leib-
niz ». Contro la prima interpretazione, quella teologica e tei-
stica, più che le intenzioni o le dichiarazioni contano i fatti,
cioè il tipo di lavoro che egli conduce su un autore « difficilis-
simo » ed « enigmatico », e che consiste prima di tutto in un
esame quanto più ampio possibile delle fonti (più delle fonti
che della letteratura sull'argomento) allo scopo di capire Leib-
niz attraverso Leibniz e non attraverso Gentile o Barié o
Vico.
Beninteso, anch'egli ha in mente, e non può non averla, la
sua interpretazione, la quale, per 4irla in breve, non è quella
idealistica ma non è neppure quella che per reazione all'idea-
lismo e all'immanentismo risuscita e rivaluta il pensiero re.ligi~
so e metafisico del grande avversario di Locke. È un'interpreta-
zione che tende a mettere in rilievo l'intellettualismo radicale
di Leibniz e attraverso questo radicalismo dell'intelletto il suo
anti-misticismo e l'assenza di un autentico spirito religioso. Una
interpretazione che ben si addice a uno studioso, che anche
esistenzialmente ha sempre fatto prevalere i diritti della ragione
su quelli della volontà, e che debutta con un saggio, Di alcune
relazioni fra conoscenza e volontà (1935), volto a respingere il
primato della pratica, in cui va a finire ogni filosofia idealistica
da Fichte a Gentile correndo a precipizio verso l'irrazionali-
smo: uno studioso che insiste sulla non autonomia della volon-
tà rispetto alla conoscenza, e conclude, non a caso, con una
sorta di richiesta di soccorso alla monade di Leibniz. Importan-
te a questo proposito è la prima pagina del primo saggio leib-
niziano che affronta subito il problema del cosiddetto misti-
cismo dell'autore della Monadologia. Vi sono personalità misti-
che e personalità intellettualistiche. A differenza di Cartesio
215
Leibniz è, nel fondo del suo carattere, l'intellettualista più puro,
l'antimistico per eccellenza. Benché i problemi religiosi costituiscano uno
dei suoi interessi preponderanti, non è possibile parlare di una religiosi-
tà leibniziana.
216
ni irrazionalistiche, egli trae la conferma « del carattere intellet·
tualistico della morale leibniziana e della sua lontananza da
ogni atteggiamento irrazionalistico ». Contrariamente a Paolo e
ad Agostino, Leibniz intende la grazia come la disposizione
dell'intelletto umano a conoscere e a godere della bontà di Dio
e ad agire in conseguenza.
217
scientifica., risolutamente anti-metafisica, qual è il positivismo
logico, cui aprono la strada in Italia gli studi di Ludovico
Geymonat; e quella che passa attraverso l'esistenzialismo (Ab-
bagnano, Pareyson, il primo Luporini), che a sua volta, risalen-
do direttamente o indirettamente a Kierkegaard (cui nel 1936
Franco Lombardi dedica un libro rivelatore), si riallaccia an-
ch'essa, come il positivismo, ad uno dei punti di rottura del
sistema hegeliano. La via di Colami è la prima, anche se a
differenza di Geymonat egli la percorre non tanto facendosi
guidare dai filosofi del Circolo di Vienna quanto attraverso uno
studio diretto delle opere di scienziati che hanno rivoluzionato
o stanno rivoluzionando il modo stesso d'intendere la scienza e
la visione scientifica del mondo, rivolgendo una particolare at-
tenzione alla fisica, alla teoria della relatività, e in un secondo
tempo anche alla psicanalisi.
Consapevole della gravità della crisi, egli stesso cerca di
darsene ragione, ricostruendo le varie direzioni prese dal sapere
filosofico e dal sapere scientifico dopo Kant e indicando quale
debba essere, a suo giudizio, l'unica direzione giusta. Questa
ricostruzione viene compiuta sotto forma di apologo, tanto nel-
l'Apologo su quattro modi di filosofare quanto nel frammento
intitolato Programma, di cui occorre cercare la chiave.
Il punto di partenza del pensiero moderno è Kant, il
quale ha fatto accettare alla filosofia la rivoluzione copernicana,
che già la scienza aveva compiuto all'inizio dell'età moderna,
cosl vincendo « l'idolo dell'antropomorfismo », e ponendo limi-
ti rigorosi alla ragione. Nell'Apologo Kant è il vecchio padre,
che ha lasciato ai quattro figli una casa confortevole, sufficiente
alla soddisfazione dei bisogni della vita (il mondo dell'esperien-
za), ma ha nello stesso tempo loro ingiunto di non uscire dalle
mura se non vogliono smarrirsi in una via senza uscita dalla
quale rischierebbero di non tornare più indietro. I quattro figli
rappresentano i quattro modi con cui rispettivamente la filo-
sofia e la scienza successive hanno osservato o trasgredito il
divieto del padre. Dei due figli che hanno obbedito, e non
hanno mai avuto la tentazione di guardare al di là delle pareti
domestiche, l'uno è il positivista (scienziato più che :filosofo),
218
che ha continuato a lavorare all'interno della casa per arricchir-
la ed abbellirla e non sente il bisogno di uscire perché ne è
soddisfatto e non chiede nulla oltre quello che la casa, il mon-
do fenomenico, che egli scambia per il mondo reale, gli offre.
Il secondo è il filosofo idealista, che resta, sl, dentro la casa,
come il positivista, ma, a differenza del positivista che è pago
di quel che vi trova e altro non chiede, costruisce una bella
teoria filosofica per sostenere che la casa è tutta la realtà e che
al di fuori della casa non c'è assolutamente nulla, trasformando
in tal modo una saggia regola di comportamento (il comando
di non uscire) in una fantastica visione del mondo, un metodo
in una nuova metafisica (l'immanentismo). Entrambi hanno ob-
bedito al padre, ma proprio perché hanno obbedito non hanno
fatto fare un passo avanti al pensiero umano. Ormai la loro
strada è bloccata. I figli prediletti sono quelli che hanno disob-
bedito. Di questi, l'uno è l'irrazionalista, cui il divieto di non
uscire è uno stimolo per infrangerlo: fa una breccia nel muro,
scompare per qualche tempo e quando torna proclama che il
mondo è dei forti, dei temerari, & coloro che sono disposti a
mettere tutto in gioco (qui l'allusione a Nietzsche è trasparen-
te), anche se poi rimane nei fratelli il dubbio se sia riuscito vera-
mente nel suo intento o non scambi in buona o mala fede le
proprie immaginazioni per una realtà che non esiste. L'altro è
il neo-positivista che ha del positivista l'amore per la ricerca
delle cose concrete ma insieme ha dell'irrazionalista un'insazia-
bile curiosità per il nuovo, con la differenza che ha capito che
il nuovo non si conquista buttandosi all'avventura fuori dal mu-
ro ma studiando attentamente come il muro sia fatto per vede-
re se non sia possibile demolirlo e costruirne uno nuovo. Que-
st'ultimo soltanto è quegli che ha imparato la lezione di Kant, e
che, proprio perché non gli ubbidisce passivamente, fa avanzare
il pensiero umano,
Colorni aveva letto la Critica della ragion pura, com'egli
stesso racconta, all'inizio della sua passione filosofica, e se n'era
compenetrato tanto da non soffrire un filosofo come Nietzsche.
Solo dopo qualche anno avrebbe cominciato ad ammirare anche
il profeta di Zarathustra.
219
Non parla mai di Hegel: la 6loso6a di Hegel gli è estra-
nea, come quella che non permette sortite. Se si può identifica-
re la filosofia cl.i Hegel con l'atteggiamento del secondo figlio, è
certamente quella che gli è più lontana: non è né l'umile lavo-
ro dell'artigiano né la folle avventura di chi tenta nuove strade.
L'atteggiamento verso il quale vanno le sue preferenze è una
combinazione di positivismo e di irrazionalismo. All'università
aveva avuto tra i suoi maestri un kantiano come Martinetti. Fu
attratto dai due caratteri fondamentali della filosofia kantiana:
la critica della metafisica e il rigorismo morale, in altre parole
il relativismo in teoretica e l'assolutismo in etica. Tanto da
considerarsi, tenuto conto dei tempi e delle nuove condizioni
del sapere, un kantiano. Assumere come punto di partenza la
.filosofia di Kant voleva dire porsi in una prospettiva storica
completamente diversa da quella consueta allora (ed anche og-
gi) in Italia, che posticipa il momento della svolta a Hegel, il
quale avrebbe compiuto quella rivoluzione dalla trascendenza
all'immanenza che Kant aveva preannunciata ma lasciata a metà
strada. Secondo questa prospettiva, le varie direzioni della 6lo-
so6a contemporanea sorgono non già dalla continuazione del
kantismo ma dalla dissoluzione dell'hegelismo (si pensi alla for-
tuna che ha avuto in Italia il testo canonico di questa interpre-
tazione, Von Hegel bis Nietzsche di Karl Lowith, apparso nel
1947). Mentre nella prospettiva hegeliana tutto il corso succes-
sivo della filosofia viene interpretato come una rivolta contro
Hegel, come la conclusione della filosofia classica giunta al suo
compimento, e le varie correnti cl.i pensiero, positivismo, Kier-
kegaard, Marx, Nietzsche, come i vari modi in cui la filosofia,
l'ultima filosofia, si può convertire in non-filosofia, nella pro-
spettiva kantiana, adottata da Colorni, l'idealismo e la filosofia
classica tedesca, anziché essere il momento culminante della
storia della filosofia, sono una delle possibili strade che si erano
aperte dopo la critica kantiana, e fra tutte una delle più infe-
conde, se non la più infeconda, perché cl.i tutte è quella più
chiusa ad ogni ulteriore sviluppo. Ancora: a differenza di quel
che accade nella prospettiva hegeliana, in cui viene assunto
come punto cl.i riferimento non il momento della svolta e quin-
220
di del cominciamento di un nuovo processo, ma il momento
della conclusione, non la rivoluzione, si direbbe in linguaggio
politico, ma la restaurazione, i personaggi positivi della pro-
spettiva kantiana sono coloro che hanno disobbedito e disob-
bedendo hanno dato origine ad altre rotture, non gli obbedienti
che con la loro osservanza hanno arrestato lo sviluppo del
pensiero: insomma, in un'atmosfera satura di conformismo i-
dealistico, com'era quella in cui Colorni cominciava a scrivere,
l'apologo del padre e dei quattro figli è un elogio dell'anticon-
formismo, un omaggio all'illuministico e kantiano sapere
aude.
Infine, anche rispetto alla collocazione e alla valutazione
delle diverse correnti della filosofia contemporanea, le due
prospettive non potrebbero essere più diverse. Si osservino le
due coppie: positivismo-idealismo da un Iato, irrazionalismo e
neo-positivismo dall'altro. L'idealismo non è più, come nella
vulgata idealistica dominante allora in Italia, l'opposto del po-
sitivismo, ma ne è l'irrigidimento e la deformazione speculati-
va. L'irrazionalismo non è l'antagònista del sapere scientifico,
ma è soltanto l'ipertrofizzazione filosofica, e quindi una falsa
assolutizzazione, di quell'atteggiamento iconoclastico di fronte
alle verità ricevute senza il quale non vi è progresso scientifico
(non ci sarebbe stata la più sconvolgente delle scoperte scien-
tifiche, quella della psicanalisi, senza il nietzschiano rovescia-
mento di tutti i valori).
Balza agli occhi che in questa interpretazione che Colorni
dà dello sviluppo del pensiero filosofico dopo Kant non c'è
posto per il marxismo (mentre nella prospettiva hegeliana il
marxismo diventa uno dei momenti cruciali del dopo-Hegel). Il
discorso su ciò che sopravvisse del marxismo teorico in Italia
durante il fascismo è ancora da fare. Ma in generale si può dire
che sopravvisse poco o nulla: non solo per motivi polizieschi,
come si sarebbe indotti a credere, ma perché il marxismo si era
venuto identificando sempre più dopo la rivoluzione d'ottobre
e dopo Stalin con la dottrina ufficiale dello stato sovietico e
sembrava non dovesse più interessare i filosofi e in genere
coloro che volevano ancora pensare con la loro testa. Sta di
221
fatto che i giovani della generazione di Colorni, nonostante il
fascismo e la sua anti-cultura, apersero le finestre verso tutti gli
orizzonti della cultura del tempo: solo verso il marxismo, o
meglio verso quella dottrina o catechismo che in quel tempo
era diventato il marxismo, queste finestre rimasero quasi com-
pletamente chiuse. Nell'ambito dell'opposizione interna, il pri-
mo ed unico tentativo eh 'io ricordi di discussione filosofica di
Marx e del marxismo fu fatto da Guido Calogero con un corso
di lezioni all'Università di Pisa che tra l'altro si riallacciavano
ad alcuni dei più importanti motivi della critica al marxismo di
Croce, e, riprendendo la discussione di fin di secolo nel seno
dell'incipiente idealismo, cioè della « nuova filosofia », tende-
vano a negare ogni valore al marxismo in quanto filosofia,
lasciandolo volentieri a coloro che venivano chiamati spregiati-
vamente i « marxisti teologizzanti », e a salvare di Marx o
l'ideale etico-politico o alcune scoperte metodologiche e scien-
tifiche, che non avevano niente a che vedere con quella filo-
sofia, anzi vi contrastavano 11 • Se un elemento costante c'era
stato nella critica al marxismo da parte della filosofia italiana,
dopo Croce, con l'eccezione di Rodolfo Mandolfo, esso era
consistito nella negazione del marxismo come filosofia, con la
conseguenza che, nonostante tutto il rilievo che ad esso doveva
essere attribuito nella storia politica e sociale dell'ultimo seco-
lo, esso veniva totalmente espunto dalla storia della filosofia.
All'infuori dell'ortodossia dei comunisti correva nella rultura
antifascista, non soltanto italiana, l'idea del superamento del
marxismo, di cui si era fatto eco lo stesso Carlo Rosselli in
Socialismo liberale, apparso a Parigi nel 1930.
222
Kant aveva applicato alla matematica. Ma l'importanza di Kant
non consiste tanto nelle singole scoperte quanto nella scoperta
del metodo che ha permesso alla scienza successiva di passare
di scoperta in scoperta. « Egli ha messo in mano ai suoi con-
temporanei ed ai posteri una specie di metodo intellettuale-mo-
rale per diventare scopritori scientifici». Da Kant insomma si
diparte non tanto una nuova filosofia quanto una nuova « di-
rettiva gnoseologica», che permette, mi si passi anche qui una
espressione del linguaggio politico, non la rivoluzione una
tantum ma la rivoluzione permanente. Una volta riconosciuta la
irrealtà delle categorie dell'intelletto, era aperta la strada per
sottoporre a critica radicale tutte le pretese categorie universali
del pensiero. È così che si è venuta a poco a poco scalzando
l'immagine tradizionale del mondo dello spirito. In altre paro-
le: se il primo passo è consistito nel rendersi conto che le
famose leggi della realtà non sono se non forme del nostro
intelletto, il secondo dovrà consistere nel domandarsi se queste
forme siano proprio necessarie o non siano alla loro volta ridu-
cibili ad altro.
