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LA LEZIONE DI BERGSON SUL SOGNO

Pensatore di grande originalità, Henri Bergson si dedica nella fase giovanile della sua vita
all’approfondimento delle discipline scientifiche: studiò la matematica prima ancora della filosofia
e abbracciò con entusiasmo il metodo positivista, anticipando alcuni dei principali problemi teorici
della ricerca scientifica. Il giovane Bergson si scagliò contro il “verbalismo” della filosofia e degli
studi filosofici in genere, ponendo invece grande attenzione al dibattito sui principi della meccanica,
l’interesse per la matematica e, in genere, il sapere positivo. Si occupò anche di ipnotismo e della
simulazione inconscia nello stato ipnotico. In una seconda fase della sua vita si allontanò dal
positivismo, ma partendo da quell’originale analisi che egli affronta nel Saggio sui dati immediati
della coscienza del 1889, dove constatò l’insufficienza della spiegazione meccanicistica e
riduzionistica tipica del positivismo. In questa sua prima grande opera egli sottopose a un’analisi
critica il tentativo positivista di ridurre i “dati immediati della coscienza” a fattori quantitativi
sperimentalmente riproducibili. A un’osservazione immediata della coscienza si presentano
differenti stati psicologici: l’attenzione, la tensione, le emozioni violente, le sensazioni affettive,
quelle rappresentative (ideative) e quelle più sensoriali, legate al suono, al calore, al peso e alla luce.
Per Bergson non si possono spiegare questi stati riducendoli a una somma di “atomi psichici”
numericamente determinabili (secondo la psicologia associazionistica di Wundt): lo strumento che
Bergson adotta per individuare le differenze qualitative tra i diversi stati di coscienza è l’intuizione,
il più idoneo per indagare la vita della coscienza nel suo insieme senza scomporla in unità
artificiose, come invece accade utilizzando la sola facoltà analitica dell’intelligenza. Quest’ultima,
per Bergson, impedisce di cogliere il fluire mobile ma unitario della vita dello spirito, riducendolo a
un insieme di parti numerabili e descrivibili secondo le equazioni della meccanica. Infatti, spiega
Bergson, riducendo l’attività della coscienza a una successione numerabile di atti, proiettiamo su di
essa una particolare forma di temporalità, che è il tempo spazializzato della fisica, un tempo
meccanico, quello tipico dell’orologio che, come sappiamo, è rappresentato dalla posizione delle
lancette sul quadrante. Ma questa nozione di tempo non esaurisce il cosiddetto “tempo vissuto”,
quella realtà che la coscienza percepisce come tempo non in stati successivi, ma nell’immediato.
Per la vita della coscienza il tempo non è dunque un rapporto numerico, quantitativo, ma un ordine
di realtà che sfugge alla conoscenza matematica, poiché dura nel tempo. Così, da una parte abbiamo
il tempo spazializzato, quello delle lancette dell’orologio, fatto di istanti successivi e, dall’altra, la
condizione esattamente opposta, la durata reale del tempo vissuto, in cui gli elementi che la
compongono si fondono e interagiscono reciprocamente: ‹‹stati che si fondono tra loro come
cristalli di neve, al contatto prolungato della mano››. Il tempo della coscienza è propriamente questa
“durata”, istanti qualitativamente irriducibili gli uni agli altri, che si danno simultaneamente alla
percezione della coscienza. Per Bergson il determinismo positivista non aveva saputo differenziare
tra la successione dei fenomeni esterni nello spazio omogeneo (il tempo spazializzato) e la
simultaneità qualitativa della coscienza, non comprendendo la superiorità del tempo interiore sul
tempo esteriore e convenzionale. La sua caratteristica sta proprio nella compenetrazione e reciproca
integrazione di tutti gli elementi che lo compongono, e soltanto con l’intuizione possiamo
comprendere la durata reale: ‹‹L’io interiore, quello che sente e si appassiona, che delibera e decide,
è una forza i cui stati si compenetrano intimamente, subendo una profonda alterazione allorché li si
separa per dispiegarli nello spazio››. In relazione al sogno, Bergson spiega che il sonno modifica la
superficie di comunicazione tra l’io e le cose esterne: non misuriamo più la durata, ma la sentiamo;
da quantità, essa ritorna allo stato di qualità: non c’è più una valutazione matematica del tempo
trascorso, essa ha lasciato il posto a un istinto confuso che, come tutti gli istinti, può commettere
degli errori grossolani ma talvolta anche procedere con una straordinaria sicurezza. Quindi è nel
sogno, quella zona in cui viene abolita ogni finalità pratica della nostra conoscenza, che riviviamo
l’esperienza della durata reale, del tempo interiore avulso da ogni convenzione meccanicistica. È a
questo punto che Bergson arriva alla geniale intuizione del “cono rovesciato” per descrivere
l’attività della coscienza e il suo fluire dinamico: si tratta di un cono capovolto che giace su un
piano con il vertice e non con la base; il piano rappresenta la percezione attuale che si ha del
mondo, la base del cono il carico di ricordi che albergano nella memoria (cioè il passato
dell’individuo), il vertice è il punto in cui l’immagine-corpo si inserisce nella mia percezione
presente delle immagini-mondo. Bergson abolisce quindi il dualismo tra la percezione e la memoria
come pure quello tra la percezione e la materia: ciascuno di questi elementi è parte di un tutto, a
