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ENRICO MANGINI

IL SOGNO, FOTOGRAFIA E INDICATORE DEL


FUNZIONAMENTO PSICHICO
DEL SOGGETTO E DEL PROCESSO ANALITICO(*)

Nei processi del sogno l’uomo si esercita alla vita vera


(Nietzsche)

Introduzione: il sogno, ovvero lo specifico della psicoanalisi


Freud, nel suo tentativo radicale e “impossibile” di autoanalisi, si
era basato principalmente sull’analisi dei propri sogni e forse per
questo ne sottolineò maggiormente l’aspetto criptico
qualificandolo come materiale ad alto tasso rappresentativo e a
basso tasso di comunicazione, e iconografando l’interpretazione
del sogno come “la via regia che porta alla conoscenza
dell’inconscio” (Freud, 1899, 553). Nel 1931, nella prefazione alla
terza edizione inglese e americana della Traumdeutung, Freud
esprimeva la convinzione che la teoria sul sogno fosse rimasta
negli anni sostanzialmente invariata e che (forse proprio per
questo) continuava ad essere “la più valida di tutte le scoperte che
io abbia mai avuto la fortuna di fare” (1899, 9).
Se oggi, soprattutto per merito di Bion, e una volta lasciata alle
spalle l’ipersaturazione kleiniana dei simboli onirici, si sono
aggiunti altri pensieri sul sogno che sono confluiti in nuove teorie,

(*)
Questo lavoro è una versione ampliata della relazione presentata al Congresso “Il sogno 100 anni dopo” (Roma, giugno
1998) ed è stato letto al Centro Veneto di Psicoanalisi il 21 marzo 1998.

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ciò non significa che Freud si fosse sbagliato. Bion prenderà il
sogno per un altro vertice, sottolineandone la funzione prettamente
psichica di trasformazione delle esperienze emotive e
sensomotorie - facendolo in definitiva coincidere con la capacità di
pensare - e sostenendo per converso che chi “non è in grado di
trasformare la propria esperienza emotiva in elementi alfa, non può
neanche sognare” (1978, 28).
Questa idea sul sogno, che sembra mettere in secondo piano la sua
pregnanza inconscia, è figlia di una stanza di analisi che, per
l’accento posto sul “relazionale”, era profondamente cambiata
rispetto agli anni di Freud, per cui il sogno, non più “via regia”, è
diventato uno dei tanti sentieri e una delle possibili forme di
comunicazione che il paziente utilizza nella relazione analitica
(Bezoari e Ferro, 1994).
Questa sottolineatura delle valenze “comunicative” del sogno non
credo debba impedire di poter pensare al sogno come a un
materiale del tutto “speciale” per lo psicoanalista, non solo in
quanto oggetto del lavoro interpretativo “sull’inconscio”, ma come
“epifenomeno del funzionamento psichico” (Giaconia, 1993, 29), a
partire cioè dalla convinzione che la presenza o l’assenza del
sogno testimoni di un particolare funzionamento (di
quell’apparato psichico in quel particolare momento) e che il
sogno quindi possa, nella sua modalità espressiva, evidenziare
variazioni e modificazioni macroscopiche della struttura psichica,
ad esempio attraverso l’oscillazione “non sognare/ sognare”, o
l’oscillazione “sognare e dimenticare/sognare e ricordare”, oppure
variazioni microscopiche che si evidenziano nella raffigurazione
visivo-spaziale o nella particolare costruzione narrativa del sogno
stesso.

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Quanto detto non solo non esclude ma anticipa “la funzione che il
sogno ricopre nel processo della cura” (Pontalis, 1977, 17) e
conferma come “il sogno sia inserito in una logica relazionale”
(Giaconia, 1993, 30) essendo quello dell’analisi un aspetto
particolare, anche se specifico, di quanto il sogno funzioni più in
generale nella vita degli esseri umani, come ad esempio a livello
transgenerazionale nel caso dei discendenti di persone scampate
all’olocausto che sognano, al posto dei loro genitori, le
persecuzioni naziste (Barocas H. e Barocas C., 1979).
Vi è allora l’idea che il sogno dica del funzionamento psichico non
solo del singolo ma dello spazio psichico cui partecipa, idea vicina
al concetto di “involucro psichico” di Didier Anzieu, cioè di una
struttura che comprenda “sia gli aspetti di funzionamento mentale
del paziente, sia gli aspetti del setting analitico, sia gli aspetti del
controtransfert” (1987, 45). Idea “antica”, anticipata da Cesare
Musatti con la notazione che quando Freud “affrontò
l’interpretazione dei sogni altrui, continuò a leggere dentro di sé”
(1976, 125).
Così se si pensa a modalità di pensiero quali circolano all’interno
di un sistema, come può esserlo una coppia (dalla folie à deux alla
relazione analitica) o una famiglia, o un gruppo, ecco che i sogni
che vi compaiono appartengono anche allo spazio mentale cui
partecipano, e consentono, e in alcuni casi favoriscono, lo scambio
affettivo tra soggetto e oggetto (Missenard, 1987). Questo forse
significa che se Freud non avesse desiderato i sogni dei suoi
pazienti questi avrebbero smesso di raccontarli, e forse anche di
sognare, né ci sarebbe stato progresso nella teoria del sogno se
questi stessi pazienti, a un certo punto, non avessero fatto dei sogni

3
che “desideravano” smentire la teoria dell’appagamento di
desiderio di cui si faceva un gran parlare in quegli anni a Vienna.
Se Freud si sarà rivelato cattivo o buon profeta nel predire un
futuro oscuro per la psicoanalisi a causa delle scoperte scientifiche
sul funzionamento cerebrale, ciò dipenderà non solo da queste
scoperte, ma anche da noi analisti. Ora, sul tema del sogno, da
sempre conteso tra alchimia e chimica cerebrale, la psicoanalisi ha
tracciato un’altra via, quella della “specificità epistemologica
dell’inconscio” (Green, 1995, 14) da un lato luogo dell’oggettività
(o della non soggettività) i cui processi hanno la caratteristica
preminente “di rimanere indistruttibili” (Freud, 1899, 527),
dall’altro, nel suo disvelamento, luogo del soggettivo, aperto
all’interpretazione. Il sogno è appunto al centro di questo crocevia
epistemologico.

