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Aristotele

La logica e il sillogismo aristotelico

La logica dell’Organon
Per Aristotele, la scienza che studia le massime forme dell’essere deve avere una
struttura e un metodo determinati. Tale metodo è detto “Organon” [dal greco
“strumento”] e consiste nelle riflessioni su quella che Aristotele chiamava analitica e che
i critici chiameranno logica, cioè la scienza che studia le modalità di ragionamento usate
da ciascuna scienza.
Alla base della logica aristotelica vi è la classificazione dei concetti, nonché le unità
minime dei discorsi: essi possono essere classificati, secondo il filosofo, in base a quanto
sono universali, tramite un rapporto di genere e specie. Ad esempio il cane è una specie e
il genere è il quadrupede, oppure il labrador è la specie mentre il cane è il genere,
ottenendo così una catena: quadrupede → cane → labrador.
Sostanzialmente i concetti possono essere classificati secondo una gerarchia in cui più
il concetto è in alto, più è universale.

Il sillogismo
Un sillogismo è un ragionamento nella sua forma massima. Esso prevede tre passaggi
logici:
- la premessa maggiore, più universale (es. tutti gli uomini sono mortali);
- la premessa minore, meno generica (es. Socrate è un uomo);
- la conclusione, in cui sono messi in relazione il termine maggiore e quello
minore (es. Socrate è mortale).
In questi passaggi sono presenti tre elementi diversi:
- il termine maggiore, più universale ed è predicato nella conclusione (es. la
mortalità);
- il termine minore, più specifico ed è soggetto nella conclusione (es. Socrate);
- il termine medio (es. l’essere uomo), soggetto nella premessa maggiore e
predicato nella minore. Esso garantisce il legame nel sillogismo che anticipa la
conclusione.

Presentare in modo perfetto un sillogismo non equivale a renderlo vero e un sillogismo


valido non è automaticamente vero.
Ad esempio:
Pegaso è un cavallo + Pegaso ha le ali = tutti i cavalli hanno le ali.
Il sillogismo è formalmente corretto ma usa una premessa falsa: il fatto che Pegaso esista.

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Un sillogismo valido è dunque formalmente corretto, ma non per forza è vero: per
ottenere conclusioni vere occorre che le premesse siano vere. Quando il sillogismo è sia
valido sia vero, si ha un sillogismo scientifico o dimostrativo.

Com’è possibile formulare proposizioni vere?


Una premessa è vera se è corretta la definizione dei concetti che la compone. Le
definizioni si ricavano tramite due principali forme di ragionamento:
- induzione, che va dal particolare al generale (es. "fino ad ora ho visto molti corvi e
tutti erano neri; quindi tutti i corvi sono neri"). Essa conduce a conclusioni
probabili in quanto potrebbero essere smentite dall’osservazione di nuovi casi
particolari nel futuro;
- deduzione, che va dal generale al particolare (es. “gli uomini sono mortali e
Socrate è un uomo, dunque è anch'egli immortale”). Essa conduce a conclusioni
vere solo se le premesse di partenza sono anch’esse vere.

La metafisica

Dalla divisione delle scienze alla nozione di sostanza


La “Metafisica” [il termine deriva dal greco e significa “oltre le cose fisiche, naturali”.
Essa prende questo nome in quanto Aristotele collocò i libri che la compongono dopo
quelli in cui trattò la fisica] è una raccolta di 14 libri in cui Aristotele si pone il problema
della ricerca della verità. Egli è dell’idea che le filosofie precedenti, pur avendo lasciato
numerosi contributi al sapere, non abbiano centrato a pieno la risoluzione al problema,
in quanto queste ultime furono troppo fondate sul mito.
Aristotele, nella sua sistemazione delle scienze, pone la metafisica prima di tutte e la
definisce infatti “filosofia prima”. Venne in seguito chiamata “Metafisica” da Andronico di
Rodi.
Innanzitutto suddivide le scienze in base alle loro competenze:
- teoriche, che si rivolgono al necessario, cioè all’essere. Ad esse appartengono
- la matematica;
- la fisica;
- la metafisica;
- pratiche, che si rivolgono al possibile e studiano i comportamenti dell’uomo. Ad
esse appartengono:
- l’etica;
- la politica;
- poietiche, che si rivolgono al possibile e studiano le creazioni dell’uomo. Ad esse
appartengono:
- le arti belle;
- le tecniche.

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Cosa studia la metafisica?
La metafisica studia:
- le cause prime;
- l’essere in quanto essere;
- la sostanza;
- dio.

