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Il principio di legalità non ha un'origine strettamente penalistica, ma politica e si giustifica

nell'esigenza di vincolare ogni potere dello Stato alla legge, in modo da eliminare rischi di arbitri
e soprusi da parte dello Stato.
Il principio di legalità presenta 4 sotto principi: IL PRINCIPIO DI RISERVA DI LEGGE; IL PRINCIPIO
DI TASSATIVITÀ; IL PRINCIPIO DI IRRETROATTIVITÀ e IL PRINCIPIO DI DIVIETO DI ANALOGIA.

Il principio di riserva di legge esprime il divieto di punire un determinato


fatto in assenza di una legge preesistente che lo configuri come reato.

In particolare, tale principio tende a sottrarre la competenza in materia penale al potere esecutivo
ritenendo soltanto il procedimento legislativo, pur con le sue inevitabili imperfezioni, lo strumento
più adeguato a salvaguardare il bene della libertà personale. Nell'ordinamento italiano il principio
di riserva di legge non è stato, specialmente attorno agli anni 50, inteso del tutto in linea con la
motivazione ad esso sottesa ma sono prevalse interpretazioni ispirate alla preoccupazione di
conservare buona parte dell'ordinamento penale esistente, tentando così di ridimensionare il
valore della riserva, degradandola a relativa: si è, infatti, ritenuta ammissibile la partecipazione di
fonti normative secondarie, come ad esempio i regolamenti, alla creazione della fattispecie
penale. Questa concezione però non poteva essere accolta perché finiva con l’eludere le esigenze
di garanzia cui il principio di legalità deve soddisfare, pertanto, la riserva di legge deve essere
intesa come RISERVA ASSOLUTA!
Viene, però, concesso al POTERE REGOLAMENTARE uno spazio, seppur limitato, di intervento
tecnico e un tale apporto appare indispensabile specie nei settori della legislazione speciale
caratterizzati da complessità tecnica e bisognosi di continuo aggiornamento.
Vengono annoverate, tra le fonti normative di produzione di norme penali, sia il DECRETO LEGGE
che le LEGGI DELEGATE; contrariamente, viene esclusa la LEGGE REGIONALE ritenuta, in sostanza,
incapace di avere una visione generale dei bisogni dell'intera società e potendo essere utilizzata, al
massimo, con una “funzione scriminante” (es: uno stabilimento industriale scarica sostanze
ritenute inquinanti dalla legge statale, ma rientranti nei limiti di tollerabilità stabiliti da una
successiva legge regionale; quest'ultima potrebbe giustificare alcuni dei comportamenti rientranti
nel precetto penale)

L'INTEGRAZIONE TRA LEGGE E FONTE NORMATIVA SECONDARIA PUÒ ESSERE SCHEMATIZZATA IN 4


MODELLI:
1. La legge affida alla fonte secondaria la determinazione delle condotte concretamente
punibili (c.d. NORME PENALI IN BIANCO): prendiamo l'art 650 c.p. il quale stabilisce che “è
punito colui che non osserva un provvedimento emanato dall'autorità amministrativa”;
questo è un tipico esempio di norma penale in bianco perché la fattispecie è molto
generica (simile ad un contenitore vuoto) e la determinazione del fatto costituente reato
(es: non mostrare il libretto di circolazione) è affidata alla stessa autorità amministrativa
(impersonata nell’agente di polizia stradale);
2. La fonte secondaria disciplina uno o più elementi che CONCORRONO ALLA DESCRIZIONE
dell'illecito penale: si pensi alla contravvenzione, ex art 659, commessa esercitando un
mestiere rumoroso contro le prescrizioni dell'autorità locale. In questo caso le prescrizioni
dell'autorità locale contribuiscono a delineare le modalità del fatto vietato;
3. La fonte normativa secondaria specifica, IN VIA TECNICA, elementi di fattispecie già
legislativamente predeterminati nel nucleo significativo essenziale: es: la specificazione
mediante decreto del Ministro della sanità degli additivi chimici non autorizzati, non incide
sulla completezza del precetto penale già integralmente costituito dal divieto di far uso
degli additivi chimici;
4. L'ultimo modello di integrazione, quello che consente alla fonte secondaria di scegliere i
comportamenti punibili, è certamente ILLEGITTIMO!
RAPPORTO TRA LEGGE E CONSUETUDINE: Innanzitutto, la consuetudine è la reiterazione di
un comportamento in maniera uniforme. Questa non ha una specifica regolamentazione (almeno
non a livello italiano) e proprio in virtù del principio di riserva di legge, che statuisce quali sono le
fonti, la consuetudine non può mai essere elevata a rango di norma nel momento in cui svolge un
ruolo incriminatore, aggravante o abrogativo di una norma interna. È ammessa con funzione
integratrice, tuttavia, è necessario che tale funzione trovi un fondamento nei caratteri sociali di
quell’integrazione che viene ad esser fatta.

la preminenza del diritto dell'unione europea su quello interno è stata riconosciuta da


un'importante decisione della CEE che ha sancito l'obbligo del giudice nazionale di applicare le
disposizioni di diritto europeo e di garantirne la piena efficacia, disapplicando all'occorrenza, di
propria iniziativa, qualsiasi disposizione contrastante della legislazione nazionale, anche
posteriore, senza doverne chiedere o attendere la rimozione in via legislativa o mediante il
procedimento costituzionale!
LE PRINCIPALI FORME DI POSSIBILE INTERAZIONE TRA NORME DI DIRITTO DELL'UNIONE E
NORME INTERNE È SCHEMATIZZATA IN 3 MODELLI:
1. La forma più importante e frequente di interazione si è finora manifestata nei casi di
CONFLITTO TRA DUE NORME: ove il conflitto si manifesti in forma di incompatibilità
evidente il giudice è tenuto a disapplicare, o meglio, non applicare la norma penale in
contrasto con quella di fonte europea;
2. Una seconda modalità di interazione consiste nella POSSIBILITÀ CHE NORME EUROPEE
CONCORRANO A DELINEARE I PRESUPPOSTI DI APPLICAZIONE DI FATTISPECIE
INCRIMINATRICI INTERNE: è escluso che fonti eurounitarie possano produrre, in forma
diretta e immediata, effetti di incriminazione o aggravamento della responsabilità penale
individuale! Mentre, è ammissibile che un regolamento di fonte europea specifichi, da un
punto di vista tecnico, uno più elementi di fattispecie già definiti nel nucleo essenziale dal
legislatore nazionale;
3. L'ultimo modello di possibile interazione consiste in quel canone ermeneutico secondo il
quale il GIUDICE È TENUTO, LADDOVE POSSIBILE, A PRESCEGLIERE QUELLE
INTERPRETAZIONI DEL DIRITTO INTERNO CHE RISULTINO PIÙ IN ARMONIA CON LE FONTI
SOVRANAZIONALI VINCOLANTI PER L'ORDINAMENTO NAZIONALE.
CASO TARICCO: è una di quelle fattispecie in cui si è toccato con mano l’integrazione italia-europa rispetto alla
normativizzazione di qualcosa. È il caso di una prescrizione violata da Taricco in Italia in materia finanziaria e dagli obblighi
imposti dall’UE; ci sono stati vari conflitti tra la corte italiana ed europea, siccome Taricco era stato condannato per la
medesima condotta sia nella violazione amministrativa che penale. Alla fine la corte cost, a chiusura della vicenda, ha fatto
valere la violazione di questi articoli dal punto di vista penalistico.
il principio di tassatività è quel principio in base al quale è necessario
che la norma sia CHIARA e DETERMINATA e che riesca ad orientare il
consociato all'interno della società.
AFFINCHÉ TALE PRINCIPIO SIA RISPETTATO OCCORRONO:
• GLI ELEMENTI DESCRITTIVI: cioè gli elementi che descrivono qual è la condotta vietata;
• GLI ELEMENTI NORMATIVI: che sono quelli che prevedono la sanzione.

Tuttavia, tra il principio di tassatività e la realtà dell'ordinamento penale vigente esiste una
sensibile divaricazione, e questo dipende dalla Corte Costituzionale la quale raramente ha fatto
seguire un effettivo controllo sulle modalità di tipizzazione legislativa dell'illecito!
La Corte ha, quasi nella totalità dei casi, respinto le eccezioni sollevate sotto il profilo della
violazione del principio di tassatività, facendo leva su argomenti discutibili. Questo atteggiamento
di chiusura è stato condizionato, specie nel passato, dalla duplice preoccupazione di creare vuoti di
tutela e di entrare in conflitto con il legislatore.

A CIÒ SI È AGGIUNTA LA DIFFICOLTÀ DI STABILIRE CON PRECISIONE IL CONFINE TRA SUFFICIENTE


DETERMINATEZZA E INDETERMINATEZZA:
A. Secondo un primo filone giurisprudenziale, nelle norme sospettate di eccessiva
indeterminatezza al giudice sarebbe sempre possibile rintracciare un significato, in base al
CRITERIO DEL SIGNIFICATO LINGUISTICO ;
B. Un altro filone della giurisprudenza costituzionale fa leva sull'argomento del DIRITTO
VIVENTE, in due versioni:
1. Secondo la prima versione, la Corte tende ad identificare il diritto vivente con
L'INTERPRETAZIONE DOMINANTE che la giurisprudenza conferisce a una
determinata norma incriminatrice;
2. La seconda versione, dove manca un indirizzo interpretativo prevalente, vede
ATTRIBUITA AL GIUDICE LA SCELTA della soluzione ermeneutica preferibile.
Tale criterio del diritto vivente, oltre ad essere suscettivo di applicazioni facilmente
manipolabili, attribuisce un ruolo eccessivo alla giurisprudenza ordinaria!
C. Non mancano prese di posizione che segnalano un'apertura ben maggiore: ricordiamo la
fondamentale pronuncia di accoglimento in tema di plagio che ha avuto il merito di
precisare che la determinatezza o tassatività della fattispecie incriminatrice non attiene
soltanto alla sua formulazione linguistica, ma implica anche la VERIFICABILITÀ EMPIRICA
DEL FATTO DA ESSA DISCIPLINATO.

L'ambiguità riscontrabile nella normativa penale è anche una diretta conseguenza della tendenza di bilanciare
beni e interessi confliggenti da loro e ciò si traduce, a livello di redazione delle fattispecie penali, in formulazioni
troppo generiche o incerte, che non di rado celano l'intento di scaricare sul potere giudiziario il compito di
mediare!
Il principio di irretroattività fa divieto di applicare la legge penale a fatti commessi prima della sua
entrata in vigore.

Questo principio è previsto per tutte le leggi dall’art 11 delle disposizioni preliminari, ma solo rispetto alla
materia penalistica ha rango costituzionale, come si desume dal comma 2 dell’art 25, per il quale “nessuno
può essere punito se non in forza di una legge che sia entrata in vigore prima del fatto commesso”.
A livello di legislazione ordinaria il principio trova una più articolata disciplina nell’art 2 del codice penale.

art 2 comma 1
Il comma 1 stabilisce: “nessuno può essere punito per un fatto che, secondo la legge del tempo in cui fu
commesso, non costituiva reato”.
Questa disposizione si riferisce al fenomeno della c.d. nuova incriminazione, che ricorre quando una legge
introduce una figura di reato prima inesistente.

art 2 comma 2
Il comma 2 stabilisce “nessuno può essere punito per un fatto che, secondo una legge posteriore, non
costituisce reato; e, se vi è stata condanna, ne cessano l’esecuzione e gli effetti”.
Gli autori del reato oggetto di abrogazione non solo non possono essere più puniti ma, se hanno subito una
sentenza di condanna anche definitiva, ne cessa l’esecuzione e si estinguono tutti gli effetti connessi.
Sarebbe contraddittorio e irragionevole continuare a punire l’autore di un fatto ormai tollerato
dall’ordinamento!
Può accadere tuttavia, che la legge penale successiva ne riformuli il contenuto, in questi casi il problema è
stabilire se continuano a sussistere i presupposti per l’applicazione del comma 2; al riguardo occorre che vi
sia un “rapporto di continenza” tra la vecchia e la nuova fattispecie, cioè un rapporto strumentale.
Domanda: ha un limite di applicabilità? No!

art 2 comma 3
Il comma 3 stabilisce “se vi è stata condanna a pena detentiva e la legge posteriore prevede
esclusivamente la pena pecuniaria, la pena definitiva inflitta si converte immediatamente nella
corrispondente pena pecuniaria, ai sensi dell’art 135”.

art 2 comma 4
Il 4 comma stabilisce “se la legge del tempo in cui fu commesso il reato e le posteriori sono diverse, si
applica quella le cui disposizioni sono più favorevoli al reo, salvo che sia stata pronunciata sentenza
irrevocabile”.
Qui non ci troviamo di fronte ad un’abolitio criminis come nel comma 2, ma ad una riformulazione della
norma. In altri termini, la norma introduce il principio della retroattività della norma più favorevole al reo, il
cui fondamento è la garanzia del favor libertatis, che assicura al cittadino il trattamento più mite tra quello
previsto dalla legge penale vigente al momento della realizzazione del fatto e quello della legge successiva,
purché non via sia stata sentenza definitiva di condanna! Quest’ultimo consiste nel limite imposto
all’applicabilità di tale comma, limite che non sussiste nel comma 2 dove la condanna e gli effetti vengono
meno, anche se vi è stata sentenza definitiva di condanna.
Domanda: ha un limite di applicabilità? Sì, la sentenza definitiva di condanna!
art 2 comma 5

Il comma 5 stabilisce che “se si tratta di leggi eccezionali o temporanee, non si applicano le disposizioni
dei capoversi precedenti”
L'analogia è un procedimento mediante il quale l'interprete del diritto,
qualora vi sia una lacuna (ovvero quando un caso o una materia non
siano espressamente disciplinati), applica le norme previste per casi
simili o materie analoghe. Per quanto riguarda le leggi penali, il ricorso
all’analogia non è ammissibile.