L’effetto cicatrizzante del sogno traumatico


Fin dal Progetto per una psicologia (1895) il sogno entra a far
parte del funzionamento di un apparato psichico, il più
semplificato possibile. Nel sonno, per l’appunto, venuto meno il
controllo del sistema omega, il flusso delle cariche energetiche
accumulate dal sistema, e il cui aumento porta al dispiacere, può
percorrere regressivamente la via che nella veglia porta alla scarica
motoria utilizzando come punto di scarica il polo percettivo, e
concretizzandosi così in immagini visive.
In questo modo, pur all’interno di un modello neurofisiologico
abbandonato ma che continua a mio parere a funzionare come
metafora, viene da subito posta un’adiacenza, e insieme una

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contrapposizione, tra scarica motoria e attività psichica1, con la
supposizione che anche quella psichica sia in origine una scarica
che segue il principio di piacere (come per l’allucinazione
primaria), ma anche che il pensiero non possa nascere che come
sostituto della scarica motoria, e quindi della scarica “tout court”,
che rimane a un livello non rappresentazionale.
Per riflettere meglio su questo punto che ha a che fare con le
funzioni psichiche di base, e sull’ “origine” dell’attività onirica,
ripenserei a ciò che Freud aveva esplorato, partendo come al solito
dalle eccezioni alla regola, in particolare dall’eccezione che
facevano i sogni traumatici rispetto alla regola generale del sogno
come appagamento di desiderio. Infatti i sogni traumatici, in cui la
scena del trauma viene ri-presentata più che rappresentata,
testimoniano del bisogno di scarica dell’apparato psichico da una
tensione non eliminabile con meccanismi di difesa e processi di
pensiero più evoluti.
Da quando ha subito un trauma sessuale in preadolescenza, una
mia giovane paziente sogna ripetutamente il busto dell’uomo che
l’ha aggredita. E’ una figura, sempre uguale, immediatamente da
lei stessa riconoscibile. D’accordo con Missenard, notiamo però
che “il sogno ripete non l’incidente in se stesso, ma gli istanti che
l’hanno preceduto, ed è un tentativo per collegare i due tempi:
quello del prima e del sentimento di invulnerabilità e quello del
dopo o la realtà della morte”. Il sogno non è dunque solo un
tentativo di dominio dell’afflusso di eccitazione attraverso la
scarica, secondo una prospettiva meramente economica, ma anche
“un tentativo di riparare la breccia” (Missenard, 1987, 48). Quindi
1
E’ impossibile citare tutti gli autori che dopo Freud si sono occupati di questo problema. Mi limito a citare per il loro
interesse il Ferenczi di “Pensiero e innervazione muscolare” (1919) e il concetto di “atto-sintomo” della McDougall (1982).

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non solo “scarica”, ma tentativo di autoriparazione, o se si vuole di
controllo, sovrapponibile al gioco del rocchetto di Ernst (Freud,
1920); qualcosa che, prima ancora di poter seguire il principio di
piacere, ne fosse allo stesso tempo condizione e presupposto. Per
queste ragioni il sogno traumatico funzionerebbe come barriera di
contatto, direbbe Bion, nel tentativo di riparare la lacerazione
narcisistica del trauma, mostrando nella ripetizione onirica la
difficoltà nella gestione dell’eccesso di eccitamento (con
conseguente tendenza alla scarica), ma palesando anche una
funzione potenzialmente autocurativa e cicatrizzante, tenuto conto
che qualsiasi cicatrice lascia comunque un segno.

Il sogno ricorrente e la funzione diagnostica del sogno


Differentemente dai sogni traumatici, i sogni ricorrenti sono sogni
non identici, che pur tuttavia vengono indicati dal paziente come
“lo stesso sogno [...] mentre in realtà le singole apparizioni del
sogno ricorrente si differenziano per numerosi dettagli e persino
per ampie modificazioni” (Freud, 1899, 377). Successivamente
Freud preciserà che “solo il nucleo centrale del sogno si è
ripresentato sempre allo stesso modo, i particolari del suo
contenuto sono mutati, oppure ne sono stati via via aggiunti di
nuovi” (1921, 399). Quindi il sogno ricorrente presenta un
elemento centrale invariante, simile al sogno traumatico, e degli
elementi periferici che variano. Questi, sentiti dal paziente come
insignificanti, risultano al contrario essere molto importanti,
essendo spesso dipendenti dal lavoro analitico e dunque elementi
atti a fotografare un cambiamento psichico sia del soggetto che
della relazione analitica.

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Sebbene Freud non avesse inizialmente fatto molte differenze tra i
sogni ricorrenti e altri tipi di sogno affermando in un primo tempo
di non averne “mai avuti” (1899, 180)2, propose ugualmente un
interessante parallelo tra questo tipo di sogno e le “idee deliranti
fisse” (1899, 94), interessante perché andava a rilevare proprio
l’elemento invariante connesso con la coazione a ripetere. Su
questa falsariga, illuminante sarà il sogno ricorrente di Dora
(Freud, 1901) dell’incendio e dello scappare, come se Dora
“dovesse” fare sempre lo stesso sogno ricorrente finché ciò che
doveva esprimersi non avesse trovato ascolto. Sappiamo che
l’interruzione del trattamento da parte di Dora, come dirà Freud
nella postfazione del 1905, era probabilmente dipesa dalla mancata
interpretazione ed elaborazione dell’elemento transferale che,
fungendo da nucleo traumatico, aveva nel contempo promosso il
sogno ricorrente.

