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IMMAGINARIO E COMUNICAZIONE: TEORIE A CONFRONTO

LA SOCIETA DEL’IMMAGINE: DAL PARADOSSO ICONOCLASTICO ALL’ICONIC TURN

Iniziamo con il definire la parola immaginario: L’immaginario è una comunicazione per immagini. Durand ha
descritto il rapporto tra immaginario e pensiero occidentale usando il termine paradosso iconoclastico: il
paradosso riguarda la tendenza culturale a sottovalutare e a disconoscere il ruolo delle immagini nel
processo della conoscenza che ha prodotto una lotta contro le immagini alla quale ha risposto la resistenza
dell’immaginario. L’iconoclastia nei secoli poggia sulla Bibbia ma anche sul metodo di verità della classicità,
poi confermato dalla scienza cartesiana e positivista. A questa tendenza si sono sempre opposte quelle
iconodule che hanno legittimato le forme del sapere che passano attraverso l’immaginario e i suoi domini
simbolici (religione, arte, magia etc.). Il paradosso nasce dunque dall’affermarsi della scienza e dal suo
bisogno di utilizzare un linguaggio razionale e realista come quello della scrittura in opposizione alle
immagini che attraverso la loro ambiguità possono allontanare dalla vera verità.

Nel corso del XX secolo, lo sviluppo delle teorie scientifiche come la relatività di Einstein mise in discussione
il principio di oggettività scientifica e provocò una rivalutazione dell’immaginario. Le immagini si
affermarono a partire dal presupposto psicanalitico secondo il quale l’elaborazione dell’esperienza
individuale e collettiva passa attraverso le immagini.

È la società moderna che vede la centralità del visuale. Basti pensare alle metropoli ottocentesche: alla
diffusione del cinema, della stampa, della pubblicità, delle grandi esposizioni universali, i giornali, le
cartoline, i manifesti. Nella società post-moderna le immagini vengono utilizzate perfino dalla scienza per
comunicare.

Si parla di Iconic Turn (concetto coniato da Bohem) per sottolineare il primato delle immagini che hanno
sostituito anche la lettura. Oggi, l’Iconic Turn si riferisce all’emergenza di Internet come magazzino di
immagini.

VISIONI DAL BIOS E VISIONI DAL LOGOS

Nel XVII secolo, la scienza occidentale ha cominciato a distinguere la vista biologica (vedere ciò che
abbiamo di fronte) dal giudizio culturale (che ne coglie il significato). La vista è dunque la capacità di
cogliere dei dati attraverso l’occhio elaborati poi dal cervello in forma di immagine cognitiva. Qualsiasi
forma di apprendimento dall’ambiente deve essere considerata come un’attività compiuta dall’osservatore
che si realizza come il proprio modo di vedere e interagire con l’ambiente. Si parla di un approccio
“enattivo”: enazione indica la produzione di un mondo da parte di un sistema vivente che è parte di questo
stesso mondo. Quello che vediamo è l’accoppiamento strutturale della realtà esterna e del nostro apparato
visivo, per cui queste due dimensioni si danno contemporaneamente. Lo sviluppo delle neuroscienze ha
anche permesso di considerare il corpo e la mente come sistemi integrati. Inoltre, le persone vivono
all’interno della comunità e possiedono empatia, ciò significa che siamo fatti per imparare dagli altri. Ciò
permette di mettere in relazione la dimensione biologica del processo di visione (visioni dal bios) con la
dimensione culturale (visioni dal logos). La visione non riguarda quindi solo il senso della vista ma l’intera
mappa corporea.

Lo sguardo è un fenomeno storicamente e culturalmente determinato. A questo proposito si parla di period


eye: ogni epoca storica produce il suo occhio e ha il suo modo di vedere le cose. Un altro concetto utilizzato
per mostrare il carattere culturale e storico della visione è quello di regime scopico. Ogni regime scopico si
basa su una prospettiva parziale della visione che non può essere considerata sovra-storica.