NON SEMPRE, PERÒ, RISULTA FACILE DISTINGUERE TRA ANALOGIA E INTERPRETAZIONE ESTENSIVA:
• non vengono oltrepassati i limiti di un'interpretazione estensiva della fattispecie incriminatrice,
allorché la soluzione proposta rientra in ogni caso nell'ambito dei possibili significati letterali dei
termini impiegati nel testo di legge;
• si ricade, invece, nel divieto di applicazione analogica della legge penale, se l'opzione ermeneutica
va al di là della massima estensibilità interpretativa del testo di legge, considerato sia nelle singole
parti costitutive sia nel suo significato unitario;

SOSTANZIALMENTE LA CORTE DI CASSAZIONE HA DETERMINATO DUE SIGNIFICATI ESSENZIALI PER


QUESTI DUE ASPETTI: l’interpretazione estensiva mantiene il campo di validità della norma entro l’area di
significazione dei segni linguistici nella quale essa si esprime; l’analogia estende tale validità nell’area di
similarità della fattispecie considerata dalla norma.

La difficoltà nel tracciare una netta linea di demarcazione tra interpretazione estensiva e analogia
contribuisce a spiegare la diffusa tendenza della giurisprudenza a contrabbandare per interpretazioni
estensive forme più o meno occulte di applicazione analogica.

E’, tuttavia, controversa l'ampiezza del divieto:


• Secondo un indirizzo minoritario il divieto avrebbe carattere assoluto, nel senso che riguarderebbe
sia le norme incriminatrici e sia le norme di favore.
• Secondo l’indirizzo dominante, invece, il divieto ha carattere relativo, essendo consentita
un'interpretazione analogica in bonam partem; l'unico ostacolo può derivare dall'art14 delle
disposizioni preliminari a tenore del quale “le leggi che fanno eccezione a regole generali o ad altre
leggi non si applicano oltre i casi e i tempi in esse considerati” (in altri termini, le leggi eccezionali
non sono suscettibili di applicazione analogica), ovviamente non tutte le norme che prevedono
cause di non punibilità hanno carattere eccezionale.
Il ricorso al procedimento analogico è, invece, precluso rispetto a quelle cause di non punibilità che fanno
riferimento a situazioni particolari o riflettono motivazioni politico-criminali specifiche.
Si definisce REATO ogni fatto umano cui la legge riconnette una sanzione penale.
L'illecito penale presenta tre caratteristiche:
1. È di creazione legislativa in quanto soltanto una legge in senso stretto può disciplinarne gli
elementi costitutivi, mentre fonti di livello secondario possono soltanto contribuire a
specificare elementi già legislativamente predeterminati;
2. È di formulazione tassativa perché la legge deve fissare con chiarezza e determinatezza i
possibili fatti costituenti reato;
3. Ha carattere personale in quanto è vietata ogni forma di responsabilità altrui e il reato
deve atteggiarsi a fatto tendenzialmente colpevole.

Il principio di offensività sancisce che “affinché vi sia reato non basta che la
volontà criminosa si materializzi in un comportamento esterno, ma è necessario
che tale comportamento LEDA o PONGA IN PERICOLO beni giuridici”.
Tuttavia, c'è da dire che nel nostro ordinamento MANCA una disposizione che enunci
esplicitamente il principio di offensività quale principio generale del diritto penale; perciò, si sono
susseguiti vari tentativi di ricavarlo implicitamente:
A. Un primo tentativo si ha con l'interpretazione dell'art 49 comma 2 (per il quale “la
punibilità è esclusa quando, per l'inidoneità dell'azione o per l'inesistenza dell'oggetto,
l'evento dannoso o pericoloso è impossibile”) i sostenitori tendono a reinterpretare questo
articolo come se esso affermasse il principio generale che “non può esservi reato senza
l'effettiva lesione o messa in pericolo di un bene giuridico”.
Possiamo ricavare il principio di offensività anche dalla TIPICITÀ APPARENTE: che si ha
quando, all' esteriore conformità del fatto alla fattispecie legale, non si accompagna
un'effettiva lesione del bene (es: il furto dell’acino d'uva, proprio perché l’offensività in
concreto della condotta è talmente tanto inesistente non si scomoderà mai l'intera
macchina del mondo penale per il furto di un acino d'uva!) concludiamo col dire che
Ancora, possiamo dedurre l'influenza del principio di offensività dall'art 131 bis, introdotto
dalla riforma del 2005, che sancisce “l'esclusione della punibilità per particolare tenuità del
fatto”.
B. A partire dai primi anni 70 si è individuata nella stessa Costituzione la fonte leggittimatrice
del principio di offensività quale principio-cardine del sistema penale, muovendo dal
combinato disposto degli artt. 25 comma 2 e 27 comma 1 e 3 (cioè quelle stesse
disposizioni normative che hanno fornito l’appiglio per elaborare la teoria
costituzionalmente orientata del bene giuridico).
Ove lo si ritenga in tal modo implicitamente costituzionalizzato, viene riconosciuto al
principio di offensività un duplice ruolo:
1. Da un lato, vincola il legislatore a costruire i reati come fatti che incorporano un'offesa a
uno o più beni giuridici (OFFENSIVITA’ IN ASTRATTO);
Dall'altro, impegna il giudice in sede applicativa a qualificare come reati soltanto i fatti che siano
idonei in concreto a offendere beni giuridici (OFFENSIVITA’ IN CONCRETO)

concludiamo col dire che, applicare il principio di offensività risulterebbe problematico qualora nella norma mancasse il momento di
tangibile e diretto offensività, rischiando che il giudice, nella ricerca di elementi di offensività, si affidi a valutazioni extra legali di tipo socio-
politico, il che può sollevare problemi di compatibilità con principio di riserva.
Sul piano del diritto positivo vigente il criterio PIÙ SICURO di distinzione tra delitti e
contravvenzioni è quello che fa leva sul diverso tipo di sanzioni rispettivamente
comminate.
In proposito l'art 39 stabilisce che “i reati si distinguono in delitti e contravvenzioni,
secondo la diversa specie delle pene per essi rispettivamente stabilite da questo
codice”; a sua volta l'art 17 dispone che “le pene stabilite per i delitti sono
l'ergastolo, la reclusione e la multa; mentre le pene principali stabilite per le
contravvenzioni sono l'arresto e l'ammenda”.

Notiamo come, mentre i delitti richiedono il dolo, e la punibilità a titolo di colpa


rappresenta l'eccezione;
nell'ambito delle contravvenzioni si risponde indifferentemente a titolo di dolo o di
colpa.

MA FACCIAMO UN PASSO INDIETRO…


Per molto tempo la dottrina si è sforzata di rinvenire un criterio sostanziale di
differenziazione tra delitti e contravvenzioni, ricerca che inevitabilmente è stata
influenzata dalle concezioni politico-criminali di volta in volta dominanti.
Il fallimento nell'elaborare una differenza sostanziale tra le due ha portato a
differenziarle in base alla maggiore o minore gravità (i delitti rappresentavano le
forme più gravi di illeciti e le contravvenzioni le forme meno gravi).

La problematica torna poi sullo scenario in virtù del dibattito sull’illecito


amministrativo depenalizzato, chiedendosi se sia possibile superare la vecchia
bipartizione trasferendo l'intero blocco delle contravvenzioni nel campo degli
illeciti puniti con sanzione pecuniaria amministrativa. Tuttavia, la risposta non può
che essere negativa in quanto vi sono delle contravvenzioni che non tollerano una
loro riduzione a mero illecito amministrativo o perché una sanzione amministrativa
apparirebbe poco proporzionata rispetto al rango del bene protetto o perché detta
sanzione garantirebbe un'efficacia preventiva minore rispetto alla sanzione penale.

Anche la Circolare della Presidenza del Consiglio dei ministri 5/2/1986 ha


sottolineato come la bipartizione in base alla gravità non fosse corretta in quanto le
contravvenzioni non presentano univocamente elementi di minore gravità, e a
questo punto risulterebbe più adeguato prevedere una categoria di contravvenzioni
a parte, ispirate proprio alla loro minore gravità rispetto ai delitti.
SI DEFINISCE SOGGETTO ATTIVO (O AUTORE) COLUI IL QUALE REALIZZA UN FATTO CONFORME AD UNA
FATTISPECIE ASTRATTA DI REATO.
Ogni essere umano possiede la CAPACITA’ PENALE (ossia può rendersi autore di un reato) ma NON TUTTI
HANNO LA STESSA CAPACITÀ DI RICEVERE CONSEGUENZE GIURIDICHE e in proposito definiremo:
• CAPACITA’ ALLA PENA (IMPUTABILITA’)
• CAPACITA’ ALLE MISURE DI SICUREZZA (PERICOLOSITA’ SOCIALE)
• IMMUNITA’ (INCAPACITA’ AD ESSERE ASSOGGETTATI A CONSEGUENZE PENALI)

La maggior parte delle fattispecie penali del codice possono essere compiute da CHIUNQUE (c.d. REATI
COMUNI come omicidio, furto, ingiuria) altre richiedono, invece, il possesso di particolari requisiti o qualità
(c.d. REATI PROPRI come i pubblici ufficiali incaricati di pubblico servizio che commettono delitti contro la
PA)

Il nostro diritto positivo NON riconosce forme di responsabilità penale a carico delle persone giuridiche e
benché la legislazione penale non contenga alcuna norma che la escluda esplicitamente, questa può essere
dedotta dall’art 197 il quale richiede una garanzia dell’ente per il caso in cui il soggetto rappresentante
commetta un reato, violi degli obblighi o risulti insolvente; e a rigor di logica, se l’ente stesso potesse
considerarsi soggetto attivo, non gli verrebbe richiesta tale garanzia!
Ciononostante, è risaputo che alcune tra le forme più gravi di criminalità economica sono proprio poste in
essere da enti, motivo per il quale è stato inserito nel nostro ordinamento un modello di responsabilità per
prevenire la commissione di reati all’interno di enti e persone giuridiche attraverso la legge 231/2001, la
quale ha introdotto la c.d. RESPONSABILITA’ AMMINISTRATIVA DEGLI ENTI COLLETTIVI per i reati
commessi dai loro organi o sottoposti.
Si tratta di una responsabilità formalmente amministrativa ma in sostanza penale; infatti, la
responsabilità dell’ente è strettamente agganciata alla commissione di un reato e la sede in cui essa viene
accertata è sempre il processo penale.

Il giudizio di responsabilità è subordinato alla presenza dei seguenti requisiti oggettivi:


1. Occorre che vi sia la commissione di un determinato reato (espressamente previsto dalla legge) da
parte di una persona fisica.
2. Che tra questa persona fisica e l’ente ci sia un rapporto di dipendenza.
3. Che vi sia un interesse/vantaggio dell’ente.
4. Che l’ente in questione NON sia territoriale, pubblico o costituzionale.
5. E l’inesistenza di un provvedimento di amnistia per il reato commesso.

I requisiti appena elencati vanno rigorosamente accertati in sede giudiziale!

Quanto ai criteri di imputazione soggettiva:


è stato normativamente configurato un modello di colpevolezza sui generis, con due criteri di imputazione:
1. Se a commettere il reato è il soggetto in posizione apicale, la responsabilità ricadrà su di lui.
2. Se a commetterlo è un subordinato sarà necessario che la società dimostri di avere un MOG
(modello organizzativo gestionale) istituito proprio per scongiurare la commissione di reati e
dimostrare che il subordinato abbia agito eludendo il MOG.
PS: le grandi società si servono anche di ODV (organismo di vigilanza) proprio per controllare che il
MOG venga rispettato.
SI DEFINISCE SOGGETTO PASSIVO (O PERSONA OFFESA) IL TITOLARE DEL BENE
PROTETTO DALLA FATTISPECIE INCRIMINATRICE.

Questo si differenzia dall’OGGETTO MATERIALE DEL REATO, che consiste nella persona o cosa sulla quale
ricade materialmente l’attività delittuosa. Come si distingue anche dal DANNEGGIATO DAL REATO, cioè il
soggetto che subisce un danno patrimoniale/non, risarcibile, che pertanto è legittimato a costituirsi parte
civile nel processo penale (es: nell’omicidio la persona offesa è la vittima, mentre la persona danneggiata è
il genitore)

Le caratteristiche del soggetto passivo possono assumere rilevanza sotto diversi profili:
a. Ai fini della configurabilità del reato (delitto di corruzione del minorenne, occorre che il soggetto
passivo sia minorenne!)
b. Possono mutare il titolo del reato (il delitto di violenza privata si trasforma in violenza/minaccia
contro un pubblico ufficiale, se commesso ai danni di un soggetto passivo che riveste tale qualifica)
Anche le relazioni che legano il soggetto passivo all’attivo possono incidere sulla disciplina penale (la qualità
di figlio è elemento costitutivo del diritto di violazione degli obblighi di assistenza familiare)

La posizione di soggetto passivo può spettare oltre che alle persone fisiche anche allo Stato, alle persone
giuridiche e alle collettività non personificate.
si parla, poi, di REATI A SOGGETTO PASSIVO INDETERMINATO (per alludere ad ipotesi nelle quali
l’interesse offeso appartiene ad una cerchia indeterminata di persone come ad es: i reati contro
l’incolumità pubblica); come può aversi anche una PLURALITA’ DI SOGGETTI PASSIVI, allorquando una
stessa offesa coinvolge più titolari del medesimo bene (es: violazione di domicilio commessa ai danni di una
pluralità di titolari)
LE TIPOLOGIE DELITTUOSE SI POSSONO SUDDIVIDERE IN DIVERSE CATEGORIE:
1. REATI DI EVENTO: La fattispecie incriminatrice tipicizza un evento esteriore (morte) come risultato
separabile dall’azione (omicidio) e a questo legato in base ad un nesso di causalità. All’interno di
questi si opera un’ulteriore distinzione a seconda che il legislatore specifichi o no le modalità di
produzione del risultato lesivo:
• Reati di evento a forma vincolata (es: art 438 che incrimina chiunque cagiona un’epidemia
mediante la diffusione di germi patogeni).
• Reati di evento a forma libera (es: art 575 che punisce chiunque cagiona la morte di un
uomo).