I documenti di questa dissoluzione - una dissoluzione
che è insieme innovazione e passo avanti nel dominio dell'uo-
mo sulla natura e su se stesso - sono per Colorai due: la
fisica teorica e la psicanalisi. Non è il caso d'indagare le ragioni
per cui due forme di esperienza intellettuale cosl diverse, come
la fisica teorica e la psicanalisi, si siano trovate a confluire nello
stesso itinerario mentale. Questa confluenza è una prova dello
sforzo che egli faceva per trovare una via d'uscita dall'ideali-
smo ormai imbalsamato, e della direzione presa, che non era
quella del ritorno alla riflessione intimistica, dell'analisi dell'e-
sistenza singola, dell'uomo gettato nel mondo, etc., che era la
via evasiva dell'esistenzialismo (allora a me parve addirittura
un prolungamento del decadentismo europeo), ma quella che
invitava ad avventurarsi nella conoscenza di terre sino allora
inesplorate, e i cui risultati già apparivano, a chi non fosse
obnubilato dalla boria filosofica, ancora imperversante e ottun-
dente, meravigliosi. L'interesse per la psicanalisi si andava
diffondendo proprio in quegli anni in Italia, ed aveva trovato il
223
maggior centro di irradiazione in una città mediatrice come
Trieste, dove erano nate La coscienza di Zeno di Italo Svevo e
le poesie di Umberto Saba (che parla - come si legge nel
brano intitolato Il poeta - « il gergo della psicanalisi»). È
anche lecito fare l'ipotesi che vi fosse piombato dentro irresi·
stibilmente per la tendenza fortissima, già rilevata, alla intro-
spezione, che Io spingeva a cercare di veder chiaro dentro se
stesso con assillanti analisi tra il crudele e l'ironico: si veda,
ad esempio, la critica che egli fa dell'imperativo categorico
(eppure se non si tenesse conto della forza dell'imperativo ca-
tegorico, il significato della sua vita e della sua morte sarebbe
incomprensibile). Ciò che fisica teorica e psicanalisi hanno in
comune è l'essere protagonisti, forse i maggiori protagonisti, se
pure in diversi campi, del processo di dissoluzione, o di
« sbloccamento », com'egli talvolta dice, e con ciò di distruzio-
ne, dell'immagine tradizionale della filosofia.
Ora, ciò che la psicologia e l'antropologia cercano di fare per le
categorie morali ed affettive, la matematica e la fisica lo hanno già fatto in
modo molto esauriente per le categorie più tipicament~ conoscitive.
224
osservarla da tutte le parti, né di abbandonarla andando in cerca di altre
sostanze che si possano considerare più semplici; ma effettivamente di
scomporla, e ricomporla poi mediante gli elementi cosl ottenuti. Sol
quando siamo padroni dd suo processo formativo, e lo possiamo ripete-
re, influenzare, modificare, prevedere, a nostro piacere, solo allora pos·
siamo dire di conoscerlo veramente. Conoscerlo, anzi, non significa, in
questo caso, altro che questo; esserne padroni.
225
ad esplorare Ia psicanalisi per vedere se era possibile darsi una
ragione di quelle stesse convenzioni che poniamo alla base dei
nostri procedimenti razionali. Non siamo in grado di giudicare
quale sarebbe stato l'esito di questa irrequietezza intellettuale
che lo aveva indotto ad andare sempre più in là, in un'opera
che tendeva con inesorabile lucidità alla distruzione dell'imma-
gine mentale e morale del mondo quale era stata ereditata dalla
filosofia e dalla scienza ottocentesca. Possiamo intravedere, se
non la meta, il cammino attraverso le pagine in cui egli smonta
con il gusto di un enfant te"ible alcuni concetti tradizionali
della filosofia, come apriori e aposteriori, razionale ed empirico,
costante universale, legge naturale, esperienza, causa, etc. Quale
fosse il grado di consapevolezza cui era giunto in questo lavoro
di riflessione sulla scienza, si può ricavare dal Programma di
una rivista di metodologia scientifica, che io propongo di con-
siderare una sorta di conclusione, non solo in ordine di tempo
ma anche in ordine ai concetti, di una ricerca purtroppo in-
compiuta.
Il progetto della rivista, per la cui pubblicazione intercor-
sero trattative senza esito con l'editore Einaudi, fu discusso
lungamente, in tutti i particolari (struttura, orientamento, casa
editrice, collaboratori, etc.) con Ludovico Geymonat, durante
l'anno di confino a Melfi (1942): la direzione avrebbe dovuto
essere affidata ad Antonio Banfi; l'uscita era stata prevista per
la fine del 1943. Esso rivela non solo una piena maturità e una
perfettamente raggiunta chiarezza d'intendimenti, ma anche la
salda convinzione che onnai la strada giusta era stata trovata.
Ed era una strada di cui si intravedeva soltanto l'inizio e che
avrebbe dovuto condurre molto lontano. Non ho bisogno di
sottolineare la novità del progetto in un ambiente culturale
come quello italiano, e la preveggenza di cui il suo autore dava
prova. Si dia un'occhiata ai nomi dei filosofi e degli scienziati
cui la rivista avrebbe dovuto dedicare la propria attenzione.
Sono nomi ailora in gran parte sconosciuti o dimenticati dalla
filosofia ufficiale del tempo, e saliti invece in gran fama, anche
se non duratura (qui il discorso non riguarda più il nostro
autore ma la nostra cultura), subito dopo la Liberazione.
226
Con la distinzione fra filosofia e scienza, corrispondente
alla distinzione fra possesso della verità e padronanza dei vari
procedimenti di ricerca, e con la risoluzione dell'interesse origi-
nariamente filosofico nell'interesse esclusivo per l'analisi di
questi procedimenti, cioè per la metodologia, Colami dava il
colpo di grazia alla filosofia nel senso tradizionale della parola.
E cosi facendo anticipava (non possiamo dire « apriva la stra-
da » perché le sue pagine più significative rimasero allora inedi-
te) l'esplosione metodologica degli anni intorno al 1950.
Della definitiva liquidazione della filosofia il documento
conclusivo è il primo dei Dialoghi di Commodo, intitolato Del-
la lettura dei filosofi: nondimeno questa liquidazione non ha
niente a che vedere con quella più consueta dello scienziato
puro, o meglio dello scientista (impersonato dal primo interlo-
cutore), il quale non sa che farsene della filosofia perché il lin-
guaggio dei filosofi è astruso e i loro ragionamenti sono pieni
di petizioni di principio. In fondo, Io scienziato rifiuta la filo-
sofia perché non la capisce, perché come soleva dire Salvemini
(che non cito a caso, perché nell'interlocutore scientista è
raffigurato Ernesto Rossi, il di lui allievo prediletto), la filosofia
è un filtro alla rovescia, dove le idee entrano chiare ed escono
scure. Commodo, cioè Colami, vuole invece avanzare l'idea che
la filosofia sia da rifiutare perché, dopo aver fatto ogni sforzo
per capirla, ci si rende conto che è un fatto personale e che
i filosofi sono gente impegnata a far propaganda di certe loro
faccende personali, che sono, in fin dei conti, sempre: le stesse: una
volta si chiamavano « esistenza di Dio,., « immortalità dell'anima» etc.
Oggi si chiamano « spirirualità dell'essere"'• « autonomia delle leggi mo-
rali »oche so altro.
227
sembra sia, per quanto ancora in fasce, la psicanalisi). Ancora
una volta la colpa (ma è per Colami una felice colpa) sarebbe
di Kant, il quale ha segnato limiti perentori (che peraltro non
sono stati rispettati) alla nostra ragione e le ha precluso il
campo tradizionale su cui la filosofi.a d'ogni tempo aveva esteso
il proprio dominio cartaceo. In realtà, la considerazione del
ragionamento 61osofi.co come « razionalizzazione » di più o me-
no oscure impressioni della coscienza ha più di Freud che di
Kant e fa pensare se mai alle « derivazioni » di Pareto {fa
pensare, dico, perché nessuno in quegli anni, tranne Ernesto
Rossi, uno degli interlocutori, conosceva il Trattato di socio-
logia generale).
228
che hanno e serbano 1a sua impronta. Insomma l'uomo trova
nella natura ciò che vi ha messo: e invece di dire che la natura
è una creazione dell'uomo preferisce sostenere che l'uomo è
una creatura della natura (e per di più di una natura benefica).
Anche in questo caso per chiarire il pensiero dell'autore
possiamo servirci di un apologo (La nostra immagine), che ci fa
assistere ai dubbi che assalgono il padre di un bimbo appena
nato, il quale si domanda se davvero tutto ciò che accade
durante la nascita sia « cosl armonico, coerente, economico»,
come si è portati a dire nell'impeto della sorpresa, o se, invece,
a pensarci bene, le cose non avrebbero potuto andare altrimen-
ti, con maggiore semplicità o minor dispendio di energie. Siamo
generalmente portati a non porci il problema perché, avendo
bisogno di ordine ((( l'uomo non ha gli organi adatti per conce-
pire il disordine »), vediamo ordine dappertutto, e vediamo
solo ordine perché l'ordine ci può servire, il disordine no. Cosl
arriviamo alle radici della illusione finalistica:
Si tratta di vedere se sia stata la. natura a congegnare le sue leggi
in modo conforme ai bisogni dell'uomo; o se non è piuttosto l'uomo,
che si è servito di un certo numero di cose secondo i propri bisogni,
ordinandole a suo modo.
229
Uno dei dialoghi di Commodo è dedicato alla discussione
cli questo problema. Escludere l'intrusione delle cause finali
quando è in questione la natura, va bene: ma quando è in
questione l'uomo, la cui azione cosciente è determinata da fini?
La conclusione cui sembra giungere Commodo (in cui è raffigu-
rato l'autore) nel dibattito con Severo, sostenitore della tesi
che la conoscenza storica è irriducibile a quella scientifica, è che
se la storia ha da essere scienza e nella misura in cui si propo-
ne di costituirsi, al pari di ogni altra scienza, come sistema di
prevedibilità, essa non può fare a meno cli eliminare le cause
finali: « Generalmente- egli osserva - si considerano tanto più
finalistiche e antropomorfiche le cause, quanto meno sono sicu-
re; cioè quanto meno sono cause, quanto meno sono utili alla
scienza ». Ciò non toglie che vi sia un'altra forma di conoscen-
za storica, che non ha affatto l'intendimento di prevedere il
corso delle azioni di questo o quell'individuo, di questo o quel
gruppo sociale, ma tende unicamente a penetrare, a immedesi-
marsi, nell'azione altrui per trarne suggerimenti utili alla prati-
ca, in conformità del principio che bisogna capire gli altri per
capire se stessi. L'organo di questo modo di fare storia non è
l'intelligenza con tutti i suoi strumenti di misurazione e di
verifica, ma l'amore, un modo di presa non intellettivo ma
affettivo. Amore e previsione sono incompatibili:
230
Chiamiamo attività finalistiche quelle in cui entra un elemento affettivo
rivolto verso gli altri o verso se stessi o verso le generazioni avvenire, o
verso le passate, o che so io.
231
del monista, che non può pensare ad un mondo diviso senza
esserne turbato e sentirsi diviso in se stesso, e invoca, in nome
dell'unità del tutto, la categoria della « totalità» e vi si acco-
moda (si pensi alla polemica riaccesasi in questi ultimi anni per
opera di Adorno e degli adorniani contro Popper), tra intellet-
tualismo astratto e decisionismo (o irrazionalismo) pratico.
232
rivolta alla presunzione dell'economista, che crede acriticamente
nella scientificità dei suoi procedimenti. Nell'uno e nell'altro
caso la critica è esclusivamente metodologica. Nel caso specifico
dell'economia, la critica, sulla cui acutezza e attualità credo sia
superfluo richiamare l'attenzione del lettore di oggi, riguarda
principalmente la illusione dell'economista intorno alla purezza
deduttiva dei suoi ragionamenti, e il disprezzo alimentato da
questa illusione per la (( penombra psicologica»: Commodo
cerca di dimostrare che questi ragionamenti non sono né puri
né deduttivi oppure sono puri e deduttivi solo in quanto sono
stati arbitrariamente eliminati i dati empirici (specie i dati psi-
cologici sulla natura dell'uomo), che peraltro una volta cacciati
dalla porta rientrano dalla finestra, e ci fanno scoprire che le
pretese leggi naturali dell'economia sono tutt'al più leggi stati-
stiche e probabilistiche, né più né meno delle leggi fisiche. Solo
in un punto la critica sfiora i riflessi politici dell'impostazione
teorica, là dove Commodo osserva ironicamente che per gli
economisti puri l'ideale sarebbe che i fatti sottostessero alle
(presunte) ferree leggi dell'economia, mentre agli uomini non
importa nulla « di vivere in un mondo accessibile a solide e
pulite generalizzazioni e previsioni», perché « desiderano [. .. ]
mangiare bene, vestire bene, divertirsi, istruirsi, espandere la
propria personalità, etc.». Ma il tema appena sfiorato è subito
abbandonato: a Commodo e ai suoi amici interessa la critica
scientifica, non la critica politica dell'economia. Oggi può sem-
brare ovvio che una critica scientifica dell'economia non possa
andare disgiunta da una critica politica e ancora più ovvio che
una critica politica dell'economia non possa non condurre, tan-
to chi lo idoleggia quanto chi lo lapida, a Marx. Ma l'autore
del Capitale è completamente al di fuori, come si è detto,
dell'orizzonte di Colami e dei suoi amici. Certa.mente lo hanno
letto; ma al momento di servirsene, lo hanno lasciato fuori
della porta. Il che può sembrare tanto più strano per un 6losc,
fa che è in politica un socialista militante, e per di più, come
appare dagli scritti politici che precedono il suo arresto, e
quindi il confino dove avvengono i Dialoghi, un socialista rive,
luzionario.
233
Senonché, Colorai è politicamente un uomo d'azione, im-
pegnato in un dibattito sul « che fare » piuttosto che sul « che
cosa e come conoscere ». E d'altra parte il marxismo in Italia è
stato troppo spesso un prodotto libresco, un luogo d'incontro e
di scontro di filosofi. Il primo marxista italiano dopo la Libera-
zione, Galvano Della Volpe, non proviene dalle fila dell'anti-
fascismo militante e della Resistenza. Oltretutto il marxismo
dell'epoca staliniana è diventato una dottrina, un sistema di
formule o di parole d'ordine da applicare rigidamente alle varie
situazioni secondo direttive che vengono dall'alto: non è, co-
m'era stato negli anni della lotta politica prefascista e come
sarà dopo la restaurazione della libertà, un metodo critico. Nul-
la quindi di più estraneo ad un orientamento mentale che è
indirizzato, come si è visto, verso la critica epistemologica.
Per un uomo come Colorai, la politica è azione ed è
azione guidata, più che da una dottrina o da una concezione
generale della società, da una scelta etica, ancora una volta da
un imperativo categorico, com'è del resto in un Ginzburg e in
un Pintor. Croce avrebbe detto: dalla coscienza morale.
« Imperativo categorico», « coscienza morale», parole o-
scure, o peggio suggestive, di cui è inutile andare a cercare il
significato con gli strumenti affilati della critica e della psicolo-
gia. Non si verrebbe a capo di niente: si capisce sin dall'inizio
che a un certo punto ci si deve fermare se non ci si vuol
perdere in meandri da cui è difficile tornare a vedere la luce
del sole. Ma non abbiamo per ora altre parole a nostra disposi-
zione per farci capire (eppure, nonostante la loro ambiguità che
farebbe inorridire un analista del linguaggio, ci capiamo benis-
simo). Colorni mette in bocca a un interlocutore di uno degli
ultimi dialoghi, il Dialogo della morte, queste parole spietate,
ironiche, liberatrici:
234
che ti arricchisca lo spirito ed allarghi la mente. Ora questi, in 6n dei
conti, sono tuoi fatti personali.
235
NOTE
R. DP.
5
::i:~s~or1!
19721, pp. 267-268.
<;t!/:n!b~e:'1::i::: f,:~:o,c~olfuo~a~
6 Vedi citazione riportata nella nota 4.
7 P. Go11Ern, AI nostro posto, in « Rivoluzione liberale•, I, n. 32, 2
novembre 1922, ora in Scritti politici, a cura di P. Spriana, Torino, Einaudi,
1960, p. 419.