Esiste una sociologia dello sguardo secondo cui non viene prima l’immagine o lo sguardo ma si danno
insieme. L’immagine è un oggetto visivo, ovvero un crocevia complesso di funzioni e significati che sono
determinati storicamente. Le varie tecnologie della visione (cinema, fotografia, teatro, pittura, etc.)
svolgono un ruolo cruciale nel definire le realtà percettive e la realtà simbolica del visivo. Esse inoltre
producono dei linguaggi specifici che orientano la produzione e la ricezione di queste stesse immagini. Nella
prospettiva culturale delle immagini -visioni dal logos- occorre quindi tenere conto dei supporti perché
anche questo è un elemento fondamentale nel rapporto immagine-sguardo. Per supporti si intende: il
muro, la tela di un quadro, lo schermo etc. Dai supporti dipende anche il modo in cui un’immagine può
essere manipolata, trasmessa, condivisa e la sua durata. Lo schermo è, in particolare, studiato da un campo
di studi specifico, gli Screen Studies che studiano le trasformazioni dello schermo e la sua storia.

L’attenzione al supporto pone l’attenzione nel passaggio dall’analogico al digitale. Il dibattito insorto da
questo passaggio riguarda il diverso rapporto con la realtà rappresentata dalle immagini. Se l’immagine
analogica è la traccia di qualcosa che è stato davanti all’obbiettivo, quella digitale istituisce un rapporto con
la realtà esterna mediata dalla codificazione binaria dei raggi luminosi e quindi non può essere
testimonianza di qualcosa. Alcuni autori evidenziano però gli aspetti di continuità tra immagine analogica e
immagine digitale: le immagini digitali definiscono sempre un rapporto con la realtà perché possono essere
utilizzate in svariate pratiche, ad esempio per la diagnostica in medicina. La capacità documentaristica di
un’immagine non è diminuita dal digitale quindi. Inoltre, la manipolazione era possibile già alle origini della
fotografia attraverso il fotomontaggio e i cambiamenti di prospettiva. Insomma, realismo oggettività e
evidenza sono parole-problema.

VISUAL CULTURAL STUDIES E VISUAL SOCIOLOGY

Negli anni Quaranta viene coniata la parola culture visuelle per spiegare come il cinema abbia cambiato la
visione della realtà sulla base della sua “identità tecnica” così come medium delle immagini in movimento
che ha agito sulla memoria e sull’immaginazione del pubblico e sulla cultura dell’epoca. Come campo di
studi specifico la cultura visuale si afferma contestualmente a una serie di cambiamenti politici. Da un lato
la fine della Guerra fredda, dall’altro la morte di Lady Diana, il funerale, l’attentato alle torri gemelle e
l’avvento di Internet hanno provocato una circolazione delle immagini.

I Visual cultural studies sono emersi come tentativi di ricondurre a un terreno per quanto possibile comune
il diffuso interesse per il significato culturale delle immagini e della visione. Dal punto di vista sociologico i
Visual Cultural Studies hanno messo a punto una prospettiva di analisi che ha messo alla luce come la
natura delle immagini sia sempre storica, sociologica e politica.

Stuart Hall, ha descritto la cultura e le sue rappresentazioni come ciò che usiamo per dare significato al
mondo. I significati vengono costantemente prodotti e non si trovano da qualche parte per essere colti.

Contributi molto importanti per la definizione degli studi visuali sono i Feminist Studies e i Postcolonial
Studies.

I feminist studies: Laura Mulvey osserva come i film hollywoodiani siano costruiti intorno al male gaze
ovvero vi è un’asimmetria che vede la posizione attiva dello spettatore ricoperta da uno spettatore
maschile e una posizione passiva prevalentemente occupata dall’attrice, oggetto del desiderio erotico
maschile. Berger analizza le rappresentazioni delle figure femminili in pittura e l’uso del nudo e arriva alla
conclusione che “gli uomini agiscono e le donne appaiono. Gli uomini guardano le donne. Le donne
osservano sé stesse essere guardate.” Ciò determina un’asimmetria nei ruoli (maschile e femminile) e
influenza il rapporto tra donne e uomini ma anche il rapporto delle donne con sé stesse. Il sorvegliante che
una donna ha dentro di sé è maschio, il sorvegliato femmina. Ecco che la donna diventa oggetto di visione.

Tutto ciò avviene e continua ad avvenire anche in pubblicità. Goffman sottolinea come le pubblicità siano
portavoci di una gamma di cliché che portano a un’asimmetria nel rapporto tra uomo e donna.

