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I PRINCIPI DELLA COSTITUZIONE AVENTI RILEVANZA NEL PROCESSO PENALE

ART 3  Il principio di eguaglianza formale (co.1) e sostanziale (co.2) comporta che siano trattate “egualmente” situazioni
eguali e “diversamente” situazioni diverse; ed ogni differenziazione, per essere giustificata, deve risultare ragionevole.

ART 13  La libertà personale è inviolabile (co.1);

Le relative restrizioni (detenzione, ispezione o perquisizione personale ed altro) sono ammesse solo “per atto motivato dell’A.G.
e nei soli casi e modi previsti dalla legge” (co.2, ponendo la Riserva di giurisdizione).

L’unica deroga è disciplinata nel co.3, per cui in “casi eccezionali di necessità ed urgenza, indicati tassativamente dalla legge
l’autorità di pubblica sicurezza può adottare provvedimenti provvisori, che devono essere comunicati entro 48 ore all’A.G.” per
essere convalidati (altrimenti decadono e restano privi di effetti).

Il co.4 pone la tutela di tale libertà, sancendo che “è punita ogni violazione fisica e morale sulle persone comunque sottoposte a
restrizione di libertà”.

Il co.5 pone un onere per il legislatore, di stabilire “i limiti massimi della carcerazione preventiva”.

ART 14  il domicilio è inviolabile (co.1), e “non si possono eseguire ispezioni o perquisizioni o sequestri, se non nei casi e nei
modi stabiliti dalla legge secondo le garanzie prescritte per la tutela della libertà personale” dall’art 13 co.2 e 3 (co.2).

ART 15  “La libertà e la segretezza della corrispondenza e di ogni altra forma di comunicazione” (co.1) sono inviolabili, e “la
loro limitazione può avvenire solo per atto motivato dell’A.G. con le garanzie stabilite dalla legge” (co.2).

ART 24  Il co.1 nel prevedere che “tutti possono agire in giudizio per la tutela dei proprio diritti e interessi legittimi” delinea il
c.d. diritto di azione (diverso dall’azione penale ex art 112 Cost).

Il co.2 proclama “inviolabile in ogni stato e grado del procedimento” il diritto di difesa, da intendersi sia come difesa personale
che difesa tecnica.

La difesa tecnica è garantita anche ai non abbienti “con appositi istituti” in grado di assicurar loro “i mezzi per agire e difendersi
davanti ad ogni giurisdizione” (co.3).

Spetta, poi, a legislatore, determinare “le condizioni e i modi per la riparazione degli errori giudiziari” (co.4)

ART 25  il co.1, col proclamare che “nessuno può essere distolto dal giudice naturale precostituito per legge” stabilisce che il
giudice chiamato a procedere ed a giudicare è individuato in base a criteri predeterminati per legge, evitando qualsiasi scelta
discrezionale al riguardo.

Nel co 2., si stabilisce che “nessuno può essere punito se non in forza di una legge che sia entrata in vigore prima del fatto
commesso”.

Ex co.3 “nessuno può essere sottoposto a misure di sicurezza se non nei casi previsti ex lege”.

ART 27  il co.1 stabilisce il principio della responsabilità penale personale.

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Nel co.2, l’enunciazione del principio per cui “l’imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva” sta a
significare che la presunzione di non colpevolezza viene meno solo quando nei confronti dell’imputato intervenga sentenza
irrevocabile di condanna.

ART 68  caduto l’istituto dell’autorizzazione a procedere nel 1993, nessun membro del Parlamento può essere sottoposto a
perquisizione personale o domiciliare, né può essere arrestato o altrimenti privato della libertà personale, o mantenuto in
detenzione (salvo che in esecuzione di una sentenza irrevocabile di condanna), “senza autorizzazione della Camera alla quale
appartiene”.

Analoga autorizzazione è richiesta per sottoporre i membri del Parlamento ad intercettazioni, in qualsiasi forma ed a sequestro
di corrispondenza.

ART 79  l’amnistia e l’indulto sono concesso con legge deliberata a maggioranza dei 2/3 dei componenti di ciascuna Camera,
in ogni suo articolo e nella votazione finale.

Tale legge deve fissare il termine per l’applicazione dell’amnistia o dell’indulto, che non possono comunque applicarsi ai reati
commessi successivamente alla presentazione del relativo disegno di legge.

ART 90  il Presidente della Repubblica può essere chiamato a rispondere degli atti compiuti nell’esercizio delle sue funzioni
solo per alto tradimento o attentato alla Costituzione;

in tali casi viene messo in stato di accusa dal Parlamento in seduta comune, a maggioranza assoluta dei suoi membri dinnanzi
alla Corte costituzione in composizione allargata.

ART 96  il presidente del consiglio dei ministri ed i ministri, anche se cessati dalla carica, per i “reati commessi nell’esercizio
delle loro funzioni” sono ora sottoposti alla giurisdizione ordinaria, previa autorizzazione del Senato o della Camera dei deputati,
secondo le norme stabilite con legge costituzionale.

ART 97  ex co.1, i pubblici uffici sono organizzati secondo disposizioni di legge, in modo che siano assicurati il buon
andamento e l’imparzialità dell’amministrazione.

ART 101  i giudici sono “soggetti solo alla legge”, amministrano la giustizia in nome del popolo, avendo così assicurata
l’autonomia e indipendenza che l’art 104 co.1 riconosce all’intera magistratura (compresi i P.M.), come ordine nei confronti
degli altri poteri dello Stato.

Indipendenza che l’art 108 co.2 garantisce anche ai giudici delle giurisdizioni speciali, al P.M. presso di esse e agli estranei che
partecipano all’amministrazione della giustizia.

ART 109  anziché prevedere l’istituzione di uno speciale corpo autonomo di P.G., si è prescelta la soluzione di una dipendenza
solo funzionale, prescrivendo che l’A.G. “dispone direttamente della P.G.”.

ART 111  con la l.cost.2/1999 sono stati inseriti i “principi del giusto processo” nell’art 111 Cost, attraverso l’introduzione di 5
nuovi commi iniziali.

Ex co.1, la giurisdizione si attua “mediante il giusto processo regolato dalla legge”.

Ex co.2 “ogni processo si svolge nel contraddittorio tra le parti, in condizione di parità, davanti a giudice terzo e imparziale. La
legge ne assicura la ragionevole durata”.

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Con specifico riferimento al processo penale, il co.3 prescrive che “la legge assicura che la persona accusata di un reato:

- sia, nel più breve tempo possibile, informata riservatamente della natura e dei motivi dell’accusa elevata a suo carico;
- disponga del tempo e delle condizioni necessari per preparare la difesa;
- abbia la facoltà, davanti al giudice, di interrogare o di far interrogare le persone che rendono dichiarazioni a suo carico;
- di ottenere la convocazione e l’interrogatorio di persone a sua difesa nelle stesse condizioni dell’accusa e l’acquisizione di
ogni altro mezzo di prova a suo favore;
- sia assistita da un interprete se non comprende/parla la lingua impiegata nel processo”.

inoltre, il co.4 stabilisce che “il processo penale è regolato dal principio del contraddittorio nella formazione della prova. La
colpevolezza dell’imputato non può essere provata sulla base di dichiarazioni rese da chi, per libera scelta, si è sempre
volontariamente sottratto all’interrogatorio da parte dell’imputato o del suo difensore”.

Nel co.5, si prevede che “la legge regola i casi in cui la formazione della prova non ha luogo in contraddittorio per consenso
dell’imputato o per accertata impossibilità di natura oggettiva o per effetto di provata condotta illecita”.

Negli ulteriori co.6 e 7 (corrispondenti ai primi 2 co originari dell’art 111) si stabilisce che “tutti i provvedimenti giurisdizionali
devono essere motivati”, anche al fine di rendere più efficace e penetrante il sindacato di legittimità;

in particolare, attraverso il “ricorso per cassazione per violazione di legge”, che dev’essere sempre consentito “contro le
sentenze e contro i provvedimenti sulla libertà personale pronunciati dagli organi giurisdizionali”.

ART 112  Il P.M. ha l’obbligo di esercitare l’azione penale.

Ciò vuol dire che di fronte ad ogni notizia di reato il P.M. è tenuto a procedere, richiedendo al giudice di pronunciarsi in
proposito.

I magistrati del P.M. sono soggetti all’obbligo di esercitare l’azione penale, senza alcun margine di discrezionalità politica,
quando sussistono i presupposti di tale obbligo.

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Introduzione
Lo studio che andremo a trattare, poggia le proprie basi sul codice di procedura penale del 1988, articolato in due parti (statica e
dinamica) ed undici libri.

Il codice di procedura penale (in vigore dal 24/10/1989) è stato emanato in forza e sulla base dei principi e criteri direttivi
della legge-delega 16/02/1987 n.81.

Il codice era ed è accompagnato da norme di attuazione, da norme transitorie e da norme di coordinamento (queste ultime
permettono di cogliere il reale “ambito di applicazione del codice” attraverso la esplicita correlazione con istituti che
potremmo definire di “diritto processuale speciale”).

Per comprendere in maniera chiara lo studio della materia, è opportuno analizzare quelle che sono quattro chiavi di lettura, che
ci consentiranno di cogliere i connotati venuti via via a caratterizzare l’intero insieme.

1) Prima chiave di lettura: il passaggio da una legislazione nata per delega ad una legislazione divenuta estremamente
composita.

La prima chiave di lettura rimanda alla “vera” origine del codice del 1988, che, in quanto legata ad una legge delega (l.81/1987),
impone di distinguere:

 ciò che dal testo iniziale è rimasto inalterato,


 da ciò che è frutto di successiva legislazione diretta o di statuizioni della Corte costituzionale.

Basta soffermarsi, da subito, sul continuo variare della stessa impostazione di fondo, che stando al preambolo dell’art 2 della
delega 81/1987, avrebbe dovuto condurre il nuovo codice (in aperta contrapposizione allo spirito inquisitorio cui era ispirato
il precedente codice del 1930) ad attuare:
 “i principi della Costituzione, adeguandosi anche alle norme delle Convenzioni internazionali ratificate in Italia e
relative ai diritti della persona e al processo penale”,
 “i caratteri del sistema accusatorio”.

Riferimento ad un sistema accusatorio inteso “secondo i principi ed i criteri che seguono”, richiedenti:

 La “massima semplificazione nello svolgimento del processo”,


 “l’azione del metodo orale”;
 “la partecipazione dell’accusa e della difesa su basi di parità in ogni stato e grado del procedimento”.

Si tratta di criteri e principi che non hanno potuto evitare (assieme a molti altri) di rimanere coinvolti nelle modificazioni e
riforme apportate nel corso degli anni.

Basti pensare, come le più clamorose riguardino gli artt 190bis, 195, 210, 238, 500, 512, 513, 514, 593 e 606.

2) Seconda chiave di lettura: i rapporti tra rito ordinario e riti speciali.

La seconda chiave di lettura è dedicata all’attenzione riguardante i rapporti tra il rito ordinario e il rito speciale:

 Rito ordinario  inteso il procedimento che, dopo le indagini preliminari del P.M. non concluse dall’archiviazione
della notizia di reato, giunge all’udienza preliminare e, non potendosi chiudere con sentenza di non luogo a procedere,
sfocia nel giudizio imperniato sul dibattimento-

3 fasi: indagini preliminari  udienza preliminare  dibattimento

 Rito speciale (o alternativi)  caratterizzati dall’assenza di una delle 3 fasi.

Per meglio evidenziare la funzione ed il ruolo dei riti speciali, si parla anche di deflazione dibattimentale, di risparmio costi, di
efficienza del sistema.

Alcuni riti speciali sono disposti per la “deflazione dibattimentale” (giudizio abbreviato, patteggiamento, procedimento per
decreto penale, sospensione del procedimento con messa alla prova, procedimento di oblazione).

Altri, invece (giudizio immediato e giudizio direttissimo), anticipano il dibattimento.


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Accanto ai riti speciali che mirano ad evitare il dibattimento, ve ne sono altri che mirano a dargli vita il prima possibile.

Per completezza, persegue scopi deflativi del dibattimento anche la nuova causa di esclusione della punibilità per
particolare tenuità del fatto (art 131bis c.p.)

Discorso analogo vale anche per il nuovo istituto della estinzione del reato per condotte riparatore (art 162ter c.p.), inserito
con la riforma Orlando (l.103/2017).

Tale istituto è applicabile nei casi di “procedibilità a querela soggetta a remissione”, e di regola il giudice dichiara estinto il
reato:
o “sentite le parti e la persona offesa, quando l’imputato ha riparato interamente, entro il termine massimo della
dichiarazione di apertura del dibattimento di primo grado, il danno cagionato dal reato, mediante le restituzioni o il
risarcimento, ed ha eliminato, ove possibile, le conseguenze dannose o pericolose del reato” (art 162ter co.1 c.p.).

3) Terza chiave di lettura: l’introduzione del giudice unico togato di primo grado e poi, anche, del giudice di pace.

A partire dal 2/06/1999, l’istituzione del giudice unico togato di primo grado (tribunale in composizione monocratica) ha
portato innovazioni nel settore penale.

La riforma ha rivalutato la struttura ordinamentale e la distribuzione di compiti tra i vari giudici:

 È stata soppressa la pretura e il relativo suo ufficio  il tutto è stato assorbito, ufficio del G.I.P. compreso da parte del
tribunale.
 Soppresso anche la procura della Repubblica presso la pretura  con assorbimento da parte della procura della
Repubblica presso il tribunale.

Ciò ha comportato un superamento dell’antica distinzione circa i procedimenti per reati di competenza del tribunale –
procedimenti per reati di competenza del pretore.

È subentrata, a tal proposito, la nuova distinzione tra procedimenti per reati attribuiti al tribunale in composizione collegiale
– procedimenti per reati attribuiti al tribunale in composizione monocratica.

A dimostrazione di quanto detto, il Libro VIII, originariamente intitolato “Procedimento davanti al pretore”, dal 1988 risulta
dedicato al “Procedimento davanti al tribunale in composizione monocratica”.

Ciò è avvenuto, pur disciplinando i soli procedimenti aventi ad oggetto i reati già demandati alla competenza del “vecchio”
pretore, più alcuni fra quelli (ovviamente i meno gravi) demandati ex novo alla composizione monocratica del tribunale in
seguito all’istituzione del giudice unico.

Invece, per tutti gli altri, cioè i più gravi, si fa rinvio alle norme dettate per i procedimenti aventi ad oggetto i reati attribuiti alla
composizione collegiale, prime fra tutte per importanza quelle disciplinanti l’udienza preliminare

Proprio l’ampliamento delle ipotesi criminose che, col subentrare del giudice unico, venivano sottratte al collegio e, quindi,
automaticamente private delle garanzie insite nell’udienza preliminare, rendeva necessaria la ricerca di nuovi meccanismi
almeno parzialmente suppletivi, poi considerati nell’innovazione rappresentata dall’udienza di comparizione su citazione
diretta da parte del P.M.

Considerazioni analoghe si ripetono circa la competenza penale devoluta al giudice di pace, nell’intento di togliere al giudice
togato di primo grado il carico costituito da quei reati di minore gravità non passabili di depenalizzazione.

Da segnalare è che il d.lgs. 116/2017 ha attuato la riforma organica della magistratura onoraria e dettato altre disposizioni
sui giudici di pace, creando:
 la nuova figura del “giudice onorario di pace” (che accorpa in sé le precedenti figure del giudice onorario di tribunale e
del giudice di pace), per indicare il magistrato onorario addetto all’ufficio del giudice di pace.

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4) Quarta chiave di lettura: l’inserimento in Costituzione dei principi del “giusto processo”, a cominciare dalla sua
“ragionevole durata”.

È sicuramente la chiave di lettura più importante, ma allo stesso tempo anche più problematica.

Sarà opportuno tener sempre in considerazione tale norma costituzionale, ed in particolare i suoi primi 5 commi premessi
all’originario co.1 dalla l.cost. 2/99.

Infatti, sia il co.1 che il co.2 hanno riguardo ad ogni tipo di processo avente natura giurisdizionale.

gli altri 3 commi appaiono, invece, riferiti al solo processo penale.

La crescita di garanzie attorno al nucleo rappresentato dal principio del contraddittorio consente di affermare che il nostro
processo si sta, sia pur lentamente, caratterizzando in senso accusatorio.

Ad ogni, un aspetto che il legislatore dovrà sempre assicurare è la “ragionevole durata per ogni processo”, come dettata
attualmente dal co.2 art 111 Cost, mentre l’art 6 c.e.d.u. parla di “diritto ad un’equa e pubblica udienza entro un termine
ragionevole”.

E nella prospettiva di realizzare la ragionevole durata si è mossa la l. 103/2017, mirante all’obiettivo, non sempre raggiunto, di
razionalizzare e semplificare il processo penale.

Ineludibile, è anche quanto sottintende la Convenzione europea:

essendo oggetto di un “diritto della persona umana”, la durata ragionevole del processo va assicurata all’imputato tanto se
innocente quanto se colpevole, data anche la presunzione di non colpevolezza riconosciutagli fino al giudicato di condanna.

È ormai di prassi che la difesa degli imputati più timorosi di andare incontro alla smentita di tale presunzione sia improntata alla
ricerca della prescrizione del reato addebitato, tanto che, una volta ottenutane la dichiarazione, ben raramente viene esercitato
il diritto di rinunciarvi (apertamente riconosciuto con la sent. 275/1990).

Ecco il vero paradosso che incombe sul nostro processo penale;

quello della prescrizione, è un istituto avente, fra l’altro, lo scopo di sollecitare la giustizia a non andare troppo per le lunghe.

Ma, per chi ha torto, si trasforma in una sorta di ancora di salvezza, potendosi tradurre (quando l’”impresa” riesca), in un
proscioglimento per estinzione del reato strappato con i denti.

Specialmente dopo che la l. 251/2005 ha ridotto sensibilmente i termini di prescrizione per non poche fattispecie di rilevante
gravità e dopo che la l. 29/2001 (c.d. Legge Pinto), con la previsione di un’equa riparazione in caso di irragionevole durata del
processo, penale e non, ha spesso dato luogo ad ulteriori ritardi e nuove contenziosi, occorrevano ben più profonde
innovazioni.

Un tentativo in tal senso è stato effettuato dalla l.103/2017, che è intervenuta sulla materia della prescrizione disciplinata dal
codice penale.

In sostanza, inserendo 3 nuovi commi dopo il primo nell’art 159 c.p., il legislatore ha regolamentato il rapporto fra
prescrizione e impugnazioni.

Con l’attuale normativa, il corso della prescrizione rimane sospeso dal termine previsto dall’art 544 c.p.p. per il deposito
della motivazione della sentenza di condanna di primo grado, anche se emessa in sede di rinvio, sino alla pronuncia del
dispositivo della sentenza che definisce il grado successivo di giudizio, per un tempo massimo di 1 anno e 6 mesi;

e, in maniera analoga, dal termine previsto ex art 544 c.p.p. per il deposito della motivazione della sentenza di condanna di
secondo grado, anche se emessa in sede di rinvio, sino alla pronuncia del dispositivo della sentenza definitiva, per un tempo
massimo di 1 anno e 6 mesi.

Per pronunciarsi sugli effettivi risultati si dovrà attendere il vaglio della prassi, soprattutto con riguardo alla durata del giudizio di
appello.

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Capitolo I
Soggetti
1. Premessa.
Il codice di procedura penale vigente (del 1988) è ispirato al modello accusatorio (superando quello inquisitorio del modello
previgente).

Il codice è suddiviso in due sezioni e composto da 11 libri:

 Parte statica (Libri I-IV),


 Parte dinamica (Libri V-XI)  si occupa del progressivo sviluppo della vicenda processuale a partire dal momento i cui viene
acquisita una notizia di reato.

Il Libro I (art 1-108), dedicato ai “Soggetti”, si apre con il titolo dedicato al giudice; ciò consente di mettere in risalto la
centralità della giurisdizione, nell’ambito di un processo concepito come sistema di garanzie.

Negli altri 6 titoli del Libro I vengono presi in considerazione:

- Il Pubblico Ministero (da ora lo indicheremo come P.M.);


- la Polizia Giudiziaria (P.G.);
- l’imputato;
- la parte civile con il responsabile civile e il civilmente obbligato per la pena pecuniaria;
- la persona offesa dal reato;
- il difensore.

Restano esclusi numerosi soggetti che compaiono sulla scena processuale, tra cui non solo il c.d. ausiliario del giudice e del
P.M., ma anche altre figure, come ad esempio il testimone, il perito, il consulente tecnico, che pur non ricomprese nel Libro
I, forniscono importanti apporti per la decisione conclusiva del processo.

È opportuno poi distinguere tra:

 Soggetto
 parte  qualifica di chi vanta il diritto ad una decisione giurisdizionale in rapporto ad una pretesa fatta valere nel
processo.

Ne consegue che la qualifica di parte non spetta alla totalità dei soggetti elencati nel Libro I.

Saranno “parte”  il P.M. - l’imputato - la persona civile - il responsabile civile e il civilmente obbligato per la pena
pecuniaria.

Da escludere come “parte”  giudice (dato che è imparziale) - P.G – persona offesa – difensore.

2. La giurisdizione penale. TITOLO I Capo I (Art 1-3)


L’art 1 (“Giurisdizione penale”) riserva l’esercizio della giurisdizione penale ai “giudici previsti dalla legge di ordinamento
giudiziario”.

La norma è un corollario dell’art 102 co.1 Cost, che attribuisce la funzione giurisdizionale a “magistrati ordinari istituiti e
regolati dalle norme sull’ordinamento giudiziario”.

Dunque, l’art 1 intende sottolineare la centralità della posizione del giudice, dato che soltanto il giudice, e non qualsiasi
magistrato (quindi, non il P.M), può essere titolare di funzioni di giurisdizione penali.

Il giudice, infatti, è l’unico soggetto processuale munito di funzioni giurisdizionali, cioè della potestà dello:
 Jus dicere procedurale  volto all’applicazione delle regole procedurali,
 Jus dicere sostanziale  volto all’applicazione della legge penale relativa alla specifica fattispecie di reato.

Il giudice è una “creazione” esclusiva delle norme di ordinamento giudiziario (la sua qualità dipende da un atto di investitura).
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Infatti, il valido esercizio della funzione giurisdizionale è fortemente condizionato dalla ritualità dell’investitura.

Infatti, l’art 178 (“Nullità di ordine generale”) riconosce come nullità assoluta l’inosservanza delle disposizioni concernenti le
condizioni di capacità del giudice e d il numero dei giudici necessario per costituire i collegi stabilito dalle leggi di
ordinamento giudiziario.

La rilevanza degli elementi ora citati (“capacità del giudice” e “numero necessario per i collegi”) è normativamente regolata
nell’art 33 (“Capacità del giudice”).

ART 33  Capacità del giudice


“Le condizioni di capacità del giudice e il numero di giudici necessario per costituire i collegi sono stabiliti dalle leggi di
ordinamento giudiziario” (co.1)

Sennonché, quanto stabilito nel co.1 non è direttamente riferibile a quanto detto prima (art 178), ma tale enunciato risulta
circoscritto ai commi successivi dello stesso art 33.

“Non si considerano attinenti alla capacità del giudice le disposizioni sulla destinazione del giudice agli uffici giudiziari e alle
sezioni, sulla formazione dei collegi e sulla assegnazione dei processi a sezioni, collegi e giudici.” (co.2)

Quanto disposto nel co.2 è giustificato dalle difficoltà e complicazioni che graverebbero sulla vicenda processuale se si
prevedesse la sanzione della nullità assoluta anche per questioni sottoponibili al sindacato degli organi amministrativi;

ecco, dunque, le ragioni sottostanti alla scelta di non considerare attinenti alla capacità del giudice le disposizioni prima
descritte.

I. Circa la 3° categoria menzionata (“assegnazione dei processi a sezioni, collegi e giudici”), si tratta di una questione inerente
(non alla capacità del giudice, ma) alla sola distribuzione delle cause tra giudici parimenti legittimati all’esercizio della
funzione giurisdizionale.

I. Anche per quanto concerne le disposizioni relative alla “formazione dei collegi” si ritiene la non pertinenza rispetto al
requisito della capacità del giudice; infatti, tal locuzione riguarderebbe:
a) Di disposizioni che contemplano provvedimenti del capo dell’ufficio diretti a stabilire turni di servizio di giudici già
assegnati all’ufficio stesso;
b) Le disposizioni relative alle “supplenze” e alle “applicazioni”

I. Per quanto attiene alle disposizioni sulla “destinazione del giudice all’ufficio” (es. trasferimento/assegnazione di nuove
funzioni giudicanti) esse sono riconducibili al concetto di capacità.

Un eventuale vizio consistente in un difetto di qualifica ricade nell’ambito di operatività dell’art 178 co.1 lett.a, dando origine
ad una nullità assoluta.

Resta da esaminare il co.3 art 33, il cui obiettivo è quello di evitare che l’inosservanza dei criteri concernenti il riparto di
attribuzioni tra giudice monocratico/collegiale si traduca in una nullità assoluta;

“Non si considerano altresì attinenti alla capacità del giudice né al numero dei giudici necessario per costituire l’organo
giudicante le disposizioni sull’attribuzione degli affari penali al tribunale collegiale o monocratico”

Si tratta di una disposizione collegata alla riforma relativa all’istituzione del giudice unico di primo grado, che ha portato nel
1997-1998 alla soppressione dell’ufficio del pretore, compensata dalla riconosciuta possibilità per il tribunale di giudicare in
composizione collegiale (con 3 componenti) o monocratica.

Inoltre, come prova del nove, l’intervento del 97 stabilisce che:

o “l’attribuzione degli affari al giudice in composizione collegiale o monocratica non si considera attinente alla capacità
del giudice né al numero dei giudici necessario per costituire l’organo giudicante”.

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3. Profili ordinamentali.
Di prima importanza, risulta la distinzione tra:

 Giudici straordinari  istituiti successivamente al fatto da giudicare;


 Giudici speciali  figure estranee alla legge di ordinamento giudiziario;
 Giudici ordinari  traggono la loro legittimazione dall’ordinamento giudiziario.

La Costituzione vieta di istituire giudici straordinari/speciali;


mente ammette l’istituzione di giudici specializzati  es. il Tribunale per i minorenni.

Restano esclusi dal divieto, conformemente a quanto ricavabile ex art 103 co.3 e 134 Cost  la Corte costituzione.

La categoria rispetto alla quale è opportuno un raccordo con la normativa del codice è quella dei giudici ordinari, che dopo la
soppressione dell’ufficio del pretore (d.lgs.51/1998) e l’entrata in vigore del d.lgs.274/2000 (competenza penale del giudice di
pace), ricomprende i seguenti organi:

a) GIUDICE DI PACE  giudice onorario e monocratico, contrapposto al giudice professionale e al giudice collegiale.

Da menzionare è la l.57/2016, la quale:


 Da un lato, contiene la delega al Governo per la riforma organica di tutta la magistratura onoraria (obiettivo
raggiunto col d.lgs.116/2017);
 Dall’altro, detta regole di immediata applicabilità.

Col d.lgs.116/2017 si è raggiunto uno statuto unico della magistratura onoraria, unificando i giudici onorari di tribunale e i
giudici di pace nella categoria dei “giudici onorari di pace”.

Quanto i vice procuratori ononari, nel provvedimento viene ribadita la temporaneità dell’incarico; la durata massima di 2
quadrienni, ferma restando l’invalicabilità del tetto dei 65 anni di età; si dettano regole per il tirocinio semestrale.

Inoltre, nel decreto si disciplinano le funzioni e compiti dei giudici onorari di pace; ci si occupa anche della formazione
permanente dei giudici onorari.

b) Giudice per le Indagini Preliminari (G.I.P.)  monocratico.

c) Giudice dell’Udienza Preliminare (G.U.P.)  monocratico.

In merito al G.I.P. e al G.U.P., si sono avute importanti innovazioni di carattere ordinamentale.

In primis, per evitare possibili condizionamenti derivanti dalle attività compiute nel corso delle indagini preliminari,
l’ordinamento giudiziario stabilisce che:
 il G.U.P. debba essere diverso da quello che, nel medesimo procedimento, ha svolto le funzioni di G.I.P.

in secundis, viene assicurata un’elevata qualificazione professionale dei giudici su descritti:


- devono avere precedentemente svolto per almeno 2 anni la funzione di giudice del dibattimento/G.I.P.

inoltre, per garantire la terzietà di questi giudici, è stata fissata la regola della temporaneità delle funzioni (massimo 10 anni
stabilito nel 2008);
qualora alla scadenza del termine sia in corso il compimento di un procedimento, l’esercizio delle funzioni viene prorogato,
limitatamente a quel singolo procedimento, sino al compimento dell’attività in questione.

Al di fuori di questa specifica ipotesi, le disposizioni sulla proroga e durata, possono essere derogate solo “per imprescindibili
e prevalenti esigente di servizio”.

d) Tribunale ordinario  a seconda della gravità del reato o delle caratteristiche dello stesso, tale organo giudica in
composizione monocratica oppure in composizione collegiale (decidendo con 3 componenti).

e) Corte d’assise  giudice collegiale composto da 8 magistrati, di cui 2 togati (magistrati di carriera) e 6 laici (giudici popolari,
che solo temporaneamente fanno parte dell’ordine giudiziario e sono scelti fra i cittadini in possesso di determinati
requisiti).

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f) Corte d’appello  giudice collegiale composto da 3 magistrati.

g) Corte d’assise d’appello  giudice collegiale, la cui composizione mista (2 togati + 6 laici) ricalca quella della corte d’assise.

h) Magistrato di sorveglianza  monocratico.

i) Tribunale di sorveglianza  giudice collegiale composto da 4 magistrati (2 togati + 2 laici).

j) Corte di cassazione  giudice di legittimità posta al vertice della gerarchia.

Quanto alla Corte di cassazione, le cui funzioni le sono attribuite ex art 65 ord.giud., viene definita giudice di legittimità,
accertando questioni di diritto (in contrapposizione ai giudici di merito, i quali accertano sia le questioni di fatto che quelle di
diritto).

La Corte è divisa in 7 sezioni, ciascuna delle quali giudica con 5 componenti, che diventano 9 quando tale organo è chiamato
a pronunciarsi nella composizione a Sezioni Unite.

All’ufficio di consigliere della corte di cassazione vengono chiamati “professori ordinari di università in materie giuridiche e
avvocati che abbiano 15 anni d’esercizio e siano iscritti negli albi speciali per le giurisdizioni superiori”.

Quanto ai giudici minorili, i quali sono, invece, regolati dalla legge di ordinamento giudiziario, appartengono alla categoria dei
giudici ordinari specializzati.

4. Questioni pregiudiziali e sospensione del processo. (Art 2-3)


Quella penale è una giurisdizione autosufficiente, nel senso che ha cognizione autonoma su tutte le questioni strumentali alla
pronuncia finale.

ART 2  Cognizione del giudice.


“Il giudice penale risolve ogni questione da cui dipende la decisione, salvo che sia diversamente stabilito [3,263,479].” (co.1)

“La decisione del giudice penale che risolve incidentalmente una questione civile, amministrativa o penale non ha efficacia
vincolante in nessun altro processo [478].” (co.2)

Quella con ci viene risolta la questione logicamente prioritaria è una semplice pronuncia incidentale che può avere natura civile,
amministrativa o penale, e che ha rilevanza solo all’interno del procedimento in cui è inserita (cognitio incidenter tantum),
senza alcuna efficacia vincolante in nessun altro processo (co.2).

Inoltre, la necessità di una disciplina processuale idonea a fornire decisioni definitive in tempi ragionevolmente brevi ha indotto
il legislatore ad abbandonare la regola della sospensione pregiudiziale, affermando:

 il principio dell’autonoma cognizione del giudice penale rispetto a tutte le questioni pregiudiziali, eccetto quelle
espressamente disciplinate nel codice di rito (art 3,479).

