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Frezza Chiara

n° matricola: 1237569
Filosofia della Comunicazione

OGGETTO E FINZIONE IN ALEXIUS MEINONG

L’obiettivo di questo lavoro consiste nell’esporre brevemente alcuni concetti e teorie che Alexius
Meinong (1853-1920) – filosofo austriaco noto principalmente per la sua teoria degli oggetti – ci mette a
disposizione, per arrivare poi alla trattazione di questioni relative all’attività della finzione e più in particolare
ai suoi correlati: gli oggetti verso i quali essa è rivolta. A tal fine, inizierò con il presentare la teoria semiotica
di Meinong nelle sue linee fondamentali, confrontandola, in certi punti con alcune idee elaborate da Franz
Brentano nel testo La psicologia dal punto di vista empirico (1874).
Un ruolo importante per una chiara maturazione delle idee meinonghiane sul rapporto fra parola, oggetto
e rappresentazione è infatti giocato dall’influsso della teoria brentaniana dell’intenzionalità dei fenomeni
psichici. In La psicologia dal punto di vista empirico, Brentano, dopo aver definito la psicologia descrittiva come
scienza fondamentale, si occupa della distinzione tra fenomeni fisici e fenomeni psichici1. Per chiarire il
senso dei due termini «fenomeno fisico» e «fenomeno psichico», è forse efficace evitare definizioni generali
e superiori, ricorrendo invece a determinazioni particolari.
Ogni presentazione nata dalla sensazione o dalla fantasia è un esempio di fenomeno psichico, laddove con il termine
«presentazione» non intendo qui ciò che viene presentato, ma l’atto di presentare; esempi di presentazione così intensa
sono l’udire un suono, il vede un oggetto colorato, il sentire caldo e freddo, così come gli analoghi stati di fantasia […].
Inoltre, sono fenomeni psichici ogni giudizio, ricordo, attesa […]. Così come tutti i moti d’animo: gioia tristezza, paura,
speranza […].
Esempi di fenomeni fisici sono invece un colore, una figura, un paesaggio che vedo, un accordo che odo2.

Successivamente Brentano cerca di indicare un criterio di demarcazione preciso tra fenomeno fisico e
psichico, individuando, per esempio, la separazione tra interno/esterno oppure il carattere dell’estensione e
della determinatezza spaziale. Dopo una serie di argomenti, tali contrassegni si rivelano, per il filosofo, non
sufficienti a stabilire una distinzione netta e sono invece in grado di circoscrivere i fenomeni psichici solo in
termini negativi. Solo nel §5 del libro II° del testo in questione Brentano individua una caratteristica comune
a tutti i fenomeni psichici, per lo meno per analogia, e inizia a presentare i fenomeni psichici in termini
postivi:
Ogni fenomeno psichico è caratterizzato da ciò che gli scolastici medioevali chiamarono l’in/esistenza intenzionale
(ovvero mentale) di un oggetto, e che noi, anche se con espressioni non del tutto prive di ambiguità, vorremmo definire
in riferimento a un contenuto, la direzione verso un obietto (che non va inteso come realtà), ovvero l’oggettività
immanente. Ogni fenomeno psichico contiene in sé qualcosa come oggetto, anche se non ciascuno nello stesso modo.
Nelle presentazioni qualcosa è presentato, nel giudizio qualcosa viene o accettato o rifiutato, nell’amore qualcosa viene
amato, ecc.
Tale in/esistenza intenzionale caratterizza esclusivamente i fenomeni psichici. Nessun fenomeno fisico mostra
qualcosa di simile. Di conseguenza possiamo definire psichici quei fenomeni che contengono intenzionalmente in sé un
oggetto3.

La descrizione di fenomeno psichico proposta da Brentano è sicuramente ambigua: da un lato vi è


l’accettazione di una sorta di immanenza all’oggetto ma dall’altro vi è anche l’ammissione di una direzionalità

1 Il campo di indagine di Brentano è quello epistemico e non quello metafisico: stiamo appunto parlando di fenomeni, di un qualche
cosa che appare e non di cose psichiche o fisiche.
2 F. Brentano, Albertazzi, Liliana, La psicologia dal punto di vista empirico / Franz Brentano a cura di Liliana Albertazzi, Roma, Laterza,

1997, pp. 144 – 146.