Il motivo per il quale la metafisica è più importante di altre scienze è perché essa studia
la realtà generale, “l’essere in quanto essere”, l’oggetto comune a tutte le scienze che, al
contrario della metafisica, studiano soltanto una parte di esso. Infatti:
- la matematica studia l’essere come quantità;
- la fisica studia l’essere come divenire e movimento;
- la metafisica studia l’essere come essere in sé.

Tutte le altre scienze implicano la metafisica, che studia l’essere in sé, e per questo la
metafisica è la filosofia prima mentre le altre sono filosofie seconde.

Che cos’è l’essere?


Aristotele sostiene che l’essere ha più significati, si manifesta dappertutto e con diversi
aspetti. In particolare, egli ne individua quattro:
- l’essere come categoria;
- l’essere come atto e potenza;
- l’essere come accidente;
- l’essere come vero.

L’essere come categoria


Le categorie sono proprietà fondamentali e strutturali dell’essere. Aristotele ne
individua 10:
1. la sostanza;
2. la qualità;
3. la quantità;
4. la relazione;
5. l’agire
6. il subire;
7. il dove;
8. il quanto;
9. lo stato;
10. l’essere in una situazione.

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Esse hanno un valore ontologico, siccome ogni elemento della realtà può essere fatto
rientrare in una delle categorie, e un valore logico, perché sono le classi in cui rientrano
tutti i termini che utilizziamo per comporre una frase.
Di tutte le categorie la sostanza è la più importante in quanto è l’unica in grado di
reggersi da sola e tutte le altre si riferiscono ad essa, sono infatti delle qualità della
sostanza.
Aristotele con il concetto di sostanza supera il problema della molteplicità e diversità
dell’essere: anche se l’essere non ha un significato univoco, gli altri significati non sono
tanto diversi tra loro poiché la sostanza è un punto di partenza comune per ciascuno di
essi. Dunque se l’essere corrisponde alle categorie, o è sostanza o si riferisce ad essa (in
quanto le categorie sono in relazione con la sostanza). Dire “sostanza è come dire
“essere”. Di conseguenza la metafisica, scienza che configura l’essere in quanto essere, è
un'indagine sulla sostanza.
Per studiare cos’è una sostanza è necessario ridurre le molteplici definizioni dell’essere a
una sola. Ciò avviene con un assioma, cioè un principio che non ammetta confutazione
e che sia auto-evidente, oltre il quale è impossibile risalire. Tale assioma è il principio di
non contraddizione, secondo il quale X non può allo stesso tempo essere e non essere e
dunque non può essere dotato e contemporaneamente non dotato di una caratteristica.
Questo principio dichiara che ogni essere ha una natura determinata che non si può
negare ed è dunque necessaria perché non può essere diversa da com’è. Aristotele
identifica tale natura con la sostanza.
A questo principio ne sono stati aggiunti due dalla critica successiva:
- il principio d'identità, per cui X è uguale a X;
- il principio del terzo escluso, per cui se X e Y sono due termini contraddittori,
può essere vero X o Y, non un terzo termine Z.

Che cos’è la sostanza?


La sostanza è ciò che rende un’entità capace di avere proprietà e di essere autonoma
rispetto alle altre. Secondo Aristotele essa è un sinolo [dal greco “insieme”], ossia unione
indissolubile di due elementi: la forma, ovvero la natura intrinseca di una cosa, e la
materia, cioè ciò di cui una cosa si compone. La forma struttura la materia, che invece è
passiva. Ad esempio, possiamo indicare il fiore come forma e petali, stelo, polline, ecc…
come materia.
Mentre la sostanza corrisponde ad una struttura fissa che definisce la cosa, l’accidente
rappresenta le qualità che una cosa può avere senza che cessi di essere una sostanza. Ad
esempio l’uomo non può smettere di essere tale ma può essere nei vari momenti stanco,
affamato, triste, allegro, ecc…

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La dottrina delle cause e la dottrina del divenire
La dottrina delle cause è collegata alla teoria della sostanza. Aristotele sostiene che la
filosofia nasce dalla meraviglia che ci spinge a chiederci il perché delle cose. Egli
individua diversi tipi di cause della sostanza, senza soffermarsi nello specifico su una o
l’altra, a differenza dei filosofi che lo precedettero.
- La causa formale è l’essenza di una cosa (es. la natura animale di un leone);
- La causa materiale è ciò di cui è fatta una cosa (es. la materia di cui è costituito il
corpo di un leone);
- La causa efficiente è ciò che dà origine a una cosa (es. la mamma e il papà del
leone);
- La causa finale è il fine verso cui tende una cosa (es. la riproduzione della sua
specie).