2. REATI DI AZIONE: Consistono nel semplice compimento dell’azione vietata, senza che sia necessario
attendere l’evento causalmente connesso (es: furto, evasione dal carcere).

3. REATI COMMISSIVI ED OMISSIVI: Si distinguono a seconda che la condotta tipica sia rappresentata
da un agire o da un’omissione.
I reati omissivi si distinguono a loro volta in:
• OMISSIVI PROPRI: che consiste nel semplice mancato compimento di un’azione imposta da
una norma penale di comando, a prescindere dalla verificazione di un evento come
conseguenza della condotta omissiva (es: omissione di soccorso, omissione di referto,
omessa denuncia di reato).
• OMISSIVI IMPROPRI (o commissivo mediante omissione): quando l’evento lesivo dipende
dalla mancata realizzazione di un’azione doverosa (es: omicidio colposo dovuto alla
mancata sorveglianza di un bambino).

4. REATI ISTANTANEI E PERMANENTI:


• Nei REATI ISTANTANEI la realizzazione del fatto tipico integra ed esaurisce l’offesa, perché è
impossibile che la lesione del bene persista nel tempo (es: nell’omicidio la lesione si
esaurisce già nel momento in cui si verifica la morte).
• Nei REATI PERMANENTI il protrarsi dell’offesa dipende dalla volontà dell’autore e occorre
che la mantenga per un apprezzabile lasso di tempo (es: sequestro di persona)

5. REATI ABITUALI: Si definiscono quegli illeciti penali per la cui realizzazione è necessaria la
reiterazione INTERVALLATA nel tempo di più condotte della stessa specie (es: i maltrattamenti in
famiglia). Si distingue tra:
• REATI ABITUALI PROPRI: dove le singole condotte autonomamente considerate sono
penalmente irrilevanti (es: sfruttamento della prostituzione)
• REATI ABITUALI IMPROPRI: dove ciascun singolo atto integra di per sé altra figura di reato
(es: relazione incestuosa).

6. REATI COMUNI E PROPRI:


• REATI COMUNI possono essere compiuti da chiunque;
• REATI PROPRI, invece, sono quegli illeciti che possono essere commessi soltanto da chi
riveste una particolare qualifica o posizione, idonee a porre il soggetto in una speciale
relazione con l’interesse tutelato (es: qualifica di pubblico ufficiale richiesta ai fini della
commissione dei reati contro la PA).
Quest’ultimi sono ulteriormente differenziabili in reati propri in senso puro (se il possesso
della qualifica determini la stessa punibilità del fatto) e reati in senso lato (se il possesso
della qualifica comporti un mutamento del titolo di reato)
7. REATI DI DANNO E DI PERICOLO: Questi si distinguono a seconda che la condotta criminosa
comporti la lesione effettiva (omicidio) o la semplice messa in pericolo o lesione potenziale del bene
giuridico (delitto di incendio).
I reati di pericolo vengono tradizionalmente distinti in:
• REATI DI PERICOLO CONCRETO: dove il pericolo rappresenta un elemento costitutivo della
fattispecie incriminatrice e spetterà al giudice, in base alle circostanze concrete del singolo
caso, accertarne l’esistenza (es: delitto di strage: qui il giudice dovrà accertare se gli atti
compiuti al fine di uccidere presentino il requisito della effettiva pericolosità nei confronti
di un numero indeterminato di persone);
• REATI DI PERICOLO PRESUNTO: dove si presume, in base ad una regola di esperienza, che al
compimento di certe azioni si accompagni l’insorgere di un pericolo (es: delitto di incendio,
ai sensi dell’art 423, dove il fatto di cagionare un incendio è punito per i risultati lesivi che
possono derivarne a carico di una cerchia indeterminata di persone, anche se poi nessuna
persona subisce in concreto danni alla vita o all’integrità).
C C
V V
L’esistenza di diversi tipi di reato non ha impedito alla dottrina penalistica di elaborare una teoria generale
del reato (volta ad unificare tutti gli elementi comuni alle varie tipologie delittuose).
Questa teoria serve al giudice come punto di riferimento per orientare la propria decisione, accanto alla
quale deve accompagnarsi la capacità di cogliere le particolarità del caso concreto, altrimenti si ricadrebbe
in un eccesso di concettualismo.

Il reato, secondo la CONCEZIONE TRIPARTITA, è definibile come


UN FATTO UMANO TIPICO, ANTIGIURIDICO E COLPEVOLE!
Nell’ambito della dottrina italiana questa concezione convive con la teoria della bipartizione, la quale si
limita a scomporre il reato in un elemento oggettivo e in un elemento soggettivo, senza l’elemento
dell’antigiuridicità.
Tuttavia, la concezione tripartita risulta essere quella preferita, in quanto riesce a riflettere con grande
trasparenza le componenti strutturali del reato!

NELL’AMBITO DEL DIRITTO PENALE IL FATTO TIPICO VA INTESO COME IL COMPLESSO


DEGLI ELEMENTI CHE DELINEANO IL VOLTO DI UNO SPECIFICO REATO.
Il fatto tipico assolve la funzione garantista di indicare ai cittadini i fatti che essi devono
astenersi dal compiere per non incorrere nella sanzione penale e, al contempo, segna i
limiti che il diritto penale accorda ai beni giuridici considerati meritevoli di protezione, in
quanto non è punibile ogni lesione ma solo quelle espressamente tipizzate dal legislatore.
Inoltre, il fatto tipico deve rispettare il più possibile il principio di materialità, cioè quel
principio che esige che il reato si manifesti esteriormente e sia accertabile nella realtà
fenomenica, quindi, il legislatore non deve creare tipi artificiali di reato, che non trovano
alcun riscontro nella realtà concreta.

IL GIUDIZIO DI ANTIGIURIDICITA’ SI RISOLVE NELLA VERIFICA CHE IL FATTO TIPICO NON


SIA COPERTO DA ALCUNA GIUSTIFICAZIONE! L’EVENTUALE PRESENZA DI QUEST’ULTIMA
ANNULLEREBBE L’ANTIGIURIDICITA’ DEL COMPORTAMENTO.

Come abbiamo visto, la funzione del fatto è quella di selezionare le forme di offesa
meritevoli di sanzione penale, ragion per cui la categoria stessa assume una connotazione
prettamente penalistica. Mentre, la categoria delle cause di giustificazione, proprio perché
va ricostruita alla stregua dell’intero ordinamento giuridico, non ha una funzione
prettamente giuridico-penale; ciò comporta che le scriminanti non sono necessariamente
subordinate al principio di riserva di legge e, essendo desumibili dall’intero ordinamento, se
ne deduce la loro possibile estensione analogica.
LA COLPEVOLEZZA RIASSUME LE CONDIZIONI PSICOLOGICHE CHE CONSENTONO
L’IMPUTAZIONE PERSONALE DEL REATO ALL’AUTORE!

Nel giudizio di colpevolezza rientra la valutazione del legame psicologico tra fatto e
autore e delle circostanze che incidono sulla capacità di autodeterminazione del
soggetto.
La colpevolezza presenta come requisiti minimi il DOLO O LA COLPA, mentre si discute se
vi rientrino anche altri, motivo per il quale la teoria della colpevolezza è tutt’oggi
contrassegnata da incertezze che ne rendono particolarmente arduo e complesso lo
sviluppo.
Per fatto tipico intendiamo il complesso degli elementi che delineano il volto di uno specifico
reato, in altri termini, la FATTISPECIE DI REATO. Questa assolve una fondamentale funzione di
garanzia in quanto, ciò che non rientra nella fattispecie non può costituire illecito penale!
La fattispecie ricomprende sia che SOGGETTIVI.

L’azione umana rappresenta la base su cui poggia l’intera costruzione dogmatica del REATO
COMMISSIVO DOLOSO. Nel tentativo di fornire una nozione unitaria di azione, si sono prospettate
diverse teorie:
• LA TEORIA CAUSALE: la quale ha definito l’azione umana come una modificazione del
mondo esterno cagionata dalla volontà umana; però questa non si adatterebbe con
l’omissione.
• LA TEORIA FINALISTICA: secondo la quale l’azione umana consiste nell’esercizio di
un’attività orientata verso uno scopo; però non tutte le azioni volontarie hanno alla base
uno scopo (prendiamo le azioni impulsive) e, nell’ambito dei reati colposi e omissivi, questa
teoria sostituirebbe alla finalità reale una finalità soltanto potenziale, concepita come il
mancato esercizio di azioni con scopi presi di mira dal legislatore.
• LA TEORIA SOCIALE: secondo la quale il comportamento penalmente rilevante consiste
nella facoltà di scelta tra tutte le possibilità di reazione; questa teoria si adatterebbe a
tutte le forme delittuose, ma proprio perché è di contenuto così generico, finisce col
rivelarsi priva di contenuto informativo rispetto alle caratteristiche che il comportamento
assume in ogni categoria criminosa.

Queste teorie hanno tutte fallito nel loro intento, in quanto le caratteristiche e i
limiti dell’azione umana penalmente rilevante sono ricavabili soltanto
interpretando le varie fattispecie, a prescindere da schemi prestabiliti!

Ora, sul terreno del reato commissivo, LA CONDOTTA CRIMINOSA ASSUME LA


FORMA di UN’AZIONE IN SENSO STRETTO, e più precisamente, L’AZIONE DEVE
CONSISTERE IN UN MOVIMENTO CORPOREO DELL’UOMO, COSCIENTE E
VOLONTARIO, come suggerisce l’art 42 comma 1! La coscienza e volontà si
differenziano a seconda che ci si riferisca ad un reato doloso o colposo, e solo sul
terreno del primo l’azione è sempre caratterizzata dall’effettiva partecipazione della
coscienza e della volontà, che sono poi i presupposti normativamente richiesti per la
configurazione del dolo!
CI SONO PERO’ DUE SITUAZIONI NELLE QUALI NON SI PUO’ MAI GIUNGERE AD UN GIUDIZIO DI
COLPEVOLEZZA, PERCHE’ MANCA GIA’ IN PARTENZA LA PRECONDIZIONE DI UN ADDEBITO A
TITOLO DI DOLO O DI COLPA:
CI RIFERIAMO AI CASI DI FORZA MAGGIORE E COSTRINGIMENTO FISICO!

• FORZA MAGGIORE: intesa come qualsiasi energia esterna contro la quale il soggetto non
è in grado di resistere e che perciò lo costringe necessariamente ad agire (es: l’uccisione di
un passante da parte di un operaio che cade da un’impalcatura, perché travolto da una tromba
d’aria) al riguardo l’art 45 stabilisce che “non è punibile chi ha commesso il fatto per forza
maggiore”; però, non si parla più di forza maggiore se l’agente dispone di un sufficiente
margine di scelta, potranno applicarsi al massimo le norme sullo “stato di necessità” o sulla
“coazione morale”;
Il codice, al medesimo articolo, ammette UN’ULTERIORE CAUSA DI ESCLUSIONE DELLA
RESPONSABILITÀ, stabilendo che non è punibile chi ha commesso il fatto per CASO
FORTUITO, quest’ultimo risulta dall’incrocio tra un accadimento naturale e una condotta
umana da cui deriva l’imprevedibile verificarsi di un evento lesivo (es: colui che, ferito da un
terzo, muore a causa di un incendio fortuitamente scoppiato in ospedale).

• COSTRINGIMENTO FISICO: costituisce una specificazione della forza maggiore, e consiste


in una forza irresistibile che proviene dall’uomo, il quale si serve materialmente di un
altro essere umano come strumento di realizzazione dell’obbiettivo criminoso (es: Tizio che
costringe Caio a falsificare un documento); al riguardo l’art 46 stabilisce che “non è punibile
chi ha commesso il fatto per esservi stato da altri costretto, mediante violenza fisica, alla
quale non poteva resistere e del fatto commesso dalla persona costretta, risponderà
l’autore della violenza”; però, occorre che la volontà dell’agente sia coartata in maniera
assoluta, altrimenti, se sussistono margini di scelta si ricadrà nella diversa ipotesi della
“coazione morale”.

IN SOSTANZA, AFFINCHE’ POSSA ESSERVI RIMPROVERABILITA’ OCCORRE CHE IL


SOGGETTO POSSEGGA LA SUITAS, OSSIA LA DOMINABILITA’ SUL SUO
COMPORTAMENTO e nell’art 45 e 46 MANCA.

: questi possono riferirsi


a) Al soggetto attivo, specificandone un ruolo o una qualità;
b) Al soggetto passivo;
c) All’oggetto materiale della condotta.
La loro utilità pratica emerge soprattutto sul terreno del DOLO, trattandosi di elementi che
precedono l’azione criminosa e che possono, quindi, essere già conosciuti dal reo.

: è la persona o cosa sulla quale ricade l’attività fisica del reo!


