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CULTURA VISUALE
Le origini del concetto di cultura visuale possono essere rintracciate negli scritti di
diversi autori, che si interrogano sull’ impatto che la fotografia e il cinema stavano
avendo sulla cultura contemporanea. Il teorico del cinema Balazs e l’ artista Nagy
utilizzano nei loro scritti i termini tedeschi “cultura visuale”, “cultura ottica” e
“cultura ottica” e “cultura della visione” per descrivere le trasformazioni epocali
prodotte da fotografia e cinema , considerati come media ottici capaci di ridefinire le
coordinate del visibile e il rapporto tra immagini e parole. Vent anni più tardi sarà il
regista Epstein a fare ricorso al termine cultura visuale per spiegare come il cinema
ha cambiato la nostra visione della realtà.
Negli stessi anni in Balasz scrive i suoi primi libri sul cinema e introduce il concetto
di cultura visuale, l’ artista Nagy ( una delle figure di punta del Bauhaus ), usa nei
suoi scritti le espressioni cultura ottica e cultura della visione, per parlare del modo in
cui fotografia e cinema stavano trasformando le coordinate del visibile, portando alla
luce fenomeni prima inaccessibili all’ occhio umano. In un saggio del 1922 intitolato
Produzione.Riproduzione, Nagy distingue nettamente tra uso riproduttivo
( tradizionale ) e uso produttivo ( innovativo ) dei media ottici. Se usati in modo
produttivo, pittura, fotografia e cinema sarebbero stati in grado di modificare
profondamente il campo visivo. La luce doveva essere considerata un medium di
espressione plastica, una materia estesa, diffusa e malleabile, che poteva essere
artificialmente organizzata nello spazio attraverso diverse forme di configurazione
ottica. L’ obiettivo delle nuove forme di configurazione ottica avrebbe dovuto essere
quello di dare vita ad una nuova cultura della luce, una ristrutturazione del campo
visivo che avrebbe fatto emergere nuovi fenomeni e nuove forme. Secondo Nagy
“cento anni di fotografia e due decenni di film ci hanno arricchito, vediamo il mondo
con altri occhi... media ottici come il cinema e la fotografia hanno introdotto una
visione ottica senza pregiudizi”.
Nella seconda metà degli anni quaranta troviamo in Jean Epstein un uso del termine
cultura visuale. Epstein era convinto che il cinema fosse uno strumento capace di
modificare profondamente non solo il campo della creazione artistica, ma anche la
cultura nel suo insieme. Così come gli occhiali e il microscopio hanno saputo rivelare
aspetti dell’ universo prima sconosciuti, anche il cinema, in quanto apparecchio
finalizzato alla registrazione e alla rappresentazione del movimento , ha rivoluzionato
i nostri modi di vedere, aiutandoci a penetrare il movimento e il ritmo delle cose, e
spingerci a considerare il mondo come una realtà dinamica, fluida e mobile. In questo
modo, la nuova cultura visuale introdotta dal cinema è opposta a ogni concezione
della realtà fondata sull’ idea di un mondo stabile e solido: il movimento
rappresentato dal cinema non è per Epstein solo un movimento fisico, ma anche un
movimento psichico, il movimento delle emozioni. Alla conoscenza fondata sull’
astrattezza dei concetti e sulla struttura logica della sintassi del linguaggio scritto e
parlato, il cinema sostituisce una conoscenza fondata su immagini sature di emozioni
e segni drammatici che vivono a lungo nella memoria. Come per Balasz, anche per
Epstein il cinema determina una svolta netta in direzione di un primato del visivo sul
verbale.
Il concetto di cultura visuale torna tra la metà degli anni settanta e l’ inizio degli anni
anni ottanta con due storici dell’ arte: Micheal Baxandall e Svetlana Alpers.
Per fare un esempio concreto, una cofigurazione di linee nere su sfondo bianco può
essere percepita da chiunque come mero fenomeno ottico; ma il suo significato
varierà a seconda del contesto e delle competenze cognitive dell’ osservatore.
Una decina di anni dopo il libro di Baxandall,l’ espressione cultura visuale viene
utilizzata da Svetlana Alpers, nel libro “Arte del descrivere. Scienza e pittura nel
seicento olandese”. In questo studio l’ autrice sostiene che, a differenza dell’ arte
rinascimentale italiana, quella olandese del seicento, è un arte descrittiva e non
narrativa. Proprio al fine di spiegare la specificità della pittura olandese del seicento,
Alpers introduce il concetto di cultura visuale, che riconosce di aver ripreso da
Baxandall. La corretta interpretazione di un arte così lontana da quel paradigma
rinascimentale sembra possibile solo ricorrendo a categorie interpretative diverse da
quelle tradizionalmente impiegate nella storiografia artistica di taglio formalista o
iconografico: la pittura olandese deve essere invece compresa facendo riferimento al
contesto più ampio che la circonda. Il contesto in cui si formano e si sedimentano
determinate abitudini percettive e determinate aspettative nei confronti del visibile e
delle immagini: ciò che propone di studiare la Alpers non è la storia dell’ arte
olandese, ma la cultura visuale olandese.
Sia Baxandall sia la Alpers sembrano voler riorientare la storia dell’ arte verso una
più ampia storia culturale delle immagini e dello sguardo. In entrambi i casi al centro
dell’ attenzione vi sono ancora delle immagini artistiche : la nascita e la rapida
affermazione dei visual cultural studies angolamericani e della bildwissenschaft
tedesca si fondano invece su una messa in discussione del primato delle immagini
artistiche e sulla necessità di distinguere tra il valore artistico di un immagine e la sua
rilevanza all’ interno di un determinato contesto culturale.
esse vengono prodotte e dagli usi sociali di cui queste stesse immagini sono oggetto.
Con l’ avvento di internet il numero delle immagini in circolazione è aumentato in
maniera vertiginosa, producendo un flusso iconico incessante, così come il numero di
utenti che ha potuto interagire con esse. L’ inizio degli anni novanta ha visto la
comparsa e la diffusione di immagini prima sconosciute e di forte impatto politico e
sociale, capaci di iscriversi profondamente nell’ immaginario collettivo: i media
hanno reso visibile in diretta eventi storici dotati di forte impatto come la caduta del
muro di Berlino nel 1989 o la folla immensa ai funerali di Lady Diana nel 1997, per
arrivare alla sintonizzazione mondiale sulle immagini dell’ attacco alle Torri gemelle
del 2001. Il numero sempre crescente di immagini in circolazione e la comparsa di
immagini prima sconosciute hanno determinato un forte interesse per il ruolo del
visivo e della visione all’ interno di discipline che non avevano tradizionalmente
considerato le immagini come uno dei loro principali oggetti di studio.
Sulla spinta di questi fattori i campi di ricerca dei visual studies e della
bildwissenschaft si sono sviluppati alla metà degli anni novanta come tentativo di
ricondurre a un terreno comune questo interesse per il significato culturale delle
immagini e della visione.
