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Il concetto di tempo (Marburgo, 1924)

Prima di tutto Heidegger esclude il discorso “teologico” sul tempo legato ad una
concezione infondata di eternità: non solo la credenza nell’eternità è data dalla
fede, ma questa interrogazione cade anche nell’aporia, mai sciolta, secondo cui la
stessa interrogazione fa parte dell’eternità. Questa “eternità” del teologo non infatti
una dilatazione del tempo inteso come “durata”. In altre parole, come si dirà in
Essere e Tempo, si considera il tempo come un “eterno presente”.
La trattazione di Heidegger rientra invece in una scienza preliminare: essa è il
nome che Heidegger dà al proprio metodo di ricerca volto all’analisi dell’esistenza.
Che in quanto “preliminare” anticipa la scienza e la filosofia nel senso che vuol
spiegare la loro origine a partire dalla possibilità autentica del Dasein, a partire
dall’idea secondo cui entrambe non sono in grado di spiegare il mondo in quanto
tendenti al nichilismo.
Ora, Heidegger, sostiene che “c’è bisogno di vedere come il tempo si incontra nel
quotidiano”:
prima di tutto il fatto che ci sia bisogno è indicativo del fatto che Heidegger, come
aveva fatto per il concetto di “verità”, dice che conoscere il tempo “oggettivo”
l’esserci può “capire” e superare così la sua inadeguatezza.
L’altro elemento è il quotidiano si intende quella condizione che l’ente deve
accettare in quanto è gettato in particolari contesti: La dispersione Agostiniana è utile
per iniziare a riflettere sul concetto di “quotidiano” per Heidegger: l’uomo vive nella
“dispersione” e quindi nella non verità, e uno degli elementi che creano ciò è proprio
il suo tentativo costante di “perdersi” nel “ Man” (“SI”), il “si” impersonale, come il
“si dice”, “si fa”.
Questa quotidianità dell’esserci è dominata da tre fattori: la chiacchera, la curiosità
e l’equivoco.
 Chiacchera si intende il discorso che ha ormai perso di indipendenza ed è
diventata reificazione del linguaggio, i altre parole “si è parlati”.
Chiacchera e curiosità sono dette da Heidegger le due conseguenze quotidiane del
discorso e della vista:
1. il “discorso” è infatti un elemento fondamentale dell’esserci, ma la sua
cristallizzazione produce la “chiacchera” che non è altro che una conseguenza
dell’impersonalità de “si” a cui tende l’uomo il discorso diventa impersonale, si
“viene parlati” insomma. Ora, non è chiaro però fino a che punto la stessa
comprensione della chiacchera rientri nella comprensione dell’essere: in Il concetto
di tempo leggiamo che nella chiacchera impersonale è la traduzione di
un’autointerpretazione dell’esserci. Autointerpretazione che interpreta l’essere
come impersonale.
2. Ugualmente la curiosità è un allargamento della qualità della vista secondo cui
tutto diviene diremmo “semplice vedere”, l’uomo così non si “sofferma” più sulle
cose ma passa da una all’altra, livellandole, in una continua ricerca del nuovo. È lo
stesso sguardo che, come pensava Agostino, la scienza moderna usa per calcolare le
cose.
Entrambe fanno cadere l’uomo dunque nel grande equivoco che consiste nello
spacciare il falso per il vero, l’autentico per l’inautentico.
Il tempo dunque della quotidianità è il tempo cronologico:
Così Heidegger inizia la sua riflessione partendo non dall’eternità ma dalla durata:
ciò che calcola la durata è l’orologio, esso come in Bergson, non fa altro che
omogenizzare i “punti-ora” rendendoli tutti uguali e ordinandoli secondo il criterio
del “prima” e “dopo”.  ne consegue che il tempo stesso viene inteso come un
qualcosa di misurabile a partire da questi punti-ora. Ugualmente la fisica moderna
con Einstein, è arrivata a dire che il tempo è un contenitore in cui si svolgono le cose,
ugualmente pensava Aristotele come l’orologio essa concepisce il tempo non a
partire da sé stesso ma a partire dalle cose. In altre parole, ricorda la Pieri, che in
questa concezione, il tempo è ricondotto al principio di ragione come pensava
Schopenahuer, ovvero è misurato come solo la ragione può fare: attraverso la
successione. Alla base dunque dell’orologio come della scienza moderna vi è il
principio della Misurazione essa è lo strumento utilizzato dalla scienza per
uniformare gli oggetti e poterli così “dominare” rendendoli tutti essenzialmente
uguali, così l’orologio che omogenizza i “punti ora”. Misurare il tempo significa
allora prendersi cura del tempo e quindi rientrare in quella logica del “perdersi” tra le
cose e quindi nei caratteri alienanti della quotidianità.