(es: nell’omicidio è la persona umana; nel furto è la cosa).
È importante sottolineare che questo si distingue dall’OGGETTO GIURIDICO (quale sinonimo di bene penalmente
protetto; es: nel delitto di falso, l’oggetto materiale della condotta è il documento falsificato; mentre il bene giuridico
protetto è la fede pubblica) e dal SOGGETTO PASSIVO (es: nella sottrazione consensuale di minorenne, l’interesse protetto
è costituito dalla potestà di entrambi i genitori, mentre l’oggetto materiale dell’azione è il minore protetto ) ciò non toglie
che in numerosi casi oggetto materiale e soggetto passivo coincidono, come nell’omicidio, lesioni personali etc.
Infine, l’oggetto può essere anche plurimo (es: nel di rapina, l’azione ricade sia sulla persona che sulla cosa).
L’evento in senso naturalistico è concepito come il risultato esteriore causalmente riconducibile
all’azione umana, concettualmente distinto dalla condotta (es: nel delitto di omicidio la lesione del
bene protetto, la vita, si materializza in una modificazione della realtà naturale, concettualmente e
fenomenicamente separabile dalla condotta omicida) non è necessario che l’evento si verifichi quasi
contestualmente all’azione (es: perché si configuri l’omicidio è indifferente che la morte si verifichi
subito o dopo molto tempo rispetto all’azione) come è indifferente se il luogo in cui si realizza
l’evento è diverso da quello in cui è stata posta in essere l’azione.
L’evento naturalistico può consistere non solo in un’effettiva lesione, ma anche in una messa in
pericolo di un bene protetto, precisiamo che l’evento di pericolo è configurabile soltanto
nell’ambito di quelle figure di reato che la dottrina tradizionale definisce a pericolo concreto, nelle
quali cioè spetta al giudice accertare se l’effettiva situazione di pericolo si è verificata come
conseguenza dell’azione.
L’evento naturalistico può in alcuni casi rivestire il ruolo di circostanza aggravante di un reato già
perfetto (es: lesione o morte come evento aggravatore dell’omissione di soccorso) e, in altri casi,
rivestire il ruolo di condizione obiettiva di punibilità (es: il pubblico scandalo dell’incesto).

DOMANDA: Esistono REATI SENZA EVENTO? La risposta è SÌ: quando è necessaria la mera condotta, ad
esempio l'inosservanza di un ordine della PA

IL NESSO DI CAUSALITÀ LEGA L’AZIONE ALL'EVENTO; il Codice Rocco contiene una disciplina
esplicita al riguardo, negli artt. 40 e 41; ciononostante, questo non ha impedito agli interpreti di
discostarsene ed effettuarne letture diverse, chiedendosi quand'è che l'evento sia conseguenza
effettiva del reo ed entro quali limiti, al riguardo si sono susseguite varie teorie:

Secondo la quale , questa teoria viene anche


denominata “dell'equivalenza” proprio perché parifica tutti gli antecedenti!
Per accertarne il nesso causale la dottrina qui ricorre al procedimento di eliminazione mentale
(c.d. formula della condicio sine qua non): alla stregua di esso, un'azione è condicio sine qua non
di un evento se non può essere mentalmente eliminata senza che l'evento stesso venga meno
(es: Tizio spara alcuni colpi di pistola nei confronti di Caio, uccidendolo; è ovvio che in mancanza dei colpi di
pistola la morte di Caio non si sarebbe verificata).
Tuttavia, il fallimento di questa teoria è dovuta, in primis, alla sua limitatezza laddove non si
conoscano in anticipo le leggi causali (prendiamo l'esempio degli abitanti di una zona in cui è sita una fabbrica
di alluminio che emette fumi all'esterno, questi vengono colpiti da manifestazioni morbose cutanee a carattere
epidemiologico e lamentano anche danni alle bestie e alle colture, in questo caso non è utilizzabile la condicio sine qua
non, in quanto non è sicuro il nesso di causalità). In secundis, proprio perché considera equivalenti tutti gli
antecedenti, questa teoria condurrebbe, se sviluppata fino alle estreme conseguenze, a considerare
causali anche i remoti antecedenti dell'evento delittuoso, c.d. regresso all'infinito (ad es: si potrebbe
sostenere che un omicidio sia da far risalire anche ai genitori del reo i quali, procreandolo, avrebbero così reato una
condizione indispensabile dell'evento).
L'incompletezza della teoria condizionalistica porta la dottrina a creare due modelli alternativi di
ricostruzione del rapporto di casualità:
• METODO INDIVIDUALIZZANTE: il metodo in questione esimerebbe il giudice dal ricercare
le leggi causali idonee a spiegare, da un punto di vista rigorosamente scientifico, perché e
come l'evento sia conseguenza dell'azione criminosa, affidando il tutto all'intuizione e al
fiuto del giudice, il quale finirebbe col diventare più un produttore che un consumatore di
leggi causali.
• METODO GENERALIZZANTE: La determinazione del nesso causale non può essere affidata
alla discrezionalità del giudice ma

. Superata questa prima


fase di CAUSALITÀ GENERALE si passa a quella di CAUSALITÀ INDIVIDUALE dimostrando
che, sulla base di un ragionamento che tiene conto di tutte le informazioni probatorie
disponibili, la legge scientifica di copertura in questione trova applicazione anche nel caso
oggetto di giudizio!
Per quanto riguarda le leggi scientifiche di copertura queste si distinguono in:
➢ LEGGI UNIVERSALI: queste soddisfano al massimo livello le esigenze di rigore
scientifico e di certezza, sono in grado di affermare che la verificazione di un evento
è invariabilmente accompagnata dalla verificazione di un altro evento. Tuttavia, non
si può pretendere che l'accertamento giudiziale della causalità avvenga SEMPRE
attraverso le applicazioni di leggi universali, innanzitutto perché è raro che tutte le
condizioni di un evento abbiano alla base leggi scientifiche e anche perché il fatto
criminoso oggetto di imputazione penale spesso rimanda a una serie di
numerosissimi antecedenti, ed è irrealistico pretendere altrettante leggi universali
per una ognuno degli antecedenti implicati nella produzione dell'evento!
➢ LEGGI STATISTICHE: queste, invece, si limitano ad affermare che il verificarsi di un
evento è accompagnato dal verificarsi di un altro evento soltanto in una certa
percentuale di casi. Tali leggi sono più suscettibili di trovare applicazione in un
numero sufficientemente alto di casi e di ricevere conferma mediante ricorso a
metodi di prova razionali e controllabili!
Quindi, alla stregua di queste premesse, possiamo concludere che ai fini dell'accertamento
giudiziale della causalità non occorre che il giudice disponga di leggi universali ma è sufficiente che
egli faccia ricorso a leggi statistiche.
Per far fronte all'incertezza tipica delle leggi statistiche è utile la distinzione concettuale tra:
a) la probabilità statistica: ricavata dall'osservanza di fenomeni ripetuti nel tempo, indicando
il grado di frequenza con cui la connessione tra certi antecedenti e conseguenti si verifica
nel mondo esterno;
b) e la probabilità logica: che, invece, indica il grado di fondatezza logica e credibilità con cui
si può sostenere che la legge statistica trovi applicazione anche nel caso singolo oggetto di
giudizio. Quest'ultima ha che fare con la ricostruzione causale dell'evento concreto e
implica che si possa escludere che quest'ultimo sia conseguenza di fattori causali
alternativi (es: per poter affermare che il tumore ai polmoni di un operaio sia conseguenza
dell'esposizione a sostanze pericolose occorre escludere che il tumore possa essere l'effetto del
fumo di sigarette)
Tale teoria si prospetta come correttivo alla teoria condizionalistica non rinnegandola ma,

.
L'esigenza di operare una selezione tra i diversi antecedenti si avverte particolarmente nei casi di
decorso causale atipico, caratterizzati cioè da una successione degli eventi che fuoriesce dagli
schemi di un'ordinaria prevedibilità (es: un tossicodipendente che muore in seguito all'assunzione di una dose
di eroina di per sé non mortale, a causa di una preesistente alterazione organica. Questa situazione comporterebbe un
aggravamento di pena per lo spacciatore, ove l'evento mortale gli venisse attribuito come conseguenza materiale del
delitto di spaccio di stupefacenti; proprio per attenuare il rigore di una rigida applicazione della teoria condizionalistica
a casi come questo, la teoria dell'adeguatezza tende a selezionare come causali soltanto alcuni antecedenti che
producono l'evento in base ad un criterio di prevedibilità)

rientra tra le concezioni causali minori e

.
Quindi, per l'esistenza del rapporto di causalità occorrono due elementi: uno positivo, dove l'uomo
con la sua azione pone in essere l’evento e uno negativo, dove il risultato non sia dovuto al
concorso di fattori eccezionali.
Tuttavia, questa teoria non è stata accolta in quanto rappresenta un mal riuscito tentativo di
perfezionamento della teoria dell'adeguatezza.

La teoria dell'imputazione obiettiva costituisce uno sviluppo aggiornato della teoria della causalità
adeguata. In sintesi, essa afferma che

.
Questo paradigma si avvale di criteri differenziati:
1. IL CRITERIO DELL'AUMENTO DEL RISCHIO: secondo il quale l'imputazione obiettiva
dell'evento presuppone, oltre al nesso causale, che l'azione in questione abbia di fatto
aumentato la probabilità di verificazione dell'evento dannoso (es: è senz'altro da escludere che
un invito rivolto dal nipote allo zio aumenti il rischio che quest'ultimo muoia per l'incidente aereo; mentre è
difficile negare che istigare un tossicodipendente, già fisicamente debilitato, a riprendere l'assunzione di
eroina, accresca il rischio di un evento letale).
2. IL CRITERIO DELLO SCOPO DELLA NORMA VIOLATA: l'imputazione viene meno tutte le
volte in cui il fatto che si verifica, pur essendo causalmente riconducibile alla condotta
dell'autore, non costituisce concretizzazione dello specifico rischio che la norma in
questione tende a prevenire.
Il legislatore, nell’apprestare una disciplina codicistica il più possibile completa ed esauriente della
causalità ha dedicato un'apposita norma (L'ART 41) al fenomeno delle concause o, in altri termini,
al fenomeno del ,
condizioni che possono essere: antecedenti, concomitanti o successive rispetto alla condotta del
reo.
In proposito il 1 comma stabilisce che” il concorso di queste cause, ANCHE SE INDIPENDENTI
DALL'AZIONE O OMISSIONE DEL COLPEVOLE, non esclude il rapporto di causalità fra l'azione e
l'evento”! (es: la responsabilità penale del feritore non viene meno se il soggetto passivo del ferimento muore, nel
corso dell'intervento chirurgico, a causa di una preesistente cardiopatia)
Il 2 comma afferma che “le cause sopravvenute DA SOLE SUFFICIENTI A PRODURRE L'EVENTO
escludono il rapporto di causalità”!
IL PRIMO COMMA CI DÀ LA REGOLA E IL SECONDO L'ECCEZIONE!
Quest’ultima disposizione tende a temperare gli eccessi punitivi derivanti da una rigorosa
applicazione del criterio condizionalistico, in riferimento ai casi di c.d. DECORSO CAUSALE ATIPICO
(ossia, dove lo sviluppo causale fuoriesce dagli schemi di un'ordinaria prevedibilità); il nesso
causale penalmente rilevante dovrebbe perciò essere escluso in tutti i casi nei quali l'evento lesivo
non sia inquadrabile in una successione normale di accadimenti (es: il soggetto che, indotto a fare una
passeggiata nel bosco durante una tempesta, muore per la caduta di un fulmine).

MA FACCIAMO UN ESEMPIO DIVERSO: Tizio colpisce con un pugno Caio e lo lascia cadere
sull'asfalto, Caio muore per il sopraggiungere di un un'automobile che lo investe.
In questo caso il rapporto causale non è interrotto ma permane; è vero che l'evento-morte è
direttamente dovuto ad una causa sopravvenuta ma al contempo, se si muove dalla teoria
condizionalistica orientata secondo il modello della sussunzione sotto leggi, è rinvenibile un
rapporto di probabilità statistica tra l'azione del percuotere un soggetto provocandone la caduta
sull'asfalto e il verificarsi di un investimento dovuto al sopraggiungere di autoveicoli!
Alla realizzazione di una condotta tipica si accompagna, di regola, il carattere ANTIGIURIDICO del fatto!
Quest’ultimo viene meno, però, se una norma diversa da quella incriminatrice (desumibile dall’intero
ordinamento giuridico) giustifica quel medesimo fatto che costituirebbe reato.
Si definiscono queste: CAUSE DI ESCLUSIONE DELL’ANTIGIURIDICITA’; CAUSE DI GIUSTIFICAZIONE o anche
SCRIMINANTI;
QUELLO CHE VIENE EFFETTUATO, SOSTANZIALMENTE, È UN CONTROLLO A CONTRARIO.

IL NOSTRO ORDINAMENTO PENALE SOTTOPONE LE CAUSE DI GIUSTIFICAZIONE AD ALCUNE REGOLE


COMUNI PREVISTE DAGLI ARTT. 55 E 59 DEL CODICE PENALE.

stabilisce che “le circostanze che escludono la pena sono valutate a favore
dell’agente, ANCHE SE DA LUI NON CONOSCIUTE O PER ERRORE RITENUTE INESISTENTI”
Le cause di giustificazione operano su di un piano meramente OGGETTIVO: esse, cioè, vengono valutate a
favore dell’agente in virtù della sola esistenza, a prescindere se questo le conosca.

stabilisce che “se l’agente ritiene per errore che esistano


circostanze di esclusione della pena, queste sono sempre valutate A FAVORE di lui”
Il nostro codice attribuisce, dunque, rilevanza alla figura della SCRIMINANTE PUTATIVA, equiparando la
situazione di chi agisce effettivamente in presenza di una causa di giustificazione a quella di chi confida,
erroneamente, nella sua esistenza. La giurisprudenza, però, per escludere la responsabilità dolosa, non si
accontenta dell’erronea supposizione del soggetto ma richiede, come requisito aggiuntivo, che l’errore in
cui il soggetto versa abbia logica giustificazione!
Questo atteggiamento rigoristico è voluto per evitare che l’errore sulle scriminanti possa essere facilmente
utilizzato come scusa.