“dottore ho sognato la solita porta”


A., studentessa, con una psicoterapia fallita alle spalle, i cui
problemi sono sul versante psicotico (ansia aconflitttuale, difese
ossessive fin da piccola, confusione con l’oggetto con i relativi
disturbi del pensiero, idee deliranti di essersi infettata con il virus
HIV), fa sogni senza racconto, bizzarri, sconclusionati, confusi,
paurosi in cui c’è qualcosa che la perseguita e, a differenza dei
tanti pazienti che sono sollevati dal portare un sogno in seduta, lei
ne è sempre spaventata. A. però ha un sogno ricorrente da sempre,
anche prima di giungere in terapia: sogna una porta, che sta spesso
lì, enigmatica e chiusa, davanti a lei. Nessuna associazione e
nessun affetto, solo una curiosità, il fatto che questo sogno così

2
I “sogni di Roma”, sono invece un esempio di sogno ricorrente in Freud (1899).

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essenziale si ripeta. Sa solo che è la sua porta di casa, quella
blindata.
E’ una bella ragazza, la cui fragilità interna mette in palio
sfiorando rapporti pericolosi da cui esce malconcia, confusa e con
interpretazioni persecutorie e autoreferenti sull’accaduto. E’
vergine (e su questo punto si era concentrato il terapeuta
precedente) e, nel tempo, compare confusamente l’idea, mai del
tutto verbalizzata, di un fantasma di seduzione infantile da parte di
un nonno “esuberante” sessualmente con tutte le donne di casa.
Troppo semplice pensare che sia la verginità la sua porta blindata?
Fatto sta che nel corso del primo anno di cura ogni tanto dice
“dottore, ho sognato la solita porta”. Ma non è sempre la “solita”:
una volta questa porta è chiusa ermeticamente, un’altra volta è
stata scassinata dai ladri, un’altra ancora lei vede terrorizzata che
qualcuno sta cercando di entrare dall’esterno; solo nell’ultimo di
questi sogni ricorrenti, la porta è solo socchiusa e lei è tranquilla.
Ecco allora che la porta segnala il limite a difesa di un sé fragile:
inizialmente è blindata; inizia la cura, si apre e cominciano i
tentativi di scasso di ladri e stupratori (tentativo di
rappresentazione del furto del pensiero e dei fantasmi infantili di
seduzione nel transfert); infine è solo socchiusa all’altro. Che cos’è
questa porta per il funzionamento mentale della paziente e della
cura? e cosa “vuol” comunicare con essa?
La porta, l’elemento invariante del sogno ricorrente, quello più
vicino al trauma, è un significante del limite sé/altro da sé, che
quando viene sognata e detta, raffigura il limite, o se si vuole la
dialettica chiusura/apertura, aprendosi a una spazialità e situandosi
dunque su un versante di possibile simbolizzazione. Nel contempo
sembra essere quella porta che si è chiusa nella ipotizzata (nella

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mia mente) scena del trauma infantile ma che non ha ancora
trovato le parole per rappresentarsi compiutamente. Insomma è un
elemento che fluttua tra simbolo ed “equazione simbolica” (Segal,
1957, 49). Invece le varie declinazioni della porta (aperta, chiusa,
ermetica, scassinata etc.), quindi le differenze che fanno sì che non
sia solo “la solita porta”, sono frutto dei movimenti all’interno
della cura, transferali e relazionali, e comunicano appunto “lo stato
della relazione” paziente-analista nelle differenti declinazioni
affettive che si stabiliscono nel corso della cura.
E’ difficile, e forse controproducente, interpretare sogni così
pregni di elementi pre-simbolici. Se lo si fa ci si espone a un
rischio di sovrasaturazione, perché nella porta c’è tutto, la paziente
come la relazione. Personalmente preferisco considerare questo
tipo di sogno come una cartina di tornasole degli elementi di
evoluzione/involuzione della paziente e della cura, una vera e
propria fotografia del funzionamento psichico, che contiene degli
elementi di “oggettività” e che può confermare (o meno) la mia
impressione controtransferale.
Quindi, tra le varie funzioni del sogno, oltre quelle definite da
Freud e ormai consolidate che si pongono in stretta relazione con
l’attività interpretativa dell’analista, qui si vuol segnalare una
funzione “diagnostica”3 del sogno, quindi non soggetta
all’interpretazione ma a una semplice presa d’atto che l’analista fa
nella sua mente, utilizzando il sogno come una “fotografia” della
struttura psichica del soggetto nella relazione. Un sogno utile più

3
Freud nel “Supplemento metapsicologico alla teoria del sogno” (1915) aveva parlato di una funzione diagnostica del
sogno in termini assolutamente diversi ma certamente interessanti. Rilevava infatti come il sogno, essendo espressione
del narcisismo primario, favorisse un “ingrandimento ipocondriaco” che poteva anticipare sofferenze corporee e
affezioni morbose.

