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PLOTINO ENNEADI

Le Enneadi (in greco antico: Ἐννεάδες, Enneádes) sono composte da sei gruppi di nove trattati ciascuno.
Porfirio ordinò i trattati in senso ontologico con lo scopo di tracciare un percorso per il lettore per il
raggiungimento del superamento della condizione terrena e, dunque, per giungere alla comprensione della
filosofia.

Il primo trattato della terza Enneade è intitolato “Il Destino” (il terzo in ordine cronologico) e si presenta
come una forte critica sul concetto del destino e sulle scuole che lo portavano avanti, come gli Stoici, gli
Atomisti, gli astrologi. Il secondo trattato “La provvidenza I” è il quarantasettesimo scritto da Plotino ma
Porfirio lo posizionò in modo perfetto subito dopo a “Il destino”, riprende infatti il concetto in quanto per gli
Stoici destino e provvidenza coincidevano. Il terzo trattato, “La provvidenza II”, è il quarantottesimo e
Plotino cerca di risolvere l’aporia secondo la quale se l’Intelligenza è la ragione d’essere di tutte le cose,
come si può spiegare il fatto che esistono realtà negative? E se la realtà superiore getta luce anche su ciò
che è peggiore, come si spiega l’esistenza di ciò che è peggiore?

Il quarto trattato “Il demone che ci ha avuto in sorte” è il quindicesimo scritto da Plotino, la concezione è
sostanzialmente quella espressa da Platone nella “Repubblica”. Il quinto denominato “Eros” è il
cinquantesimo in ordine cronologico, Plotino riprende il tema dei demoni fortemente connesso a quello di
Eros, la cui fonte consiste nel desiderio di bellezza proprio delle anime, le quali intuiscono di avere con esso
una affinità, ed è quindi un forte simbolo a salire alla Bellezza suprema.

Il sesto trattato della terza Enneade rivela la sua complessità dal titolo: “L’impassibilità degli esseri
incorporei”. È il ventiseiesimo scritto da Plotino e si divide fondamentalmente in due parti: nella prima il
filosofo tratta dell’Anima incorporea nella dimensione immateriale, nella seconda affronta la materia
inserendola nella sfera degli incorporei.

Il settimo è stato intitolato “Eternità e tempo” ed è il quarantacinquesimo in ordine di scrittura del sommo
Plotino. All’eterno non si può applicare né l’era né il sarà, ma solamente l’è stabile ed immutabile. L’eterno
è la vita stessa dell’Essere nella sua pienezza e nella sua completezza: è come il dio che si rivela nella sua
immutabilità, identità, vita ineffabile. In ottica neoplatonica riprende alcuni concetti del Timeo di Platone
ma con una differenza sostanziale: il tempo non dipende dal Demiurgo platonico e dunque nasce con la
stessa creazione del cosmo, bensì il tempo diventa vita dell’Anima stessa e diventa un concetto di alta
metafisica. L’Anima viene descritta come potenza o forza inqueta, colta dalla voglia di trasferire ciò che
contempla nel mondo intellegibile in qualcosa di diverso.

“[…] in primo luogo, l’Anima si diede una forma temporale, creando il tempo in luogo dell’eternità, e poi, in
seguito, costrinse il cosmo appena generato a sottomettersi ad esso, dato che, dopo tutto, l’aveva fatto
esistere nel tempo, e nel tempo aveva incluso tutti i suoi sviluppi.”

Plotino ribadisce la tesi platonica secondo cui non è l’Anima che è nel mondo, ma il mondo nell’Anima,
come sua produzione. In luogo dell’infinito già in atto è nata l’immagine dell’infinito nella successione del
tempo. Il tempo si trova ovunque, perché l’Anima stessa, nelle sue varie forme, è non solo in ogni parte di
noi, ma in ogni parte dell’universo.

Plotino – Enneadi – Eternità e Tempo


Siamo soliti affermare che l’eternità e il tempo sono due realtà differenti, e che l’una riguarda la natura che
sempre è, mentre l’altro la sfera del divenire, ossia il nostro universo. Da ciò, quasi per effetto di
apprensioni della mente troppo generiche, noi traiamo la convinzione di avere nell’Anima, per nostro
conto, un’impressione distinta di tali realtà, tanto che facciamo ampio uso di questi termini, nominandoli di
continuo e a ogni proposito. Se però cerchiamo di approfondirli, e di affrontarli un po’ più da vicino, ecco
che, immancabilmente, le nostre convinzioni si confondono. Non ci resta, allora, che fare riferimento alle
varie posizioni degli antichi filosofi su tale argomento; ma anche qui può capitare di imbattersi in una
varietà di interpretazioni, e a queste finiamo con l’attenderci, ritenendo sufficiente, se ci chiedono il parere,
di esporre quelle loro posizioni.[4] E così, appagati di ciò, rinunciamo a ogni ulteriore ricerca. Ora, non si
può certo negare che alcuni venerabili filosofi dell’antichità abbiano raggiunto il vero, ma si sente ora la
necessità di ricercare quali di loro l’abbiano attinto in misura particolare, e come sia possibile per noi
raggiungerne un’adeguata comprensione.

La prima tappa della ricerca consiste nell’approfondire il concetto di eternità, per comprendere
l’interpretazione che ne danno quei pensatori che la distinguono dal tempo. In tal caso, se si fa noto
l’essere che sta fermo come modello, forse anche quello che corrisponde alla sua immagine, e che loro
chiamano tempo, diverrà evidente. Però, se uno volesse cercare di comprendere l’eternità, potrebbe salire
da questo mondo a quello mediante la reminiscenza, e cioè guardando a quello che il tempo imita, dato
appunto che il tempo ha una somiglianza con l’eterno.

