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1 Una nuova intuizione : la durata [non usare mai la sottolineatura]

[Formattazione paragrafo: giustificato, con rientro prima riga]

Henri-Louis Bergson è stato un influente filosofo francese che ha avuto un notevole impatto sulla
filosofia del XX secolo. Tra i suoi incarichi, il più prestigioso, è stato quello di professore di
filosofia al Collège de France che gli assicurò una fama tale da ricevere il premio Nobel per la
letteratura nel 1927.
Il suo esordio filosofico avvenne nel 1889, anno di pubblicazione del Saggio sui dati immediati
della coscienza opera che, insieme alla dissertazione sul concetto di luogo in Aristotele (scritta in
latino), era stata presentata come tesi di dottorato alla Sorbona davanti ad una commissione
presieduta, tra gli altri, da Emile Boutroux e Paul Janet.
A quel tempo Bergson era uno stimato professore di liceo a Clermont-Ferrand, non era ancora il
filosofo che conosciamo oggi, per la notorietà filosofica bisognerà aspettare il 1896, ovvero l'anno
di pubblicazione del suo secondo importante lavoro, Materia e memoria.
Durante il suo periodo a Clermont-Ferrand accadde un episodio: un giorno si trovava alla lavagna
per spiegare ai suoi studenti i paradossi di Zenone di Elea e fu lì che gli venne un'intuizione che,
come disse in confidenza a Charles Du Bos1 nel febbraio del 1922, lo fece iniziare a vedere più
chiaramente.
Si accorse che disegnando alla lavagna il segmento raffigurante il movimento eseguito dai
protagonisti dei sofismi di Zenone mancava qualcosa, mancava l'elemento di continuità del
movimento, ovvero l'atto semplice ed indiviso del passare, in quel caso la mano del professor
Bergson che tracciava il segmento.
Alla lavagna il movimento rappresentato dal segmento non è l'atto dinamico del divenire, dello star
passando ma il divenuto, il costituito, il percorso fatto e non l'atto con cui questo percorso viene
attraversato.
Ma che cos'è questo atto? É il mouvant, tradotto spesso impropriamente in italiano con movente,
che Ronchi nella sua sintesi su Bergson2 traduce con la definizione data da Giovanni Gentile di atto
in atto, quell'atto che si identifica nel suo attuarsi, che è sempre l'accadere di qualcosa.
Da lì iniziò a capire che l'idea di movimento andava slegata da un idea normalizzata di spazio, così
inteso il movimento era ormai considerato come divisibile, confuso con lo spazio percorso, ma
divisibile è una cosa e non un atto:

da questa confusione tra il movimento e lo spazio percorso dal mobile sono nati, a nostro avviso, i sofismi
della scuola di Elea […], l'illusione degli eleati deriva dal fatto che identificavano questa serie di atti
indivisibili e sui generis con lo spazio omogeneo che li sottende.3

Il movimento è un atto dinamico, così decise di agganciare l'idea di movimento ad un'idea di tempo:
questo però non è il tempo omogeneo dell'orologio, quantitativo, con cui cronometriamo
matematicamente uno spazio percorso, fatto di istanti che si giustappongono li uni agli altri, quel
tempo di cui parla la scienza, che porta con sé la dimensione spaziale e che è pensato attraverso lo
spazio.
É un tempo dinamico, eterogeneo, dove i momenti si inseriscono li uni negli altri formando un
flusso continuo, dove il presente porta con sé il passato in vista del futuro, quello che Bergson
chiama durata, pura temporalità qualitativa:

in breve, la durata pura potrebbe essere una successione di cambiamenti qualitativi che si fondono, si
penetrano, senza contorni precisi, senza alcuna tendenza a esteriorizzarsi gli uni rispetto agli altri, senza

1
Cfr. R.Ronchi, Bergson una sintesi, Christian Marinotti edizioni, Milano 2011, p.57.
2
Ivi, pp. 64-65.
3
H.Bergson, Saggio sui dati immediati della coscienza, Raffaello Cortina editrore, Milano 2002, p. 74.