A tal proposito, il co.1 art 2 prevede una clausola di salvezza (“salvo che sia diversamente stabilito”).

Dunque, alla regola della cognizione incidentale ex art 2, si presentano deroghe suddivise in 2 categorie:

 da un lato, si collocano quelle disposizioni che, in caso di controversia sulla proprietà delle cose sequestrate (art 263 e 324)
o confiscate (art 676), si limitano a devolvere la relativa risoluzione al giudice civile;

 dall’altro, quelle disposizioni che, occupandosi delle questioni da cui dipende la decisione definitiva, disciplinano i
presupposti e il modus dell’eventuale sospensione, nonché l’efficacia della decisione intervenuta in sede extrapenale (art 3,
479)

Si tratta di 2 sole ipotesi, con riferimento alle quali è parso opportuno consentire che sulla questione pregiudiziale intervenga
una vera e propria decisione, idonea a stabilizzarsi con la formazione del giudicato, e non un accertamento incidentale
suscettibile di essere contraddetto da ulteriori accertamenti di segno eventualmente opposto.

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1) Quanto osservato vale per le questioni pregiudiziali relative allo “stato di famiglia o di cittadinanza” (art 3 “questioni
pregiudiziali”) ex co.1.

“Quando la decisione dipende dalla risoluzione di una controversia sullo stato di famiglia o di cittadinanza, il giudice, se la
questione è seria e se l’azione a norma delle leggi civili è già in corso, può sospendere il processo fino al passaggio in
giudicato della sentenza che definisce la questione.” (co.1).

Dunque, in presenza di una controversia rientrante in una di tali categorie, il giudice penale “può sospendere il processo”
quando ricorrano le 3 seguenti condizioni:

a) deve sussistere un rapporto di pregiudizialità tra la risoluzione della controversia sullo stato di famiglia o di cittadinanza e la
decisione della regiudicanda penale;
b) è necessario che la questione pregiudiziale sia seria (cioè non manifestamente infondata/artificiosa);
c) dev’essere già stata proposta l’azione “a norma delle leggi civili” (ma si estende anche alle leggi amministrative).

Se manca una delle suddette condizioni il giudice deve decidere in via incidentale senza sospendere il processo penale (co.1
art 2), non si può dire che valga la regola opposta.

Ad ogni modo, sarà il giudice a stabilire, di volta in volta, se, nonostante la ricorrenza dei presupposti ex co.1 art 3, non sia
preferibile risolvere autonomamente la questione pregiudiziale.

In caso di sospensione, ex co.2 art 3, è prevista la pronuncia di una ordinanza che può essere impugnata con ricorso per
cassazione. La corte decide in camera di consiglio.

Ex co.3, la sospensione del processo non impedisce il compimento degli atti urgenti.

Ex co.4, la sentenza irrevocabile del giudice civile che ha deciso una questione sullo stato di famiglia o di cittadinanza ha
efficacia di giudicato nel procedimento penale.

L’art 3, nella previsione di devolvere determinate questioni pregiudiziali al giudice civile/amministrativo dimostra la necessità
di salvaguardare la coerenza dei giudicati.

2) La seconda ipotesi di sospensione del processo penale (ex co.1 art 2) a causa di una questione pregiudiziale è quella
prevista dall’art 479 (“Questioni civili o amministrative”).

Qui, la controversia da risolvere in via prioritaria non verte su uno status ma su una qualsiasi altra questione di competenza del
giudice civile o amministrativo.

Qui, il compromesso con le esigenze di celerità del processo penale è più accentuato.

Non esistendo, nel codice, la “pregiudizialità obbligatoria”, l’art 3 (richiamo nell’art 479) parla di facoltà di sospensione del
processo da parte del giudice penale.

Vista la collocazione dell’art 479 (Titolo II “dibattimento” Libro VII “Giudizio”), la sospensione sembrerebbe poter essere
disposta solo nel corso del dibattimento.

Tale restrittività emergerebbe se si considerano i requisiti inerenti alla questione pregiudiziale:

a) La risoluzione della controversia deve condizionare la decisione sull’esistenza del reato;


b) L’attributo della serietà non basta, dato che la controversia deve risultare di particolare complessità;
c) Dev’essere già in corso il relativo procedimento presso il giudice civile/amministrativo.

Si richiede, come ulteriore condizione, che la legge civile/amministrativa non ponga limitazioni alla prova della situazione
soggettiva controversa (limitazione che il giudice penale non incontra se risolve la controversia in via incidentale).

Come nel caso dell’art 3, la sospensione (del dibattimento) è disposta con ordinanza impugnabile in cassazione da tutte le parti.

Ex co.2 art 479, è escluso l’effetto sospensivo dell’impugnazione.

In tale ipotesi, si consente al giudice di revocare l’ordinanza di sospensione qualora il giudizio civile/amministrativo non si sia
concluso nel termine di 1 anno.
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Inoltre, non essendo ribadito nell’art 479 quanto disposto nell’art 3 co.4, la sentenza extrapenale non ha efficacia vincolante.

La sentenza extrapenale viene a far parte del materiale probatorio destinato a costituire la base per la formazione del
convincimento del giudice, il quale la può anche disattendere, ma dandone le dovute motivazioni.

Una particolare ipotesi di sospensione del processo dipendente solo dalla “qualità” dell’imputato, era quella prevista dalla
l.124/2008 (“Disposizioni in materia di sospensione del processo penale nei confronti delle alte cariche dello Stato”) stante al
quale:

o “i processi penali nei confronti dei soggetti che rivestono la qualità” di P.d. R., di P. del Senato della R., di P.d.Camera
dei deputati e di P. d. Consiglio dei ministri dovevano essere “sospesi dalla data di assunzione e fino alla cessazione
della carica o della funzione”, anche se relativi a “fatti antecedenti l’assunzione della carica o della funzione”.

Così facendo, veniva precostituito, a favore di tali soggetti, una sorta di “scudo immunitario” temporaneo.

Ovviamente, aveva suscitato gravi dubbi di costituzionalità la circostanza che una così evidente eccezione al “principio della
parità di trattamento rispetto alla giurisdizione” fosse stata introdotta con una semplice legge ordinaria e non con una legge
costituzionale.

Ad ogni modo, la disposizione a riguardo è stata dichiara illegittima.

5. La competenza: per materia, per territorio e per connessione. Capo II (Art 4-16)
Il Capo II del Titolo I (“giudice”) è dedicato alla “competenza”:

 Ossia, le regole che consentono di attuare una distribuzione, in senso orizzontale e verticale, delle regiudicande penali, in
modo che risulti predeterminato il giudice legittimato a conoscere ogni procedimento, come imposto dall’art 25 co.1 Cost.

Con la soppressione dell’ufficio del pretore (dopo il 98), è stato introdotto un ulteriore criterio di assegnazione (quello delle
“attribuzioni”) idoneo a delineare la competenza del tribunale in composizione collegiale o monocratica per determinati
procedimenti di reato.

Pur essendo affine al concetto della “competenza”, si differenzia perché opera come criterio interno di ripartizione (per il
tribunale).

Esistono 3 figure tradizionali: competenza per materia, per territorio e per connessione.

A. Competenza per materia.

A tal proposito, si tiene conto:

 Sia del tipo di reato  criterio qualitativo;


 Sia del livello della pena edittale  criterio quantitativo

Per il cui calcolo è disposto l’art 4 “Regole per la determinazione della competenza”.

ART 4  Regole per la determinazione della competenza.


“Per determinare la competenza si ha riguardo alla pena stabilita dalla legge per ciascun reato consumato/tentato.

Non si tiene conto della continuazione, della recidiva e delle circostanze del reato, eccetto le circostanze aggravanti per le
quali la legge stabilisce una pena di specie diversa da quella ordinaria del reato e di quelle ad effetto speciali.” (co.1)

L’art 5, nel delineare la “competenza della corte di assise” tiene in considerazione tanto il criterio quantitativo quanto quello
qualitativo. Nello specifico risultato affidati alla corte di assise ex co.1:

a) I delitti punti con l’ergastolo con la reclusione non inferiore nel massimo a 24 anni, eccezion fatta per i delitti, comunque
aggravati:
- di tentato omicidio, di rapina, di estorsione di tipo mafioso anche straniera e per i delitti di sostanze stupefacenti.

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Con l’aggiunta dell’inciso “comunque aggravati” il legislatore aveva neutralizzato un orientamento della giurisprudenza
propenso a ravvisare la competenza della corte di assise nel caso in cui, grazie al gioco delle aggravanti, la pena detentiva
inflitta per i delitti di rapina e di estorsione superasse il tetto di 24 anni.

Di recente, lo stesso indirizzo era stato esteso anche al delitto di associazione di stampo mafioso, constatando che può
essere raggiunto il limite di 24 anni di reclusione (in caso di aggravante).

Sennonché, per scongiurare la probabile scarcerazione di molti imputati di gravi delitti è stato emanato il d.l.10/2010
convertito con l.52/2010, che ha inciso sui delitti di associazione mafiosa, escludendo la competenza della corte di assise, a
favore di quella del tribunale.

Secondariamente, è stata riconosciuta la competenza della corte di assise in tema di sequestro di persona a scopo di
estorsione, anche quando dal sequestro non sia derivata la morte della persona offesa (quest’ultima già rientrava nella sua
competenza ex art 5 co.1 lett.c).

b) i delitti consumati (ad esclusione di quelli rimasti allo stadio del tentativo) di omicidio del consenziente, istigazione o aiuto
al suicidio, omicidio preterintenzionale.

c) Ogni delitto doloso, qualora dal fatto sia derivante la morte di una/più persone, escluse le ipotesi di:
- morte come conseguenza non voluta di altro reato; di morte avvenuta in seguito a rissa e di morte derivante da
omissione di soccorso.

d) I delitti di riorganizzazione del partito fascista, di genocidio e quelli contro la personalità dello Stato puniti con la pena
edittale non inferiore nel massimo a 10 anni.

d-bis) i delitti consumati o tentati di associazione per delinquere (nonché il delitto di procurato ingresso illegale dello straniero
nel territorio dello Stato), i delitti di riduzione o mantenimento in schiavitù o in servitù, di tratta di persone, di acquisto e
alienazione di schiavi, ed infine, i delitti con finalità di terrorismo (per questi ultimi è stabilita la pena della reclusione non
inferiore, nel minimo, a 10 anni).

Il co. d-bis è stato introdotto in sede di conversione del d.l. 10/2010.

In passato, ovvero prima della l.228/ 2003, i delitti previsti in materia di “schiavitù” su descritti, erano devoluti al tribunale in
composizione collegiale e non alla corte di assise.

Ex art 6, nel delineare la “competenza del tribunale” stabilisce come questa si ricavi per sottrazione, infatti, ex co.1:

o “Il tribunale è competente per i reati che non appartengono alla competenza della corte di assise o del giudice di pace”.

In riferimento al tribunale, sarà opportuno distinguere circa le ipotesi “attribuite” alla composizione collegiale/monocratica.

B. Competenza per territorio.

L’art 8 nel disciplinare le “regole generali”, delinea nel co.1 la regola fondamentale second cui:

o “La competenza per territorio è determinata dal luogo in cui il reato è stato consumato”.

Ad essa, il legislatore fa seguire:

a) Altre regole di carattere generale che derogano al criterio del locus commissi delicti in ragione della particolare
configurazione della fattispecie delittuosa (co.2,3,4 art 8);

b) Talune regole “suppletive”, che consentono l’individuazione del giudice territorialmente competente quando non è
possibile applicare le regole generali (art 9 “Regole suppletive”).

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a) In merito alle altre regole di carattere generale ex art 8:


 Se si tratta di fatto dal quale è derivata la morte di una/più persone  è competente il giudice del luogo in cui è
avvenuta l’azione/omissione (co.2).

 Se si tratta di reato permanente  è competente il giudice del luogo in cui ha avuto inizio la consumazione, anche
se dal fatto è derivata la morte di una/più persone (co.3).

 Se si tratta di delitto tentato  è competente il giudice del luogo in cui è stato compiuto l’ultimo atto diretto a
commettere il delitto. (co.4)

Secondo la giurisprudenza della Corte Costituzionale, il collegamento della competenza al locus commissi delicti integra il
requisito della naturalità del giudice ex art 25 Cost.

b) Quanto alle regole suppletive, bisogna rispettare la gerarchia interna ex art 9, di conseguenza:
 È prioritario il criterio del luogo (l’ultimo, se sono più di uno) in cui è avvenuta una parte dell’azione/omissione
(co.1 art 9);

 Se non è noto il luogo indicato ex co.1, la competenza appartiene successivamente al giudice della residenza, della
dimora o del domicilio dell’imputato (co.2);

 Se nemmeno in tal modo è possibile determinare la competenza, questa appartiene al giudice del luogo in cui ha
sede l’ufficio del P.M. che ha provveduto per primo a iscrivere la notizia di reato nel registro ex art 335.

La normativa esaminata si applica anche quando il reato è stato commesso in parte all’estero (art 10 co.3), mentre in caso di
reato commesso interamente all’estero sono indispensabili taluni adeguamenti.

ART 10  Competenza per i reati commessi all’estero.


“Se il reato è stato commesso interamente all’estero, la competenza è determinata successivamente dal luogo della
residenza, della dimora, del domicilio, dell’arresto/consegna dell’imputato.
In caso di pluralità di imputati, procede il giudice competente per il maggior numero di essi.” (co.1)

“Se il reato è stato commesso a danno nel cittadino e non sussistono i casi previsti dagli art 12 (“Casi di connessione”) e 371
co.2 lett.b (“Rapporti tra diversi uffici del P.M.”), la competenza è del tribunale o della corte di assise di Roma quando non è
possibile determinarla nei modi ex co.1”. (co.1 bis introdotto nel 2016).

“in tutti gli altri casi, se non è possibile determinare nei modi indicati nei co.1 e 1bis la competenza, questa appartiene al
giudice del luogo in cui ha sede l’ufficio del P.M. che ha provveduto per primo a iscrivere la notizia di reato nel registro ex art
335.” (co.2)

“Se il reato è stato commesso in parte all’estero, la competenza è determinata ex art 8 e 9” (co.3).

Numerose sono le deroghe alla regola del locus commissi delicti che traggono la loro legittimazione dall’art 210 disp.att., per cui:

o “continuano ad applicarsi le disposizioni di leggi o decreti che regolano la competenza per materia o per territorio in
deroga alla disciplina del codice (art 8), nonché le disposizioni che prevedono la competenza del giudice penale in ordine
a violazioni connesse a fatti costituenti reati”.

Altre deroghe sono riconducibili a leggi successive alla pubblicazione del codice.

In alcune situazioni è lo stesso codice che crea regole ad hoc.

1) Una prima deroga è quella risultante ex art 328 co.1bis e 1quater (“Giudice per le indagini preliminari”), che riguardano i
procedimenti relativi ai delitti ex co.3bis, 3quater e 3quinques art 51.

In tal caso, le funzioni di G.I.P., nonché di G.U.P, sono esercitate da un magistrato appartenente al tribunale del capoluogo
del distretto nel cui ambito ha sede il giudice competente.

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2) Particolare è la seconda deroga (art 11 “Competenza per i procedimenti riguardanti i magistrati”) che prevede un duplice
presupposto:
a) L’esistenza di un procedimento penale in cui un magistrato (secondo le S.U, un magistrato onorario il cui incarico sia
caratterizzato dalla stabilità) assuma la qualità di imputato o quella di persona offesa o danneggiata dal reato;

b) La competenza, in relazione al fatto per il quale si procede, di un ufficio giudiziario ricompreso nel distretto di corte di
appello in cui lo stesso magistrato esercita le proprie funzioni, o le esercitava al momento del fatto.

L’art 11bis (“Competenza per i procedimenti riguardanti i magistrati della Direzione nazionale antimafia”) è stato poi aggiunto
nel 1998, precisando che in presenza del presupposto sub.a), anche nei confronti del magistrato facente parte della
direzione nazionale antimafia la competenza si determina in base alla normativa esaminata.

C. Competenza per connessione

La connessione mira a neutralizzare il rischio di decisioni logicamente contrastanti (conflitto teorico di giudicati)

L’art 12 disciplina i “casi di connessione”, delineando l’autonomia di quello che è il criterio di competenza per connessione.

ART 12  Casi di connessione.


“Si ha connessione di procedimenti:
a) se il reato per cui si procede è stato commesso da più persone in concorso/cooperazione fra loro, o se più persone
con condotte indipendenti hanno determinato l’evento;

b) se una persona è imputata di più reati commessi con una sola azione/omissione (concorso formale), o con più
azioni/omissioni esecutive di un medesimo disegno criminoso (reato continuato);

c) se dei reati per cui si procede gli uni sono stati commessi per eseguire/occultare gli altri.” (co.1)

Anche qui, i criteri dettati per la determinazione del giudice competente non lasciano margini di discrezionalità:

 è prioritario il criterio del giudice superiore.

Se ci si muove sul versante della competenza per materia, l’art 15 (“Competenza per materia determinata dalla
connessione”) prevede che i procedimenti di competenza del tribunale risultano automaticamente attribuiti alla corte di
assise

Invece, muovendosi sul versante della competenza per territorio, ex art 16 (“Competenza per territorio determinata dalla
connessione”), prevale il giudice competente per il reato più grave (co.3), o in caso di pari gravità, quello competente per il
primo reato (co.1).

Criteri particolari sono dettati ex art 13 che disciplina la “Connessione di procedimenti di competenza di giudici ordinari e
speciali”.

ART 13  Connessione di procedimenti di competenza di giudici ordinari e speciali.


“Se alcuni procedimenti connessi appartengono alla competenza di un giudice ordinario e altri a quella della Corte
costituzionale, è competente per tutti quest’ultima.” (co.1)

“Fra reati comuni e reati militari, la connessione di procedimenti opera solo quando il reato comune è più grave di quello
militare, avendo riguardo ai criteri ex art 16 co.3.
In tal caso la competenza per tutti i reati è del giudice ordinario”. (co.2)

Infine, l’art 14 disciplina i “Limiti alla connessione nel caso di reati commessi da minorenni”, per cui:

 per i procedimenti relativi ad imputati che, al momento del fatto, erano minorenni e procedimenti relativi a imputati
maggiorenni, la connessione non opera.

Ne discende che:
 i procedimenti per reati commessi quando l’imputato era minorenne  competente è il tribunale per i minorenni;
 i procedimenti per reati commessi nella maggiore età  competente è il giudice non specializzato.

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6. Segue: la c.d. competenza funzionale.


È frequente il frazionamento dell’attività giurisdizionale di un medesimo procedimento in più scansioni aventi come protagonisti
varie figure di giudici, che si diversificano in ragione della funzione che svolgo.

A tali suddivisioni si ricollega il concetto di competenza funzionale, che verrebbe ad essere equiparata alla competenza per
materia.

Limitandosi a delineare il solo settore dei giudici ordinari, è da escludere gli organi della giustizia minorile.

Partendo dalla suddivisione per gradi, si distingue:

 Giudice di pace – tribunale ordinario – corte di assise  giudici di primo grado;


 Tribunale (in composizione monocratica) – corte di appello – corte d’assise d’appello  giudici di secondo grado.
 Corte di cassazione  ultimo grado, a cui è demandato il controllo di legittimità sulle decisioni assunte nei gradi
precedenti.

Circa l’articolazione in fasi, avremo:

 La fase anteriore al giudizio  si collocano le attività del G.I.P. e, successivamente, del G.U.P.;

 La fase del giudizio  di cui sono funzionalmente competenti il tribunale, la corte d’assise, la corte di appello, la corte
d’assise d’appello, la corte di cassazione;

 La fase dell’esecuzione.

In merito a quest’ultima fase, vanno distinte:


 Le funzioni del giudice di esecuzione,
 Le funzioni della magistratura di sorveglianza  al cui interno emerge l’ulteriore ripartizione tra:
 Le funzioni del magistrato di sorveglianza (giudice di 1° grado);
 E quelle del tribunale di sorveglianza (giudice sia di 1° che 2°
grado).

7. Le “attribuzioni” del tribunale. (Art 33bis-33quater)


Appurata la competenza per materia del tribunale a giudicare per un determinato reato, s’impone un ulteriore passaggio logico
che permetta di stabilire se sia richiesta la composizione monocratica o collegiale.

Si è solito parlare, dunque, dell’”attribuzione”.

È una sottocategoria coniata dal d.lgs.51/1998 che, nel dichiarato intento di “realizzare una più razionale distribuzione delle
competenze degli uffici giudiziari”, ha previsto l’istituzione del giudice unico di primo grado.

Sopprimendo l’ufficio della pretura e riconoscendo la possibilità per il tribunale di funzionare sia nella sua tradizionale
composizione collegiale, sia nell’inedita composizione monocratica, ha fatto seguito una valorizzazione della dimensione
monocratica, eletta a regola.

Ciò ha indotto a ridimensionare l’importanza attribuita al principio della collegialità, e a dilazionare lo spettro di reati prima
attribuiti al pretore.

Opportuna si è rilevata la correzione di rotta attuata con la l.479/1999, che ha dettato la nuova regolamentazione del
procedimento davanti al tribunale in composizione monocratica, nel cui contesto risulta importante l’indicazione di un
determinato numero di casi dove l’imputato può essere rinviato direttamente al giudizio dal P.M. (art 550 “Casi di citazione
diretta a giudizio”).

Inoltre, si è proceduto ad un nuovo riparto delle attribuzioni riservate alle due composizioni del tribunale.

Il d.lgs.51/1998 aveva introdotto i nuovi art 33bis e 33ter riguardanti le attribuzioni del tribunale in composizione
collegiale/monocratica.

L’intervento della l.479/99 ha comportato la riformulazione dei suddetti articoli, determinata dal proposito di ridimensionare le
attribuzioni originariamente previste per il giudice monocratico.
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Ciò si ricava dalla correzione apportata al criterio quantitativo, che attualmente consente di devolvere al tribunale collegiale:
 i delitti punti con la reclusione superiore nel massimo a 10 anni, anche nell’ipotesi del tentativo (ex art 33bis co.2).

L’inciso del “tentativo” è stato aggiunto col d.l. 82/2000, per evitare che una fattispecie delittuosa, devoluta al tribunale
“collegiale” nella forma consumata, fosse da attribuire al tribunale “monocratico”, se rimasta allo stadio nel tentativo.

 Il limite dei 10 anni va calcolato applicando le regole dettate dall’art 4 (art 33bis co.2)

Il criterio quantitativo va coordinato con quello qualitativo, che implica qualche deroga:

1) Per un verso, risultano sottratti al tribunale “collegiale” taluni delitti puniti con la reclusione superiore a 10 anni;

2) Per altro verso, gli vengono attribuiti reati che, in base al suddetto criterio quantitativo (min. 10 anni) dovrebbero essere
giudicati dal tribunale in composizione monocratici (dunque per pene la cui reclusione è indubbiamente inferiore a 10 anni).

1) Circa la prima deroga, vengono in rilievo i delitti previsti in materia di sostanze stupefacenti;

Fermo restando che su di essi giudica comunque il tribunale in composizione collegiale quando siano contestate le aggravanti
ex art 80 del t.u. sulle sostanze stupefacenti (art 33ter co.1)

2) Relativamente alla seconda situazione, riguardante i reati punti con la reclusione non superiore a 10 anni, bisogna far capo
all’elenco ex co.1 art 33bis, il quale attribuisce al tribunale in composizione collegiale i seguenti reati consumati/tentati:

a) Delitti commessi al fine di agevolare l’attività delle associazioni previste ex art 416bis c.p., delitti commessi per
finalità di terrorismo o di eversione dell’ordinamento costituzionale, delitti di illegale fabbricazione, messa in
vendita, introduzione nello Stato, cessione, detenzione, di esplosivi o più armi comuni da sparo, eccetto quelli
rientranti nella competenza della corte di assise;

b) Delitti dei pubblici ufficiali contro la Pubblica Amministrazione, esclusi quelli ex art 329 c.p. (rifiuto/ritardo di
obbedienza commesso da un militare o da un agente della forza pubblica), sottrazione o danneggiamento di cose
sottoposte a sequestro penale o amministrativo, etc;

c) Delitti di associazione per delinquere, associazione di tipo mafioso, scambio elettorale politico-mafioso, disastro
ferroviario causato da danneggiamento, usura, violenza sessuale, incesto, pornografia minorile, prostituzione
minorile, etc.;

e via dicendo fino alla lett.q.

Quanto alle attribuzioni del tribunale in composizione monocratica, vale la regola della complementarietà.

Oltre che sui delitti previsti ex d.P.R. 309/1990 sulle sostanze stupefacenti, purché non aggravati (art 33ter co.1), il tribunale
monocratico giudica, anche sui reati non attribuiti al tribunale “collegiale” dall’art 33bis o da altre disposizioni di legge (art
33ter).

 Risultano attribuiti al tribunale monocratico, ad esempio, i reati di guida in stato di ebbrezza e di guida in stato di
alterazione psico-fisica conseguente all’assunzione di sostanze stupefacenti.

Dunque, la disposizione in esame (art 33ter) lascia intendere, come anticipato all’inizio, che la regola generale per l’attribuzione
della cognizione è quella del Tribunale monocratico, salve specifiche ipotesi di reati attribuiti alla cognizione del Tribunale
collegiale (art 33bis).

Resta, ora, da stabilire l’incidenza di un eventuale vincolo connettivo.

ART 33quater  Effetti della connessione sulla composizione del giudice

“Se alcuni dei procedimenti connessi appartengono alla cognizione del tribunale in composizione collegiale ed altri a quella
del tribunale in composizione monocratica, si applicano le disposizioni relative al procedimento davanti al giudice collegiale,
al quale sono attribuiti tutti i procedimenti connessi”. (co.1)

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Sancendo l’applicabilità delle disposizioni relative al “procedimento” davanti al giudice collegiale, è evidente che la vis actractica
del collegio operi anche in rapporto alla fase anteriore al dibattimento (dunque, alle indagini preliminari), imponendo
l’osservanza delle disposizioni contenute nel Libro V (“Indagini preliminari e udienza preliminare”).

8. La disciplina della riunione e della separazione dei processi. Capo III (Art 17-19)
La connessone, in quanto criterio attributivo di competenza, produce i suoi effetti sin dall’inizio del “procedimento”.

Invece, la riunione (art 17) e la separazione (art 18) sono istituti che operano (non solo in primo grado), a partire dal momento
in cui, in seguito all’esercizio dell’azione penale, il procedimento  si è evoluto in processo.

A. Riunione dei processi.

La riunione dei processi (art 17) produce come risultato la trattazione congiunta di una molteplicità di processi a carico di
uno stesso imputato (ovviamente per reati diversi) o a carico di una pluralità di imputati, pendenti davanti a giudici diversi,
sezioni dello stesso ufficio giudiziario, preventivamente individuati in base ai normali criteri di competenza.

Nonostante la connessione miri alla neutralizzazione del conflitto teorico di giudicati, ciò risulta scongiurato solo a condizione
che i procedimenti confluiti presso lo stesso ufficio giudiziario siano successivamente riuniti in capo ad un unico giudice.

Inoltre, non è sempre consentita la riunione di processi connessi.

Dall’art 17 co.1, disciplinante la “Riunione di processi”, si ricava che per la riunione devono sussistere i seguenti presupposti:

1) La pendenza davanti al medesimo ufficio giudiziario dei processi da riunire (identità del giudice competente);

2) Uno sviluppo omogeneo di questi ultimi, che devono trovarsi “nello stesso grado e stato” (omogeneità oggettiva);

3) Una prognosi negativa circa un possibile ritardo nella definizione delle singole vicende processuali (esigenze di celerità);

4) La sussistenza di determinate correlazioni tra processi, tassativamente elencate ex lege:


 Connessione ex art 12,
 O collegamento ex art 371 co.2 lett.b (vincolo di occasionalità o consequenzialità).

Si deve ritenere che, ferma restando la presenza necessaria degli altri presupposti, qualora venga esclusa la sussistenza di un
pregiudizio, in termini di “ritardo nella definizione”, per i processi pendenti, la riunione costituisca un atto dovuto

Negli stessi casi e alle stesse condizioni risultati ex co.1, si procede alla riunione configurata nel co.1bis, per cui si stabilisce che:

o “Se alcuni dei processi pendono davanti al tribunale collegiale ed altri davanti al tribunale monocratico, la riunione è
disposta davanti al tribunale in comparazione collegiale” il quale si pronuncerà su tutte le regiudicande anche
nell’eventualità in cui esse siano oggetto di un successivo provvedimento di separazione (art 17 co.1bis).

B. Separazione di processi.

L’art 18, nel disciplinare la “Separazione di processi”, elenca una serie di ipotesi in presenza delle quali il giudice deve scindere
un processo cumulativo, tale sin dalla sua nascita (es. delitto addebitato a più soggetti che abbiano agito in concorso fra loro) o
in seguito alla riunione disposta ex art 17.

Si tratta di casi in cui alcuni dei processi riuniti appaiono pronti per la trattazione ed altri no, e le esigenze di celerità
prevalgono di fronte a quelle di un accertamento complessivo dei fatti.

Ciò potrebbe accadere con riferimento alla decisione conclusiva del dibattimento (co.1 lett.e) o dell’udienza preliminare (co.1
lett.a).

Si deve, inoltre, procedere alla separazione quando sia stata disposta la sospensione del procedimento (lett.b); o quando, in
seguito all’”incolpevole” assenza in sede dibattimentale di un imputato o del suo difensore, bisogna rinnovare a favore
dell’uno o dell’altro la citazione o l’avviso.

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Col d.l. 341/2000 è stata introdotta un ulteriore ipotesi di separazione, da disporre quando il processo abbia come
protagonisti uno o più imputati chiamati a rispondere di reati di elevata gravità (quelli ex art 407 co.2 lett.a), sempre che tali
imputati siano prossimi ad essere rimessi in libertà per scadenza dei termini massimi di custodia cautelare, data la mancanza
di altri titoli di detenzione.

Alla base della separazione, vi sono dunque esigenze di celerità che soccombono di fronte alle esigenze di accertamento.

La separazione è infatti esclusa quando il giudice ritenga che la riunione sia assolutamente necessaria per l’accertamento dei
fatti (art 18 co.1).

Ex co.2, la separazione dei processi può anche essere disposta sulla base di un accordo tra le parti, sempre che il giudice la
reputi utile sotto il profilo della speditezza.

ART 19  Provvedimenti sulla riunione e separazione


“La riunione e la separazione di processi sono disposte con ordinanza, anche d’ufficio, sentite le parti.” (co.1)

Per l’inosservanza degli art 17, 18 e 19 il codice non prevede alcuna sanzione di nullità, né alcun mezzo di impugnazione
cosicché, per il principio di tassatività in materia di nullità e di impugnazioni:

 le ordinanze in questione sono assolutamente inoppugnabili, anche nel caso di mancata audizione delle parti.

9. I procedimenti di verifica della giurisdizione e della competenza. Capo IV (Art 20-32)


La disciplina dettata in tema di controllo del difetto di giurisdizione e di competenza persegue un duplice obiettivo:

 Anticipare la risposta definitiva sulla giurisdizione e sulla competenza,


 Scongiurare i rischi di regressione, di procedimenti giunti in stadi avanzati.

In tal direzione gli art 20 (“Difetto di giurisdizione”) e 21 (“Incompetenza”) indicano i momenti in cui può essere sollevata la
relativa questione.

A. Difetto di giurisdizione.

Quanto al difetto di giurisdizione ex art 20, può essere rilevato, anche d’ufficio in ogni stato e grado del “procedimento” (co.1);
quindi a cominciare dalla fase delle indagini preliminari.

