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LE PREMESSE

Negli Analitici Secondi, Aristotele parla del sillogismo scientifico (il sillogismo vero e valido su cui si
fondano le scienze). Un sillogismo si dice tale solo quando parte da premesse vere.
Le premesse possono essere:
postulato → affermazione generale assunta come vera all’interno di una certa disciplina scientifica
assioma → principi considerati auto-evidenti, comuni a più scienze, che vengono assunti per veri ma che
non possono essere dimostrati.
Oltre ai postulati e agli assiomi, possono fungere da premesse di sillogismi scientifici anche i principi logici
della metafisica:
- principio di identità
- principio di non contraddizione
- terzo escluso.
Oltre i principi, una scienza ha bisogno anche di definizioni, è l’essenza di ciò che si sta parlando.
Si giunge alle definizioni mediante il ragionamento induttivo → da più casi particolari si giunge ad
un’affermazione universale. L’induzione, però, è priva di autentico valore dimostrativo, perché le
affermazioni generali a cui perviene sono valide perlopiù, in quanto potrebbero essere smentite
dall’esperienza futura.
La scienza usa un ragionamento deduttivo → da affermazioni generali si giunge a conclusioni particolari,
necessariamente vere.
La scienza tra esperienza e intuizione
Secondo Aristotele, la scienza è figlia dell’intuizione → potere dell’intelletto: la capacità dell’uomo di
ragionare e comprendere, ma anche quella di intuire l’essenza delle cose. La scienza è la conoscenza
del perché delle cose → il sapere delle essenze.

LA FISICA
La fisica è la scienza che studia i corpi in movimento. I tipi fondamentali di movimento di un corpo sono
4:
1. movimento sostanziale → generazione e corruzione (nascita e morte)
2. movimento qualitativo → mutamento o alterazione
3. movimento quantitativo → aumento e diminuzione
4. movimento locale → movimento (cambiamento di luogo).
Il movimento locale è quello fondamentale e può essere di 3 tipi:
- circolare intorno al centro del mondo
- rettilineo dal centro del mondo verso l’alto, cioè verso l’esterno del mondo
- rettilineo dall’alto verso il basso, cioè verso il centro del mondo
Gli ultimi due movimenti sono reciprocamente opposti e caratterizzano i 4 elementi che compongono
tutte le cose (terra, acqua, aria e fuoco).
I corpi celesti, invece, si muovo di moto circolare, eterno e unidirezionale → Aristotele riteneva che tutti
gli astri fossero fatti di etere, una specie di “quinto elemento” invisibile, impalpabile e incorruttibile.
I luoghi naturali
Secondo Aristotele ogni elemento ha nell’universo un proprio luogo naturale, una collocazione a cui
tende in virtù del proprio peso: al centro si trova la Terra, l’elemento più pesante, e attorno ad essa si
dispongono gli altri 3 elementi, cioè acqua, aria e fuoco. Ad essi seguono le sfere celesti (fatte di etere):
la prima è quella della Luna → perciò la parte terrestre dell’universo viene anche chiamata mondo sub-
lunare: qui i 4 elementi che compongono le cose tendono per natura a rimanere nel loro luogo naturale, in
modo che tutte le cose abbiano una propria collocazione naturale. Esse, però, possono essere allontanate da
questa collocazione da un movimento violento, ma appena possibile vi ritornano tramite un movimento
naturale (esempio: una pietra si trova a terra, viene lanciata violentemente in mare, ma poi ritorna
naturalmente sul fondo).
La concezione finalistica della natura
Aristotele ha una concezione finalistica della natura: egli afferma che i movimenti cosmologici avvengono
sempre in vista di uno scopo e tutte le cose esistono per un motivo. Egli identifica tale fine con la stessa
sostanza o ragion d'essere delle cose. Inoltre ritiene che tutto l'universo sia subordinato ad un unico fine
ultimo: Dio, da cui dipendono l'ordine e il movimento del cosmo. Quello aristotelico, però, è un finalismo o
teologismo particolare, perché è convinto che la natura abbia le proprie leggi eterne, che non possono
essere controllate dall'uomo.