partire dalle immagini che costituiscono l’intero universo. Avviene, quindi, che l’immagine-corpo
seleziona le immagini-oggetto che giacciono sul piano in base alla loro utilità, il loro significato
pratico, e in base anche al contenuto dei ricordi che albergano nella memoria (che come si ricorderà
è la base del cono), costituita dall’insieme dei ricordi che si sono progressivamente depositati grazie
alla selezione dell’immagine-corpo: la memoria deriverebbe, quindi, dalla conservazione e
dall’accumulazione del passato nel presente e in lei troviamo nello stesso tempo l’intera esperienza
della coscienza, risultato dell’interazione fra l’immagine-corpo e le immagini-oggetto presenti nel
mondo. C’è un rapporto biunivoco tra memoria e percezione: la prima orienta la seconda in base
all’affluire dei ricordi, mentre la percezione permette alla memoria di attivare contenuti che
altrimenti sarebbero destinati per sempre all’oblio. Quando arrivano alla percezione, i ricordi si
trasformano a loro volta in immagini, condizionando e orientando la stessa percezione. Ecco perché
il significato di un’immagine-oggetto non può essere determinato in modo univoco e assoluto, ma
varia in relazione allo stato presente del soggetto che percepisce, a sua volta determinato dalla
rielaborazione operata dalla memoria. Bergson rivoluziona così il modo di vedere un oggetto, che
non è semplicemente collocare un corpo all’interno dello spazio o il risultato di reazioni chimiche
che avvengono a livello della corteccia cerebrale: questi modelli di interpretazione neurofisiologica
sono per Bergson soltanto la spiegazione del mezzo attraverso cui percezioni, ricordi e memoria
agiscono, ma non possono spiegare il funzionamento reale della durata della coscienza, in quanto
partono da quella distinzione tra soggetto e oggetto del conoscere, che Bergson intende superare.
Per lui la durata reale della coscienza sarebbe questo processo dinamico di scambio con il mondo-
immagine e con il passato che risiede nella memoria. Nel sonno, il contatto tra gli elementi nervosi,
sensoriali e motori, si interrompe. E’ impossibile non vedere nel sonno un rilassamento, per lo meno
funzionale, della tensione dello stato nervoso, sempre pronto, durante la veglia, a prolungare
l’eccitazione ricevuta in reazione appropriata. Ora, l’esaltazione della memoria in certi sogni e in
certi stati di sonnambulismo, è un fatto di comune osservazione: con sorprendente precisione
riappaiono allora dei ricordi che si pensavano aboliti; riviviamo in tutti i loro dettagli delle scene
d’infanzia completamente dimenticate; parliamo lingue che non ci ricordavamo nemmeno di avere
imparato. […] Un essere umano che sognasse la propria esistenza invece di viverla, terrebbe
certamente sotto il suo sguardo, in ogni momento, l’infinita moltitudine dei dettagli della propria
storia passata. Bergson ha così trasformato il concetto di coscienza tipico della corrente spiritualista
francese del suo tempo (secondo cui la coscienza era sì il punto di partenza della filosofia ma in
quanto luogo di rivelazione all’uomo della verità di Dio), in una nuova accezione: la coscienza
perde tale carattere religioso e si trasforma nel luogo in cui si costituisce l’esperienza soggettiva
(indirizzo analogo alla concezione della coscienza di Husserl). “La lezione di Bergson sul sogno”, si
riferisce a una conferenza tenuta dal filosofo a Parigi, presso l’Institut général psycologique, il 26
Marzo 1901 (l’anno successivo alla pubblicazione dell’Interpretazione dei sogni di Freud), inserita
con il titolo Il sogno in una raccolta di saggi e altre conferenze. Bergson comincia la sua lezione
facendo notare come, in apparenza, nel sogno sembra non ci sia nulla di materiale: vediamo ogni
sorta di oggetti, ma nessuno di essi esiste realmente; andiamo e veniamo, viviamo una serie di
avventure, parliamo e ascoltiamo altre persone, eppure ciò è un’illusione, ma noi lo percepiamo
come se fosse reale. Ma è proprio vero, si chiede Bergson, che non c’è veramente alcuna materia
sensibile che si offre alla nostra vista o all’udito o al tatto, come nella veglia? Bergson a questo
punto procede con il suo metodo preferito: creare una situazione artificiosa in cui esperire
personalmente il fenomeno: chiudiamo gli occhi e vediamo cosa succede. Molti diranno che non
succede nulla, ma non guardano con attenzione: in realtà si scorgono molte cose. Prima un fondo
nero, poi macchie di colori diversi, talvolta particolarmente luminosi; esse si dilatano, si
contraggono, cambiano forma e sfumatura, si sovrappongono le une alle altre, talora lentamente e
gradualmente, talora con estrema rapidità: da dove viene questa fantasmagoria? I fisiologi e gli
psicologi, aggiunge Bergson, li chiamano “fosfeni”, dovuti alle leggere modificazioni che si
producono continuamente nella circolazione della retina, e che possiamo ricreare volontariamente
quando chiudiamo gli occhi e premiamo leggermente contro i nostri globi oculari. Bergson sostiene
che questa è la “stoffa” da cui ricaviamo molti dei nostri sogni, e che ‹‹queste macchie colorate
possono consolidarsi nel momento in cui ci si assopisce, disegnando così i contorni degli oggetti
che comporranno il sogno››. Basta chiudere gli occhi e predisporsi all’addormentamento, perché
spontaneamente si crei questa sorta di “polvere visiva” che servirà alla “fabbricazione” del sogno.