Interpretate in quest’ ottica le immagini farebbero parte dell’ insieme più ampio delle
Kulturtechniken, quelle tecniche su cui si fondano operazione che costituiscono il
tessuto connettivo di una cultura.
Sviluppatisi più o meno contemporaneamente intorno alla metà degli anni novanta,
visual studies angloamericani e Bildwissenschaft tedesca hanno dunque diversi punti
in comune ma anche alcune significative differenze. W.J.T. Michell e Boeh hanno
coniato negli stessi anni le espressioni di iconic turn ( Boehm ) e pictorial turn
( Mitchell ) per sottolineare la necessità di riconoscere il ruolo centrale delle
immagini e della visione nella cultura contemporanea, e l’ importanza di sviluppare
strumenti capaci di comprendere la logica specifica delle immagini e dello sguardo
spettatoriale superando il primato tradizionalmente assegnato dalle scienze umane
alla lettura e ai testi.
Eredi dei cultural studies e contemporanei dello sviluppo dei feminist e dei
postcolonial studies, i visual studies angloamericani si interessano alla dimensione
sociale, culturale e politica delle immagini e delle pratiche della visione, tendendo a
privilegiare la contemporaneità e la cultura popolare.
A queste due grandi aree geografico intellettuali bisogna aggiungere l’ area francese e
una ampia e variegata produzione scientifica italiana ( che non vengono però
approfonditi in questa sede ).
Una volta completata una sintetica ricognizione della genesi e dello sviluppo degli
studi dedicati alle immagini, è ora giunto il momento di chiedersi quali possono
essere i presupposti teorici, gli oggetti e gli strumenti che caratterizzano, oggi, gli
studi sulla cultura visuale.
eterogeneo degli oggetti, delle tecniche, delle pratiche, delle identità, dei significati e
delle ideologie che caratterizzano un qualunque contesto storico che si scelga di
prendere come oggetto di studio.
Per quanto riguarda le immagini, gli studi di cultura visuale si fondano sulla
possibilità di prendere come oggetto d’ analisi qualsiasi tipo di immagine che possa
essere considerato culturalmente rilevante, senza limitarsi allo studio di quelle
artistiche. La decisione di studiare le immagini come parte integrante di una
determinata cultura visuale implica poi il fatto di prendere in considerazione l’
insieme delle condizioni tecniche e mediali che ne consentono la visualizzazione e la
trasmissione, così come la varietà degli usi sociali di cui sono oggetto. Considerare le
immagini come oggetti culturali significa ricostruire la situazione concreta in cui
sono sorte, le intenzioni con cui sono state prodotte, i significati e i valori, le identità
e gli stereotipi che sono stati riconosciuti in esse da chi le ha prodotte e da chi le ha
recepite come spettatore.
Come scrive Bal, “gli studi sulla cultura visuale non sono definiti dalla scelta dei loro
oggetti, ma dall’ attenzione rivolta alle pratiche del vedere. E’ la possibilità di essere
oggetto di un atto di visione, e non la materialità dell’oggetto visto, che stabilisce se
un artefatto possa essere considerato nella prospettiva degli studi di cultura visuale”.
Il modo in cui si parla di storicità della visione all’ interno degli studi sulla cultura
visuale non implica dunque che vi sia necessariamente una storicità del vedere inteso
come processo psicofisiologico, le cui eventuali trasformazioni sono collegate alla
questione più generale della plasticità del cervello e devono quindi essere studiare in
un ottica neuroscientifica. La storicità della visione va intesa piuttosto come storicità
delle tecnologie ottiche che definiscono le coordinate del visibile, dei dispositivi che
inquadrano il nostro rapporto con le immagini e promuovono determinate abitudini
visive piuttosto che altre, così come delle dinamiche culturali e sociali che
accompagnano l’ atto di guardare e di essere guardati.
La visione ha dunque una storia che è legata a quella delle tecnologie ottiche che si
innestano come protesi sugli organi della vista e trasformano la nostra capacità di
vedere, e a quella dei dispositivi che configurano da un punto di vista spazio
temporale il nostro sguardo spettatoriale. La visione ha poi una storicità legata al fatto
che il vedere è un atto attraverso il quale vengono elabotati e negoziati valori,
identità, credenze e posizioni sociali.
La tesi della storicità della visione è stata sottolineata dallo storico dell’ arte Hal
Foster, attraverso la distinizione tra visuality e vision : visuality indica il carattere
tecnicamente mediato, socialmente costruito dei modi di vedere e di mostrare. WJT
Michell è il promotore della distinzione tra pictures e images, ovvero tra immigini-
images considerate come entità immateriali che possono attraversare il tempo e
manifestarsi in un medium o in un altro senza perdere la loro identità, e immagini-
pictures considerate come entità materiali che devono la loro esistenza storicamente
concreta ad un insieme di supporti media e dispositivi.
Fatto dunque salvo che una genealogia delle teorie delle immagini dovrebbe risalire
fino all’ antichità per poter rintracciare le proprie fonti seminali che si prolungano fin
dentro il nostro presente, per comprendere più adeguatamente il modo in cui gli studi
di cultura visuale si perimetrano rispetto alle teorie dell’ immagine è opportuno
rivolgersi al panorama contemporaneo, enuclenando alcune proposte paradigmatiche.
Nel procedere a questa selezione ci imbattiamo però subito nella polivocità della
nozione stessa di immagine: l’ immagine come picture ( figura su supporto
materiale ), l’immagine mentale o rappresentazionale, l’ immagine onirica, l’
immagine come tropo del linguaggio figurato, l’ immagine come oggetto dell’
immaginazione e dell’ immaginario individuale e collettivo.
Fatte queste premesse prendiamo in esame alcune proposte teoriche che si rivolgono
all’ oggetto picture, non però come oggetto culturalmente esperito.
L’ idea che nell’ immagine venga originariamente all’ esistenza un senso che non è
preliminarmente costituito un una dimensione extra iconica, e che non è traducibile in
codici extra iconici, viene raccolta e rilanciata da quella costellazione di autori
francesi che a partire dagli anni settanta ha elaborato la nozione di figurale.
Il concetto di figural deve la sua prima compiuta elaborazione teorica a Lyotard, che
vi si riferisce nel suo Discorso,figura ( 1971 ) come a quella dimensione di senso dell’
immagine che resiste a ogni traduzione in testo linguistico. Una dimensoine che non è
da leggere, bensì da vedere. Richiamandosi a Lyotard, anche Deleuze utilizza la
nozione di figural, opponendola al concetto di figuratif: il compito della pittura si
definisce come il tentativo di rendere visibili delle forze che non lo sono.
In virtù della sua somiglianza all’ oggetto, l’ icona è caratterizzata da Peirce come un
immagine immediata della cosa che essa rappresenta, in grado di cancellare la
coscienza della differenza fra reale ed immagine. E’ quel che i teorici contemporanei
avrebbero chiamato effetto di realtà dell’ immagine, riferendosi al suo potere di
Se molta semiotica si è concentrata sullo statuto dell’ immagine in quanto tale, non va
dimenticata quella parte che si è invece intensamente impegnata in un confronto con
la dimensione culturale dell’ iconicità.