Se il difetto di giurisdizione è rilevato nel corso delle indagini preliminari, il giudice provvede con ordinanza e dispone la
restituzione degli atti al P.M., fermo restando che la sua ordinanza non risolve definitivamente la questione.

Dopo la chiusura delle indagini preliminari e in ogni stato e grado del processo, il giudice pronuncia sentenza e ordina,
eccettuata l’ipotesi di un difetto assoluto di giurisdizione, che gli atti vengano trasmessi all’autorità competente (co.2)

B. Incompetenza.

Quanto all’incompetenza, occorre preliminarmente distinguere tra l’incompetenza:

 Per materia  più grave, poiché si traduce nell’inosservanza delle regole incentrate sulla capacità tecnico
professionale del giudice.

Può essere rilevata anche d’ufficio, in ogni stato e grado del “processo” (non prima che sia esercitata l’azione penale). (co.1)

 e quella per territorio o per connessione.

Deve essere rilevata o eccepita, a pena di decadenza:


 prima della conclusione dell’udienza preliminare,
 o se questa manchi o se l’eccezione viene respinta in sede di udienza preliminare, entro il termine ex art 491 co.1
(“Questioni preliminari”) per la trattazione delle questioni preliminari. (co.2)

L’art 491 co.1  “le questioni concernenti la competenza per territorio/connessione sono precluse se non sono proposte
subito dopo compiuto per la prima volta l’accertamento della costituzione delle parti e sono decise immediatamente”

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La riforma Orlando ha aggiunto alla fine dell’art 438 il co.6bis (“Presupposti del giudizio abbreviato”), il quale dispone che, in
caso di giudizio abbreviato richiesto in sede di udienza preliminare, risulta preclusa “ogni questione sulla competenza
territoriale del giudice”.

Due, sono le situazioni che comportano una deroga all’ordinario regime dell’incompetenza per materia:

1) la prima ricorre quando il giudice conosce di un reato che appartiene alla cognizione di un giudice di competenza
inferiore  incompetenza per eccesso, da rilevare d’ufficio o eccepita, a pena di decadenza, entro il termine ex co.1
art 491 (art 23 co.1 “Incompetenza dichiarata nel dibattimento di primo grado”).

2) La seconda deroga concerne l’ipotesi dell’incompetenza per materia derivante da connessione, che in base all’art 23
co.3, deve essere rilevata o eccepita, a pena di decadenza, entro gli stessi termini stabiliti per l’incompetenza per
territorio.

Relativamente all’incidenza della connessione sulla competenza per materia, il disposto dell’art 21 co.3 debba essere riferito
alla situazione in cui, ritenuto erroneamente sussistente un vincolo connettivo, la corte d’assise, come giudice superiore,
giudichi anche in merito ad un reato di competenza del tribunale.

La contraria ipotesi dell’errore che si traduce in un difetto di competenza, dev’essere, invece, ricondotta alla previsione ex art
21 co.1-

Gli artt 22-25 definiscono la forma e gli effetti del provvedimento con cui viene dichiarata l’incompetenza, in rapporto ai vari
stati e gradi del processo.

Più precisamente:

a) Nel corso delle indagini preliminari  il giudice che riconosca la propria incompetenza pronuncia ordinanza e dispone
la restituzione degli atti al P.M. ex art 22 co.1 e 2;

b) Dopo la chiusura delle indagini preliminari e in sede di dibattimento di primo grado  il giudice dichiara con sentenza
la propria incompetenza e ordina la trasmissione degli atti al P.M. presso il giudice competente (art 22 co.3 e 23 co.1);

c) In grado di appello  se il giudice rileva che su un reato di competenza della corte d’assise ha giudicato il tribunale, o
che su un reato di competenza del tribunale ha giudicato il giudice di pace, pronuncia sentenza di annullamento e
ordina la trasmissione degli atti al P.M. presso il giudice di primo grado (art 24 co.1).

Nelle ipotesi inverse, il giudice di appello, salvo che si tratti di decisione inappellabile, pronuncia invece nel merito, anche
quando l’eccezione di incompetenza sia stata riproposta con i motivi di appello (art 24 co.2).

Con riferimento all’incompetenza per territorio o per connessione, è prevista la pronuncia di una sentenza di annullamento
da parte del giudice di appello e la conseguente trasmissione degli atti, rispettivamente, al P.M. presso il giudice di primo
grado e direttamente a quest’ultimo.

È indispensabile che l’incompetenza per territorio o per connessione, dopo essere stata eccepita in primo grado entro i
termini ex art 21 co.2 e 3, sia stata denunciata con i motivi di appello (art 24 co.1 “Decisioni del giudice di appello sulla
competenza”), altrimenti il giudice di appello pronuncia nel merito.

d) Nel giudizio davanti alla Corte di cassazione  la corte è tenuta a dichiarare, anche d’ufficio, l’incompetenza per
materia derivante dell’avere il tribunale giudicato un reato di competenza della corte d’assise; può essere dichiarata
anche l’incompetenza per territorio o per connessione, purché la relativa eccezione sia stata ulteriormente riproposta
nei motivi del ricorso per cassazione.

Da notare che, la decisione della Corte di cassazione sulla giurisdizione/incompetenza è vincolante nel corso del processo;

può essere superata nella sola ipotesi in cui risultino nuovi fatti che implichino la modificazione della giurisdizione o la
competenza del giudice superiore (art 25 “Effetti delle decisioni della corte di cassazione sulla giurisdizione e competenza”).

Le ultime due disposizioni, quali l’art 26 e 27 sono riconducibili al principio della conservazione degli atti assunti dal giudice
competente.

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ART 26  Prove acquisite dal giudice incompetente.


“L’inosservanza delle norme sulla competenza non produce l’inefficacia delle prove già acquisite.” (co.1)

“Le dichiarazioni rese al giudice incompetente per materia, se ripetibili, sono utilizzabili solo nell’udienza preliminare e per le
contestazioni ex art 500 e 503” (co.2)

ART 27  Misure cautelari disposte dal giudice incompetente.


“Le misure cautelari (reali e personali) disposte dal giudice che, contestualmente o successivamente, si dichiara incompetente
per qualsiasi causa cessano di avere efficacia se, entro 20 giorni dalla ordinanza di trasmissione degli atti, il giudice
competente non provvede ex art 292, 317 e 321.” (co.1)

Vanno tenuti presenti anche gli art 28-32 rientranti nel Capo V dedicato ai “conflitti di giurisdizione e di competenza”, che si
occupano dei conflitti tra giudici e ne dettano il superamento.

Il conflitto (art 28 co.1) è la situazione che si determina quando, in qualsiasi stato e grado del processo, due o più giudici
contemporaneamente prendono (conflitto positivo) o rifiutando di prendere (conflitto negativo) cognizione del medesimo
fatto attribuito alla stessa persona.

 Conflitto di giurisdizione  quando il contrasto intercorre tra uno o più giudici ordinari e uno o più giudici speciali.
 Conflitto di competenza  quando ad essere coinvolti sono due o più giudici ordinari.

È esclusa (ex art 28 co.2 “Casi di conflitto”) la possibilità di un conflitto tra il giudice dell’udienza preliminare e quello del
dibattimento, in quanto prevale sempre la decisione di quest’ultimo.

Essendo impossibile stabilire preventivamente un elenco esaustivo delle varie ipotesi di conflitto, il legislatore ha fatto ricorso
alla categoria dei conflitti “analoghi” (art 28 co.2), i quali, pur strutturandosi diversamente da quelli ex co.1 art 28, sono
sottoposti alla stessa regolamentazione.

Qualora il contrasto sia tra il G.U.P. e il giudice del dibattimento, prevale la decisione di quest’ultimo.

Non rientra nella categoria dei conflitti “analoghi” ex co.2, il contrasto che ha come protagonisti il giudice ed il P.M.

Questo perché, i conflitti regolano l’esercizio della funzione giurisdizionale e non possono riguardare un soggetto (P.M) che
ha la funzione di parte, anche se pubblica.

D’altro canto, i contrasti tra i diversi uffici del P.M. sono disciplinati ex art 54, 54bis e 54ter.

Anche se, di regola, il conflitto può nascere in qualsiasi stato e grado del processo, si è escluso che nel corso delle indagini
preliminari possa essere proposto conflitto positivo per ragione di competenza territoriale determinata dalla connessione (art
28 co.3).

Con tale disposizione, che non preclude la proposizione di conflitti fondati su altre ragioni, si è voluto che il P.M. presso il giudice
competente per il reato meno grave sia libero di svolgere le indagini concernenti tale reato, oppure, di trasmettere gli atti
all’ufficio del P.M. presso il giudice competente ex art 16.

Ad originare il procedimento di conflitto è una “denuncia” di parte o una “rilevazione” d’ufficio del giudice; l’elevazione del
conflitto non ha effetti sospensivi sul processo in corso.

Gli art 30-32 scandiscono lo sviluppo del procedimento incidentale, indicando l’organo cui spetta la risoluzione del conflitto
(Corte di cassazione) e delineando un meccanismo di comunicazione, notificazione e trasmissione di copie di atti tale da
garantire la partecipazione al procedimento di tutti i soggetti interessati ai processi coinvolti nel conflitto.

La corte di cassazione decide con sentenza in camera di consiglio, secondo le procedure ex art 127 (art 32 co.1).

Il conflitto cessa (art 29) per effetto dell’iniziativa di uno dei giudici che dichiari, anche d’ufficio, la propria competenza (in
caso di conflitto negativo) o la propria incompetenza (in caso di conflitto positivo).

Se ciò non si verifica, bisogna attendere la sentenza della corte di cassazione, che produce gli effetti ex art 25:
 È vincolante, tranne quando, in seguito a nuovi fatti che comportino una diversa definizione giuridica, emerga la
modificazione della giurisdizione o la competenza di un giudice superiore.
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Quanto agli atti compiuti dal giudice risultato incompetente, bisogna rifarsi al disposto ex art 26 e 27, con un unico
adeguamento:

 Relativamente ai provvedimenti cautelari, il termine di 20 giorni ex art 27 decorre dalla comunicazione della sentenza
della corte al giudice che ha disposto la misura cautelare.

10. Il controllo sul corretto riparto di ”attribuzioni” fra tribunale “monocratico/collegiale”. Capo VI (Art
33quinques-33nonies)
In virtù del fatto che l’inosservanza delle disposizioni relative al riparto di attribuzioni fra le due composizioni del tribunale non
è classificabile come un problema di incompetenza, è stato necessario creare una specifica normativa che trovato la sua
collocazione nel Capo VI-bis (introdotto col d.lgs.51/1998).

ART 33quinques  Inosservanza delle disposizioni sulla composizione collegiale o monocratica del tribunale.
“L’inosservanza delle disposizioni relative all’attribuzione dei reati alla cognizione del tribunale in composizione
collegiale/monocratica e delle disposizioni processuali collegate è rilevata o eccepita, a pena di decadenza, prima della
conclusione dell’udienza preliminare o, se manca, entro il termine previsto per la trattazione delle questioni preliminari ex art
491 co.1.” (co.1)

La relativa regolamentazione sembra ricalcare quella inerente all’incompetenza per territorio e connessione.

La diversificazione emerge dagli articoli seguenti (33sexies ss.), i quali specificano, a seconda della fase e del grado del processo,
la forma del provvedimento giudiziale con cui viene dichiarata l’erronea attribuzione del reato e gli effetti di tale dichiarazione.

 In sede di udienza preliminare (art 33sexies) l’ipotesi è quella in cui il giudice ritenga che si debba prescindere da tal
udienza, in quanto il reato rientra tra quelli rispetto ai quali è prevista, ex art 550, la citazione diretta a giudizio da
parte del P.M., affinché il medesimo provveda ad emettere il decreto di citazione a giudizio contemplato ex art 552 (art
33sexies co.1).

Dai rinvii operati ex co.2 art 33sexies consegue che la lettura dell’ordinanza equivale a notificazione per le parti presenti, e che,
per quanto concerne la formazione del fascicolo per il dibattimento, la trasmissione degli atti al giudice dibattimentale e
l’eventuale assunzione di atti urgenti, vale il disposto degli art 553 e 554.

Qualora l’inosservanza delle regole sull’attribuzione del reato venga rilevata nel corso del dibattimento di primo grado (ex
art 33septies), il giudice procede diversamente a seconda che il dibattimento sia stato instaurato in seguito:

 Ad udienza preliminare  è sufficiente trasmettere gli atti, con ordinanza, al giudice competente e decidere sul
reato contestato.

 A decreto di citazione diretta a giudizio  essendo stato l’imputato indebitamente privato dell’udienza preliminare,
l’error in procedendo può essere corretto solo con regressione del processo; deve essere disposta, con ordinanza, la
trasmissione degli atti al P.M., per consentirgli di esercitare l’azione penale tramite la richiesta di rinvio a giudizio ex
art 416.

In entrambe le ipotesi la lettura dell’ordinanza sostituisce la citazione e gli avvisi per tutti coloro che sono o devono
considerarsi presenti (art 33septies “Inosservanza dichiarata nel dibattimento di primo grado”)

La questione relativa alla violazione delle regole sulle attribuzioni può essere affrontata anche nel giudizio di appello e in quello
di cassazione (ex art 33ocites).

Dall’art 33octies (“inosservanza dichiarata dal giudice di appello o dalla corte di cassazione”) si desume che:

a) Quanto al giudice di appello  qualora ritenga che dovesse giudicare il tribunale in composizione collegiale, pronuncia
sentenza di annullamento e ordina la trasmissione degli atti al P.M. presso il giudice di primo grado, purché l’erronea
attribuzione sia stata tempestivamente eccepita ex art 33quinques e denunciata nei motivi di appello.

Il giudice di appello pronuncia, invece, nel merito (sempre se sia sentenza appellabile), qualora ritenga che il reato
appartenga alla cognizione del tribunale in composizione monocratica.

b) Quanto alla corte di cassazione  è opportuno distinguere tra attribuzione viziata per difetto o per eccesso.
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 Attribuzione viziata per difetto  la corte procede come il giudice di appello (sentenza di annullamento e trasmissione
atti al P.M.) purché il vizio sia stato tempestivamente eccepito in primo grado e la relativa eccezione proposta nei motivi
del ricorso per cassazione;

 Attribuzione viziata per eccesso  vale la stessa regola, purché il ricorso riguardi una sentenza inappellabile o si tratti di
un ricorso per saltumi ex art 569 co.1.

Al di fuori di tali ipotesi, l’errore di attribuzione risulta irrilevante.

I parallelismi dettati per l’incompetenza territoriale riemergono anche con riferimento alle prove acquisite dal giudice che abbia
proceduto in seguito ad un’erronea applicazione delle disposizioni sulla composizione collegiale o monocratica del tribunale.

In conformità all’art 26, l’art 33nonies disciplina la “validità delle prove acquisite”.

ART 33nonies  Validità delle prove acquisite.


“L’inosservanza delle disposizioni sulla composizione collegiale o monocratica del tribunale non determina l’invalidità degli
atti del procedimento, né l’inutilizzabilità delle prove già acquisite.” (co.1)

Non viene inficiata la validità degli atti compiuti fermo restando:

 quanto è disposto in senso contrario ex art 33septies e 33octies,


 e sempre che non si tratti di atti affetti da vizi indipendenti dall’inosservanza delle norme sulla composizione del
tribunale.

Nell’ipotesi di violazione dei criteri di ripartizione (territoriale tra sede principale e relative sezioni distaccate o tra diverse
sezioni distaccate), dei procedimenti nei quali il tribunale giudica in composizione monocratica si occupa l’art 163bis disp.att.

In primis, la violazione può essere rilevata fino alla dichiarazione di apertura del dibattimento di primo grado.

In secundis, il giudice che la consideri sussistente rimette gli atti al presidente del tribunale, affinché quest’ultimo si pronunci
in proposito con un decreto non motivato e non soggetto ad impugnazione.

Ad ogni modo, tale violazione viene considerata una questione di corretta amministrazione della giurisdizione.

11. Le cause personali di estromissione del giudice: incompatibilità, astensione e ricusazione. Capo VII
(Art 34-44)
Nel Capo VII (art 34-44) del Libro I (“Incompatibilità, astensione e ricusazione del giudice”), sono regolate le ipotesi in cui:

 Il giudice ha l‘obbligo di non esercitare la sua funziona giurisdizionale  Astensione;


 Le parti hanno diritto di chiederne l’estromissione  Ricusazione.

Per quanto riguarda le cause d’incompatibilità, esse sono previste:

 negli art 34 (“Incompatibilità determinata da atti compiuti nel procedimento”) e 35 (“Incompatibilità per ragioni di
parentela, affinità o coniugio”) del codice;
 nonché negli art 18 e 19 ord.giud., ma nonostante la configurazione autonoma, risultano comprese nella stessa
disciplina dell’art 36 co.1 lett.g (“Astensione”).

Questo assorbimento operato nella lett.g co.1 art 36 si concilia con la posizione della giurisprudenza secondo cui, l’esistenza
di una situazione di incompatibilità costituisce esclusivamente un motivo di ricusazione, che la parte interessata deve far
valere tempestivamente (art 38 “Termini e forme per la dichiarazione di ricusazione”).

Come abbiamo detto prima, le cause d’incompatibilità sono stabilite:

 in parte dall’ordinamento giudiziario (art 18 e 19)  attinenti alla costituzione dell’organo giudicante e prefigurano
alcune condizioni dirette ad assicurare che la persona chiamata ad esercitare la funzione giurisdizionale sia e appaia
imparziale
 e in parte, dal codice di rito (art 34 e 35).

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Circa gli art del codice (34 e 35), bisogna distinguere tra:
 l’incompatibilità per ragioni di parentela, affinità o coniugio  art 35
 e l’incompatibilità determinata da atti compiuti nel procedimento  art 34

A. Incompatibilità.

L’art 34 (“Incompatibilità determinata da atti compiuti nel procedimento”) contempla 4 diversi gruppi di situazioni:

a) il giudice che ha pronunciato o concorso a pronunciare sentenza in un grado del procedimento non può:
- esercitare funzioni di giudice negli altri gradi,
- né partecipare al giudizio di rinvio dopo l’annullamento da parte della Corte di cassazione o al giudizio per
revisione (co.1);

b) ex co.2 (il cui contenuto risulta parzialmente superato dal co.2bis), non può partecipare al “giudizio” (riferito sia al giudizio
abbreviato, sia all’udienza preliminare):
- né il giudice che ha pronunciato il provvedimento conclusivo dell’udienza preliminare o ha disposto il giudizio
immediato o ha emesso decreto penale di condanna,
- né quello che ha deciso sull’impugnazione avverso la sentenza di non luogo a procedere, pronunciata dal giudice
dell’udienza preliminare.

La portata di tal previsione normativa risulta ampliata in seguito ad una serie di sentenze “additive” della Corte
costituzionale, la quale ha censurato più volte l’art 34 co.2, ritenendo ingiustificatamente escluse alcune situazioni idonee a
compromettere l’imparzialità del giudice.

Si deve precisare, a tal proposito, che si esclude una menomazione dell’imparzialità del giudice che adotti, nell’ambito di una
medesima fase processuale, decisioni preordinate al proprio giudizio o incidentali rispetto ad esso;

 ad esempio, come nell’ipotesi della sentenza emessa, al termine del giudizio direttissimo, dal giudice che, ex art 449 co.1
(“Casi e modi del giudizio direttissimo”), si sia preliminarmente pronunciato sulla richiesta cautelare formulata dal P.M.

c) il giudice che in un determinato procedimento ha esercitato le funzioni di G.I.P. non può:


- in quello stesso procedimento emettere il decreto penale di condanna,
- né partecipare al giudizio.

Inoltre, è incompatibile alla funzione di G.U.P. (co.2bis).

Questa disposizione (co.2bis) è stata introdotta col d.lgs.51/1998, ed è stata successivamente precisata dal co.2ter (aggiunto
nel 1999).

Il co.2ter, in deroga al comma precedente, esclude la ricorrenza di una situazione di incompatibilità quando il G.I.P. si sia
limitato ad adottare, nell’ambito dello stesso procedimento, taluno dei seguenti provvedimenti (inidonei a determinare una
situazione di pregiudizio):

a) il provvedimento con cui si autorizza il trasferimento in un luogo esterno di cura dell’indagato sottoposto a custodia
cautelare in carcere e quello con cui si autorizza il medesimo ad essere visitato da un sanitario di fiducia;

b) I provvedimenti relativi ai permessi di colloquio, alla corrispondenza telefonica e al visto di controllo sulla
corrispondenza, concernenti l’indagato sottoposto a custodia cautelare in carcere;

c) Il provvedimento con cui si accoglie/rigetta la richiesta di un permesso di uscita dal carcere, in presenza dell’imminente
pericolo di vita di un familiare o del convivente della persona sottoposta alle indagini, o per altri eventi di gravità inerenti
alla sua famiglia;

d) Il provvedimento con cui una parte/difensore vengono restituiti in un termine stabilito a pena di decadenza;

e) Il provvedimento con cui viene dichiarata la latitanza dell’indagato.

Per concludere l’elenco, il d.l.82/2000 ha inserito nell’art 34 il nuovo co.2quater, il quale prende in considerazione l’ipotesi in
cui il giudice:
o “abbia provveduto all’assunzione dell’incidente probatorio o comunque adottato uno dei provvedimenti ex Titolo VII
(“Incidente probatorio”) Libro V”.

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Bisogna riconoscere che il disposto di cui all’art 34 co.2bis risulta innovativo sotto due diversi profili:
 Da un lato, sancendo un’incondizionata incompatibilità al giudizio, assorbe e supera:
- sia la parte del co.2 art 34 relativa al giudice che “ha disposto il giudizio immediato o ha emesso il decreto
penale di condanna”,
- sia quell’ampio ventaglio delle sentenze della Corte costituzionale che hanno ricollegato l’incompatibilità al
giudizio del G.I.P. e specifiche situazioni “pregiudicanti”;

 Dall’altro, escludendo che il G.I.P. possa “tenere l’udienza preliminare”, capovolge l’originaria impostazione.

Bisogna precisare che, per una più completa valutazione, nello stesso momento in cui è stata accolta nel codice di rito la
regola dell’alternatività delle funzioni di G.I.P. e di G.U.P., sono state introdotte nel codice stesso (ad opera della l.479/99),
alcune disposizioni, le quali potrebbero riproporre il problema a cui si è inteso ovviare perfezionando il catalogo delle
incompatibilità.

d) Non può, infine, esercitare l’ufficio di giudice in un determinato procedimento chi, in quello stesso procedimento, ha
esercitato funzioni di P.M. o ha svolto atti di P.G o un altro ruolo idoneo a comprometterne l’imparzialità.

Per la stessa ragione, è incompatibile all’ufficio di giudice chi ha proposto la notizia di reato e chi ha deliberato o ha concorso a
deliberare l’autorizzazione a procedere (art 34 co.3).

Riassumendo, la norma mira a garantire l’imparzialità del giudice. Quando questi (persona fisica) in altra fase del
procedimento si è già pronunciato sul merito dell’accusa (es. in primo grado), non può partecipare al giudizio in fasi
successive (es. in appello), dovendo essere sostituito da un altro magistrato.

La norma è stata integrata ed ampliata nella sua operatività da numerose pronunce della Corte costituzionale a
dimostrazione dell’attenzione che l’ordinamento ha per la “terzietà” del giudice.

L’incompatibilità non opera nel caso in cui il giudice abbia adottato provvedimenti di scarsa rilevanza e non implicanti una
valutazione di merito dell’imputazione.

La violazione delle disposizioni sull’incompatibilità non causa nullità, ma si risolve in ipotesi di astensione o di ricusazione.

B. Astensione e Ricusazione.

Circa le cause di astensione e di ricusazione, esse sono disciplinate unitariamente nella disposizione relativa all’astensione (art
36).

Non si può parlare, però, di una totale coincidenza.

Infatti:
 Non costituisce motivo di ricusazione  le ipotesi, non richiamate nell’art 37 (“Ricusazione”) in cui sussistono
“gravi ragioni di convenienza” (art 36 lett.h);

 Non costituisce motivo di astensione  la manifestazione indebita da parte del giudice, prima che sia pronunciata
sentenza, del proprio convincimento sui fatti oggetto dell’imputazione, essendo tale ipotesi contemplata solo
nell’art 37

Secondo le S.U., si può parlare di indebita manifestazione del convincimento giudiziale là dove ci si trovi di fronte ad una
anticipazione sul merito dell’imputazione; sempre che tal anticipazione debba ritenersi gratuita, cioè priva di un qualsiasi
nesso funzionale con l’atto che ha occasionato la presa di posizione del giudice.

Per il resto, tutti i motivi sono comuni.

ART 39  Concorso di astensione e di ricusazione.


“La dichiarazione di ricusazione si considera come non proposta quando il giudice, anche successivamente ad essa, dichiara di
astenersi e l’astensione è accolta.” (co.1)

Il catalogo risultante dagli art 36 e 37 è tassativo, ed i casi considerati riguardano i rapporti del giudice con le parti o con la
situazione dedotta in giudizio.
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Oltre che nelle ipotesi prima richiamate, ha obbligo di astenersi (e può essere ricusato dalle parti) il giudice che abbia interesse
nel procedimento.

È ulteriormente previsto l’obbligo di astensione (e parallela ricusabilità del giudice) quando alcuno dei prossimi congiunti del
giudice o del coniuge è offeso, danneggiato dal reato o parte privata (ex art 36 lett. e,f,g).

Dal punto di vista del procedimento, la divaricazione tra astensione e ricusazione è marcata:

 Astensione  prevista una procedura semplificata ex art 36 co.3

“La dichiarazione di astensione è presentata al presidente della corte/tribunale che decide con decreto senza formalità di
procedura”.

 Ricusazione  più complessa, presentando un impianto normativo che persegue un triplice obiettivo:
1) Accentuare il carattere giudiziale della procedura incidentale;
2) Escludere un’automatica sospensione dell’attività processuale in seguito alla semplice presentazione della
domanda di ricusazione;
3) Assicurare criteri oggettivi per l’individuazione del giudice che sostituisce quello ricusato.

Il procedimento di ricusazione inizia con:


 La presentazione della dichiarazione nella cancelleria del giudice competente e con il deposito di una copia di
questa nella cancelleria del giudice ricusato.

Da tale presentazione, scatta il divieto per il giudice ricusato di pronunciare sentenza finché non sia intervenuta l’ordinanza
d’inammissibilità/rigetto della dichiarazione stessa (art 37 co.2).

L’art 38 delinea i “termini e forme per la dichiarazione di ricusazione”; entrambi sanciti a pena d’inammissibilità (art 41).

L’art 40 disciplina la “competenza a decidere sulla ricusazione”, indicando i giudici competenti:

 La corte di appello  per la ricusazione di un giudice del tribunale, corte di assise o corte di assise d’appello;
 Una sezione diversa della stessa corte a cui appartiene il giudice ricusato  per la ricusazione di un giudice della corte
d’appello o di cassazione.

E preclude, ex co.3 art 40, la ricusazione dei giudici chiamati a decidere sulla ricusazione.

Nell’intento di scoraggiare un uso dilatorio dell’istituto, è stata potenziata la funzione di filtro della dichiarazione
d’inammissibilità:

La corte, competente a decidere sulla ricusazione, pronuncia ordinanza d’inammissibilità:


- Per mancanza di legittimazione soggettiva,
- Per inosservanza di forme e termini,
- Per manifesta infondatezza dei motivi addotti.

La decisione consegue ad una procedura de plano (senza difficoltà alcuna) senza avvisi alle parti e nell’assenza di
contraddittorio.

È previsto, però, un controllo successivo, realizzabile mediate ricorso per cassazione, al quale devono ritenersi legittimate
tutte le parti (la corte di cassazione deciderà in camera di consiglio con procedimento semplificato ex art 611).

Superata la fase dell’ammissibilità, la corte decide, in camera di consiglio, sul merito della ricusazione con le forme ex art 127,
dopo aver assunto, se necessario, le opportune informazioni (art 41 co.3).

La stessa corte può anche disporre, con ordinanza, che il giudice ricusato sospenda temporaneamente ogni attività processuale
o si limiti al compimento di atti urgenti.

Contro tale ordinanza è ammissibile ricorso per cassazione (che deciderà con le modalità di procedura ex art 611 per i
procedimenti in camera di consiglio).

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Quanto agli effetti della ricusazione, la semplice presentazione di tale dichiarazione non comporta per il giudice ricusato:

 alcune limitazione di poteri nello svolgimento dei compiti istituzionali,


 né l’insorgere di un obbligo di astensione.

L’unico divieto imposto ex lege a carico del giudice ricusato è quello ex art 37 co.2, nel senso che:
 non gli è consentito “pronunciare, né concorrere a pronunciare, sentenza finché non sia intervenuta l’ordinanza che
dichiara inammissibile o rigetta la ricusazione”.

Circa la portata di tal divieto, le S.U. hanno così statuito:


 qualora venga assunta la decisione da parte del giudice nei confronti del quale è stata formulata la dichiarazione di
ricusazione, tal decisione conserva la sua validità qualora la richiesta venga poi dichiarata inammissibile/infondata
dall’organo competente ex art 40 co.1;

 se, invece, la richiesta di ricusazione viene accolta, il provvedimento emesso in violazione di quanto stabilito ex co.2
art 37 deve ritenersi viziato da nullità assoluta.

Al momento di accoglimento della dichiarazione di astensione/ricusazione si ricollega:

 per un verso, il poter del giudice decidente di disporre la conservazione di efficacia degli atti compiuti dal giudice
astenutosi o ricusato (art 42 co.2),
 per altro verso, un effetto automatico di divieto assoluto di compiere qualsiasi atto del procedimento (art 42 co.1).

Secondo le S.U., se nel provvedimento che accoglie la richiesta di astensione/ricusazione manchi espressa dichiarazione di
conservazione di efficacia, gli atti precedentemente compiuti dal giudice astenutosi/ricusato devono considerarsi inefficaci.

Ex art 43 (“Sostituzione del giudice astenuto o ricusato”), alla pronuncia di accoglimento consegue la sostituzione del giudice
astenutosi/ricusato

 “con altro magistrato dello stesso ufficio designato secondo le leggi di ord.giud.”
 o, se non possibile, l’investitura del “giudice ugualmente competente per materia determinato ex art 11”.

Tutte le ordinanze che si pronunciano sul merito, emesse dal giudice competente a decidere sulla ricusazione, sono
immediatamente eseguibili, in virtù del rinvio all’art 127 operato dal co.3 art 41.

L’art 127 co.8 stabilisce una deroga espressa al principio dell’effetto sospensivo dell’impugnazione (art 588) per tutti i
provvedimenti emessi in camera di consiglio, a meno che il giudice non disponga diversamente.

Invece, per l’ordinanza che sanziona l’inammissibilità della dichiarazione di ricusazione vige una regola diversa;
Il mancato richiamo dell’art 127 in tale ipotesi comporta l’inapplicabilità della deroga al principio dell’effetto sospensivo
dell’impugnazione previsto ex art 588 co.1.

L’art 44 (“Sanzioni in caso di inammissibilità o di rigetto della dichiarazione di ricusazione”) prevede la condanna a pena
pecuniaria come facoltativa (“può essere condannata”).

Soggetto passivo della condanna può essere solo la parte privata che ha proposto la dichiarazione di ricusazione.

È da escludere, inoltre, che la pronuncia ex art 44 abbia una qualsiasi rilevanza ai fini dell’eventuale azione civile o penale
esercitata per i fatti oggetto del giudizio di ricusazione.

12. La rimessione del processo. Capo VIII (Art 45-49)


Il Capo VIII (art 45-49) disciplina la “rimessione del processo”, ossia il suo spostamento da una sede ad un’altra in presenza di
turbative ambientali che possono compromettere il suo regolar svolgimento.