Secondo la prospettiva finalistica di Aristotele:
- i corpi inanimati tendono a collocarsi nel proprio luogo naturale
- i corpi animati tendono all’entelechia, cioè alla piena attuazione della propria natura, il
raggiungimento della loro forma perfetta di sostanza propriamente in atto.
L’universo e le sue caratteristiche
L'universo di Aristotele, chiuso e circolare, è di tipo geocentrico, cioè con la Terra al centro di tutto,
avvolta dalle sfere degli altri tre elementi. Il cosmo si divide in mondo sub-lunare e mondo sopra-
lunare. Le sfere celesti, anche chiamate cieli, sono 7: della Luna, di Mercurio, di Venere, del Sole, di
Marte, di Giove e di Saturno, ovvero di quelli che Aristotele considerava pianeti. Le sfere celesti non sono
soltanto delle orbite lungo le quali si spostano i pianeti, ma sono delle vere e proprie sfere reali, fisiche,
fatte di etere (nell’Universo non c’è aria né ossigeno ma questa sostanza invisibile) in cui galleggiano i
pianeti. Al di là dei cieli si trovano le stelle fisse, dove sono incastonate le costellazioni.
L'universo di Aristotele è:
• PERFETTO: La perfezione viene dimostrata tramite la teoria pitagorica della perfezione del numero 3:
l'universo è perfetto perché possiede tutte e 3 le dimensioni possibili (altezza, larghezza e profondità = è
tridimensionale), non manca di nulla, perciò è perfetto;
• FINITO: Se il mondo è perfetto allora è anche finito, perché secondo i Greci l'infinito era sinonimo di
incompiutezza e imperfezione. Secondo Aristotele nessuna realtà fisica è infinita; l'infinito esiste solo in
potenza, cioè come possibilità matematica. Le stelle fisse, perciò, segnano i limiti dell'universo;
• UNICO: Aristotele non crede nella pluralità dei mondi;
• ETERNO: Non ha inizio né fine, ma si prolunga indefinitamente nel tempo.
Lo spazio e il tempo
Secondo Aristotele non esiste il vuoto: tutto è pieno. Lo spazio non è concepibile come realtà assistente,
ma è sempre luogo di qualcosa. Il luogo è simile ad un recipiente, fermo, stabile, immobile, ma pieno di
cose che si muovono. Tutte le cose sono nello spazio tranne l'universo: quest'ultimo, infatti non è contenuto,
poiché è ciò che tutto contiene.
Per quanto riguarda il tempo, Aristotele afferma che esso è una concezione puramente mentale dell'uomo: è
una condizione che nella realtà non esiste, bensì un'invenzione che l'uomo ha proiettato sulla vita sulla
Terra.

LA PSICOLOGIA
La disciplina che studia l'anima è la psicologia, che per Aristotele fa parte della fisica. Secondo il
filosofo l'anima è la sostanza che vivifica un corpo, la sua entelechia. Così intesa l'anima è ciò che fa sì
che un certo corpo, che è vita in potenza, diventi vita in atto, e in quanto tale non è separabile dal corpo.
Essa è quindi mortale, nel senso che si dissolve insieme con il corpo in cui è calata. L'anima caratterizza
tutti gli esseri viventi, vegetali e animali, e svolge tre funzioni:
1. la funzione vegetativa, cioè la capacità di nutrirsi e di riprodursi (propria di tutti gli esseri viventi, a
partire dalle piante);
2. la funzione sensitiva, ossia la capacità di movimento e la sensibilità (propria degli organismi animali,
compresi gli uomini);
3. la funzione intellettiva, che appartiene soltanto all'uomo e che presiede la conoscenza.