3 Ivi pp. 154-155.

1
verso un obietto. A partire da tale definizione, tra fine ‘800 e i primi decenni del ‘900, si è arrivati
all’elaborazione di diverse teorie da visioni ontologicamente differenti4.
Una tra queste è quella proposta da Meinong, il quale rielabora la teoria di Brentano attraverso la
mediazione di Twardowski5. Quest’ultimo, per cui vi è un’analogia tra fenomeni psichici e forme linguistiche,
sostiene che ogni rappresentare è sempre indirizzato verso un oggetto, e che ogni nome nomina un oggetto,
sia questo esistente o meno, così come ogni rappresentazione rappresenta un oggetto. Meinong fa proprio
tale esito ribaltando la più comune concezione per cui sono date rappresentazioni senza oggetto – designate
da nomi i quali sono portatori di significato alla stregua di altre parole ma vuote quanto all’estensione –
arrivando come risultato ultimo, a teorizzare il darsi di oggetti non-esistenti6.
Una distinzione indispensabile formulata da Meinong, in accordo con Twardowki, a partire dal testo del
1899 Über Gegenstände höherer Ordung und deren Verhältins zur inneren Wahrnehmung, in relazione all’atto psichico
della rappresentazione, è quella tra contenuto e oggetto. Tale distinzione funge da fondamento a tutta quella
costruzione teorica riconosciuta come la teoria dell’oggetto. Secondo Meinong, ogni rappresentazione ha in
comune con le altre l’atto del rappresentare (la qualità dell’atto), ciò che le differenzia le une dalle altre è il
contenuto, cosicché a diversi oggetti corrispondono diverse rappresentazioni. L’oggetto, si dà
indipendentemente dal fatto di esistere o meno, mentre per il contenuto è necessaria l’esistenza e la realtà
psichica nella mente di chi compie l’atto rappresentativo. Dal rapporto del vissuto psichico con il suo oggetto
emerge quella parte che è il contenuto. Se ci si può rappresentare qualcosa come un centauro, allora di
questo esiste senz’altro il contenuto, non l’effettivo centauro, ma la rappresentazione di centauro. Infatti, se
non fossi in grado di rappresentarmi l’idea di centauro, non sarei nemmeno in grado di dire che esso, nella
realtà, non esiste.
È noto inoltre, che la teoria dell’oggetto vuole essere una scienza dell’oggetto in quanto tale, libera dal
presupposto esistenziale, che considera gli oggetti indipendentemente dal fatto che esistano o meno. Nel
celebre testo del 1904 Über Gegenstandstheorie (Sulla Teoria degli Oggetti) Meinong si occupa anche di oggetti
non esistenti, non tralasciando però quelli esistenti. Il termine daseinsfreiheit infatti, non designa una sorta di
opposizione all’esistenza, bensì un’indipendenza da essa. Meinong stesso sostiene che «è quindi fuor di
dubbio: ciò che può essere oggetto del conoscere non ha affatto bisogno di esistere»7.
Meinong distingue tre modalità dell’essere:
- Oggetti che esistono e sussistono;
- Oggetti che non esistono ma sussistono;
- Oggetti che né esistono né sussistono.
Oltre alle entità che esistono spaziotemporalmente (mia sorella, mia madre e mio padre per esempio) e alle
entità che esistono ma non spaziotemporalmente e che quindi sussistono (i numeri e i teoremi), ci sono
entità che non esistono né spaziotemporalmente né non spaziotemporalmente, come il legno ferroso e il
quadrato rotondo, ai quali spetta solo l’extra essere, che è il denominatore comune a tutti gli oggetti. Esistenza
e sussistenza non appartengono all’essenza di un oggetto ed è infatti possibile parlare dell’esser-così di un
oggetto, ossia delle proprietà che intervengono nella sua caratterizzazione descrittiva, prescindendo dal suo
essere. Questo fatto viene espresso dal principio di indipendenza dell’esser-così dall’essere (PI):
Quel che non è in nessun modo esteriore all’oggetto, ma costituisce la sua propria essenza, consiste nel suo esser-così,
il quale aderisce all’oggetto, che esso sia o non sia […]. Il fatto è abbastanza importante perché lo si formuli
esplicitamente come il principio di indipendenza dell’esser-così dall’essere, e l’ambito di validità di questo principio risalta