Anche qui, si vuole salvaguardare l’imparzialità di chi giudica; ma non è messa in discussione l’imparzialità del magistrato
(persona fisica), ma quella di organo giudicante nel suo complesso.

Sennonché, la rimessione interferisce col principio del giudice naturale ex art 25 co.1 Cost; per tal motivo devono essere
tassativamente disciplinate dal legislatore le situazioni idonee a determinare lo spostamento del processo.
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A suo tempo, il legislatore delegato ha disciplinato i casi di rimessione in termini tali da circoscrivere rigorosamente la
discrezionalità dell’organo (corte di cassazione) cui è demandata la decisione circa l’eventuale sottrazione del processo dal
giudice naturale.

In base all’originaria versione dell’art 45 (ossia, precedente al 2002), la translatio iudii era consentita quando la sicurezza o
l’incolumità pubblica, o “la libertà di determinazione delle persone” partecipanti al processo, risultassero pregiudicate in
conseguenza di “gravi situazioni locali” non altrimenti eliminabili;

dunque, si ammetteva lo spostamento del processo “per gravi e oggettivi motivi di ordine pubblico o per legittimo
sospetto”.

In un secondo momento avrebbe raccolto consensi la diversa tesi secondo cui, nel formulare l’art 45, il legislatore delegato
avrebbe indebitamente escluso dai “casi di rimessione” l’ipotesi del “legittimo sospetto”, determinando una lacuna da colmare
per garantire una più completa copertura del principio dell’imparzialità del giudice.

Questa impostazione si è tradotta in una proposta di legge, sfociata nella l.248/2002 (c.d. Legge Cirami) che ha avuto come
obiettivo quello di ampliare i casi di rimessione ex art 45 sostituendolo.

ART 45  Casi di rimessione


“In ogni stato e grado del processo di merito, quando gravi situazioni locali, da turbare lo svolgimento del processo e non
altrimenti eliminabili:
- pregiudicano la libera determinazione delle persone che partecipano al processo
- o pregiudicano la sicurezza e l’incolumità pubblica,
- o determinano motivi di legittimo sospetto,

la Corte di cassazione, su richiesta motivata:


- del procuratore generale presso la Corte di appello
- o del P.M. presso il giudice che procede
- o dell’imputato,

rimette il processo ad altro giudice, designato ex art 11.” (co.1)

La nuova formulazione dell’art 45, ad opera della Legge Cirami, prevede la reintroduzione, tra i casi di remissione del processo,
del c.d. legittimo sospetto.

Non è, pertanto, legittimata la parte civile, poiché potrà neutralizzare le implicazioni negative dell’anomala situazione
ambientale esercitando l’azione riparatoria in sede civile.

ART 46  Richiesta di rimessione.


“La richiesta è depositata, con i documenti che vi si riferiscono, nella cancelleria del giudice ed è notificata entro 7 giorni a
cura del richiedente alle altre parti.” (co.1)

“La richiesta dell’imputato è sottoscritta da lui personalmente o da un suo procuratore speciale.” (co.2)

“Il giudice trasmette immediatamente alla Corte di cassazione la richiesta con i documenti allegati e con eventuali
osservazioni.” (co.3)

“L’inosservanza delle forme e dei termini previsti ex co.1 e 2 è causa di inammissibilità della richiesta.” (co.4)

La Legge Cirami è risultata innovativa anche nella parte concernente la regolamentazione degli effetti della richiesta di
rimessione.

A tal proposito, prima del 2002, sulla base della vecchia formulazione dell’art 45, la richiesta di remissione non produceva
effetto sospensivo.
Ma era la Cassazione che poteva disporre la sospensione del processo una volta valutata la gravità della situazione locale e il
livello di rischio dell’inquinamento processuale.

Infatti, nell’originario art 47 (“Effetti della richiesta”) figurava il divieto, per il iudex suspectus, di emettere sentenza fino alla
infruttuosa conclusione del procedimento incidentale; sennonché anche tal sbarramento era venuto meno in seguito ad una
pronuncia di incostituzionalità di tal divieto.
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In base all’odierna formulazione dell’art 47:

 è lo stesso giudice procedente che, dopo la presentazione della richiesta, può disporre con ordinanza (inoppugnabile)
la sospensione (facoltativa) del processo finché non sia intervenuta l’ordinanza di inammissibilità/rigetto.

Analogamente, dopo che sia stata investita della richiesta, la Corte di cassazione può disporre la sospensione (facoltativa).

Quanto ai presupposti delle due ipotesi di sospensione facoltativa, si deve ritenere che, nel silenzio del legislatore, sia
ancorata ai requisiti del fumus boni iuris e del periculum in mora.

Qualora l’iter del processo non sia stato interrotto, è prevista la sua sospensione obbligatoria, rispetto alla quale funge da
necessaria premessa la comunicazione che è avvenuta l’assegnazione della richiesta ad una delle altre sezioni della corte o
alle sezioni unite (art 48 co.3 “Decisione”).

In seguito a tal comunicazione, il giudice procedente deve sospendere il processo prima dello svolgimento:
 delle conclusioni (in sede di udienza preliminare),
 o della discussione (in sede dibattimentale),

e resta preclusa la pronuncia sia del decreto che dispone il giudizio, sia della sentenza.

Anche in tal caso, la sospensione dura finché non venga pronunciata l’ordinanza della corte che dichiari inammissibile o
rigetti la richiesta (art 47 co.2 e 3).

Tenendo conto della sentenza costituzionale n.353/1996, è stata dettata la regola che esclude la sospensione quando la
richiesta non è fondata su elementi nuovi rispetto a quelli di una precedente richiesta rigettata o dichiarata inammissibile (art
47 co.2).

Inoltre, sono stati previsti alcuni correttivi per limitare gli effetti nocivi dovuti alla stasi del processo:

 ex co.4 art 47  finché dura la sospensione, restano sospesi i termini della prescrizione del reato, e se la richiesta di
rimessione proviene dall’imputato, anche i termini di durata massima della custodia cautela ex art 303 co.1.

Tali termini riprendono il loro corso:


 dal giorno in cui la corte dichiara inammissibile o rigetta la richiesta di rimessione,
 o, in caso di accoglimento, dal giorno in cui il processo perviene al medesimo stato in cui si trovava al momento in cui
è intervenuta la sospensione.

Ad ogni modo, da ricordare, è anche la previsione (presente dall’originaria versione) ex art 47 co.3, che consente, nonostante
la sospensione, il compimento di atti urgenti.

La decisione della Corte di cassazione, che procede in camera di consiglio ex art 127, assume la forma dell’ordinanza, che potrà
essere  di inammissibilità – di rigetto – di accoglimento.

Se di accoglimento, l’ordinanza (contente l’indicazione del nuovo giudice, da individuare ex art 11), è immediatamente
comunicata:

 al giudice designato
 e al giudice originariamente competente  il quale è tenuto a trasmettere al primo (giudice designato) gli atti del
processo e a disporre che l’ordinanza della corte venga comunicata al P.M. e notificata alle parti private (art 48 co.4).

Quando, invece, rigetta o dichiara inammissibile la richiesta di rimessione, la Corte di cassazione può condannare l’imputato
al pagamento di una somma a favore della cassa delle ammende.

A tal proposito, la riforma Orlando (l.103/2017) ha introdotto un paio di modifiche per disincentivare la presentazione di
richieste azzardate, prevedendo:
 il possibile aumento (sino al doppio) della somma che l’imputato è condannato a versare;
 e stabilendo che gli importi attualmente previsti (1k-5k) vengono adeguati ogni 2 anni.

Quanto alla conservazione degli atti del processo oggetto di rimessione:

 viene abbandonata la regola originaria  che affidava al giudice subentrante il compito di decidere se e in che misura gli
atti compiuti rimanessero efficaci.
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Vale, ora, la regola (grazie alla nuova formulazione art 48 co.5) secondo cui:

 il giudice designato procede alla rinnovazione degli atti quando una delle parti ne faccia richiesta.

Con 2 sole eccezioni, concernenti:


 da un lato, l’ipotesi che si tratti di atti “di cui è divenuta impossibile la ripetizione”,
 dall’altro, l’eventualità che si versi in una delle due situazioni contemplate dal co.1 e co.1bis art 190bis.

Lo stesso art 48 co.5, chiarisce, inoltre, che nel processo davanti al giudice designato dalla Corte di cassazione le parti
esercitano gli stessi diritti e facoltà ad esse riservati davanti al primo.

L’art 49 regola l’ipotesi di “nuova richiesta di rimessione”, consentendo l’iterazione:

 sia nel caso in cui la richiesta sia diretta ad ottenere un ulteriore spostamento del processo,

In tal caso può essere richiesto quando:


 nella sede designata si ripresenta una situazione riconducibile al disposto dell’art 45,
 o quando, venute meno nella sede originaria le ragioni che avevano indotto a sollecitare l’intervento della corte di
cassazione, si creano le premesse per una revoca del provvedimento di rimessione.

 sia nel caso in cui essa miri ad ottenere per la prima volta il relativo provvedimento, già negato precedentemente.

In tal caso, bisogna distinguere:


 in presenza di un’ordinanza che abbia rigettato la precedente richiesta o abbia dichiarato l’inammissibilità della
stessa per manifesta infondatezza, l’ulteriore richiesta (per non essere dichiarata inammissibile), deve essere
fondata su “elementi nuovi” (art 49 co.2)

va segnalata, inoltre, l’inedita previsione (evidentemente per scoraggiare eventuali manovre dilatorie da parte
dell’imputato) che sancisce l’inammissibilità della richiesta per manifesta infondatezza anche qualora la stessa, priva di
elementi di novità, provenga da un altro imputato del medesimo processo o di un processo da esso separato (co.3 art 49).

Invece, la richiesta dichiarata inammissibile per motivi diversi dalla manifesta infondatezza può essere sempre riproposta
(co. 4 art 49).

13. La posizione di parte del P.M. e la sua funzione tipica. TITOLO II (Art 50-54quater)
Il P.M., pur rivestendo la qualità di parte nel processo (anzi, fin dalla fase delle indagini preliminari) costituisce un organo
dell’apparato statale incaricato di:

 Vegliare “all’osservanza delle leggi, alla pronta e regolare amministrazione della giustizia”,
 Nonché di iniziare ed esercitare l’azione penale.

Ex art 69 ord.giud. il P.M. esercita, sotto la vigilanza del Ministro della giustizia, le funzioni che la legge gli attribuisce.

Il P.M. non è solo affrancato dal potere esecutivo, ma gode di una posizione di indipendenza (esterna) rispetto a tutti gli altri
poteri costituzionali.

La disciplina del P.M. è regolata nel Titolo II (art 50-54quater).

 È il soggetto necessario nella fase investigativa;


 È parte essenziale nel processo.

Nella fase preliminare (prima fase, pre-processuale), il P.M. è il dominus del procedimento;

è responsabile delle indagini necessarie per l’esercizio, o meno, dell’azione penale (art 326), e quindi preliminare ad essa e si
avvale della P.G. che collabora con lui.

Il P.M. risponde del suo operato solo di fronte alla legge, godendo delle stesse garanzie attribuite al giudice circa il
reclutamento, l’inamovibilità della sede e la soggezione al potere di controllo del Consiglio Superiore della Magistratura.

Un peso assorbente riveste il canone dell’obbligatorietà dell’azione penale (art 112 Cost).
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L’inserimento nel Titolo II dell’art 50 (“Azione penale”), non compromette l’intento legislativo autonomistico.

Il legislatore ha voluto subito segnalare la funzione tipica del P.M., che non può essere affidata al giudice senza intaccarne il
ruolo di organo tendenzialmente passivo reclamato dal principio di imparzialità (art 101 co.2 Cost).

Nella parte dinamica del codice, agli art 326 e 358 saranno poi individuate le funzioni espletate dal P.M. nel corso delle
indagini preliminari, anteriormente all’esercizio dell’azione penale, così da ribadire il solco netto tracciato tra azione e
giurisdizione.

ART 50  Azione penale.


“Il P.M. esercita l’azione penale [112 Cost] quando non sussistono i presupposti per la richiesta di archiviazione.” (co.1).

“Quando non è necessaria la querela [336-340], la richiesta [344], l’istanza [341] o l’autorizzazione a procedere [343],
l’azione penale è esercitata d’ufficio.” (co.2)

“L’esercizio dell’azione penale può essere sospeso o interrotto, solo nei casi espressamente previsti dalla legge [3,47,71,344].”
(co.3)

Nel sistema codicistico non trova spazio:

 né l’azione penale privata  conferita cioè alla persona offesa dal reato;
 né l’azione penale popolare  attribuita cioè al quisque de populo (soggetto non suscettibile di qualificazione).

L’art 231 disp.att. sancisce, inoltre, il monopolio dell’azione penale, avallando quanto detto prima.

Nel co.1 viene enunciato il principio dell’obbligatorietà dell’azione penale ex art 112 Cost; il suo unico limite è la richiesta di
archiviazione.

La lettura coordinata del co.1 con l’art 405 (“Inizio dell’azione penale: forma e termini”), che elenca gli atti tipici di esercizio
dell’azione penale, contenenti tutti la formulazione dell’imputazione, permette di individuare il momento di inizio del
processo penale in senso proprio, riservando la fase delle indagini preliminari al mero procedimento.

Inoltre, la lettura coordinata con l’art 60 (“Assunzione della qualità di imputato”) chiarisce come l’assunzione della qualità di
imputato discenda unicamente da un atto (formulazione dell’imputazione) che segna l’avvenuto esercizio dell’azione penale.

Il co.2 art 50 ribadisce il principio dell’officialità dell’azione penale, delineando quando è possibile esercitarla d’ufficio.

Sennonché, l’elenco fornito nel co.2 non è certo esaustivo; suona più adeguata la formula aperta adottata ex art 345 co.2;

vengono, dunque, generalmente ritenute condizioni di procedibilità, ad esempio:


- la presenza del reo nel territorio dello Stato per i delitti comuni del cittadino e dello straniero commessi all’estero,
- o l’assenza di una sentenza o di un decreto penale irrevocabili pronunciati nei confronti della medesima persona per il
medesimo fatto (art 649).

Trattandosi di fatti o atti giuridici in mancanza dei quali il P.M. non può agire validamente, le condizioni di procedibilità sono
suscettibili di collidere col principio dell’esercizio obbligatorio dell’azione penale.

Per tal ragione è necessario che tali condizioni siano poste a tutela di interessi costituzionalmente rilevanti, così da prevalere, in
sede di bilanciamento, con il principio proclamato nell’art 112 Cost.

Non trova posto nel codice, invece, il principio di pubblicità dell’azione penale perché la sua enunciazione è parsa superflua.

Il co.3 art 50 esprime il tradizionale principio della irretrattabilità dell’azione penale;

in pratica, l’oggetto del processo penale è indisponibile ed esso si può chiudere solo con l’emissione di una sentenza o di un atto
equivalente (come il decreto penale di condanna).

La l.67/2014 ha immesso nel sistema altri due casi di sospensione del processo riconducibili ad esigenze di economia
processuale.

a) Il primo si determina quando non sia certa o non sia presumibile la conoscenza del processo da parte dell’imputato.
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In tal caso, il giudice, all’udienza preliminare o a quella dibattimentale, dispone con ordinanza la sospensione del processo
nei confronti dell’imputato assente (art 420quater co.2).

b) Il secondo caso consegue all’applicazione dell’istituto della messa alla prova per i reati puniti con pena pecuniaria o con
pena detentiva non superiore nel massimo a 4 anni (464quinques).

Qui, l’esito positivo di questa sorta di probation genera l’estinzione del reato.

Il sistema conosce anche cause di sospensione del procedimento inteso come fase delle indagini preliminare:

 Accanto a quella facoltativa (art 41 co.2)

 ed a quella obbligatoria  dopo l’accertata incapacità della persona sottoposta alle indagini di partecipare
coscientemente nel procedimento, sempre che l’infermità di mente non presenti carattere irreversibile (art 71 co.5
“Sospensione del procedimento per incapacità dell’imputato”),

 si è poi prevista la sospensione (obbligatoria, e per così dire automatica)  conseguente all’insorgere di indizi di reato di
false informazioni rese al P.M. o di false dichiarazioni al difensore.

14 – 15 – 16 – 17 La disciplina del P.M. (preferibile trattarla insieme).


Ex art 51 co.1 lett.a (“Uffici del P.M. Attribuzioni del procuratore della Repubblica distrettuale”) le funzioni di P.M. nelle indagini
preliminari e nei procedimenti di primo grado sono esercitate dai magistrati della procura della Repubblica presso il tribunale.

Ex d.lgs.116/2017, il capo dell’ufficio coordina l’istituito ufficio di collaborazione del procuratore della Repubblica,
distribuendo il lavoro tra i vice procuratori (c.d. v.p.o.) vigilando sulla loro attività e sorvegliando l’andamento dei servizi di
segreteria ed ausiliari.

Viene conferito al v.p.o. il compito di coadiuvare il magistrato togato compiendo gli atti preparatori utili per la funzione
giudiziaria.

L’ufficio del P.M. è suddiviso in una pluralità di uffici, ciascuno dei quali svolge le proprie funzioni davanti all’organo giudiziario
presso il quale è costituito.

 Per i procedimenti di primo grado  innanzi al giudice ordinario le funzioni di P.M. sono esercitate dal Procuratore della
Repubblica presso il tribunale (presso il tribunale per i minorenni vi è un apposito ufficio del P.M.);

 in secondo grado  le funzioni di P.M. sono esercitate dal Procuratore generale presso la corte di appello;

 per i procedimenti davanti la corte di cassazione  le funzioni di P.M. sono esercitate dal Procuratore generale presso la
corte di cassazione.

La trattazione in primo grado dei procedimenti relativi ai delitti ex co.3bis, 3quater e 3quinques, è di competenza del
Procuratore della Repubblica presso il tribunale del capoluogo del distretto della Corte di appello nel cui ambito ha sede il
giudice competente, il cui titolare è il Procuratore distrettuale.

All’interno di questo ufficio, è costituita la DDA (Direzione distrettuale antimafia).

Astensione.

L’astensione (e la conseguente necessità di sostituire il magistrato designato con un altro) trova nell’art 52 la sua disciplina.

Non è obbligatoria sotto il profilo processuale, mentre potrebbe essere doverosa sotto quello disciplinare.

Tale istituto è volto a garantire l’obiettività della funzione svolta dal P.M. anche se, la qualità di parte ricoperta dallo stesso
nel processo rende costui soggetto mai ricusabile dalla controparte-imputato appartenente all’ufficio ugualmente
competente determinato ex art 11.

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Ex co.1 art 52, il magistrato del P.M. ha la facoltà di astenersi quando esistono “gravi ragioni di convenienza”.

L’astensione presuppone una dichiarazione motivata (dichiarazione motivata di astensione).

Ex co.2 e 3, la dichiarazione è decisa dal capo dell’ufficio o dal procuratore generale presso la corte d’appello o presso la corte di
cassazione, se riguarda i capi dei rispettivi uffici.

Ex co.4, la sostituzione è effettuata con un magistrato appartenente al medesimo ufficio, ma la regola è derogabile quando si
tratti del capo dell’ufficio.

In tal caso, può essere designato alla sostituzione un altro magistrato del P.M. appartenente ad un diverso ufficio,
egualmente legittimato per materia, ma individuato secondo i parametri indicati ex art 11.

Stando la sua qualità di parte, il P.M. non può essere ricusato, ma il codice ha evitato l’impiego di criteri rigidi che potessero
paralizzare lo svolgimento delle indagini preliminari.

ART 53  Autonomia del P.M. nell’udienza. Casi di sostituzione.


“Nell’udienza, il magistrato del P.M. esercita le sue funzioni con piena autonomia.” (co.1)

“Il capo dell’ufficio provvede alla sostituzione del magistrato nei casi:
- di grave impedimento,
- di rilevanti esigenze di servizio,
- e in quelli previsti ex art 36 co.1 lett.a,b,d,e
negli altri casi il magistrato può essere sostituito solo con il suo consenso.” (co.2)

“Quanto il capo dell’ufficio omette di provvedere alla sostituzione del magistrato nei casi previsti dall’art 36 co.1 lett.a,b,c,e, il
procuratore generale presso la corte di appello designa per l’udienza una magistrato appartenente al suo ufficio.” (co.3)

Funzione nella norma (art 53) è quella di garantire l’integrità del ruolo dell’accusa, ponendola al riparo da eventuali abusi dei
dirigenti degli uffici.

Ciascun ufficio di Procura gode altresì di autonomia esterna, sia pure con qualche temperamento.

Nei riguardi del P.M. (persona fisica) il Procuratore Capo esercita un potere di sorveglianza sul loro operato.

ART 54  Contrasti negativi tra pubblici ministeri (rubrica modificata nel 1991)
“Il P.M., se durante le indagini preliminari ritiene che il reato appartenga alla competenza di un giudice diverso da quello
presso cui egli esercita le funzioni, trasmette immediatamente gli atti all’ufficio del P.M. presso il giudice competente.” (co.1)

“Il P.M. che ha ricevuto gli atti, se ritiene che debba procedere l’ufficio che li ha trasmessi, informa il procuratore generale
presso la corte di appello o, qualora appartenga a un diverso distretto, il procuratore generale presso la corte di cassazione.
Il procuratore generale, esaminati gli atti, determina quale ufficio del P.M. deve procedere e ne dà comunicazione agli uffici
interessati.” (co.2)

“Gli atti di indagine preliminare compiuti prima della trasmissione o della designazione indicati nei co.1 e 2 possono essere
utilizzati nei casi e nei modi previsti dalla legge.” (co.3)

“Le disposizioni dei co.1 e 2 si applicano in ogni altro caso di contrasto negativo tra i pubblici ministeri.” (co.3bis aggiunto nel
1991).

ART 54bis  Contrasti positivi tra uffici del pubblico (articolo introdotto ex d.l.367/1991)
“Quando il P.M. riceve notizia che presso un altro ufficio sono in corso indagini preliminari a carico della stessa persona e per
il medesimo fatto in relazione al quale egli procede, informa senza ritardo il P.M. di questo ufficio, richiedendogli la
trasmissione degli atti ex art 54 co.1” (co.1)

“Il P.M. che ha ricevuto la richiesta, ove non ritenga di aderire, informa il procuratore generale presso la corte di appello o,
qualora appartenga ad un diverso distretto, il procuratore generale presso la corte di cassazione.
Il procuratore generale, assunte le necessarie informazioni, determina con decreto motivato, secondo le regole sulla
competenza del giudice, quale ufficio del P.M. deve procedere e ne dà comunicazione agli uffici interessati.
All’ufficio del P.M. designato sono immediatamente trasmessi gli atti da parte del diverso ufficio.” (co.2)
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“il contrasto si intende risolto quando, prima della designazione prevista dal co.2, uno degli uffici del P.M. provvede alla
trasmissione degli atti ex art 54 co.1.” (co.3)

“Gli atti di indagine preliminare compiuti dai diversi uffici del P.M. sono comunque utilizzabili nei casi e nei modi previsti dalla
legge.” (co.4)

“Le disposizioni dei co.1,2 e 3 si applicano in ogni altro caso di contrasto positivo tra pubblici ministeri.” (co.5)

 Mentre per l’ipotesi del contrasto negativo la disciplina tende ad individuare un P.M. che proceda, così da evitare la stasi
investigativa,
 Nell’ipotesi di contrasto positivo si tende ad evitare la duplicazione di indagini che finiscono per sovrapporsi e magari
ostacolarsi fra loro.

È essenziale, dunque, che si verifichi se si tratti dei medesimi fatti attribuiti alla medesima persona indagata, perché solo in
questo caso vi sarebbe una situazione di contrasto (tesi di Molinari e Carcano).

Ricevuta la richiesta di trasmissione degli atti da parte di altro P.M.:


 viene ufficializzato il contrasto (con richiesta di intervento del procuratore generale presso il distretto o presso la
cassazione);
 o si procede ad un collegamento di indagini ex art 371.

La decisione della Procura generale serve a designare l’ufficio legittimato alla prosecuzione delle indagini allo stato degli atti,
non potendosi escludere che gli ulteriori accertamenti possano indurre a conclusione diversa.

Si ritiene che gli eventuali atti compiuti dal P.M. non designato dalla procura generale debbano considerarsi inutilizzabili (tesi di
Bonetto e Morselli).

ART 54ter  Contrasti tra pubblici ministeri in materia di criminalità organizzata (introdotto nel 1991)
“Quando il contrasto previsto ex art 54 e 54bis riguarda taluno dei reati indicati nell’art 51 co.3bis e 3quater:
 se la decisione spetta al procuratore generale presso la corte di cassazione, questi provvede sentito il procuratore
nazionale antimafia e antiterrorismo;
 se spetta al procuratore generale presso la corte di appello, questi informa il procuratore nazione antimafia e
antiterrorismo dei provvedimenti adottati.” (co.1 modificato nel 2015)

La possibilità di porre rimedio alla duplicazione di indagini per il medesimo fatto nei confronti dello stesso imputato trova l’unico
possibile rimedio, secondo il vigente sistema processuale, negli istituti ex art 54, 54bis e 54ter, che disciplinano gli eventuali
contrasti tra pubblici ministeri nella fase procedimentale delle indagini preliminari e si rilevano, dunque, del tutto estranei alla
procedura giurisdizionale dei conflitti.

Il co.1, come modificato da ultimo (ex d.l.7/2015 convertito in l.43/2015 “Misure urgenti per il contrasto al terrorismo”),
concernente i contrasti tra pubblici ministeri in materia di criminalità organizzata:

 sostituisce la denominazione del procuratore nazionale antimafia con quella del Procuratore nazionale antimafia e
antiterrorismo
 ed estende l’ambito oggettivo anche ai contrasti di competenza relativi ai reati di terrorismo.

ART 54quater  Richiesta di trasmissione degli atti a un diverso pubblico ministero (inserito nel 1999)
“La persona sottoposta alle indagini che abbia conoscenza del procedimento ex art 335 o ex art 369 e la persona offesa del
reato che abbia conoscenza del procedimento ex art 369 (“Informazione di garanzia”), nonché i rispettivi difensori, se
ritengono che il reato appartenga alla competenza di un giudice diverso da quello presso il quale il P.M. che procede esercita
le sue funzioni, possono chiedere la trasmissione degli atti al P.M. presso il giudice competente enunciando, a pena di
inammissibilità, le ragioni a sostegno della indicazione del diverso giudice ritenuto competente.” (co.1)

“La richiesta deve essere depositata nella segreteria del pubblico ministero che procede con l’indicazione del giudice ritenuto
competente.” (co.2)

“Il P.M. decide entro 10 giorni dalla presentazione della richiesta e,


 ove accolga, trasmette gli atti del procedimento all’ufficio del P.M. presso il giudice competente, dandone
comunicazione al richiedente.

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Se non provvede in tal senso, il richiedente, entro i successivi 10 giorni, può chiedere di determinare quale ufficio del P.M.
deve procedere:
 al procuratore generale presso la corte d’appello
 o, qualora il giudice ritenuto competente appartenga ad un diverso distretto, al procuratore generale presso la Corte
di cassazione.
Il Procuratore generale, assunte le necessarie informazioni, provvede alla determinazione, entro 20 giorni dal deposito della
richiesta, con decreto motivato dandone comunicazione alle parti ed agli uffici interessati.
Quando la richiesta riguarda taluno dei reati indicati nell’art 51 co.3bis e co.3quater, il procuratore generale provvede
osservando le disposizioni ex art 54ter.” (co.3)

“La richiesta non può essere riproposta a pena di inammissibilità salvo che sia basata su fatti nuovi e diversi.” (co.4)

“Gli atti di indagine preliminare compiuti prima della trasmissione degli atti o della comunicazione del decreto ex co.3
possono essere utilizzati nei casi e nei modi previsti dalla legge.” (co.5)

La norma consente all’indagato ed alla persona offesa di sollecitare un controllo della “competenza” ad indagare del P.M. che
procede, senza che sia necessario che sia sollevato un “contrasto” da parte di altro P.M. (art 54-54ter).

Per riassumere meglio,


l’attività del P.M. è riconducibile all’esercizio di 4 funzioni:
 inquirente  attività investigativa, svolta anche avvalendosi degli organi di P.G. (di cui il P.M. ha la direzione),
preliminare all’eventuale fase del processo e diretta a ricostruire le modalità del fatto-reato e ad individuarne il
colpevole;

 di incriminazione  promuovimento dell’azione penale, attraverso la richiesta ad un giudice di pronunciarsi, in via


preliminare o con piena cognizione, in ordine ad un reato ascritto ad un imputato (art 405).

 Requirente ed esecutiva  presentazione di richieste al giudice, già investito dell’azione penale, ed è finalizzata a
fare proseguire il processo verso la sentenza irrevocabile.

Le richieste del P.M. al giudice hanno contenuto:


 Procedurale  se sono meramente propulsive dell’iter procedimentale (es. art 603 “Rinnovazione istruzione
dibattimentale”);

 O di merito  se attengono direttamente alla definizione del processo nel merito della res judicanda e, quindi, alla
condanna o al proscioglimento (es. art 523 “Svolgimento della discussione”).

Per arginare la crescente diffusione dell’attività criminale organizzata, mafiosa e camorristica, e da ultimo, terroristica, il
legislatore ha ritenuto opportuno concentrare le indagini relative a tali reati:

 presso la Direzione Distrettuale Antimafia (D.D.A.)  organo deputato al coordinamento, in ambito locale (Distretto
di Corte di appello).

Il collegamento ed il coordinamento di tutte le D.D.A. è affidato:

 ad una Direzione Nazionale Antimafia (D.N.A.) (ora anche Antiterrorismo dal 2015)  organismo istituito nell’ambito
della Procura generale presso la Corte di cassazione, al cui vertice è preposto un Procuratore Nazionale Antimafia e
Antiterrorismo nominato direttamente dal Consiglio Superiore della Magistratura.

La D.N.A. si avvale:

 della D.I.A. (Direzione Investigativa Antimafia)  è un servizio di P.G., strutturato sull’intero territorio nazionale;
 e delle forze di polizia.

Le funzioni del Procuratore Nazionale Antimafia e Antiterrorismo sono estese anche ai procedimenti di prevenzione
antimafia avviati a seguito della proposta avanzata dai procuratori distrettuali.

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18. Le funzioni ed i soggetti di polizia giudiziaria. TITOLO III (Art 55-59)


Il Titolo III (art 55-59) è dedicato alla Polizia Giudiziaria.

La P.G. è solo soggetto del procedimento penale, cioè è titolare di diritti e doveri nella fase preliminare, ma non anche parte
processuale, cioè di soggetto attivo o passivo dell’azione penale.

La scelta si giustifica alla luce del carattere unitario dell’attività investigativa, che distribuita tra P.M. e P.G., vede a seconda
protagonista nel momento di inizio delle indagini preliminari.

L’intervento successivo alla commissione del reato è ciò che caratterizza la funzione demandata alla P.G. rispetto a quella
demandata alla polizia amministrativa, comprensiva anche della polizia di sicurezza, che svolge il compito di impedire la
commissione di illeciti penali o amministrativi.

Le “attività necessarie per le determinazioni inerenti all’esercizio dell’azione penale” (art 326) sono adempiute sotto la direzione
del P.M. (art 327, così come le funzioni di P.G. “sono svolte alle dipendenze e sotto la direzione dell’A.G.”.

L’art 55 disciplina le “funzioni della polizia giudiziaria”. Nel co.1 delinea le attività che la polizia svolge anche di propria
iniziativa:

 Attività informativa  si sostanzia nell’acquisire la notizia di reato, secondo le forme dell’apprensione diretta o della
ricezione (art 330) e riferirla al P.M. (art 347);

 Attività investigativa  consistente nel ricercare l’autore del reato, mediante il compimento di atti tipici e atipici (art
348 co.2);

 Attività assicurativa  quale ideale perfezionamento della precedente, è riferita alle fonti di prova, dovendo svolgere
le immediate indagini per accertare i fatti ed assicurare le fonti di prova.