Le funzioni più elevate possono fare le veci di quelli inferiori ma non viceversa: ad esempio, nell'essere
umano l'anima intellettiva interviene anche nelle funzioni che sono svolte dall'anima sensitiva e da
quella vegetativa.

L’ETICA
Aristotele è convinto che le azioni umane siano sempre volte a uno scopo che appare buono e
desiderabile, perciò egli identifica il fine che orienta il comportamento con il bene. Tra tutti i beni perseguiti
dagli esseri umani, ne esiste uno dal quale tutti gli altri dipendono, un fine supremo: si tratta del bene
sommo, ossia ciò che viene desiderato per sé stesso e non in vista di un bene ulteriore. Non c'è dubbio che
per Aristotele questo fine sia la felicità, ovvero la condizione in cui ogni ente si trova quando realizza
compiutamente la propria natura; nel caso dell'uomo si tratta dell'esercizio della ragione (la virtù umana,
infatti, consiste proprio nel vivere secondo ragione). Secondo Aristotele il piacere è collegato all'esercizio
della virtù, dunque la vita virtuosa sarà anche piacevole.
I due tipi di virtù
Nell'anima, oltre alla parte razionale o intellettiva, esistono anche 2 parti irrazionali:
1. vegetativa o nutritiva, che concerne la nutrizione e la crescita;
2. sensitiva o appetitiva, che è priva di ragione ma che può essere orientata da essa.
Aristotele ammette molteplici virtù, riconducibili tutte a 2 tipi fondamentali:
• le virtù etiche, che consistono nel dominio della ragione sugli impulsi sensibili e che vengono chiamate
così perché tendono a perfezionare il carattere, in quanto si acquisiscono con l'abitudine.
• le virtù dianoetiche che consistono nell'esercizio della ragione.
Le virtù etiche
Le virtù etiche trovano concretizzazione nella scelta, in ogni circostanza, del miglior comportamento
possibile, ossia nel perseguimento del giusto mezzo: esso si può realizzare scartando, in ogni
comportamento, i due estremi dell'eccesso e del difetto, cioè trovando un equilibrio, una via di mezzo (o il
male minore). Il principio aristotelico del giusto mezzo attinge dalla saggezza arcaica dei motti dei 7 savi
(prefilosofi). Le virtù etiche si acquisiscono con l'abitudine, “l'ethos”, ossia una sorta di addestramento o
esercizio ripetuto, attraverso il quale impariamo a moderarci: si diventa coraggiosi, ad esempio, compiendo
sempre atti coraggiosi, e in tal modo il coraggio diventa un'abitudine. È importantissimo, però, che per la
formazione di un buon carattere l'allievo segua l'esempio e l'educazione di un maestro che lo spinga ad
essere virtuoso e ad acquisire buone abitudini. L'ostacolo più grande per l'apprendimento delle virtù etiche
è il desiderio, in quanto è quest'ultimo che spinge l'uomo all'azione: perciò lo scopo dell'etica non è indurre
l'essere umano a eliminare i desideri e le passioni, che sono incomprimibili, ma orientarli verso una giusta
misura. Per Aristotele per compiere il bene non è sufficiente conoscerlo ma bisogna anche volerlo, perciò
chi fa il male è un ignorante. L'uomo veramente libero è colui che non è schiavo dei propri desideri, non
si fa influenzare da nulla e agisce nel bene comune. L'uomo è sempre chiamato a scegliere: per quanto possa
essere incline al bene, potrebbe anche cadere nell'egoismo e nell’opportunismo; colui che cerca il bene
vive in armonia con il tutto e la comunità, rispetto a colui che cade nell'egoismo, che sarà costretto a
pagare le conseguenze delle proprie azioni. La principale delle virtù etiche è la giustizia, a cui Aristotele
dedica un intero libro dell'etica nicomachea. In generale essa consiste nella conformità alle leggi, ma può
assumere anche un significato più specifico, che riguarda l'agire in vista di un guadagno nell'ambito dei
rapporti con gli altri uomini. A causa di giustizia può essere:
1. distributiva → consiste nella distribuzione degli onori, del denaro e di tutti gli altri beni materiali a
coloro che appartengono alla stessa comunità. I beni devono essere distribuiti per merito.