4 È data la possibilità di tre differenti linee interpretative della definizione brentaniana di fenomeno psichico. Vi è la teoria
“avverbialista” dell’intenzionalità la quale pone l’attenzione su come il soggetto si dirige verso il mondo e per cui l’indeterminatezza
dell’oggetto dipende dall’indeterminatezza dell’intenzione del soggetto (Husserl prosegue sulla linea di questa prima soluzione). Una
seconda teoria per la quale è data una duplicazione dell’oggetto: vi è l’oggetto immanente al soggetto pensante e l’oggetto reale che
si trova nel mondo. E una terza possibilità, proposta da Meinong, la quale ci offre un paesaggio ontologicamente molto denso.
5 Influenzato dallo stesso Brentano e da Robert Zimmerman.
6 Viene ribaltata la tesi di Bolzano grazie alla mediazione di Zimmerman e di Twardowski.
7 A. Meinong, Über Gegenstandstheorie, [originariamente in A. Meinong, Untersuchungen zur Gegenstandtheorie und Psychologie, Barth,

Leipzing 1904], in Gesamelte Abhandlungen, Gesamtausgabe, [trad.it di V. Raspa (a cura di), Teoria dell’oggetto, Parnaso, Trieste 2002, p.
241.

2
al meglio in considerazione della circostanza che, a tale principio, sottostanno non soltanto oggetti i quali, appunto, non
esistono di fatto, ma anche quelli che non possono esistere, perché sono impossibili 8.
A ciò si unisce il cosiddetto principio di caratterizzazione (PC), non direttamente formulato da Meinong ma
che lo si può trovare espresso implicitamente in Über Gegenstandstheorie (1904):
Gli oggetti, indipendentemente dal fatto che esistano o meno, hanno effettivamente le proprietà che sono mobilitate
nella loro caratterizzazione; per esempio, se P è una siffatta proprietà caratterizzante, l’oggetto che P-eggia ha
effettivamente la proprietà P 9.
Che un oggetto è fuori dall’essere significa che è in-attualizzato, ma che può giungere all’espressione o essere
appreso, e questo è possibile anche per oggetti non-esistenti come i numeri, la montagna d’oro e i personaggi
dei romanzi.

È ora necessario fare un brevissimo cenno alla teoria del giudizio di Meinong, per capire a grandi linee
che tipo di proposizioni sono quelle che compaiono nei testi letterari e per poter passare in un secondo
momento alla trattazione dei ficta, quelle entità finzionali che – in un qualche senso – non esistono.
Secondo Meinong, il linguaggio è fondamentalmente espressione, in quanto rende note le rappresentazioni
di chi parla, e cioè tanto l’atto del rappresentare, quanto il contenuto. Tuttavia, tenendo a mente la
distinzione fondamentale tra contenuto e oggetto, quel che il parlante vuol dire, non è quel che le parole
esprimono (il contenuto), bensì quello che essere significano (l’oggetto); la parola con il suo significato mira non
al contenuto delle nostre rappresentazioni, bensì al loro oggetto (espresso appunto mediamente la parola
corrispondente)10. Un segno, una parola designa innanzitutto un fatto psichico (di cui una parte è il
contenuto), e in secondo luogo un oggetto, a cui il segno è collegato mediante il fatto psichico (contenuto),
tanto che senza quest’ultimo, il segno non può mai rimandare all’oggetto.
Passando ora dalle parole alle proposizioni, è possibile dire che, per Meinong, queste ultime esprimono
un giudizio solo se asseriscono una convinzione riguardo all’oggetto dell’espressione. Il giudizio è un modo
di comportarci verso gli oggetti che ci vengono presentati; ha bisogno delle rappresentazioni, in quanto suoi
fondamenti indispensabili dal momento che ogni evento della vita psichica che non sia esso stesso una
rappresentazione ha come presupposto il rappresentare. Il giudizio possiede due momenti: la convinzione per
cui quel che esso esprime ha pretesa di verità e l’affermazione, che rende il giudizio o affermativo o negativo.
In tutto questo è evidentemente presente un eco della concezione brentaniana per cui:
In base a quanto abbiamo osservato, quando diciamo che presentazione e giudizio sono classi fondamentali diverse
di fenomeni psichici, intendiamo dire che esse costituiscono due modi completamente diversi nella coscienza di un
oggetto. Con questo non neghiamo che ogni giudizio presupponga una presentazione, […] sosteniamo piuttosto che
esso viene accolto nella coscienza in modo duplice: come oggetto presentato e come oggetto ritenuto vero, oppure
negato11.
Tuttavia, oltre ai giudizi, le preposizioni possono esprimere altri vissuti psichici. Nel leggere un romanzo
incontriamo proposizioni che esprimono giudizi e altre che non li esprimono. Ci troviamo di fronte a delle
proposizioni dette assunzioni, cioè giudizi senza convinzione, che possiedono il momento della posizione,
ma che vengono asserite senza pretesa di verità. Meinong non esclude variazioni di grado dell’intensità della
convinzione tanto da poter distinguere due tipi di assunzioni. Le prime sono dette assunzioni simili ai giudizi,
le quali emergono dal loro contesto finzionale e possono essere comprese anche in altri contesti
(probabilmente perché i loro significati si riferiscono alla realtà); le seconde sono invece dette assunzioni
umbratili e hanno come contesto di riferimento solo il romanzo.
Ora, anche per le rappresentazioni vale quanto si è detto per le assunzioni: esistono le rappresentazioni
simili-alle-serie (con serie si intende percettive) e quelle umbratili. In Guerra e Pace, Napoleone è una
rappresentazione simile-alle-serie, Pierre Bezuchov una umbratile.