La regola della scriminante putativa costituisce il frutto di un’estensione alle scriminanti della disciplina
generale dell’ERRORE DI FATTO, enunciata dall’art 47, dove, chi commette un reato nell’erronea convinzione
che esistano delle circostanze che facoltizzano quel comportamento, agisce senza dolo.
È, invece, da escludere la giustificazione di un ERRORE DI DIRITTO, consistente nell’erronea convinzione che
il comportamento del soggetto rientri tra quelle cui l’ordinamento giuridico attribuisce efficacia scriminante
(si finirebbe col considerare inoperante il principio IGNORANTIA LEGIS NON EXCUSAT, posto dall’art 5)

Se l’errore sulla presenza di una scriminante è dovuto a COLPA dell’agente, la punibilità NON è esclusa,
quando il fatto è preveduto dalla legge come delitto colposo (es: Tizio, camminando di notte lungo una
strada solitaria, viene avvicinato da un estraneo che si limita a chiedergli un info e Tizio, suggestionato,
scambia l’estraneo per un pericolo bandito, si sente aggredito e lo uccide!
Qui sussistono entrambi i requisiti per dar luogo ad una responsabilità a titolo di colpa: l’errore di
valutazione di tizio è rimproverabile perché dovuto a eccessiva precipitazione di giudizio e l’omicidio è
punito dalla legge anche se realizzato in forma colposa)
stabilisce che “quando nel commettere alcuni fatti preveduti dagli artt. 51,52,53 e 54 si
eccedono colposamente i limiti stabiliti dalla legge, dall’autorità o dalla necessità, si applicano le
disposizioni concernenti i delitti colposi (se il fatto è preveduto dalla legge come delitto colposo”
Questa disposizione si riferisce alla figura dell’ECCESSO COLPOSO, che ricorre allorquando sussistono i
presupposti di fatto di una causa di giustificazione ma l’agente, per colpa, li supera (es: l'aggredito, a causa di
un errore inescusabile di valutazione, utilizza mezzi eccessivi di difesa rispetto all’entità del pericolo uccidendo
invece di limitarsi a percuotere)

PS: si è fuori dai limiti dell'eccesso colposo se l’agente, essendo bene a conoscenza della situazione
concreta e dei mezzi necessari al raggiungimento dell'obiettivo consentito, superi volontariamente i limiti
dell'agire (es: tizio, pur rendendosi conto che basterebbero delle semplice percosse a far desistere un assalitore
disarmato, lo ferisce con un coltello per provocargli uno sfregio duraturo) in questo caso l'eccesso è doloso e il
soggetto deve rispondere del reato commesso a titolo di dolo!

L’ECCESSO COLPOSO DI DISTINGUE DALL’ERRONEA SUPPOSIZIONE DI UNA SCRIMINANTE, in quest’ultima la


causa di giustificazione non esiste se non nella mente di chi agisce, mentre nel nostro caso la causa di
giustificazione esiste, ma ne vengono superati i limiti stabiliti.
il fatto commissivo, perché sia punibile, deve essere: TIPICO, ANTIGIURIDICO e :
dunque, la colpevolezza rappresenta il terzo elemento costitutivo fondamentale del reato!

L'affermazione del principio “ ” presuppone l'accettazione, anche


implicita, di un modello di personalità umana costituita da più strati, grazie ai quali l'uomo è in
grado di controllare gli istinti e reagire agli stimoli del mondo esterno operando scelte tra le
diverse opzioni che gli si presentano, magari orientandosi, anche, secondo un sistema di valori.
È proprio dando per presupposta questa capacità di scelta che è possibile considerare
così da rivolgergli un rimprovero per averlo commesso!
Tuttavia,
non avendo, cioè, una possibilità di scelta!

Il ruolo centrale del principio di colpevolezza è confermato anche a


livello costituzionale, come si desume dall'art 27 comma 1 il quale
sancisce che “la responsabilità penale è personale” e dal collegamento
tra il comma 1 e 3 dell'art 27 che sancisce “il finalismo rieducativo
della pena” (il nesso che intercorre tra il principio di colpevolezza e il
principio di rieducazione è intuibile, in quanto non si può rieducare chi
non ha colpa!)

All'interno della colpevolezza vi è la distinzione fondamentale tra DOLO (volontarietà del fatto) e
< COLPA (involontarietà del fatto) che rappresentano, rispettivamente, la forma più grave e più lieve
< di colpevolezza; alle quali segue una reazione penale proporzionata.
<
<
La colpevolezza, in un ordinamento penale oggettivistico come il nostro,
ha come necessario punto di riferimento IL FATTO DI REATO e ne deriva
che è inammissibile la figura della COLPA D'AUTORE, nella duplice
versione della “colpevolezza per il carattere” (dove si userebbe come
scusante il temperamento del soggetto) e della “colpevolezza per la
vita” (dove si userebbe come scusante lo stile di vita del soggetto).
Una simile intrusione del giudice penale nella sfera più intima del reo ci
riporterebbe ad un diritto penale illiberale da Stato di polizia.

Tradizionalmente, il si contrappone a quello di


:
• il primo riguarda solo i soggetti capaci di intendere e di volere, ed esprime il rimprovero
per la commissione di un reato con conseguente applicazione della pena in senso stretto.
• il secondo privilegia la personalità dell'autore e più che ad un reato fa riferimento alla
probabilità che il reo torni a delinquere in futuro, con conseguente applicazione di una
misura di sicurezza.

Entrambe le concezioni rischiano, però, di confondersi e sfumare nella concreta prassi giudiziaria essendo
diffusa nella giurisprudenza l'inclinazione ad emettere giudizi unitari e sintetici che finiscono col non
distinguere tra atteggiamento psicologico, riferito al singolo reato commesso, e atteggiamento psicologico,
riferito al soggetto!
Secondo tale concezione, la colpevolezza consiste in una relazione psicologica tra
fatto e autore che prescinde da ogni valutazione della personalità o delle
motivazioni che vi sono alla base non ammettendo, dunque, graduazioni in
funzione della personalità del reo; considerando tutti gli individui uguali!
La diversa gravità del reato fa piuttosto leva sull'entità del danno obiettivamente
arrecato alla società; non vi è, dunque, spazio per preoccupazioni politico-criminali
aventi come obiettivo la neutralizzazione di un'eventuale inclinazione a delinquere o
la prevenzione della recidiva.

Questa concezione nasce, invece, per dar peso ai motivi e alle circostanze che vi
sono dietro ad un reato in quanto, non ogni fatto volontario merita lo stesso
rimprovero, così come, tra i fatti involontari ve ne sono di più e di meno gravi.
Da questo punto di vista la concezione normativa prospetta un concetto di
colpevolezza idoneo a fungere anche da criterio di commisurazione giudiziale della
pena!
È ormai celebre il caso esemplificativo riportato all'inizio del secolo da Frank, padre
della concezione normativa, secondo il quale l'approvazione di denaro commessa da
un cassiere di negozio ben retribuito, scapolo e abituato a svaghi costosi non può
essere considerata colpevole alla stessa stregua dell'appropriazione della medesima
somma di denaro commessa da un fattorino, mal retribuito, con la moglie ammalata
e molti bambini da mantenere.
E OGGI?
Ad oggi ci si chiede qual è la funzione della colpevolezza all’interno di un diritto penale orientato verso la prevenzione, più precisamente ci si chiede se non
sia, alla fine dei conti, solo un vecchio residuo del diritto penale retributivo, dato che la colpevolezza è sì necessaria ma non sufficiente ai fini della
punibilità.
Per rispondere a questa domanda dipende da come s’intende la colpevolezza: se come elemento costitutivo del reato o come criterio di misura della pena.
• Nel primo caso la colpevolezza assume nuova legittimazione grazie al suo rapporto di strumentalità rispetto alla funzione preventiva della pena
dato che, come s’intuiva nel secolo scorso e come afferma la dottrina oggi, le due prospettive della colpevolezza e della prevenzione tendono a
convergere su un ragionamento base: cioè la minaccia della pena deve fungere da appello rivolto alla coscienza del potenziale delinquente per
indurlo a desistere dal commettere reati ma proprio perché ciò possa avvenire è necessaria una condizione: cioè che la commissione del fatto
criminoso rientri nei poteri di controllo personale del soggetto, il che vuol dire che l'effettiva realizzazione del reato deve dipendere da una sua
scelta volontaria (dolo) o dalla violazione di una regola di condotta a contenuto precauzionale (colpa).
• Come criterio di misurazione della pena la scelta della sanzione più adeguata al caso concreto non può non essere influenzata da quegli stessi
scopi di prevenzione generale o speciale cui la pena è finalizzata nel nostro ordinamento. il problema che sorge è però se la prospettiva della
prevenzione possa rappresentare l'unico criterio guida del giudice fino al punto di trascurare di considerare secondario il rapporto di
adeguatezza che dovrebbe pur sempre sussistere tra l'entità della pena, da un lato, e il grado della colpevolezza insita nel singolo fatto di reato,
dall'altro. Ci si pone una domanda e cioè se è legittimo che, nel proseguire scopi di prevenzione generale o speciale, la pena da infliggere superi
il limite corrispondente all’entità della colpevolezza individuale. Se si rispondesse positivamente la prevalenza accordata alle esigenze di
prevenzione sarebbe così netta da far passare ingiustificatamente in secondo piano l'esigenza di salvaguardare il singolo da interventi punitivi
dello Stato che esorbitano dal grado di colpevolezza del reo (es: se tizio nel traffico stradale cagiona per una lieve distrazione un incidente può
essere molto opportuno per ragioni di prevenzione generale applicargli una pena grave; il principio di colpevolezza però impone per una colpa
lieve una pena mite impedendo così che la libertà dell'individuo venga sacrificata nell’interesse dell'intimidazione generale)
La concezione normativa oggi dominante afferma che:

Dunque, i quattro presupposti della


colpevolezza sono:
l'imputabilità; il dolo o colpa; la
conoscenza del divieto penale e
l'assenza di cause di giustificazione!

Il codice penale all'art 85 definisce l'imputabilità come


“la capacità di intendere e di volere”

A prima vista, questa formula potrebbe indurre a ritenere che la categoria


dell'imputabilità presupponga il riconoscimento di una libertà in senso
assoluto ma, come sappiamo, così non è in quanto la volontà umana è
soggetta a molteplici condizionamenti, motivo per il quale è più opportuno
parlare di una libertà relativa!
Anche se, l'idea del carattere condizionato della libertà umana si rivela la più
funzionale in una prospettiva penalistica proprio perché l'uomo, affinché non
commetta reati, è necessario che percepisca il timore, il condizionamento
della sanzione punitiva.

Il fondamento penalistico dell'imputabilità è rinvenibile sul terreno delle funzioni della pena, in
quanto non tutti i soggetti hanno la medesima attitudine a recepire la norma penale.
COME SAPPIAMO, LA MINACCIA DELLA SANZIONE HA COME OBIETTIVO:
A. La c.d. prevenzione generale, che consiste nel distogliere i potenziali rei dal commettere
reati e, affinché ciò avvenga, è necessario che questi siano psicologicamente in grado di
farsi motivare dalla minaccia stessa;
B. La c.d. prevenzione speciale, che consiste nel rieducare il reo affinché non torni a
delinquere in futuro ma, anche qui, è necessario che questo sia psicologicamente capace di
cogliere il significato del trattamento punitivo.
MA QUESTA CAPACITA’ DI RECEPIRE LA NORMA NON E’ PRESENTE IN TUTTI GLI INDIVIDUI!

Nel corso dell'ultimo trentennio sono emerse diverse tendenze culturali che hanno
reso ancora più problematica la distinzione tra soggetti imputabili e inimputabili:

1. In una prima fase, fino ai primi anni 70, si è assistito alla crescente
affermazione di approcci scientifici fortemente orientati ad interpretare,
almeno certe forme di criminalità, come il risultato di disturbi psichici o di
condizioni di emarginazione sociale del reo, cercando di sostituire le idee di
colpevolezza e punizione con quelle di anomalia psicologica e di trattamento
curativo-riabilitativo.

2. In una seconda fase viene, invece, combattuta l'idea dell’equiparazione del


delinquente al malato mentale, arrivando a proporre la radicale eliminazione
della categoria dell'imputabilità con conseguente equiparazione del
trattamento penale dei soggetti sani e dei soggetti psichicamente malati
(ovviamente possiamo immaginare le obiezioni sorte al riguardo)
IL CONCETTO DI IMPUTABILITÀ È:
: in quanto spetta, in primis, alle scienze del comportamento umano
individuare i presupposti empirici per stabilire se il soggetto sia in grado o meno di recepire
il contenuto della sanzione punitiva
: perché sarà poi, in un secondo momento, il legislatore a fissare gli
elementi forniti dalle scienze che hanno rilevanza giuridica!


“ ”

Per CAPACITÀ DI INTENDERE intendiamo l'attitudine ad orientarsi nel mondo


esterno secondo una percezione non distorta della realtà comprendendo, quindi, il
significato del proprio comportamento e valutando le possibili ripercussioni positive
o negative sui terzi.

Per CAPACITÀ DI VOLERE intendiamo la capacità di controllare gli impulsi e


agire nel modo più ragionevole e consapevole; questa capacità presuppone,
necessariamente, la capacità di intendere il significato dei propri atti.

PS: è importante sottolineare che, ai fini dell’imputabilità, la capacità di


intendere e di volere deve sussistere al momento della commissione del
reato e l'imputabilità difetta se manca anche una sola capacità!

Le cause codificate di esclusione dell'imputabilità (come minore età;


infermità mentale; ubriachezza e intossicazione da stupefacenti; sordismo
eccetera) non sono tassative!
La capacità di intendere e di volere può essere esclusa anche da fattori
diversi da quelli legislativamente previsti (es: soggetti non malati di mente in
senso stretto che presentano uno sviluppo intellettuale gravemente deficitario a
seguito di una segregazione fin dall'infanzia)

Al compimento dei 18 anni la capacità di intendere e di volere è presunta; tuttavia, si tratta di una
presunzione relativa poiché è possibile che la capacità venga esclusa o diminuisca in presenza di
vizio totale o parziale di mente o per altre cause legislativamente previste.