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all’analista che al paziente nel valutare lo stato della struttura
psichica attuale nelle sue variazioni nel corso dell’analisi.
Vediamo invece cosa può succedere se un sogno di questo tipo lo
si interpreta:

“la signora dei sacchetti”


B., di 50 anni, dal funzionamento prevalentemente psicosomatico
(colite, emicranie, abitus e carattere anoressico) è una signora ben
integrata, impegnata politicamente, sostenuta da “prese di
posizione” ideologiche. All’inizio dell’analisi l’unica cosa che
secondo lei non funziona sono proprio i sogni, mentre ritiene di
parlarmi diffusamente di se stessa, cosa che però avviene solo su
un versante intellettualistico e razionalizzante.
I sogni, anche in questa paziente, permettono di vedere
un’evoluzione del processo analitico. All’inizio dell’analisi, e per
un certo periodo, dice di non sognare. Dopo circa un anno
comincia a portare dei sogni “per puro senso del dovere” perché
erano sogni che lei stessa definiva come “troppo realistici”, scialbi,
piatti e di nessun interesse. Non differivano in nessun modo da un
banale fatto diurno; mai qualcosa di curioso o di illogico, a
conferma di una netta scissione tra un mentale abitato da una
razionalizzazione estrema e il somatico attraverso cui scaricava gli
affetti.
Dico solo per inciso come questi sogni reali e poco invitanti siano
stati di straordinaria importanza nel processo di questa analisi, non
solo (e non è poco) perché la paziente si era messa a sognare, ma
perché raccontando questi sogni che lei stessa sentiva come
insignificanti, metteva in gioco il suo narcisismo onnipotente.
Questi sogni “realistici”, senza ombelico, troppo pieni, con

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nessuna associazione se non un raddoppiamento di fatti reali,
dicono anch’essi di una prima modalità di funzionamento psichico
della paziente. Cosa si poteva ipotizzare qui? Che, come nei sogni
dei bambini, ci fosse meno censura? O che al contrario la censura
appiattisse tutto, e il controllo della paziente fosse massimo anche
nel sogno, dato che nessun desiderio vi appariva, nessun
sentimento, nessun colore? Il sogno era nello stesso tempo
specchio fedele di un funzionamento difensivo primitivo, ma
anche un inizio di vitalità psichica dato che gli affetti che si erano
sempre scaricati nel somatico avevano nel sogno almeno una
possibilità di rappresentazione. In effetti i sintomi somatici erano
diminuiti di intensità parallelamente a questa seppur “realistica”
attività onirica.
Certamente per questo tipo di sogno è difficile parlare di
un’attività rappresentativa, sembra semmai una “copiatura”,
un’imitazione della realtà. Per questo motivo, più che pensare a
un’attività elementare di scarica ipotizzerei una sorta di funzione
autoplastica del sogno stesso promossa dalla relazione, perché quel
sogno così povero che faceva sentire la paziente così inadeguata
poteva essere riconosciuto (dalla paziente attraverso l’analista)
come qualcosa appartenente a lei stessa e alla relazione, e questo
incoraggiava la paziente a “imparare a sognare”.
Questi sogni “realistici” senza affetti perdurarono per anni fino alla
comparsa di un sogno ricorrente: il “sogno dei sacchetti”. La
paziente non si accorge di aver mutato i sogni, ma è impossibile
non notare che non sogna che sacchetti. I primi sacchetti portati in
sogno sono quelli della spazzatura (affetti sporchi da eliminare),
cui seguirono sogni in cui vi erano sacchetti che contenevano i
souvenir che portava a casa dai suoi viaggi (ricordi e affetti da

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tenere); e infine sogni con sacchetti che contenevano cose buone e
di valore (una se stessa ritrovata/l’analisi). Questa struttura che si
ripete (il sogno ricorrente-sacchetto) va a costituire una prima
semplice rappresentazione di un contenitore di affetti, ma è anche
una rappresentazione “fotografica” del funzionamento psichico
della paziente e del suo progressivo mutamento in relazione
all’analisi.
Quello che mi preme dire è che questi elementi, come “la porta” o
“i sacchetti”, appaiono come rappresentazione del confine e del
contenuto del sé, elementi presimbolici più che simbolici, non
tanto rappresentazioni di parola ma ideogrammi stessi della parola,
facenti parte della struttura del sogno più che del suo narrarsi. In
effetti quando in questa occasione, a differenza della “porta”, ho
pensato di interpretare forma e contenuto dei sacchetti,
obbligandoli a una trasformazione artificiosa in elemento del
discorso, da equazione simbolica a simbolo, da significante a
significato, la “signora dei sacchetti” i sacchetti non ha li ha più
sognati. Qualche tempo dopo, però, ha cominciato a portare un
altro sogno ricorrente che iniziava con la frase “sono in
un’automobile”: evidentemente l’elemento “automobile” aveva la
stessa funzione di “involucro” del sacchetto “saccheggiato”
dall’interpretazione. Non a caso nei primi sogni questa
“automobile” è rappresentata come rotta, in panne, incidentata, ma
poi, per fortuna, nuovamente funzionante.
Quindi, di fronte a simili sogni ricorrenti preferisco non
interpretare il contenuto del sogno e analizzarlo per il suo valore
“diagnostico” che mi dice, assieme all’utilizzo del controtransfert,
qual’è il funzionamento mentale del paziente e la sua posizione nel
transfert e nella cura.

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Il sogno ricorrente si specifica quindi per un nucleo invariante che
si ripete e che fa dire al paziente che “è lo stesso sogno”. Questa
parte invariante è a mio parere simile a un nucleo traumatico che,
come nei sogni traumatici, classicamente si ripete uguale perché
questa è la sua unica modalità espressiva, con la differenza
sostanziale però che non avendo a che fare con un insulto
traumatico e una ferita narcisistica, l’elemento invariante è un
primo abbozzo narcisistico che va a rappresentare il sé del paziente
(porta, sacchetto, automobile). Quindi, rispetto al sogno
traumatico, il sogno ricorrente contiene di meno sia il tentativo di
scarica che l’elemento di autoriparazione, e più una modalità
autopoietica di sviluppo dell’apparato per sognare. Ciò è
ulteriormente confermato dal secondo elemento del sogno
ricorrente, cioè la parte del sogno che balza meno agli occhi del
sognatore se non quando la racconta, cioè la parte che varia, e che
contiene in sé più di un elemento che fa pensare a una
elaborazione in corso, che quasi sempre se l’analisi funziona è in
senso progressivo (cioè la paziente sogna prima l’automobile in
panne e qualche settimana dopo un’automobile che va spedita).