2. commutativa → consiste nei contratti, cioè nei vincoli tra due o più individui. I contratti possono essere
volontari, cioè quando alcuni beni vengono scambiati con altri, o involontari, i quali possono essere
fraudolenti o violenti. In questi casi l'intensità della pena inflitta al colpevole deve essere proporzionata al
danno da lui arrecato.
Le virtù dianoetiche
Le virtù dianoetiche o intellettive sono quelle proprie dell'anima razionale e sono:
1. l’arte → capacità di produrre oggetti;
2. la saggezza → capacità razionale di agire convenientemente per raggiungere il bene, perciò è alla
saggezza che spetta il compito di determinare il giusto mezzo in cui consistono le diverse virtù morali;
3. intelligenza → capacità di cogliere i principi comuni a tutte le scienze;
4. scienza → capacità di costruire ragionamenti dimostrativi, i cosiddetti sillogismi scientifici,
ricavando affermazioni necessariamente vere da verità universali;
5. sapienza (sophia) → la virtù più alta, perché sapiente è colui che possiede scienza e intelligenza allo
stesso tempo. Siccome la felicità più alta consisterà nella virtù più alta, la Sapienza costituisce il grado più
alto della felicità. Il sapiente, infatti, basta a se stesso e non ha bisogno di nulla che egli non abbia già in
sé per estendere la propria sapienza.
La concezione dell’amicizia
Aristotele riflette intensamente sull'amicizia, un tema immortale e profondamente interessante. Per
Aristotele l'amicizia è importante perché non solo è indispensabile per la vita ma è anche una cosa bella,
in quanto nessuno sceglierebbe di vivere senza amici anche se possedesse tutti gli altri beni.
Secondo Aristotele l'amicizia può essere di 3 tipi: per utilità, per piacere e per virtù.
1. e 2. PER UTILITÀ E PER PIACERE: gli uomini che sono amici per utilitarismo o per piacere non si
amano per se stessi, ma solo in virtù dei vantaggi che ricavano dal loro rapporto. Queste amicizie sono
facili a rompersi in quanto cessano non appena svanisce l’utilità o il piacere che producono.
3. PER VIRTÙ: al contrario, l’amicizia per virtù è stabile e ferma in quanto è un’amicizia disinteressata,
che non ha secondi fini: il vero amico non ti giudica mai ma ti ama per quello che sei. Naturalmente queste
amicizie sono molto rare perché rari sono i buoni. Per Aristotele coloro che hanno molti amici e che si
legano con tutti quelli che capitano non sono veri amici di nessuno, perché l'amicizia intensa sarà verso
poche persone. L’amicizia, inoltre, nasce soltanto entro una certa intimità di rapporti tra due persone e
soprattutto di vicinanza. Tant’è vero che quando due persone non sono in contatto da molto tempo la
loro amicizia si affievolisce. Secondo Aristotele, l'amicizia tipica si realizza soprattutto tra persone simili,
uguali, cioè individui che hanno la stessa cultura, pensiero, educazione... ma Aristotele non esclude che ci
possa essere un'amicizia tra disuguali: basti pensare al rapporto genitore figlio, ma non solo.
L'amicizia va ben distinta dalla benevolenza e dall'amore:
si può volere il bene di qualcuno anche se non lo si conosce ed esso può essere celato, mentre nell'amicizia
no. L'amore ha a che fare anche con la sfera dell'eros e della sensualità.

