Sei sulla pagina 1di 14

Il testo Le tue glosse

Plotino (sintesi)

La vita
Secondo Porfirio, allievo del filosofo e autore di una
Vita di Plotino (unica fonte di notizie biografiche), il
Nostro nasce a Licopoli nel 205 e nel 232 ha inizio la
sua carriera filosofica ad Alessandria presso la
scuola di Ammonio Sacca, grande filosofo e mistico
neo-platonico che nulla aveva tramandato per
iscritto. Nel 243 lascia Alessandria per seguire
l’imperatore Gordiano (238-244) nella sua
spedizione contro i Persiani, allo scopo di conoscere
la leggendaria saggezza dei popoli orientali. Dopo il
fallimento della spedizione, nel 244 giunge a Roma
dove fonda una scuola filosofica che,
successivamente, sarà frequentata anche
dall’imperatore Gallieno (253-268) e da sua moglie
Salonina. Fra il 254 e il 269 compone i suoi 54
trattati (ordinati da Porfirio in 6 gruppi di nove
trattati ciascuno, e intitolati ENNEADI) e tenta senza
successo di fondare, in Campania, Platonopoli, una
città dove vigessero le regole politiche e lo stile di
governo suggerito da Platone nella Repubblica e
nelle sue altre opere politiche. Muore nel 270.