8 Ivi p. 242.
9 Cfr. Ivi, p. 242.
10 Cfr. A. Meinong, Über Gegenstände höherer Ordnung und deren Verhältnis zur inneren Wahrnehmung trad. it di V. Raspa, Sugli oggetti di

ordine superiore e il loro rapporto con la percezione interna, in Teoria dell’oggetto, Trieste, Edizioni Parnaso 2002, p. 162.
11 F. Brentano, Albertazzi, Liliana, La psicologia dal punto di vista empirico / Franz Brentano a cura di Liliana Albertazzi cit., p. 146.

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Tornando ora alla tesi per cui gli oggetti meinonghiani possono essere pensati come correlati di insiemi
di proprietà, è possibile introdurre l’argomento, non strettamente inerente alla Teoria dell’oggetto di
Meinong ma da questa derivabile, relativo alle entità fittizie. I ficta, concepiti come insiemi di proprietà,
possono essere considerati come un sottoinsieme di oggetti meinonghiani inesistenti. Anna Karenina
diventa così l’inesistente oggetto meinonghiano costituito dalle proprietà dell’essere una donna
dell’aristocrazia russa del XIX, l’essere sposata senza amore e totalmente estranea al marito, l’essere
innamorata dell’ufficiale Vronskij, l’essere madre del piccolo Serëža, e da tutte le altre proprietà mobilitate
dalla narrazione di Tolstoj12. Le proprietà che compongono l’insieme di proprietà cui un oggetto finzionale
è correlato intervengono quindi a costruire la sua identità.
Gli oggetti non esistenti di Meinong – categoria di cui fanno parte anche le entità fittizie – sono anche
detti oggetti di ordine superiore. Essi hanno come loro parti costituenti oggetti di ordine inferiore, scomponibili
fino a raggiungere gli infima, elementi ultimi non ulteriormente riducibili. Si giunge quindi alla produzione di
oggetti finzionali tramite la composizione di diversi inferiora13. La correlazione in questione tra insiemi di
proprietà e oggetti meinonghiani sembra quindi essere una correlazione uno a uno: a ogni insieme di
proprietà corrisponde uno e un solo oggetti meinonghiano.
In più, il fondamento per le nostre rappresentazioni fantastiche, per Meinong, è da ricollegare
all’esperienza anche se non necessariamente in maniera diretta. Il centauro per esempio è dato dalla
composizione della testa e il busto umano con la parte posteriore del corpo di un cavallo. Riusciamo quindi
a produrre la rappresentazione del centauro (a inventarla e non a crearla) usando un materiale che c’è già.
Quindi, l’autore di un romanzo non crea i propri personaggi poiché essi sono già dati nella sfera dell’extra
essere. L’autore, utilizzando determinate parole e proposizioni, è invece in grado di produrre determinati
vissuti psichici – la cui parte sostanziale è il contenuto – che ci permettono di apprendere un oggetto. Senza
i segni l’oggetto non è conoscibile ma nella sfera dell’extra essere c’è. Pima che Collodi producesse Pinocchio,
il tenero burattino di legno non era conoscibile, ma c’era in quanto è una delle possibili combinazioni di
proprietà che si danno nell’extra-essere.
Un ulteriore punto importante della visione meinonghiana è quello per cui gli oggetti non-esistenti,
perciò anche i personaggi delle storie, sono oggetti incompleti, e quindi – sia da una prospettiva ontologica
che gnoseologica – non determinati sotto tutti i loro aspetti. L’oggetto non completamente determinato è
definito con questo termine in opposizione all’oggetto concreto, che è invece completamente determinato14.
Il concetto di umbratilità visto in precedenza, in questo caso riferito agli oggetti delle rappresentazioni, e
il concetto di incompletezza riescono a giustificare sia le entità tipicamente finzionali, sia quelle entità simili a
quelle reali, compresi i casi in cui un autore attribuisce a un personaggio storico caratteristiche inventate e a
uno inventato caratteri che lo rendono simile a una persona reale. Ciò è possibile poiché per Meinong
esistere in senso finzionale significa esistere secondo modi, livelli e soprattutto gradi di intensità diversi, e
anche le nozioni di umbratilità e incompletezza possono essere gradualmente misurate.
Finora non è ancora stato specificato che tipo di rapporto è dato tra entità fittizia e contesto. La cosa
dipende ancora una volta dal tipo di oggetto presentato: una rappresentazione simile-alle-serie presenta un
oggetto finzionale nel racconto che però rinvia a un suo prototipo nel mondo reale e amplia quindi il
contesto oltre i limiti della cornice testuale; al contrario, una rappresentazione umbratile presenta un oggetto
che si dà esclusivamente all’interno del mondo fittizio creato dal testo.
Riassumendo, potremmo dire che gli oggetti finzionali di Meinong sono oggetti non esistenti, incompleti
e di ordine superiore, che entrano a far parte del nostro mondo, ossia di ciò che ci è conoscibile, attraverso
l’attività produttiva dell’autore e sono collegati al contesto in cui l’attività fantastica li ha collocati; tale
collegamento è mediato in maniera più o meno forte dal grado di umbratilità delle rappresentazioni.