LA POLITICA
La concezione dello Stato
Il libro della Politica è basato su 8 lezioni che Aristotele tenne presso il proprio Liceo (si contrappone
all'Accademia di Platone). Per Platone la politica era l'obiettivo della sua speculazione, fondare una
società di uomini giusti che potessero vivere felici in comunità. Per Aristotele, invece, la politica è uno
dei tanti argomenti affrontati da egli, ma non per questo un argomento secondario, perché anche per
Aristotele la politica è centrale in quanto ha a che fare con il buon governo della città, della polis, e dunque
con la possibilità di essere felici (perché solo dove vi è giustizia vi è possibilità di felicità = paradigma
tipico del mondo greco e di molti filosofi dell'antica Grecia). Le 8 lezioni che Aristotele tenne sulla politica
hanno un punto di partenza in comune, la socievolezza, la socialità dell’uomo. Secondo Aristotele
l'uomo è un animale politico, l'uomo per natura tende ad unirsi con altri uomini, per natura produce
comunità politica (fondamento dell'aristotelismo politico). L'uomo è socievole perché non è fatto per vivere
da solo, l'uomo non basta a se stesso; si unisce ad altri uomini in vista del bene, per il bene di se stesso e
della comunità. La prima comunità politica per Aristotele è la famiglia (nucleo primario, originario, luogo
naturale della politica). Una famiglia è data da un uomo e una donna che si unisco per procreare, per
proteggersi, per mettere in comune dei beni, una famiglia patriarcale, di cui l'uomo deve prendersi cura e
che deve guidare, e in cui la donna è portatrice della vita. È qui che emerge il finalismo di Aristotele: un
uomo e una donna si uniscono in vista di un fine: unirsi e dare vita a dei villaggi (seconda comunità politica)
che sono unioni di più famiglie: con delle regole, organizzazione del lavoro, della produzione (caccia, pesca,
agricoltori, donne, anziani, esperti); che porta ad un'organizzazione sociale e politica. Ma il fine di un
villaggio è quello di unirsi ad altri villaggi per andare a costituire uno Stato (unione di più villaggi). Il
fine ultimo della politica è lo Stato.
Ma che tipo Stato? Aristotele non è un utopista, anzi, è un anti-utopista (una netta differenza con Platone, il
teorico dell'utopismo politico, Platone pensa e teorizza lo Stato MIGLIORE che possa esistere, il luogo
PERFETTO (luogo della giustizia, governo dei sapienti, dei cittadini e dei guerrieri, che uniti
armoniosamente stanno insieme animati dal bene). Secondo Aristotele la politica non deve occuparsi della
società perfetta o dello Stato migliore possibile, ma dello Stato migliore REALIZZABILE. Ecco il
realismo politico di Aristotele, lui parla dello Stato giusto ma realizzabile, non utopistico e assoluto.
Secondo Aristotele, tra quelle realizzabili, la società migliore è quella costruita attorno alla giustizia, alla
legge, al diritto, alla convivenza e intorno alla possibilità di essere felici dentro questa comunità
politica. Aristotele viveva in una società di liberi e schiavi, differenze sociali, politiche ed economiche.
Per lui queste differenze sono naturali: esse stabiliscono che un uomo sia libero o schiavo; questo significa
che un uomo è per natura propenso a comandare o ad essere assoggettato. È così che viene legittimata la
differenza tra liberi e schiavi, la schiavitù è per natura, è naturale per Aristotele. Gli stoici gli risponderanno
(quella che poi è la verità) che non si nasce schiavo, ma si diventa schiavo; tutti gli uomini nascono liberi ma
poi vengono sconfitti per vari motivi (militarmente più deboli, culturalmente arretrati...); È così che, sempre
per natura, l'uomo è superiore alla donna, l'atto è superiore alla potenza, così come la forma è superiore
alla materia. Lo stesso vale per il rapporto padre-figlio: i padri devono guidare i propri figli verso la
giusta strada e per natura i figli devono obbedire ai loro genitori.