La filosofia
La filosofia di Plotino insiste sul concetto di Uno
come origine e compimento di tutta la realtà, che il
nostro filosofo attinge dal Platone delle dottrine
non scritte. Per tale motivo la filosofia di Plotino,
così strettamente legata a Platone, viene chiamata
“neoplatonismo”. Vediamo come approfondisce il
concetto di unità. “Tutti gli enti sono enti in virtù
dell’Uno … Infatti che cosa potrebbe esserci se non
fosse unità? Tant’è vero che, privati appena
dell’unità che vien loro attribuita, gli enti non sono
più quelli. Esemplificando, non si ha esercito se esso
non sa presentarsi uno, né si ha coro, né gregge, se
non sono uno. Anzi niente casa o nave se non
hanno unità, dal momento che la casa è un’unità, e
così pure la nave, tanto che, se perdono unità, la
casa non sarà più casa e la nave non sarà più nave”
(Enneadi, VI, 9, 1). Plotino giunge a giustificare
razionalmente il primato dell’Uno per via
dell’osservazione di svariati fenomeni della realtà e
di come ci si presentano alla nostra percezione. Da
questi fenomeni Plotino conclude SINTETICAMENTE
che nessuna cosa può essere tale e può essere
1
pensabile come tale senza che abbia e sia concepita
come un’unità. Non è, infatti, possibile per Plotino
pensare la molteplicità delle cose – che pur
vediamo molteplici – senza presupporre l’unità.
Dunque tutto dipende dall’unità e anzi “il grado di
unità che caratterizza un determinato essere è
indice del suo valore: quanto più una cosa è
compatta nella sua struttura, tanto più occupa una
posizione elevata nella gerarchia degli enti; quanto
più è attraversata dalla molteplicità, tanto più in
basso si colloca nella scala ontologica” (F.
Occhipinti, Uomini e idee, Einaudi, 2010, p. 376).
L’unità per Plotino ha quindi una funzione al tempo
stesso ontologica (è criterio di una gerarchia
nell’essere) e assiologica (è criterio di una gerarchia
nel valore): quanto più un ente è unitario tanto più
“è” e tanto più “vale”.
Ma vi sono livelli diversi di unità, vi è un’unità
puramente “esterna” come quella dei passanti per
la strada o quella delle lettere dell’alfabeto, e vi è
un’unità via via più profonda come quella di un
gruppo di uomini legati da una missione comune o
ancora quella di un corpo umano in cui ogni
funzione è legata-a e dipendente-da un’altra.
L’unità più profonda, che dà unità a tutto il resto, è
quella dell’UNO stesso, principio, causa e radice di
ogni unità. L’Uno, in quanto principio di unità della
realtà, è
TRASCENDENTE, cioè non si confonde con nessun
oggetto della realtà: gli oggetti sono ciascuno uno
ma sono anche molteplici (sono composti da più
parti in relazione con altre parti di una più vasta
molteplicità); l’Uno no, la sua purissima unità,
inarrivabile da parte di oggetti terreni, lo rende
superiore a tutto e quindi lo pone al di là del nostro
mondo, in una realtà, appunto, trascendente.
INEFFABILE e INDEFINIBILE, cioè non vi si possono
attribuire determinazioni, infatti qualsiasi
determinazione introdurrebbe una molteplicità in
esso (se io dico “l’Uno è”, già sto attribuendo al
soggetto “Uno” il predicato dell’”essere” e quindi
sto introducendo nell’Uno la differenza tra un
soggetto e la sua caratteristica: in questo modo
renderei l’Uno molteplice). Proprio per questo
motivo, per rispettare la sua assoluta unità,
dell’Uno si possono solo dare definizioni NEGATIVE:
al posto di dire ciò che l’Uno è, se ne dà una
descrizione dicendo ciò che l’Uno NON È. Tale
2
modalità comporta l’esclusione di qualità, piuttosto
che la loro attribuzione, come se, per esempio, si
dovesse descrivere un albero dicendo che non è un
animale, non è blu, non si sposta, non è basso, non
è molle, non è umano, non si nutre di altri animali,
non esercita le sue principali attività vitali senza il
sole, non produce suoni al fine di comunicare etc..
Questa modalità di conoscenza “per negazione”
darà avvio a quella disciplina che successivamente,
in epoca cristiana, sarà chiamata teologia apofatica
(dal greco apòfasis=negazione), quando per
descrivere l’assoluta grandezza e onnipotenza
divina si riterranno insufficienti tutte le
determinazioni tratte dalla nostra vita normale e si
riterranno adeguate solo negazioni. L’unica
definizione in positivo che si può dare dell’Uno è
quella relativa alla caratteristica di BENE (come era
in Platone). Tale definizione non descrive l’essere
profondo dell’Uno (cosa che è al di fuori delle
possibilità umane), ma il modo in cui l’universo
intero con le sue creature lo “considera”. Infatti
ogni bene, ogni essere, ogni determinazione
positiva viene al mondo dall’Uno. Dunque per il
mondo l’Uno è Bene, malgrado in sé il Bene non
possa essere un attributo pienamente
corrispondente all’Uno. Una caratteristica
importante che, invece, si può desumere “per
negazione” è l’assoluta assenza di limiti: l’Uno è
INFINITO. Tale infinità del primo principio
contraddice significativamente un’antica tradizione
della filosofia greca che aveva sempre considerato il
limite segno di compiutezza e dunque di perfezione,
tanto che, tranne alcune rare eccezioni, il principio
primo, divino e perfetto del mondo era sempre
stato considerato limitato.
Sempre per questa via negativa si possono
ulteriormente trarre altre considerazioni circa l’Uno
e arrivare a ulteriori precisazioni. Per la sua assoluta
perfezione esso deve essere al di sopra di ogni
categoria ontologica: essere, sostanza, accidente
etc., poiché questi elementi costituirebbero delle
descrizioni “limitanti”. Come principio primo,
assoluto, trascendente, ineffabile, indicibile,
infinito, l’UNO non può essere causato da altro
perché altrimenti sarebbe dipendente dalla sua
causa e mancherebbe di quell’assoluta perfezione
che è la conseguenza della sua unità. Ciò che allora
3
si può dire di questo Uno è che, non essendo
causato, si è prodotto da sé e da sé produce ogni
altra cosa. Dunque dell’Uno si può dire solo che la
sua è un’attività di produzione di se stesso e di
altro. Di conseguenza l’Uno è infinita attività auto
produttrice e produttrice. Tale attività dà origine a
tutta la realtà. L’uno si produce da sé e produce
l’intero universo, sia quello trascendente, a livello di
una maggiore perfezione, sia quello immanente,
sensibile, imperfetto. Considerato in questa sua
posizione di vertice di una piramide che
rappresenta la realtà, lo indichiamo con il nome di
“prima ipostasi” (ipostasi = entità autonoma e
fondamentale), cioè la prima e fondamentale entità
autonoma in grado di dare origine e relazionarsi con
l’altro da sé. Questa entità autonoma che si è auto
causata e autoprodotta, lo ha fatto in funzione della
sua perfezione. Tale perfezione può causare tutto il
resto perché possiede una ricchezza d’essere
infinita. Se è infinita, tale ricchezza è anche
straripante, come un fiume in piena che rompe tutti
gli argini e riempie ogni spazio. Così l’Uno può
essere indicato come enérgheia, cioè come
pienezza che straripa. Siccome noi indichiamo la
forza che ci fa produrre cose e che ci permette di
agire esprimendo il nostro potere creativo, con il
nome di volontà, per analogia si può dire che
questa straripante forza creativa dell’Uno sia
volontà. Si tratta di una VOLONTÀ liberata da tutte
le implicazioni della contingenza (mondo della
contingenza = mondo delle cose imperfette la cui
esistenza non è autonoma e necessaria, ma
dipendente da altre causa e quindi incerta, instabile
e soggetta al rischio di venire meno), cioè da ogni
limite e da ogni insufficienza. In tale volontà
sovrabbondante si identifica pienamente l’Uno e
dalla sua eterna e immutabile ricchezza deriva tutta
la realtà. Quindi la ricchezza straripante dell’Uno dà
luogo a tutta la realtà. Perché? “Quell’[ente] che
giunge alla perfezione genera e, non tollerando più
di rimanere chiuso in se stesso, mette al mondo un
altro essere […]. Come potrebbe il sommo e primo
Bene, potenza di tutte le cose, starsene
gelosamente racchiuso in sé o rimanere impotente?
In tal caso come potrebbe ancora essere principio?”
(Enneadi V, 4, 2). Dunque è necessario che l’Uno
generi qualche cosa di ALTRO.