1 Recensione a M. Ascou, La giustizi4, in « Civiltà moderna», II, 1930,
p. 1223.
~ E. CoLORNI, L'estetica di Benedetto Croce. Studio critico, Milano, »
cietà editrice « La cultura•, 1932, p. 8.
IO Jbid., p, 87.
u Questo saggio fu primamcnte pubblicato sotto forma di dispense col
236
1i~4't ~~:x 0
in allib':1:t"::c:1~ Ì~ ;!~;JodeU,e~o2!!8fa e~i",:~ìs~o.pi~
La Nuova halia, 1944.
0 0
237
CAPITOLO X
239
nonché conclusiva, per ampiezza di temi e ricchezza ,li svolgi-
menti, e larghezza dell'orizzonte spirituale che essa abbr~ccia e
lascia intravedere (opera d.ifficile, da ristudiare, o meglio, da stu-
diare, perché il pensiero di Capitini non è stato ancora decifra-
to). Capitini non fu e non volle essere un filosofo nel senso
scolastico o, peggio, professionale della parola. Ma non fu sol-
tanto un religioso o un moralista. Rispetto alle due maggiori
personalità religiose presenti e operanti nella storia della spiri-
tualità italiana di questo secolo al di fuori della chiesa-istitu-
zione, cui egli stesso si paragona (e questo paragone è a mio
avviso giustissimo e illuminante e meriterebbe di essere appro-
fondito) 2, Ernesto Buonaiuti e Piero Martinetti, egli fu meno
filosofo del secondo, ma più filosofo del primo.
Gli anni in cui egli colloca il suo tirocinio filosofico, dal
1933 in poi, sono gli anni in cui l'idealismo, filosofia dominan-
te da alcuni decenni, giunge estenuato ai suoi stessi discepoli
che credendo di rinnovarlo lo travolgono. Nello stesso anno in
cui appaiono gli Elementi, il più fedele degli allievi di Gentile,
Ugo Spirito, scrive un libro (La vita come ricerca, 1937) in cui
converte lo spiritualismo trionfale del suo maestro nel proble-
maticismo, cioè in una filosofia della crisi. Sono gli anni in cui
coloro che si danno agli studi filosofici (essendomi laureato in
filosofia nello stesso 19 3 3 parlo più da testimone che da stori-
co) cercano altre strade, la fenomenologia, l'esistenzialismo, il
neo-positivismo del Circolo di Vienna. Ho già detto altrove
(sono costretto a ripetermi, ma il discorso su Capitini mi offre
l'occasione di una singolare conferma) che nel decennio tra il
1930 e il 1940, nonostante il fascismo che culturalmente non
conta nulla, fanno la loro apparizione nel nostro paese le cor-
renti filosofiche che terranno il campo dopo la Liberazione, ad
eccezione del marxismo, rispetto al quale l'ostracismo è più
rigoroso (il primo marxista della nostra generazione, Galvano
Della Volpe, anche lui in cerca d'una via d'uscita, scrive in
quegli anni un libro su David Hume) 3• Da un lato Geymonat
e Colomi, il filone della filosofia scientifica; dall'altro Abbagna-
no, Paci, il primo Luporini, il filone dell'esistenzialismo. Come
al tempo della crisi della grande filosofia sistematica di Hegel,
240
quell'hegelismo minore che fu l'idealismo italiano si rompe in
due direzioni opposte, verso la scienza (il nuovo positivismo) o
verso la riscoperta di un'esperienza religiosa, se pure nella for-
ma di una teologia rovesciata, com'è l'esistenzialismo di Hei-
degger. Non posso non andare- con la mente alle parole di
Nietzsche: « Che cosa è il filosofo? Al di là delle scienze:
liberazione dalla materia. Al di qua delle religioni: liberazione
dagli dèi e dai miti ». Ovunque il sistema filosofico, qualunque
esso sia, si dissolve, tornano alla ribalta affrontandosi o allean-
dosi l'al di qua delle scienze e l'al di là della religione, il
sistema astratto e l'anti-sistema, l'inteilettualismo e l'irraziona-
lismo.
La rottura capitiniana avvenne dalla parte dell'al di là
della filosofia. In una storia del pensiero per linee molto gene-
rali potrebbe essere compresa nell'orizzonte dell'esistenzialismo,
anche se si sia trattato di una convergenza oggettiva, e, se mai,
con riguardo all'Italia, di un'anticipazione, non certo di una
consapevole derivazione (i primi libri italiani dichiaratamente
esistenzialistici sono La struttura dell'esistenza di Abbagnano e
La filosofia dell'esistenza e Carlo Jaspers di Pareyson, rispetti-
vamente del 1939 e del 1940). Più tardi egli stesso avvicinò la
sua « esperienza religiosa » a quella di Kierkegaard, che peral-
tro quando scrisse il suo primo libro non aveva letto 4 • L'unico
autore citato negli Elementi che possa essere fatto rientrare
nella letteratura esistenzialistica è Nicola Berdiaeff, il quale era
letto in quegli anni, anche dallo stesso Capitini, come uno
scrittore politico, specie per il suo libro Cristianesimo e vita
sociale, apparso nel 1936.
Non si può negare che nel modo con cui Capitini affron-
tava il problema della crisi spirituale del proprio tempo, e
dell'esigenza di un impegno personale, intimo, radicale, nella
ricerca di una soluzione che non poteva essere soltanto sociale
o politica, e tanto meno soltanto istituzionale, vi fosse una
vena del più genuino esistenzialismo. Quando egli scrive « l'es-
senza della religione è la coscienza appassionata della finitez-
za » 5, introduce uno dei motivi più profondi e più esaltati
dell'esistenzialismo (com'egli stesso riconoscerà in tempo di
241
esistenzialismo trionfante), mettendo però l'accento non tanto
sul sostantivo «finitezza» quanto sull'aggettivo « appassiona-
ta» 6 , per segnare quel che lo distingue, la tensione verso il
superamento del limite, non la sua accettazione, l'andare al di
là verso il tu di rutti, non il restare dentro la siruazione tanto
da non intravedere, come accade appunto all'esistenzialismo,
« la realtà liberata ».
Se di un suggerimento esistenzialistico si può parlare, bi-
sognerà andarlo a cercare in colui che fu chiamato un esisten-
zialista ante litteram, Carlo Michelstaedter, morto adolescente
nel 1910, di cui doveva essere ancora viva la presenza nell'U-
niversità di Pisa attraverso l'insegnamento di Vladimiro Aran-
gio-Ruiz, che ne era stato l'amico e l'editore. Il quale è subito
citato all'inizio degli Elementi:
Carlo Michelstaedter, alla fine del primo decennio di questo seco-
lo, dopo aver sentito come forse nessun a1tro la romantica riduzione di
tutto a se stesso, si uccise per possedersi, per consistere, per sottrarsi ad
ogni dominio e realizzarsi perfettamente. Egli scontò cosl con la sua vita
serissima tutta una civiltà 7.
242
largo consumo, questa distinzione fra persuasione e retorica
rivivrà nella contrapposizione heideggeriana tra esistenza auten-
tica ed esistenza inautentica. Chiunque abbia una certa familia-
rità con gli scritti di Capitini sa che uno dei termini-chiave del
suo linguaggio personalissimo è « persuasione », che sta per
« credenza » o per « fede » (il bel capitolo autobiografico con
cui ha inizio il libro Religione aperta è intitolato La mia per-
suasione religiosa), onde « persuaso », parola da lui usatissima,
equivale a « credente ». Egli stesso ne riconosce la derivazione
da Michelstaedter:
... del quale mettevo in rilievo, anche in una conferenza che tenni
a Firenze, la «persuasione» (un termine che ho assunto, preferendo
«persuaso» a «credente», persuaso nel senso di « autopersuaso », quasi
di «pervaso»), l'antiretorica, quel tipo di esistenzialismo, che poteva
divenire supremo impegno pratico [ ... ] : insomma mi pareva es arto con-
siderarlo come la premessa di una tensione etico-religiosa 10 .
morte?» 11 •
Questa osservazione è molto importante, perché ci mostra
entro quali strettissimi limiti si possa parlare di esistenzialismo
a proposito di Capitici. L'esistenzialismo, specie nella sua ver-
sione heideggeriana, era una filosofia della crisi (del decaden-
tismo, come dicevo allora), che rifuggiva dal mondo perché non
era in grado, nonché di trasformarlo, neppure di comprenderlo.
Era una filosofia non politica per eccellenza o del rifiuto della
politica degradata a mondo della « cura » per la sopravvivenza
con cui l'uomo condannato ad esistere cerca di sfuggire all'an-
goscia di fronte al nulla che lo circonda o al Dio che è sempre
al di là. La filosofia di Capitini era all'opposto una filosofia
sociale, o meglio comunitaria, la cui categoria essenziale non
era la «cura» (la Sorge heideggeriana), ma la tensione (o lo
slancio, con altra parola tipica del suo linguaggio) verso l'altro,
243
verso gli altri, verso il tu di tutti, ove la finitezza non è un
limite invalicabile, un limite sentito come una colpa oscura da
cui non è possibile riscattarsi, ma come la condizione per cui
non possiamo fare a meno degli altri, e dobbiamo cercare di
vivere, secondo un'espressione leopardiana che Capitini usa
spesso, « confederati ». (Nobile natura è quella che « tutti fra
sé confederati estima gli uomini e tutti abbraccia con vero
amor ... »). Ove insomma la finitezza non è una situazione limi-
te, ma una situazione aperta, anzi il punto di partenza verso
l'apertura infinita al Dio del mondo, cioè di quel Dio che vive
nella comunità, capitinianamente, nella « compresenza» dei vi-
vi e dei morti.
Ho citato di proposito Leopardi, non solo perché fu uno
degli autori di Aldo, ma perché Leopardi, molto più di Kierke-
gaard, offrl spunti e temi in quegli anni all'esistenzialismo ita-
liano (sia ricordato per tutti il libro di Cesare Luporini, allora
vicino al gruppo capitiniano, Situazione e libertà nell'esistenza
umana, del 1942, che contiene alcuni richiami a temi leopardiani,
come quello del tedium vitae). Aldo dal canto suo si definl un
po' paradossalmente, con quel gusto che gli era proprio di
rompere gli schemi canonici della filosofia accademica, « kantia-
no-leopardiano» (sul <e kantiano» diremo fra poco) 12 • Dei
principali temi della sua filosofia riteneva di aver trovato una
espressione poetica nell'autore della Ginestra: oltre quello
della unità di tutti gli esseri viventi contro la natura matrigna,
quello della compresenza dei morti nei famosi versi a Nerina:
« Ogni giorno sereno, ogni fiorita / piaggia ch'io vedo, ogni
goder ch'io sento, / dico: Nerina or più non gode; i campi, /
l'aria non mira». Ispirato a Leopardi è il capitolo di Vita
religiosa intitolato L'oriuonte 13 (e curiosamente il tema dell'o-
rizzonte è anche un tema esistenzialista, un tema strettamente
connesso a una filosofia della finitezza, come ben sa chi conosce
la filosofia di Jaspers, e l'importanza che vi ebbe in quegli anni
la prima traduzione di un suo libro, Existenzphilosophie, in cui
uno dei temi centrali è quello dell'Umgrei/end, tradotto in
italiano « orizzonte comprendente »). In una filosofia del finito
l'orizzonte è una metafora quasi obbligata: esso è infatti la
244
rivelazione di ciò che è finito, perché, per quanto si allarghi,
non cessa mai di avere un limite, ma nello stesso tempo, rin-
viando continuamente a quello che è al di là, è il segno o la
« cifra » attraverso cui si rivela l'infinito. Quella che per Leo-
pardi era la « ... siepe, / che da tanta parte dell'ultimo orizzon-
te il guardo esclude», in Capitini sono in quel capitolo « le
finestre da cui si vede una patte dei monti», e, al di là delle
« torri » e delle « cime » si può scorgere « tutta la linea fra la
terra e il cielo ». Beninteso, per la stessa ragione per cui Capi-
tini lambisce l'esistenzialismo ma non è esistenzialista, cosl as-
sume alcuni temi leopardiani ma non è leopardiano (se non
negativamente): l'infinito di Leopardi è il mare in cui è « dolce
naufragare», è un momento del contemplare; per Capitini
l'infinito viene vissuto nella compresenza, diventa atto pratico,
un momento della « prassi » religiosa. Egli paragona l'orizzonte
della natura a quello della storia da cui contempla e rivive
tutto il passato e rivivendolo non lo sente più come passato, e
nel fare (non nel semplice contemplare) l'orizzonte è già supe-
rato. La conclusione che egli traè dalla contemplazione della
linea che separa il cielo dalla terra (fuor di metafora lo spirito
dalla materia) non è soltanto una conclusione esistenziale, come
quella di Leopardi, ma è una conclusione filosofica: « Giove e
gli angeli sono svaniti ».
Certamente, tanto l'esistenzialismo quanto la filosofia di
Capitini, hanno una matrice religiosa: ma la religiosità esisten-
zialistica (da Kierkegaard a Heidegger) è di origine protestan-
te ed. è ispirata ad una concezione pessimistica dell'uomo; la
religiosità di Capitini è, nonostante il suo aggressivo anti-catto-
licesimo istituzionale, di ispirazione cattolica (parlo della spiri-
tualità cattolica, che guarda alle opere più che alla fede, non
alla chiesa come istituzione). Invero, dal punto di vista della
negazione radicale di ogni istituzionalismo, Capitini fu non me-
no anti-cattolico che anti-protestante, e non può essere compre-
so se non inserendolo nella storia delle sette non conformiste,
che predicano il ritorno alle origini - di quelle sette in cui Pie-
tro Martinetti in quegli stessi anni, scrivendo Gesù Cristo e il
cristianesimo (1934), vedeva trasmesso e conservato in ogni
245
epoca storica lo spirito genuino del messaggio cristiano - e che
sole propugnarono come genuinamente cristiano, sempre avver-
sate dalle chiese che dovevano venire a patti col mondo, il
tema capitiniano quant'altri mai della non-violenza. Chi volesse
approfondire l'antitesi fra l'antropologia pessimistica dell'esi-
stenzialismo e quella ottimistica di Capitini dovrebbe fare una
rassegna dei temi esistenziali che si trovano ripetuti nelle sue
opere. Sono temi in genere diametralmente opposti a quelli
esistenzialistici, perché richiamano l'attenzione sull'aspetto chia-
ro non su quello oscuro dell'esistenza umana: la gioia, la festa,
la coralità, l'amicizia, la vicinanza, l'aggiunta, l'apertura, la leti-
zia, il tu dato a tutti, anche ai morti (« Non sai quanto mi ha
atterrito la vista dei morti; mi sono schiarito pensando che
potevo dire 'tu'») 14 •
Se per quel che riguarda l'esistenzialismo si è potuto par-
lare di convergenza, si deve parlare invece di appropriazione e
superamento rispetto all'idealismo o meglio allo storicismo,
filosofia dominante nella cultura italiana, con la quale la nostra
generazione fu l'ultima a dover fare i conti, con un misto di
amore e odio, di accettazione e ripulsa, che ha marcato (o
marchiato) tutta la nostra vita intellettuale e ci ha segnati come
una generazione di mezzo travagliata e divisa, più ricettiva che
creativa, instabile e inquieta perché in continua ricerca della
propria identità (che non è mai riuscita a trovare). Parlo di
superamento e non di rifiuto, perché l'altra filosofia, la filosofia
data per morta e quindi rifiutata, era per Aldo la filosofia della
trascendenza, che poneva Dio fuori del mondo, non già lo
~toricismo, filosofia dell'immanenza che aveva fatto discendere
Dio nella storia, l'universale nel concreto. Rispetto alla filosofia
della trascendenza, lo storicismo segnava, per Aldo, un passo
avanti, che non permetteva ritorni o salti all'indietro nel tem-
po. Capitini insomma accettava la lezione dell'idealismo, ma
non se ne accontentava. L'idealismo era un passaggio obbliga-
to; ma appunto un passaggio, non un punto di arrivo. La
superiorità dell'idealismo rispetto alle filosofie tradizionali stava
nel fatto che esso aveva posto o riposto il soggetto, intendi il
soggetto concreto umano, il soggetto finito-infinito, al centro
246
del mondo e della storia, era una filosofia del soggetto. In
questo modo Capitini accettava pienamente la definizione che
l'idealismo dava di se stesso. Nell'estrema espressione di questa
filosofia che era, secondo un giudizio che egli divideva con
tutta la filosofia immediatamente post-idealistica, l'attualismo
gentiliano, il soggetto si risolveva tutto quanto nell'atto con cui
poneva e riproponeva se stesso: una filosofia che usciva dal
tronco dell'idealismo non poteva essere che una filosofia dell'at-
to. Non solo dunque idealismo, ma, più specificamente, attua-
lismo. Lo stesso Capitini confessa:
Quanto all'Atto di Gentile io sono tra quelli che hanno sentito il
fascino di quel concentrare tutto qui, per tutto rifare in un tota1e
impegno. Non la sommersione delle distinzioni o quei logicismi che
ricadevano su se stessi, ma la forza di quell'eticisrr.o (o tensione religio-
sa, teogonica) ha operato su molti 15 .