La riflessione sulle forme di governo
Proprio come Platone, anche Aristotele distingue 3 forme di governo e le loro rispettive degenerazioni:
1. LA MONARCHIA (governo di uno solo = re saggio + leggi) che può degenerare in tirannide (governo
del tiranno= monarca mediocre che persegue solo il proprio benessere e discrimina quello dei sudditi);
2. L’ARISTOCRAZIA (governo dei migliori= persone sagge) che può degenerare in oligarchia (governo
di pochi, ma non i migliori);
3. LA POLITIA (governo di molti) che può degenerare in democrazia (governo del popolo).
Ovviamente non tutte le città possono avere la stessa Costituzione (Aristotele sarà il primo filosofo a
parlare di costituzione, rigida e flessibile): bisogna tenere conto dell'eterogeneità del tessuto sociale e
adattare adesso la migliore forma di governo realizzabile. Aristotele manifesta la propria preferenza per
la politia, ossia il governo del ceto medio: egli ritiene che uno stato efficiente necessiti di un governo
misto, per metà democratico e per aristocratico, per raggiungere un certo equilibrio ed evitare i
dislivelli, gli squilibri e i conflitti sociali. Secondo il filosofo il buon governo è quello che adopera
nell'interesse della moltitudine, e non del particolare, e che ha come fine ultimo la felicità della comunità.
Aristotele parla addirittura delle condizioni morfologiche dello Stato equilibrato, della polis, condizioni a cui
i cittadini si devono adeguare. Il numero dei cittadini non deve essere né troppo alto né troppo basso e la
situazione geografica dello Stato deve essere ospitale; l'indole dei cittadini è importantissima e deve essere
coraggiosa e intelligente, come quella dei Greci, che per Aristotele sono i più adatti a vivere in libertà e a
dominare gli altri popoli. Rispetto a Platone, Aristotele esclude la comunanza delle donne e della
proprietà (rinnega il comunismo) ma riprende la suddivisione del popolo in tre classi fondamentali, in
modo che tutti i compiti dei cittadini siano ben distribuiti (governanti, guerrieri e produttori). È
necessario che nello Stato comandino gli anziani, ma ognuno deve essere elemento attivo della comunità,
che la aiuta ad andare avanti e a fare meglio. Lo Stato deve occuparsi anche della educazione dei cittadini: è
ovvio che gli aristocratici avranno una formazione culturale e migliore, date le loro disponibilità
economiche, ma anche i più poveri hanno il diritto ad avere una certa istruzione, pur non cambiando la
propria classe sociale.
La concezione dell’arte e della tragedia
Il teatro per i greci è una vera e propria scuola di vita. Esso, infatti, ha una funzione catartica, cioè di
purificazione, nonché educativa e formativa. I protagonisti delle rappresentazioni sono delle vere e proprie
personificazioni esagerate ed eccessive dei vizi della società: siccome l'eccesso porta al ridicolo, ciò spinge
inconsciamente alla correzione dei propri comportamenti. Il teatro, infatti, vuole sempre trasmettere un
messaggio ai propri spettatori. Questi ultimi si rispecchiano nella tragedia, nei traumi e nei pensieri
nascosti dei personaggi, e allo stesso tempo, vedendoli rappresentati, si liberano dall'angoscia, dal dolore e
dalla paura. Le cosiddette unità aristoteliche rappresentano un canone di narrazione applicato nel
teatro. Aristotele ritenne che i drammi dovessero avere:
1. Unità di luogo → doveva svolgersi cioè in un luogo unico, nel quale i personaggi agissero o
raccontassero le vicende accadute. Nella tragedia greca spesso le azioni non vengono compiute e viste "in
presa diretta" ma soltanto riferite o raccontate sulla scena;
2. Unità di tempo → l'azione doveva svolgersi in un'unica giornata, dall'alba al tramonto;
3. Unità d’azione → il dramma doveva comprendere un'unica azione (inizio, svolgimento e fine), con
l'esclusione quindi di trame secondarie o successivi sviluppi della stessa vicenda.

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