Capovolto
GENEALOGIE
Se nel capitolo precedente abbiamo studiato l’ origine del concetto di cultura visuale,
le cause che hanno condotto alla nascita e all’ affermazione dei visual studies e della
bildwissenschaft, e i tratti distintivi di quelli che possono essere oggi gli studi sulla
cultura visuale, in questo capitolo cercheremo di ricostruire una doppia genealogia e
una doppia eredità. L’ analisi di questa doppia genealogia ci consentirà di sottolineare
come gli studi sulla cultura visuale non siano un campo di ricerca completamente
nuovo, bensì la riformulazione di problematiche che erano state già colte da storici
dell’ arte come Semper, Warburg, Panofsky, e da teorici della fotografia e del cinema
come Balazs, Nagy, Kracauer e Benjamin.
Sarebbe una grave deformazione prospettica insistere sulle ragioni della divaricazione
apertasi fra storia dell’ arte e studi di cultura visuale senza voler riconoscere le
robuste linee di continuità che li collegano.
Si delineava così una traiettoria che sarebbe sfociata negli odierni progetti digitali,
come il Google Art Project: una raccolta online di riproduzioni in altissima
risoluzione che consente ai navigatori del web la visita virtuale dei luoghi espositivi
sfruttando la tecnologia Street View di Google Maps.
Se Warburg usa le tavole dell’ atlante Mnemosyne come uno spazio in cui studiare le
immagini archetipe attraverso contesti storico culturali distanti, Malraux concepisce
le pagine del suo Musee Imaginaire come luogo in cui celebrare le diverse
manifestazioni di un bisogno di produrre forme che si manifesta nel fenomeno
universale dello stile. All’ attenzione di Warburg per i contrasti temporali e per la
drammaticità irrisolta delle polarità tra cui oscillano le diverse immagini archetipe, si
sostituisce in Malraux una visione unificante che tende a ricondurre le differenze
formali tra opere provenienti da contesti culturali diversi a valori universali e
sovrastorici.
Nel saggio Il problema della forma nell’ arte figurativa, lo scultore e teorico von
Hildebrand distingue tra una visione ravvicinata correlata a un immagine vicina e una
visione a distanza correlata a un immagine lontana. Queste due modalità percettive
vengono declinate storicamente da Riegl e Wolfflin e identificate come caratteristiche
di epoche scientifiche della storia dell’ arte e della cultura. Visione da vicino e visione
a distanza operano così come vere e proprie possibilità ottiche, condizioni di
possibilità della raffigurazione proprie di un determinato periodo storico, e vincolanti
per i singoli artisti.
Che gli stili artistici mutino storicamente è un dato di fatto; che però tale variabilità
sia correlata a una variabilità percettiva è un altro paio di maniche. Rivolgendosi
contro Wolfflin, già nel 1915 Panofsky si era espresso duramente contro l’ ipotesi di
ammettere una storicità della percezione: gli uomini hanno visto sempre e ovunque il
mondo allo stesso modo, sono stati i loro artisti a raffigurarlo diversamente.
La polarità ottico/tattile ( aptico ) emerge come una delle eredità più significative che
la filosofia dell’ arte tedesca ha trasmesso agli studiosi contemporanei sulla cultura
visuale e più in generale al pensiero sull’ immagine. In anni più recenti il tema della
fruizione aptica delle immagini è tornato in primo piano a causa della diffusione
massiccia dei touch screen, che hanno rivoluzionato il nostro modo di interagire con
gli schermi.
Prendermo ora in considerazione questo secondo versante della genealogia degli studi
sulla cultura visuale, concentrandoci in particolare sul modo in cui teorici, registi e
artisti degli anni Venti e Trenta hanno tematizzato, da un lato la relazione tra storia
dei media e storia della percezione, dall’ altro l’ uso del montaggio di immagini come
strumento analitico e interpretativo.
Se già nei primi anni venti teorici e artisti si erano interrogati sul modo in cui cinema
e fotografia avevano promosso l’ avvento di una nuova cultura visuale e di una nuova
visione, negli scritti di Benjamin questa riflessione prende una dimensinoe più ampia,
e riguarda la relazione generale tra tecnologia e sensibilità, media ed esperienza, in un
ottica propriamente antropologica, in quanto ciò che è in questione è la dimensione
intrinsecamente mediale dell’ umano.
Negli ultimi trent’ anni la pratica del montaggio di materiale found footage è stata
esplorata in tutte le direzioni, finendo per diventare un fenomeno culturale di vasta
portata, un sintomo della nostra relazione con i documenti visivi e audiovisivi di un
passato archiviato in forme sempre più accessibili e manipolabili.
Tra gli autori di opere fondate su materiale found footage che hanno concepito la
propria pratica in termini iconologici, una figura di importanza particolare è quella
del regista tedesco Farocky, che ha mostrato come montaggio cinematografico e
videoinstallazioni possano diventare uno strumento efficacissimo per lo studio della
cultura visuale. Che si tratti di analizzare la storia delle rappresentazioni visive del
lavoro e dei lavoratori e più in generale il modo in cui i dispositivi ottici determinano
ciò che è visibile o invisibile, l’ uso di immagini operative da parte dell’ industria e
delle forze armate, o ancora l’ uso di videogiochi militari da parte dell’ esercito
americano per l’ addestramento dei soldati e il trattamento psicologico dei traumi di
guerra, Farocky si è proposto come un regista iconologico militante che ha trovato
nel montaggio il suo fonamentale strumento di azione. Questo uso del montaggio
come strumento analitico per studiare il significato culturale di determinate immagini
e di determinate forme di visione è reperibile anche in una serie di mostre che negli
ultimi vent anni si sono proposte come veri e propri contributi allo studio della
cultura visuale.
Kepes ha realizzato una serie di ritratti della moglie Juliet nei quali, come una ciocca
di capelli ribelle, una piuma di pavone scende sul lato destro della donna. Basta
considerare questi ritratti fotografici perchè subito si sollevino domande fondamentali
intorno ai possibili rapporti che legano insieme sguardo, occhio, visione, differenza di
specie, strategie di messa in scena. L’ immagine sembra essere un perfetto commento
iconico alle ricerche che in quello stesso periodo Callois andava conducendo intorno
ai complessi significati dei fenomeni di mimetismo, prendendo in esame in
particolare gli ocelli animali, come si trovano per esempio sulle ali delle farfalle o sul
dorso di alcuni insetti. A riguardo dice : non gli occhi sono qui in questione, ma
qualcosa di luccicante, enorme, immobile, circolare, portato addosso da un essere
vivente, qualcosa che sembra guardare per senza essere un occhio. La riflessione di
Caillois sulla non coincidenza di sguardo, occhio e visione appartiene a una
Fatte salve le sfumature individuali, quel che sembra accomunare questi lavori è lo
sforzo di disaccoppiare lo sguardo dal suo legame apparentemente strutturale con l’
occhio. Si trovano in nuce i tratti fondamentali di quel che Merleu-Ponty avrebbe
successivamente caratterizzato come il narcisismo fondamentale di ogni visione: la
visione che in vedente esercita, il vedente stesso la subisce altresì da parte delle cose.