I Postcolonial Studies hanno dimostrato come la rappresentazione dei paesi orientali da parte dei paesi
occidentali sia anch’essa determinata storicamente, culturalmente e politicamente. In generale, si descrive
l’Oriente da una prospettiva etnocentrica e lo si descrive principalmente usando le seguenti caratteristiche:
esotismo, primitismo, sensualità.

Studi culturali, femministi e postcoloniali hanno contribuito alla messa a punto degli studi visivi
angloamericani che hanno trattato le immagini da un’angolazione culturale e hanno dimostrato come esse
siano determinate storicamente.

Negli anni Sessanta nasce la sociologia visuale. I sociologi hanno cominciato ad affrontare temi di ricerca
emergente del periodo come povertà e razzismo in chiave documentaristica facendo uso delle immagini.

Ma è il sociologo Becker che propone esplicitamente un incontro tra i due ambiti nel 74. Egli invita i
sociologi a utilizzare le immagini nelle loro ricerche ma di inserirle in un quadro specifico di teoria sociale,
contrariamente a quanto facevano documentaristi e giornalisti dell’epoca.

Douglas Harper, tra i fondatori della Visual Sociology, distingue due filoni della Visual Sociology: il primo è
quello metodologico che consiste nel fare fotografie per analizzare la realtà sociale (sociologia con le
immagini), il secondo è quello culturologico che invece consiste nell’analizzare foto fatte da altri per
rintracciare elementi indicativi della cultura di riferimento e delle relazioni sociali (sociologia sulle
immagini).

IMMAGINI E CULTURA DIGITALE

La società dell’immagine contemporanea è caratterizzata dalla cultura digitale e da Internet. Il contesto in


cui ci muoviamo è infatti quello della diffusione globale e virale delle immagini attraverso i canali digitali,
definibile come “global flow of visual culture”.

Dagli anni dieci del 2000 i social media rappresentano la forma visiva culturale dominante. La dimensione
visiva e l’uso delle immagini ha sempre caratterizzato la comunicazione online quindi i social media
contemporanei ricchi di immagini, selfie, gif sono solo lo stadio più recente di un processo di lunga durata.
Naturalmente, sono nati dei siti e dei social network specifici per la condivisione delle immagini come
TikTok e Instagram che hanno accentuato la circolazione delle immagini. Uno dei fenomeni legati alla
diffusione di social media visuali è il selfie. Da quando l’iPhone 4 è stato dotato di una buona fotocamera
interna nel 2010 è stato possibile scattare foto all’aperto o usando il flash senza che ci fossero macchie
luminose. Oggi, per selfie si intende una fotografia di sé stessi scattata tenendo la fotocamera a distanza di
un braccio e inquadrando principalmente il proprio volto. I selfie può essere utilizzato per testimoniare la
nostra presenza a una precisa occasione (pensiamo ai selfie con le celebrities). Si tratta di una foto scattata
principalmente in contesti informali e spontanei. Il selfie non è tanto rivolto a sé stessi ma è piuttosto un
mezzo di comunicazione online. Il selfie può essere rivolto ad esempio alla nostra cerchia digitale.
Accompagnato da specifici hashtag e caption, il selfie si rivela inoltre uno strumento culturale e politico.
Pensiamo all’hashtag curvy per condividere immagini non caratterizzate dal rispetto delle convenzioni
estetiche dominanti oppure alle selfieprotest contro il terrorismo.

Una seconda forma di immagine digitale condivisa in rete è il meme: immagini statiche o in movimento
spesso accompagnate da una scritta.

Il dibattito tra apocalittici e integrati ritorna anche in questo ambito: se da un lato i media visuali
potenziano i processi di cui abbiamo già parlato come sfruttamento dell’immagine del corpo della donna
etc. dall’altro lato l’immagine ha un grande potere sociale e politico: l’immagine digitale può guidare gli atti
politici e le proteste in un’arena più sicura rispetto a quella pubblica di persona e può documentare a
proposito di proteste e violenze come nel caso del Black Live Matters. Questo è possibile perché i contenuti
dei social media non sono isolati e individuali ma sono parte del dibattito politico, tecnologico, economico,
socio-culturale.
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