L’emanazione (proòdos)
La generazione dall’Uno possiamo chiamarla
emanazione o processione o anche irradiazione. Si
tratta del processo per cui da un centro di potenza

4
vengono fuori sempre nuove realtà, o per cui da un
sole viene continuamente irradiata la luce. Questo
non è frutto di una scelta arbitraria. Non c’è l’Uno e
poi la sua volontà di irradiare o emanare: l’Uno è la
sua stessa libera volontà che irradia ed emana, ciò
che l’Uno fa è ciò che l’Uno è, poiché nulla è
separato nell’Uno ma tutto perfettamente fuso
nella sua suprema unità. La generazione non
impoverisce e non condiziona l’Uno. Esso rimane
nel luogo più alto della gerarchia dell’universo
generato infatti ciò che è generato è inferiore al
generante e non serve al generante: il generato ha
bisogno del generante ma non viceversa. Ciò che
viene generato da parte dell’Uno è tanto più
perfetto quanto più vicino alla sua fonte di
generazione. Così si viene a creare una gerarchia di
esseri digradante dall’Uno fino alla meno nobile
materia sensibile e inerte (l’elemento più lontano
dalla sua fonte). Questa gerarchia descrive tutta la
struttura dell’universo sia sensibile sia
soprasensibile. Una struttura, come già detto,
piramidale che adesso andiamo a vedere. La
seconda ipostasi che viene dall’Uno (il quale
corrisponde alla prima ipostasi) è il Nous o
Intelletto, che coincide anche con l’essere. Tale
ipostasi quindi è un essere perfetto che ha
un’articolazione del tutto simile al mondo platonico
delle idee, al quale Plotino unisce il carattere
dell’atto primo di Aristotele, cioè quello di essere
pensiero. Come in Aristotele l’unico pensiero
assoluto pensa se stesso ma il “se stesso”, come in
Platone, è costituito dalle “idee”. Tutte le idee
assieme costituiscono l’oggetto del pensiero della
seconda ipostasi. L’essere è dunque anche una
sorta di mente cosmica e universale la cui attività
fondamentale è quella di pensare a sé. Quindi nel
Nous vi è dualità o molteplicità, la dualità di
pensante e pensato e la molteplicità delle idee
pensate. In sostanza il Nous pensando, non può non
pensare a qualche cosa. Ogni pensiero non può
essere pensiero se non ha un oggetto da pensare.
Anche se in questo caso l’oggetto è se stesso, il
Nous, pensando si distingue in Nous-che-pensa e
Nous-che-è-pensato, generando una prima dualità.
Il pensato poi, cioè l’essere che il Nous pensa,
corrisponde a tutti i modelli spirituali della realtà,
cioè le idee platoniche, distinte le une dalle altre:
ecco l’emergere di una molteplicità. TUTTAVIA tale
molteplicità è perfettamente ridotta ad unità
perché il pensiero compenetra totalmente il
pensato e in ogni idea c’è tutto il pensiero cioè vi
sono tutte le altre. Si può pertanto dire che mentre