Il co.1 menziona anche:


 L’obbligo di raccogliere quanto possa servire per l’applicazione della legge penale,
 E l’obbligo di impedire che i reati siano portati a conseguenze ulteriori.

Il co.2 dispone che la P.G. “svolge ogni indagine e attività disposta o delegata dall’Autorità Giudiziaria (A.G.)”.

Per quanto riguarda il P.M., sono da ricordare:

- Le direttive impartite ex art 348 co.3 (c.d. attività guidata),


- E gli atti delegabili ex art 370 (“Atti diretti e atti delegati”),
- Le notificazioni da eseguire richieste dal P.M. con riferimento agli atti di indagine o ai provvedimenti “che la stessa P.G.
è delegata a compiere o è tenuta ad eseguire”,
- Documentare, con verbale/annotazioni, gli atti del titolare delle indagini.

Per quanto riguarda il giudice, va rammentato:

- Il potere coercitivo ex art 131,


- La richiesta di intervento della P.G. per eseguire provvedimenti ordinatori quali:
- L’accompagnamento coattivo dell’imputato o di altre persone,
- Misure cautelari personali o reali,
- Provvedimenti che dispongono mezzi di ricerca della prova come le ispezioni, perquisizioni e
sequestri.
- nei procedimenti con detenuti e nei procedimenti davanti al tribunale del riesame il giudice può disporre, in caso di
urgenza, che le notificazioni siano eseguite dalla Polizia penitenziaria del luogo in cui i destinatari sono detenuti.

Gli atti di indagine della P.G., in quanto formati senza contraddittorio, sono
 Utilizzabili  per adottare decisioni nel corso delle indagini preliminari, nell’udienza preliminare e nei riti alternativi;
 Inutilizzabili, invece  in sede di dibattimento.

La P.G., come pure il P.M., acquisiscono fonti di prova, ma non formano la prova (art 514 “Letture vietate”).

L’art 57 (“Ufficiali e agenti di P.G.”) fornisce l’elenco di chi riveste la qualifica di ufficiale/agente di P.G.
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La distinzione rileva sul piano organizzativo e in vista della titolarità a compiere una serie di atti riservati solo agli ufficiali:

- Ricezione della denuncia e della querela,


- Remissione della querela,
- Assunzione di informazioni o di notizie o di indicazioni dalla persona sottoposta alle indagini,
- Perquisizioni di propria iniziativa o su delega,
- Acquisizione di plichi o di corrispondenza,
- Accertamenti urgenti e sequestri,
- Redazione dei verbali e delle annotazioni degli atti del P.M.,
- Immediata liberazione dell’arrestato/fermato,
- Delega di funzioni di P.M. nelle udienze dibattimentali relative ai procedimenti dinanzi al tribunale in composizione
monocratica.

Nel co.1 sono delineati gli ufficiali che svolgono funzioni di P.G. in via generale (ossia per tutti i reati).

Per quanto concerne il corpo forestale dello Stato (ricompreso nell’elenco), tocca evidenziare che, in virtù della Legge Madia
(l.124/2015), il Governo era stato investito della delega annuale di procedere ad una sua riorganizzazione con eventuale
assorbimento in altra forza di polizia (nell’arma dei carabinieri),
fatte salve le competenze in materia di lotta contro gli incendi boschivi e di spegnimento con mezzi aerei degli stessi da
attribuire al Corpo nazionale dei vigili del fuoco.

Nel 2016 si è provveduto all’assorbimento nell’arma dei carabinieri, con la conseguente riorganizzazione della stessa.

Tra gli agenti che svolgono funzioni di P.G. in via generale vanno annoverati:

- Il personale della polizia di Stato;


- I carabinieri;
- Le guardie di finanza;
- Gli agenti del corpo di polizia penitenziaria;
- Le guardie forestali.

Per le guardie delle province e dei comuni si è equiparata la disciplina di inquadramento della polizia municipale.

Tali soggetti rivestono la qualifica di agenti di P.G. in via generale ma nel solo “ambito territoriale dell’ente di appartenenza”
e limitatamente al tempo nel quale “sono in servizio”.

In una posizione del tutto particolare si situano coloro che fanno parte della Direzione Investigativa Antimafia (D.I.A.), istituito
nell’ambito del dipartimento della pubblica sicurezza nel 1991.

Il relativo personale è rivestito, oltre che delle funzioni di investigazione preventiva attinente alla criminalità organizzata, anche
del compito di “effettuare indagini di P.G. relative a delitti di associazione di tipo mafioso o ricollegabili all’associazione
medesima”.

19. L’organizzazione della P.G. e la sua dipendenza funzionale dall’A.G.


Attribuendo compiti di P.G. a funzionari appartenenti alla pubblica amministrazione, si presenta l’inconveniente di consentire ad
organi estranei all’attività giudiziaria di condizionare lo svolgimento dei compiti giudiziari.

Per non compromettere sia l’indipendenza esterna dell’ordine giudiziario, sia la stessa garanzia di eguaglianza di fronte alla
legge, che costituisce il fondamento del principio di obbligatorietà dell’azione penale, la Corte costituzionale ha ritenuto (in
relazione all’art 109 Cost) che l’istituzione di un corpo di P.G. alle esclusive dipendenze della magistratura, non discende dal
dettato della Costituzione, per cui occorre distinguere la dipendenza funzionale dell’A.G. dalla dipendenza burocratica della
pubblica amministrazione.

Sui suggerimenti della sent.cost.122/1971, il codice ha rafforzato più la dipendenza funzionale dall’A.G., specie dal P.M., che
quella gerarchica, senza mai troncare del tutto la relazione burocratica che lega la P.G. all’esecutivo.

Benché tutte le funzioni di P.G. siano sempre svolte alle dipendenze e sotto la direzione dell’A.G., il legame che si instaura con
la medesima è variabile perché costruito in relazione ai diversi apparati amministrativi.
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L’art 56 nel disciplinare “servizi e sezioni di P.G:” individua una triplice struttura.

ART 56  Servizi e sezioni di polizia giudiziaria


“Le funzioni di P.G. sono svolte alla dipendenza e sotto la direzione dell’A.G.:
a) dai servizi di P.G. previsti dalla legge;
b) dalle sezioni di P.G. istituite presso ogni procura della Repubblica e composte con personale dei servizi di P.G.;
c) dagli ufficiali e agenti di P.G. appartenenti agli altri organi cui la legge fa obbligo di compiere indagini a seguito di una
notizia di reato.” (co.1)

a) La prima concerne i servizi di P.G. previsti dalla legge, con implicito richiamo alla l.121/1981, che prevede l’istituzione e
l’organizzazione di simili unità da parte del dipartimento di pubblica sicurezza.

Nel 1991, sono state imposte alle amministrazioni interessate di costituire:

- servizi centrali ed interprovinciali (es. Ris, Ros);


- servizi interforze
- unità antiterrorismo.

Fanno parte dei servizi, tutti gli uffici e le unità cui sono affidate le funzioni di P.G.

b) In rapporto alla seconda struttura (cioè alle sezioni di P.G.), si coglie il grado massimo di dipendenza organizzativa e
funzionale dell’A.G.

Sono istituite unicamente presso ogni procura della Repubblica per garantire uno stretto rapporto con l’organo che dirige le
indagini preliminari.

Le sezioni sono composte da ufficiali ed agenti di P.G. appartenenti alla Polizia di Stato, all’arma dei carabinieri ed alla
guardia di finanza, nonché, per il momento, al corpo forestale dello Stato

c) Al grado minimo di dipendenza organizzativa e funzionale sono posti (quale terza struttura) i restanti ufficiali ed agenti di
P.G. tenuti per legge a compiere indagini a seguito di una notizia di reato.

Il profilo della dipendenza è regolato ex art 58 (“Disponibilità della P.G.”) con riguardo al rapporto che intercorre tra l’A.G. e gli
organi di P.G.

ART 58  Disponibilità della polizia giudiziaria.


“Ogni procura della Repubblica dispone della rispettiva sezione [56];
la procura generale presso la corte di appello dispone di tutte le sezioni istituite nel distretto.” (co.1)

“le attività di P.G. per i giudici del distretto sono svolte dalla sezione istituita presso la corrispondente procura della
Repubblica.” (co.2)

“L’A.G. si avvale direttamente del personale delle sezioni ex co.1 e 2 e può anche avvalersi di ogni servizio o altro organo di
P.G.” (co.3)

Le attività di P.G. per i giudici del distretto, compreso il G.I.P., sono svolte dalle sezioni istituite presso le corrispondenti procure
della Repubblica; qui la disponibilità non è immediata (come disposta nel co.2).

20. I rapporti di subordinazione.


La convinzione che la dipendenza funzionale della P.G. dall’A.G. risulterebbe priva di una qualche effettività se non fosse
accompagnata da forme di dipendenza organizzativa ha trovato una propria rilevanza nella direzione attuativa dell’art 109 Cost.

Benché gli ufficiali e gli agenti di P.G. restino sempre subordinati, in via di principio, agli enti amministrativi di appartenenza,
l’autorità giudiziaria risulta anch’essa investita di una serie di poteri di natura tipicamente gerarchica.

L’art 59 costruisce il rapporto di subordinazione, anche qui con riguardo alla tipologia dell’organizzazione della P.G.

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ART 59  Subordinazione della Polizia Giudiziaria


“Le sezioni di P.G. [56] dipendono dai magistrati che dirigono gli uffici presso i quali sono istituite.” (co.1)

“L’ufficiale preposto ai servizi di P.G. è responsabile verso il procuratore della Repubblica presso il tribunale dove ha sede il
servizio dell’attività di P.G. svolta da lui stesso e dal personale dipendente.” (co.2)

“Gli ufficiali e gli agenti di P.G. sono tenuti a eseguire i compiti a essi affidati inerenti alle funzioni ex art 55 co.1.
Gli appartenenti alle sezioni non possono essere distolti dall’attività di P.G. se non per disposizione del magistrato dal quale
dipendono ex co.1.” (co.3)

Il verificarsi, negli ultimi anni, di una vera e propria escalation di violenza legata al dilagare del fenomeno terroristico di matrice
internazionale ha reso opportuno che si ottimizzasse l’impiego delle forze di P.G. rispetto all’esercizio delle funzioni principali di
investigazione che le competono ex art 55.

Significativo è l’inciso “..inerenti alle funzioni ex art 55 co.1..” introdotto dal decreto antiterrorismo nel 2005.

Dal punto di vista del potere disciplinare, la relativa responsabilità si pone nei soli confronti del procuratore della Repubblica
presso il tribunale.

Il rapporto di subordinazione è ulteriormente rafforzato dall’obbligo di ottenere il consenso del procuratore della Repubblica
presso il tribunale o del procuratore generale presso la corte di appello per allontanare, anche provvisoriamente, dalla sede od
assegnare ad altri uffici i dirigenti dei servizi e di vincolare anche le promozioni dei dirigenti degli uffici al parere favorevole dei
magistrati predetti.

21. L’imputato e la persona sottoposta alle indagini. TITOLO IV (Art 60-73)


Il Titolo IV (art 60-73) disciplina la figura soggettiva dell’imputato.

L’imputato è il soggetto al quale viene formalmente contestata la commissione di un reato nella richiesta di rinvio a giudizio o
in atti equipollenti.

È opportuno tener distinte:

 la fase delle indagini preliminari (il procedimento)  qui l’attribuzione di un reato (c.d. imputazione preliminare) presenta
un carattere precario connaturato allo stato fluido delle indagini;

 e quella successiva all’esercizio dell’azione penale (processo)  qui, invece, superato il dubbio circa la non infondatezza
della notizia di reato, l’addebito si cristallizza nella formulazione dell’imputazione, che si risolve nella richiesta
dell’indefettibile accertamento giurisdizionale.

Facendo coincidere l’assunzione della qualità di imputato con l’esercizio dell’azione penale, ex art 405 (sicché senza
imputato non c’è processo), l’art 60 (“Assunzione della qualità di imputato”) enumera gli atti tipici dai quali scaturisce tale
assunzione.

Alcuni atti si configurano come domande dell’organo dell’accusa, come:

- le richieste di rinvio a giudizio, di giudizio immediato e di decreto penale di condanna.

Altri, sono il prodotto di un incontro di volontà tra le parti, come:

- la richiesta di applicazione della pena formulata


- o il consenso prestato dal P.M. nel corso delle indagini preliminari.

Altri assumono la veste di atti di impulso:

- tali il decreto di citazione diretta nel giudizio davanti al tribunale in composizione monocratica emesso dal P.M.
- o, nel giudizio direttissimo, la contestazione orale dell’imputazione in dibattimento
- o il decreto di citazione a giudizio se l’imputato è libero;
- la contestazione del reato connesso o del fatto nuovo nell’udienza preliminare o nel dibattimento,
- formulazione coatta dell’imputazione quando la richiesta di archiviazione non sia accolta dal G.I.P.

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ART 60  Assunzione della qualità di imputato


“Assume la qualità di imputato la persona alla quale è attribuito il reato nella richiesta di rinvio a giudizio, di giudizio
immediato, di decreto penale di condanna, di applicazione della pena ex art 447 co.1, nel decreto di citazione diretta a
giudizio e nel giudizio direttissimo.” (co.1)

“La qualità dell’imputato si conserva in ogni stato e grado del processo, sino a che non sia più soggetta a impugnazione la
sentenza di non luogo a procedere, sia divenuta irrevocabile la sentenza di proscioglimento o di condanna o sia divenuto
esecutivo il decreto penale di condanna.” (co.2)

“La qualità di imputato si riassume in caso di revoca della sentenza di non luogo a procedere e qualora sia disposta la
revisione del processo.” (co.3)

L’imputato, dunque, è la persona fisica nei confronti della quale il P.M. promuove l’azione penale. La qualità di imputato
permane finché il processo è pendente.

Cessa nel momento della definizione del processo e, quindi, con l’emanazione di decisione divenuta irrevocabile o,
comunque, non più impugnabile.

Persa la qualità di imputato, l’interessato assume quella di prosciolto/condannato.

In ordine all’estensione dei diritti e delle garanzie dell’imputato alla “persona sottoposta alle indagini”, l’art 61 ha ritenuto
come sufficiente  la semplice sottoposizione della persona alle indagini preliminari.

L’estensione dei diritti e delle garanzie dell’imputato opera anche in rapporto ad atti non documentabili, quali le notizie o le
indicazioni assunte dagli ufficiali di P.G. sul luogo o nell’immediatezza del fatto (art 350 cp.5).

L’art 61, dunque, estende all’indagato i diritti e le facoltà previsti a garanzia dell’imputato ed ogni altra disposizione a questi
favorevole, ma non le previsioni in malam partem.

Più precisamente, taluno diviene persona sottoposta alle indagini:

 a seguito della ricezione da parte della P.G. o del P.M. di una notizia qualificata di reato (denuncia, referto, querela,
istanza) contenente un’incolpazione nei confronti di un soggetto determinato.

Se trattasi di notizie non qualificate (es. voci correnti nel pubblico, informazioni giornalistiche, etc), la persona può dirsi
sottoposta alle indagini:
 a seguito di una valutazione di attendibilità delle medesime, espressa dalla P.G. o P.M.

se una tale valutazione dia esito positivo:


 scatta (per la P.G.) l’obbligo di riferire la notizia al P.M;
 mentre, per il P.M. scatta l’obbligo di farla iscrivere immediatamente nell’apposito registro ex art 335.

Inoltre, viene in gioco la valutazione di dati emergenti dalle indagini e ritenuti idonei a fornire un principio di conoscenza circa
l’attribuibilità a taluno di un fatto di reato. Necessaria è la distinzione tra:

 indizio  risultato conoscitivo indispensabile per adottare alcune misure, anche ad opera del giudice, nel corso della
fase delle indagini preliminari o per farne scaturire determinati effetti diversi dalla decisione sul tema del processo.

 prova indiziaria  si allude alle c.d. prove critiche assoggettate ad una regola di giudizio al momento della valutazione
probatoria.

Nella prospettiva precedentemente discussa conta, infine, il fatto obiettivo dell’esecuzione dell’arresto in flagranza, mentre
non rileva né quello del fermo ex art 384, né la richiesta di una misura cautelare personale.

22. Le dichiarazioni rese dall’imputato. Art 62-63


Le norme contenute negli art 62-65 sono tutte accomunate dal fatto che mirino ad assicurare nei rapporti con l’autorità
procedente un livello di lealtà e di civiltà adeguato ai canoni personalistici tipici del modello accusatorio.

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L’art 62 disciplina il “divieto di testimonianza sulle dichiarazioni dell’imputato”, e prescrive che le dichiarazioni comunque rese
nel corso del procedimento dall’imputato e dalla persona sottoposta alle indagini non possono formare oggetto di
testimonianza.

Vengono considerate, non solo le dichiarazioni sollecitate, ma pure quelle che il soggetto rilasci di propria iniziativa.

Inoltre, tale norma vale nei confronti:


 di coloro a carico dei quali, per effetto delle dichiarazioni rese, emergano indizi di reità (art 63 co.1)
 e di coloro che, fin dall’inizio, dovevano essere sentiti in qualità di imputato o di persona sottoposta alle indagini (co.2
art 63 “Dichiarazioni indizianti”).

Ex co.2 art 62, il divieto si estende alle dichiarazioni, comunque inutilizzabili, rese dall’imputato nel corso dei programmi
terapeutici diretti a ridurre il rischio che questi commetta delitti sessuali a danno di minore (comma aggiunto nel 2014).

Tale divieto vale anche nei confronti di ogni altra persona che abbia inteso le dichiarazioni, spontanee o sollecitate, che siano
rede dall’imputato in occasione del compimento di un qualsiasi atto collocato nella sequenza del procedimento.

Sono escluse le dichiarazioni rilasciate prima dell’avvio del procedimento o al di fuori di esse (res gestae o circostanze
ammissibili come prova).
 si pensi a quanto narrato da una persona sottoposta alle indagini ad un ufficiale di P.G. nel corso di una conversazione
svoltasi occasionalmente in un bar.

È inibito pure l’ingresso alla testimonianza di chi riferisca, anche avendolo appreso da altri, il contenuto delle dichiarazioni
dell’imputato o dei soggetti a lui assimilati.

Da tal punto di vista, l’art 62 appronta un regime più restrittivo di quello predisposto ex art 195 in tema di testimonianza
indiretta.

La norma mira ad evitare che il diritto al silenzio dell’imputato o dell’indagato sia aggirato recuperando ai fini probatori le
dichiarazioni rese da tali soggetti attraverso la testimonianza de auditu.

Si vuole che per tali dichiarazioni faccia fede la sola documentazione scritta (acquisita regolarmente con le prescritte forme) da
utilizzarsi con le forme ed entro i limiti previsti per le varie fasi del procedimento.

L’inosservanza del divieto posto ex art 62 comporta sanzioni processuali;

infatti, acquisita illegittimamente, la testimonianza in discorso risulta compresa nella sfera dell’inutilizzabilità (art 191 co.1).

Col d.lgs.274/2000 il legislatore ha, poi, stabilito che le dichiarazioni rese dalle parti, nel corso dell’attività di conciliazione in
sede di procedimento davanti al giudice di pace non possono essere utilizzate, in nessun caso, ai fini della deliberazione.

La locuzione “nemo tenetur se degetere” esprime il principio garantista in forza del quale nessuno può essere obbligato ad
affermare la propria responsabilità penale (autoincriminazione).

Tale principio trova svolgimento nell’art 63 sulle “dichiarazioni indizianti”.

ART 63  Dichiarazioni indizianti


“Se davanti all’A.G. o alla P.G. una persona non imputata o una persona non sottoposta alle indagini rende dichiarazioni
dalle quale emergono indizi a suo carico, l’autorità procedente ne interrompe l’esame, avvertendola che a seguito di tali
dichiarazioni potranno essere svolte indagini nei suoi confronti e la invita a nominare un difensore [96-97].
Le precedenti dichiarazioni non possono essere utilizzate contro la persona che le ha rese.” (co.1)

“se la persona doveva essere sentita sin dall’inizio in qualità di imputato o di persona sottoposta alle indagini, le sue
dichiarazioni non possono essere utilizzate.” (co.2)

La norma costituisce un’anticipazione del diritto al silenzio operante in sede di interrogatorio e completa la regola per cui
nessuno può essere obbligato a deporre su fatti dai quali potrebbe emergere la propria responsabilità penale (art 198).

Mentre nell’ipotesi del co.2 le dichiarazioni rese sono assolutamente inutilizzabili, nell’ipotesi del co.1, le dichiarazioni sono
inutilizzabili contro chi le ha rese, ma sono utilizzabili nei confronti di terzi.

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Il dato più vistoso, consiste nell’estensione della medesima disciplina alle sommarie informazioni che la P.G. è abilitata ad
assumere ex art 351.

Per contro, l’operatività dell’art 63 non scatta nei confronti del giudice civile e del curatore fallimentare.

Profilatisi gli indizi, si determinano in capo all’autorità procedente, tre obblighi distinti:
 vige l’obbligo di interrompere l’esame, come pure l’eventuale assunzione di informazioni, ma potrà seguirne
l’interrogatorio del P.M. o l’assunzione di sommarie informazioni ex art 350 da parte della P.G.

 l’autorità procedente deve avvertire la persona che “potranno” essere svolte indagini nei suoi confronti per effetto della
mutata veste processuale.

Poiché l’art 63 co.1 non contempla l’obbligo di avvertire l’indiziato che “le sue dichiarazioni potranno sempre essere utilizzate
nei suoi confronti” così come prevede l’art 64 co.3 lett.a, il soggetto non è messo sull’avviso circa gli effetti sfavorevoli che
potrebbero scaturire da ulteriori dichiarazioni rese prima dell’interrogatorio o delle sommarie informazioni, nei cui preamboli è
dato avvertimento della facoltà di non rispondere.

 Infine, l’obbligo di invitare la persona che ha rilasciato le dichiarazioni indizianti a nominare un difensore accentua il
divario rispetto a coloro ai quali il fatto è attribuito da una comune notizia di reato.

Nei confronti di costoro l’invito è formulato nell’informazione di garanzia, da inviarsi solo a partire dal primo atto cui il
difensore ha diritto di assistere.

La disciplina dell’art 63 si perfeziona col divieto di utilizzare, contro la persona autoindiziatasi, le dichiarazioni rese prima
dell’avvertimento (inutilizzabilità soggettivamente relativa).

La norma vuole tutelare la libertà di autodeterminazione di chi, se fosse stato consapevole del proprio status, avrebbe ben
potuto esercitare il diritto al silenzio e non rilasciare dichiarazioni a sé pregiudizievoli.

La prevista inutilizzabilità anche nei confronti di coloro che dalle dichiarazioni indizianti sono comunque coinvolti
(inutilizzabilità assoluta) si spiega col proposito di disincentivare l’adozione di comportamenti contra legem intesi ad acquisire
dichiarazioni accusatorie a carico di terzi.

In altre parole, la norma vuole proteggere il terzo, cui si siano riferite le dichiarazioni accusatorie, predisponendo un
meccanismo destinato a scattare anteriormente alle ipotesi di incompatibilità a testimoniare ex art 197 co.1 lett.a,b.

Inoltre, muovendo dalla ratio dell’art 63 co.2, la giurisprudenza ha circoscritto il divieto d’uso erga alios delle suddette
dichiarazioni alle persone imputate in procedimenti connessi o collegati.

Nelle restanti ipotesi, infatti, il dichiarante deve essere sentito in qualità di persona informata sui fatti per cui si indaga, o di
testimone:
 Dunque, non potendosi configurare nei suoi confronti violazione alcuna delle garanzie difensive, l’operatività dell’art 63
co.2 è da escludersi.

23. L’interrogatorio. (Art 64-65)


Il sistema distingue in maniera netta:

 L’esame dell’imputato  collocato tra i mezzi di prova (art 208-210);


 Interrogatorio della persona sottoposta alle indagini  disciplinato ex art 64-65 e da altre disposizioni riferite all’udienza
dibattimentale.

Nella fase delle indagini preliminari, il P.M. procede all’interrogatorio della persona:

- sottoposta a misura cautelare personale (art 294),


- dell’arrestato/fermato (art 388),
- e anche tramite delega alla P.G., di chi si trova a piede libero mediante invito a presentarsi, ma se la persona non vi
ottempera, l’accompagnamento coattivo è disponibile solo a seguito di autorizzazione del giudice.

Il titolare delle indagini è libero di scegliere il momento in cui assumere l’atto, salvo che si tratti di una persona sottoposta a
custodia cautelare  in tal caso l’interrogatorio del giudice deve precedere quello del P.M.

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È libero, anche di non procedervi nel corso delle indagini preliminare talché la richiesta di archiviazione può ben essere
formulata inaudita altera parte.

Infine, se vuole inscenare il giudizio immediato secondo le forme ex art 453 co.1, deve procedere all’interrogatorio sui fatti
dai quali emerge l’evidenza della prova o, comunque, deve averlo disposto ex art 375 co.3, a meno che la persona sottoposta
alle indagini non sia comparsa a causa di un legittimo impedimento, o sia risultata irreperibile.

Nella fase nelle indagini, essendo il G.I.P. tendenzialmente privo di poteri ufficiosi, il relativo interrogatorio si atteggia come
attività sempre doverosa; ciò vale:

- in sede di udienza di convalida, per quello dell’arrestato o del fermato “salvo che questi non abbia potuto o si sia
rifiutato di comparire”.

Inoltre, il giudice procede ad interrogatorio in rapporto a talune vicende delle misure cautelari personali:

- quando il P.M., nel corso della fase delle indagini preliminari, gli ha richiesto di sospendere la persona sottoposta alle
indagini dall’esercizio di un pubblico ufficio o servizio;
- quando gli è richiesto di revocare/sostituire la misura applicata.

Esercitata l’azione penale, l’imputato è libero di sottoporsi ad interrogatorio in sede di udienza preliminare, così come nel
giudizio abbreviato.

Dal punto di vista funzionale, all’interrogatorio:

- condotto dal P.M.  si suole attribuire un prevalente carattere investigativo perché finalizzato alle determinazioni
inerenti all’esercizio dell’azione penale;
- mentre, a quello condotto dal giudice  si suole ricollegare un prevalente significato di controllo e di garanzia.

Dal punto di vista delle modalità del suo svolgimento, l’interrogatorio è disciplinato per assicurarne la natura di strumento di
difesa.

Quanto all’assistenza tecnica, un dato comune è rappresentato dal diritto del difensore di essere avvisato del compimento
dell’atto così da potervi sempre assistere; anzi, la sua presenza diviene condizione di validità dell’atto:

 perché la legge impone al legale di intervenire all’interrogatorio,


 o perché quest’ultimo è inserito in un determinato contesto come l’udienza di convalida o l’udienza preliminare.

Quanto alla difesa personale, gli artt 64 e 65 modellano l’interrogatorio in maniera idonea garantire una partecipazione
libera e costante da parte del soggetto.

Quando al luogo di svolgimento dell’interrogatorio, si prevede che:

 l’arrestato/fermato e anche l’imputato in stato di detenzione per qualsiasi fatto (eccetto chi sia ristretto in regime di arresti
domiciliari o di detenzione domiciliare) debba essere interrogato presso l’istituto penitenziario in cui si trova.

 Se sussistono eccezionali motivi di necessità, il giudice può disporre che i soggetti siano trasferiti davanti a sé.

L’obiettivo del sistema è quello di equiparare le modalità di svolgimento di altre figure a quelle dell’interrogatorio
dell’imputato.

Ciò può dirsi per le sommarie informazioni che gli ufficiali di P.G. assumono ex art 350 co.1 e per le dichiarazioni degli
imputati in un procedimento connesso, o in un reato collegato ex art 371 co.2, denominate ora:
 “informazioni”  se rese davanti ad un ufficiale di polizia giudiziaria,
 “interrogatorio”  se rese davanti al P.M.
 Ed ancora “interrogatorio”  se rese davanti al giudice in sede di udienza preliminare.

Anche le dichiarazioni rilasciate dalla persona sottoposta alle indagini a seguito della presentazione spontanea al P.M. sono
assimilate all’interrogatorio, in virtù dell’estensione delle regole ex art 64 e 65.

Inoltre, anche se l’art 64 fa riferimento alla persona sottoposta alle indagini, appositi richiami contenuti negli art 421 e 422
estendono all’interrogatorio dell’imputato le medesime prescrizioni.

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L’art 64 detta le “regole generali per l’interrogatorio”, e stabilisce al co.1 che la persona assoggettata al regime di custodia
cautelare o detenuta per altra causa, intervenga libera nell’interrogatorio (salve cautele necessarie per impedirne il pericolo di
fuga).

Così facendo, pone una regola di protezione della personalità correlata anche ad un’esigenza di economia processuale quando
una persona in stato di arresto o di detenzione domiciliare debba comparire davanti all’A.G.

L’art 22 disp.att. consente di non disporre l’accompagnamento o la traduzione, sostituendoli con l’autorizzazione ad
allontanarsi dal luogo di arresto o di detenzione per il tempo strettamente necessario.

Il co.2 art 64 esplicita il principio per cui nel corso dell’interrogatorio non possono essere impiegati (anche col consenso della
persona interrogata) metodi o tecniche idonei ad influire sulla libertà di autodeterminazione o ad alterare le capacità
mnemoniche o valutative.

In questo quadro si colloca (attraverso il co.3 art 64) il nucleo essenziale della disciplina del diritto al silenzio della persona
sottoposta ad interrogatorio; così come risulta dalle innovazioni introdotto con la l.63/2001, attuativa dei principi del “giusto
processo”.

Prima che inizi l’interrogatorio vero e proprio, scatta per l’organo procedente l’obbligo di rivolgere alla persona interrogata un
triplice avvertimento ex art 64 co.3, per cui la persona deve essere avvertita che:

a) “Le sue dichiarazioni potranno sempre essere utilizzate nei suoi confronti;
b) Salvo quanto disposto ex art 66 co.1, ha facoltà di non rispondere ad alcuna domanda, ma comunque il procedimento
seguirà il suo corso”;
c) Se renderà dichiarazioni su fatti che concernono la responsabilità di altri, assumerà, in ordine a tali fatti, l’ufficio di
testimone, salve le incompatibilità previste ex art 197 e le garanzie ex art 197bis.”

Infatti, a tutela del diritto di difesa e della presunzione di non colpevolezza, la norma fa salve le “incompatibilità” a
testimoniare ex art 197, nonché le “garanzie” inerenti alla conduzione dell’esame testimoniale ed il regime di utilizzabilità
delle dichiarazioni contro chi le ha rese di cui all’art 197bis.

Tale rete di tutele è stata apprestata per bilanciare il diritto di difesa dell’indagato con il diritto della persona da lui accusata
di poter procedere, in dibattimento, al controesame del dichiarante, come imposto ex art 111 co.4 Cost

Si spiega, così, perché, anche al mancato avvertimento in discorso, l’art 64 co.3bis ricolleghi una duplice “sanzione”:

 Per un verso, la persona interrogata non potrà assumere l’ufficio di testimone;


 Per altro verso, le dichiarazioni eventualmente rese contra alios non saranno utilizzabili nei confronti dei terzi coinvolti,
ferma restando la loro utilizzabilità nei confronti del dichiarante (inutilizzabilità relativa).

Il co.3bis (sostituito assieme al co.3 ex l.63/2001 sul “Giusto processo”), oltre ad imporre un dovere informativo, assolve anche
il compito di dettare i presupposti da cui scaturiscono gli obblighi testimoniali in capo all’imputato.

Opportunamente il d.lgs.101/2014 impone ora di somministrare l’avviso della facoltà di non rispondere subito dopo
l’esecuzione delle più severe restrizioni della libertà personale.