L’ operazione umana del rivolgere lo sguardo al mondo al mondo arretra in secondo
piano rispetto a una visibilità diffusa esercitata dallo sguardo anonimo che il mondo
indirizza a se stesso nell’ inaggirbaile chiasma di attività e passività
Comprensibilmente, una attenzione tutta particolare è stata riservata allo sguardo che
ci proviene dai volti ritratti e autoritratti. Vero pioniere nell’ analisi degli sguardi
rappresentati nei dipinti è stato Riegl che, studiando l’ evoluzione del ritratto di
gruppo olandese ha distinto tra l’ unità interna ( ottenuta dai volti che nel gruppo si
guardano reciprocamente ) e l’ unità esterna ( istituita tramite lo sguardo che uno dei
personaggi del gruppo rivolge direttamente nei confronti dello spettatore esterno al
quadro ). Il topos dello sguardo che l’ immagine indirizza allo spettatoe come se fosse
un organismo vivente ha goduto di una notevole fortuna letteraria: fra i numerosi
esempi si possono ricordare Il ritratto di Gogol, Il ritratto di Dorian Gray di Wilde, il
ritratto ovale di Poe.
Gli studi di cultura visuale hanno affrontato la capacità delle immagini di restituirci lo
sguardo, articolandola ora come potere, ora come desiderio dell’ immagine stessa. In
The power of images , Freedberg propone una serie di casi esemplari di risposte
emotive al potere esercitato dalle immagini, fondamentalmente polarizzate tra
modalità rituale religiosa e modalità erotico sensuale. Freedberg si rivolge e un ampia
gamma di risposte psicosomatiche alle sollecitazioni esercitate dai più svariati oggetti
iconici: eccitazione, terrore, desiderio, commozione. Reazioni di natura ricorrente e
universalmente umana, anche se di volta in volta determinate nello spazio e nel
tempo e ancorate a uno specifico contesto socioculturale.
attività di perlustrazione dell’ immagine, che possono anche tradurre valori spaziali di
lateralità ( destra/sinistra ) in valori temporali di successione ( prima/poi ). Da dove si
comincia a guardare un immagine ? Il secondo esempio riguarda una serie di
immagini che ha inciso profondamente sull’ immaginario globale: l’ attacco alle Twin
Towers del 2001. Da un lato , vista la capillare diffusione mediatica delle immagini
dell’ evento, si può parlare di esperienza iconica universale e condivisa, ma dall’ altro
si deve rilevare che queste immagini ripropongono eventi passati della storia
americana ben presenti nella memoria visiva di ogni cittadino statunitense. Quel che
si viene a produrre non è solo un effetto di dejavu, ma una vera e propria diplopia, un
vedere doppio grazie al quale lo sguardo orientato dello spettatore statunitense è in
grado di dischiudere orizzonti temporali diversi a partire da una medesima immagine.
Questa complessa costellazione di fattori in relazione dialettica gli uni con gli altri fa
si che non sia possibile parlare al singolare di senso, né di potere o desiderio di ( o
in ) una immagine. Occorre dunque indagare i modi in cui le immagine sono
coinvolte nelle definizione dei ruoli di dominante/subalterno, e nie processi di
costruzione delle identità e delle alterità.
Da questi elementi sembra risultare che non può esserci un esterno al di là di un filtro
culturale, che ci permette di riguadagnare un occhio selvaggio o innocente, una
esperienza visiva originaria e non mediata da una prospettiva parziale, che è invece
implicata nel termine scopico.
Anche Regis Debray ha parlato di tre regimi dello sguardo, che vengono descritti in
una trattazione sistemica che si propone nei termini di una filosofia della storia dell’
immagine: il regime dell’ idolo, caratterizzato dallo sguardo magico e proprio della
logosfera ( l’ epoca della scrittura ), il regime dell’ arte, contrassegnato dallo sguardo
estetico e vigente nella grafosfera ( epoca della stampa ), e il regime visivo,
qualificato dallo sguardo economico e operativo della videosfera ( l’ epoca dell’
audiovisivo ). Ciascuno dei tre regimi declina una peculiare relazione dell’ immagine
all’ essere: la presenza per l’ idolo,la rappresentazione per l’ opera d’ arte, la
simulazione per il visivo nell’ era televisiva e poi digitale. Presentandosi come sfere i
tre regimi di Debray operano come articolazioni storiche di quella che viene indicata
come iconosfera di un epoca. Coniato sul finire daegli anni cinquanta dal francese
Cohen-Seat, il concetto di iconosfera designa il sistema complessivo della
mediazione iconica e delle interrelazioni dei diversi tipi di immaigni fra di loro e fra
le immagini e le dimensioni non iconiche del reale. Con le nozioni di period eye, di
regime scopico e di regime dello sguardo viene dunque variamente ribadita la
dimensione storico culturale dell’ esperienza visiva, che è propriamente visuale, cioè
sempre inquadrata da una determinata angolazione: non esiste visione che non sia
sguardo situato.
In questa analisi, oltre alle indagini foucaltiane intorno alle trasformazioni storiche
delle soggettività, è evidente la lezione di Benjamin sulle trasformazioni del sensorio
umano provocate dalla metabolizzazione e innervazione delle tecnologie fotografiche
e cinematografiche. Nella prospettiva benjaminiana le tecnologie ottiche non sono da
intendersi come contrapposte all’ occhio organico, quanto piuttosto come
innervazioni che, integrandosi nel corpo proprio individuale e collettivo, ne
trasformano profondamente il sensorio. Se si guarda ai recenti sviluppi delle
tecnologie digitali e delle biotecnologie non è difficile tracciare una linea che
conduce da queste riflessioni alla cosidetta realtà aumentata e al progetto di Google
Glass. Si tratta di un processo che investe un ampio spettro di fenomeni e che mette
in discussino ele tradizionali concezioni antropologiche e biologiche relative all’
identità di specie.
La storia della mediazione fra i soggetti della visione e il mondo delle immagini va
dunque intesa nel senso letterale della storia dei supporti, dei media e dei dispositivi
ottici che di volta in volta hanno reso possibile la correlazinoe fra gli spettatori e le
immagini stesse. A questa costellazione di fenomeni fa riferimento l’ approccio di
estetica relazionale proposto dal teorico Bourriaud per comprendere lo scenario
collaborativo fra i differenti attori del mondo dell’ arte contemporanea.
Uno dei tratti distintivi degli studi sulla cultura visuale è quello di prendere in
considerazione tutti quegli elementi che contribuisono a far sì che una image si
configuri come picture. Tali fattori possono essere riuniti in tre categorie
fondamentali, che devono essere considerate come copresenti in ogni immagine
materiale: i supporti, i media, i dispositivi.