5
l’UNO è soltanto UNO, il NOUS è UNO-MOLTI. Da
questa ipostasi a sua volta scaturisce una terza
realtà. La terza ipostasi è l’Anima. Essa si genera a
partire dalla potenza irradiante dell’Uno che
continua a produrre l’Altro da sé. L’essenza
dell’Anima, la sua caratteristica principale è il dare
vita, generare, ordinare e governare tutte le cose
sensibili. L’anima è per eccellenza causa produttrice
e ordinatrice, principio di movimento di tutto il
cosmo naturale. L’anima rivolgendosi al Nous e
ricevendone il pensiero, produce, governa e ordina
le realtà sensibili che vengono dopo di lei. Quindi
essa si colloca ai confini del mondo intellegibile, del
mondo trascendente, perfetto e immateriale, come
ultima ipostasi prima del passaggio al mondo
sensibile e guarda in entrambe le direzioni,
generando il corporeo pur rimanendo di per sé
incorporea. Così l’anima si colloca in una posizione
intermedia tra l’assoluta unità dell’Uno e la
prevalente molteplicità della materia sensibile.
Questa sua medietà è confermata dal fatto che essa
risulta composita. La parte superiore dell’Anima o
“Anima del mondo” è quella rivolta all’Intelletto-
Nous dalla quale riceve la facoltà di pensare e le
immagini-modello delle cose (le idee). Le idee
nell’anima non si compenetrano completamente
ma si separano via via l’una dall’altra generando
una molteplicità di anime individuali che pur
ritrovando la loro unità nell’Anima del mondo
“intraprendono una vita personale, autonoma e
libera nei movimenti” (parte intermedia
dell’Anima). Qui l’anima corrisponde all’essenza di
ogni specie di oggetto (uomo, cavallo, pianta) che
poi farà da modello per gli oggetti sensibili. Tali idee
costituiscono la sua ricchezza ma anche il principio
della sua disunione. La parte inferiore dell’Anima è
quella che si riveste dei corpi e li compenetra
dando loro forma e vita. Quindi a partire dalle sue
specie, l’anima si frammenta ulteriormente
cadendo nel mondo sensibile, dando vita e
compenetrando i singoli oggetti sensibili e corporei.

Il mondo immanente
In tal modo, con i corpi nascono anche lo spazio e il
tempo e si entra nell’ambito del mondo
IMMANENTE. Questo compenetrare i corpi per
l’Anima è un abitare i corpi che non comporta però
una divisione irrecuperabile: proprio perché l’Anima
rimane una, pur nelle diverse anime e nei diversi
corpi, il mondo ha una sua unità. Nel mondo
immanente e sensibile, l’uomo è quella sua parte in
cui l’anima abita riflettendo, meglio che in tutti gli

6
altri corpi, l’Anima universale. Anche l’anima
dell’uomo, infatti, pur governando le attività
biologiche, e quindi pur rivolgendosi verso il
“basso” del corpo, è caratterizzata da un’attività
conoscitiva e razionale e in ciò sta la sua qualità
sovrasensibile. Pertanto l’anima umana è il tramite
tra i due mondi, quello sensibile e quello
sovrasensibile. L’anima, quasi prigioniera della
materia, sente tuttavia il richiamo della sua origine
(si veda il motivo del corpo carcere dell’anima in
Platone). “Nessuna anima si è immersa
completamente (nel sensibile, n.d.r.), ma esiste una
sua parte che sta sempre nell’intellegibile”
(Enneadi, IV, 8 [6], 8). Tale parte “indiscesa” vive in
questo mondo come in esilio e sente il conatus
verso l’altro mondo, eterno e assoluto, dell’essere e
dell’Uno.

Dal molteplice all’Uno: il ritorno (epistrophé)


L’anima umana, a partire dal suo conatus verso
l’assoluto, intraprende già su questa terra il viaggio
di ritorno dal sensibile al sovrasensibile. L’obiettivo
da raggiungere è quello dell’emancipazione dalla
dipendenza del corpo. Essa ha inizio con la pratica
delle virtù civili:
Intelligenza e sapienza – che si sviluppano senza il
concorso del corpo.
Temperanza – che frena le passioni.
Coraggio/fortezza – che spinge l’anima a superare i
timori legati al corpo.
Giustizia – che pone il valore della vita nella ragione
che va al di là delle inclinazioni egoistiche.
Il percorso prosegue con la contemplazione della
bellezza nel mondo. Si tratta di vedere nel mondo
sensibile i segni dell’intellegibile unità, che ci attrae
in modo platonicamente erotico verso di sé,
facendoci anelare al sovrasensibile quale nostra
meta fondamentale. Come per Platone, così per
Plotino, vi è una scala della bellezza che va dal bello
corporeo fino al bello immateriale oggetto di pura
contemplazione. Il passo successivo è quello della
ricerca di una scienza del reale che ci porti ai suoi
vertici. Tale è la dialettica, disciplina che già Platone
aveva visto come il metodo peculiare della filosofia
e di cui Plotino sottolinea le valenze anagogiche
(cioè la sua capacità di “elevare” all’assoluto). “Ma
che cos’ è la dialettica (…)? Essa è quell’attitudine
che si ha per natura di esprimere, concettualmente,