Secondo l'orientamento consolidato, l'incapacità minorile è identificabile con


l' , intesa come il carente sviluppo delle capacità conoscitive, volitive ed
affettive; l'incapacità di intendere il significato etico-sociale del comportamento e
l'inadeguato sviluppo della coscienza morale.
La giurisprudenza, per evitare un facile clemenzialismo nei confronti del minore,
impone un certo rigorismo giurisprudenziale riguardo ai reati dal disvalore
facilmente percepibile (es: nell'omicidio, ai fini dell'imputabilità del minore, si
ritiene sufficiente un minimo sviluppo mentale e etico)
Ai fini dell'imputabilità, non basta accertare l'esistenza di una malattia mentale ma occorre
appurare se e in quale misura questa comprometta la capacità di intendere e di volere del
soggetto. La complessità di questo accertamento è stata acutizzata dalla crisi d'identità della
scienza psichiatrica in quanto l'individuazione dei disturbi mentali può variare a seconda che lo
psichiatra adotti, quale parametro di riferimento, un paradigma strettamente medico, psicologico
o sociologico.

Per quanto concerne IL CONCETTO DI INFERMITÀ:


1. un indirizzo giurisprudenziale, ancora oggi diffuso e dominante fino ad un recente passato,
tende a definire infermità soltanto il disturbo psichico che può essere ricondotto ad un
preciso quadro clinico; escludendo, così, l’inimputabilità delle semplici anomalie psichiche!
2. Un indirizzo giurisprudenziale minore tende, invece, a far rientrare nell'area
dell’inimputabilità anche il disturbo psichico privo di un preciso inquadramento clinico,
purché si possa provare che esso abbia in concreto compromesso la capacità di intendere e
volere del soggetto!

Un tale orientamento consente di attribuire significato patologico anche alle alterazioni mentali
atipiche (psicopatie) e ai disturbi della personalità: cioè quelle disarmonie della personalità che, in
presenza di gravi condizioni, impediscono al soggetto di rispondere in maniera critica agli stimoli
esterni.

In ogni caso, sia che si tratti di disturbo mentale in senso stretto sia che si tratti di psicopatie,
<<< , per
effetto del quale il reato sia ritenuto causalmente determinato dal disturbo mentale.

L'articolo in questione è andato incontro a numerose critiche, in quanto il suo eccessivo rigore si
scontra con i dati della realtà, i quali ci mostrano come anche le passioni violente possono
menomare la capacità di autocontrollo. In virtù di ciò la disposizione è stata di recente, in parte,
rivalutata; ma, per evitare facili indulgenzialismi giudiziali, la rilevanza scusante degli stati emotivi
e passionali può essere ammessa soltanto in presenza di 2 condizioni essenziali:
1. Che lo stato emozionale si manifesti in una persona già debole;
2. e che lo stato assuma significato e valore d'infermità, sia pure transitoria (reazioni da
panico, esplosive, raptus etc)

IL CODICE DISTINGUE DIVERSI GRADI DEL VIZIO DI MENTE:


A. il vizio è TOTALE se l'infermità, di cui il soggetto soffre al momento della
commissione del fatto, è tale da escludere del tutto la capacità di intendere e
di volere (ps: può essere esclusa completamente anche da un'infermità
transitoria)
B. Il vizio è PARZIALE se la capacità di intendere e di volere è diminuita.

Occorre precisare che la distinzione tra queste due forme di vizio di mente è affidata
ad un CRITERIO QUANTITATIVO, dove la legge prende in considerazione il grado e
non l'estensione della malattia mentale; questo apprezzamento quantitativo deve
essere effettuato in concreto, caso per caso, tenendo conto delle caratteristiche del
disturbo e dell'esperienza soggettiva del soggetto!
Il codice al riguardo prevede un trattamento articolato in base alla CAUSA:
1. : è esclusa l’imputabilità dell’ubriachezza solo se dovuta a
CASO FORTUITO o FORZA MAGGIORE; in altri termini, se dovuta da un fattore del tutto
imprevedibile o da una forza esterna inevitabile (es: operaio di una distilleria che si ubriaca in
un ambiente saturo di vapori alcolici a causa di un guasto dell’impianto )

2. in questo caso non è esclusa l’imputabilità!


Questa disciplina ha dato luogo a numerose discussioni, cominciando dal titolo di attribuzione della
responsabilità essendo l’ubriaco, al momento della commissione del reato, un soggetto incapace.
• Una parte della dottrina, meno recente, sosteneva che occorreva ritenere il reato doloso o colposo
a seconda che il soggetto si sia ubriacato volontariamente o non. Tuttavia, in questo modo vi è il
rischio di punire come colposi delitti commessi volontariamente e viceversa.
• L’orientamento dominante ritiene che il dolo o colpa vadano accertati con riferimento al
momento nel quale il reato viene commesso. Tuttavia, l’ubriaco si trova in una condizione
psicologica che non gli consente una sufficiente capacità di discernimento e autocontrollo.
• Una parte della dottrina più recente tenta, infine, una terza strada secondo la quale il soggetto
risponderà a titolo di dolo (eventuale) se si è ubriacato nonostante la previsione della
commissione del reato accettandone, dunque, il rischio ; a titolo di colpa se il reato, nel momento
in cui si ubriacò, era prevedibile ed evitabile (sempre che si tratti di un reato previsto dalla legge
come colposo).
Tuttavia, c’è da chiedersi se sia possibile accertare in giudizio un dolo o una colpa in base a reati
futuri, che potrebbero anche essere determinati da circostanze imprevedibili al soggetto!
VISTO CHE TUTTE E 3 LE IPOTESI PRESENTANO
OBIEZIONI NON INDIFFERENTI, È AUSPICABILE UNA
RIFORMA DELLA DISCIPLINA VIGENTE CHE ABBIA
COME OBIETTIVO IL RENDERLA PIU’ COMPATIBILE COL
PRINCIPIO DI COLPEVOLEZZA.

3. quando è provocata al fine di commettere reato, usandola


come scusa; vi è un aumento di pena.
4. anche qui vi è un aumento di pena, nonché la possibilità di
applicare una misura di sicurezza (casa di cura o libertà vigilata)

NB: Concludiamo col dire che è fortemente criticata l’equiparazione con la cronica intossicazione
da stupefacenti, in quanto non è ravvisabile nell’ubriachezza la stessa gravità se si considera,
anche, che l’incapacità d’intendere e di volere del tossicodipendente è fortemente compromessa
già nella situazione di astinenza.
DAL MOMENTO CHE L’ARTICOLO PARLA DI SORDISMO, NON PUO’ ESSERE
APPLICATO NEI CASI DI SOLO MUTISMO O DI SOLA SORDITA’; OCCORRE CHE
SUSSISTANO ENTRAMBE LE AFFEZIONI!

Si distingue tra:
• : il quale ostacola gravemente lo sviluppo psichico.
• : il quale insorge in una fase
successiva all’apprendimento del linguaggio e può, perciò, lasciare integro il
patrimonio linguistico già conseguito (es: sordismo conseguente a incidente)
ESEMPIO: SOGGETTO CHE, INCAPACE DI COMMETTERE UN FURTO IN CONDIZIONI DI NORMALITA’,
RICORRE AD UNA SOSTANZA PSICOTROPA

La teologia morale escogita il paradigma delle ACTIONES LIBERAE IN CAUSA in riferimento alle
condotte peccaminose poste in essere senza capacità ma pur sempre riconducibili ad un
precedente atto di volontà del soggetto stesso l’azione è libera in causa perché l’agente
aveva il potere di porsi o meno in quella condizione d’incapacità!

Ma la domanda che ci poniamo è la seguente: come si spiega che il soggetto risponde ugualmente
del reato commesso se, al momento del fatto, era inimputabile?

La dottrina ha tentato di rispondere prospettando diverse giustificazioni:


1. Una parte della dottrina ha sostenuto che l’attività esecutiva del reato inizia già nel
momento in cui egli si pone volontariamente in stato d’incapacità (ma questa tesi finisce
con l’ampliare eccessivamente il concetto di esecuzione del reato, arrivando a farvi
rientrare anche quella che in realtà è soltanto una condotta precedente);

2. Altra parte della dottrina si accontenta di rinvenire il fondamento della responsabilità nel
semplice nesso causale e cioè, colui che pone in essere l’attività, risponde dell’evento
lesivo a prescindere che quest’ultimo sia previsto e voluto (questa teoria, però, cozza
troppo col principio di colpevolezza);

3. La soluzione più appagante è quella che riconduce nell’alveo della colpevolezza anche
l’ipotesi d’incapacità procurata: appunto, secondo la quale al soggetto può essere mosso
un rimprovero per essersi liberamente posto in quella condizione d’incapacità, che gli ha
reso più agevole la realizzazione del reato programmato.

Ai fini della realizzazione del programma occorre che il reato posto in essere sia del
tipo di quello inizialmente programmato, altrimenti si creerebbe una frattura tale da
recidere la necessaria corrispondenza tra fatto e colpevolezza.
La responsabilità esula se il fatto illecito non costituisce effettiva attuazione del
programma criminoso anteriore
(ES: si pensi a chi ingerisce una sostanza stupefacente per uccidere la fidanzata
infedele e, fattala salire sull’auto per condurla sul luogo dell’esecuzione, cagione per
eccesso di velocità un incidente in cui la ragazza perde la vita.
In questo caso l’agente risponderà di omicidio colposo e non di omicidio intenzionale)
1. sussiste quando il soggetto ha di mira
proprio la realizzazione della condotta criminosa o la causazione dell'effetto (Tizio spara a Caio con lo
scopo di ucciderlo). Precisiamo che lo scopo va distinto dal movente, quale motivazione interiore o
impulso emotivo che induce il soggetto a delinquere; questa forma di dolo è caratterizzata dal ruolo
dominante della volontà, che raggiunge l'intensità massima.
L’intenzione è compatibile con la previsione dell'evento in termini non di certezza, ma di possibilità
(es: risponde a titolo di dolo intenzionale anche il tiratore inesperto che, agendo al fine di
provocare un evento mortale, è tuttavia dubbioso di riuscire a cagionarlo);
2. sussiste tutte le volte in cui l’agente si rappresenta
con certezza gli elementi costitutivi della fattispecie incriminatrice, e si rende conto che la sua condotta
sicuramente la integrerà. Esso si configura quando la realizzazione del reato non è l'obiettivo che dà
causa alla condotta, ma costituisce soltanto uno strumento necessario perché l’agente realizzi lo scopo
perseguito (es: un terrorista che, per sequestrare un uomo politico, è costretto a sparare contro gli
uomini della scorta che lo proteggono con la quasi certezza di provocarne la morte). Rientra in questa
forma di dolo anche il caso in cui l'evento lesivo rappresenta una conseguenza accessoria
necessariamente connessa alla realizzazione volontaria fatto principale (è divenuto celebre il caso del
signor Thomas che, per intascare il premio di assicurazione, fece esplodere un battello di sua proprietà
pur essendo certo che sarebbe conseguita la morte dell'intero equipaggio) questa figura di dolo è
caratterizzata dal ruolo dominante della rappresentazione;
3. questa figura presenta una problematicità, che deriva dal
suo collocarsi in una zona-limite con la colpa cosciente che, secondo l'art 61 n3, comporta un
aggravamento di pena ci troviamo dunque, da un lato, con la forma più lieve di dolo e, dall'altro, con la
forma più grave di colpa. Per quanto riguarda il dolo eventuale non basta, secondo la teoria
dell'accettazione del rischio, che al soggetto si rappresenti la concreta possibilità di verificazione
dell'evento ma è necessario che egli faccia seriamente i conti con questa possibilità e decida di agire,
anche a costo di provocare un evento criminoso! Contrariamente, dove il soggetto si rappresenti la
possibilità dell'evento lesivo ma confidi nella sua concreta non verificazione, si avrà colpa cosciente (es:
si ipotizzi che Caio, effettuando un sorpasso automobilistico in una curva pericolosa, si rappresenti la
possibilità di provocare uno scontro; facendo leva, però, sulla conoscenza della strada e sulla sua abilità
da guidatore egli si convince di poter in ogni caso evitare l'incidente che, tuttavia, si verifica).
Un caso che è utile analizzare è quello Vannini-Ciontoli: Marco vannini va a casa della fidanzata e
muore a seguito di un colpo di pistola (colposo), detenuta dal padre facente parte delle forze
dell'ordine. Ciontoli chiama una prima volta l'ambulanza chiedendole di venire in soccorso;
richiama una seconda volta invitandola a non venire in quanto vannini, a suo dire, perdeva poco
sangue e la ferita era sul braccio e non intaccava alcun organo vitale; richiama, infine, una terza
volta quando ormai la ferita si aggrava talmente tanto da cagionare la morte. È proprio rispetto a
questa omissione che si discute se ciontoli abbia agito con l'accettazione dell'evento criminoso
oppure non volendo l'evento, ma potendolo prevedere; In un primo grado c'è stata l'affermazione
della responsabilità penale a titolo di colpa cosciente ritenendo l'atteggiamento del ciontoli come
colposo e rimproverabile, non avendo valutato che vannini che potesse morire a causa del ritardo
soccorso dell'ambulanza; dopodiché, in appello si è statuito che la responsabilità fosse dolosa in
quanto l’evento era facilmente individuabile e ciontoli ha accettato il rischio che vannini potesse
morire per via del ritardo soccorso dell’ambulanza.
(DOMANDA CHE PUO ESSERE FATTA: la colpa cosciente e il dolo eventuale hanno entrambi un
appiglio normativo? solo la colpa cosciente lo tiene, che è l'aggravante di cui all'art 61)
4. : quando l'agente prevede, come conseguenza certa o possibile della sua azione,
il verificarsi di due eventi ma non sa quale si realizzerà in concreto (tizio aggredisce caio con diversi
colpi di pugnale volendone indifferentemente il ferimento grave o la morte);
5. : il dolo generico corrisponde alla nozione tipica di dolo, è
necessario che il contenuto del volere trovi attuazione nella realtà; il dolo specifico consiste in uno
scopo o in una finalità particolare e ulteriore che l’agente deve prendere di mira, ma che non è
necessario si realizzi effettivamente perché il reato si configuri (es: nel delitto di furto è necessario che
l’agente, oltre a volere l'impossessamento, persegua l'ulteriore fine di trarre profitto; ma perché il
delitto si configuri non è necessario che il profitto venga effettivamente ottenuto)
6. : il dolo di danno consiste nella volontà di realizzare un fatto
che provoca la completa lesione dell'interesse protetto; il dolo di pericolo consiste nella volontà di
provocare la semplice esposizione a pericolo del bene.