Infatti, sostituendo l’art 293 co.1, si prescrive agli ufficiali/agenti di P.G., al momento in cui eseguono l’ordinanza applicativa
della custodia cautelare, di consegnare all’imputato “una comunicazione scritta, redatta in forma chiara e precisa e, per
l’imputato che non conosce la lingua italiana, tradotta in lingua a lui comprensibile”, mediante la quale lo si informa “del
diritto di avvalersi della facoltà di non rispondere”.

Il giudice deve poi, in sede di interrogatorio della persona sottoposta a misura cautelare personale, anche d’ufficio,
verificare che all’imputato in stato di custodia cautelare in carcere o agli arresti domiciliari “sia stata data la comunicazione di
cui all’art 293 co.1, o che comunque sia stato informato ex co.1bis dello stesso articolo, e provvede, se del caso, a dare o a
completare la comunicazione o l’informazione ivi indicate”.

È previsto, inoltre, che gli ufficiali e gli agenti di P.G. debbano somministrare un analogo avviso, mediante comunicazione
scritta, all’arrestato/fermato, salvo a farlo, nell’immediatezza, oralmente.

Il giudice è poi chiamato a verificare nell’udienza di convalida “che all’arrestato/fermato gli sia stato dato il suddetto avviso, o
che comunque sia stato informato, e provvede, se del caso, a dare/completare la comunicazione o l’informazione ivi indicate”.

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L’avviso in discorso (riecheggiando le Miranda warnings del modello nordamericano) mostra di tener conto della condizione di
stress in cui versa il soggetto al momento dell’arresto o del fermo tale da spingerlo a rendere dichiarazioni avventate, specie
con l’intento di subito discolparsi, ma che potrebbero poi essere usate contro di lui nel prosieguo del processo.

Infatti, ex art 350 co.7, le dichiarazioni che la P.G. riceve spontaneamente dall’indagato possono essere utilizzate sia a fini
contestativi in sede di esame dibattimentale sia in chiave probatoria nei riti alternativi al dibattimento.

Dall’esercizio del diritto di non rispondere (ossia di non collaborare) l’organo procedente non può ricavare conseguenza alcuna
in quanto insindacabile espressione del diritto di difesa personale.

Infatti, ex art 274 lett.a, esplica il divieto di individuare, nel rifiuto di rendere dichiarazioni o nella mancata ammissione degli
addebiti, un attuale e concreto pericolo per l’acquisizione e la genuinità della prova

La funzione dell’art 64 è quella di garantire la libertà fisica e morale del soggetto sottoposto ad interrogatorio, in modo tale
che le sue dichiarazioni risultino il frutto di una scelta consapevole e non coartata.

A tale finalità rispondono:


 le disposizioni sulla libertà fisica della persona sottoposta ad interrogatorio (es senza manette)
 ed il divieto di uso di mezzi idonei ad alterare le capacità psico-fisiche;
 nonché gli avvertimenti di cui alle lett.a,b.

Quanto all’avvertimento ex lett.c, va premesso che attualmente l’imputato, se riferisce circostanze riguardanti la
responsabilità di altri, può essere sentito in futuro anche come testimone (con l’obbligo, quindi, di rispondere alle domande
ex art 197 e 197bis).

Una volta che il soggetto abbia dichiarato di voler rispondere, entrano in gioco le prescrizioni dettate per l’interrogatorio nel
merito (art 65).

Tali prescrizioni operano esclusivamente per l’atto assunto dall’A.G.

ART 65  Interrogatorio nel merito


“L’A.G:
- contesta alla persona sottoposta alle indagini in forma chiara e precisa il fatto che le è attribuito,
- le rende noti gli elementi di prova esistenti contro di lei,
- e, se non può derivarne pregiudizio per le indagini, gliene comunica le fonti.” (co.1)

“Invita, quindi, la persona ad esporre quanto ritiene utile per la sua difesa e le pone direttamente domande.” (co.2)

“Se la persona rifiuta di rispondere, ne è fatta menzione nel verbale. Nel verbale è fatta anche menzione, quando occorre, dei
connotati fisici e di eventuali segni particolari della persona.” (co.3)

La portata di tali prescrizioni è, però, destinata a subire adattamenti in rapporto allo sviluppo dell’iter procedimentale.

Del resto, per l’interrogatorio dell’arrestato/fermato cui procede il P.M., l’art 388 co.2 detta prescrizioni solo in parte analoghe.

L’invito a presentarsi per rendere l’interrogatorio deve già contenere:


- l’inserzione della “sommaria enunciazione del fatto quale risulta dalle indagini fino a quel momento compiute”,
- nonché, se il P.M. vuol presentare richiesta di giudizio immediato, pure l’”indicazione degli elementi e delle fonti di
prova”, insieme all’avvertimento circa il rito prescelto.

Oltre che alla civiltà e lealtà del processo, le disposizioni di tale articolo sono svolte a sugellare la funzione dell’interrogatorio
quale strumento di difesa.

Ciò emerge dalla possibilità che ha la persona di esporre tutto ciò che ritiene utile per discolparsi, dell’assenza dell’obbligo di
dire la verità, salvi i limiti che derivano dalle norme in materia di autocalunnia e calunnia, nonché dalla facoltà di non
rispondere a singole domande sul merito.

in ordine allo svolgimento dell’atto, la tecnica adottata è quella delle domande poste in via diretta dal solo organo procedente,
il che vale anche per l’interrogatorio che l’imputato ha facoltà di rendere all’udienza preliminare.

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24. L’identificazione e l’esistenza in vita dell’imputato. (Art 66-69)


Le questioni inerenti all’identificazione dell’imputato ed alla sua esistenza in vita sono affrontate in via semplificata.

L’art 66 disciplina la “verifica dell’identità personale dell’imputato” e statuisce, nel co.1 che, nel primo atto del procedimento
in cui è presente l’imputato:

 L’A.G. lo invita a dichiarare le proprie generalità e quant’altro possa valere ad identificarlo, ammonendolo sulle
conseguenze cui si espone chi rifiuta di dare le proprie generalità o le dà false.

Inviti ed ammonizioni sono indirizzati dalla P.G. alla persona sottoposta alle indagini.

Solo all’A.G. si riferisce, però, l’art 21 disp.att. laddove statuisce che debbano essere richieste all’imputato, o alla persona
sottoposta alle indagini, nel primo atto cui sono presenti, una serie di informazioni relative all’identità personale, alla vita di
relazione, alla posizione patrimoniale, nonché agli eventuali ruoli pubblici coperti ed ai precedenti penali.

L’impossibilità di attribuire all’imputato le sue esatte generalità è irrilevante in quanto non pregiudica il compimento di alcun
atto da parte della P.G. o dell’A.G., purché sia certa l’identità fisica della persona. (co.2)

L’attribuzione di generalità erronee è trattata alla stregua di un mero errore materiale, così da far luogo alla rettificazione
mediante il relativo procedimento in camera di consiglio.

Rinviando, il co.3 art 66 verso l’art 130 (“Correzione dii errori materiali”), rende palese che la norma trova spazio anche nella
fase delle indagini preliminari e pure nei confronti della persona che vi è sottoposta, ogni qualvolta il giudice sia comunque
chiamato ad emettere un provvedimento;
diversamente, la correzione è operata de plano dal P.M.

Il senso della norma è da individuarsi nel fatto che la qualità di imputato può essere assunta da una persona fisica solo quando è
possibile la sua individuazione.

Ai fini dell’individuazione è essenziale l’identità fisica della persona, non occorrendo la certezza della identità anagrafica, ossia
l’esattezza delle generalità (nome, cognome, data di nascita, paternità, etc.).

Per ridurre il margine dei possibili errori nell’applicazione dei c.d. benefici penali, a causa dell’incompleta identificazione del
soggetto e dei suoi precedenti penale, nel 2005 è stato introdotto l’art 66bis (“Verifica dei procedimenti a carico dell’imputato”).

ART 66bis  Verifica dei procedimenti a carico dell’imputato.


“In ogni stato e grado del procedimento, quando risulta che la persona sottoposta alle indagini/imputato è stato segnalato,
anche sotto diverso nome, all’A.G. quale autore di un reato commesso antecedentemente o successivamente a quello per il
quale si procede, sono eseguite le comunicazioni all’A.G. competente ai fini dell’applicazione della legge penale.” (co.1)

Distinto dal profilo dell’identità personale, è quello:

 Dell’identità fisica per l’imputato si sostanzia nella coincidenza tra la persona nei cui confronti è esercitata l’azione
penale e quella che in effetti è assoggettata a processo.

Ciò difetta in caso di omonimia, quando al “vero imputato” si sostituisca l’“imputato apparente”.

Tocca al P.M., nella fase delle indagini preliminari, disporre gli accertamenti del caso, sulla base dei quali saranno formulate
le conseguenti richieste al giudice.

Se il dubbio insorge nel processo, le determinazioni in materia saranno trattate dal giudice dell’udienza preliminare o del
dibattimento.

Il codice non affronta il tema dell’errore sull’identità fisica (c.d. errore di persona) che risulta nel corso della fase delle indagini
preliminari, ma in materia soccorre l’ampiezza delle formule per la quale è consentito al P.M. richiedere il decreto di
archiviazione (art 411).

Se l’errore di persona risulta evidente, l’arrestato in flagranza/fermato deve essere immediatamente liberato.

Se l’errore di persona risulta, invece nel processo, il giudice, ex art 68, sentiti obbligatoriamente il P.M. e l’imputato, pronuncia
sentenza ex art 129.
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L’errore di persona continua a sfociare, di regola, in una sentenza meramente processuale; pertanto, la sentenza resa ex art
68 (“Errore sull’identità fisica dell’imputato”), pur se divenuta irrevocabile, è sfornita di efficacia preclusiva.

Ne discende che la persona erroneamente estromessa dal processo torna ad esservi assoggettata quando, in seguito, risulti
essere il vero imputato.

L’incertezza circa l’età minore dell’imputato (art 67) è sciolta dal giudice minorile con le forme caratteristiche di quel rito.

Al pari di quanto osservato per il caso di incertezza sull’identità fisica, anche l’incertezza sull’esistenza in vita dell’imputato
non è più disciplinata dal codice.

Se il dubbio è risolto nel senso della morte dell’imputato, ex art 69 (non conta la dichiarazione di morte presunta):

 nel corso delle indagini preliminari il P.M. chiede l’archiviazione per estinzione del reato,
 mentre, nel corso del giudizio, il giudice proscioglie.

Il richiamo all’art 129 fatto nel co.1 art 69 ha un significato ben più pregnante rispetto alla disciplina dell’errore di persona.

Posto che la morte dell’imputato si risolve in una causa estintiva del reato, la relativa declaratoria rimane subordinata in
modo esplicito alla gerarchia delle formule scaturente dall’art 129 co.2.

Pertanto, l’accertata morte dell’imputato non dovrebbe impedire al giudice che l’imputato non l’ha commesso o che il fatto non
costituisce reato, di adottare la formula di merito.

L’art 69 co.2 ha cura di precisare che la sentenza erroneamente dichiarativa dell’estinzione del reato per morte dell’imputato
non impedisce un nuovo esercizio dell’azione penale per il medesimo fatto a carico della medesima persona.

25. Infermità mentale e partecipazione cosciente. (Art 70-73)

 ogni persona fisica  titolare della capacità ad essere parte nel processo penale  ossia è legittimata ad assumere la
qualità di imputato

Tale capacità difetta negli infanti e negli immuni, in modo da distinguere:

 immunità assoluta  esenzione dalla giurisprudenza per tutte le imputazioni;


 immunità relativa  esenzione solo per alcune.

Per l’immunità relativa è improprio parlare di “esenzione dalla giurisdizione”, dato che il processo può ben, in tali casi,
instaurarsi al solo fine di verificare se il fatto è coperto dal “privilegio”.

Diversa è la capacità processuale dell’imputato  idoneità ad esercitare, nel processo, diritti e facoltà ricollegati all’assunzione
di tale qualità.

Generalmente, la capacità processuale dell’imputato coincide con la sua capacità di essere parte.

Esistono, però, delle eccezioni:


 ad esempio, l’imputato nel giudizio di cassazione è privo della capacità processuale, dovendo stare in giudizio a
mezzo del difensore;
 quella più vistosa è quella dell’infermità mentale dell’imputato sia antecedente che sopravvenuta al fatto
costituente reato.

Il presupposto dell’infermità mentale dell’imputato è commisurato non più sul parametro penalistico della non punibilità, ossia
sulla mancanza della capacità di intendere o di volere, bensì sulla inidoneità del soggetto a partecipare coscientemente al
processo.

Ciò vale sia per il caso di infermità sopravvenuta che antecedente.

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L’art 70, disciplinante “accertamenti sulla capacità dell’imputato”, presenta una gamma di situazioni in cui l’infermità di mente
dell’imputato risulta solo diminuita, senza che sia scomparsa, purché produca l’effetto di impedirne una consapevole
partecipazione.

Restano irrilevanti le situazioni nelle quali l’esercizio dell’autodifesa è ostacolato da altre cause, prime fra tutte le infermità
fisiche sopravvenute.

Ad esse pongono un rimedio altri istituti, come la sospensione o il rinvio dell’udienza.

ART 70  Accertamenti sulla capacità dell’imputato.


“Quando non deve essere pronunciata sentenza di proscioglimento o di non luogo a procedere e vi è ragione di ritenere che,
per infermità mentale (il riferimento al “sopravvenuta al fatto” è stato dichiarato illegittimo ex sent.340/1992), l’imputato
non è in grado di partecipare coscientemente al processo, il giudice, se occorre, dispone, anche d’ufficio, perizia.” (co.1)

“Durante il tempo occorrente per l’espletamento della perizia il giudice assume, a richiesta del difensore, le prove che possono
condurre al proscioglimento dell’imputato, e, quando vi è pericolo nel ritardo, ogni altra prova richiesta dalle parti.” (co.2)

“Se la necessità di provvedere risulta durante le indagini preliminari, la perizia è disposta dal giudice a richiesta di parte con le
forme previste per l’incidente probatorio.
Nel frattempo restano sospesi i termini per le indagini preliminari e il P.M. compie i soli atti che non richiedono la
partecipazione cosciente della persona sottoposta alle indagini.
Quando vi è pericolo nel ritardo, possono essere assunte le prove nei casi previsti ex art 392.” (co.3)

Accertato (a seguito degli accertamenti ex art 70) che lo stato psichiatrico dell’imputato ne impedisce la cosciente
partecipazione al procedimento pur manifestando allo stato carattere reversibile, il giudice emette ordinanza di sospensione
del procedimento ex art 71 co.1 (“Sospensione del procedimento per incapacità dell’imputato”).

L’ordinanza, ricorribile per cassazione, produce una pluralità di effetti;

 infatti, ex co.2, con tale ordinanza il giudice nomina all’imputato un curatore speciale, designando di preferenza l’eventuale
rappresentante legale;
 ex art 18 co.1 lett.b  obbligatoria separazione del processo;
 inoperatività della regola ex art 75 co.3 circa la sospensione obbligatoria del processo civile (ex co.6 art 71).

Ex co.3, contro l’ordinanza possono ricorrere per cassazione il P.M., l’imputato e il suo difensore nonché il curatore speciale
nominato dall’imputato.

Al curatore speciale è consentito:


 sia di ricorrere per cassazione avverso l’ordinanza di sospensione,
 sia di assistere agli atti disposti sulla persona dell’imputato, nonché a quelli rispetto ai quali tale potere è
riconosciuto all’imputato stesso.

Ex co.4, la sospensione non impedisce al giudice di assumere prove, alle condizioni e nei limiti stabiliti ex art 70 c.2. A tale
assunzione il giudice procede anche a richiesta del curatore speciale (vedi le facoltà consentite al curatore speciale).

Ex co.5, se la sospensione interviene nel corso delle indagini preliminari, si applicano le disposizioni previste ex art 70 co.3.

Ex co.6, nel caso di sospensione, non si applica la disposizione ex art 75 co.3.

La materia della capacità processuale è stata modificata per effetto della l.103/2017. È opportuno, però, un riassunto.

In materia di definizione del procedimento per incapacità dell’imputato, distingue l’ipotesi in cui l’incapacità:
 sia reversibile
 da quella in cui essa sia irreversibile.

Sul piano sostanziale, l’art 159 co.1 c.p. disponeva che il corso della prescrizione rimanesse sospeso quando il
procedimento/processo penale fosse, a sua volta, sospeso per “impedimento delle parti”.

Ciò, rischiava di dar vita alla figura dell’”eterno giudicabile”, cioè dell’imputato che, affetto da infermità psichica irreversibile,
resta assoggettato alla giurisdizione penale per tutto il resto della vita.

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A tale stati processuale prodottasi, non era in grado di porre rimedio la declaratoria di estinzione del reato per prescrizione,
a causa della sospensione pure di questa.

Solo la declaratoria di estinzione del reato per morte dell’incapace metteva fine agli effetti della doppia sospensione.

Era necessario, ad una attenta analisi, evitare che l’irreversibilità della condizione mentale dell’imputato impedisse la
decorrenza del termine prescrizionale del reato e di affermare il conseguente dovere del giudice di pronunciare la sentenza di
non luogo a procedere o di non doversi procedere per intervenuta estinzione del reato.

Un intervento in materia sembrava, però, indiscutibile; e per i reati imprescrittibili, ossia punibili con l’ergastolo, la figura
dell’”eterno giudicabile” non scompariva affatto dal sistema.

La riforma Orlando ha introdotto l’art 72bis (“definizione del procedimento per incapacità irreversibile dell’imputato”) con
l’intento di definire il procedimento in tempi ragionevoli.

ART 72bis  Definizione del procedimento per incapacità irreversibile dell’imputato.


“Se, a seguito degli accertamenti previsti ex art 70, risulta che lo stato mentale dell’imputato è tale da impedire la cosciente
partecipazione al procedimento e che tale stato è irreversibile, il giudice, revocata l’eventuale ordinanza di sospensione del
procedimento, pronuncia sentenza di non luogo a procedere o sentenza di non doversi procedere, salvo che ricorrano i
presupposti per l’applicazione di una misura di sicurezza diversa dalla confisca.” (co.1)

Per coordinare la nuova disposizione, il legislatore ha provveduto anche a modificare direttamente la disposizione ex art 345
(“Difetto di una condizione di procedibilità”), la quale regola in via generale le fattispecie in cui sopravvenga una condizione del
procedere originariamente mancante, mediante la previsione dei casi in cui si verifichi una erronea dichiarazione dello stato di
incapacità irreversibile dell’imputato, o che l’incapacità venga meno.

In tali casi, dunque, vi è la possibilità di una riapertura del procedimento, in deroga all’art 649.

L’art 72bis eccettua dalla pronuncia della sentenza di non doversi procedere per incapacità irreversibile le fattispecie in cui si
debba applicare una misura di sicurezza diversa dalla confisca.

La misura di sicurezza potrà scattare solo in via provvisoria non potendovi essere alcuna condanna per il reato addebitato.

L’applicazione provvisoria di simili misure impone lo svolgimento di accertamenti periodici sulla permanenza della
pericolosità sociale, ex art 313 co.2.

Tuttavia, per scongiurare il rischio di “ergastoli bianchi”, nel 2014 è stato introdotto un termine di durata massima per le
misure di sicurezza detentive.

La clausola finale dell’art 72bis vale a coprire l’ipotesi in cui l’imputato, divenuto dopo la commissione del reato incapace di
partecipare irreversibilmente al procedimento, risulti, allo stesso tempo, socialmente pericoloso.

L’ordinanza di sospensione del processo, destinata ad esplicare un’efficacia temporanea, è immediatamente revocata ex art 72
co.2, quando risultino integrati i presupposti:

 di una sentenza di non luogo a procedere o di proscioglimento,


 o sia acquisita la certezza che l’imputato è in grado di partecipare coscientemente al procedimento.

L’art 72 co.1 impone al giudice di verificare lo stato psichico dell’imputato con frequenze periodiche semestrali mediante
appositi accertamenti peritali.

L’inosservanza di tutte queste prescrizioni si risolve in una causa di nullità a regime intermedio, essendo in gioco l’intervento
dell’imputato.

Quanto al trattamento terapeutico dell’infermo di mente, al giudice è stato sottratto il potere di disporre il ricovero
dell’imputato in un’idonea struttura del servizio psichiatrico ospedaliero.

Ex art 73 (“Provvedimenti cautelari”), vi provvede l’autorità competente (il sindaco) per l’adozione delle misure previste dalla
normativa sul trattamento sanitario delle malattie mentali;

solo se vi è pericolo nel ritardo, al giudice è consentito ordinare, anche di ufficio, il ricovero provvisorio.
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Se è stata già disposta o debba disporsi la custodia cautelare, il ricovero provvisorio in un’idonea struttura del servizio
psichiatrico ospedaliero è ordinato dal giudice adottando i provvedimenti necessari per prevenire il pericolo di fuga, ex art
286.

Qui il ricovero assume una configurazione autonoma, risolvendosi in una misura alternativa alla custodia in carcere.

26. La parte civile: legittimazione, costituzione ed esodo dal processo penale. TITOLO V (Art 74-89)
La parte civile è disciplinata nel Titolo V (art 74-89), dedicato a “Parte civile, responsabile civile e civilmente obbligato per la
pena pecuniaria”.

Rientra tra le c.d. parti eventuali  per cui il processo penale prescinde dalla loro presenza.

L’intervento della parte civile (“danneggiato”) è finalizzato ad ottenere le restituzioni o il risarcimento del danno ricollegabili al
reato oggetto di accertamento in sede penale (art 185 c.p.).

Per quanto concerne la legitimatio ad causam, l’art 74 (“Legittimazione all’azione civile”) stabilisce che l’azione civile di cui
all’art 185 c.p. possa essere esercitata dal soggetto che mira alle restituzioni o al risarcimento del danno cagionato dal reato, o
dai suoi “successori universali”.

Presuppone la lesione di una situazione giuridica sostanziale per effetto della condotta criminosa dell’autore del reato. Ha
natura secondaria ed eventuale, atteso che i comportamenti integranti illecito penale non sempre costituiscono fonte di
responsabilità civile.

Ex art 76 co.1 (“Costituzione di parte civile”), il danneggiato può costituirsi parte civile anche per mezzo di un procuratore
speciale, fermo restando che difetta il sostituto eventualmente nominato dal difensore della parte civile.

Ex co.2, la costituzione di parte civile produce i suoi effetti in ogni stato e grado del processo.

La costituzione di parte civile presuppone la legittimazione subiettiva, cioè la titolarità del diritto azionato.

È sufficiente la mera configurabilità giuridica del danno e della titolarità, mentre l’accertamento della loro reale ed effettiva
esistenza attiene al merito della decisione.

Qualora sia carente la capacità processuale del danneggiato, costui dev’essere rappresentato (es. quanto si tratti di un minore
non emancipato), assistito o autorizzato per le forme prescritte per l’esercizio delle azioni civili.

Detto ciò, l’art 77 (“capacità processuale della parte civile”) prevede due diversi correttivi per l’ipotesi in cui risulti impedito
l’inserimento dell’azione civile all’interno del processo penale:

 In primis ex co.2, viene considerata l’eventualità della nomina di un curatore speciale, necessaria quando manchi la
persona a cui spetterebbe la rappresentanza o l’assistenza e ricorrano ragioni di urgenza o quando sussista un conflitto
di interessi tra l’incapace e il suo legale rappresentante;

 In secundis ex co.4, ma solo sul presupposto di una “assoluta urgenza”, viene consentito che il P.M. eserciti l’azione
civile nell’interesse del minore/infermo di mente, finché non subentri il legale rappresentante e, quanto meno, il
curatore speciale previsto ex art 77 co.2.

A tal proposito occorre distinguere:


 “legitimatio ad causam”  si identifica con la titolarità del diritto sostanziale in capo alla persona alla quale il reato
ha cagionato un danno e che è il presupposto per la costituzione di parte civile;

 “legitimatio ad processum” (o capacità processuale)  per la quale il titolare del diritto che non abbia la capacità di
agire deve essere rappresentato, assistito o autorizzato nelle forme prescritte per le azioni civili.

 “rappresentanza processuale”  in virtù della quale la parte civile non può difendersi da sola, ma deve stare in
giudizio con il ministero di un difensore munito di procura speciale.

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Premesso che la parte civile può stare in giudizio solo con il “ministero di un difensore, munito di procura speciale”, ai fini di una
regolare costituzione devono essere rispettate le formalità stabilite ex art 78 (“Formalità della costituzione di parte civile”):

 Unitariamente alla procura di cui si è detto, è necessario venga depositata nella cancelleria del giudice procedente, o si
presentata in udienza, una dichiarazione contenente, a pena di inammissibilità, gli elementi ex art 78 co.1 lett.a-e.

Ex co.2 art 78, se è presentata fuori udienza, la dichiarazione deve essere notificata a cura della parte civile, alle altre parti e
produce effetto per ciascuna di esse dal giorno nel quale è eseguita la notificazione.

L’art 79 disciplina il “termine per la costituzione di parte civile”, e stabilisce:

 un termine iniziale la parte civile deve costituirsi “per l’udienza preliminare”

Ne consegue che, nel corso delle indagini preliminari, resta esclusa la partecipazione del danneggiato, il quale, solo se
contemporaneamente rivesta la qualifica di offeso dal reato, può avvalersi dei diritti e delle facoltà che la legge riconosce a
quest’ultimo soggetto.

 e uno finale  è previsto a pena di decadenza e coincide con l’effettuazione, da parte del giudice dibattimentale di
primo grado, degli accertamenti relativi alla costituzione delle parti ex art 484.

Conseguentemente, risulta preclusa la costituzione della parte civile una volta iniziata la trattazione delle questioni
preliminari ex art 491.
 Da un lato, anche se la mancata costituzione sia addebitabile al caso fortuito o alla forza maggiore, non è consentito
invocare la restituzione del termine, essendo un istituto riservato a coloro che già possiedono la qualità di parte;

 Dall’altro, se la costituzione avviene in extremis (esattamente dopo la scadenza del termine perentorio ex art 468
co.1), la parte civile non può più avvalersi della facoltà di presentare le liste dei testimoni, periti o consulenti tecnici
(art 79 co.3).

Anche nei confronti della parte civile opera la regola generale che esclude l’introduzione di prove a sorpresa in sede
dibattimentale.

La costituzione di parte civile non implica una sua stabile permanenza nel processo penale, dovendosi tenere presente sia
l’eventualità di una sua esclusione, sia quella di un suo spontaneo recesso.

Ex art 80 co.1 (“richiesta di esclusione della parte civile”), l’esclusione può essere la conseguenza di una richiesta motivata,
proveniente dal P.M., dall’imputato e dal responsabile civile.

Relativamente a tale richiesta, il giudice procedente è tenuto a pronunciarsi senza ritardo con un’ordinanza (inoppugnabile),
e l’eventuale esclusione della parte civile disposta in sede di udienza preliminare non è di ostacolo rispetto ad una successiva
costituzione entro il termine finale previsto dall’art 79 co.1

Come per la costituzione della parte civile, anche per l’esclusione occorre rispettare dei termini perentori, che variano a seconda
della fase processuale in cui è avvenuta la costituzione di parte civile.

Infatti, ex co.2 e 3 art 80:

 se la parte civile si è costituita “per l’udienza preliminare”  la richiesta di esclusione va effettuata prima che siano
terminati gli accertamenti relativi alla costituzione delle parti;

 se, invece, la parte civile si è costituita nella fase degli atti preliminari al dibattimento o nel corso degli atti introduttivi
al medesimo  la richiesta di esclusione deve essere avanzata in sede di trattazione delle questioni preliminari ex art
491 co.1

In mancanza di un espresso divieto in tal senso, si deve ritenere che l’eventuale rigetto della richiesta di esclusione in sede di
udienza preliminare non ne preclude la riproposizione tempestiva in dibattimento.

L’art 81 disciplina una seconda ipotesi di esclusione, ossia “esclusione di ufficio della parte civile”, per cui, ex co.1:

 il giudice, quando accerti l’inesistenza dei requisiti stabiliti per la costituzione di parte civile, può provvedere in
conformità fino a che non sia stato aperto il dibattimento di primo grado.
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Ex co.2, il giudice provvede a norma del co.1 anche quando la richiesta di esclusione è stata rigettata nell’udienza preliminare.

Le ordinanze con cui la parte civile viene ammessa/esclusa dal processo penale sono di carattere meramente processuale.

Come anticipato, si potrebbe verificare anche uno spontaneo recesso del danneggiato che, espressamente o tacitamente,
revoca la costituzione di parte civile, ad esempio:

- perché ha concluso con l’imputato una transazione sul danno,


- o perché, cambiata opinione, ritiene meglio tutelabili le sue pretese in sede civile.

Nel caso di revoca espressa, che può aver luogo in ogni stato e grado del procedimento, occorra un’apposita dichiarazione, resa
personalmente o per mezzo di un procuratore speciale.

Ex art 82 (“Revoca della costituzione di parte civile”) co.1, la suddetta dichiarazione può assumere:

 la forma orale  se fatta in udienza,


 o essere contenuta in un atto scritto  da depositare nella cancelleria del giudice procedente e notificato alle altre
parti.

Le ipotesi di revoca tacita, o presunta, sono tassativamente previste ex art 82 co.2, che menziona:
 da un lato, la mancata presentazione, in sede di discussione dibattimentale, delle conclusioni riservate ex art 523
co.1 al difensore della parte civile,
 dall’altro, il promuovimento dell’azione di danno davanti al giudice civile.

Indipendentemente dalla forma assunta, vale la regola generale in base alla quale la revoca della costituzione di parte civile non
preclude il successivo esercizio dell’azione aquiliana nella sede propria (art 82 co.4), pur dovendosi tenere presente il disposto
ex art 75 co.3, il quale stabilisce che:

 il giudizio civile resta sospeso finché, in sede penale, non venga pronunciata la sentenza non più soggetta ad
impugnazione.

27. Segue: i rapporti tra azione civile da reato e azione penale. (Art 75)
Dall’art 75 (“Rapporti tra azione civile e azione penale”) si ricava come il legislatore del 1998 ha cercato di conciliare il principio
dell’unità della giurisdizione (su cui si fondava il codice del 1930) e l’esigenza di evitare la contraddittorietà dei giudicai con il
principio della indipendenza dei giudizi fondato sull’assunto per cui electa una via non datur recursus ad alteram (scelta una via
non è possibile ricorrere ad altra).

Opera una scelta a favore dell’autonomia dei rispettivi giudizi.

ART 75  Rapporti tra azione civile e azione penale


“L’azione civile proposta davanti al giudice civile può essere trasferita nel processo penale fino a quando in sede civile non sia
stata pronunciata sentenza di merito anche non passata in giudicato.
L’esercizio di tale facoltà comporta rinuncia agli atti del giudizio; il giudice penale provvede anche sulle spese del
procedimento civile.” (co.1)

“L’azione civile prosegue in sede civile se non è trasferita nel processo penale o è stata iniziata quando non è più ammessa la
costituzione di parte civile.” (co.2)

“Se l’azione è proposta in sede civile nei confronti dell’imputato dopo la costituzione di parte civile nel processo penale o
dopo la sentenza penale di primo grado, il processo civile è sospeso fino alla pronuncia della sentenza penale non più
soggetta a impugnazione, salve le eccezioni previse dalla legge.” (co.3)

Ciò che più importa sottolineare è quanto dispone l’art 75 co.2:

 Se si prescinde dall’ipotesi di una volontà del danneggiato di trasferire la sua pretesa risarcitoria nell’ambito del
processo penale, niente impedisce che l’azione di danno procede in assoluta autonomia rispetto al parallelo processo
penale.