Oltre alla fonte interna (la circolazione retinica) di queste sensazioni visive, ce ne sono altre che
hanno invece una causa esterna: le sensazioni provocate da una luce reale sono all’origine di molti
nostri sogni: <<Una candela accesa improvvisamente farà sorgere nel dormiente, se il sonno non è
troppo profondo, una serie di visioni dominate dall’idea di un incendio: […] B… sogna che il
teatro di Alessandria è in fiamme; le fiamme illuminano tutto un quartiere […] Poi si ritrova a
Parigi, all’Esposizione che è in fiamme… assiste a scene strazianti, ecc… Si sveglia di soprassalto
e si accorge che i suoi occhi erano colpiti dal fascio di luce proiettato dalla lanterna che la suora
di turno, passando, dirigeva verso il suo letto. Anche per i suoni c’è qualcosa di analogo: sia che
siano interni (ronzìi, tintinnìi o fischi) o esterni come lo scricchiolio di un mobile, il fuoco che
scoppietta o la pioggia che batte contro la finestra: il sogno li trasformerà in conversazioni o
rumori di altro tipo: vicino alle orecchie di Alfred Maury, mentre dorme, delle forbici sono battute
con delle pinzette: egli sogna immediatamente di sentire la campana a martello e di assistere agli
avvenimenti del giugno 1848>>. Tuttavia, spiega Bergson, i suoni non hanno la stessa importanza
delle forme e dei colori nel suscitare i sogni; sono sempre le sensazioni visive che predominano e
spesso, crediamo soltanto di sentire. Il sogno non crea qualcosa dal nulla: se non gli procuriamo
una materia sonora, stenta a fabbricare la sonorità. Lo stesso accade per il tatto: un contatto o una
pressione giungono alla coscienza onirica anche mentre si dorme, e ciò incide anche nelle
sensazioni di volo, di planare o attraversare lo spazio senza toccare terra: in sogno crediamo spesso
di esserci riusciti a liberare dalla forza di gravità! Ma se dovessimo svegliarci in quel preciso
istante, spiega Bergson, ci accorgeremmo che i nostri piedi avevano perso il punto di appoggio
proprio per il fatto di essere sdraiati: nel sogno non siamo più consapevoli di essere coricati e
crediamo di stare in piedi, ma poiché il nostro peso è diversamente distribuito sul letto, ecco che il
sogno sviluppa la convinzione di stare volando. Così, per le sensazioni di “tatto interno”,
provenienti dalle nostre viscere: disturbi della digestione, respirazione o circolazione possono
tradursi in specie determinate di sogni: nel sonno naturale i sensi non sono affatto chiusi alle
impressioni esterne. Senza dubbio non possiedono la stessa precisione, ma ritrovano molte
impressioni soggettive che passano inosservate durante la veglia. Il sogno è fabbricato con
sensazioni reali. Ma Bergson non si limita a una spiegazione fisiologica dei sogni (quale era stata
data anche da precedenti studiosi di questo fenomeno), infatti identifica nel ricordo la forma
psicologica che dall’indeterminatezza sensoriale della materia susciterà quel determinato sogno: il
sogno non è altro che una resurrezione del passato. Ma si tratta di un passato che possiamo non
riconoscere: spesso si tratta di un dettaglio dimenticato, un ricordo che sembrava essere stato
abolito e che in realtà si nascondeva nella profondità della memoria: <<La memoria raccoglie qua
e là frammenti di ricordi e li presenta alla coscienza del dormiente in forma incoerente. A questo
ammasso privo di senso, l’intelligenza cerca di dare un significato e colma le lacune evocando altri
ricordi, che presentandosi nello stesso disordine richiedono a loro volta una nuova spiegazione, e
così via, senza fine. Il ricordo è la facoltà che dà forma al materiale trasmesso dagli organi di
senso, trasformando in oggetti precisi e determinati le vaghe impressioni giunte dall’occhio,
dall’orecchio, dalla superficie e dall’interno del corpo>>. Bergson mette così in stretta relazione la
memoria con il fenomeno onirico, quest’ultimo per lui non potrebbe accadere senza quella
“piramide” formata dai nostri ricordi il cui vertice, muovendosi di continuo, coincide con il nostro
presente e si spinge con esso nel futuro. Ma dietro i ricordi attuali ve ne sono altri, migliaia e
migliaia di altri, in basso, al di sotto della scena illuminata della coscienza. La nostra vita passata
viene conservata fin nei suoi minimi dettagli, e noi non dimentichiamo nulla: tutto quello che
abbiamo percepito, pensato e voluto fin dal primo risveglio della coscienza persiste indefinitamente.