7
su ogni cosa,

- che cosa sia,


- in che differisca da altre cose e
- se abbia qualcosa in comune con loro;
- inoltre in quali esseri essa si trovi e in qual
luogo sia, singolarmente; se la sua essenza
esista realmente; quante cose siano esistenti e
ciò che, per contro, differendone, non va
annoverato tra gli esseri” (Enneadi I, 3,4).

In sostanza la dialettica è la scienza che mette in


ordine la totalità del reale, producendo un sistema
completo di tutto ciò che esiste e del grado di
essere che ciò che esiste possiede all’interno di una
gerarchia che va dal mondo sensibile all’Uno e
viceversa. Il possesso di tale scienza consente
all’anima di acquisire un sapere di ciò che è,
elevandosi da quanto appare nelle nostre vicinanze
e nel nostro mondo corporeo, fino al grado più alto
dell’unità assoluta. L’elevazione avviene secondo
tre tappe: “… un primo momento consiste nel
passaggio dal corporeo all’incorporeo, un secondo
consiste nel procedere di grado in grado nella sfera
dell’incorporeo e un terzo consiste nel termine del
processo, ossia nel raggiungimento totale e
perfetto del fine ultimo, che per Plotino è l’unione
estatica dell’anima con l’assoluto” (G. Reale, Storia
della filosofia antica, Vita e Pensiero, Milano, 19875,
vol. IV, p. 596). L’anima, dopo aver raggiunto il
vertice del sapere, abbandona ogni sapere e si
riunisce con l’Uno, spogliandosi di tutto ciò che si
era aggiunto alla sua originaria comunanza con
l’Uno, cioè della sua corporeità, della sua
individualità, delle sue passioni, ma anche del suo
amore, dei suoi sentimenti, dei suoi desideri … il
tutto per fare spazio all’Uno che la riempie
totalmente per assimilarla a sé.
Questo abbandonare se stessa per farsi vaso
accogliente dell’UNO lo chiamiamo estasi ( = star
fuori di sé). L’estasi comporta uno stato non di
incoscienza, ma di sovracoscienza: non è un
fenomeno irrazionale, ma va oltre a tutto ciò che la
ragione può dire, non guadagna l’essere supremo
ma va oltre l’essere, superandolo verso l’alto (come
nella teologia negativa) e non verso il basso (come
quando ci si allontana dal primo principio verso il
non essere della materia). Questa è la realizzazione

8
più piena della nostra umanità alla quale tutta la
filosofia di Plotino è ordinata, proponendosi quale
vero e proprio esercizio spirituale per dare un
senso compiuto e definitivo alla vita dell’uomo.

Il senso storico della filosofia plotiniana


La filosofia di Plotino, pur nascendo in un contesto
lontano e avverso al cristianesimo, risulta permeata
da un profondo spirito religioso, proprio nel senso
etimologico del termine (religare, cioè unire-
assieme), che aspira a condurre l’uomo a unirsi al
suo principio, concepito evidentemente come
qualcosa di assoluto e di divino. Perciò, collocata
alla fine dell’era pagana, tale filosofia diventerà uno
straordinario strumento di indagine metafisica per i
cristiani e fornirà loro alcune categorie razionali per
comprendere il senso della loro fede. Ciò farà del
neoplatonismo una filosofia costantemente
presente alla riflessione dei maggiori intellettuali
cristiani del medioevo, sempre alla ricerca di una
maggiore penetrazione razionale dei misteri divini
rivelati dalle Scritture. In particolare, con la sua
accentuazione del ruolo dell’anima in questo sforzo
di risalita al primo principio, la filosofia di Plotino
starà alla base delle idee con le quali i grandi mistici
e santi medievali interpreteranno il loro cammino di
unione dell’anima con il Dio unitrino del
cristianesimo. Attraverso Plotino il Medioevo
conoscerà Platone, prima che dall’Oriente giungano
in Occidente gli scritti che qui nei secoli della crisi e
delle invasioni barbariche erano andati perduti.