Alla dottrina delle cause è collegata la dottrina del divenire. Aristotele prende spunto
dal panta réi di Eraclito: tutto muta e il mutamento non è il passaggio dall’essere al
non-essere, ma un tipo di essere ad un altro tipo di essere. Aristotele integra due
concetti, quelli di atto e potenza:
- la potenza è la possibilità della materia di prendere una determinata forma (es.
gli ingredienti per fare una torta);
- l’atto è la realizzazione di tale possibilità, dunque della potenza.

Per Aristotele, la potenza sta alla materia come l’atto sta alla forma, in cui potenza è
intesa come privazione di forma e atto come entelechia, che significa appunto
realizzazione.
Ciò che è atto per una potenza può essere potenza per un nuovo atto, creando una
serie continua del divenire a cui appartiene tutto ciò che esiste. Questa serie non è
infinita ma esistono due termini estremi:
- la materia prima, ovvero un costrutto indefinito che è pura potenza. Non è nulla
di ciò che sarà dopo ma ha la possibilità di diventare qualcosa;
- l’atto puro, ovvero la perfezione realizzata in un unico ente. Tale perfezione è
incarnata dal dio aristotelico.

La descrizione di dio e la dimostrazione della sua esistenza


Se è vero che tutto muta ed è in movimento, durante questo movimento un ente è
mosso da un altro, e quest’ultimo da un altro ancora e così via. Bisogna però risalire ad
un termine primo, il quale non è mosso da niente: questo termine primo è dio, definito
da Aristotele motore immobile. Le sue caratteristiche sono:
- dio è causa finale del mondo, perché per dare inizio a tutta la catena del
movimento deve attrarre a sé ogni cosa. Non è causa efficiente perché dio è
immobile, cioè non muove generando impulsi ma provoca il movimento tramite
l’attrazione;

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- dio è necessariamente perfetto (per via della caratteristica precedente);
- dio è eterno perché il processo di movimento e la materia non si possono
estinguere, dunque ciò a cui tendono deve essere eterno;
- dio è immateriale in quanto la sua eternità presuppone l’assenza di materia: se
dio fosse fatto di materia entrerebbe nella catena del divenire;
- dio è di conseguenza fatto di solo pensiero e, essendo pensiero che ha come
oggetto ciò che è perfetto, egli pensa solo a sé stesso, per cui è pensiero del
pensiero.

Inoltre, siccome l’esistenza di un primo motore, dunque dio, è necessaria, essa si


identifica con il bene ed è il principio di tutto.

L’etica e la politica

L’attualità della riflessione etica di Aristotele


L’etica è una scienza pratica, che si occupa del comportamento dei singoli e il suo
oggetto di studio è la determinazione del significato della felicità.
L’etica di Aristotele non si basa su principi astratti, ma sull’osservazione di situazioni
reali, degli usi e dei costumi dei popoli e dalla riflessione su che cosa sia bene fare,
tenendo conto delle circostanze concrete, sociali e storiche. Per la prima volta nella
storia della filosofia occidentale non si ricorre ad una definizione di bene assoluta, ma si
cerca un equilibrio tra le diverse prospettive.
La prospettiva aristotelica può dunque essere considerata abbastanza moderna rispetto
alla nostra società in quanto, anziché affermare l’esistenza di un unico punto di vista
morale, egli cerca un compromesso intorno alla questione dei valori, considerando il
rapporto tra gli individui in modo relativo e dinamico e tenendo conto delle diverse
culture esistenti. Può essere metaforicamente comparato con un architetto che deve
misurare le curve di una colonna: una riga dritta non è chiaramente indicata, mentre il
metro flessibile “si piega alla forma della pietra e non rimane rigido”.
La buona deliberazione [ = ordinanza, decisione] pratica si adatta a ciò che trova,
rivelando sensibilità e rispetto per le differenze.
L’etica non è una scienza dimostrativa e infallibile come la matematica: le norme morali
non seguono un ragionamento necessario e l’etica non deriva da principi primi, unici e
necessari. Essa si occupa infatti dei modi di vivere e di agire degli uomini, che
presentano due tratti fondamentali:
- sono diversi gli uni dagli altri a seconda del tempo e del luogo in cui si trovano;
- dipendono dalla libera volontà delle persone.