Dal “non-sogno” al sogno


Un paziente adulto, ricorda ancora con vividezza un sogno fatto
all’età di cinque anni circa, che l’aveva svegliato di soprassalto:
aveva sognato di esser stato rapito e di trovarsi in un carro al buio.
Risvegliatosi nel buio della stanza, permaneva in lui la
convinzione della “realtà” del sogno, tanto da non riconoscere,
procedendo a tentoni, la sua stessa stanza, e trovandovi invece
elementi che lo rimandavano al carro sognato. Non sapendo più
come dominare l’angoscia si mise sommessamente a piangere

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finché, a un certo punto, si accese la luce e sentì la voce
consolatoria di sua madre che lo strappava dall’incubo. Questo
sogno, nonostante il contenuto angosciante, veniva dal paziente
sentito come un punto di svolta nella sua esistenza dato che, da
quel momento, non ebbe più paura di dormire da solo.
Questo racconto mi ha fatto pensare a un celebre passo della
Recherche di Marcel Proust che recita così:
(...) svegliatomi nel pieno della notte io non sapevo più dove mi trovassi e, in un
primissimo momento, nemmeno chi fossi; avevo nella sua semplicità primaria
soltanto il sentimento dell’esistenza così come può fremere nella profondità di un
animale; ero più privo di tutto dell’uomo delle caverne; ma a quel punto il ricordo -
non ancora del luogo dove mi trovavo, ma di alcuni dei luoghi dove avevo abitato e
avrei potuto essere - veniva a me come un soccorso dall’alto per strapparmi dal nulla
al quale da solo non sarei riuscito a sfuggire; in un secondo scavalcavo secoli di
civiltà e le immagini, confusamente intraviste (...) ricomponevano a poco a poco i
tratti originali del mio io. (p. 8)
per poi giungere, attraverso la descrizione di come sia il corpo, più
della mente, a recuperare la funzione della memoria, riportandolo
all’infanzia di Combray e al ricordo di tanti risvegli:
“Guarda, ho finito per addormentarmi anche se la mamma non è venuta a dirmi
buonanotte”. (p. 9)
Queste due situazioni si somigliano: entrambe rinviano a una
primaria angoscia di separazione dall’oggetto, con un senso di
spaesamento al risveglio. Ma differiscono per un particolare
importante: la prima ha un sogno alle spalle e la seconda no. Nel
passo di Proust non c’è sogno, e il senso di spaesamento al
risveglio impegna il Narratore, strappato a una notte senza sogno,
nella ricomposizione di un Io che il sonno aveva dissolto,
rimettendo in moto un apparato psichico fino a quel momento
annullato. Ma come avviene questa ricomposizione? Avviene
attraverso una serie di operazioni che, partendo da impressioni

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affettivo-sensoriali, trovano nelle tracce mnestiche quelle
integrazioni che consentono, dopo un faticoso lavoro psichico, di
ricompattare l’Io nello spazio della camera in cui si era
addormentato.
Nel sogno del rapimento, invece, il sogno funge da trama narrativa
che se da un lato resiste in modo allucinatorio anche nel confronto
con la realtà (anche qui la stanza non viene riconosciuta) dall’altro,
nella drammatizzazione propria del sogno, favorisce un tentativo
di elaborazione della relazione d’oggetto, e una rappresentazione
della sua perdita, fino a consentire con il suo ritrovamento, e dopo
il pianto, l’espressione degli affetti legati alla separazione.
Il risveglio da un sonno senza sogni rimanda invece a una
situazione di più indifferenziato e fusionale rapporto con la madre,
la cui assenza coincide con uno smarrirsi dell’Io del soggetto (la
stessa assenza di sogno è indicativa della scomparsa di un
contenitore/madre). L’assenza di un sogno che funzioni da
involucro psichico, obbliga poi che la ricostruzione dell’identità
avvenga attraverso esperienze affettivo-sensoriali che
appartengono a un’area di “non pensabilità” (Racalbuto, 1994) che
troveranno poi nelle tracce mnestiche una prima traccia di
rappresentazione e di pensiero. Al termine di questo percorso
anche il Narratore Marcel arriva al riconoscimento dell’assenza
materna, che lo aveva rinviato allo spaesamento per una mancanza
originaria più drammatica. Ma tutto ciò avviene su un piano scisso,
dove questo riconoscimento, e le esperienze somatopsichiche del
risveglio, sembrano appartenere a due mondi diversi e separati. La
frase: “Guarda, ho finito per addormentarmi anche se la mamma
non è venuta a dirmi buonanotte” sembra del tutto incidentale,
nonostante concluda un lungo percorso di pensiero, e sembra star lì

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proprio a negare gli affetti angoscianti legati alla separazione. Non
vi appare dolore per l’assenza materna, né quella sofferenza di
bambino vissuta tante volte prima di andare a letto, c’è invece un
risveglio confuso legato a una notte senza sogni.