Il Cristianesimo e la nascita della cultura filosofico-


teologica medievale

La nascita e lo sviluppo della Chiesa caratterizzano


il periodo che vede il passaggio dalla civiltà tardo-
antica a quella alto-medievale (II-VII sec. d.C.). Il
messaggio di Cristo viene a dare all’uomo antico
una nuova prospettiva sul mondo. L’uomo è un
essere posto nel creato da Dio, responsabile dei
suoi errori e bisognoso di essere liberato dalle
proprie debolezze. A tal fine Dio manda il proprio
Figlio Gesù sulla Terra, sperimentando la condizione
umana, per compiere dall’interno di tale condizione
un’opera di salvezza e di redenzione dell’umanità.
Così Dio consente all’uomo di uscire dalla propria
situazione di peccato e di accedere a una vita
9
fondata sull’amore di Dio stesso e del prossimo (cfr.
il vangelo delle beatitudini, Mt 5, Lc 6), una vita che
rappresenta il perfezionamento di tutte le qualità
umane e implica la pratica di tutte le virtù che
elevano e danno dignità ai singoli e ai popoli. Una
simile vita, per volontà di Dio, riceverà alla morte
del corpo il suggello della resurrezione e quindi
dell’eternità in una condizione beatifica di vicinanza
e intima relazione con il Creatore nel regno che Egli
ha predisposto per gli uomini.
Si tratta pertanto di una prospettiva orientata alla
salvezza dell’anima e del corpo (prospettiva
soteriologica) e alla vita eterna in un regno di
giustizia (prospettiva escatologica, cioè del Regno
finale di Dio) dipendente direttamente da un Dio
che nei confronti dell’umanità esprime amore e
sollecitudine. Il fascino di questa nuova dottrina sta
nel proporre un’alternativa al disorientamento
spirituale della tarda antichità, un’epoca di crisi che,
con le difficoltà che vive la compagine imperiale
romana, vede crollare le sicurezze politiche, sociali
e culturali che di cui avevano fruito gli uomini del
passato. Ciò determina la rapida diffusione del
credo cristiano presso tutti i ceti della società
romana, grazie alla predicazione degli Apostoli nel I
e II sec, d. C. . A loro e alle prime comunità cristiane
si deve la compilazione di quello che diventerà il
Nuovo Testamento, cioè l’insieme delle Scritture
che parlano di Gesù Cristo (Vangeli, Atti degli
Apostoli, Lettere, Apocalisse), che si va ad
aggiungere, come testo sacro, alle Scritture
giudaiche (Antico Testamento) che continuano ad
essere ritenute ispirate anche tra i discepoli e
seguaci della nuova religione.
Con l’organizzazione delle prime comunità cioè le
articolazioni territoriali (diocesi), la gerarchia (laici,
diaconi, presbiteri, episcopi 1 ) e l’affermarsi del
primato di Pietro (il vescovo di Roma è punto di
riferimento nelle dispute interne e la sua parola
gode di particolare prestigio, per questo verrà
chiamato pàpas = padre) progressivamente la
Chiesa cresce e si organizza a partire da gruppi di
cristiani che, staccatisi dal giudaismo, decidono di
condurre una vita in comune secondo il modello
proposto dal Maestro e di accogliere persone
provenienti da tutte le religioni e da tutti i ceti
sociali. Presto le comunità aumentano di numero e
consistenza in tutto il territorio imperiale fino a