Nel campo degli studi sulla cultura visuale, la questione del supporto non viene
studiata in termini astratti e sovrastorici, bensì in termini concreti, storicamente e
culturalmente situati, considerando i supporti come facenti parte di quelle condizioni
tecnico materiali che contribuiscono a determinare le modalità in cui un immagine
circola, migra, si trasfroma e viene osservata all’ interno di un determinato contesto
culturale. Pensiamo all’ invenzione del formato del quadro, e al ruolo che essa ha
giocato a partire dal XV secolo per quanto riguarda la circolazione e la
commercializzazione delle immagini. Nella storia della fotografia, al passaggio dal
dagherrotipo alla pellicola in celluloide. Nella storia del cinema, al passaggio dalla
pellicola al digitale, così come a quelo dal supporto dello schermo nella sala
cinematografica alla diffusione recenti di schermi fissi e mobili di dimensioni
diverse. Con l’ avvento di internet tutti quei canali di consentono una diffusione
globale di immagini hanno portato a manifestazioni su schermi di tutte le dimensioni,
dando vita ad immagini condivise ma vincolate a una qualche forma di materialità.
La questione degli schermi merita un attenzione particolare.
Nel suo libro Il linguaggio dei nuovi media, Manovich ha tracciato una genealogia
dello schermo che va dalla tela del quadro al monitor del computer e che ha come
punto di arrivo la scomparsa dello schermo stesso con l’ avvento della realtà virtuale.
Lo sviluppo tecnologico negli anni che hanno seguito la pubblicazione del testo di
Manovich ha smentito la tesi di una scomparsa progressiva dello schermo, che
sembra invece essere diventato, come propone Mauro Carbone, il dispositivo ottico di
riferimento della nostra epoca.
Al di là di questo scontro tra chi sottolinea gli elementi di rottura e chi i fattori di
continuità, la distinzione tra analogico e digitale solleva altre questioni che
interessano gli studi sulla cultura visuale. In primo luogo si tratta di una distinzione
nata in modo retroattivo: è stato con l’ arrivo dei primi cd e delle prime fotocamere
digitali che si è cominciato a considerare i dispositivi precedenti come analogici.
Detto in altri termini, il vasto continente dell’ analogico è stato identificato e
teorizzato in quanto tale nel momento della sua graduale scomparsa. In secondo
luogo, il passaggio dall’ analogico al digitale non può essere interpretato né in termini
di differenziazione netta, né in termini di transizione lineare e cronologicamente
consecutiva: analogico e digitale non devono essere considerati come termini opposti
e incompatibili, bensì come principi spesso compresenti. Secondo alcuni studiosi
come Kittler, analogico e digitale sono stati spesso compresenti, dando vita a
sovrapposizioni ibride: il computer, pur essendo un medium digitale, utlizza spesso
come interfaccia delle immagine figurative somiglianti ai loro referenti, e in quanto
tali analogiche.
In una prima accezione il medium può essere inteso come un insieme costituto no
solo dai supporti materiali a cui si fa ricorso per visualizzare una determinata
tipologia di immagini, ma anche delle tecniche che possono essere esercitate su tali
supporti. Nel corso del XX secolo questa concezione del medium è stata interpretata
in termini normativi e prescrittivi da tutta una serie di autori che ritenevano che ogni
forma artistica avesse un proprio medium specifico , e che tale medium speifico fosse
necessariamente correlato a determinate possibilità espressive e rappresentative
piuttosto che con altre. Tra questi autori possiamo ricordare il tedesco Rudolf
Arnheim e l’ americano Clement Greenberg. La teoria del cinema e della radio
proposta da Arnheim si fonda su alcuni presupposti fondamentali, il primo dei quali
consiste nel mettere in relazione ogni medium con una sfera sensoriale specifica, a
esclusione delle altre. La sua estetica ha in questo senso una dimensione normativa:
ogni medium deve individuare le caratteristiche che lo differenziano da tutti gli altri
media e la sfera sensoriale che gli è specifica, e deve operare su tali caratteristiche e
su tale materiale sensibile in piena autonomia. Per Greenberg il medium è al tempo
stesso la fisicità di un supporto e l’ insieme delle tecniche che vengono
convenzionalmente associate a questo supporto e considerate come specifiche e
necessarie.
Rosalind Krauss descrive la scena artistica di fine anni novanta come dominata dal
proliferare di installazioni mixed media o intermedia, vale a dire da opere che hanno
abbandonato l’ idea di concentrarsi sulla specificità di un singolo medium per
esplorare piuttosto tutte le possibili forme di combinazione e di intreccio tra media
diversi. Secondo la Krauss il medium viene reinventato, non come semplice supporto,
ma come entità costitutivamente articolata e plurare, nell’ epoca stessa della sua
obsoloescenza: un epoca che la Krauss descrive con l’ espressione postmedium
condition, per sottolineare il tramonto della teoria greenbeghiana e delle sue tesi sulla
purezza, l’ autonomia e l’ autoarchia di un medium come la pittura.
Il concetto di multimedialità si è diffuso a partire dall’ inizio degli anni novanta per
indicare quelle situazioni in cui più media vengono coinvolti allo stesso tempo e
operano in una condizione di compresenza, riunendosi a volte in un nuovo medium di
ordine superiore, capce di esercitare delle funzioni multimediali: l’ esempio classico è
quello del computer.
Questa stessa idea è alla base del concetto di rimediazione, formulato dai teorici
americani Bolter e Grusin, nel libro Remediation ( 1999 ). Il punto di partenza dei
due studiosi sta in due delle tesi proposte da McLuhan: quella secondo cui nessun
medium esiste o ha significanza da solo, ma soltanto in un continuo rapporto con altri
media, e quella secondo cui il contenuto di un medium è sempre un altro medium.
Nessun medium, secndo i due americani, può essere compreso pienamente se
considerato da solo; ognuno rimedia in continuazione, ovvero si appropria di
tecniche, forme e significati sociali di altri media e cerca di competere con loro o di
rimodellarli in nome del reale. Nella nostra cultura un medium non può mai
funzionare in totale isolamento perchè deve instaurare relazioni di rispetto e
concorrenza con altri media.
A questa stessa prospettiva di riflessione sul rapporto tra immagini e media possono
essere ricondotte anche la distinzione tra medium e form di Luhmann, così come la
nozione di partage du sensible elaborata da Ranciere.
Luhamnn considera come medium un insieme plastico si elementi sciolti che possono
essere organizzati in configurazioni più rigide dando luogo a una serie indefinita di
formen. In questa prospettiva le immagini e gli schermi possono essere considerati
come formen prodotte all’ interno di un medium che rappresenta un orizzonte di
possibilità, una plurarità aperta di connessioni possibili nell’ ampio campo del
visibile.