12 Cfr. A Voltolini, Finzioni. Il far finta e i suoi oggetti, Laterza, Bari-Roma, 2010, pp. 63-65.
13 Cfr. A. Meinong, Über Gegenstände höherer Ordnung und deren Verhältnis zur inneren Wahrnehmung trad. it di V. Raspa, Sugli oggetti di
ordine superiore e il loro rapporto con la percezione interna, in Teoria dell’oggetto, Trieste, Edizioni Parnaso 2002, pp. 159-162.
14 Naturalmente un oggetto determinato è interamente determinato solo in senso ontologico, non gnoseologico, perché non è

possibile conoscere tutte le infinite determinazioni di un oggetto.

4
La teoria di Meinong (e soprattutto le successive elaborazioni (neo)meinonghiane) tende così a
considerare le entità fittizie come entità ideali e queste, in quanto correlati di proprietà, possono essere viste
come una sorta di prototipo di entità platoniche. Questa visione non risolve però il problema della creazione
dei personaggi finzionali, dato che essi sembrano preesistere a ogni attività di raccontare storie, che invece,
intuitivamente, è proprio ciò che porta gli oggetti fittizi a esistenza.
Quest’intuizione molto più naturale e comune rispetto alla quella per cui le entità fittizie sono date
nell’extra-essere, è spiegata dalle teorie artifattualiste e in particolare da quella elaborata da Amie Thomasson,
la quale ha cercato di superare il problema delle condizioni di esistenza – punto che non era stato messo
ben a fuoco da Meinong – definendo i personaggi romanzeschi artefatti astratti: essi vengono a esistere non
appena l’autore li concepisce (artefatti), ma la loro esistenza corrisponde alla loro esistenza non-
spaziotemporale e quindi alla loro sussistenza (astratti). Se per Meinong e i (neo)meinonghiani un’entità
fittizia è data nella sfera dell’extra-essere anche prima della sua comparizione nel testo di cui fa parte senza
però essere conoscibile, per le teorie artifattualiste, solo quando Collodi si mette a pensare l’incipit di
Pinocchio: «C’era una volta un pezzo di legno» Pinocchio viene ad esistere, in quanto creazione autoriale di
Collodi.
Una possibile soluzione in grado di tener conto delle condizioni di esistenza dei personaggi fittizi ma
anche della loro identità, potrebbe essere quella di rendere compatibile la teoria di Meinong con quelle
artifattualiste, sostenendo che i ficta sono sempre artefatti astratti ma sono altresì entità letteralmente
costituite tanto da insiemi di proprietà, quanto dalle attività finzionali in cui quelle proprietà sono mobilitate.
Un altro punto particolarmente controverso è quello dell’incompletezza ontologica delle entità non
esistenti. Tale argomento è stato criticato da molti studiosi che si occupano di temi concernenti l’attività
della finzione, in particolare da Peter Lamarque, filosofo dell’arte inglese che lavora nella tradizione analitica.
Secondo Lamarque, le entità fittizie sono entità vincolate e dipendenti dalla mente umana, nello specifico
da quella del proprio autore. Si tratta infatti di personaggi ben definiti e dalla straordinaria profondità
psicologica, quasi riconoscibili come esseri umani, ma nello stesso tempo pienamente fittizi perché prodotti
dall’immaginazione di chi li concepisce. Essi vengono definiti da Lamarque come entità prospettiche poiché la