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Tale co.2 deve essere coordinato con gli art 651 e 652 dai quali emerge quanto segue:

 Nell’ipotesi in cui il processo penale si concluda con una sentenza irrevocabile di condanna, il danneggiato può
sfruttare nel giudizio civile l’efficacia di giudicato ad essa riconosciuta ex art 651 co.1;

 Mentre non può accadere il contrario, poiché, grazie alla clausola di salvezza inserita nella parte finale dell’art 652
co.1, è esclusa l’efficacia di giudicato della sentenza assolutoria.

L’art 75 co.3 fa salve “le eccezioni previste dalla legge”, con la conseguenza che il giudizio civile prosegue senza interruzioni il
suo corso quando:

a) Il processo penale è stato sospeso per incapacità dell’imputato;


b) Vi è stata esclusione della parte civile;
c) Non risulta possibile notificare personalmente all’imputato assente l’avviso dell’udienza preliminare;
d) La parte civile ha abbandonato il processo penale in seguito alla sua mancata accettazione del rito abbreviato;
e) L’esodo della parte civile consegue alla pronuncia di una sentenza che applica la pena su richiesta delle parti;
f) Viene accolta dal giudice la richiesta di sospensione del processo con messa alla prova;
g) Il danneggiato, già costituitosi parte civile, esercita l’azione civile in sede propria, dopo che il giudice penale ha
dichiarato estinto il reato per intervenuta oblazione.

28. Il responsabile civile. (Art 83-88)


Il soggetto danneggiato dal reato, potrebbe agire per le restituzioni e il risarcimento del danno, oltre che nei confronti
dell’imputato:

 Anche nei confronti della persona fisica o dell’ente plurisoggettivo che, ex art 185 c.p., è tenuto a rispondere per il
fatto dell’imputato.

Si tratta del responsabile civile obbligato in solido col protagonista del processo penale.

Tralasciando le tante ipotesi disciplinate ex codice civile di responsabilità per fatto altrui, con più specifico riferimento ai
profili processuali, la presenza del responsabile civile è strettamente collegata all’inserimento e al mantenimento, da parte
del danneggiato, della pretesa restitutoria o risarcitoria all’interno del processo penale.

 Da un lato, non è ipotizzabile un intervento del responsabile civile antecedentemente alla costituzione di parte civile,
 Dall’altro, al recesso o all’esclusione della parte civile consegue l’estromissione del responsabile civile (art 83 co.6 e 85
co.4).

Il responsabile civile può essere:

 Sia citato su richiesta di parte  art 83;


 Sia intervenire volontariamente nel processo penale  art 85.

Ex art 83 co.1 (“Citazione del responsabile civile”), legittimati a richiedere la citazione sono esclusivamente:

 la parte civile  che ha un trasparente interesse a fare intervenire il coobbligato solidale;


 e il P.M.  limitatamente all’ipotesi in cui, sul presupposto di una “assoluta urgenza”, abbia esercitato l’azione civile a
favore dell’infermo di mente o del minore (art 77 co.4).

Quanto ai tempi della richiesta, l’art 83 co.2 stabilisce solo il termine finale, cioè:

 che venga “proposta al più tardi per il dibattimento”  Formula, questa, che non ostacola una possibile citazione del
responsabile civile per l’udienza preliminare.

Verificato il fumus boni iuris della richiesta, il giudice procedente ordina la citazione con un decreto, il cui contenuto è
specificato ex art 83 co.3.

Inspiegabilmente, tale disposizione tralascia un elemento essenziale di qualsiasi vocatio in iudicium; cioè l’indicazione della
data e del luogo dell’udienza, rispetto alla quale dovrà essere garantita l’osservanza dei termini dilatori normalmente previsti.

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La citazione è nulla qualora:

 per omissione o per erronea indicazione di qualche elemento essenziale, il responsabile civile non sia stato in grado di
esercitare i suoi diritti nell’udienza preliminare o nel giudizio,
 o qualora risulti nulla la relativa notificazione.

Ex art 84 co.1 (“Costituzione del responsabile civile”), il responsabile civile, regolarmente citato, non è per ciò solo tenuto ad
intervenire nel processo:

 può optare per una sua scelta rinunciataria, che non neutralizza il potere del giudice di addebitargli, in sentenza, la
responsabilità per il fatto dell’imputato;
 viceversa, può decidere di costituirsi, fermo restando che solo in tal caso assume la qualità di parte e si può avvalere
delle relative facoltà (ad esempio, quella di essere esaminato ex art 208).

Al pari della parte civile, sta in giudizio col ministero di un difensore;

inoltre, il responsabile civile, al quale è estesa la regola dell’immanenza della costituzione (art 84 co.4), può costituirsi in ogni
stato e grado del processo, anche per mezzo di procuratore speciale, depositando nella cancelleria del giudice procedente o
presentando in udienza una dichiarazione che deve contenere, a pena di inammissibilità, gli elementi indicati ex art 84 co.2.

se la citazione è regolare, l’assenza del responsabile civile non determina la sospensione o il rinvio del dibattimento, né una
nuova fissazione dell’udienza preliminare.

Anche se non è stato citato, il responsabile civile può intervenire volontariamente nel processo penale sempre che:

 vi sia stata costituzione di parte civile o il P.M. abbia agito come supplente ex art 77 co.4.

Relativamente alla forma, per l’intervento volontario, vale quanto disposto:

 ex co.1 e 2 art 84  con riferimento alla costituzione su richiesta di parte,


 nonché ex art 85 co.3 per cui, in caso di dichiarazione presentata fuori udienza, si impone la sua notificazione alle
altre parti, a cura del responsabile civile, stabilendo che la stessa abbia effetto dal giorno della rispettiva notificazione.

Dal punto di vista temporale, esiste un termine finale, stabilito a pena di decadenza, che coincide con l’effettuazione, in primo
grado, degli accertamenti relativi alla costituzione delle parti, previsti ex art 484.

Tanto la citazione (art 83 co.6) quanto l’intervento (art 85 co.4) del responsabile civile perdono efficacia in caso di revoca
della costituzione di parte civile o di esclusione di quest’ultima ex art 80 e 81.

Inoltre, va tenuta presente anche la possibilità di una sua esclusione su richiesta di parte o di ufficio.

Le parti legittimate a proporre l’esclusione sono:


 l’imputato, la parte civile e il P.M. ex art 86 co.1;
 anche il responsabile civile, costituitosi seguito di citazione  il quale può chiedere la propria esclusione:
- oltre che per ragioni di legittimazione,
- anche qualora “gli elementi di prova raccolti prima della citazione possano recare
pregiudizio alla sua difesa” (art 86 co.2).

La richiesta (motivata) di esclusione, sulla quale il giudice decide con ordinanza, deve essere proposta, a pena di decadenza:

 “non oltre il momento degli accertamenti relativi alla costituzione delle parti nella udienza preliminare o nel dibattimento”
(art 86 co.3).

Per la fase dibattimentale, l’indicazione è da ritenersi imprecisa.

Ne consegue, dunque, una coincidenza col termine riservato al giudice per l’esclusione di ufficio del responsabile civile:

ex art 87 co.1 e 3 (“Esclusione di ufficio del responsabile civile”), l’esclusione sarà disposta, con ordinanza inoppugnabile:
 sia qualora venga accertata la mancanza dei requisiti per la citazione o per l’intervento del responsabile civile,
 sia qualora venga accolta dal giudice la richiesta di giudizio abbreviato.

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Quanto alla ratio di questa seconda ipotesi di esclusione, va tenuta presente la fisionomia del giudizio abbreviato, che implica
una decisione “allo stato degli atti”, sulla base, cioè, del materiale probatorio raccolto durante le indagini preliminari, alle
quali il responsabile civile è estraneo.

Vale, per il responsabile civile quanto si è in precedenza precisato circa la rilevanza meramente processuale dei provvedimenti di
ammissioni e di esclusione della parte civile (art 88 co.1 e 2).

Se, l’esclusione del responsabile civile è stata deliberata su richiesta della parte civile, viene meno, per il soggetto danneggiato
dal reato, la possibilità di esercitare l’azione riparatoria ex delicto in sede propria.

29. Il civilmente obbligato per la pena pecuniaria e l’ente responsabile per l’illecito amministrativo
dipendente da reato. (Art 89)
La responsabilità della persona civilmente obbligata si concretizza nel momento in cui il condannato risulta insolvibile (art 534).

L’obbligazione a carico della persona/ente civilmente obbligati, è una forma di responsabilità civile verso lo Stato.

Essa ha natura sussidiaria ed eventuale, con caratteristiche fideiussorie. La condanna del civilmente obbligato è ad
esecutività condizionata all’insolvibilità dell’imputato, e non va iscritta nel casellario giudiziario.

Il civilmente obbligato è, per effetto della condanna, assoggettato al pagamento non della sanzione pecuniaria penale, ma
dell’equivalente importo.

Non è prevista la possibilità di un intervento volontario; perché la persona civilmente obbligata non avrebbe interesse, dato
che, se rimane fuori dal processo penale, risulta scongiurata l’eventualità di una sua condanna.

Invece, può essere citata, “per l’udienza preliminare o per il giudizio”, su richiesta del P.M. o dell’imputato (art 89 co.1),
entrambi interessati affinché la sanzione pecuniaria non resti infruttuosa.

Per quanto riguarda la citazione, la costituzione e l’esclusione della persona civilmente obbligata per la pena pecuniaria,
l’art 89 co.2 rinvia alla normativa dettata per il responsabile civile, escludendo l’applicabilità dell’art 87 co.3: non viene
disposta la sua esclusione da parte del giudice che accoglie la richiesta di giudizio abbreviato.

La recente normativa (d.lgs.231/2001), prevede l’irrogazione di sanzioni amministrative, consistenti nella sanzione pecuniaria,
nelle sanzioni interdittive, nella confisca e nella pubblicazione della sentenza, a carico degli enti forniti di personalità giuridica,
delle società e delle associazioni anche prive di personalità giuridica, qualora vengano accertati reati commessi nel loro
interesse o a loro vantaggio da parte di persone che rivestano funzioni di rappresentanza, di amministrazione o di direzione
dell’ente, nonché di persone che ne esercitino, anche di fatto, la gestione e il controllo, ed infine, di persone sottoposte alla
direzione o alla vigilanza dei soggetti precedentemente menzionati.

La responsabilità amministrativa collegata al reato presupposto e le relative sanzioni possono venire in rilievo solo se
espressamente previste da una legge entrata in vigore prima della commissione del fatto.

Quanto ai profili processuali, è prioritario chiarire che la cognizione dell’illecito amministrativo addebitabile all’ente appartiene
al giudice penale competente per il reato dal quale l’illecito amministrativo dipende

La partecipazione dell’ente al processo penale è solo eventuale; in caso di sua mancata costituzione, si stabilisce che bisogna
procedere alla dichiarazione di contumacia.

Tenuto conto del fatto che la categoria della contumacia è stata cancellata nel 2014, si tratta di un difetto di coordinamento,
al quale si deve ovviare in via interpretativa, ritenendo applicabile la vigente normativa relativa all’imputato assente.

30. La persona offesa dal reato. TITOLO VI (Art 90-95)


La disciplina della persona offesa dal reato è contenuta nel Titolo VI (art 90-95) e va tenuta distinta dal concetto di parte civile.

Il termine “vittima” è usato una sola volta ex art 498 co.4ter.

Ad essa è attribuibile la qualifica di soggetto, e non quella di parte processuale.


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A livello europeo, la tutela della persona offesa è particolarmente rilevante.

Da ricordare, è la direttiva 2012/29/UE che detta norme minime in materia di diritti, assistenza e protezione delle vittime di
reato; con riferimento alle quali è costante la preoccupazione di scongiurare il paradosso di un processo penale, alla cui
instaurazione consegua il deleterio fenomeno della vittimizzazione secondaria.

Sulla scia dell’orientamento teso a garantire diritti, assistenza e protezione alle vittime di reato, è stato emanato il
d.lgs.212/2015, con cui l’Italia ha dato attuazione alla direttiva 2012/29/UE, adeguandosi alle regole europee sulla vittimologia.

Il dato più importante da evidenziare, è quello emergente ex art 90quater, dove vengono indicati i criteri dai quali è
desumibile che la persona offesa versa in una condizione di “particolare vulnerabilità”.

Gli elementi da prendere in considerazione sono:


 sia l’età della vittima e il suo eventuale stato di infermità/deficienza psichica,
 sia il tipo di reato nonché le modalità e le circostanze del fatto per il quale si procede.

Ex co.1 90quater, per la valutazione degli ultimi due criteri, bisogna accertare “se il fatto risulta commesso con violenza alla
persona o con odio razziale, se è riconducibile ad ambiti di criminalità organizzata o di terrorismo, o di tratta degli esseri
umani, se si caratterizza per finalità di discriminazione, e se la persona offesa è affettivamente, psicologicamente o
economicamente dipendente dall’autore del reato.”

Qualora si pervenga alla conclusione che la persona offesa possa essere definita particolarmente vulnerabile, le devono
essere assicurate varie forme di tutela, previste per rispettare il più possibile la fragilità psico-emotiva di persone seriamente
ferite dal reato commesso nei loro confronti.

Con la legge di stabilità del 2016, viene stabilita l’attivazione, nelle aziende sanitarie ed ospedaliere, di un protocollo di
protezione denominato “Percorso di tutela delle vittime di violenza” (c.d. codice rosa), finalizzato a garantire un supporto
medito e psicologico alle persone vulnerabili che abbiano subito la “altrui violenza, con particolare riferimento alle vittime di
violenza sessuale, maltrattamenti o atti persecutori”.

Vale la pena ricordare la l.122/2016 che mira ad attuare la direttiva 2004/20/CE, finalizzata a garantire un indennizzo da parte
dello Stato alle vittime di un reato intenzionale violento, anche se commesso in uno Stato membro diverso da quello in cui il
richiedente l’indennizzo risiede abitualmente.

La richiesta di indennizzo è formulabile da chi è rimasto vittima sia di un reato doloso commesso con violenza alla persona, sia
del reato previsto ex art 603bis c.p.

L’indennizzo mira alla rifusione delle spese mediche e assistenziali, tranne che nel caso di omicidio e violenza sessuale, essendo
in questi casi elargito anche in assenza di tali spese.

Per i presupposti per il conseguimento dell’indennizzo, i più importanti consistono:

 nella titolarità, da parte del richiedente, di un reddito annuo non superiore a quello previsto per l’ammissione al
patrocinio a spese dello Stato,
 e nell’infruttuoso esperimento dell’azione esecutiva nei confronti dell’autore del reato,

fatta salva:

 sia l’ipotesi in cui il giudice penale abbia dichiarato che quest’ultimo (autore del reato) è rimasto ignoto,
 sia quella in cui l’autore del reato abbia ottenuto l’ammissione al gratuito patrocinio nel procedimento penale/civile
sfociato nell’accertamento della sua responsabilità.

Eccezione, quest’ultima, introdotta con la legge europea 167/2017, che ha aumentato sensibilmente il contenuto annuale
dello Stato previsto dal legislatore del 2016 a favore del “Fondo di rotazione per la solidarietà alle vittime dei reati di tipo
mafioso, delle richieste estorsive, dell’usura e dei reati intenzionali violenti.”

31. I diritti e le facoltà della persona offesa.


L’art 90, disciplinante “diritti e facoltà della persona offesa dal reato” riconosce, al co.1 la legittimazione, per l’offeso dal reato,
a “presentare memorie e, con esclusione del giudizio di cassazione, a indicare elementi di prova”.

Dunque, la persona offesa è legittimata a presentare, lungo l’intero arco del procedimento, memorie, cioè elaborati scritti di
vario contenuto, coi i quali si possono avanzare istanze, illustrare questioni o toccare temi rilevanti per il processo.
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A seconda dei casi, le memorie saranno indirizzate:

 Al P.M.  es. per prospettare una diversa ricostruzione del fatto criminoso o per sollecitare la richiesta di una misura
cautelare,
 O al giudice es. per eccepire una nullità.

In entrambe le ipotesi tali soggetti non hanno il dovere di deliberare sulle medesime.

Sempre in via generale, alla persona offesa è riconosciuto anche, in ogni stato e grado del procedimento (escluso il giudizio
davanti la corte di cassazione) il potere di “indicare elementi di prova”.

Un settore in cui il ruolo della persona offesa risulta particolarmente valorizzato è quello della “sospensione del processo con
messa alla prova”, introdotta con la l.67/2014 e che ha affiancato l’omogenea figura di probation processuale operante nel
settore minorile.

Nell’ipotesi in cui sia praticabile e abbia successo l’attività di mediazione tra imputato e persona offesa, tale circostanza
costituisce la premessa di una valutazione positiva della prova e della conseguente declaratoria di estinzione del reato.

Sulla questione della capacità processuale, l’art 90 co.2 prende in considerazione il soggetto minorenne nonché quello
interdetto per infermità di mente/inabilitato, rinviando a quanto disposto ex art 120 e 121 c.p. in tema di esercizio del diritto di
querela:

 Per un verso, i minori under 14 e gli interdetti per infermità di mente, devono essere rappresentati dai genitori e dal
tutore; mentre, trattandosi di minore 14-18 anni o di inabilitato, la legittimazione ad esercitare i diritti e le facoltà
riconosciuti alla persona offesa spetta tanto al diretto interessato quanto ai genitori, al tutore ed al curatore;

 Per altro verso, il richiamo dell’art 121 c.p. autorizza la nomina di un curatore speciale.

In ogni caso, a differenza di quanto previsto per le parti private, la legge autorizza, ma non obbliga, la persona offesa a
nominare un difensore (art 101 co.1), il quale è legittimato a svolgere anche le investigazioni difensive ex Titolo VI-bis libro V

Dunque, la persona offesa potrà operare anche in prima persona.

Per concludere l’analisi dell’art 90, esso è stato modificato dal d.lgs.212/2015, il quale oltre ad integrare il co.3, ha introdotto
anche il co.2bis.

Il co.2bis disciplina l’ipotesi in cui si concretizzi una situazione di incertezza circa la minore età della persona offesa.

Il giudice dispone, anche di ufficio, una perizia e, se nonostante ciò, il dubbio non viene sciolto, la minore età è presunta.

Per quanto riguarda il co.3, si tratta di una disposizione in cui viene sancita ope legis un’estensione soggettiva delle prerogative
riservate alla persona offesa, allorché quest’ultima sia deceduta in conseguenza del reato.

Grazie al d.lgs. del 2015 si è allargata la cerchia delle persone a cui sono attribuiti le facoltà ed i diritti riservati alla persona
offesa; si avvantaggiano, ormai:
 non solo i prossimi congiunti di chi è deceduto in conseguenza del reato,
 ma anche le persone che, oltre ad essere a lui legate da una relazione affettiva, convivano stabilmente col medesimo.

Con la modifica del 2017 è da ricomprendere, nel novero, anche “la parte di un’unione tra persone dello stesso sesso”.

Il d.lgs.212/2015 ha anche introdotto gli artt. 90bis e 90ter (oltre al già citato 90quater).

Con l’art 90bis (“Informazioni alla persona offesa“) si stabilisce che la persona offesa debba essere informata in una lingua a lei
comprensibile e con riguardo ai diritti informativi, si è riconosciuto alla persona offesa il diritto di chiedere all’autorità
procedente informazioni relative allo stato del procedimento, senza pregiudizio del segreto investigativo, una volta che siano
decorsi 6 mesi dalla presentazione della denuncia/querela (art 335 co.3ter).

Coerentemente, si è inserito nella comunicazione sui diritti ex art 90bis l’avviso della “facoltà di ricevere comunicazione del
procedimento e delle iscrizioni di cui all’art 335 co.1,2,3ter”.

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Il richiamo alla necessità di tutelare il segreto investigativo e il riferimento alla mera possibilità di “chiedere di essere informata”
sembrano lasciare un’ampia discrezionalità all’autorità procedente.

L’obiettivo di fornire alla persona offesa un elemento di conoscenza caratterizza pure l’art 90ter (“Comunicazioni dell’evasione e
scarcerazione”).

Con tale norma viene data attuazione alla direttiva 2012/29/UE che obbliga gli Stati membri a garantire alla vittima la
possibilità di essere informata senza ritardo della scarcerazione/evasione della persona indagata, imputata o condannata

Dunque, affinché si proceda alla comunicazione in esame, devono sussistere 3 condizioni:


 il processo penale deve riguardare o aver riguardato un delitto commesso “con violenza alla persona”;
 bisogna che la persona offesa abbia richiesto di essere informata;
 si deve poter escludere che dalla comunicazione alla persona offesa derivi il pericolo concreto di un danno per
l’imputato, il condannato, l’internato

danno ricollegabile ad eventuali condotte di carattere ritorsivo.

Per concludere, la comunicazione delle informazioni elencate ex art 90bis nonché quella della segnalazione ex art 90ter, non
sono previste a pena di nullità, per cui dalla loro eventuale omissione deriva una semplice irregolarità (art 124 co.1).

32. Gli enti e le associazioni rappresentativi di interessi lesi dal reato.


Se si tiene presente che esistono reati che violano interessi collettivi/diffusi, si riesce a comprendere la ratio dell’art 91, che
crea un soggetto processuale ignoto alla legislazione previgente, equiparandolo alla persona offesa dal reato.

ART 91 Diritti e facoltà degli enti e delle associazioni rappresentativi di interessi lesi dal reato
“Gli enti e le associazioni senza scopro di lucro ai quali, anteriormente alla commissione del fatto per cui si procede, sono state
riconosciute, in forza di legge, finalità di tutela degli interessi lesi dal reato, possono esercitare, in ogni stato e grado del
procedimento, i diritti e le facoltà attribuiti alla persona offesa dal reato.” (co.1)

Ex art 92 (“consenso della persona offesa”), si ricava che la partecipazione degli enti/associazioni è subordinata al consenso
della persona offesa, al fine di evitare l’intervento di soggetti non graditi a quest’ultima, effettiva portatrice dell’interesse leso
dal reato (es. associazioni di tutela dei minori, in processi per reati di pedofilia).

Si prevede un regime particolarmente rigoroso per quanto attiene alle forme di manifestazione del consenso, il quale può essere
accordato a favore di una sola associazione e revocato in ogni momento con le medesime forme.

Con l’art 93 si disciplina l’”intervento degli enti o delle associazioni”, delineando gli elementi che l’atto di intervento deve
contenere a pena di inammissibilità.

Ex art 94 (“Termine per l’intervento”), gli enti e le associazioni rappresentative di interessi lesi possono intervenire nel
procedimento fino a che non siano compiuti gli adempimenti previsti ex art 484 (“Costituzione delle parti”).

L’art 95 disciplina i “provvedimenti del giudice”.

L’intervento degli enti esponenziali comporta una fase incidentale di controllo sulla sua ammissibilità; la procedura è diversa
a seconda che l’intervento sia avvenuto in udienza o fuori da essa.

Inoltre, è previsto un controllo ex officio del giudice il quale, seppure nella fase successiva all’esercizio dell’azione penale, può
escludere l’ente qualora accerti la mancanza dei requisiti richiesti.

Occorre considerare, infine, l’estromissione che il giudice dispone ex officio quando accerta, “in ogni stato e grado del
processo”, la mancanza dei requisiti richiesti dalla legge per l’intervento dell’ente collettivo (art 95 co.4). Ad ogni modo:

 Se da un lato, il termine finale è molto più ampio di quelli stabiliti per la dichiarazione di opposizione,
 Dall’altro, è necessario attendere l’inizio del processo.

Con la conseguenza che, nel corso delle indagini preliminari, l’estromissione dell’ente collettivo deve essere collegata ad
un’opposizione di parte.

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33. Il querelante
L’esercizio dell’azione penale, da parte del P.M., in relazione ad una serie di reati espressamente indicati dal legislatore, è
subordinato ad un’esplicita voluntas persecutionis, che la persona offesa o, in sua vece, gli altri soggetti menzionati ex art 120
(“Diritto di querela”) e 121 (“Querela esercitata da un curatore speciale”) c.p. sono tenuti ad esprimere nella forma della querela
(art 50 co.2).

 Da un lato, la querela appartiene alla categoria delle notizie di reato, e in particolare, alla sottocategoria delle condizioni di
procedibilità;
 Dall’altro, è innegabile l’importanza della posizione del querelante nel processo penale sviluppatosi in seguito alla sua
iniziativa.

Infatti, ex art 178 co.1 lett.c, si sanziona con nullità l’omessa citazione in giudizio del querelante; così come altri articolo che
gli riconoscono una certa importanza.

Si tratta, infatti, di una posizione di ben maggiore rilievo rispetto a quella in cui si collocano gli autori di altri tipi di notitiae
criminis.

La normativa di riferimento per il querelante è quella contenuta nel codice penale (art 120-126), da richiamare per un miglior
apprezzamento di quanto contenuto nel codice di rito.

Un primo dato da considerare concerne i limiti temporali entro cui deve essere presentata la querela:

 Di regola  entro 3 dal giorno della notizia del fatto (con possibilità di raddoppio del termine per alcuni reati ex art
609septies c.p.).

Nel caso in cui si debba nominare un curatore speciale per la presentazione della querela, il termine decorre dal giorno in cui
gli è notificato il decreto di nomina.

È necessario che, da parte del soggetto legittimato a sporgere querela non vi sia stata rinuncia, la quale opera automaticamente
nei confronti di tutti gli autori del reato, e che può essere espressa o tacita.

Circa le forme della rinuncia espressa, si rinvia all’art 339 (“Rinuncia alla querela”), il cui co.2 sancisce l’inefficacia dell’atto
abdicativo sottoposto a termini/condizioni.

Ulteriore principio, è espresso dalla regola della c.d. indivisibilità della querela, operante sul lato attivo e passivo:
 Il reato commesso in danno a più soggetti è perseguibile anche quando la querela sia presentata da una sola delle
persone offese (art 122 c.p.);
 In caso di concorso di persone nel reato, la querela contro una di esse si estende di diritto agli altri concorrenti (art
123 c.p.).

A parte limitate eccezioni (contenute nel c.p.), il diritto di querela si estingue

 in seguito alla morte della persona offesa che non lo abbia ancora esercitato, mentre, in caso contrario, la morte è
irrilevante ai fini dell’estinzione del reato (art 126 c.p.).

L’estinzione del reato consegue, invece:

 alla remissione della querela (art 152 co.1 c.p.)  sempre che il querelato non l’abbia espressamente o tacitamente
ricusata (art 155 co.1 c.p.), e fermo restando che, se la querela è stata proposta da più persone, affinché si produca
l’effetto estintivo, è necessaria la remissione di tutti i querelanti (art 154 co.1 c.p.).

Si tratta, in sostanza, di una revoca da effettuare (salvo che non sia esclusa dalla legge) in ambito processuale o extrapenale,
prima che sia divenuta irrevocabile la sentenza di condanna (art 152 co.3 c.p.).

Come per la rinuncia, la remissione:


 può avvenire sia in forma espressa che tacita
 non può essere sottoposta a condizioni o termini,
 e in caso di concorsi di persone nel reato, si estende a tutti i concorrenti eccetto per chi l’abbia ricusata.

In tema di remissione tacita, le S.U. hanno stabilito che la mancata comparizione all’udienza dibattimentale del querelante
va interpretata come fatto incompatibile con la volontà di persistere nella querela (art 152 c.1 c.p.).
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Per quanto riguarda i profili formali della remissione bisogna far capo all’art 340 (“Remissione della querela”), il cui co.4 pone le
spese a carico del querelato, salvo che sia diversamente convenuto.

Con riferimento ai reati per i quali è prevista ex art 550 la citazione diretta davanti al tribunale in composizione
monocratica, vale la pena di ricordare la remissione ex art 555 co.3, la quale consegue al tentativo di conciliazione tra il
querelato e la persona offesa esperito con successo dal giudice in sede di udienza di comparizione.

Il capitolo dei reati perseguibili a querela è stato oggetto di particolare attenziona da parte della l.103/2017 (c.d. Riforma
Orlando), intervenuta con lo scopo di alleggerire il carico di lavoro degli uffici giudiziari:

 da un lato, è stato introdotto l’art 162ter c.p.  che ricollega l’estinzione del reato alla messa in atto di “condotte
riparatorie” da parte dell’imputato, fermo restando che la declaratoria di estinzione è circoscritta ai “casi di
procedibilità a querela”, e sempre che si tratti di reati per i quali è ammessa la remissione della medesima.

 Dall’altro, si è demandato al legislatore delegato il compito di procedere ad un ampliamento delle ipotesi in cui la
perseguibilità del reato sia subordinata alla presentazione di apposita querela.

In conformità a quanto detto, il d.lgs.36/2018 ha previsto ex novo la necessità della querela nelle fattispecie disciplinate dai
seguenti articoli del codice penale:
- Art 612 co.2  limitatamente alla previsione della minaccia “grave”;
- Art 615 co.2; art 617ter co.1; art 617sexies co.1; art 619 co.1 e art 620 c.p.

Inoltre, è intervenuto su altr disposizioni del c.p., riducendo/eliminando il riferimento a circostanze aggravanti la cui
ricorrenza escludeva la procedibilità a querela prevista per il reato base; con la conseguenza che si procede d’ufficio “qualora
ricorrano circostanze aggravanti ad effetto speciale”.

Inoltre, il d.lgs.36/2018 ha dettato una disciplina transitoria articolata nelle 2 previsioni seguenti:
1) Se i reati divenuti perseguibili a querela sono stati commessi prima della entrata in vigore del decreto in esame, il
termine per presentare la querela decorre dalla data della sua entrata in vigore, sempre che la persona offesa
abbia avuto in precedenza notizia del fatto di reato;

2) Qualora il procedimento penale sia pendente, il P.M., nel corso delle indagini preliminari, o il giudice, dopo
l’esercizio dell’azione penale, informa la persona offesa della sua facoltà di presentare querela e il termine decorre
dal giorno della suddetta informativa.

Non appena entrata in vigore, quest’ultima previsione ha dato origine ad alcuni dubbi, tuttora in attesa di risposta.

34. Il difensore di fiducia dell’imputato. TITOLO VII (Art 96-108)


Molte sono le disposizioni dedicate alla difesa tecnica, attenzione riservatale dal momento in cui si sono poste le basi del nuovo
modello processuale (accusatorio).

Ciò è una logica conseguenza dell’inviolabilità del diritto di difesa ex art 24 co.2 Cost, il quale garantisce copertura:

 sia per la difesa tecnica,


 sia per l’autodifesa  attività che l’imputato esplica personalmente per dimostrare l’inconsistenza o la minore gravità
dell’accusa a suo carico.

Grazie al nuovo modello accusatorio, il difensore dell’imputato viene a svolgere un ruolo più importante e più impegnativo,
essendo tenuto non solo a dimostrare la scarsa significatività degli elementi di prova a valenza accusatoria, ma anche ad
individuare e ad acquisire elementi probatori che scagionino l’imputato o alleggeriscano la sua posizione.

Rilevante è anche la disciplina che nega qualsiasi spazio all’ipotesi di un’esclusiva autodifesa dell’imputato.

La disciplina del difensore è contenuta nel Titolo VII (art 96-108).

L’art 96 apre la disciplina con il “difensore di fiducia”, riconoscendo all’imputato il diritto di nominare non più di due difensori
di fiducia (co.1), per cui è senza effetto la terza eventuale nomina, finché non sia revocata una delle 2 precedenti nomine.

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Nel co.2 vengono disciplinate le 3 possibili modalità di nomina:


 dichiarazione orale resa dall’interessato all’autorità procedente;
 dichiarazione scritta consegnata alla medesima dal difensore;
 documento di nomina trasmessole con raccomandata.

Non è necessaria l’autenticazione/certificazione da parte del difensore dell’autografia della sottoscrizione.

Si è in presenza di un atto a forma libera, il cui fondamentale requisito è quello di esprimere la scelta del suo autore.