1
alcuna parentela con il numero: sarebbe eterogeneità pura.4

Questa è la scoperta filosofica su cui poggerà l'intero sistema filosofico bergsoniano, un'intuizione
che è esperienza diretta ed immediata del reale e che è una caratteristica dei nostri stati di coscienza,
del nostro io più intimo ed il Saggio sui dati immediati della coscienza tratta proprio di questo, in
particolare nel suo secondo capitolo.
In una lettera a Giovanni Papini del 19035 Bergson spiega proprio cosa ci sia all'origine del Saggio,
di come sia arrivato a scriverlo, partendo dal suo interesse per le teorie della scienza piuttosto che
per la metafisica, per questo nella sua tesi di dottorato decise di studiare i fondamenti della
meccanica e fu lì che arrivò ad occuparsi del tempo.
Si accorse che in meccanica e in fisica non si tratta mai della durata propriamente detta, quella
reale, così passò per gradi dal punto di vista matematico a quello psicologico, cogliendo quelli che
sono gli aspetti qualitativi della vita psichica trattati dalla scienza psicologica.
L'intento del Saggio era allora quello di evidenziare alcuni problemi filosofici causati dalla tendenza
di mettere nello spazio fenomeni che non occupano affatto spazio, il tutto seguendo quello che sarà
lo schema tipico bergsoniano che consiste nel dissolvere il problema e reimpostarlo nel modo
corretto.
Bergson vuole mostrare come le scoperte della fisica talvolta impediscano di cogliere gli aspetti
qualitativi della vita psichica, separati da quelli quantitativi, un esempio di ciò è quello che riporta
nel primo capitolo del Saggio, quando critica il postulato della psicofisica che tratta il passaggio da
una sensazione ad un'altra come una differenza aritmetica. [rif bibl in nota]
Per l'aritmetica la differenza tra due numeri è un numero intermedio, invece la differenza tra due
sensazioni non è una sensazione intermedia, nella percezione tra la sensazione di una puntura e
quella di un dolore c'è una differenza qualitativa: prendiamo l'esempio della mano destra che punge
la sinistra con un spillo6, inizialmente si sente un contatto al quale segue la puntura, poi il dolore
localizzato nel punto di contatto con lo spillo e infine il dolore che si irradia nelle zone circostanti,
quella che è un'intensità che aumenta gradualmente la sua qualità, dice Bergson, viene scambiata
per una grandezza, per una quantità, perché viene inserita impropriamente la causa nell'effetto,
ovvero lo sforzo progressivo della mano destra che punge viene localizzato nella sensazione della
mano sinistra.
Oltre alla psicofisica e alle confusioni derivanti dal suo approccio sbagliato, c'è un altro elemento
che contribuisce ad allontanare il senso comune dal comprendere il tempo eterogeneo della durata,
il linguaggio7: i problemi metafisici spesso derivano proprio da un'esigenza di adattare il pensiero
speculativo alle abitudini del linguaggio come dire predicativo, per Bergson più che il linguaggio
genericamente inteso è l'evento della scrittura alfabetica a considerare la realtà come ciò che è
unicamente iscrivibile in un reticolo aritmo-geometrico, che trasforma la comunicazione dell'uomo
da un tutto in atto mai compiuto, non ancora definito, ad una molteplicità di giustapposizione di una
comunicazione linearizzata.
Esso restituisce la parola come semplice segno convenzionale, spersonalizzato, uno strumento
inerte a disposizione dell'uomo che così si trova costretto ad utilizzare segni universali per
descrivere ciò che è individuale, intimo.
La durata non è dunque un concetto così familiare, viste le problematiche precedenti, perché o
siamo abituati a ragionare in termini di spazio, oppure colleghiamo la durata al tempo a noi più
noto, quello omogeneo che utilizziamo nelle misurazioni, che fa parte del nostro linguaggio di uso
comune ed è anch'esso una durata, una successione, ma di un altro tipo, non autentica, in cui
4
Ivi, p. 68.
5
Cfr. A.Pessina, Introduzione a Bergson, Editori Laterza, Bari 1999, p. 5.
6
Ivi, pp. 29-30.
7
. Già dalle prime pagine del Saggio viene fuori questa critica al linguaggio che verrà ribadita più avanti anche dal
Bergson più maturo nell'introduzione metodologica a La pensée et le mouvant del 1922, questa continuità denuncia gli
effetti falsificanti del linguaggio e di come questo sia un problema dentro la sua filosofia.