Al pari di ogni altro elemento costitutivo della fattispecie, il dolo deve essere provato: solo che la
prova è difficile, trattandosi di un processo psicologico.
È da escludere che sia possibile ricorrere a criteri prefissati di accertamento, l'organo giudicante
deve tenere conto di tutte le circostanze che possono assumere un valore sintomatico ai fini
dell'esistenza della volontà colpevole. Nella valutazione di tutte le circostanze potenzialmente
significative soccorrerà il ricorso ad apposite regole di esperienza è, invece, inammissibile
l'utilizzazione di schemi presuntivi!
All'interno della concezione normativa della colpevolezza, gioca un ruolo la coscienza dell'illiceità concepita
come elemento costitutivo autonomo: cioè quale requisito distinto che si aggiunge all'imputabilità, al dolo
o alla colpa e all'assenza di cause di discolpa.
(È opportuno chiarire subito che la mancanza di tale requisito, trattandosi di un elemento autonomo della colpevolezza, lascia
impregiudicata l'esistenza del dolo quale coefficiente soggettivo che sorregge la realizzazione del singolo fatto di reato. infatti, il
dolo non include nel suo oggetto la conoscenza della liceità penale del fatto; tutto al più esso può abbracciare la coscienza della
dannosità del fatto, percepita in una dimensione sostanziale concreta)

Se la colpevolezza esprime un rimprovero per il fatto criminoso commesso, il rimprovero risulterà tanto più
giustificato quanto più il reo sia consapevole di aver realizzato un fatto contrastante con l'ordinamento
giuridico! Lo stesso intervento penale diventa veramente intellegibile all'individuo soltanto se egli è
cosciente dell'illegalità della condotta posta in essere.

Tuttavia, proprio la crescente massa di disposizioni penali pone il cittadino in una condizione che
obiettivamente favorisce l'ignoranza o l'erronea conoscenza della norma incriminatrice ma, come
sappiamo, l'art 5 accoglie il tradizionale principio ignorantia legis non excusat, principio che si riferisce tanto
al caso di mancata conoscenza quanto a quello di erronea conoscenza della medesima.
La chiave di volta per una sua interpretazione correttiva è rappresentata dall'art 27 comma 1 cost che,
sancendo il carattere personale della responsabilità penale, impedisce di ritenere irrilevante la mancata
percezione del disvalore penale inerente al fatto commesso. Per soddisfare l'esigenza costituzionale di una
maggiore compenetrazione tra fatto e autore mediata dalla conoscenza del disvalore penale, non è però
necessario richiedere la effettiva conoscenza da parte dell’agente del carattere criminoso del
comportamento, ci si può accontentare di richiedere la possibilità di conoscenza dell'illiceità: cioè, ai fini del
rimprovero di colpevolezza diventa sufficiente esigere che l'autore del fatto, prima di agire, sia in grado di
percepirne il carattere antigiuridico. La possibilità di conoscenza del carattere illecito del fatto rende infatti
evitabile e perciò inescusabile l'ignoranza o l’errore in cui soggetto eventualmente cada!
La tesi, secondo cui l'effettiva possibilità di conoscere la legge penale costituisce un ulteriore requisito
dell'imputazione soggettiva, ha finito col ricevere l'autorevole avallo della Corte costituzionale attraverso la
sentenza n 364/88 che ha finalmente dichiarato parzialmente illegittimo l'art 5 nella parte in cui non
escludeva dal principio della inescusabilità dell'ignoranza della legge penale, i casi di ignoranza inevitabile e
perciò scusabile.

Ma quand'è che l’ignoranza della legge risulta inevitabile?


quello relativo all'individuazione dei criteri, in base ai quali emettere il giudizio sulla inevitabilità-scusabilità
dell'ignoranza o errore, è il punto veramente nevralgico! Nel solco delle indicazioni desumibili dalla stessa
sentenza della Corte costituzionale sono fondamentalmente prospettabili:
a) criteri soggettivi c.d. PURI che cioè fanno, prevalentemente, leva sulle caratteristiche personali del
soggetto agente (livello di intelligenza e di maturazione della personalità, grado di scolarizzazione e
cultura, ambiente sociale di provenienza).
b) Criteri oggettivi puri, che cioè tengono conto di cause che rendono impossibile la conoscenza della
legge penale da parte di ogni consociato, quali che ne siano le caratteristiche personali.
c) Criteri misti, che tengono cioè contemporaneamente conto delle circostanze oggettive che
inducono a ignorare la legge penale e delle caratteristiche personali del soggetto agente.
L'adozione di criteri misti si colloca coerentemente sul terreno di una colpevolezza chi si preoccupa
di bilanciare, in modo equilibrato, esigenze individualgarantistiche ed esigenze generalpreventive;
in altri termini, l'obiettivo perseguito è quello di scongiurare, da un lato, l'abuso repressivo
(derivante dalla mancata considerazione della personalità dell’agente) e, dall'altro, l'eccesso di
clemenza giudiziale (potenzialmente derivante dalla considerazione della sulla personalità
dell’agente)

Il principale interrogativo è se e in qual misura il giudizio relativo alla rimproverabilità dell'ignoranza debba
tener conto dei processi psicologici reali dell’agente; infatti può accadere che: l'autore del fatto, prima di
agire, si rappresenti effettivamente la possibilità che il suo comportamento sia antigiuridico e che, ciò
nonostante, lo realizzi senza adempiere preventivamente l'obbligo di maggiore informazione; ma può
anche accadere che egli non si rappresenti tale possibilità perché nessun pensiero e nessuna
preoccupazione affiorano nella sua mente circa il carattere lecito o illecito del fatto da realizzare
a) Nella prima ipotesi la rimproverabilità dell'ignoranza trova fondamento proprio nel processo
psicologico che si è realmente sviluppato nell’autore;
b) Più problematica è la seconda ipotesi, qui il rimprovero da rivolgere al soggetto per aver ignorato il
carattere illecito del fatto è privo di una base psicologica reale; perciò, il giudizio di colpevolezza
non può che avere un fondamento normativo e, supposta l'assenza di cause di inconoscibilità
oggettiva della legge penale, si può rimproverare al soggetto di aver violato gli obblighi di
informazione giuridica, che sono alla base di ogni convivenza civile.

Secondo la concezione normativa, il rimprovero di colpevolezza presuppone infine l'assenza di circostanze


anormali, concomitanti all'azione, che rendano psicologicamente necessitato il comportamento delittuoso!

Allo scopo di tenere conto dell’influenza esercitata dalle circostanze anormali sul processo motivazionale
dell’agente, parte della dottrina ha fatto assurgere a causa generale di esclusione della colpevolezza la
c.d. INESIGIBILITA’, cioè l'impossibilità di pretendere, in presenza di circostanze concrete in cui la gente si è
trovato ad operare, un comportamento diverso da quello effettivamente tenuto!
Il ricorso alla formula della inesigibilità sarebbe non solo utile per spiegare il fondamento di alcune cause di
discolpa espressamente codificate, ma anche suscettivi o di applicazione analogica di fronte a situazioni
simili a quelle normativamente previste.
ipotesi esemplificative e legalmente previste o prospettate in via analogica:
1. una parte della dottrina configura come causa di esclusione della colpevolezza lo stato di necessità
e la coazione morale, sul presupposto che, in entrambi i casi, la gente si trovi sotto la pressione di
circostanze esterne che gli impediscono dal punto di vista psicologico di assumere un
comportamento diverso da quello effettivamente tenuto.
2. al principio di inesigibilità si estenderebbe di escludere la colpevolezza pure in ipotesi non
esplicitamente previste dalla legge, purché meritevoli di essere prese in considerazione
dall'ordinamento giuridico (es: il medico che si rifiuti di recarsi di notte a visitare un infermo
adducendo stanchezza fisica per altre faticose visite già compiute, che gli impediscono di fare la
marcia notturna di quattro ore fra la neve, indispensabile per raggiungere il malato; in un caso del
genere si sarebbe fuori dallo stato di necessità, tuttavia, ricorrerebbe la medesima ratio costituita
dall’inesigibilità nel senso che il medico, nella dura alternativa di mettere in serio pericolo la propria
integrità personale o di andare a curare un infermo, preferisce naturalmente salvare la propria
persona)
3. Un'applicazione analogica del principio di inesigibilità sarebbe altresì configurabile nelle situazioni
caratterizzate da un insolubile conflitto di doveri ( si pensi all'ipotesi di un soggetto, titolare di due o
più obblighi giuridici di pari rango, il quale ne adempia solo uno perché impossibilitato ad
adempiere contemporaneamente entrambi è il caso ad es: del medico che si trovi costretto a
decidere a quale ammalato applicare il solo apparecchio cuore-polmone disponibile);
4. Alla problematica del conflitto di doveri lato sensu intesa possono essere ricondotte anche le
situazioni caratterizzate da un conflitto tra norme di condotta appartenenti a sfere normative
diverse autonome; Si allude ai fatti criminosi aventi come motivazione psicologica un
convincimento morale, Un'ideale politico o una fede religiosa.

Tuttavia, l’inesigibilità rischia di risolversi in una clausola vuota perché non riesce, di per sé, ad indicare i
criteri che dovrebbero veramente presiedere alla soluzione dei diversi casi concreti: in altri termini, se ci si
limita ad asserire che un comportamento non è punibile perché non era esigibile un comportamento
diverso rimane, ancora, senza risposta l'interrogativo più importante, che è quello di sapere perché non si
sarebbe potuto agire altrimenti! Si comprende, allora, come mai la categoria della inesigibilità abbia finito
negli ultimi tempi con l'essere messa in forse anche nell'ambito della stessa dottrina tedesca, che le aveva
attribuito il più ampio riconoscimento. Ciò non vuol dire che il giudice penale debba ignorare il potente
conflitto motivazionale che tormenta in alcuni casi l’agente: nell'ambito dei reati dolosi la considerazione
delle circostanze anormali concomitanti, se non vale ad escludere la colpevolezza, varrà ad attenuare la
misura del rimprovero ed inciderà, dunque, sulla graduazione della pena! La graduabilità in senso
attenuante del giudizio di colpevolezza potrà essere invocata in generale, cioè in tutti i casi nei quali le
circostanze dell'agire rendono psicologicamente poco esigibile un comportamento lecito purché, però, il
fatto commesso rechi una credibile impronta del conflitto motivazionale dell’agente!

Nel nostro ordinamento sono riconducibili alla categoria dogmatica delle scusanti alcune situazioni e
precisamente:
a) lo stato di necessità scusante e la coazione morale: quanto allo stato di necessità, ci si riferisce
all'ipotesi in cui il pericolo di un danno grave alla persona incomba sullo stesso agente o su di un
prossimo congiunto; soltanto in questo caso si può plausibilmente ritenere che una condotta
riversa era, da parte di chi ha agito, psicologicamente inesigibile.
Allo stesso modo la coazione morale, che fa riferimento alla situazione di chi compie l'azione
criminosa sotto la minaccia psicologica esercitata da un'altra persona.
b) L'ordine criminoso insindacabile della Pubblica Autorità: A differenza dell'esecuzione di un ordine
legittimo, che elidendo l'antigiuridicità del fatto costituisce una causa di giustificazione,
l'adempimento di un ordine criminoso insindacabile da parte di chi lo esegue non esclude l'illiceità
del fatto commesso. Per esentare da responsabilità penale il subordinato che commette un reato
eseguendo un ordine illegittimo del superiore al quale non può disobbedire, non rimane che far
leva sulla situazione di forte pressione psicologica nella quale egli si trova ad agire e che annulla i
presupposti di un processo di normale motivazione.
c) L'ignoranza (o errore) inevitabile-scusabile della legge penale, a seguito della sentenza
costituzionale n 364/1988: essendo l'ignoranza inevitabile, l’agente non era in condizione di
comportarsi in modo da non incorrere nella commissione di un fatto di reato.
Il codice penale prevede una specifica disciplina dell'elemento soggettivo nelle contravvenzioni.
l'art 42 comma 4 dispone che “
” e l'art 43 ultimo comma aggiunge che “


Risulta ormai definitivamente superata quella tesi che riteneva sufficiente, ai fini della sussistenza
dell'elemento psicologico nelle contravvenzioni, la mera coscienza e volontà della condotta,
indipendentemente dal dolo o dalla colpa.
Tuttavia, contro l'attuale tesi si è rivelata decisiva l'obiezione che essa introduce una forma mascherata di
responsabilità oggettiva, infatti, l'inciso dell'art 42 ultimo comma sta a significare che è indifferente la
presenza del dolo o della colpa; continuano a registrarsi, però, divergenze in ordine alla tecnica di
accertamento dell'elemento soggettivo nelle contravvenzioni dove: parte della dottrina, sostiene che la
legge avrebbe dispensato il giudice dall'indagine sull'atteggiamento psichico del contravventore, sancendo
una presunzione iuris tantum di colpevolezza e addossando all’agente l'onere della prova contraria; mentre,
secondo altri, sarebbe sufficiente in sede di accertamento, far ricorso alle comuni regole di esperienza sulla
base delle quali sarà consentito condannare ove non vi siano circostanze in grado di evidenziare una
situazione eccezionale in cui soggetto abbia realizzato il fatto senza dolo o senza colpa.
Simili impostazioni, finalizzate a semplificare l'accertamento della colpevolezza in omaggio a presunte
esigenze di economia procedurale e speditezza che si ritengono tipiche del settore delle contravvenzioni,
sono in realtà del tutto prive di appigli normativi; ma vi è di più, la disposizione dell'art 43 comma 2,
attribuendo rilevanza alla distinzione tra dolo e colpa anche sul terreno delle contravvenzioni tutte le volte
che da tale distinzione derivino conseguenze giuridiche, ammette che dell'intensità del dolo o del grado
della colpa e il giudice debba tener conto ai fini della commisurazione della pena e ne discende che il
giudice, per poter compiere tale valutazione, deve prima accertare se l'illecito contravvenzionale sia stato
commesso con dolo con colpa.
Le circostanze del reato sono quegli elementi che stanno intorno ad un reato già perfetto nella sua
struttura, e la cui presenza determina soltanto una modificazione della pena: o in termini quantitativi, sotto
forma di modifica proporzionale della pena edittale o in senso qualitativo (ad es reclusione in luogo della
multa)
Si parla anche di accidentalia delicti per sottolineare che le circostanze sono elementi contingenti che
possono mancare senza che il reato venga meno; mentre, se manca un elemento essenziale del reato a far
difetto è la stessa figura criminosa.