Enneade III 7, 11
Dobbiamo, allora, nuovamente risalire a quella condizione che riconoscevamo essere specifica dell’eternità,
cioè a quel tipo di vita privo di scosse, tutto insieme,[5] ormai senza limiti e sbandamenti, per il fatto che si
colloca stabilmente nell’Uno e di faccia all’Uno. Allora il tempo non c’era, o, per lo meno, non c’era per
quelle realtà di lassù; lo porteremo noi alla luce, sulla base della ragione formale e della natura di ciò che
segue. E mentre quegli esseri vivono chiusi in se stessi nella pace, qualcuno di noi non potrebbe neppure
invocare le Muse, che ancora non c’erano, per farsi dire come originariamente si è sprigionato il tempo. Ma
forse, anche nell’ipotesi che le Muse già allora esistessero, sarebbe più conveniente chiedere direttamente
al tempo appena nato come abbia fatto a comparire e a generarsi. È probabile che parlerebbero di sé in
questi termini. All’inizio, quando ancora non aveva creato il ‘prima’ e non sentiva la necessità del ‘poi’, il
tempo giaceva in unione con se stesso nell’Essere, non come tempo, ma deposto in quell’Essere in piena
tranquillità. Ma una natura con la sua irrequieta creatività, volendo disporre di se stessa ed essere padrona
di sé, decise di mettersi in cerca di qualcosa di ulteriore rispetto a quello che al momento c’era e si mise in
moto: ed ecco che anche il tempo si mise in moto.

Così anche noi fummo trascinati verso un dopo incessante, verso un futuro che non è mai lo stesso, ma
sempre diverso; ed essendo avanzati non poco in questa direzione, abbiamo trasformato il tempo in
un’immagine dell’eternità. La responsabilità, in verità, era dell’Anima, della sua smaniosa attività, perché
voleva trasferire quanto aveva contemplato nel mondo di lassù in qualcosa di diverso,[6] dato che non
sopportava più che tutto le fosse presente in quella forma concentrata. Come una ragione formale, che
dall’immobilità del seme si sviluppa verso un certo progresso – o per lo meno quello che essa ritiene tale –,
il quale però viene compromesso dall’affetto della divisione – e difatti tale ragione formale, anziché
mantenere la sua interiore unità, non restando più in se stessa, la dissipa, mentre procede verso una
distensione che le fa perdere vigore –, così l’Anima creò il cosmo sensibile a imitazione di quello intelligibile,
facendolo muovere di un moto che non è quello di lassù, ma è qualcosa di simile che aspira a esserne
l’immagine.

Per questo motivo, in primo luogo, l’Anima si diede una forma temporale, creando il tempo in luogo
dell’eternità, e poi, in seguito, costrinse il cosmo appena generato a sottomettersi ad esso, dato che, dopo
tutto, l’aveva fatto esistere nel tempo, e nel tempo aveva incluso tutti i suoi sviluppi.

Questo universo, invero, non ha altro luogo in cui collocarsi se non l’Anima, e pertanto, muovendosi in essa,
si muove pure all’interno del suo tempo. L’Anima, però, realizzava i suoi atti progressivamente, uno dopo
l’altro, in modo tale da creare con la sua opera il rapporto di successione; così, col pensiero della
successione insieme ad altri pensieri, ecco affacciarsi quello che prima non c’era, per il fatto che il pensiero
nella sua totalità non era completo e la vita presente dell’Anima non era più simile a quella di prima; era
insomma una vita differente, e a vita differente corrisponde un tempo differente.

Per tali ragioni il differenziarsi della vita richiedeva l’esistenza del tempo, il suo inarrestabile sviluppo
richiedeva un tempo inarrestabile, e il suo essere passato un tempo passato.

A questo punto non sarebbe già un buon guadagno il dire che il tempo è la vita di un’Anima in evoluzione
da una condizione di esistenza ad un’altra?

Difatti, se l’eternità è sinonimo di vita in quiete, identica, inalterabile e già in assenza di limiti, e se il tempo
deve essere un’immagine di tale eternità – e, del resto, anche il nostro mondo è un’immagine del mondo
intelligibile –, ne segue che in luogo della vita di lassù se ne instaura un’altra, che può attribuirsi a questa
potenza dell’Anima solo in un senso equivoco.

Qui, al posto del movimento dell’Intelligenza, si troverà un certo movimento di qualche parte dell’Anima;
invece della identità, della fissità e della stabilità, si troverà la realtà che non riesce a permanere in se
stessa, ma si attua in condizioni sempre nuove;[7] al posto dell’inesteso e dell’unità si incontra uno sviluppo
unitario che è solo l’immagine dell’uno; in luogo di un infinito già in atto e integro si ha un progresso
costante, passo dopo passo, verso l’infinito; infine, al posto della totale concentrazione, ci sarà un insieme
di parti sempre in via di costituzione.

Questo, dunque, è il modo in cui il nostro mondo è costretto a imitare ciò che è già tutto insieme in una
infinitudine realizzata, se vorrà continuare ad acquistare l’essere per conservarsi in esso: così, infatti, la
nostra maniera di essere riproduce quella di lassù.

Il tempo, insomma, non può essere pensato al di fuori dell’Anima, esattamente come nel cosmo intelligibile
l’eternità non può essere pensata al di fuori dell’essere. E così esso, al pari dell’eternità in quel mondo, non
è un effetto o una conseguenza dell’Anima, bensì qualcosa di inerente e di contemporaneo all’Anima che si
fa cogliere in lei esattamente come avviene per l’eternità nella sfera intelligibile.

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