2
interviene continuamente l'idea di spazio, dalla quale siamo ossessionati e la inseriamo anche nella
successione dei nostri stati di coscienza, così da percepirli simultaneamente l'uno accanto all'altro.
Proiettiamo il tempo nello spazio, esprimiamo la durata attraverso l'estensione, la successione dei
momenti assume la forma di una linea continua, le cui parti si toccano senza penetrarsi seguendo un
ordine che implica già l'inserimento dello spazio.
Per stabilire un ordine bisogna distinguere bene i termini che lo compongono, confrontare i posti
che occupano, così da essere percepiti come molteplici, simultanei e distinti, in una parola,
giustapposti: immaginando di scorrere un dito lungo una linea o una superficie, questi termini
vengono posti l'uno accanto all'altro dopo essere stati percepiti e così facendo c'è già l'idea di spazio
nella rappresentazione, perciò un'idea di ordine allontana dall'eterogeneità, rende lo spazio la
condizione della pensabilità perché pensare in termini concettuali significa distinguere e non si dà
distinzione senza spazialità.
È un errore considerare la durata pura come una cosa analoga allo spazio, il rappresentare gli stati di
coscienza come una linea formata da elementi distinti porta con sé un pensare in termini spaziali,
quelli che sono i nostri stati di coscienza o le nostre sensazioni invece si aggiungono dinamicamente
le une sulle altre [gli uni sugli altri], organizzandosi tra loro come “note di una melodia dalla quale
ci lasciamo cullare”8. [citazioni fra virgolette basse «…»]
Questa è la durata pura, una successione di cambiamenti qualitativi che si compenetrano senza
separazioni, è eterogeneità pura, che mantiene il ricordo degli istanti precedenti, cosa che lo spazio
non può fare:

quando seguo con gli occhi sul quadrante di un orologio il movimento della lancetta che corrisponde alle
oscillazioni del pendolo, non misuro la durata, come potrebbe sembrare; mi limito invece a contare delle
simultaneità, cosa molto diversa. Al di fuori di me, nello spazio, vi è un unica posizione della lancetta e del
pendolo, in quanto non resta nulla delle posizioni passate.
Dentro di me si svolge un processo d'organizzazione o di mutua compenetrazione dei fatti di coscienza, che
costituisce la vera durata.9

La durata è dunque una molteplicità qualitativa di momenti che si compenetrano e questo non è
altro che il funzionamento del nostro io più profondo, quello che sente, si appassiona, delibera e
decide.
Purtroppo questo io profondo si esprime a fatica, perché esso forma una stessa ed unica persona con
un io superficiale che è “rappresentazione costante di un fenomeno oggettivo identico che si
ripete”10, una rappresentazione esteriore che riporta le caratteristiche di omogeneità e
giustapposizione e le spinge sino alle profondità della coscienza.
Vi sono quindi due tipologie di io legate ai due differenti tipi di durata, uno superficiale, preciso
dagli stati ben definiti e al di sotto di esso un io più profondo, mobile, confuso, in cui la successione
dei momenti implica una fusione di essi.
La maggior parte delle volte ci limitiamo a vivere nel primo tipo, proiettiamo il nostro io profondo
come un'ombra nello spazio omogeneo, suddiviso e rifratto esso si adatta meglio alle esigenze della
vita sociale e del linguaggio, perdendo pian piano la sua identità.
Per recuperare questo io fondamentale sarebbe necessario uno sforzo psichico, che però risulterebbe
vano, poiché andrebbe a finire comunque con l'espressione degli stati della nostra coscienza in
immagini ben definite, solidificate e distinte, espresse mediante il linguaggio, in quanto ciò che è
sfuggente è necessario che sia fissato, così vale per le nostre impressioni come per i nostri
[perché riga bianca?: anche sotto]
sentimenti come per tutto ciò che è impreciso, mobile, che va contornato e reso invece immobile.
Questa tendenza a solidificare le nostre impressioni è naturale e comoda perché risponde alle
esigenze pratiche della vita, ma via via che le condizioni della vita sociale si realizzano si accentua
sempre più la corrente che trasporta all'esterno i nostri stati di coscienza ed essi si trasformano in
8
Ivi, p. 68.
9
Ivi, p. 71.
10
Ivi, p. 82.