1
I laici sono i semplici fedeli; i diaconi sono i servitori della comunità, coloro che all’inizio badavano a sostenere le
persone in difficoltà e a gestire le mense comunitarie; i presbiteri sono gli anziani che collaborano con il vescovo nella
liturgia e nella diffusione della Parola, il vescovo è il responsabile della comunità in un dato territorio (diocesi) e ha un
legame diretto o indiretto con gli Apostoli.
10
diventare una forza sociale non indifferente. Di qui
la necessità di dare ordine e coerenza al tipo di vita
intrapresa in base all’entusiasmo della fede. Tanto
più che tra I e IV secolo si manifesta l’insidia delle
eresie e il pericolo delle persecuzioni: sono due
grandi attacchi alla Chiesa, l’uno portato
dall’interno e inteso a deformare con dottrine di
provenienza spuria (miti orientali, filosofie pagane,
etc.) il volto della fede in Cristo; l’altro portato
dall’autorità imperiale, timorosa che lo sviluppo
della nuova religione distruggesse le strutture
tradizionali della società romana imperniate attorno
al politeismo. L’efficace opposizione e ferma
resistenza dei cristiani comporta il fallimento di
entrambi questi attacchi e determina il rafforzarsi
della struttura ecclesiale.
Durante la lotta per la sopravvivenza contro i
nemici interni ed esterni si sviluppa una specifica
coscienza cristiana, una cultura attraverso la quale
molti intellettuali intendono difendere e
promuovere concettualmente i fondamenti della
religione cristiana, facendo notare che la fede in
Cristo non aveva nulla di quella rozzezza e pochezza
che i suoi nemici le attribuivano.
Nasce così la PATRISTICA CRISTIANA cioè la
riflessione teologica, riguardante Dio e il suo
rapporto con il mondo e con la storia umana, di
quelli che sono stati chiamati i Padri della Chiesa:
intellettuali, laici, monaci, ecclesiastici che hanno
cercato di APPROFONDIRE E SPIEGARE il messaggio
di Cristo con l’ausilio della cultura filosofica,
letteraria, storica, giuridica dei pagani;
dimostrando che,
- laddove la cultura pagana aveva colto
importanti verità circa l’uomo e il mondo,
queste erano del tutto compatibili con il
cristianesimo;
- la cultura classica poteva essere utile a chiarire
alcuni tra i più difficili concetti cristiani come
quello di Trinità;
I primi Padri scrivono e parlano in greco (nella parte
orientale dell’impero, ricordiamo Atanasio di
Alessandria, Gregorio di Nazianzio, Gregorio di
Nissa, Basilio di Cesarea, Giovanni Crisostomo) e in
latino (nella parte occidentale: Agostino, Ambrogio,
Gerolamo, Gregorio Magno) e GETTANO LE BASI
della cultura cristiana che si svilupperà nel
Medioevo.
Al contempo la riflessione dei Padri viene recepita
dalla Chiesa. La comunità dei cristiani nella sua
veste istituzionale, deputata alla custodia del
depositum fidei, cioè della vera fede in Cristo,

11
provvede a condensare e sintetizzare la fede stessa
in alcuni dogmi che sono richiesti al cristiano per
dirsi tale. I dogmi sono proposizioni che enunciano
in breve che cosa ha proposto Cristo ai suoi fedeli
perché essi abbiano la salvezza. Essi sono tratti
dalle Scritture e dalla tradizione degli Apostoli,
commentata e approfondita dai Padri.
Attraverso molte discussioni, dentro e fuori la
Chiesa, (in una società che stava rapidamente
cristianizzandosi le discussioni teologiche
travalicavano i confini delle chiese e si
diffondevano nella società, coinvolgendo spesso
anche l’autorità civile che interveniva a favore
dell’una o dell’altra fazione cristiana), dopo la fine
delle persecuzioni (313 d.C.) viene il tempo della
definitiva strutturazione della Chiesa e della fede
cristiana attorno ad alcune verità condivise
stabilite, non senza traumi e lotte, nei primi 4
grandi concili.
I concili sono riunioni plenarie di vescovi cristiani
sotto l’autorità congiunta del vescovo di Roma e,
solo in epoca antica, del vescovo di Costantinopoli e
dell’autorità imperiale (imperatore d’Oriente),
sempre molto attenta a quanto avveniva nella
Chiesa. In essi si decide attorno a questioni
importanti per la fede, divenute controverse per
l’intervento di qualche personalità o gruppo di
personalità che esprimono opinioni diverse dalla
credenza comune e tradizionale. Stante la
diffusione e l’importanza sociale della Chiesa, tali
discussioni hanno un grande riverbero sulla vita
civile e anche politica dentro l’impero e ne
costituiscono a volte importanti snodi nella sua
storia. Quindi i concili non sono solo fenomeni
religiosi e dottrinali ma anche storici, politici,
sociali.
Il primo tra i più importanti concili della cristianità
in epoca patristica si colloca nel 325 d. C. e si svolge
a Nicea. Ne è promotore l’imperatore Costantino e
papa Silvestro ne accetta la convocazione. Vi si
tratta la questione trinitaria. Il concilio condanna le
opinioni del prete Ario di Alessandria (256-336)
secondo cui il Figlio, cioè Cristo, era stato creato da
Dio Padre e quindi non possiede la pienezza della
divinità ma solo una qualità divina inferiore a quella
del Padre stesso (subordinazionismo: il Figlio è
subordinato al Padre nella santissima Trinità).
Contro Ario si riafferma l'uguaglianza tra Padre e
Figlio in natura, dignità e divinità. Oltre a ciò, il
concilio stabilisce che la data della celebrazione
della Pasqua deve essere fissata la domenica dopo
il plenilunio successivo all'equinozio di primavera,