Ranciere sostiene invece che alla base di ogni forma artistica e in generale di ogni
produzione di immagini, vi siano operazioni che introducono diverse forme di
distribuzione del sensibile ( partage du sensible ), vale a dire del milieu o sensorio
comune all’ interno del quale si svolge la nostra esperienza. In quest ottica vi è un
legame diretto tra il medium artistico e il milieu sensibile o sensorium all’ interno di
cui questi esercita la sua azione. Di questa concezione, secondo Ranciere, sarebbero
un esempio emblematico quelle opere che hanno lavorato su quel medium primario
che è la luce, mostrando come la sua manipolazione si traduca direttamente in una
configurazione del nostro milieu sensibile.
Esempi come quelli della cornice e della sala cinematografica mostrano chiaramente
come ogni dispositivo abbia una dimensione al tempo stesso materiale-spaziale e
mentale: è l’ insieme di quegli elementi tecnico-materiali che dispongono e
organizzano nello spazio, in modo di volta in volta statico o dinamico, la relazione tra
le immagini e lo spettatore, e che così facendo contribuiscono a configurare il modo
in cui le immagini vengono recepite.
Una svolta fondamentale nel modo in cui dispositivi e apparati sono stati pensati all’
interno degli studi sulle immagini e la cultura visuale ha avuto luogo tra la fine degli
anni sessanta e l’ inizio degli anni settanta, quando una serie di autori come Althusser
Nell’ opera di Focault la riflessione su apparati e dispositivi prende una piega che
diventerà decisiva per gli studi sulla cultura visuale. In sorvegliare e punire, l’ autore
dedica una intera sezione del libro all’ analisi di un dispositivo di esercizio del
controllo e della disiciplina che una natura eminentemente ottica: il Panopticon ideato
dal filosofo Jeremy Bentham nel 1791. Secondo Focault, Bentham produce un
dispositivo disciplinare in cui disciplina e controllo vengono esercitati in termini
puramente ottici, senza la necessità di ricorrere ad alcuna forma di violenza fisica
sugli individui presenti nelle celle.
In anni più recenti la questione del dispositivo è stata oggetto anche di un saggio di
Agamben: qui le origini del concetto vengono fatte risalire al greco oikonomia, che
nella tradizione teologica dei Padri della Chiesa indica il modo in cui Dio amministra
il creato. Interpretato in questi termini, il dispositivo è uno strumento d’ azione che si
concretizza in pratiche le quali a loro volta innescano dei processi di soggettivazione
che però nella contemporaneità tendono ad alterarsi e a divenire dei processi di
desoggettivazione, di riduzione della soggettività a una posizione astratta in una
società che tende sempre più a diventare panottica.
La questione del dispositivo è stata oggetto di ampie discussione all’ interno della
teoria del cinema e dei media, specie negli anni settanta. Il teorico Baudry pubblica
due articoli che avranno una profonda risonanza negli studi di teoria del cinema
successivi: in entrambi questi testi Baudry ha una visione fortemente rigida del
dispositivo cinematografico. La sua configurazione tecnico-materiale ha precisi
effetti ideologici a cui lo spettatore non si può sottrarre, in quanto il dispositivo
cinematografico tende a occultare il suo funzionamento. Da un lato la cinepresa
registra delle immagini organizzate secondo il principio della prospettiva lineare
rinascimentale, dall’ altro la sala cinematografica, con la sua oscurità, nasconde il
meccanismo che rende possibile la comparsa delle immagini sullo schermo,
confindando lo spettatore in una posizione che è per molti versi simile a quella dei
prigionieri nell’ analogia della caverna descritta da Platone nel settimo libro della
Repubblica.
Troviamo una visione altrettanto pessimistica del dispositivo nella teoria dei media di
Vilem Flusser: in uno dei suoi libri più noti Flusser presenta le immagini fotografiche
come parte dell’ universo delle immagini tecniche. Ogni apparecchio è per Flusser
fondato su programmi che ne definiscono le possibilità: l’unico modo di sottrarsi al
condizionamento degli apparecchi e del progetto tecnico politico di cui sono il
veicolo è quello di agire contro gli apparecchi stessi, sovvertendone il programma
( oggi si parlerebbe di hacking ) e realizzando immagini informative, mai viste prima,
capaci di aiutarci a vedere in modi sempre nuovi.
In anni più recenti la questione dello statuto del dispositivo cinematografico è stata
oggetto di una querelle che ha visto oopporti, da un lato posizioni come quelle di
Aumont e Bellour, secondo cui il dispositivo cinemarografico avrebbe raggiunto nel
corso del XX secolo una configurazione in qualche modo definitiva, che gli ha
permesso di produrre un esperienza spettatoriale ben preceisa; dall’ altro troviamo
posizioni come quella di Dubois, Albera, Casetti, secondo cui il dispositivo
cinematografico, considerato nel suo sviluppo storico e nelle sue manifestazioni
contemporanee, deve essere interpretato in modo meno rigido e deterministico e
decisamente più plastico e flessibile.
Lo studioso che per primo ha dato vita all’ archeologia dei media è Friederich Kittler:
come leggiamo nel suo libro più noto i media determinano la nostra situazione,
nessuna produzione di senso è possibile senza il ricorso a determinati strumenti
tecnico materiali e il cosiddetto uomo è inserito in una rete di sistemi di iscrizione che
svolgono quelle operazioni di registrazione, archiviazione, elaborazione e
trasmissione che strutturano profondamente ogni campo dell’ esperienza e del sapere.
Considerati in questa prospettiva, fotografia , cinema e televisione sono medien che
svolgono determinate operazioni culturalmente significative.
senza una mediazione, scrive Belting, e il cosa di un immagine dipende dal come essa
trasmette il proprio messaggio. Uno degli aspetti più interessanti dell’ approccio di
Belting è la scelta di considerare il corpo umano come medium fondamentale .
Lo studio del ruolo dei supporti , dei media e dei dispositivi nel configurare la
presenza di un immagine o di una serie di immagini all’ interno di un determinato
contesto culturale costituisce uno dei tratti fondamentali degli studi sulla cultura
visuale: un tratto che li distingue nettamente da quegli approcci che studiano le
immagini come images e non come picture. In questo capitolo approfondiremo tale
questione, prendendo in considerazione una distinzione, quella tra immagini in alta e
in bassa definizione, di cui studieremo le implicazioni estetiche, epistemologiche,
politiche e culturali prima e dopo l’ avvento delle tecnologie ditigitali. Il teorico dei
media McLuhan è stato il primo a sottolineare l’ importanza della distinzione tra alta
e bassa definizione, su cui si fonda la differenza tra medie caldi e media freddi.