247
teismo o pan-logismo in un pan-personalismo (la parola è mia).
Per passare dal pan-teismo al pan-personalismo occorre una
tensione religiosa, che l'idealismo nel suo giustificazionismo
storico non conosce. Occorre insomma, con tipica parola capiti-
niana, un'aggiunta. Nell'ultima opera, che, come ho già detto, è
certamente l'opera filosoficamente più impegnativa, egli svilup-
pa il tema del raffronto tra «aggiunta» e «dialettica». La
dialettica è un movimento che si chiude su se stesso, è la
logica, lo dico con parole mie, di un sistema che, per quanto
dinamico, è chiuso. In altre parole, la dialettica spiega tutto ma
non trasforma nulla. Per trasformare il mondo occorre rompere
questo movimento che si chiude su se stesso: solo l'aggiunta
religiosa può operare questa rottura.
Noi non diremo che l'essere singolo a cui volgiamo il tu è morto,
perché rosi voleva la dialettica del reale. Né che la realtà liberata verrà
necessariamente dopo che il Male si sia sfrenato come in un regno
dell'Anticristo; ma che la realtà liberata si aggiungerà dal di dentro 17 •
O ancora:
Per Hegel l'insufficienza dei singoli elementi viene colmata nel
nesso di questi con il Tutto; qui [nella filosofia della compresenza] la
constatazione della insufficienza fa porre le aperture pratiche religiose
alla compresenza 19.
248
ancora una volta che anche in questa fase egli non si ferma
all'esistenzialismo perché non ne accetta i tratti irrazionalistici.
Per quanto possa sembrare strano in un pensatore religio-
so come Capitini, la critica di Hegel non lo conduce affatto a
Kierkegaard ma gli fa ritrovare Kant. Non è improbabile che
ad attrarlo verso l'autore della Religione nei limiti della sola
ragione fosse stata la monografia kantiana di Martinetti, usci-
ta postuma nel 1947, e che egli cita nella Compresen1.ll 20 •
All'opposto degli idealisti che avevano visto in Kant il primo
anello dell'idealismo tedesco, Martinetti aveva inseguito ed e-
sposto in vari scritti una sua interpretazione metafisica e reli-
giosa dell'etica kantiana. L'interpretazione capitiniana di Kant
si svolge nella stessa direzione, e se mai con maggiore insisten-
za sulla dimensione religiosa, tanto da costituire uno dei mo-
menti culminanti e anche più originali del dialogo che Capitini
tesse e ritesse instancabilmente coi grandi filosofi. Mentre He-
gel fa discendere l'universale nel mondo e ve lo rinchiude,
Kant ha sempre lo sguardo volto all'altro mondo, al mondo
noumenico, che è rivelato all'uomo dal dovere morale. Certo,
con Hegel « Dio scendeva a toccare la terra e a trasformare gli
eventi». Ma:
pareva più religioso il Kant, il quale, pur con l'astrattezza e la
lontananza e la chiusura adialettica e ontologica del suo Dio, poteva
[ ... ] conservare il dramma della realizzazione dell'assoluto come dovere,
come valore, come aspirazione, tensione 21 •
Oppure:
Il Kant, col suo non risolversi interamente nella storia, finiva per
intravedere una storia ulteriore, quando la destinazione umana [. .. ] sia
attuata sulla terra; cioè intravedeva un concreto modo di essere del
reale migliore del modo di realizzarsi che appare attualmente 22 •
E ancora:
Malgrado tanto hegelismo nell'aria, e nel nostro sangue, nelle
strutture e nella storia d'oggi, noi ci collochiamo in una situazione che è
più simile a quella del Kant: il Kant aveva davanti l'empirismo, e non
si stancava di aggiungere elementi formali, universali, intelligibili; noi,
raggruppando le posizioni che troviamo secondo la comune origine di
249
posizione della «vita», di chi è vivente, ci troviamo ad aggiungere la
compresenza. Il risultato è che, mentre lo Hegel, con il movimento
dell'Idea giustificava l'evento, anche la morte, noi, con l'aggiunta della
prassi della compresenza (che è incondizionata), tendiamo a trasformare
l'evento, e quindi a vincere la morte 23 •
250
Dio di giustizia:
La connessione a priori del destino dei vivi e dei morti nella
compresenza (creazione corale dei valori) fuga la tentazione di descrivere
il trascendente e di ristabilire i due piani al modo platonico, e soppri-
me la tentazione di stabilire un giudizio, un merito distinto, secondo il
modo di vedere l'individuo, che è stato il punto di partenza greco-uma-
nistico: l'ammettere una infinita cooperazione con i morti fa saltar via
il giudizio, e porta l'escatologia qui veramente nella coralità del valore
e nella possibilità della trasformazione della natura. Se si vuole, si può
dire, con tutte le riserve fatte, che questo è il motivo hegeliano di
discesa dell'elemento ideale nel mondo, che viene realizzato con la
compresenza, ma non naturalisticamente, accettando l'evento della morte,
bensl escatologicamente, con indirizzo alla liberazione, alla trasformazio-
ne della natura 26 •
251
genza religiosa non basta una concezione dialettica, perché « se
la storia considera l'opera operata, la vita religiosa, soprastoria
e sottostarla che sia, volge un divino tu alla persona, per una
libera aggiunta, per un'iniziativa di più, che si alimenta anche
della continua e disdplinatrice esperienza dei valori ». E con-
clude:
E allora la mia apertura d'animo ad una vecchia povera, dalla
faccia magra e che oramai ha appena il fiato per respirare, il mio
interioriz.zamento della sua esistenza, che par da poco, può importarmi
più che non lo stabilire la positività dell'opera dei Gesuiti.
252
bile nell'esperienza, direbbe il Kant [ ... ] Il Kant direbbe: col tuo atto
morale tu costituisci la persona, tua e altrui, come razionalità; che
perciò non è percepibile sensibilmente, non è cosa che si veda con gli
occhi o si tocchi con le mani Jl.
253
della realtà, filosofo è colui che ricorrendo a Dio, o alla Storia,
cerca di giustificarla e, se non può giustificarla, l'accetta. Il
persuaso opera per mutarla:
Davanti ad un semplice essere vivente, per esempio una piccola
pianta, se pensiamo all'Essere, sentiamo la sua inadeguatezza, la sua
« limitatezza metafisica», e non possiamo fare altro; se tendiamo alla
Prassi, abbiamo la fiducia che nella realtà di tutti sia fondata anche la
pianta, che essa sia recuperata, abbia una sua destinazione, perché nel-
l'apertura pratica pura c'è anch'essa, e la Prassi non rischia il nulla,
perché la compresenza connette vivi e morti 35 •
254
Però, anche il marxismo è pur sempre soltanto un umanesimo.
Manca ad esso, come a tutti gli umanesimi precedenti, da He-
gel a Croce, la tensione religiosa. Solo cosi si spiega che possa
riporre la speranza di salvezza in una classe economica, che, per
quanto costituisca la grande maggioranza degli uomini, non
rappresenta tutta intera l'umanità. Per il persuaso religioso
« oppresso è un salariato, ma oppresso, in questa realtà di fatti,
è anche il condannato alla pena capitale, il nato cieco, il mor-
to» 38 • Come umanesimo, il marxismo resta nei limiti dello
storicismo, e dell'hegelismo: è un hegelismo condotto alle sue
estreme conseguenze, ma è pur sempre .hegelismo.
I proletari prenderanno il potere tenuto dai borghesi; ma lo
eserciteranno come lo esercitavano i borghesi, con gli stessi modi di
governo? Questo è ciò che unisce hegeliani e marxisti, malgrado le
polemiche interne. Lo Hegel doveva aspettarsi questa utilizzazione e-
stremamente realistica del suo «spirito»; ma poteva anche esser certo
che uno stato sorto su ques1a utilizzazione realistica non si sarebbe
molto diversificato dallo stato sorto sul suo modo d'intendere lo Spiri-
to 3':1.
255
sapere della guerra, conoscere direttamente il dolore e insistentemente,
soffrire l'esaurimento, l'insonnia, la fragilità fisica, sperimentare il male
morale, non accettare la violenza, interessarsi ai singoli, vivere in pover-
tà, tendere ad associarsi per lottare politicamente, sono cose che possono
essere anche in una persona senza speciale cultura, e loro mi hanno
condotto ad una vita religiosa 41 •
256
In un altro punto precisava:
La prassi non è essa sola la distinzione tra compresenza e stori-
cismo, ma oltre la prassi c'è un diverso concetto di essere. E il punto
che sto studiando da mesi. Mi pare di essere sulla via di chiarirlo.
257
NOTE
_..,.
senu del
vembre 1
presenza, I
i. noo
l'atto di non uccisione; tra la tendenm al teocentrismo e la tendenza ad una
realtà religiosa, realtà di tutti; tra la registrazione della contrapposizione al si-
stema del pensiero soggettivo e appassionato nel diario, e la celebrazione negli
Atti ~e1i;::f1rT:,~:~:: ~~;/01:~°B:n~\:::.~ i9t·, 7J: 45.
6 « Nei miei Elementi di un'esperie,iu religiosa (1937) ho scritto cl,e
la coscienza appusionata della finiteu.a è il superamento di essa; ma il mo-
f:1sf%e sl~ :i ~:i: ~~b~:uana:i~ ~e!.èd~~Te ~::n~n:u~~i 0
258
sono anch'io (ma non muovo da me, muovo da tuni) ,.., (Il f.anciullo nelld
fibmuione dell'uomo, Pisa 195), p. 115).
1 ElemenJi di un'esperienxa religiosa, cir., p. 10.
a Il fanciullo nelf,a liber/Wone delf'uomo, cit., p. 116.
'C. MlCHELSTAl!DTl!.I, UI pers,usione e la retorica, in Opere, FlttDU:,
Sansoni, 1958, p. 65.
10 Antifascismo tra i gUWIJIJi, Trapani, c.dcbcs, 1966, p. 53.
Il La compresen%/J dei morti e dei viventi, Milano, Il Saggiatore,
1966, p. 51.
12 Sul lcopardismo di C.Spitini ho già richiamato l'attenzione nella mia
Introduzione a Il potere di tutti, in questa stessa raccolta.
LJ Vit4 religios.i, Bologna, Cappelli, 1942, pp. lJ.16.
14 Alti dell.i presen%1J .ipert.i, Firenze, Sansoni, 1943, p. 91.
15 Educ.azione .iperJ4, dr., voi. I, p. 9. Analogamente: .., La celebrazione
gentiliana dell'unità dello Spirito, in cui si risolve ogni distinzione, dette alla
sua concezione una cena genericità che, se da un lato evirava il volo basso e
minuziooo del positivismo e dello psicologismo, non superava a volte il ver•
balismo, la retorica, l'impazienza dell'attenzione alle particolarità concrete. Tale
concentrazione sull'Atto, sulla sua unità, sul suo generarsi come teogonia, con
un indubbio carattere romantico e mistico, aveva un notevole fascino, che
toccò molti dopo la scarsa suggestione delle applicazioni positivistiche; e
finch~ si risolveva in una difesa e sviluppo della libertà, fu anche assunta da
coloro che non se la sentirono affatto di seguire poi il Gentile nel suo statalismo
e Sl;Operto autoritarismo ,i, (Nel primo ventennio del secolo, in Educ'1%ione
.ipert.i, cit., II, pp. 29-30).
16 Saggio sul soggeUo dell.i stori4, Firenze, La Nuova Italia, 1947, p. 2:S.
11 La compresen%1J dei morti e dei viventi, cit., p. 109.
18 lbid., p. 27.
w lbid., p. 149.
lD lbid., pp. 233 e 236.
21 Il f.inciullo nell.i liber/lVone delf'uomo, cit., p. 86.
22 lbid., p. 97.
23 La compresenxa dei morti e dei viventi, cit., p. 223.
l4 Questo passo è citato sia ne Il f.inciullo nell.i liber/Wone dell'uomo,
cit., p. 87, sia, per ben due volte, ne UI compresen%1J dei morti e dei viventi,
cit., pp. 121 e 22:S.
li La compresen%1J dei morti e dei viventi, cit., p. 225.
m Ibid., p. 232.
27 Storicismo usoluto, «Letteratura,.., gennaio-marzo 1941, 6 (estratto).
21 Le pagine dedicate da C.Spitini a Croce sono innumerevoli, più nume-
rose di quelle dedicate a qualsiasi altro filooofo. Da vedere il ritratto di Croce
nd saggio Il periodo dell'opposizione al fucismo, in Edu,:.irione .ipert.i, cit.,
II, pp. 33-38, e le considerazioni sull'inB.ucnza di Croce nella cultura italiana,
in &petti dell'opposirione etico.culturale al fucismo, in Educ.izio"e apert.i, II,
pp. 64-66.
29 La compresenu dei morti e dei viventi, cit., p. )04.
lO ]biti., p. 67. Ndl. discussione che segui alla lettura di questo di-
scorso alla Scuola Normale di Pisa, Remo Bodei richiamò la mia attenzione
sul crociano Fr.immento di etic.a, intitolato J tr.ipllSSllli, che è forse il mi•
glior commento che si possa citare alla frase capitiniana, secondo cui per
Croce i morti sono ben morti: .., Che rosa dobbiamo fare degli estinti~ ,..,
Croce domanda, e risponde .., Dimenticarli ,._ Anche cerando che i morti non
siano morti .., cominciamo a farli effettivamente morire in noi •. Cosl, nd tener
viva e nel continuare l'opera loro ce ne distacchiamo sempre più, onde .., con
la nostra vita ulteriore, seppelliamo per la seconda volta i n05tri moni, che
già una prima volta ooprimmo di terra,. (in Etica e politica, che cito dalla
tc17.a edizione, Bari, Latcrza, 194:S, pp. 26-28).
31 La comrese"Vl dei morti e dei vivrnti, cit., pp. 41-42.
l2 Ibid., p. 131.
:u Educazione aperta, cit., I, p. 17.
34 Religione aperta, Guanda (ma stampato a Pisa), 19,:,:, p. 121.
lS La compresenVI dei morti e dei tJitJenti, cit., p. 216.
36 Nella Introduzione, cit.
n Religione aperta, cit., p. 184. t questa l'opera in cui Capitini espone
ron maggi.ore ampiezza la sua posizione di fronte al marxismo (vedi pp. 183-
193). Ma vedi anche Educazione aperta, cit., pp. 70-74.