La società è quindi organizzata su questi “punti ora” che in realtà non “esistono”,
sono un’illusione (Come si legge in Hegel nell’analisi dell’”ora”, quando si chiede
“cos’è ora?” si risponde “è notte”, ma domani questo “ora” sarà diverso, quindi esso
“non è”). (In Essere e Tempo par. 81 Heidegger sosterrà che in tal senso il tempo
visto come succedersi di “ora” porta alla conclusione di una “eternità” del tempo
come diceva Platone, in quanto l’ora muore e nasce costantemente).
Heidegger sostiene poi che “ci troviamo di fronte ad un orologio che l’umanità si è
da sempre procurato”: è in realtà una tematica che sarà sviluppata più ampiamente in
Essere e Tempo, quella secondo cui l’esserci si dà il tempo guardando il sole, e quindi
illudendosi del fatto che il tempo sia quello che egli incontra negli enti intramondani.
Heidegger prende poi in esame il tempo soggettivo come delineato dal suo
“fondatore” Agostino è vero che Agostino ha introdotto nell’analisi del tempo il
fattore della “emotività” (“sentirmi”), ma questo non basta, dice infatti Heidegger “la
nostra è una via più lunga”.
La discussione si sposata naturalmente sull’esserci: il tempo è la sostanza stessa
dell’esserci, il tempo è l’esserci e questo tempo originario si esprime nell’ essere di
volta in volta: ciò rappresenta l’assoluta diversità e unicità dei momenti che mi
costituiscono ma che io raccolgo nell’asserzione “io sono”.
Strutture fondamentali dell’esserci Esse sono i modi attraverso cui il
tempo autenticamente inteso si manifesta. 1-4 hanno come tema la relazione, mentre
5-8 hanno come tema il “Si”.
1. L’uomo è innanzitutto non una “realtà” ma una “possibilità”, la sua
esistenza consiste infatti in un “poter essere”, se poi si fa un passo avanti
si vede che l’uomo è un essere nel mondo nel senso che l’uomo si
rapporta a delle possibilità che però sono rappresentate dal “mondo.
“Nel” infatti comprende il fatto che noi siamo in inseriti in un mondo
assieme ad altre cose, ma non nel senso di essere “assieme” ad altre cose
in uno spazio, ma un “coappartnersi” l’un l’altro, in altre parole il fatto
che l’esserci sta nel mondo non è un suo “accidente” ma un qualcosa che
lo costituisce nel profondo. Esserci è allora un’esistenza fondata nel
mondo, infatti dasein e in der welt sein sono sinonimi (Vattimo).
“Mondo” va quindi inteso come un carattere fondativo dell’esserci,
checostituisce l’orizzonte delle sue possibilità e quindi della sua
esistenza.
Dunque cos’è il In-der-Welt-Sein? Non è altro che la definizione di
quell’ente particolare che in virtù della sua apertura al mondo, dispiega il
suo Esserci mediante la sua esistenza (Pieri).
Questo rapporto necessario col mondo è il prendersi cura(Besorgen)
ovvero avere a che fare col mondo dal punto di vista pratico e teoretico.
Va detto che il Besorgen è solo uno dei modi della “sorge”, la cura,
l’altro è infatti il fursorge, quella che si riferisce a l’aver cura degli altri
essere umani (“Fur”, per, rimanda ad una finalità). Comunque la Sorge,
la cura, esprima ancora una volta quel carattere di essere nel mondo
dell’uomo, che deve aver necessariamente a che fare con il mondo per
esistere.
2. Questo essere nel mondo è contemporaneamente un essere l’uomo
con l’altro: esserci è sempre una relazione con altri, si necessariamente
inseriti nelle relazioni. Con gli altri si ha dunque un mondo in comune,
nel senso che si un Mitwelt, un “mondo-insieme”.
3. Questo essere nel mondo con altri si esprime essenzialmente nel
parlare: come diceva Aristotele, siamo “animali sociali”. L’oggetto del
parlare comprende sempre un’autointerpretazione dell’esserci stesso, nel
senso che nel nostro parlare noi esprimiamo anche noi stessi, in quanto
in ogni giudizio noi esprimiamo il nostro aver a che fare col mondo così
come esso si modifica di volta in volta che passa il tempo.
4. L’esserci si determina come io sono: è una dimensione trascendentale
che guarda a sé stesso in quanto individualità: ovvero in quanto essere di
volta in volta mio.