La classificazione delle circostanze può essere operata sotto diverse angolazioni visuali, a seconda del punto
di vista prescelto si operano le seguenti distinzioni:
a) Le circostanze aggravanti comportano perlopiù un aumento della pena comminata per il reato-
base (variazione c.d. quantitativa); Ma vi sono dei casi in cui la presenza dell’aggravante ha per
effetto di modificare qualitativamente la sanzione (per es passaggio da una pena pecuniaria a una
pena detentiva)
le circostanze attenuanti comportano, viceversa, una diminuzione quantitativa della pena prevista
per il reato-base, oppure una modifica qualitativa che, però, va a vantaggio del reo (per es
passaggio da una pena detentiva a una pena pecuniaria)
b) Le circostanze comuni (aggravanti o attenuanti) sono quelle potenzialmente applicabili a un
insieme non predeterminabile di reati;
Le circostanze speciali sono, invece, prevedute dal legislatore soltanto in rapporto a specifiche
figure di reato.
c) Le circostanze oggettive sono quelle che concernono, a norma dell'art 70, ogni modalità dell'azione
o le condizioni o le qualità personali dell'offeso;
Le circostanze soggettive sono quelle che riguardano la intensità del dolo o il grado della colpa, o i
rapporti tra il colpevole e l'offeso, o le condizioni e le qualità personali del colpevole etc
la distinzione tra circostanze oggettive e soggettive assume rilevanza pratica soprattutto nell'ambito del concorso di
persone, con riferimento al problema della loro estensibilità a tutti compartecipi
d) La distinzione tra circostanze tipiche e generiche dipende dal diverso grado di determinatezza
raggiunto in sede di tipizzazione legislativa delle situazioni assunte ad elementi circostanziali

Nella maggior parte dei casi, l’elemento che integra la circostanza è fatto oggetto di puntuale descrizione
normativa (es: l’uso di sostanze venefiche come aggravante dell'omicidio); vi sono però ipotesi nelle quali
spetta al giudice concretizzare elementi circostanziali indicati dal legislatore soltanto in forma assai
generica (si pensi ad es all'espressione “di rilevante gravità” contenuta nella norma che incrimina l'abusiva
riproduzione di opere cinematografiche) non a caso si è in proposito adottata l'etichetta di aggravanti
indefinite.

Nella maggior parte dei casi, la natura circostanziale risulta in maniera univoca dalla stessa formulazione
legislativa; talvolta invece non è chiaro se l'elemento in questione integri una circostanza o un elemento
essenziale. La dottrina si è sforzata di elaborare diversi criteri di differenziazione e oggi tende a prevalere
un criterio che fa leva sull'esistenza di un rapporto di specialità tra le due, nel senso che la circostanza deve
porsi in relazione di specie a genere rispetto al semplice reato, in quanto deve includerne tutti gli elementi,
con l'aggiunta di uno o più requisiti specializzanti! Tuttavia, la specialità è condizione necessaria ma non
sufficiente; per questa ragione possono soccorrere, nei casi più dubbi, i c.d. criteri ausiliari cioè degli indici
tradizionalmente costituiti dal nome juris, dai precedenti storici, dalla rubrica legislativa eccetera.
La disciplina normativa del criterio di imputazione delle circostanze ha subito, di recente, una profonda
modifica. Nell'impostazione originaria del codice, rimasta vigente fino all'inizio del 1990, le circostanze
venivano attribuite in base ad un criterio puramente obiettivo: esse operavano in virtù della loro effettiva
presenza, senza che fosse necessario che il soggetto se le rappresentasse e, qualora il soggetto si
rappresentasse per errore come esistente una circostanza, questa non veniva valutata né a suo carico né a
suo favore. Con la legge n19/1990 il legislatore ha modificato il precedente modello oggettivo di
imputazione, sottoponendo anche le circostanze, e più precisamente quelle aggravanti, ad un regime di
imputazione soggettiva! Infatti, il nuovo testo dell'art 59 comma 2 stabilisce che “


È rimasta, invece, inalterata l'imputazione obiettiva delle circostanze attenuanti il che si spiega
considerando che esse incidono in ogni caso favorevolmente sul trattamento punitivo e che, pertanto, non
sollevano alcun problema di rispetto del principio di colpevolezza.

L'art 60 dispone che “


Ad es: A ritiene di uccidere un nemico ma a causa di un errore di percezione uccide un uomo che in realtà è
suo padre; in un caso del genere A non risponderà di parricidio, bensì di omicidio semplice nonostante
sussista di fatto il rapporto di parentela previsto come aggravante dall'art 577 n1; ai fini dell'applicabilità
della norma sul parricidio sarebbe invece necessaria l'effettiva colpevolezza da parte di A di indirizzare
l'azione aggressiva contro il proprio padre. Non basterebbe la mera conoscibilità, e dunque la colposa
ignoranza della relazione di parentela, dal momento che l'art 60 nell'attribuire rilevanza all'errore si limita a
parlare di errore senza distinguere tra errore colpevole ed errore incolpevole.
l'ultimo comma dell'art 60 ripristina invece i criteri generali di imputazione di cui all'art 59 comma 2


CRITERI DI APPLICAZIONE DEGLI AUMENTI O DELLE DIMINUZIONI DI PENA
Come già sappiamo, l'effetto giuridico tipico delle circostanze è quello di modificare il regime sanzionatorio
previsto per la figura semplice di un reato: i criteri, che presiedono a questa variazione, non sono però
sempre uguali: occorre distinguere fra circostanze ad efficacia comune e circostanze ad efficacia speciale.
1. Le prime sono caratterizzate dal fatto che l'aumento o la diminuzione di pena è dipendente dalla
pena ordinaria, nel senso che si effettua una variazione frazionata (fino a 1/3) della pena prevista
per il semplice reato;
2. Le seconde, a norma dell'art 63 comma 3, importano un aumento o una diminuzione della pena
superiore ad 1/3 e vale per esse la regola, secondo cui l'aumento o la diminuzione per le altre
circostanze non opera sulla pena ordinaria del reato, ma sulla pena stabilita per la circostanza
speciale
Con le modifiche legislative del 1984 il legislatore, mosso dall'intento processuale di alleggerire il carico di
lavoro dei tribunali, aveva ampliato la competenza per materia del pretore fissando il principio per cui
quest'ultima andava determinata tenuto conto degli aumenti di pena indotti soltanto dalle circostanze ad
efficacia speciale senza, dunque, tenere conto degli aumenti determinati dalle circostanze a efficacia
comune; inoltre, il nuovo 3 comma dell'art 63 non menziona più, a differenza del precedente, le circostanze
indipendenti e cioè che determinano la misura della pena in modo indipendente dalla pena ordinaria; però
c'è da aggiungere che si propende per la tesi che tutte le circostanze indipendenti (che determinano o non
un aumento di pena superiore a 1/3) continuano sia pure implicitamente a essere soggetta alla disciplina
speciale dell'art 63 comma 3.
CONCORSO DI CIRCOSTANZE AGGRAVANTI E ATTENUANTI

Ad un medesimo fatto di reato possono talora accedere più circostanze: si parla di concorso omogeneo per
designare le ipotesi nelle quali sono compresenti più circostanze della stessa specie, vale a dire o tutte
aggravanti o tutte attenuanti.
La disciplina del concorso omogeneo si differenzia a seconda che si tratti di circostanze ad efficacia comune
o ad efficacia speciale.
1. Nel primo caso, l'art 63 comma 2 dispone che: se concorrono più circostanze aggravanti o più
circostanze attenuanti, l'aumento o la diminuzione si opera sulla quantità di pena risultante
dall'aumento o dalla diminuzione precedente ;sempre salvi i limiti espressamente previsti, infatti
l'art 66 dispone, in proposito, che se concorrono più circostanze aggravanti la pena da applicare per
effetto degli aumenti non può superare il triplo del massimo stabilito dalla legge; in ogni caso non
può eccedere il limite dei 30 anni se si tratta di reclusione e dei 5 anni se si tratta di arresto.
Nell'ipotesi di concorso di circostanze attenuanti la pena da applicare non può essere inferiore a 10
anni se la pena prevista per il delitto è l'ergastolo, mentre negli altri casi non può essere inferiore a
un quarto.
2. Nel secondo caso, l'art 63 comma 4 stabilisce che: se concorrono più circostanze aggravanti, si
applica la pena stabilita per la circostanza più grave (ma il giudice può aumentarla); mentre al
comma 5, stabilisce che se concorrono più attenuanti si applica soltanto la pena meno grave
stabilita per le circostanze predette (ma il giudice può diminuirla)

Si ha concorso eterogeneo quando ad un medesimo fatto di reato accedono, contemporaneamente,


circostanze aggravanti e attenuanti. Innovando rispetto alla precedente regolamentazione del codice
Zanardelli, che prevedeva l'applicazione congiunta dei singoli aumenti e diminuzioni di pena, Il legislatore
del 1930 ha in proposito introdotto il diverso principio del bilanciamento. A norma dell'art 69 il giudice
deve procedere ad un giudizio di prevalenza o equivalenza tra le circostanze eterogenee con la
conseguenza di dar luogo, rispettivamente, all'applicazione delle sole circostanze ritenute prevalenti, o
della pena che sarebbe stata inflitta in assenza di circostanze. Il giudizio di bilanciamento, nell'originaria
formulazione dell'art 69, era tuttavia limitato alle circostanze ad efficacia comune; l'esclusione delle
circostanze efficacia speciale era motivata dall'esigenza di sottrarre al sindacato valutativo del giudice la
gravità di circostanze già autonomamente valutate dal legislatore. Oggi, a seguito della riforma novellistica
dell'aprile 1974, il giudizio di comparazione non incontra più alcun limite!
Il problema che sussiste è che il legislatore ha omesso di indicare i parametri del giudizio di bilanciamento:
secondo l'orientamento dottrinale e giurisprudenziale prevalente i criteri di valutazione relativi alla
comparazione di circostanze andrebbero ricavati dagli stessi parametri forniti dall'art 133, che disciplina il
potere discrezionale del giudice nella commisurazione della pena. La tesi però si espone alla decisiva
obiezione che tale articolo si limita ad enunciare una serie di elementi di cui tenere conto in sede di
commisurazione della pena, senza fissare alcuna gerarchia nell'eventualità di un conflitto tra elementi (e se
questa norma non riesce a risolvere i conflitti di valutazione nel tipico ambito ad essa riservato, a maggior
ragione non lo potrà allorché si tratta di formulare il giudizio di bilanciamento tra circostanze in senso
tecnico). Il giudizio di comparazione tra circostanze è stato preso di mira dal legislatore della riforma del
2005 che ha ritenuto necessario intervenire anche sull’art 69 proprio allo scopo di vincolare il giudice ad un
maggior rigore repressivo in sede di comparazione, eliminando in sede di bilanciamento gli orientamenti di
fatto sia in merito all' eccesso di discrezionalità sia in merito alla sottovalutazione del disvalore della
recidiva. Questo obiettivo è stato realizzato mediante l'inserimento di un ultimo comma aggiuntivo nel
testo dell’art 69, il quale introduce precisamente un divieto di prevalenza delle circostanze attenuanti sulle
circostanze aggravanti nelle seguenti due ipotesi: e cioè nei casi di recidiva reiterata di cui al rinnovato art
99 comma 4 e nei casi previsti dagli artt 111 e 112 comma 1, n4 relativi alla determinazione al reato di
persone non imputabili o non punibili.
APPLICAZIONE DELLE CIRCOSTANZE E COMMISURAZIONE DELLA PENA (divieto di doppia valutazione)
Le circostanze ad efficacia comune comportano un aumento o una diminuzione fino a 1/3 della pena che si
sarebbe altrimenti inflitta per il reato-base, ciò vuol dire che è affidata alla discrezionalità del giudice la
determinazione del quantum ricompreso tra il minimo e il massimo della variazione di pena prodotta dalle
circostanze. Questo momento di discrezionalità si aggiunge a quello che il giudice tipicamente esercita, ex
art 133, nella commisurazione giudiziale della sanzione tra il minimo e il massimo edittali.

Considerata questa struttura bifasica del meccanismo di determinazione della pena in concreto, sorge il
rischio che le circostanze di identico contenuto siano assunte ad oggetto di valutazione due volte: una
prima volta, al momento di determinare il quantum di pena tra il minimo e il massimo edittali relativi al
reato-base e, una seconda volta, nello stabilire l'entità della variazione connessa alla circostanza
(aggravante o attenuante)

La doppia valutazione di elementi identici o analoghi, una volta ex art 133 ed una seconda volta a titolo di
circostanza in senso tecnico, cozza contro il principio del ne bis in idem sostanziale: si deve pertanto
ritenere che uno stesso elemento di fatto sia da computare, in sede di determinazione alla pena, una sola
volta!!!

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