38 Religione aperta, cit., p. 188.
lii La compresenlil dei morti e dei tJiventi, cit., p. 173.
40 Religione aperta, cit., p. 191.
41 Ibid., p. 4.
42 L, compresenu dei morti e dei tJÌtJenti, cit., p. 28.
260
CAPITOLO XI
261
l'amabile e nobile guida che riconduceva in seno alle gioie
familiari, a riscoprire la messa, il culto, la festa cattolica, la
morale tradizionale, unite all'esercizio della cultura e della let-
teratura », e commenta: « ... e chi non lo ama e non si com-
muove per questo? ». Ma subito dopo rileva che avrebbe dovu-
to avere maggior rigore e « soffrire più vivamente delle situa-
zioni di insufficienza. Bisognava aver capito che cosa c'era in
quelle chiese al cui suono di campane si confortava la coscienza
travagliata dell'Innominato» 4 • Di tutti il più vicino è Leopar-
di: in un brano autobiografico dice di essere stato sin dai primi
anni kantiano-leopardiano 5 • Lo reputa spirito religioso, più re-
ligioso, dice a ragione, di Croce, perché la protesta contro la
morte è più religiosa della sua accettazione. Croce è greco-eu-
ropeo, è teso ai valori che si realizzano nel mondo; Leopardi è
aperto, oltre ai valori, alle persone, ai morti 6 • Leopardi espri-
me la tensione al valore che è sempre al di là dell'avara realtà
(« Dalle mie vaghe immagini/ so ben ch'ella discorda») 1 ; ha
intuito negli splendidi versi in cui rievoca Nerina il senso della
« compresenza » 8; ha intravisto nell'unità degli esseri viventi
(« tutti fra sé confederati estima») un modo di combattere la
Natura matrigna 9• Ma Leopardi è un romantico e i suoi limiti
sono i limiti del romanticismo, in cui dolore e morte sono, sl,
presenti ma non riscattati, partecipati ma non riabilitati, soffer-
ti ma non risolti.
Rispetto all'educazione filosofica, anche Capitini passò, co-
me tutti i suoi coetanei, attraverso l'idealismo italiano. Accetta
la contrapposizione della filosofia moderna alla filosofia antica e
medioevale, che è propria dell'idealismo. Dalla consuetudine
con le opere dei nostri idealisti, trae una solida convinzione
immanentistica contro la vecchia trascendenza di un Dio fuori
del mondo, da contemplare, da adorare e da servire; accoglie
dallo storicismo l'idea fondamentale che la storia è il regnum
hominis, e la realtà, se è storia, è creazione continua dell'uo-
mo; condivide l'interpretazione della filosofia moderna come
filosofia del Soggetto, in contrasto con le filosofie oggettivisti-
che dell'antichità, e intende muovere verso la comprensione e
la trasformazione della realtà mettendosi dal punto di vista del
262
Soggetto; infine prende le mosse dall'atto anziché dall'evento o
dai fatti, dall'atto inteso gentilianamente come principio e ini-
ziativa assoluti. Si vede bene dalle frequenti citazioni che le
opere di Croce furono tra le sue letture predilette: ripete in
più luoghi che Croce gli ha ispirato la dottrina dei valori (an-
che se non è d'accordo sul valore dell'economico o del vita-
le) 10• Ma lesse e assimilò anche Gentile, che pur è raramente
citato 11 •
Eppure non è né idealista né storicista; né crociano né
gentiliano. Anzi la sua prima opera, gli Elementi di un'espe-
rienza religiosa, che è del 1937, ove sono già chiaramente deli-
neati i temi principali delle opere successive, è uno dei primi
documenti del declino dell'idealismo che ha inizio appunto in
quegli anni. (La vita come ricerca di Ugo Spirito è dello stesso
anno, La struttura dell'esistenza di Nicola Abbagnano è del
1939). Idealismo, storicismo, soggettivismo, attualismo gli
offrono armi critiche per liberarsi dalle filosofie incompatibili
con la propria visione del mondo. Ma questa muove verso altra
direzione, che non è l'accettazione, bensl il rifiuto della realtà e
della storia, non la conciliazione col mondo, bensl la lotta per-
petua contro di esso, non la giustificazione per insediarvisi,
bensl la continua messa in questione per mutarlo. Quando si
avvicinò a Croce, egli confessa, era « da molti anni un libero
religioso, implicitamente un kantiano con una prevalente atten-
zione alla finitezza dell'uomo» 12 • Certo, la posizione immanen-
tistica è superiore a quella delle filosofie della trascendenza; ma
l'immanenza che egli ha in mente non esclude ma include la
presenza di Dio Il. Dopo aver eliminato il vecchio dualismo,
bisogna, per non allentare la tensione verso l'infinito, « dualiz-
zare l'immanenza» 14. Lo storicismo ha eliminato la falsa ten-
sione dell'uomo verso una natura esterna ed immobile; ma
rischia di allentare ogni tensione, e di diventare una filosofia
dell'appagamento 15 • Il pensiero romantico, da Fichte a Gentile,
ha spostato il centro della filosofia dall'oggetto al soggetto; ma
questo soggetto è un io grande, un io con la i maiuscola, pur
sempre un io, non la totalità dei soggetti concretamente ope-
ranti alla cui collaborazione si deve la creazione dei valori 16 •
263
Infine, per quanto sia importante l'insegnamento di Gentile che
ha portato « il Tutto a gravitare sull'atto del Soggetto », fuori
dell'unità con gli altri, con tutti, l'attualismo rischia continua-
mente, a causa del suo orientamento individualistico, di cadere
nelle braccia del misticismo o del solipsismo 17 •
Mentre la filosofia italiana è dominata da Hegel, il pensie-
ro di Capitici si volge, sin dai primi anni e con sempre mag-
gior consapevolezza e forza di convinzione col passar del tem-
po, verso Kant 18 • La filosofia di Hegel rappresenta la celebra-
zione del sistema chiuso su se stesso. In Kant, invece, c'è il
primato della morale, la tensione verso l'ideale che è la vera
realtà anche se irraggiungibile (il Sollen che Hegel irrideva) 1\
una concezione pura ed alta, non mitica, della religione. Con
Hegel tutti i conti sono ormai regolati: quello che ha dato ha
dato. Il colloquio con Kant, invece, continua ed è sempre i-
struttivo. A Kant si possono chiedere, se pur con qualche for-
zatura, persino conferme di posizioni raggiunte da ben altre
sponde: in uno dei capitoli più ardui e più arditi dell'ultima
opera filosofica, Capitini vuol mostrare che in Kant v'è un'anti-
cipazione della teoria dell'« aggiunta». Per concludere: « Mal-
grado tanto hegelismo nell'aria, e nel nostro sangue, nelle
strutture e nella storia d'oggi, noi ci collochiamo in una situa-
zione che è più simile a quella di Kant » 20 • Hegel ha interpre-
tato la realtà attraverso la legge della dialettica, cioè dello
svolgimento attraverso contrasti, della nascita che prende il
posto della morte in un processo senza fine e senza direzione.
Ma per chi voglia non già contemplare la realtà ma trasformar-
la, occorre altra legge, che è quella dell'incremento per aggiun-
ta: è la differenza tra la semplice presenza e la« compresenza».
Non diremo più che « la realtà liberata verrà necessariamente
dopo che il Male si sia sfrenato e sfogato come in un regno
dell'Anticristo; ma che la realtà liberata si aggiungerà dal di
dentro» 21 •
Capitini dunque è passato attraverso l'idealismo ma non
vi si è fermato. Già nella prima opera affiorano, se mai, motivi
esistenzialistici, come quello della « coscienza appassionata del-
la finitezza » 12 , da cui egli fa scaturire la prima fonte della
264
esperienza religiosa. Un tema capitiniano, come quello della
finitezza, non può non far volgere lo sguardo verso il primo
esistenzialismo, di cui si comincia a parlare proprio in quegli
anni in Italia. Ma un influsso diretto è fuor di questione:
l'unico autore, citato negli Elementi, che si possa far rientrare
nella schiera esistenzialistica, è Berdiaeff 2J. Più che di un in-
contro, si tratta di una convergenza, di una consonanza, di una
comune percezione e interpretazione della grande crisi spiritua-
le e sociale che investe l'Europa. Solo qualche anno più tardi,
quando ormai l'esistenzialismo è dilagato e non si può non
accorgersene, Capitini cercherà di fissare alcuni caratteri pecu-
liari della propria posizione rispetto a quella di Kierkegaard 24 •
Ma non bisogna trascurare una fonte rimasta per lo più segreta
di un filone genuino di esistenzialismo italiano, Carlo Michel-
staedter, che egli cita per la di lui esperienza esemplare sin
dalle prime pagine degli Elementi zs, e dal quale trae una delle
espressioni più pregnanti del suo personalissimo linguaggio filo-
sofico-religioso (((persuasione») 111 ,
Sarebbe del resto fuor di luogo cercare di capire Capitini
attraverso la filosofia (tanto meno attraverso la letteratura).
Capitini non è e non vuole essere un filosofo. Egli si serve
della filosofia ma non tende alla filosofia. E non comincia ne~
pure dalla filosofia: il suo maestro non fu - come egli ebbe a
dire - questo o quel grande filosofo, ma la vita pratica, l'at-
tenzione posta alla reale, vissuta, sofferta insufficienza dell'uo-
mo, non a quella descritta nei testi 27 • Legge e discute i filosofi;
ma mira a trasformare il mondo, non a interpretarlo. Tentando
di definire la propria posizione parla di (( misticismo pratico » 28 •
Il concetto di ((prassi» è uno degli elementi fondamentali del
suo pensiero più maturo. Egli mette continuamente l'accento
sul bisogno di azione, di formare gruppi attivi che compiano
azioni sociali. Si compiace più della propria attività di organiz-
zatore che di quella di scrittore. Anche l'opera apparentemente
più teoretica è in realtà un programma pratico. Uno dei suoi
libri più importanti, Religione aperta, termina con un capitolo,
intitolato Che cosa fare?, in cui dopo aver detto che (( tutto il
265
libro è di pratica », parla delle proprie iniziative nel campo
religioso e sociale 29 •
Allo stesso modo che, pur intrattenendo per tutta la vita
un colloquio serrato coi grandi filosofi del passato e del presen-
te (da Platone a Dewey), scrive libri che non sono di filosofia,
egli è, sl, uomo d'azione, ma non è un politico. Si agita in
perpetuo moto per suscitare e guidare azioni che entrino nella
politica e compromettano i politici; affronta, non soltanto a
tavolino ma organizzando azioni collettive, problemi politici,
dal decentramento amministrativo alla riforma della scuola e
dell'esercito, dalla crisi della democrazia rappresentativa alla
pace mondiale; discute appassionatamente e instancabilmente i
grandi temi della convivenza civile, fascismo e antifascismo,
comunismo e anticomunismo, imperialismo e pacifismo, capita-
lismo e socialismo. Ma non fa mai, nel senso proprio della
parola, politica. Cercare di capire la personalità di Capitini
muovendo dalla politica, sarebbe altrettanto sbagliato, quanto
cercare di interpretare il suo pensiero partendo dalla filosofia.
Ma anche per questo il collocarlo al posto giusto nella nostra
storia nazionale è, come si diceva all'inizio, piuttosto arduo.
Non ci soccorrono le solite etichette filosofiche, come idealismo,
esistenzialismo, spiritualismo, ma neppure le solite etichette po-
litiche, come liberalismo, socialismo, comunismo. Partecipa alla
lotta antifascista: anzi è uno dei protagonisti della resistenza
interna. E inventa una nuova formula: liberalsocialismo. Ma
nel momento in cui i suoi compagni confluiscono in un nuovo
partito (il Partito d'Azione), non vi aderisce e preferisce far
parte per se stesso. Spiegherà poi che il suo liberalsocialismo
era l'insegna non di un partito in nuce, ma di un movimento
etico-religioso, che mirava ad un rinnovamento più profondo,
non soltanto sociale ma morale, cui non sarebbe stato adatto
un partito 311• Pur non condannando i partiti, la sua utopia è lo
stato senza partiti, una « nuova socialità », in cui la partecipa-
zione dei cittadini alla discussione e alla decisione dei problemi
collettivi sia tanto intensa da non rendere necessaria I'interme-
diazione di gruppi organizzati. I partiti esistono per il potere:
la conquista del potere è il loro assoluto, il fine di cui essi
266
sono il mezzo n. Al partito egli contrappone il « centro » che è
non societario ma comunitario, non si schiera contro altri parti-
ti, ma si tiene aperto all'iniziativa di tutti, non impone dogmi
ma discute problemi, non conosce privilegi di tessera, né poteri
di funzionari. Una volta chiarita l'incompatibilità delle proprie
aspirazioni con l'adesione ad un partito, amerà chiamarsi, con
appellativi generici che non permettono una classificazione,
« indipendente di sinistra » o « libero religioso ».
Vi sono « liberi religiosi » nella storia d'Italia? Negli scritti
capitiniani ricorrono frequentemente due nomi, il cui accop-
piamento non agevola l'interpretazione di un'opera che, come si
è visto, va oltre la filosofia e la politica: San Francesco e
Mazzini. Dell'uno e dell'altro Capitini cita spesso pensieri che
sono entrati a far parte del suo patrimonio ideale. Francescano
è il considerare come prima e più elementare forma di amore
religioso, l'amore « che muove verso le cose, che tutte sono
sorelle a me come individuo limitato, naturale » 32 • San Fran-
cesco, più moderno di Dante e -di San Tommaso, pone vera-
mente fine al feudalesimo 33 • Reintroduce nella spiritualità cri-
stiana il tema della nonviolenza: il metodo di San Francesco fu
« quello di andare a parlare con i saraceni piuttosto che ster-
minarli nelle Crociate, nelle quali il sangue talvolta arrivava ai
ginocchi » 34 • Contrappone alla chiesa come istituzione una reli-
giosità fondata sull'« interiorizzazione umana della divina tra-
gedia » 35 • Il Mazzini che Capitini ammira - il che spiega
perché lo si trovi in compagnia di San Francesco - è più lo
spirito religioso che non l'uomo d'azione, più il grande educa-
tore che non il politico. Esalta « la sua tensione missionaria e
messianica», « il coraggio di dirsi non cristiano, scisso dal
dogma della caduta, avverso profondamente all'istituzione reli-
giosa tradizionale » M. Parla del mazzinianesimo come della
« più grande eresia dell'Italia degli ultimi secoli» :n («eresia»,
si badi, e non partito o setta). Dedica al Mazzini educatore un
lungo saggio in cui, mettendo l'accento sull'aspetto profetico
del di lui pensiero, cerca le radici della propria ispirazione
etico-religiosa 31 • E vi afferma: « Dopo San Francesco, l'Italia
267
non aveva avuto un cosi alto riformatore, e, possiamo dirlo,
egualmente sfortunato» n_
Eppure tanto San Francesco quanto Mazzini furono trop-
po legati ai loro tempi perché il loro messaggio possa essere
accettato senza riserve anche oggi. San Francesco non è stato, e
non poteva essere, un uomo moderno: è ossequiente all'autorità
sino ad obbedire a un ordine iniquo, crede ingenuamente nei
dogmi e nelle leggende evangeliche che la critica storica ha
sfatate"°. Mazzini intravede la possibilità di una riforma reli-
giosa non disgiunta da una riforma politica ma non ne coglie il
senso profondo - 1a creazione dell'uomo nuovo - e i mezzi
proposti (la cooperativa, la nazione, la federazione) sono inade-
guati 41 • L'eroe dei nostri tempi, per Aldo Capitini, come si
vedrà meglio in seguito, è Gandhi. Ebbene, né San Francesco
né Mazzini reggono al paragone del liberatore dell'India. Nel-
l'apertura del medioevo verso una civiltà nuova, la p0sizione di
San Francesco è simile a quella di Gandhi che è « il tramite
religioso dalla vecchia India all'India democratica ». Ma Gan-
dhi « è più moderno»; in Gandhi, e non in San Francesco,
« che era più medioevale», c'è lo spirito di tolleranza verso le
altre religioni, e, ancor più importante, il senso che ogni lotta
per la libertà è anche una lotta religiosa 42 • Gandhi scosse e
liberò tutto il paese; Mazzini non riusd a formare se non
piccoli gruppi di cospiratori e fu sconfitto O • Il carattere pecu-
liare dell'opera capitiniana risiede nell'unione, meglio nella fu-
sione, di religione e politica. Da un lato la sua politicità è
sempre animata da un affiato religioso: egli non si limita mai
ad agire soltanto politicamente; anche quando entra nel campo
coltivato tradizionalmente dai politici svolge sempre un'attività
che è più che politica, e il « di più » è d'origine e d'ispirazione
religiosa. D'altro lato, la sua religiosità non è mai tanto stacca-
ta dai problemi della convivenza civile da non attraversare con-
tinuamente il dominio riservato ai politici. In una Lettera di
religione svolge il tema del rapporto tra religione e vita pubbli-
ca. Sostiene che « per essere veramente religiosi bisogna passa-
re per la vita pubblica» e commenta: « Se si passa dalla vita
privata alla vita religiosa senza vita pubblica, c'è il pericolo di
268
vivere la religione utilitaria.mente, come superstizione». E là
dove ribadisce il concetto che solo « su una partecipazione alla
vita pubblica sorge la vita religiosa autentica» cita pensieri di
Gandhi, aggiungendo (( in questo più moderno di Mazzini» 44 •
Proprio nell'essere un religioso politico, o un politico religioso,
Capitini può trarre ispirazione da San Francesco e da Mazzini,
ma non può identificarsi né con l'uno né con l'altro (mentre
s'identifica con Gandhi). Forse si potrebbe dire che per lui San
Francesco è più religioso che politico, M!fZZini più politico che
religioso. O altrimenti, il religioso-politico, proprio per il fatto
di essere religioso nella vita politica e politico nella vita reli-
giosa, non è più religioso né politico in senso tradizionale. Ma
San Francesco è ancora troppo ligio alla chiesa per essere un
religioso nuovo, e Mazzini è troppo ligio allo stato e ai mezzi
di cui lo stato si serve per raggiungere i propri scopi (tra cui la
violenza) per essere un politico nuovo.