5. Nella quotidianità però questo essere con gli altri comporta il fatto che
nessuno sia autenticamente sé stesso : il fatto che l’essere sia gettato
con altri nel mondo comporta il fatto che egli venga inserito in un
contesto, in tali contesti l’esserci è spinto naturalmente a perdersi
nell’impersonale si, che diviene la vera soggettività, una soggettività che
però non è nessuno. L’inautenticità però non è altro che la condizione
necessaria, ricorda Pieri, del Dasein in quanto egli è appunto “gettato” in
un mondo che non conosce e dal quale deve apprendere tutto, anche il
“senso comune”. Dal momento che egli “accade” nel mondo è già di
fatto inautentico. La sua deiezione consiste allora in un vivere per forza
inautentico in quanto da sempre “gettato”.
6. Nel suo prendersi cura l’esserci, allo stesso tempo, si prende cura del
proprio essere: nel senso che, come nella poesia di Borges, quello che
facciamo siamo noi stessi. (forse Heidegger sta intendendo che sentiamo
la responsabilità del nostro essere? E quindi sta anticipando il tema della
morte?). (Heidegger usa in questo punto la parola “incatena”, la Pieri ne
approfitta i Levinas secondo cui nella filosofia dell’hitlerismo l’essenza
dell’uomo sta, non nella libertà, ma in un “incatenamento”; essa
riprenderebbe allora un’idea heideggeriana. Tale filosofia sarebbe
un’enorme semplificazione di quella heideggeriana: l’uomo non è
gettato ma inchiodato. Ma comunque Levinas, per la Pieri, ha torto: in
quanto ciò significa rigettare che Heidegger intenda l’essenza umana
come possibilità.)
7. Nella medietà tuttavia l’esserci ha sé stesso: nel senso che “incontra” se
stesso in ciò che fa, ovvero in ogni cosa che fa interpreta sé stesso.
8. L’esserci non può essere mostrato in quanto non si può sfuggire da sé
stessi, non si può porci esternamente a noi stessi. L’interpretazione che
di noi stessi diamo è quindi sempre dominata da “si” e dalla tradizione
in cui viviamo.

Heidegger si chiede a questo punto se sia possibile conoscere quindi l’esserci:


l’aporia della conoscenza è “superabile” solo se non la eludiamo, ovvero se
rimaniamo all’interno della nostra esistenza: in altre parole, l’autentico è conoscibile
solo attraverso l’inautentico. Come può l’esserci cogliersi nella totalità del suo essere
se fintanto che è, non è? Egli è infatti sempre una possibilità, tranne ad un momento:
quando non è più, quando muore. Ma come fare per esperirla? Non certo attraverso
la morte degli altri; la morte non è infatti neanche qualcosa che si possa esperire, non
è un’esperienza, ma va intesa come possibilità costitutiva dell’esserci: essa è infatti
una possibilità autentica, nel senso che da un lato costituisce una possibilità per
l’esserci, ovvero che modifica la sua vita, e dell’altro è autentica perché la morte è
sicura. Tuttavia essa è anche indeterminata.
Dunque, l’esserci deve precorrere la propria morte: non come il “pensare che siamo
mortali” ma come un precorrere che riporta “indietro”, che fa apparire la nostra
esistenza come una pura possibilità, aprendogli così la libertà: in altre parole il
dasein tornando al “come” della sua esistenza e vede tutti i suoi progetti come
appunto possibilità realizzata, forse in maniera inautentica, in tal modo egli non si
irrigidisce in uno di essi ma si mantiene aperto.
 Cosa c’entra tutto questo con il tempo?
L’esserci che precorre la propria morte ricade sulla propria esistenza divenendo
“libero” e quindi in grado di prendere decisioni fondamentali, ovvero in rapporto
alla propria morte. Questo precorre la morte è ciò che fonda il tempo: la decisione
anticipatrice fondata dalla morte fonda il futuro in quanto si tiene aperta a un
“avvenire” senza mai irrigidirsi in una decisone fissa. Questa decisione anticipatrice
assume d’altra parte il senso del proprio essere fondamento di una nullità, e perciò
prende consapevolezza della propria deiezione, la propria colpa passata, e ciò è il suo
proprio passato. Dunque il tempo così inteso è un tempo kairologico nel senso che è
fondato dalla decisione anticipatrice che “crea” futuro, crea tempo. Questo precorrere
per la Pieri non è altro che l’angoscia, vedersi gettati e totalmente liberi genera infatti
questo “incredibile spaesamento”.

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