Il sogno, spartiacque tra psichico e somatico


Dato che l’apparato psichico è destinato ad elaborare funzioni
sempre più complesse ma che, almeno nel sonno, può ritrovare
modalità di funzionamento più primitive, possiamo veramente
pensare al sogno come a “una forma particolare del nostro
pensiero, reso possibile dalle condizioni dello stato di sonno.”
(Freud, 1899, 463, nota aggiunta nel 1925) e che, proprio per
questo, possa mostrare una vasta gamma di possibilità espressive
e di funzionamento di quell’apparato psichico, o di quello spazio
psichico condiviso, in quel particolare momento.
Il sogno quindi testimonierebbe del funzionamento dell’apparato
nei suoi diversi gradi di complessità (dalla scarica di un
eccitamento che non ha trovato una funzione paraeccitatoria, al
tentativo di padroneggiare il trauma, fino a più complesse
elaborazioni simboliche per venire a capo di un conflitto
pulsionale), e in più mostrerebbe una specifica funzione
autopoietica, come se il sognare plasmasse a sua volta l’apparato
psichico e ne arricchisse le potenzialità. Concetto non nuovo se
anche Fichte, che Freud cita nella Traumdeutung, parlava di “sogni
di integrazione” che considerava “uno dei misteriosi benefici di
natura autoterapeutica dello spirito” (1899, 16).
Queste considerazioni hanno trovato più di una conferma nella
limitata attività fantastica e onirica di quei pazienti in cui prevale

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un funzionamento psicosomatico, e che mostrano una
preferenziale attività di scarica, cortocircuitata nel somatico, di
affetti intollerabili e impensabili. Non a caso, nel trattamento
psicoanalitico di questi pazienti, la possibile evoluzione passa
attraverso la penosa sperimentazione dell’ansia, vera testa di ponte
tra il somatico e lo psichico.
Ora, uno degli aspetti clinici più interessanti del funzionamento
psicosomatico è dato proprio dall’assenza di sogni, e dal rilievo
che, nel corso del trattamento analitico, a un certo punto,
compaiono proprio dei sogni. Questi hanno in genere la
particolarità di essere molto semplificati, scarni e “reali”, in
coerenza con le caratteristiche del pensiero operatorio (come nella
“signora dei sacchetti”), e non accompagnati da associazioni.
Grazie al trattamento psicoanalitico, si può assistere a una
progressiva modificazione delle modalità di funzionamento
dell’apparato psichico, evidenziabile proprio nei sogni, la cui
struttura narrativa si fa via via più complessa e simbolica.
Rimanendo per il momento su questi sogni “reali”, questi più che
altri pongono il complesso problema del rapporto tra immagine e
parola e cioè tra sogno come esperienza in sé e racconto del sogno,
che poi è l’unico livello che ci è dato conoscere, e che consiste
nella sua costruzione, attraverso il processo secondario, mediante
il linguaggio parlato. Vi è un irrinunciabile slittamento tra
immagine e parola, che segna il passaggio dal processo primario a
quello secondario. Ora, dato che il racconto del sogno, e le
eventuali associazioni, è anche l’unica possibilità che abbiamo per
avere accesso al funzionamento dell’apparato psichico, questo è
quindi analizzabile solo attraverso la struttura del racconto del
sogno e la ricchezza o la povertà dei contenuti e degli affetti che vi

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abitano. Semmai ci si può chiedere se un sogno così “reale”
dipenda da una disabilità ad utilizzare l’apparato psichico o se sia
il risultato dell’elaborazione secondaria, attraverso la quale il
paziente tenderà ad eliminare dal racconto qualsiasi elemento che
non si inserisca in esso con logicità, per una sorta di allergia
preconscia ai lati enigmatici del sogno. Ma questi potrebbero
anche essere i due lati della stessa medaglia.

Nascita del sogno: riferimenti intrapsichici e relazionali


C. è una giovane “paziente psicosomatica”, sposata con due figlie
di 8 e 4 anni. Inizia l’analisi come ultima spiaggia dopo diversi
ricoveri per tachicardie improvvise e violente vissute con grande
angoscia, sintomi gastrici e un progressivo dimagramento che l’ha
messa in una situazione di grave rischio per la sopravvivenza. La
sua analisi è difficile perché se per i suoi medici alla fin fine non
aveva “niente”, neanche in analisi ha niente (nessuna motivazione
per farla, niente da dire, ecc.). Inizia le sedute, per l’appunto, con
l’intercalare “niente”, non associa liberamente, racconta solo
qualche “fatto concreto” e, sta qui l’interessante, sostiene di non
sapere cos’è un sogno non avendo mai sognato in vita sua. D’altra
parte, dice, come potrebbe sognare se la figlia più piccola la
sveglia più volte ogni notte da quando è nata?
Ebbene, dopo circa due anni di un’analisi portata avanti con
un’assenza pressoché totale di desiderio, dove però aveva potuto
frammentariamente parlare della morte del padre, per il quale non
aveva pianto, e di una madre certamente fredda ma che aveva fatto
bene a crescerla in modo “spartano”, un bel giorno, come se niente
fosse, porta il suo primo sogno.