A differenza delle scienze teoriche l’etica si riferisce a condizioni storiche e geografiche


diverse, per cui ciò che è bene per un popolo potrebbe essere male per un altro, e tiene
conto della libertà umana, perché senza libertà, dunque senza una responsabilità

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individuale delle scelte, non c’è agire morale. Per Aristotele i ragionamenti etici non
arrivano mai a conclusioni assolute e necessarie, ma valgono “perlopiù”, ossia in linea di
massima e, nella maggior parte delle situazioni, col beneficio del dubbio, senza
esclusione di opzioni alternative.

La ricerca del “giusto mezzo”


Il modello a cui Aristotele si riferisce è quello moderato tipico della classe media, che
gode di buone condizioni economiche ed è decisa a mettere a frutto le risorse sociali e
umane di cui dispone.
Se sul piano sociale il modello è la classe media, sul piano filosofico a virtù adatta è il
“giusto mezzo”, ovvero l’equilibrio tra i due estremi del difetto e dell’eccesso. Ad
esempio, il coraggio è virtù perché sta in mezzo tra viltà e prudenza, la generosità sta in
mezzo tra avarizia e prodigalità, ecc…
Nel comportamento morale non si possono dare regole assolute e dunque non esiste
una misurazione rigorosa del giusto mezzo valida per tutti. La sua determinazione è
data dalla saggezza pratica [in greco phronesis], che varia in base al soggetto e alle
condizioni oggettive.

Il fine dell’etica: la felicità


Il fine dell’etica è la felicità, che non coincide con il benessere che l’uomo prova quando
sta bene con se stesso, con gli altri o con il proprio ambiente.
Per capire meglio cosa sia la felicità, consideriamo che per Aristotele si danno tre forme
di vita possibili, a seconda del fine che gli uomini seguono scegliendo di assecondare
una delle parti della propria anima:
a. la prima forma di vita appartiene agli uomini volgari e ha come fine solo il
piacere del corpo. Si può chiamare “vita edonistica”;
b. la seconda forma di vita appartiene a coloro che hanno come obiettivo l’onore, il
prestigio connesso con le cariche pubbliche e si chiama “vita politica”;
c. la terza forma di vita riguarda i pochi che hanno come fine la conoscenza della
verità ed è detta "vita teoretica”.

Tutte queste forme confluiscono nella vita dell’uomo sapiente e virtuoso, che esercita le
virtù proprie dell'anima razionale. Per Aristotele, infatti, la virtù rappresenta la
disposizione costante ad agire secondo ragione. Vi sono due tipi di virtù:
- le virtù dianoetiche, che consistono nell'esercizio stesso della ragione e si
distinguono in arte, saggezza, intelligenza, scienza e sapienza;
- le virtù etiche, che consistono nella disposizione a vivere secondo ragione, cioè a
dominare con razionalità gli impulsi sensibili. Ad esempio giustizia, moderazione,
magnanimità, temperanza, ecc…

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Le virtù dianoetiche sboccano nella sapienza, che costituisce un ideale di vita riservato
a pochi in quanto è propria dei saggi e dei filosofi che si dedicano alla conoscenza
disinteressata delle cose più alte e universali, vivendo una vita felice e serena perché
assente da preoccupazioni esterne.
A un grado inferiore si ha invece la saggezza, che è orientata più alla vita pratica ed è la
capacità di adattarsi alle circostanze trovando sempre sia il giusto mezzo, sia gli
strumenti per ottenere un buon fine. In conclusione, possiamo trovare nell’equilibrio il
carattere fondamentale dell’etica aristotelica.
Secondo Aristotele un uomo è felice solo se riesce a conciliare tutte le sue virtù in
un’etica integrale, che non sacrifica una parte a vantaggio dell’altra e che fugge da ogni
parzialità. Un ideale del genere necessita di essere accompagnato da un lungo esercizio
riflessivo, ma può essere raggiunto da tutti coloro che sanno essere saggi nelle
molteplici circostanze della vita.
La felicità vera consiste in una vita a cui non manchi nulla: né ricchezze, né il piacere, né
gli onori, né la conoscenza e nemmeno la contemplazione della verità. I beni esteriori,
infatti, pur non essendo il fine dell’esistenza, possono agevolare l’esercizio della virtù.
Si tratta per questo dell’ideale di vita di un uomo agiato della classe media.