3
oggetti, cose.
Non si staccano solo gli uni dagli altri ma anche da noi, formando un secondo io che confonde i
sentimenti in perpetuo divenire, con il suo oggetto esterno permanente:

eccoci allora in presenza dell'ombra di noi stessi: crediamo di aver analizzato il nostro sentimento, e in realtà
gli abbiamo sostituito una giustapposizione di stati interni, intraducibili in parole, ognuno dei quali
costituisce l'elemento comune – il residuo impersonale dunque – delle impressioni provate dalla società
intera in un caso determinato.11

Quello che ci allontana dal nostro io più interiore è però ciò che ci consente di vivere in comune e
parlare, per questo non possiamo farne a meno, perciò l'idea di un tempo dispiegato nello spazio fa
parte di noi ma non solo, anche se vivessimo in solitudine, in un esistenza puramente individuale,
senza società né linguaggio noi conserveremo ugualmente l'idea di uno spazio omogeneo in cui gli
oggetti si distinguono ed in tale mezzo continueremo comodamente a conservare gli stati a prima
vista nebulosi, che non ci appaiono chiaramente.
Insomma comprendere il concetto di durata è importante per entrare dentro l'impianto filosofico
bergsoniano, essa è autentica temporalità che implica la memoria come coscienza dell'effettivo
progresso della vita dell'io, che non si dispiega nello spazio ma si concentra nell'atto del suo
mutare12, per questo sarà importante la memoria per Bergson, perché in una realtà scandita da un
tempo in cui non esistono istanti ben definiti, dove il passato spinge continuamente il presente verso
il futuro, essa ha proprio la funzione di far riemergere il passato nel presente, rappresentando
dunque un elemento di fissità che però non distingue, introducendo lo spazio, ma unifica,
mantenendo così l'eterogeneità tra passato e presente.
Il Saggio poi conclude affrontando il problema della libertà che nasce secondo Bergson dal
malinteso di confondere successione e simultaneità, durata ed estensione, qualità e quantità:
agire liberamente significa riprendere possesso di sé, di quell'io profondo e quindi significa
collocarsi nella pura durata, solo così i nostri atti esprimono la nostra intera personalità ed il
rapporto tra l'io e l'atto che egli compie è paragonabile a quello tra un'opera ed il suo artista.
Il problema è che raramente siamo liberi, la maggior parte del tempo dobbiamo rispondere a delle
esigenze che la vita pone di fronte a noi:

la maggior parte del tempo viviamo esteriormente a noi stessi e percepiamo il fantasma scolorito del nostro
io, ombra che la pura durata proietta nello spazio omogeneo. La nostra esistenza si svolge quindi nello spazio
più che nel tempo: viviamo per il mondo esterno piuttosto che per noi; parliamo piuttosto che pensare;
“siamo agiti” piuttosto che agire noi stessi.13

Sono emerse a questo punto diverse contrapposizioni, quella tra qualità e quantità, tra omogeneo ed
eterogeneo, tra successione e simultaneità, sembra quasi che esistano due realtà, una interna della
coscienza, profonda, caratterizzata da una durata autentica e l'altra esterna, superficiale, scandita
dalla durata omogenea.
In seguito, quando analizzerò dettagliatamente la teoria della memoria, si potrà vedere come queste
due realtà, che nel Saggio appaiono ancora divise, in Materia e memoria troveranno [trovano] un

punto di incontro pur conservando il dualismo e questo grazie al rapporto tra la percezione e la
memoria, descritto ampiamente con la teoria della memoria e della percezione pura.

11
Ivi, p.86.
12
Il mutamento in questione è quell'atto in atto di cui parlavamo all'inizio, inteso come energheia, ovvero una “cosa”
che è il suo stesso divenire.
13
Ivi, pp. 146-147.

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