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Se in tutti i dormienti c’è un’attività elettrica che corrisponde
all’attività onirica forse chi sostiene di non sognare semplicemente
non ricorda, essendo soggetto a una massiccia rimozione. Però in
casi come questo, non possiamo pensare che c’entri la rimozione,
sia perché non è un meccanismo di difesa consueto per la paziente,
sia perché la prima regola della rimozione è che fallisce, per cui
avremmo avuto qualche frammento o impressione di sogno.
Quando non ci sono sogni, e non c’è rimozione, dobbiamo pensare
che vi sia un’attività psichica elementare, non rappresentativa,
improntata alla scarica, paragonabile, per quel che riusciamo a
rappresentarceli, agli elementi beta di Bion (emozioni senza
significato, cose in sé, forme prelinguistiche non rappresentabili,
che non arrivano alla significazione). Oppure, forse a un livello
rappresentativo leggermente più evoluto, ai significanti formali di
D. Anzieu che, simili ai pittogrami, e prima tappa verso la
simbolizzazione, sono presenti nei pazienti psicosomatici
rappresentandone “la lotta per la sopravvivenza psichica”(1987,
11). Si tratta presumibilmente di immagini propriocettive, tattili,
d’equilibrio, che hanno a che fare con una rappresentazione del sé
legata all’integrità narcisistica, difficilmente esprimibili se non in
uno spazio bidimensionale.
E’ presumibile quindi che in un paziente psicosomatico “puro”,
l’apparato psichico funzioni proprio come Freud l’aveva pensato
nel Progetto, cioè come l’apparato muscolare, con funzione di
scarica, e che quindi non possano esserci sogni che possano essere
raccontati. Sappiamo però, per fortuna, come l’analisi tenda ad
azzerare ogni purezza.
Ora, prima ancora di riportare questo primo sogno, la questione è:
come mai C. ha sognato? Se il sogno esprime il livello di

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funzionamento dell’apparato psichico del sognatore, in quel dato
momento della sua vita di fronte a determinati stimoli esterni e
interni, nel caso si tratti di un paziente in analisi, è pensabile che il
sogno sia anche funzione della relazione analitica. In questo caso il
primo sogno corrisponde a una specie di nascita psicologica del
soggetto che può utilizzare l’apparato psichico non solo per
scaricare la tensione lungo le vie somatiche, ma è anche una
nascita psicologica per la stessa relazione analitica. E’ quindi a
tutti gli effetti un regalo, e in questo senso è già simbolico in
quanto tale, prima ancora che per i simboli che vi compaiono. Ciò
che importa è che la paziente abbia finalmente sognato e che possa
raccontarlo.
Questo sogno diventa così figlio dell’analisi, testimone del
funzionamento dello spazio analitico, o del funzionamento
dell’apparato psichico del soggetto in quanto è dentro lo spazio
analitico, ben più della sospensione dei sintomi cardiaci e gastrici,
che nel frattempo si erano molto attenuati, e del recupero del peso
corporeo.
Questo sogno è etimologicamente un symbolon: è la metà della
moneta che il paziente porta, e che porta al riconoscimento della
relazione; la seconda metà è in mano all’analista nel momento in
cui è disposto a dare precedenza agli elementi affettivi su quelli
conoscitivi, in altre parole se lascia al paziente l’illusione di aver
“creato” il sogno da solo, come il bambino con il seno, astenendosi
dal farlo suo attraverso l’interpretazione.
Solo ora ci si può chiedere qualcosa sul significato del sogno, che
era il seguente: “sono in una strada con mia figlia più grande, so
che manca la più piccola”. Fine. Nessuna associazione.

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La paziente aveva cominciato a star male proprio con la seconda
gravidanza che l’ha costretta a letto per nove mesi “per non
perdere la bambina”, che da quando è nata è sempre stata molto
irrequieta tanto da procurarsi seri incidenti (due volte al Pronto
Soccorso per suturare ferite) e non dormire quasi mai la notte. Un
sogno dunque che pur nella sua essenzialità fotografa l’apparato
psichico della paziente: non vi si trova traccia di affetti, specie
aggressivi, pur tuttavia si dispone a una prima narrazione,
rappresentativa, per il fatto di partecipare al funzionamento
psichico complessivo della relazione analitica.
Il “so che manca la più piccola” appare allora come il
riconoscimento, che nasce dall’allucinazione negativa, a indicare a
chi sono rivolti gli affetti che non ci sono, e di chi si sta parlando.
La paziente sa che manca la più piccola ma non sa perché e non ne
è preoccupata. Non glielo si può dire ora: è troppo distante da
questo. Ciò che è evidente è che nel sogno c’è l’ammissione di un
buco di non pensiero in cui è precipitata la bambina. Ecco la
Verwerfung (tradotta come preclusione, forclusione, ma in questo
caso mi sembrerebbe preferibile il termine di “esclusione”),
esclusione della “bambina piccola” dal pensiero e dagli affetti
inaccettabili della madre. Che poi questa “bambina piccola”
esclusa possa essere non solo la sua bambina reale, ma anche un
“sé-bambina” in relazione alla sua storia e al transfert, questo
pensiero può esserci in fieri solo nella mente dell’analista.
Perché la paziente ha potuto fare il suo primo sogno? Esattamente
come ha fatto il primo figlio, senza accorgersene, o senza volerlo,
ma evidentemente con qualcuno e con una certa procedura. Bion
ha mostrato la funzione strutturante dell’apparato di pensiero della
madre su quello allo statu nascendi del bambino, e in particolare su

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quello del linguaggio (Racalbuto e Giaconia, 1990); così la
funzione strutturante dell’apparato di pensiero dell’analista agisce
su quello allo statu nascendi della “paziente psicosomatica”. Non
le si può interpretare il sogno perché l’analista, come la madre, ha
in questo caso anche una fondamentale funzione paraeccitatoria e
la paziente che ha appena fatto il suo primo sogno non ha bisogno
di ricevere una sovrasignificazione al sogno stesso. Però è anche
chiaro che ciò che è escluso dalla mente della paziente è presente
in quella dell’analista. La mente dell’analista sembra funzionare da
preconscio e prestarlo al “paziente psicosomatico”.
Indubbiamente tra le funzioni di questo sogno c’è anche il fatto
che vivifica la relazione analitica, e una relazione vivificata
produrrà altri sogni, ovvero, un funzionamento migliore
dell’apparato psichico condiviso nell’analisi produrrà un
funzionamento migliore dell’apparato psichico della paziente.
Nell’analisi, a differenza dell’allucinazione e dell’allucinosi, il
sogno è curativo in sé, è autoplastico, potendo innescare nuovi
circuiti e favorire nuove soluzioni di elaborazione e di pensiero.
Ciò non significa che, soprattutto all’esterno e di fronte a stimoli
non totalmente metabolizzabili perché di una certa entità, la
paziente non possa riprendere a scaricare nel somatico. Quel che
importa è che si sia innescato una sorta di processo “educativo” ed
affettivo insieme che, come è possibile insegnare a parlare,
consenta di insegnare, per l’appunto, a sognare.
Qualche tempo dopo il primo sogno, in seguito a un trasloco
vissuto con grande ansietà, la paziente, porta ben due sogni: “sono
in una casa strana, ci sono scatoloni, la baby sitter mi dice: dov’è
Anna? (la bambina più piccola) Guardo giù: era dentro al canale
a pancia in giù”. All’allucinazione negativa del primo sogno