Lo scetticismo

La figura e il pensiero di Pirrone


Lo scetticismo fu fondato da Pirrone e si trattò di uno stile di vita piuttosto che di una
filosofia vera e propria. Egli si propose di reagire al dogmatismo, dare una risposta ai
problemi della vita e cercare il modo più adatto per vivere in modo felice. A differenza
degli altri filosofi però, Pirrone non crede in nessuna verità, né sente di possedere alcune
certezza da proporre.
La parola “scetticismo” deriva dal greco e significa “ricerca”, “incertezza”, “dubbio” e infatti
può essere definita una “filosofia del dubbio”: Pirrone sostiene che non si può avere una
conoscenza oggettiva delle cose, soprattutto di fronte alle difficili verità (come
l’esistenza degli dei o la nascita del mondo). Questa sua posizione radicale è giustificata
dal suo partire alle spedizioni militari di Alessandro Magno, tramite il quale poté
conoscere i popoli orientali e fare esperienza di differenti modi di vivere e pensare. In
particolare conobbe un gruppo di saggi dell’India, i gimnosofisti, che avevano usanze
particolari, ad esempio quella di girare seminudi per le strade, incuranti dei giudizi della
gente, sostenendo che il sapiente doveva avere un atteggiamento di distacco di fronte
alle cose del mondo, vane ed effimere.
Come i sofisti, Pirrone considerava relativa ogni forma di conoscenza. Gli scettici
radicalizzano tale insegnamento, affermando che:
- l’uomo è l’unico criterio di verità (si pensi a Protagora);
- non esiste la verità;
- ogni dottrina filosofica è insostenibile e fallace [ = ingannevole, che illude].

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La sospensione del giudizio e l’afasia
Il ragionamento degli scettici era tipo: dal momento che su ogni argomento (es. Dio,
l’anima, l’universo, il bene, ecc…) è possibile contrapporre due tesi opposte, è meglio
astenersi dal prendere posizione ed esercitare il dubbio. La parola chiave dello
scetticismo è infatti epoché, che significa “sospensione del giudizio”.
L’epoché va intesa come l’atteggiamento preliminare che porta all’indagine, liberandola
dall’immobilismo delle dottrine dogmatiche e metafisiche. L’atteggiamento dello scettico
deve infatti essere quello di continuare sempre a ricercare, a provare e a riprovare, con
spirito di sperimentazione e conoscenza.
Secondo Pirrone, è giusto astenersi da qualsiasi tipo di giudizio, raggiungendo un
silenzio detto afasia, o liberazione dal linguaggio. Esso tende infatti a ingabbiare la
realtà e a creare distinzioni tra le cose, che sono causa di turbamento per l’uomo. Se
proprio non è possibile tacere, occorre attenuare i giudizi e la valutazione delle cose
nei nostri discorsi. Coloro che si mettono in queste condizioni arriano all’atarassia
dell’anima, ovvero lo stato di serenità del saggio che contempla il mondo senza più
subirne la pressione. Nell’atarassia risiede la felicità, che implica un atteggiamento di
superiorità verso coloro che credono in una verità assoluta e comporta una posizione di
consapevole distacco dalle cose.

L’epicureismo

La prospettiva “edonistica”
La filosofia di Epicuro è un sapere pratico, che vuole insegnare il modo per evitare la
sofferenza e conquistare la serenità dell’animo. Egli si distacca da Platone e Aristotele e
dichiara di apprezzare Democrito, il fondatore dell’atomismo.
La conoscenza viene considerata una delle vie favorevoli per vincere le paure e le
angosce che opprimono gli uomini, nell’ambito di una prospettiva “edonistica”, cioè di
una dottrina che identifica la felicità con il piacere [in greco hedoné].
Il termine “edonista” ai giorni d’oggi ha un significato negativo, ovvero indica chi si
abbandona senza limiti al bene materiale. La filosofia di Epicuro era in realtà una
dottrina estremamente rigorosa incentrata sul piacere inteso come assenza di dolore e
di turbamento. Molte persone, come il poeta latino Orazio, definirono gli epicurei
“immorali”, ma in realtà la loro dottrina era tutt’altro che un edonismo in senso volgare.
Ad esempio, gli epicurei consumavano pasti molto semplici, bevevano acqua e si
astenevano dal vino, erano attenti ai riti religiosi e dediti a coltivare amicizie leali e sale.
Quando l’epicureismo si diffuse a Roma, ebbe tra i suoi seguaci personaggi come i poeti
latini Lucrezio e Virgilio, le cui vite confermano il rigore morale del movimento.