269
pitini tratteggia il modello ideale di riformatore religioso verso
cui muove appassionatamente tutta la sua opera: per descriver-
lo usa le stesse parole emblematiche che gli soccorrono ogni-
qualvolta espone il proprio programma di riforma religiosa. Il
profeta è « il rivelatore di una realtà assoluta, liberante »; in
lui l'energica suscitazione etica si associa « con la persuasione
di una realtà che si apre, di una tramutazione, di un meglio che
si instaura a conforto eterno » 46 • Il profeta non si presenta
come legislatore ma se mai come eversore delle leggi scritte in
nome di quelle non scritte. A differenza del sacerdote che di-
fende la religione tradizionale 47 , il profeta « nasce con sé e
muore con sé, e vuol morire, scomparire, per lasciar tutto il
posto ai liberati e allo stato festivo della liberazione » 48 • Men-
tre il sacerdote guarda al passato, è un conservatore, il profèta
guarda all'avvenire, è un innovatore. Il momento profetico del-
la storia corrisponde all'età delle grandi innovazioni religiose,
in cui, rotta la crosta delle istituzioni calcificate, irrompono
nella società tradizionale nuove forme spirituali. L'età dei pro-
feti è finita? Dinnanzi alla tremenda crisi delle istituzioni -
chiesa e stato - del nostro tempo, e alla minaccia dello ster-
minio universale, e alla tragica insufficienza delle soluzioni sol-
tanto politiche, non si dovrà cercare una soluzione radicalmente
nuova? E in che cosa può consistere questa soluzione se non
nel tendere tutte le proprie forze per l'avvento di una nuova
età profetica?
Quando espone il proprio pensiero e descrive le proprie
attività, Capitini non usa mai espressioni come « profeta » e
simili. Ma non par dubbio che, introducendo nel proprio di-
scorso l'idea della « tensione profetica », abbia cercato una cate-
goria storica che gli permettesse di acquistare maggioi: coscienza
della propria missione. Quando parla di sé, dd proprio lavoro,
parla, più sobriamente, di « persuasione religiosa », che, nel suo
linguaggio, sta per « fede » o « credenza » «l. Colui che vive nella
persuasione religiosa è un « persuaso ». Il persuaso sta alla reli-
gione profetica come il credente alla religione tradizionale. Ma
il persuaso è qualcosa di più che il credente, perché il suo
270
atteggiamento religioso è attivo, non passivo, e il momento
profetico non è fuori di lui ma in lui: il persuaso è colui che
contribuisce a tener viva la tensione profetica. La descrizione
più compiuta del « persuaso » si legge nella relazione al primo
congresso per la riforma religiosa in Italia (1948):
271
mento profetico nel suo punto culminante: la tramutazione H.
Se per religione s'intende la religione profetica e non qudla
sacerdotale, l'essenza della religione è la tramutazione. Solo
attraverso il concetto ddla religione come tramutazione vengo-
no superate due risposte imperfette al problema del male:
quella tradizionale della trascendenza di Dio, e quella moderna
dell'immanenza senza Dio. La tramutazione religiosa è qualita-
tivamente inconfondibile col mutamento sociale o politico: o-
gni mutamento soltanto politico o sociale lascia in realtà le cose
come sono, rimescola, non trasforma. Non si può pretendere di
tra.mutare il vecchio col vecchio, la legge con la legge, la vio-
lenza con la violenza, il potere con il potere 54 • Occorre uscire
dal circolo vizioso della politica che si avvolge su se stessa. La
religione tramuta perché, non accettando la realtà, vi aggiunge
qualche cosa che non appartiene alla realtà e anzi anticipa una
realtà nuova. Il tema della tramutazione è strettamente connes-
so a quello dell'aggiunta. Sin dalle prime pagine degli Elementi:
« La religione non toglie nulla, ma aggiunge » 55 • Altrove:
272
pensiero non mai sistematico alle grandi categorie crociane del
bello, del vero, del buono (con una riserva esplicita riguardo
all'equiparazione dell'utile o del vitale) 58 , In un passo di
L'atto di educare ne enumera otto senza un ordine apparente
ma anche senza alcuna pretesa di esaurirne l'elenco: la non-
menzogna, l'arte, il tu, la socialità, la religiosità, la liberazione,
l'educazione, la filosofia 59 , In una Lettera di religione analizza
in particolare i quattro valori fondamentali, che sono il vero, il
bello, il giusto, il buono 60• Il tema dei valori serve a far capire
b. contrapposizione tra la realtà negativa (che deve essere rifiu-
tata) e la realtà positiva (verso cui muove l'atto religioso di
tramutazione). Il mondo, cosl com'è, è costituito da una tragica
mescolanza di valori e disvalori. La tramutazione consiste nel
tendere a una realtà in cui non vi siano che atti realizzanti
valori, e ogni disvalore sia scomparso. Questa nuova realtà sarà
la realtà liberata, e ogni atto che tende ad essa e ne agevola
l'avvento è un atto di liberazione. La liberazione avverrà sol-
tanto quanto tutti parteciperanno alla realizzazione dei valori.
L'etica considera la realizzazione dei valori come un fatto indi-
viduale; la religione, come un fatto collettivo o, per usare
un'espressione più incisiva, corale.
Ecco dunque che l'atto religioso di liberazione in quanto
va al di là dell'atto etico comincia con l'apertura verso gli altri,
nel dire il tu, il « divino tu », a tutti gli esseri, uomini e non
uomini (se pur con diverso grado d'intensità), vivi e morti. 1=:
atto religioso perché in questa comunione con tutti vive Dio:
« Migliorando il tu, vivo più Dio » 61 • Il nuovo Dio, s'intende:
il vecchio Dio, potrebbe ripetere Capitini con Nietzsche, è mor-
to. Il Dio della religione tradizionale è l'Uno senza i tutti; il
Dio delle filosofie immanentistiche è l'Uno tutto. Il nuovo Dio
è l'Uno di tutti o in tutti: Capitini dice «l'Uno-tutti». L'Uno-
tutti è il Dio « che sta al punto d'incontro intimo dell'eter-
na presenza di tutti e dell'infinita creazione del valore» 61 • La
categoria per pensare questo nuovo Dio non è più quella del-
l'oggettività ma della soggettività: Dio non oggetto, ma sogget-
to, l'insieme di tutti i soggetti tesi nella creazione di valori.
Dio non da contemplare, ma da vivere, da fare insieme. Dio
273
non lontano ma vicino, non esterno ma intimo. Gli attributi di
questo nuovo Dio sono l'intimità e la vicinanza:
Ancora, Dio non come totalità del mondo, delle cose, Dio
creatore; ma come totalità delle persone, dei soggetti, dei « tu »,
dunque Dio amore. Se l'atto religioso è tensione verso il valo-
re, il valore dei valori in una religione in cui Dio è l'unità di
tutti, è l'amore; attraverso l'amore avviene la partecipazione di
tutti alla creazione dei valori, i valori diventano una creazione
collettiva o comunitaria, anche di coloro che sono morti, anche
di coloro che abbandonati a se stessi sarebbero stati inerti o
addirittura recalcitranti 64 • Capitini usa spesso l'espressione « u-
nità amore» per far capire che l'amore è il veicolo dell'unità:
E più oltre:
274
Come avvenga questa tramutazione è detto spesso indiretta-
mente, analogicamente, attraverso la metafora della musica:
Il valore sale da una presenza corale. Alla musica che ascolto, non
sono presente io solo, ma siamo presenti tuui: essa è il nostro coro fR
275
aperta, rivoluzione aperta, educazione aperta. universo aperto,
apertura dell'anima, apertura verso gli altri, verso la natura e la
storia, al tu, a una realtà liberata aprirsi a tutto e a tutti,
aprirsi come pregare:
Apertura è vita, è maggiore vita, è migliore vita: anche migliore,
perché esiste una doverosa apertura ai valori, alla bellezza, alla bontà,
alla giustizia, all'onestà, alla purezza, alla legge del bene che ci parla e
comanda e ispira - se ci apriamo ad essa - in ogni momento, ed
eleva la nostra individualità che tenderebbe a restar chiusa, sorda, re-
stia: il peccato, in fondo, è chiusura 72 •
276
Rispetto alle domande che cristianesimo e comunismo pongono
all'uomo d'oggi, la risposta del « persuaso », cioè di colui il cui
compito è, come si è detto, di esprimere, di mantener viva e di
mettere in atto la tensione profetica verso una realtà liberata, è
identica, ed è diversa tanto da quelle del cristiano (anche in-
soddisfatto) e del comunista (anche scontento) quanto da quel-
le del non-cristiano e del non-comunista. Non è infatti né la
riforma dal di dentro, l'attesa e la speranza di un rinnovamen-
to, né la negazione, la lotta senza quartiere, dissoluzione e
ritorno, distruzione e ritrovamento. La risposta del persuaso
non è né un sl né un no, ma un sl e un no per andare « al di
là». Capitini non è anticristiano ma neppure un eretico del
cristianesimo; non è anticomunista (tra capitalismo e socialismo
ha scelto il secondo), ma neppure un comunista dissidente. A
differenza del democratico liberale, accetta il comunismo (come
sistema economico fondato sull'eliminazione della proprietà in-
dividuale e dello sfruttamento del non-proprietario), e, a diffe-
renza del comunista non dogmatico,. guarda ad una società ulte-
riore. Si tenga presente la natura fondamentale dell'aggiunta:
aggiungere non è soltanto il contrario di togliere ma anche
qualcosa di più che correggere o riformare. Aggiungere è tra-
mutare, o meglio accettare tramutando. Ciò cui mira il persua-
so non è né un anti- (cristianesimo o comunismo), né un neo-
(cristianesimo o comunismo), ma un post-. Capitini parla ripe-
tutamente, per designare la società futura, di post-cristianesimo
e di post-comunismo 76• Questo ((post-» è estremamente si-
gnificativo: è molto meno che superamento e molto più che
continuazione e rinnovamento dall'interno. Se è vero che il
metter l'accento sul « dopo » è proprio di ogni 6loso6a della
storia, è altrettanto vero che il «dopo» di una concezione in
cui la storia si muove per aggiunte è ben diverso dal « dopo » di
una concezione dialettica o di una concezione evoluzionistica,
dove ciò che viene dopo è già in qualche modo implicito in ciò
che viene prima o per via di antitesi o per via di sviluppo. In
una concezione profetica della storia il futuro è continuamente
da inventare e da promuovere: il futuro non è né la sintesi
dialettica del passato, né un momento successivo di un processo
277
ascendente {o discendente); ma è il radicalmente nuovo, tanto
conoscitivamente imprevedibile quanto praticamente nelle sole
nostre mani 77 •
Per post-cristianesimo Capitini intende una nuova forma
di religiosità adatta a un'epoca in cui, per tante ragioni diverse
- filosofiche, come l'immanentismo, scientifiche, come la demi-
tizzazione e la critica dei testi scritturali, sociali e politiche,
come il contatto con altre tradizioni religiose diverse da quelle
occidentali - , siamo costretti, invertendo il celebre detto del
Croce, a riconoscere che non possiamo più dirci cristiani. Il che
non significa anti-cristiani: il cristianesimo ha pur sempre man-
tenuta viva, nel suo seno, ora più ora meno, una corrente di
religione aperta. E, d'altra parte, non v'è religione non cristia-
na che non si sia rappresa in una chiesa. La « religione aperta »
abbraccia tutte le religioni storiche e tutte le travalica, le assi-
mila e le tramuta: più che una riforma di una religione è una
riforma del modo d'intendere e di praticare la religione. Nella
relazione al I Congresso per la Riforma religiosa in I tali a
(1948), sostenne che sono possibili attualmente tre riforme,
quella cattolica, quella protestante e quella sociale {comunista);
ma sono tutte e tre insufficienti. « ~ necessario che vi siano
cattolici per la riforma, protestanti per la riforma, socialcomu-
nisti per la riforma, è necessario che vi siano persuasi strenua-
mente che le tre riforme sono insufficienti » 78 • Si osservi anco-
ra una volta l'equiparazione di movimenti religiosi e di movi-
menti politici. Quasi si sarebbe tentati di dire che l'insufficien-
za delle religioni è di natura essenzialmente politica e sociale,
nel senso che danno maggior rilievo agli atti esteriori di devo-
zione, che non alla vicinanza ai sofferenti e agli oppressi, ed
abbisognano quindi di una maggiore apertura sociale; al contra-
rio, l'insufficienza di un movimento sociale come il comunismo
è di natura essenzialmente religiosa, cioè sta nel sopravalutare
l'onnipotenza di mezzi utilitari, come sono i mezzi economici e
politici, per la soluzione dell'enigma della storia, per attuare il
passaggio dal regno della necessità al regno della libertà, e
pertanto abbisogna di un'apertura religiosa. Il movimento capi-
tiniano per una riforma religiosa non è mai disgiunto dalla
278
discussione dei problemi sociali, di liberazione sociale oltre che
politica, che sono propri della storia universale al tempo pre-
sente, e della storia d'Italia in ispecie. Ma nello stesso tempo la
tensione verso la realtà liberata (« il regno della libertà ») è di
natura essenzialmente religiosa. Non vi è passaggio dal regno
della necessità al regno della libertà che non avvenga attraverso
l'aggiunta (che è atto religioso, non politico).