12
contro l'opinione di coloro che la celebravano nella
stessa data della Pesah ebraica (il 14 del mese del
mese ebraico Nisan, tra marzo e aprile), chiamati
"quartodecimani" (da “quattordicesimo”, cioè
“decimo quarto”). La questione ha una certa
rilevanza per ribadire l’originalità del cristianesimo
rispetto alle sue radici ebraiche e per non
confondere i due rispettivi significati della festività
pasquale (rispettivamente il ricordo della
liberazione del popolo ebraico dalla schiavitù egizia
e l’universale redenzione dell’umanità ottenuta
tramite la resurrezione di Cristo).
Il concilio della Grande Chiesa che segue Nicea
viene celebrato nel 381 a Costantinopoli, per
iniziativa dell'imperatore Teodosio, regnante papa
Damaso I. Vi si conferma la divinità dello Spirito
Santo e viene definito compiutamente il simbolo
niceno-costantinopolitano, cioè il testo
dell’odierno “credo” cattolico recitato nella S.
Messa. La Chiesa di Costantinopoli viene dichiarata
seconda solo a Roma.
Nel successivo concilio celebrato a Efeso nel 431 d.
C. per iniziativa dell'imperatore Teodosio II e
regnante papa Celestino I, si affronta la questione
cristologica. Il concilio condanna le opinioni del
vescovo siriaco Nestorio (nestorianesimo), già
patriarca di Costantinopoli dal 428 al 431 (al quale si
oppone Cirillo di Alessandria). Egli sostiene che in
Gesù Cristo vi siano due nature, quella umana e
quella divina, ma anche due persone. Non vi è piena
unione ipostatica tra le due nature, cosa che fa sì
che Gesù sia concepito come una sorta di essere
doppio in cui le azioni dell'uomo e le azioni del Dio
non sono coordinate e unificate in un unico agente
personale, mentre Gesù stesso si propone come
una persona che agisce sempre al tempo stesso
come vero uomo e vero Dio. Per Nestorio, in
coerenza con le sue idee, Maria è madre di Cristo,
Christotòkos, cioè del Gesù umano e non Theotòkos,
madre di Dio, cioè del Figlio, preesistente e non
creato. Tali opinioni, che si distanziano
significativamente dalla fede tradizionale, vengono
condannate dal concilio che ribadisce che in Cristo
vi sono due nature, quella divina e quella umana,
perfettamente unite nell'unica persona di Gesù.
L’ultimo dei concili di cui vogliamo qui dar conto si
svolge a Calcedonia nel 451, regnanti l'imperatore
Marciano e papa Leone Magno. Vi si riprende la
questione cristologica con la condanna dell'eresia
monofisita. Eutiche, archimandrita 2 di un

2
L’archimandrita è nelle Chiese orientali l’abate superiore di un monastero, la sua guida spirituale e organizzativa.
13
monastero vicino a Costantinopoli, sostiene che in
Cristo c'è una sola natura, quella divina, in una sola
persona. Egli in sostanza radicalizza le conclusioni
antinestoriane del precedente concilio, dicendo che
una sola è la natura incarnata del Dio-Verbo, “come
disse Cirillo di Alessandria contro i nestoriani a
Efeso”. Il concilio invece ribadisce che in Cristo vi
sono due nature, nella medesima persona. Leone
magno dichiara Eutiche multum imprudens e nimis
imperitus. Il concilio arriva alla seguente definizione
dogmatica: il Verbo nato dalla Vergine Maria
secondo l'umanità è in una sola ipostasi e in due
nature le quali permangono inconfuse, immutate,
indivise e inseparabilmente unite.
Questi concili sono estremamente importanti
perché, rispondendo alle sollecitazioni provenienti
dalle comunità cristiane d’Oriente e d’Occidente,
approfondiscono alcuni fondamentali credenze o
dogmi di fede. Il concilio, infatti, quale riunione
plenaria ed ecumenica (cioè virtualmente
comprendente tutti i vescovi della cristianità, anche
se per motivi materiali e logistici tale completezza è
lungi dall’essere realmente raggiunta), sulla base
del mandato che Cristo ha dato agli Apostoli di
custodire il suo messaggio per diffonderlo
all’umanità, determina l’identità originaria del
cristianesimo, così come verrà tramandata nei
secoli successivi alla riflessione ulteriore di tutti i
più grandi pensatori cristiani.

14

Potrebbero piacerti anche