I ricordi, conservati dalla memoria nelle sue profondità più oscure, vi si trovano come fantasmi
invisibili. È evidente l’analogia con la concezione proustiana della memoria involontaria, in cui gli
eventi passati si accumulano e possono restare in questa memoria obliati per sempre: basterà
l’incontro casuale con un oggetto che richiami la sensazione legata a questi istanti dimenticati,
perché questi possano “resuscitare”, ricreando un mondo che credevamo non fosse possibile più
riportare alla luce: quel tempo perduto che in Proust sarà materia fondamentale per la sua creazione
artistica, il monumento letterario della Recherche. Nel ricollegare proprio questo tipo di ricordi al
sogno Bergson, come Proust, li descrive come esseri viventi dotati di un’anima. Ma in che modo, si
chiede Bergson, dobbiamo rappresentarci lo stato d’animo dell’uomo che dorme, che cos’è
“dormire” dal punto di vista psicologico? E’ indubbio che lo spirito continua a funzionare durante il
sonno, esercitandosi su sensazioni e ricordi, finché dal loro incontro non si origina il sogno; a
questo punto Bergson puntualizza ciò che è stato affermato sul sogno e che secondo lui non è: “è
stato detto che dormire consiste nell’isolarsi dal mondo” (riferimento ad Eraclito). Ma, ribadisce
Bergson, il sogno non chiude i nostri sensi alle impressioni esterne anzi, trae da esse i materiali per
buona parte dei sogni. Inoltre, nel sogno è stato riconosciuto un riposo delle funzioni superiori del
pensiero, una sospensione del ragionamento: “Credo che neanche questo sia esatto: nel sogno
diventiamo indifferenti alla logica, ma non per questo incapaci di logica. […] La differenza
essenziale tra il sonno e la veglia è che tanto nella veglia quanto nel sonno si esercitano le stesse
facoltà, ma nel primo caso esse sono tese, nel secondo rilassate. Il sogno è la vita mentale tutta
intera meno lo sforzo di concentrazione”. Quindi per Bergson noi percepiamo, ci ricordiamo e
ragioniamo nel sogno anche in quantità superiori alla veglia, in quanto dormendo non dobbiamo
sforzarci ma, allo stesso tempo, non possiamo concentrarci volontariamente su qualcosa, come
facciamo nella veglia: tutto avviene facilmente e come per caso, fluisce indipendentemente dalla
nostra volontà: “Dormire è disinteressarsi. Si dorme nell’esatta misura in cui si è disinteressati:
una madre che dorme a fianco del suo bambino potrebbe non sentire degli scoppi di tuono, mentre
un sospiro del bambino la sveglierà”. Bergson quindi sostiene che in questo caso la madre non
dorme realmente rispetto al suo bambino, cioè rispetto a quello che veramente la interessa: essa è
pronta a svegliarsi al minimo segnale. Bergson riconosce che molte sue osservazioni sulla dinamica
dei sogni sono incomplete, ma fa un’interessante osservazione finale sull’ipotesi dell’esistenza di un
altro tipo di sogni, quelli del sonno profondo (che per definizione viene chiamato “sonno senza
sogni”): “Quando si dorme profondamente, forse facciamo sogni di natura diversa, ma al risveglio
non ne resta granché: sono portato a credere che in quel momento abbiamo una visione molto più
estesa e dettagliata del nostro passato. La psicologia dovrà indirizzare la sua ricerca su questo
sonno profondo, non solo per studiarvi la struttura e il funzionamento della memoria inconscia, ma
anche per scrutare i fenomeni più misteriosi che sono di competenza della “ricerca psichica”.

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