Per spiegare che cosa intende per post-comunismo, alla
fine di Il problema religioso attuale, Capitini dice che il post-
comunismo sta al comunismo, come il cristianesimo sta all'ebrai-
smo: ancora una volta, un «post-» che non è un « anti- ».
Nella lotta antifascista - dal momento che il fascismo era
insieme antiliberale e antisocialista - confluirono tanto i libe-
rali quanto i socialisti, tanto gli amici dell'Occidente quanto gli
runici dell'Oriente. Egli vide molto bene che l'opposizione al
fascismo non poteva non essere totale (a diHerenza dell'opposi-
zione, in una direzione, al regime americano, nella direzione
opposta al regime sovietico, che poteva essere anche parziale).
Il fascismo, egli osserva, a parte qùalche provvedimento ammi-
nistrativo, era da combattere in tutti i suoi aspetti principali:
nazionalismo, culto della violenza, statalismo, machiavellismo, illi-
bertà, corporativismo, gerarchismo, centralismo, mancanza di qualsiasi
controllo democratico, conciliazionismo cattolico, romanesimo w_
Per questo egli non si schierò né con gli un.i né con gli
altri, cioè con coloro che combattevano il fascismo da una parte
sola. Ma non volle identificarsi neppure coi cercatori della « ter-
za via». O per lo meno la sua terza via non fu, come la
intesero i più, una sintesi, una conciliazione, una transazione
pratica, una « mezzadria », com'egli disse, o peggio ancora un
compromesso tra i due opposti, ma un'apertura verso una
« nuova socialità».
Pur proclamandosi liberalsocialista sin dall'inizio del mo-
vimento (1937), di cui fu uno dei fondatori insieme con Guido
Calogero, tenne a distinguere il proprio liberalsocialismo da
quello degli altri per l'impegno etico-religioso e non soltanto
politico di cui l'aveva animato. Confutò sempre pugnacemente
279
l'assolutizzazione della politica (che era lo sbocco del totalita-
rismo), e quindi la risoluzione di tutte le attività umane nel
fare politico, la confusione dei movimenti sociali coi partiti. Il
liberalsocialismo non era stato all'inizio (e mai avrebbe dovuto
diventare) un partito: era « un atteggiamento dell'animo, un
aprirsi in una direzione, una certezza e una speranza sempre
rinnovantisi», « un orientamento della coscienza» 80• Benin-
teso, non era soltanto questo: era anche un'ideologia. Ma anche
in quanto ideologia, il liberalsocialismo di Capitini rappresentò
una corrente di minoranza, quasi un'eresia, che si richiamava
più alla « rivoluzione liberale » di Piero Gobetti che non al
« socialismo liberale » di Carlo Rosselli 31 • La differenza stava
nella diversa valutazione del comunismo, e quindi nel diverso
atteggiamento di fronte all'Unione Sovietica. Il socialismo libe-
rale stava al di qua del comunismo: Capitini si mostrò sempre
più convinto col passar degli anni che il comunismo, nel suo
aspetto economico di eliminazione del capitalismo, cioè di col-
lettivismo, fosse una tappa obbligata del progresso storico, e si
dovesse quindi non evitarlo ma trarlo alle sue estreme conse-
guenze, non negarlo ma condurlo a compimento: insomma,
ancora una volta, non stare al di qua ma andare al di là.
Racchiuse il suo programma politico in questa formula: « Mas-
sima libertà sul piano giuridico e culturale e massimo sociali-
smo sul piano economico » 82 ,
Di conseguenza combatté sempre con pari energia e con
totale indipendenza di giudizio sui due fronti, contro l'assoluto
del« benessere» rappresentato dagli Stati Uniti, e contro l'asso-
luto del «potere» rappresentato dall'Unione Sovietica 0 • Nella
critica alla civiltà americana ri.corrono i motivi oggi sempre più
frequenti della critica della società « affluente » che idoleggia i
beni materiali ed eleva la tecnica, che è un mezzo, a fine
ultimo; nella critica all'Unione Sovietica primeggia il tema del-
lo statalismo accentratore e opprimente. Il primo contrasto è
più di natura spirituale, il secondo più di natura istituzionale.
All'opposizione tra liberalismo e comunismo, o tra capitalismo
e socialismo, si affianca, specie negli anni della guerra fredda,
l'opposizione tra Occidente e Oriente, tra i due blocchi di
280
potenza che si fronteggiano minacciosi, pur venendo gradata-
mente ad assomigliarsi nell'uso sfrontato delle tecniche per Io
sfruttamento dei beni del mondo 14 • Anche di fronte a questo
contrasto vano sarebbe tentar soluzioni mediatrici, soltanto po-
litiche o peggio diplomatiche:
281
non riforma dell'istituzione ma contro l'istituzione. Se si wole
ancora parlare di chiesa si parli di quella chiesa « che mi formo
continuamente attuando in concreto la persuasione religiosa e
calandomi nelle varie forme della vita storica circostante » 87 ;
di quella chiesa che edifico ogniqualvolta compio un atto di
apertura religiosa e attuo la compresenza:
Ogni tu che dico con questa iniziativa, ogni esistenza che interio-
rizzo, vicinanza che stabilisco non mentendo, ecco una persona che
comprendo in questa chiesa di Dio e umanità sempre aperta 118 •
282
Una civiltà di questo genere non può non prendere Gesù Cristo e
non metterlo in croce, per mantenere l'ordine pubblico, l'armonia della
società: essa non vuol salvare l'anima, ma l'ordine che viene dal passa-
to 92.
283
mocrazia (sia rappresentativa sia diretta) 93 • O la rivoluzione
tende alla omnicrazia o è una rivoluzione dimidiata che non
tarderà a trasformarsi, come è accaduto delle grandi rivoluzioni
storiche, nel suo contrario, cioè nella sostituzione di una nuova
oligarchia alla vecchia. Allo sviluppo della religione aperta cor-
re parallelamente lo sviluppo della rivoluzione aperta (e ancora
una volta la tematica politica e quella religiosa sono cosl stret-
tamente congiunte che i concetti impiegati nell'una e nell'altra
sono fungibili)"". Nell'omnicrazia
284
il centro « parte dall'intimo ». L'antitesi chiusura-apertura viene
continuamente duplicata dall'antitesi esteriorità-interiorità (o
più frequentemente« intimità )I,): « Il dramma e lo sforzo uma-
no è di superare con l'espressione dell'intimo tutto ciò che è
avverso, brutto, doloroso » 98 • L'istituzione sta all'esteriorità
come il centro all'intimo. L'istituzione è nemica di tutto ciò
che viene dall'intimo: l'istituzione chiude ciò che l'intimo apre.
285
Capitini dovrà ritornare, anche perché soltanto il prender co-
scienza dell'importanza che assunse nella sua vita d'ogni giorno
« l'impegno pratico >> può allontanare l'ingiusta accusa di spiri-
tualismo. In questa prospettiva acquistano particolare rilievo
alcune pagine di La compresenza dei morti e dei viventi, dove
il problema è posto con forza. Scrive:
286
con cui si sofferma a descrivere la propria attività di organizza-
tore di centri, convegni, marce, e con particolare compiacenza
l'esperienza dei Centri di orientamento sociale, fondati a Peru-
gia e dintorni nell'immediato dopoguerra 104, In altre parole la
prassi si risolve in modalità specifiche della prassi religiosa: tra
queste le più importanti sono la n'oncollaborazione, la nonmen-
zogna e la nonviolenza. Sono queste modalità specifiche della
prassi religiosa, in modo particolare la nonviolenza, che danno
concretezza all'apertura, pongono le condizioni di attuazione
della compresenza, e fanno deJl'opera filosofico-pedagogica di
Capitini un programma d'azione. In particolare, ho detto, la
nonviolenza: il primo passo per la liberazione dalla morte è il
rispetto assoluto della vita (donde anche il vegetarianesimo).
Nella storia della spiritualità italiana moderna l'opera di
Capitini è certamente la più alta e intrepida manifestazione
della teoria e della pratica della nonviolenza. All'ideale della
nonviolenza Capitini dedicò la parte migliore di se stesso; ne
fu il filosofo e il maestro, il propagatore e l'infaticabile orga-
nizzatore m. Ed anche il poeta. I due libri in versi, Atti della
presenza aperta (1943) e Colloquio corale (1956), evocano sta-
ti d'animo che si ricollegano al tema generale del rispetto degli
esseri viventi: « solo il fiore che. laSci sulla pianta è tuo» 106 ;
« incontri e raccogli la rondine, 'cupa per il volo perduto; la
lanci e ridesti il suo grido » 107 ; « hai messo da parte la tua
storia, non hai scritto il tuo nome sui muri » 1C1S, « amo gli
oggetti perché posso offrirli » 109 •
Intorno al problema della nonviolenza si raccolgono e ac-
quistano risalto tutti i temi della problematica religiosa e sociale,
di cui abbiamo sinora parlato: il rifiuto della realtà del male,
del dolore e della morte, l'aggiunta religiosa, la tensione al
valore, l'unità amore, la tramutazione, l'apertura, Ia compresen-
za e, non ultima, l'omnicrazia. La nonviolenza, infatti, è dire
un tu a ogni essere concreto, è un atto di amore che non si
ferma a due, tte, dieci, mille esseri, è amore aperto, fa vivere
l'Uno-tutti, è tramutazione della realtà, dove i forti schiacciano
i deboli, i prepotenti i mansueti, è lotta contro se stessi, le
proprie tendenze, i propri sogni di quiete, ha come guida in-
287
stancabile la presenza di tutti, e il principio che ogni singolo
essere è insostituibile; educa alla partecipazione omnicratica del
potere 110 • Attraverso la nonviolenza acquista la massima evi-
denza il nesso tra il momento religioso e il momento politi-
co-sociale dell'azione, perché il nonviolento tende nello stesso
tempo al regno di Dio e alla pace del mondo, all'unione di
tutti gli esseri e al potere di tutti. Con la nonviolenza avvie-
ne il rovesciamento della teoria nella prassi: « Il Satyagraha -
disse Gandhi - non è un soggetto di ricerca: voi dovete fame
esperienza, usarlo, vivere in esso » 111 • Dal punto di vista filo-
sofico, infine, la teoria della nonviolenza richiede un totale ca-
povolgimento del modo tradizionale di porre il problema del
rapporto tra mezzi e fini. Sin dagli Elementi Capitini ha insisti-
to su questo punto, che è di capitale importanza. Era lecito
combattere un regime di violenza con la violenza? La risposta
del persuaso non era dubbia:
La fiducia nei mezzi violenti è ingannevole e distoglie dal cercare
febbrilmente dei modi preventivi che scendano alla radice intima 112•
288
strada ai tiranni » 115 • Solo la nonviolenza è destinata a cambia-
re la storia, anche se nessuno sappia quando e come. E la
cambia perché tende ad eliminare definitivamente il mezzo
principale ed ultimo cui gli uomini sono sempre ricorsi per
edificare la loro storia di sangue.
La tematica mezzi-fini mostra quanto grande e diretta sia
stata l'ispirazione gandhiana. Partito dall'analisi delle fonti, sa-
rei incline a ritenere, giunto alla fine, che la fonte principale e
di crescente importanza col passar degli anni sia stato il pensie-
ro di Gandhi. Pare certo che la lettura di Gandhi, che egli
stesso fa risalire agli anni precedenti alla pubblicazione del
primo libro 11 6, abbia costituito l'elemento decisivo, in un certo
senso catartico, della sua formazione spirituale. Gli Elementi,
anche se il nome di Gandhi non vi compare (mentre vi compa-
re spesso quello di San Francesco), cominciano con un paragra-
fo intitolato La scelta dei mezzi. Non è detto che la conoscenza
degli scritti gandhiani, allora pressoché inaccessibili in Italia,
fosse sin dall'inizio profonda, ma anche una conoscenza indiret-
ta, approssimativa, per improvvisa folgorazione, può avere un
effetto decisivo quando il terreno è pronto. Negli anni i ri-
chiami a Gandhi s'infoltiscono, e procede forse parallelamente
una maggior conoscenza dei testi. Se nel Problema religioso
attuale (1948) il tema della nonviolenza è ancora collegato al
francescanesimo, nella Religione aperta (1955) Gandhi ormai
emerge su tutti gli altri profeti della nonviolenza: alla sua
azione e al suo pensiero è dedicato un intero capitolo 117 • B
noto quanto Capitini abbia operato negli ultimi anni per cerca-
re di diffondere il pensiero di Gandhi con scritti, con la pub-
blicazione del giornale « Azione nonviolenta », con progetti di
traduzione, accolti di solito con freddezza nel nostro ambiente
culturale, impregnato di realismo politico. A chi conosca l'itine-
rario mentale di Capitini appare abbastanza chiaro come il pas-
saggio a Gandhi (da San Francesco, da Mazzini) possa essere
stato determinato essenzialmente dalla convinzione profonda
che gli si era andata maturando negli anni della cospirazione
antifascista dell'indissolubile nesso tra religiosità e socialità, tra
rinnovamento religioso e riforma sociale, tra lotta religiosa e
289
lotta per la libertà. In Gandhi egli finl per vedere il campione
di una religione che lotta non soltanto per redimere gli indivi-
dui ma anche per mutare la società. Dopo quel che ho detto
sul primato della prassi può essere interessante notare che uno
dei maggiori elogi che egli volge a Gandhi è di aver compiuto
un'opera di« purificazione della prassi», opera che consiste nel-
1'« arrivare ad un atto che sia il più puro dai moventi partico-
lari del mondo e dell'io, e sia il più positivo ed aperto» 118 •
L'importanza storica decisiva che egli attribuisce a Gandhi è
testimoniata dal consenso con cui accoglie la tesi di Vinoba
Bhave, secondo cui la grande antitesi del mondo attuale non è
tra capitalismo e comunismo ma tra marxismo e gandhismo,
anche se poi la corregge precisando che Gandhi è da mettere in
relazione piuttosto con Lenin che con Marx, onde non si tratta
soltanto di fare i conti col metodo leninista come pretendeva
Gramsci, ma anche col metodo gandhiano: « Connesso co]
primo c'è un hegelismo marxisticamente portato a sinistra,
connesso col secondo c'è il kantismo portato ad una religione
aperta» 119 ,
Non mi par dubbio che il ripudio dell'hegelismo come
filosofia chiusa e quindi il distacco dalla tradizione filosofica
italiana, il sempre più vivo interesse per Kant e per Gandhi,
considerati in qualche modo connessi o convergenti nella affer-
mazione del primato della pratica e della professione di una
religione antidogmatica, abbia costituito per Capitini uno dei
temi dominanti delle ultime ricerche, il tema forse cui avrebbe
voluto dare una più approfondita elaborazione. Ve n'è un ac-
cenno nell'ultima opera: « ... cosl si allarga l'orizzonte da euro-
peo a cosmico, a più che ecumenico: e il Kant si collega a
Gandhi e allo sviluppo religioso attuale della compresen-
za» 120.
Per tornare alle prime battute di questo scritto, ci si può
ormai render conto che il posto singolarissimo di Capitini nella
storia della spiritualità italiana dipende dal fatto che fu un
gandhiano nella patria di Machiavelli, un eretico religioso nella
patria della Controriforma (e del connesso indifferentismo), un
pacifista, e religioso per giunta, in un paese in cui una tradizio-
290
ne di pensiero e di azione pacifistica non è mai esistita. Quella
grande carneficina che fu la prima guerra mondiale suscitò fre-
miti di sentimenti nonviolenti altrove, non in Italia, dove il
neutralismo fu atteggiamento di oppornmità politica, raramente
di rigore etico e ancor più raramente di rifiuto religioso, e non
ebbe nulla in comune con le varie forme di resistenza etica o
religiosa alla guerra. Il maggior filosofo inglese 6.nl in prigione
per aver difeso gli obiettori di coscienza, mentre il maggior
filosofo italiano celebrava i fasti della Realpolitik. Se qualche
spiraglio di pacifismo vi fu nel nostro paese, fu di pacifismo
umanitario, prolungamento politicamente inoffensivo del mazzi-
nianesimo, e di pacifismo giuridico, supremo ideale delle varie
leghe o società per la pace.