MEDIA CALDI E MEDIA FREDDI → la distinzione tra media caldi e media freddi
è una delle pietre angolari della vasta costruzione teorica di McLuhan. Dalla collness
della cultura orale con cui si apre il libro si avanza gradualmente verso la hotness
della stampa e della cultura meccanica, per poi ritornare verso la nuova coolness dell’
era elettrica e televisiva. L’ intero percorso si svolge nel segno di una meteorologia
dei media, capace di distinguere non soltanto le diverse temperature dei singoli
media, ma anche i processi di riscaldamento e di raffreddamento a cui ogni singolo
medium può essere sottoposto nella sua evoluzione e nella sua continua, inevitabile,
coimplicazione con altri media all’ interno dei veri e propri ambienti mediali. Il
criterio attraverso il quale McLuhan distingue le diverse temperature mediali risiede
nel livello di definizione dei messaggi veicolati dai diversi media, vale a dire nella
quantità di dati e di dettagli con cui essi si presentano al proprio destinatario. La
distinzione tra media caldi e freddi serve innanzi tutto a classificare i diversi media in
base a due criteri correlati: da un lato la quantità di informazione contenuta nel
messaggio e dell’ altro, in modo inversamente proporzionale, il grado di
partecipazione che ogni messaggio richiede al proprio destinatario. In quest’ ottica,
sono hot quei media che investono i propri destinatari con una tale ricchezza di
informazioni da non richiedere alcuna forma di integrazione, mentre sono cool quei
media che propongono ai propri destinatari messaggi a bassa definizione che devonon
essere in qualche modo completati, integrati da un punto di visto al tempo stesso
percettivo, intepretativo e sociale. La forma clada esclude, la forma fredda include,
scrive McLuhan, che in base a questa distinzione considera come media caldi la
scrittura alfabetica, il libro stampato, la fotografia,il grammofono, la radio e il
cinema, mentre colloca nel campo dei media freddi la parola parlata, il manoscritto, il
telefono, il fumetto, il romanzo giallo, il cool jazz e la televisione. In secondo luogo
la differenza tra hot e cool serve a McLuhan a distinguere diverse epoche nella storia
dei media. Infine la differenza tra media caldi e freddi consente a McLuhan di
valutare la portata epistemica, economica, sociale e politica dei diversi media
analizzati nei diversi capitoli della sua opera.
imparentata con i fumetti e i giornali popolari. Con questi essa condivide non solo il
fatto di proporre messaggi a bassa definizione, che necessitano di essere integrati
percettivamente da parte del destinatario con un livello straordinario di
partecipazione, ma anche il fatto di essere costitutivamente una forma a mosaico. IN
quanto forma a mosaico, lo schermo televisivo viene accostato da McLuhan a tutta
una serie di forme tratte dalla storia dell’ arte e della letteratura; con la sua maglia a
mosaico, l’ immagine televisiva è diversa dall’ immagine cinematograficam in quanto
è visivamente scarsa di dati. L’ immagine televisiva offre allo spettatore circa tre
milioni di puntini al secondo , ma egli ne accetto soltanto qualche dozzina per volta e
con esse costruisce un immagine. L’ immagine cinematografica offre ogni secondo
molti milioni di dati in più e lo spettatore, per formarsi un impressione , non deve
effettuare la stessa drastica riduzione, ma accettarla in blocco. Là dove i punti sono
chiaramenti visibili a occhio nudo, i messaggi veicolati dai media si collocano nel
campo della bassa definizione, stimolando la partecipazione percettiva, cognitiva e
sociale dello spettatore, invitato a riempire gli spazi rimasti liberi tra i punti. Là dove
i punti non sono visibili a occhio nudo, lo spettatore si trova di fronte a una superficie
piena, compatta, che non richiede alcuna forma di integrazione e di partecipazione. L’
idea di una meteorologia dei media fondata sullo studio delle diverse temperature
mediali in base alla distinzione tra alta e bassa definizione, può essere trasposta dal
campo generale dei media e quello delle immagini prodotte attraverso tecniche di
visualizzazione che comportano il ricorso a diversi tipi di punti: dai punti del retino
fotografico nelle fotografie stampate con la tecnica della mezzatina ai pixel di uno
schermo digitale. In questo modo la meteorologia dei media proposta da McLuhan
può diventare una meteorologia visiva.
Il percorso che seguiremo tocca alcune delle tappe di quella vasta genealogia di
tecniche sicuali che è stata ricostruita recentemente da Cubitt e che vede nei punti
disposti ordinatamente nella griglia ortogonale del retino della stampa fotografica a
mezzatina il diretto antecedente dei punti luminosi degli schermi televisi e dei pixel
delle immagini digitali contemporanee.
In un breve manifesto pubblicato nel 1966 con il titolo di Art Mecanique, il critico
Pierre Restany parla di una vita artistica contemporanea che deve prendere coscienza
della nuova natura moderna, industriale e urbana nella quale l’ arte è ormai collocata.
Tra le forme maggiormente capaci di rispondere a questa situazione vi sono quei
tentativi che tendono alla ristrutturazione dell’ immagine bidimensionale, vale a dire
di un immagine che resta legata alla bidimensionalità del supporto della tela sebbene
sia prodotta attraverso procedimenti industriali. Tra gli artisti nominati da Restany nel
suo manifesto come rappresentanti di una nuova arte meccanica Alan Jacquet in
particolare sembra interessarsi alle proprietà e alle implicazioni del retino fotografico.
In una sua opera un quadro di Manet viene reinterpretato attraverso un procedimento
di serigrafia che trasferisce sulla tela vari strati di colori e grandezze variabili. Il
risultato è un quadro che sembra un ingrandimento eccessivo di una riproduzione
fotografica, in cui il retino si è sgranato ed è diventato pienamente visibile.
In Germani il riferimento al retino fotografico diventa sin dai primi anni sessanta uno
dei tratti distintivi dell’ opera pittorica di Polke, le cui Rasterbilder riprendono
immagini diverse come oggetti di cronaca, immagini pubblicitarie, ritratti fotografici
o anonimi paesaggi urbani. Nei decenni successivi Polke usa il riferimento al retino
fotografico come strumento attraverso cui lavorare su immagini stratificate, in cui
frammenti estratti da contesti storico culturali diversi coesistono anacronicamente all’
interno dei margini del quadro.
Il teorico dei media Siegert insiste in uno studio sulle impliucazioni della griglia, del
raster, presentandola come un esempio paradigmatico di Kulturtechnik. La griglia è
un medium che rende operativa la deissi: ci consente di connettere le procedure
deittiche con delle catene di operazioni simboliche che producono effetti nel reale.