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segue una rappresentazione drammatica, ma pensabile, di una
bambina morta. Il giorno dopo - questo non è sogno ma realtà -
mentre salivano le scale Anna si sporge dalla balaustra e la baby
sitter dopo averla richiamata dice alla mia paziente: “che strano,
questa notte ho sognato che Anna è caduta giù dalle scale proprio
da quel punto”. Vedendo la faccia spaventata della mia paziente,
che ancora pensava al sogno appena riferitomi che aveva fatto la
notte stessa, e di cui non aveva parlato con nessuno, la baby sitter
si sente in dovere di dirle: “signora non si preoccupi, i sogni non si
avverano”.
In tutto ciò c’è una profonda verità: da un lato per la mia paziente
non vi era mai stata differenza tra sogno e realtà, tant’è che non
aveva mai sognato preferendo la scarica motoria (l’agire o il
fuggire) o la scarica nel somatico, al dolore psichico. Ora che può
permettersi di far funzionare l’apparato psichico, può capire che è
vero che i sogni non si realizzano, anche perché Anna ha avuto gli
incidenti proprio quando la madre non sognava, mentre ora dorme
ed è una bambina più tranquilla. Evidentemente i sogni della
madre sono anche i custodi del sonno dei bambini.
Vi è inoltre in questa coppia - la baby sitter e la mia paziente -
coppia che sogna incidenti mortali per la bambina, una prima
organizzazione di pensiero (che ripete quanto avviene nel rapporto
analitico) in cui i sogni funzionano come involucri psichici
protettivi. In questa paziente, dopo che l’apparato psichico ha
imparato a sognare, vi è la messa in scena del tema della “bambina
in pericolo mortale”, che probabilmente ripropone ad anni di
distanza e in forma pensabile i gravi timori per la propria
sopravvivenza, e per quella della figlia, vissuti nel corso di una
gravidanza difficile e pericolosa. Affetti che erano stati negati e

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forclusi anche perché avevano a che fare con tutte le altre bambine
in pericolo mortale della sua storia.
Poco tempo fa dice di aver fatto ben tre sogni: i primi due
riguardano la figlia maggiore ma li ha dimenticati (qui sì la
rimozione); il terzo, l’unico che può raccontarmi; è un altro sogno
“reale”, in cui lei è a tavola con la madre. Però, mangiando con la
madre, può dire che nei due sogni dimenticati le pareva che ci
fosse qualcosa di brutto. Non si tratta più della seconda, ma della
prima figlia, quella che non le ha mai dato problemi, neppure in
gravidanza (“ho fatto tutto come se non fossi incinta”), e che ora
va ad occupare nei suoi sogni un posto molto simile a quello della
sorellina.

Per concludere
Nel materiale clinico preso in esame in questo lavoro, l’assunzione
da parte del paziente di affetti fino a quel momento impensabili è
avvenuta lungo un filo onirico che, nelle differenze della struttura
formale del sogno (“non sogno”, sogno “reale”, sogno traumatico,
sogno d’angoscia, sogni ricorrenti e sogni “condivisi”) ha anche
consentito di avere una “fotografia” sufficientemente attendibile
del funzionamento dell’apparato psichico del paziente e della
relazione analitica. Il sogno dunque può essere considerato anche
come un indicatore sufficientemente attendibile del livello di
funzionamento psichico del soggetto e del processo analitico e può
quindi essere utilizzato dallo psicoanalista come strumento
conoscitivo “diagnostico”, a integrazione, e accanto, alla consueta
utilizzazione del controtransfert.

Riassunto

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Il punto di partenza di questo lavoro è l’ipotesi che il sogno
testimoni del funzionamento dell’apparato psichico. Il sogno mostra
un funzionamento sempre particolare ad esempio attraverso
l’oscillazione “sognare/ non sognare” o “sognare e
dimenticare/sognare e ricordare”, o nelle variazioni della stessa trama
narrativa.
Viene preso in esame materiale clinico di pazienti con
funzionamento psicosomatico, in particolare sogni traumatici e sogni
ricorrenti, per evidenziare la funzione di indicatore e “fotografia” del
funzionamento psichico del soggetto e del processo analitico del
sogno.

Summary
THE DREAM, PHOTOGRAPH AND INDICATOR OF THE
PSYCHIC FUNCTIONING OF THE INDIVIDUAL AND THE
ANALYTICAL PROCESS.
Dreaming witnesses a particular functioning of the mental apparatus
and showes its changes through the “to dream-not to dream” or “to
dream and forget-to dream and remember” fluctuations, or else due to
the vary narrative frame of dreaming itself: these are the premises to
the following work.
While examining the clinical material of a psychosomatic patient, in
particular traumatic and recurrent dreams, the author analyses the
dream like photograph and indicator of the psychic functioning of the
individual and the psychoanalitic process.

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