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La filosofia come “terapia”
Per poter raggiungere l’equilibrio dell’animo, dunque la pace interiore e la felicità, è
necessaria una “diagnosi” dei mali che causano la sofferenza. Solo in questo modo è
possibile trovare un rimedio, come fanno i medici con le malattie.
Secondo la dottrina di Epicuro, le cause principali del dolore sono le paure e i timori,
spesso infondati [ = immotivato], che provocano l’angoscia dell’animo; la filosofia viene
dunque intesa come una “terapia” in grado di eliminare tali sofferenze. In particolare, gli
obiettivi degli epicurei sono:
1. liberare gli uomini dal timore degli dei, facendogli capire che essi talmente
grandi e perfetti che non si curano degli dei;
2. liberare gli uomini dalla paura della morte, poiché quando c’è la morte l’uomo
non c’è più, quando c’è l’uomo, la morte non c’è ancora (più ci pensi più ci stai
male);
3. vivere bene il presente e non basare tutto sulla progettualità futura;
4. dimostrare che il male e il dolore sono di breve durata.

La canonica
La dottrina della conoscenza, che Epicuro definisce canonica perché fornisce un
canone [ = regola] d’orientamento per gli uomini, è fortemente connessa con la realtà
dei sensi. Epicuro sostiene infatti che la base per la conoscenza sia la sensazione, in
quanto “Se ti opporrai a tutte le sensazioni non avrai più nemmeno dei criteri a cui
riferirti e perciò neanche modo di giudicare quelle che tu dici essere errate”.
La sensazione è il primo criterio di verità: il soggetto è passivo di fronte alle cose
esterne e la sensazione registra l’immagine delle cose. Le sensazioni sono infatti causate
dal flusso di atomi che, staccandosi dai corpi, producono le immagini simili alle cose da
cui derivano. Tali immagini colpiscono l’uomo e stimolano i suoi sensi.

L’etica
Per Epicuro, il fine della vita è la felicità, come per Aristotele ma, a differenza di
quest’ultimo, Epicuro qualifica la felicità come ricerca del piacere inteso come aponia,
ovvero assenza di dolore nel corpo, e atarassia, assenza di turbamento nell’anima.
Questo implica una rigorosa valutazione dei desideri, per evitare di accettarne
qualcuno che possa causare dolore.
Partendo dal presupposto che alcuni piaceri sono necessariamente accompagnati dal
dolore, l’etica epicurea si trasforma in una casistica di situazioni da promuovere o da
evitare. In particolare, Epicuro distingue i piaceri in “buoni” e “cattivi”:
- i piaceri buoni sono i piaceri “stabili” o “catastematici”, che consistono
nell’assenza di dolore;
- i piaceri cattivi sono detti “dinamici”, in quanto sono accompagnati dal dolore e
causano l’agitazione dell’animo.

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Tra i piaceri positivi Epicuro colloca l’amicizia, praticata nei “filosofi del Giardino”. In
essa risalta il valore della solidarietà umana.
L’amore sessuale, pur essendo naturale, non è né buono né necessario, perché si
accompagna a fatica, rimorso e depressione. Sono piaceri dinamici anche il matrimonio,
l’ingordigia, l’amore per gli onori, per le ricchezze e per la vita politica.
Epicuro ammette che il raggiungimento della felicità è difficile in quanto necessita sia la
saggezza intellettuale sia il benessere fisico. I suoi consigli sulla ricerca della felicità non
sono per tutti, ma sono indirizzati alla stessa comunità epicurea, unita ma chiusa e
staccata dal resto della società.
1. Tenersi lontano dalla vita pubblica, scelta che fu dichiarata da Cicerone come
“immorale” in quanto era vista come una sottrazione al servizio della propria città;
2. Contemplare il mondo fisico, uno dei piaceri fondamentali che fa sentire
partecipe di una realtà immensa e meravigliosa;
3. Il futuro non dev’essere una fonte di preoccupazione, ma bisogna apprezzare il
semplice fatto di esistere;
4. La convivialità stessa costituisce un esercizio spirituale: solo nella condizione
di ricerca e di vita comune è possibile infatti realizzare le pratiche insegnate da
Epicureo.

L’amicizia si delinea dunque come una fondamentale virtù etica e, allo stesso tempo,
come la condizione indispensabile per la serenità interiore, fondandosi sull’affetto
reciproco e sulla fiducia degli uni verso gli altri.

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