Anche Sean Cubitt insiste sull’ implicita funzione di ordinamento e controllo che è
insista nella griglia. Lo stretto legame tra griglia, visualizzazione, organizzazione e
controllo sottolineato da Siegert e Cubitt è al centro di una delle ultime mostre di
Polke, la History of Everything del 2002. Il punto di partenza della mostra è una
riproduzione in grande formato di un diagramma con cui un quotidiano tedesco aveva
spiegato l’ uso dei droni in Afghanistan nella guerra scatenata in seguito agli attacchi
dell’ 11 settembre. Attraverso una sequenza di passaggi e ingrandimenti, quella che
doveva essere una dimostrazione dell’ onnipotenza visiva e panottica dei droni,
capaci di permettere la distruzione quasi immediata di bersagli individuati dall’ alto e
da lontano, finisce per essere un esibizione di tutte le perdite di senso che possono
essere causate dalle variazioni di scala e di livello di definizione. Una mostra come
History of Everything si colloca in una fase che è ormai caratterizzata dalla diffusione
capillare delle immagini e degli schermi digitali: una fase in cui la questione dell’
alta e bassa definizione tende a diventare sempre più una questione di risoluzione, di
numero di pixel.
capire come la questione dell’ alta e della bassa definizione delle immagini sia al
centro di diverse pratiche che si ricollegano in modi diversi all’ esplorazione delle
raster images che abbiamo trovato in Alain Jacquet, Roy Lichtenstein e Sigmar Polke.
Il primo esempio è quello del fotografo tedesco Ruff, nell’ opera del quale alta e
bassa definizione coesistono alternandosi o intrecciandosi l’ una con l altra.
Il secondo esempio è quello dell’ artista Thomas Hirschhorn, che nelle sue opere
recenti ha rivolto la sua attenzione alle immagini fotografiche e televisive che
ritraggono i corpi straziati delle vittime dei conflitti in corso negli ultimi anni,
studiando le modalità della loro circolazione e le forme di censura e di alterazione a
cui sono spesso sottoposte, nel tentatico di attenuarne l’ impatto. Tra queste forme un
ruolo specifico è quello giocato dalla pixelizzazione, un ingrandimento delle zone
dell’ immagine considerate più scioccanti che le rende a pena riconoscibili, anche se
in modo indiretto finisce per sottolinearne il carattere sconvolgente.
Il terzo esempio è rintracciabile nell’ opera del francese Jacques Perconte, i cui film e
le cui opere video costituiscono una vasta esplorazione dei diversi livelli di
definizione delle immagini digitali. Perconte lavora in modo creativo e anarchico su
diverse forme di compressione delle immagini digitali, in particolar modo su quelle
forme di lossy data compression, che al contrario delle forme lossless,producono
distorsioni e pixelizzazioni evidenti. In un panorama mediatico e tecnologico
caratterizzato da una corsa verso l’ alta definzione, l’opera di Perconte si inserisce in
modo controcorrente e parassitario, cancellando determinate parti dei programmi e
inserendone nuovi, studiando con attenzione ciò che produce malfunzionamenti, con
l’ obiettivo di portare alla luce tutta una serie di effetti visivi che in ottica standard
sarebbero considerati degli errori.
A conclusione di questo percorso nel complesso ambito degli studi sulla cultura
visuale giungiamo al variegato mondo degli usi sociali delle immagini.
Nel campo delgi studi culturali Mieke Bal ha insistito sulla nozione di framing,
estendendola dalla metodologia della critica letteraria a una complessa tecnica di
lettura dell’ oggetto culturale.
HOMO PICTOR → che ruolo svolge, dal punto di vista dell’ evoluzione e della
selezione naturale e sessuale, la produzione di immagini ? Come mai i nostri antenati
sentirono il bisogno di creare e raffigurare figure sulle pareti delle caverne ? A
quando si può fissare sulla linea del tempo l’ apparizione delle prime immagini
umane ?
carne visibile e tangibile nel Cristo, che diventa così la sua prima immagine. Fin dai
primi seocli del cristianesimo è chiara la consapevolezza riguardo alle potenzialità
didascaliche delle immagini.
Un paradosso è rappresentato dallo scaltro uso che le diverse fazioni dell’ estremismo
islamico fanno delle piattaforme mediatiche globalizzate per diffondere a livello
planetario, in immagine, gli atti stessi di distruzione delle immagini. Un recente
esempio che illustra questa dinamica è offerto dal video della distruzione a colpi di
mazza e di piccone delle statue assire conservate a Mosul, diffuso dall’ Isis sul web
nel 2015, suscitanto immediata indignazione universale. Il caso di Mosul prova
emblematicamente la complessità che si nasconde dietro a un atto di violenza all’
immagine, che sarebbe semplicistico voler ricondurre suenza resti a una motivazione
di carattere teologico, senza tener conto delle eterogenee poste in gioco, economiche,
sociali, militari, politiche, che possono intrecciarsi in un groviglio indissolubile da
indagarsi caso per caso.
Fra i molti casi possibili scegliamo il caso di Abu Ghraib, la prigione nei pressi di
Baghdad nella quale, in violazione dei diritti umani, vennero commessi abusi
psicologici, torture fisiche e umiliazioni sessuali ai sanni dei prigionieri iracheni.
Denunciati dalla Associated Press nel novembre del 2003, i fatti si imposero all’
attenzione generale attraverso programmi televisi e articoli sui giornali. Fra i molti
casi quello di Abu Ghraib si impone in modo eclatante per le sue conseguenze
giuridiche e mediatiche, che investono direttamente lo statuto epistemologico dell’
immagine fotografica nei suoi rapporti con la verità e la storia. In primo luogo va
osservato che sono state le documentazioni visuali prodotte dagli stessi autori degli
abusi a inchiodarli come responsabili durante i processi. In generale occorre pertanto
svincolare il significato di un immagine dall’ intenzione autoriale. Le intenzioni del
fotografo non determinano il significato della fotografia, che avrà vita propria, scrive
Susan Sontag riferendosi alle fotografie a colori della guerra in Vietnam scattate da
Larry Burrows e pubblicate su Life dal 1962 al 1971. In secondo luogo è necessario
sottolineare che il senso di un immagine non scaturisce in modo autoevidente e
immediato dall’ immagine stessa, ma si produce all’ interno di un atto di
interpretazione e di contestualizzazione, di decostruzione critica e riqualificazione
semantica dell’ immagine. In terzo luogo sarebbe ingenuo contrapporre in modo
Ma occorre sempre guardarsi dal fare di ogni erba un fascio: ammettere senza riserve
una fotografia come prova storico documentaria in quanto traccia fotografica e
respingerla senza appello in quanto manipolabile sono le due facce di un medesimo
errore.
Il che cosa si vede viene integrato in modo decisivo dal che cosa non si vede, che in
maniera eloquente ci mette a parte delle condizioni di realizzabilità di un immagine
fotografica nell’ universo concentrazionario nazista in cui non solo ai detenuti, ma
anche agli aguzzini era rigorosamente proibito lasciare tracce visuali dello sterminio
in atto.
Per quanto esternamente più potenti dell’ occhio umano, i dispositivi ottici montati su
velivoli telecomandati hanno comunque dei limiti percettivi, connessi con la
risoluzione delle immagini che producono.
In questi ultimi anni la pervasiva applicazione di queste tecnologie anche a uso civile,
soprattutto ai fini della mappatura degli spazi e della gestione della mobilità, sta
ridisegnando i confini che al tempo stesso separano e connettono il nascosto e l’
esposto, il privato e il pubblico , il personale e il collettivo, il nazionale e l’ estero. E’