loro identità è indissolubilmente legata alle descrizioni incorporanti punti di vista sia fisici che valutativi, e
alle modalità descrittive/narrative con le quali l’autore ce li presenta15.
Inoltre, anche la tesi meinonghiana per cui tra insiemi di proprietà e oggetti meinonghiani vige una
correlazione uno a uno comporta delle ambiguità. Considerando infatti il famoso caso proposto da Borges
in Finzioni, in cui si immagina che a un individuo, Pierre Menard, capiti di scrivere esattamente il Don
Chisciotte di Cervantes, appellarsi all’idea che i ficta siano semplicemente degli insiemi di proprietà risulta
controproducente; avremmo infatti un solo ficta, quando invece sono intuitivamente due. Non è quindi
esclusa la possibilità in cui a uno stesso insieme di proprietà corrispondono diverse entità di ordine superiore
se esse ammontano a differenti modi di assemblare quelle stesse proprietà. Così, a uno stesso insieme di
proprietà possono corrispondere due ficta nella misura in cui quello stesso insieme di proprietà viene
mobilitato in due processi di far finta che intervengono come costituenti distinti di quegli stessi ficta16.
In conclusione, essendo la finzione un concetto complesso molto facile da applicare, ma decisamente
complicato da definire, ne consegue la difficoltà di una definizione ontologica coerente e completa relativa
ai suoi correlati. Guardando all’esperienza è chiaro che Topolino, Cenerentola e Harry Potter, in un certo
senso, non esistono. Tuttavia, potremmo chiederci: che ruolo hanno i personaggi finzionali nelle nostre vite?
Una certa entità può dirsi esistente solo se tale esistenza produce delle conseguenze che si manifestano in
un certo tipo di comportamento nella nostra vita di tutti i giorni? Un fatto controverso ci è allora presentato
dalle emozioni che riusciamo a provare nei confronti di Rasputin, Oliver Twist e Desdemona. Leggendo
infatti il romanzo di Tolstoj siamo portati a provare compassione per Anna Karenina. È possibile provare
emozioni reali per personaggi fittizi, e quindi per entità che in un certo senso non esistono? Nel contesto

15 Cfr. P. Lamarque, Belief, Thought, and Literature, in E. Sullivan-Bisset, Helen Bradley, Paul Noordhof (a cura di), Art and Belief,
Oxford University Press, Oxford 2017, p. 100.
16 Cfr. Voltolini, Finzioni, cit., pp. 86-87.

5
finzionale non abbiamo a che fare con oggetti fittizi, anche se questi oggetti non rientrano nel nostro
dominio generale di ciò che c’è. Nel momento della fruizione si è coinvolti in un gioco di finzione più ampio
che comprende sia gli eventi narrati, sia i partecipanti a tale racconto. Le emozioni che proviamo verso
queste entità sono genuine, ma finte perché provate all’interno di un mondo fittizio; contesto in cui siamo
spettatori partecipi. L’intuizione di provare emozioni per entità che riconosciamo come fittizie è giustificata
e non necessita la sospensione della convinzione che le entità verso cui proviamo tali emozioni non esistano
nella realtà, ma allo stesso tempo possiamo affermare che tali entità, seppur non esistenti, hanno degli effetti
reali nelle nostre vite.

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