Il pacifismo di Capitini non fu né umanitario né giuridi-
co: la guerra non era da condannarsi perché improduttiva (il
tema della (( grande illusione »), né la pace da esaltarsi in nome
dell'ordine sociale (il tema del superamento dell'anarchia inter-
nazionale attraverso la società delle nazioni). Capitini fu, come
si è detto, un pacifista religioso: considerò insufficiente tanto
l'umanitarismo laico che si accontenta della fratellanza dei po-
poli quanto il mondialismo dei federalisti che si affida alle
istituzioni internazionali. Ma fu, il suo, un pacifismo religioso
che, a differenza di quello tradizionale delle piccole sette o dei
gesti eroici individuali, poneva l'accento non tanto sulla salvez-
za dell'anima quanto sulla trasformazione della società, non
tanto sulla rivolta individuale contro il comando ingiusto quan-
to sulla rivoluzione collettiva contro l'ingiustizia globale della
storia: un pacifismo non bellicoso ma non imbelle, non politi-
cizzato ma non impolitico. ! persin dubbio che si possa ancora
parlare propriamente di pacifismo (in realtà il termine (( pa-
cifismo» non appartiene al lessico capitiniano): il 6.ne della
nonviolenza non è la pace, sia pure la pace universale, che è
6.ne puramente negativo, ma la (( liberazione » (e la pace se mai
come conseguenza). Di contro alla massima del politico reali-
sta: (( Se vuoi la pace, prepara la guerra», la massima del
(( persuaso » non è quella del pacifista: « Se vuoi la pace, prepara
la pace », bensl: (( Se vuoi la pace, prepara la liberazione ».
291
Capitini fu sempre perfettamente consapevole del fatto
che il compito che si era assegnato era un compito straordina-
rio. Diceva: « Bisogna cominciare qui e ora» (e solo un amico
diligente, consultando le sue carte sarà in grado di dirci quante
e quanto varie furono le sue iniziative, quante persone riusci a
sollecitare, a smuovere con la sua disarmante tenacia). Ma non
aveva fretta. Era un uomo paziente e tranquillo, di quella
calma durevole che nasce solo dopo che la tempesta è stata
superata. Sapeva che l'importante è gettare il seme. Proprio
perché il compito era straordinario bisognava non aver tenten-
namenti, andar dritti per la strada scelta, senza preoccuparsi
delle raccomandazioni benevole dei saggi o degli scoppi d'ira
dei potenti. Ciò che colpiva maggiormente in lui era la sua
serafica fermezza: se non fosse stato cosl serafico e cos1 fermo,
la sua posizione di eretico della religione e della politica sareb-
be diventata, presto o tardi, insostenibile. Perché egli non fu al
di sopra della mischia, ma dentro, sino a consumarvisi. Fu
costretto sempre a destreggiarsi tra coloro che volevano blan-
dirlo e coloro che volevano spegnerlo. Ma non si lasciò né
blandire né spegnere. Agli uni oppose la sua ragione critica,
agli altri la sua fede incrollabile. Lo credevano un ingenuo e
invece era soltanto un uomo semplice, di quella semplicità che
non esclude l'accortezza; lo credevano nelle nuvole, e invece
aveva i piedi stabilmente per terra, nella terra in cui era nato,
che aveva percorso a piedi palmo a palmo, di cui conosceva la
gente, le piccole storie, il suono delle campane. Difese con
ostinazione, con energia, con successo, la propria indipendenza
contro tutti. Non aveva ambizioni ma credeva fermamente nella
propria vocazione.
Per attuare il proprio compito cercò non proseliti, ma
amici, e ne ebbe di fedelissimi. Agli amici diede idee, entu-
siasmo, impulsi a far cose nuove, e soprattutto l'esempio di
una vita spesa per la buona causa, di un'azione distinteressata,
di una coerenza inBessibile, di una rara delicatezza d'animo. E
ne ebbe in cambio calore di affetto e aiuto, solidarietà e colla-
borazione, nelle tante imprese in cui li mise alla prova, quella
vicinanza di cui aveva bisogno e che forse prefigurava nella
292
sua immaginazione anticipatrice la realtà liberata. Vi sono nella
sua opera alcuni temi ricorrenti, i temi della serenità, della
gioia e della festa, che, come quello dell'amicizia, servono ad
illuminare la costante tensione verso il superamento dei limiti
della propria individualità e della propria solitudine, l'appaga-
mento nella comunione con tutti gli altri esseri. Dell'amicizia
scrisse:
L'amicizia è bellissima, converte la tristezza, ascolta la confessione,
stimola a vivere la presenza: l'amicizia cosi profonda, dicendo il divino
tu, è il di più religioso aggiunto alla semplice conoscenza degli altri 121 •
293
che all'uomo di ragione e di fede non fossero restate che due
vie: o il rassegnarsi nel dolore senza speranza o il tentare una
nuova strada.
Capitini percorse la nuova strada con strenuo impegno.
Ora è troppo presto per emettere una sentenza. E il mondo
assomiglia troppo, di qua ad una palude dove ogni moto è
spento, di là ad un mare infuriato dove il moto non ha tregua,
perché si possa capire quale sia la meta. Ma non è troppo
presto per rendere omaggio ad un nobile ardimento che ha
arricchito la nostra vita, e di cui si dovrà riparlare. In una
delle ultime lettere gli scrissi che la differenza tra lui e me
stava nell'essere lui un persuaso, io un perplesso. I perplessi
restano perplessi. Ma è pur vero che la storia di orrori e di
follie continua a svolgersi sotto i loro occhi di spettatori impo-
tenti.
294
NOTE
Bari, Latem1, 1937 (li cdiz. con l'aggiunta di una introduzione e una nota,
!:::1; /(J;:: r:::n:~t:~ni~m;; 't;,i~t~:\u1~~";,it~efz~ ~,::t~ 1
Firenze, La Nuova Italia, 1947; RT = La realtiJ di tutti, Pisa, Arti grafiche
~{f;~io :,i~l.
1 1 ~~n;°~~d~i~; ~ie:SNJ:i;)~~~iJ=e 1 ~;f:,O:t;:.
ligiosa, Torino, Einaudi, 1950; AE = L'atto di educare, Firenze, La Nuova
Italia, 19'H; RA= Relig,ione 11perta, Modena, Guancia, 1955; ARO= Ag,giun-
td relig,iosa all'opporizione, Firenze, Parenti, 19,8; CMV= La compresenu dei
;~:~,,:, ?%;~:tt1c~~1~1; ~~Ì'.e 1,~Ìch~TYel~ t:!kJl::;:, ~~
no, Fcltrinclli, 1967; EA = Educa:.ione aperta, 2 voll., Firenze, La Nuova
ltalia,1%7.
1 Molte noti:.ic biografiche si trovano in NS, specie ncll'lntrodu:.ione, pp.
11-41, e in ATG (che è uno scritto in gran parte autobiografico). Cfr. da ul-
timo anche Attraverso due teni del secolo, in « La Cultura•, VI, 1968, pp.
457-473.
2 VR, p. 35. Su Dante, Capitini scrisse un saggio, OsurlJIJ'l.ioni sulla
poesia del Pa,adim danteuo, in « Lcttcntura 1o, n. 26, 1946, indi ristampalo
in EA, Il, pp. 216-223, con una premessa in cui dice, tra l'altro, essere Dante
« maestro grandissimo » per la sua « conoscenza profondissima del mondo mo-
rale 1o (p. 216).
3 VR, p. 32.
4 ARO, pp. 152-53.
5
tenne il Actp!!:'~ etJ:0~0LJ LaN~~; 1 di Pi!!
6!;{1~2~cs:~toJ~~~~~ull~
formazione dei C11nti di Leopardi. Scrisse un sllggio Svolgimenti interni deU11
poesia leopardiana, « Arctusa •, ottobre 194,, quindi ristampuo in EA, Il,
pp. 224-236.
6 CMV, p. 131.
7 RT, p. 70.
295
8 lbid., pp. 10.5-6. Ma anche CMV, p. 172 e EA, I, pp. 34 e 100.
9 RA, p. 101. Ma anche EA, I, pp. 84 e 87.
10 CMV, p. 38. Sui rapporti personali con Croce dr. ATG, p. 73 e ss.
11 Sui rapporti personali con Gentile dr. ATG, p. 26 e ss.: alla Scuola
=1:P~ià
Normale « leggevamo del suo Atto puro, indipendentemente dalla sua politi-
ca» (p. 28). Un raffronto incisivo tra i due consules della filosofia italiana in
296
cultura, e loro mi hanno condotto ad UDa vita religiosa IP- (RA, p. 4). Anche
Apertura e dialogo, cit., p. 2, e ATG, p. 14.
28 Apertura e dialogo, cit., p. 3.
~ RA, p. 302.
lO Nell'agosto 1943, in occas.ione dd primo convegno dd Partito d'Azione:,
297
,1 RT, p. 46 e PRA, p. 17.
68 AE, p. 45.
611 RT, p. 46 cd anche pp. 144 e 145. Cosl pure NS, pp. 58·9.
70 Tutte queste su~ve determ.i.oazioni della compresenza sono tratte
passim da CMV.
apenu;: ~iG~~ C: :nru~!:·~ ~PP~ s'!iri!!: j:}1·;::i:
0
: ~ ,.. :.-12.
74 RA, p. 11.
75 lbid., p. 12.
16 Vedi, ad esempio, NS, p. 112.
77 Capitini affrontò il tema della dialettica in CMV, p. 108 e ss. e in
un articolo L'avvenire della dialettica, « Rivista di filosofia», L, 1959, pp.
224-232. Alla soppressione-superamento, propria dello sviluppo storico, cosl co-
m'~ stato teorizzato dalla filosofia dialettica, contrappone l'incremento per ag-
giunta, che non ricade mai, esaurendosi, nel « ricorso ». La polemica antidia-
lettica è condotta contemporaneamente contto Hegel e contro Vico, e in se-
nerale contro lo storicismo.
78 NS, p. 158. In un passo 5uo:cssi.vo, a queste tre riforme aggiunge
l'anarchismo, identificato con ribellismo già in BER, p. 115.
151 lbid., p. 113.
IO fbiJ., p. 92 e 94.
e ROSS:~~lÌ~~~redi~ins~Js~~b:J~~e'i'=l~lasof:J=oke L?~~:::!:
ebbe ispirazioni gobeuiane anche prima. Di Gobctti lo colpi la frase « il mio
posto è dalla parte che ha più religiosità e volontll di sacrificio .. , pronunciata
a proposito di Maueotti (citata in ARO, p. 147).
&2 Lettera di religione 34, p. 327.
83 NS, p. 97 e ss.
114 Per um1 critica della tecnica e della tecnocrazia dr. SSS, p. 38 e ss.
es NS, p. 151.
86 lbid., p. 151.
~ VR, p. 108.
M lbid., pp. 107-108.
n EER, p. 76.
IIO RT, p. 130 e NS, p. 65.
91 NS, p. 125.
92 lbid., p. 164.
298
100 CMV, p. 217.
101 RA, p. 121.
102 CMV, p. 216.
:: ~t{dCÒS ipitini è ritornato nei suoi sc:ri1ti molte volte. ar. Ori-
gine, caratteri e funzionamento dei COS, NS, pp. 237-273; I Centri di orientt1-
mento sod4le, EA, I, pp. 253-266.
=.
1os Tema comune a tutte Je opere di Capitini, la nonviolenza è tema
speci.6co di alcune opere, quali It4li4 nonviolenta, Bologna, Libreria interna-
~9:;~~ic}!49jt1f: n:~':~!:":, ~o~~rin~~;7~ Pc:.
mosse convegni per la pace, per la nonviolenza e per l'obiezione di coscienza.
Fondò II Perugia un Centro per la nonviolenza, organizzò la Marcia della Pace
Perugia-Assisi (che ebbe luogo il 24 settembre 1961, dr. In cammino per l4
p~e, cit.), quindi diede vita al Movimento nonviolento per la pace, che ebbe
a suo organo periodico il giornale: mensile « Azione nonviolenta», da lui
fondato e diretto.
106 APA, p. 11.
107 Ibid., p. 107.
llll lbid., p. 108.
1119 Colloquio cor4le, Pisa, Pacini Mariotti, 1956, p. 13.
110 PtJSsim da RA, cap. IX.
111 'INV, p. 11.
112 EER, p. 118.
m Apertura e di4logo, cit., p. 20.
114 RA, p. 155.
115 1NV, p. 40.
11 6 A proposito della sua prima opposizione al fascismo, scrive; « C.er-
cammo le religione nelle affermazioni più pure di anime intrepide, nelle fonti
dd Vangelo, di San Fraoccsco, di Gandhi» (NS, p. 138). Cfr. anche ATG,
pp. 19 e 24. A p. 17, a proposito dd rifiuto di aderire ad una manifestarione
di giubilo per la Conciliazione (dunque nd 1929), aggiunge; che i suoi interessi
religiosi enmo di « un libero religioso che di Il a poco doveva trovare il suo
orientamento pratico nella conoscenza dell'azione di Gandhi».
117 Di più diretta derivazione gandhiana è il libro Le tecniche del/4 non-
violentA, già citato. Cfr. anche Introduzione 4lla pedagogia di Gandhi, EA,
II, pp. 171-184.
11' RA, p. 28.5. Anche in un breve articolo intitolato Importanza di
Gandhi e pubblicato in Italia nonviolenta, cit., esalta in G.ndhi « questo non
adorare ma pratii;are » (p. 80).
119 ARO, p. 231.
IZO CMV, p. 132.
121 VR, p. 77.
122 t il titolo di un capitolo di VR, pp. 6).68.
299
Il testo del pttSente volume raccoglie, con alcuni aggiornamenti
bibliografici, i seguenti scritti di Norberto Bobbio: Le colpe dei padri
(« Il Ponte», 1974, n. 6, pp. 656-670); La non-filosofia di Slllvemini (« Il
Ponte», 1975, n. 11-12, pp. 1254-1278); Salvemini e la democrnia
(« Quaderni del Salvemini », 1975, n. 15, pp. 12-26); Umanesimo socia-
lista d4 Marx a Mandolfo (« Critica sociale», 1977, n. 6, pp. 18-26);
Introduzione a P. LlLAMANDREI, Scritti politici, Firenze, La Nuova Italia,
1966, pp. Xl-LVI; Augusto Monti nel primo centenario della nascittJ (Alti
del convegno dedicato a Monti nel centenario della nllJcila, Torino, Centro
di studi piemontesi, 1982, pp. 183-192); Introduzione a L. GrNZBURG,
Scritti, Torino, Einaudi, 1964, pp. Xl-XIX; Discorso su Antonio Giuriolo
(« Il Ponte», 1965, n. 1, pp. 58-67); Introduzione a E. CoLORNI, Scrilti,
Firenze, La Nuova Italia, 1971, pp. V-XLll; La fi,Josofia di A. Capitini
(« Annali Scuola Normale di Pisa», 1975, pp. 309-328); Introduzione ad
A. CA.PITINI, Il polere di tutti, Firenze, La Nuova Italia, 1969, pp. 9-43.
L'editore ringrazia i legali aventi diritto, e in particolare La Nuova
Italia Editrice, per il permesso di ripubblicare gli scritti suindicati.
INDICE
Prefazione 5
ISBN 368-0309-1