Ex art 391nonies (“Attività investigativa preventiva”), introdotto nel 2000, la nomina del difensore può essere fatta in via
preventiva, cioè “per l’eventualità che si instauri un procedimento penale”;

in tal caso, il mandato difensivo (la nomina), da rilasciare con sottoscrizione autenticata, deve contenere, oltra all’indicazione
del difensore, quella “dei fatti ai quali si riferisce” (co.2).

Ovviamente, il difensore deve essere in possesso dei requisiti richiesti dalla legge professionale per assistere e rappresentare
l’imputato nel processo, altrimenti si configura un vizio equiparabile all’assenza del difensore.

Può essere utile distinguere le 3 seguenti figure:


 praticante avvocato  può patrocinare davanti al giudice di pace e al tribunale in composizione monocratica nei soli
processi aventi ad oggetto i reati previsti ex art 550, per i quali si procede con citazione diretta a giudizio;

 l’avvocato  può svolgere il suo ruolo di difensore nei processi davanti ad ogni giudice penale, eccetto per la corte di
cassazione;

 l’avvocato iscritto nello speciale albo  può difendere anche davanti la cassazione. È sottoposto ad una verifica
triennale per accertare la “sussistenza dell’esercizio della professione in modo effettivo, continuativo, abituale e
prevalente”, pena la cancellazione dall’albo.

La prestazione del difensore di fiducia costituisce l’oggetto di un contratto per la cui conclusione è indispensabile l’accettazione
sia pure implicita del nominato.

Ovviamente, l’imputato è libero di scegliere il proprio difensore, senza alcun limite derivante dall’appartenenza etnica o
linguistica.

Inoltre, la nomina produce si suoi effetti, salvo cause risolutive del rapporto contrattuale sopravvenute, per tutto l’arco del
processo di cognizione (con proroga automatica in executivis dell’investitura effettuata dall’imputato per il processo di
cognizione ex art 656 co.5).

In considerazione della ridotta autonomia conseguente alla custodia carceraria, non si può più parlare di libera scelta del
difensore da parte dell’imputato quando questi è sottoposto alla più radicale restrizione della sua libertà personale.

Si deve riconoscere l’opportunità della regola che legittima i prossimi congiunti della persona arrestata, fermata o sottoposta
a custodia cautelare in carcere ad attivarsi in sua vece.

Ex art 96 co.3, è riconosciuto a costoro la facoltà di nominare con le stesse forme previste per la nomina diretta, un difensore
di fiducia che cessa di operare non appena l’interessato manifesti una diversa volontà.

Inoltre, vige un divieto per la P.G. di dare consigli sulla scelta del difensore di fiducia (art 25 disp.att.).

35. Il difensore d’ufficio.


Se l’imputato non ha nominato un difensore di fiducia o ne sia rimasto privo, ex art 97 co.1, deve essere assistito da un
“difensore di ufficio”:

a) La sua presenza è correlata all’imputato (anche se dal 2001 è previsto anche per il testimone c.d. assistito e per l’ente
responsabile per l’illecito amministrativo dipendente da reato, che si sia costituito nel relativo processo penale);
b) Il suo ruolo è sussidiario rispetto al difensore di fiducia; se quest’ultimo viene nominato, il primo cessa dalle funzioni;
c) Ha l’obbligo di prestare il patrocinio salvo che in presenza di un giustificato motivo (art 97 co.5); invece, il difensore di
fiducia è libero di non accettare la nomina.

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Deve essere iscritto nell’elenco nazionale o avere conseguito il titolo di specialista in diritto penale. Inoltre, è tenuto ad
avvisare immediatamente l’A.G. specificando le ragioni ostative, in modo che si proceda ad una nuova designazione.

Per adeguare l’istituto a criteri che ne garantissero l’effettività, in correlazione anche con l’art 111 Cost, dove di proclama che il
contraddittorio tra le parti debba svolgersi “in condizioni di parità” e che la persona accusata deve disporre “del tempo e delle
condizioni necessari per preparare la sua difesa”, sono stati promulgati due provvedimenti legislativi, ossia la l.60/2001 e la
l134/2001.

Circa la regolamentazione della difesa di ufficio, il d.lgs.6/2015 ha modificato sia l’art 97 co.2, sia l’29 disp.att..

Si è cercato di rendere più selettivi i requisiti necessari per essere iscritti nell’elenco nazionale dei difensori di ufficio; con la
conseguenza che l’avvocato deve dimostrare di essere in possesso di almeno uno dei seguenti requisiti (art 29 disp.att.):

a) Partecipazione, con superamento dell’esame finale, ad un corso biennale di formazione e aggiornamento professionale
in materia penale;
b) Iscrizione all’albo da almeno 5 anni, accompagnata da una documentata esperienza nella materia penale;
c) Conseguimento del titolo di specialista in diritto penale.

Ad ogni modo, ogni anno l’interessato deve presentare, per evitare la cancellazione dall’albo, una documentazione comprovante
l’esercizio continuato dell’attività nel settore penale.

inoltre, si è attribuito al Consiglio nazionale forense la competenza in ordine alle iscrizioni ed al periodico aggiornamento.

Il perno del nuovo sistema va individuato nell’ufficio, con recapito centralizzato, che deve essere istituito presso l’ordine
forense del capoluogo del distretto di ogni corte d’appello:
 È l’ufficio in questione che fornisce, sulla base di una selezione automatica, il nominativo del difensore d’ufficio,
ogniqualvolta gli pervenga la relativa richiesta da parte dell’A.G. o della P.G.

Per riassumere,

l’art 97, per garantire l’effettività della difesa, ha previsto la nascita dell’albo dei difensori di ufficio. L’elenco dei difensori di
ufficio, con la riforma in materia si prevede che venga unificato su base nazionale.

I difensori iscritti nell’albo potranno essere nominati ogni volta che un soggetto che ne sia sfornito necessita di assistenza legale
(quindi anche nel caso in cui il P.M. o il giudice debbano compiere un atto che richiede la presenza del difensore).

L’effettività della difesa è garantita dal fatto che il difensore nominato rimane lo stesso per tutto l’arco del processo.

Inoltre, se l’imputato non è abbiente, potrà chiedere di essere ammesso al gratuito patrocinio.

36. Patrocinio dei non abbienti e poteri del difensore.


Lo Stato assicura ai non abbienti “i mezzi per agire e difendersi davanti ad ogni giurisdizione” (art 24 co.3 Cost).

ART 98  Patrocinio dei non abbienti


“L’imputato, la persona offesa dal reato, il danneggiato che intende costituirsi parte civile e il responsabile civile possono
chiedere di essere ammessi al patrocinio a spese dello Stato, secondo le norme della legge sul patrocinio dei non abbienti”.
(co.1)

Il patrocinio dei non abbienti si traduce nel diritto, garantito dalla Costituzione, alla difesa legale ed all’assistenza ausiliaria e
tecnica ad opera di professionisti, quali consulenti tecnici, notai ed ufficiali giudiziari, scelti dallo stesso interessato ed obbligati
a prestarla, sempre a spese dello Stato, nonché all’esonero dal pagamento delle spese processuali, comprese quelle per la
consulenza tecnica, anche quando non sia esperita consulenza del P.M. o perizia di ufficio.

Il patrocinio è gratuito per l’interessato, ma i professionisti prescelti devono essere retribuiti dallo Stato.

La persona offesa dai reati di violenza sessuale, nonché, ove commessi in danno ai minori, dai reati di prostituzione e
pornografia minorile, può essere ammessa al patrocinio anche in deroga ai limiti di reddito previsti dal d.P.R. 115/2002 (€
11.369, 24).

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Il d.l.93/2013 convertito in l.119/2013 (Femminicidio), stabilisce che, attualmente è assicurata l’ammissione al patrocinio a
spese dello Stato anche alla persona offesa dai delitti di maltrattamenti, atti persecutori e mutilazioni o lesioni di organi
genitali femminili in deroga ai limiti di reddito previsti dal decreto citato.

Ad ogni modo, è importante evidenziare l’innalzamento alla soglia di € 11.493,82 del reddito annuale che consente di
usufruire del patrocinio a spese dello Stato.

È previsto che il limite di reddito venga modificato ogni 2 anni in base alle variazioni dell’indice Istat.

Nonostante l’innalzamento, rispetto al passato (si ammetteva al patrocinio chi avesse un reddito inferiore di lire 11.260.000 = €
5.815,30) dei limiti di reddito, il progresso è largamente inadeguato.

Una soluzione adottata in altri paesi (es .Francia) ed ignorata da noi, avrebbe potuto essere quella di prevedere due distinti
livelli di reddito, e di riservare un’esenzione solo parziale dalle spese processuali ai titolari del reddito di livello meno basso.

Analoga impostazione emerge dalla direttiva 2016/1919/UE, concernente l’ammissione al patrocinio a spese dello Stato per
indagati e imputati nell’ambito di procedimenti penali e per e persone ricercate nell’ambito di procedimenti di esecuzione del
mandato d’arresto europeo.

Ci si è preoccupati del rischio che vengano ammessi al patrocinio soggetti i quali non versino in realtà nella situazione di “non
abbienza”.

Dunque, l’istanza di ammissione al patrocinio deve essere respinta qualora il tenore di vita, le condizioni personali e familiari
del richiedente nonché le attività economiche da lui eventualmente svolte offrano al giudice “fondati motivi” per ritenere che
il reddito da prendere in considerazione superi il tetto stabilito dalla legge.

Recentemente questa impostazione è stata ribadita dal legislatore con termini troppo drastici. Un articolo introdotto col
d.l.92/2008 ha infatti stabilito che, nel caso di un soggetto già condannato con sentenza definitiva per taluni delitti
contestualmente elencati, il livello di reddito richiesto ai fini dell’ammissione al patrocinio statale “si ritiene” superato.

Inoltre, in merito agli effetti dell’ammissione al patrocinio, è stato disposto che il difensore del soggetto ammesso al patrocinio
può nominare sia un sostituto, sia un investigatore privato autorizzato;

a sua volta, si prevede anche che il soggetto ammesso al patrocinio possa “nominare un consulente tecnico di parte”.

La scelta del sostituto, dell’investigatore e del consulente tecnico può avvenire (rispetto al passato) anche al di fuori
dell’ambito distrettuale, sia pur con la clausola che in tal caso non sono dovute le spese e le indennità di trasferta imputabili al
travalicamento di tale ambito.

Per completare il quadro, è opportuno dare atto del superamento di taluni divieti e limitazioni contenuti nella l.217/1990.

1) In primis, l’ammissione al patrocinio non è più ostacolata dalla natura contravvenzionale del reato per cui si procede;

2) in secundis, risulta superato il disposto che non consentiva la sostituzione del difensore solo per giustificato motivo e
previa autorizzazione del giudice procedente;

3) in terzo luogo, si attenua il divieto di nomina di un secondo difensore  attualmente, grazie al d.P.R.115/2002, è
ammessa la nomina di un secondo difensore “limitatamente agli atti che si compiono a distanza”.

Eccettuata tale ipotesi, la nomina di un secondo difensore implica che gli effetti dell’ammissione al patrocinio a spese dello
Stato vengano a cessare.

Ritornando al codice, occorre ribadire la regola che (nel definire in via generale i poteri del difensore) estende a quest’ultimo le
facoltà ed i diritti spettanti all’imputato medesimo (art 99 co.1 “Estensione al difensore dei diritti dell’imputato”).

Al difensore è precluso l’esercizio di diritti e facoltà che presuppongono l’imputato come soggetto agente, ma anche in relazione
a quegli atti riservati personalmente a quest’ultimo.

Resta salva la possibilità per l’imputato di togliere effetto, con espressa dichiarazione contraria, all’atto compiuto dal difensore,
anche se per ragioni più che evidenti tale iniziativa deve essere assunta anteriormente alla pronuncia del giudice inerente
all’atto controverso (co.2 art 99).

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37. Il difensore delle parti eventuali, della persona offesa e degli enti rappresentativi di interessi lesi dal
reato.
Analogamente a quanto previsto per la costituzione delle parti nel processo civile, si stabilisce che la parte civile, il responsabile
civile e la persona civilmente obbligata per la pena pecuniaria stiano in giudizio colo ministero di un solo difensore (art 100
co.1) munito di procura speciale, ossia relativa al processo in corso, da presumere conferita solo per un determinato grado a
meno che nell’atto sia espressa una volontà diversa (co.3).

Circa la forma, è ammessa l’apposizione della procura in calce o a margine dei vari atti mediante i quali avviene l’ingresso della
parte nel processo penale.

Quale rappresentante della parte privata, il difensore può compiere e ricevere tutti gli atti del procedimento tranne quelli che la
legge riserva espressamente al rappresentato, il cui domicilio deve intendersi automaticamente eletto ad ogni effetto
processuale presso il difensore (co.5).

Inoltre, in assenza di una procura ad hoc, quest’ultimo non può compiere atti implicanti disposizioni del diritto in contesa (co.4)

Come si ricava dall’art 101 co.2 “difensore della persona offesa”, la normativa opera anche nei confronti degli enti
rappresentativi degli interessi lesi dal reato, obbligati a stare in giudizio col ministero di un difensore, mentre lo stesso non
può dirsi con riferimento alla persona offesa.

Per la persona offesa, la nomina di un solo difensore (da effettuare con le modalità di nomina del difensore dell’imputato ex
art 96 co.2) è infatti solo facoltativa (art 101 co.1), pur essendo doveroso rilevate ce in alcuni contesti processuali è ammessa
solo la partecipazione del difensore;
presso di lui risulta automaticamente domiciliata la persona offesa.

Inoltre, al difensore eventualmente nominato spetta l’esercizio dei diritti e delle facoltà riconosciuti alla persona offesa, i quali
si vanno ad aggiungere al potere di presentare in ogni stato e grado del processo memorie e richieste.

Anche il difensore della persona offesa (ex art 101) è legittimato a svolgere le investigazioni difensive ex titolo VI-bis Libro V.

38. Il sostituto del difensore.


Per garantire la continuità dell’esercizio della difesa tecnica, è stata disposta la disposizione che legittima il difensore a
nominare un sostituto (art 102 co.1).

ART 102  Sostituto del difensore


“Il difensore di fiducia e il difensore d’ufficio possono nominare un sostituto.” (co.1)

“Il sostituto esercita i diritti e assume i doveri del difensore.” (co.2)

La l.60/2001 ha modificato il co.1, facendo venir meno la necessaria sussistenza di un impedimento, rendendo la nomina del
sostituto una facoltà del difensore di fiducia e di quello d’ufficio.

Affinché sia efficace, la designazione deve essere portata a conoscenza dell’autorità procedente con le stesse forme indicate ex
co.2 art 96 per la nomina del difensore di fiducia.

Spetta al difensore nominare il sostituto, eccetto per le ipotesi prese in considerazione nell’art 97 co.4, dove è previsto che
provveda alla designazione il giudice o (nei solo casi di urgenza e previa adozione di un provvedimento motivato che indichi le
ragioni dell’urgenza) il P.M. o la P.G.

Quanto ai poteri del sostituto, è indubbio che la sostituzione non incide sulla titolarità dell’incarico difensivo, fermo restando
che il difensore sussidiario esercita i diritti ed assume i doveri del difensore impedito (art 101 co.2).

Deve ritenersi che tale traslazione non coinvolga quelle situazioni soggettive processuali aventi come fonte una procura
speciale conferita dalla parte al difensore sostituito, con la conseguenza che, ad esempio, è da considerare inammissibile la
richiesta di patteggiamento formulata dal sostituto qualora la relativa procura speciale sia stata conferita solo al difensore
che si è avvalso della sostituzione.

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39. Le garanzie di libertà del difensore


Il diritto di difesa pone a vantaggio del difensore dei limiti ai poteri investigativi degli organi inquirenti.

L’art 103, disciplinante le “garanzie di libertà del difensore” si fa carico del problema.

ART 103  Garanzie di libertà del difensore


“Le ispezioni e perquisizioni, se effettuate negli uffici dei difensori, sono consentite solo in 2 ipotesi:
a) Quando essi o altre persone che svolgono attività dello stesso ufficio sono imputati, limitatamente per
l’accertamento del reato loro attribuito;
b) Per rilevare tracce o altri effetti materiali del reato o per ricercare cose o persone specificatamente predeterminate.”
(co.1)

“Presso i difensori e gli investigatori privati autorizzati e incaricati in relazione al procedimento, nonché presso i consulenti
tecnici non si può procedere a sequestro di carte o documenti relativi all’oggetto della difesa, salvo che costituiscano corpo del
reato.” (co.2)

“Nell’accingersi a eseguire una ispezione, una perquisizione o un sequestro nell’ufficio di un difensore, l’A.G. a pena di nullità
avvisa il consiglio dell’ordine forense del luogo perché il presidente o un consigliere da questo delegato possa assistere alle
operazioni.
Allo stesso, se interviene e ne fa richiesta, è consegnata copia del provvedimento.” (co.3)

“Alle ispezioni, perquisizioni e ai sequestri negli uffici dei difensori procede personalmente il giudice o, nel corso delle indagini
preliminari, il P.M. in forza di motivato decreto di autorizzazione del giudice.” (co.4)

“Non è consentita l’intercettazione relativa a conversazioni o comunicazioni dei difensori, degli investigatori privati autorizzati
e incaricati in relazione al procedimento, dei consulenti tecnici e loro ausiliari, né a quelle tra i medesimi e le persone da loro
assistite.” (co.5)

“Sono vietati il sequestro e ogni forma di controllo della corrispondenza tra l’imputato e il proprio difensore in quanto
riconoscibile dalle prescritte indicazioni, salvo che l’A.G. abbia fondato motivo di ritenere che si tratti di corpo del reato.”
(co.6)

“Salvo quanto previsto ex co.3 art 271, i risultati delle ispezioni, perquisizioni, sequestri, intercettazioni di conversazioni o
comunicazioni, eseguiti in violazione delle disposizioni precedenti, non possono essere utilizzati.
Fermo il divieto di utilizzazione di cui al primo periodo, quando le comunicazioni e conversazioni sono comunque intercettate,
il loro contenuto non può essere trascritto, neanche sommariamente, e nel verbale delle operazioni sono indicate solo la data,
l’ora e il dispositivo su cui la registrazione è intervenuta.” (co.7)

La riforma delle intercettazioni (l.216/2017) modifica alcune disposizioni del codice di rito con la finalità di garantire la
riservatezza delle comunicazioni e delle conversazioni telefoniche oggetto di intercettazione;

in particolare, relativamente alla riservatezza delle comunicazioni dei difensori nei colloqui con l’assistito.

40. Il colloquio del difensore con l’imputato privato della libertà personale.
ART 104  Colloqui del difensore con l’imputato in custodia cautelare
“L’imputato in stato di custodia cautelare ha diritto di conferire col difensore fin dall’inizio dell’esecuzione della misura.”
(co.1)

“La persona arrestata in flagranza, o fermata ex art 384 ha diritto di conferire col difensore subito dopo l’arresto/fermo”.
(co.2)

“Nel corso delle indagini preliminari per i delitti ex art 51 co.3bis e 3quater, quando sussistono specifiche ed eccezionali
ragioni di cautela, il giudice, su richiesta del P.M. può, con decreto motivato, dilazionare, per un tempo non superiore a 5
giorni, l’esercizio del diritto di conferire col difensore.” (co.3)

“Nell’ipotesi di arresto o di fermo, il potere previsto ex co.3 è esercitato dal P.M. fino al momento in cui l’arrestato o il fermato
è posto a disposizione del giudice.” (co.4)

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“L’imputato in stato di custodia cautelare, l’arrestato e il fermato, che non conoscono la lingua italiana, hanno diritto
all’assistenza gratuita di un interprete per conferire con il difensore a norma dei commi precedenti.
Per la nomina dell’interprete si applicano le disposizioni del Titolo IV Libro II.” (co.4bis)

Il co.3 è stato così modificato dalla l.103/2017, che ha consentito rinviare il colloquio dell’indagato col difensore solo quando si
proceda per i delitti ex art 51 co.3bis e 3quater.

Si tratta dei reati per i quali è competente il P.M. del tribunale capoluogo del distretto nel cui ambito ha sede il giudice
competente.

L’introduzione del co.4bis (ex d.lgs.32/2014), estende il diritto all’interprete per i colloqui col difensore dell’imputato alloglotta
in stato di custodia cautelare, arrestato o fermato.

Anche tale diritto è gratuito completamente a carico dello Stato ed indipendente dalle condizioni economiche
dell’imputato/indagato.

41. L’abbandono della difesa e il rifiuto della difesa d’ufficio.


ART 105  Abbandono e rifiuto della difesa
“Il consiglio dell’ordine forense ha competenza esclusiva per le sanzioni disciplinari relative all’abbandono della difesa o al
rifiuto della difesa d’ufficio.” (co.1)

“Il procedimento disciplinare è autonomo rispetto al procedimento penale in cui è avvenuto l’abbandono/rifiuto.” (co.2)

“Nei casi di abbandono/rifiuto motivati da violazione dei diritti della difesa, quando il consiglio dell’ordine li ritiene comunque
giustificati, la sanzione non è applicata, anche se la violazione dei diritti della difesa è esclusa dal giudice.” (co.3)

“L’A.G. riferisce al consiglio dell’ordine i casi di abbandono della difesa, di rifiuto della difesa di ufficio o, nell’ambito del
procedimento, i casi di violazione da parte del difensore dei doveri di lealtà e probità nonché del divieto ex art 106 co.4bis.”
(co.4)

“L’abbandono della difesa delle parti private diverse dall’imputato, della persona offesa, degli enti e delle associazioni previsti
dall’art 91 non impedisce in alcun caso l’immediata continuazione del procedimento e non interrompe l’udienza.” (co.5)

L’abbandono della difesa da parte del difensore di fiducia comporta una stasi processuale fino a nuova nomina.

42. Incompatibilità, non accettazione, rinuncia e revoca del difensore.


ART 106  Incompatibilità della difesa di più imputati nello stesso procedimento
“Salva la disposizione del co.4bis, la difesa di più imputati può essere assunta da un difensore comune, purché le diverse
posizioni non siano tra loro incompatibili.” (co.1)

“L’A.G., se rileva una situazione di incompatibilità, la indica e ne espone i motivi, fissando un termine per rimuoverla.” (co.2)

“Qualora l’incompatibilità non sia rimossa, il giudice la dichiara con ordinanza provvedendo alle necessarie sostituzioni ex art
97.” (co.3)

“Se l’incompatibilità è rilevata nel corso delle indagini preliminari, il giudice, su richiesta del P.M. o di taluna delle parti private
e sentite le parti interessate, provvede ex co.3.” (co.4)

“Non può essere assunta da uno stesso difensore la difesa di più imputati che abbiano reso dichiarazioni concernenti la
responsabilità di altro imputato nel medesimo procedimento o in procedimento connesso ex art 12 o collegati ex art 371 co.2
lett.b.
Si applicano, in quanto compatibili, le disposizioni dei co.2,3 e 4.” (co.4bis)

Il divieto ex co.4 viene in gioco per non sacrificare il diritto di difesa del soggetto accusato.

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L’inosservanza di tale regola non è causa di nullità, né di inutilizzabilità delle dichiarazioni, pur essendo necessaria una verifica
attenta della loro attendibilità.

Il meccanismo ex art 106 presuppone l’esistenza di un difensore di fiducia.

Lo stesso si deve dire per le ipotesi di non accettazione, rinuncia e revoca del difensore (art 107), che:

 Se da un lato riguardano la difesa tecnica di tutte le parti private,


 Dall’altro non sono configurabili con riferimento al difensore d’ufficio.

Il denominato comune è rappresentato dal fatto che tali atti ostacolano l’instaurazione/prosecuzione del rapporto fiduciario.

Mentre nel caso di revoca, il soggetto agente è l’imputato; la non accettazione e la rinuncia sono iniziative da ricondurre al
difensore (e non è necessaria una motivazione).

Un profilo importante è quello che concerne il momento in cui iniziano a prodursi i relativi effetti.

Ex co.1 art 107, il difensore che non accetti l’incarico o vi rinunci ha l’obbligo di darne subito comunicazione all’autorità
procedente e a chi lo ha nominato.

Da distinguere, ora, è:

 Non accettazione  ha effetto dal momento in cui perviene la relativa comunicazione all’autorità procedente (co.2),
con l’eventualità di possibili vuoti di copertura difensiva medio tempore;
 Rinuncia e revoca  sono prive di effetto finché la parte non risulti assistita da un nuovo difensore (co.3 e 4).

Anzi, se ai fini di una difesa informata il nuovo difensore si avvale ex art 108 (“Termine per la difesa”) del diritto di ottenere un
termine a difesa, la rinuncia e la revoca diventano efficaci solo a partire dalla sua scadenza.

ART 108  Termine per la difesa


“Nei casi di rinuncia, revoca, incompatibilità e nel caso di abbandono, il nuovo difensore dell’imputato o quello designato
d’ufficio che ne fa richiesta ha diritto a un termine congruo, minimo di 7 giorni, per prendere cognizione degli atti e per
informarsi sui fatti oggetto del procedimento.” (co.1)

“Il termine di cui al co.1 può essere inferiore se vi è consenso dell’imputato o del difensore o se vi sono specifiche esigenze
processuali che possono determinare la scarcerazione dell’imputato o la prescrizione del reato.
In tal caso, il termine è minimo 24 ore.
Il giudice provvede con ordinanza.” (co.2)

43. Gli ausiliari del giudice e del P.M.


La categoria degli ausiliari non trova disciplina all’interno del codice di procedura.

Tal categoria è composta da coloro che affiancano il giudice o il P.M. svolgendo compiti di vario genere, in virtù del loro
carattere strumentale rispetto alla funzione della figura che ineriscono.

 ausiliare in senso lato  chi collabora, anche in via precaria ed occasionale con taluno dei soggetti processuali;

 ausiliare in senso stretto  è il coadiutore istituzionale, quello cioè la cui presenza è contrassegnata dai connotati della
continuità e della ordinarietà.

Accogliendo la seconda impostazione, il numero degli ausiliari si riduce drasticamente, dovendosi riservare tale qualifica solo
al cancelliere, al segretario, all’ufficiale giudiziario e al direttore degli istituti penitenziari.

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Capitolo II
Atti
1. Premessa.
Il Libro II (art 109-186) contiene la disciplina degli “atti” e raggruppa un complesso di regole valide per l’intero procedimento.

Sennonché, la creazione di una normativa a carattere generale non impedisce che, in rapporto alla progressione del rito, si
pongano regole speciali (esempio la disciplina della documentazione degli atti).

La disciplina contenuta nel Libro II si riferisce ad atti che si formano nel contesto del medesimo procedimento, con l’eccezione
relativa al rilascio/richiesta di copie, estratti, certificati o informazioni di atti esterni al procedimento.

La normativa sui documenti, intesi come prodotto di un’attività svoltasi fuori dal procedimento (o in un procedimento penale
diverso) è stata collocata nel Libro III (dedicato alle prove).

È opportuno delineare una serie di definizioni per comprendere meglio l’organizzazione del Libro in esame.

 Fatto giuridico  fornito dell’attitudine a produrre effetti; è un accadimento consistente in un fenomeno naturale o in un
comportamento umano non volontario (comportamenti sia positivi che negativi).

 Atto giuridico  caratterizzato (rispetto al fatto giuridico) dalla volontarietà (del comportamento umano).

Dal punto di vista della condotta, i comportamenti umani si risolvono in:

 Dichiarazioni  di volontà o di scienza, esternate verbalmente, per iscritto o in maniera gestuale;


 Operazioni  come gli esperimenti giudiziari e le ispezioni.

Se il nucleo naturalistico dell’atto è la condotta, si dovrebbe parlare di atto in senso proprio solo con riguardo all’accezione
dinamica, ossia come attività.

Tuttavia, il legislatore molto spesso usa il termine atto per designare il risultato dell’attività (e non l’attività medesima), cioè
quel che non resta documentato.

Da qui la cura legislativa nel riservare il termine “documenti” ai soli atti formati al di fuori del procedimento di cui si tratta.

Si tratta di definire l’atto processuale penale, in assenza di un’esplicita definizione legislativa.

 Sul piano soggettivo  sono tali quelli posti in essere dai soggetti del procedimento.
 Sul piano oggettivo  due sarebbero le caratteristiche essenziali dell’atto processuale penale:
 La sua attitudine a produrre effetti giuridici dotati di rilevanza processuale penale,
 Ed il suo realizzarsi nel contesto del processo penale, cioè all’interno di una fattispecie a
formazione progressiva.

Tale impostazione oggettiva non è più proponibile, stante la scelta del codice di definire due distinte sequenze denominate
“procedimento” e “processo”, il cui spartiacque è l’esercizio dell’azione penale da parte del P.M.

Atti del procedimento  tutto ciò che precede l’esercizio dell’azione penale; quindi l’intera fase delle indagini preliminari.

Atti del processo  tutto ciò che segue l’azione penale; dalla fase della udienza preliminare sino alla sentenza definitiva.

Ciò che più conta è il dato strutturale.

Nella fase delle indagini preliminari difetta un giudice investito del procedimento in senso proprio; il suo intervento è solo
eventuale, e sempre circoscritto al provvedimento richiesto.

Solo nel processo opera un giudice investito delle proprie funzioni giurisdizionali, ed è abilitato a pronunciare sentenza.

Il processo si caratterizza per la giurisdizionalità piena degli atti, che impone la completa attuazione del contraddittorio.

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Resta da individuare l’atto iniziale e finale del procedimento medesimo per l’applicazione degli art 109 ss.

Circa il momento iniziale  gli atti posti prima che la notizia di reato sia venuta ad esistenza non sono mai atti del
procedimento.

Il primo atto del procedimento  è quello immediatamente successivo alla ricezione della notizia di reato.

Ne segue che gli atti nei quali la notizia medesima si sostanzia (denuncia, referto, querela, istanza o richiesta) si collocano al di
fuori della sequenza del procedimento penale.

Per le notizie apprese di propria iniziativa dalla P.G. o dal P.M. sembra necessario introdurre una distinzione capace di tener
conto che in simili casi la notizia di reato non trova mai consacrazione originaria in un atto tipico.

 Se la notizia è stata acquisita dal P.M., poiché scatta l’immediato obbligo di iscriverla nell’apposito registro (art 335
co.1), è da tale iscrizione che ha inizio il procedimento.

 Se la notizia di reato viene formata dalla P.G., in mancanza di un atto tipico, si conclude che il primo atto del
procedimento sarà costituito da quello cronologicamente anteriore tra gli atti compiuti dopo l’acquisizione della notizia
di reato.

Anche per la identificazione del momento finale (atto finale) occorre distinguere.

 Se le indagini preliminari sfociano in un provvedimento di archiviazione  questo sarà l’ultimo atto del procedimento;

 Se l’azione penale è stata esercitata, il momento finale è individuato  nelle sentenze di non luogo a procedere, sentenze
pronunciate in giudizio, decreto penale di condanna.

Infine, sono da considerarsi, a tutti gli effetti, atti processuali penali quelli relativi al procedimento di esecuzione ed al
procedimento di sorveglianza.

2. La lingua degli atti TITOLO I (Art 109-124)


L’art 109 disciplina la “lingua degli atti”.

Il co.1 pone, come regola, che gli atti del procedimento penale siano compiuti in lingua italiana; non si prevedono, però,
sanzioni amministrative per che ne usi un’altra.

Ex co.2, davanti all’A.G. in primo o in secondo grado, su un territorio dove è insediata una minoranza linguistica riconosciuta, il
cittadino italiano che appartiene a questa minoranza, è a sua richiesta, interrogato o esaminato nella madrelingua e il relativo
verbale è redatto anche in tale lingua.

Dal co.2 si ricavano 3 requisiti per l’uso di una lingua diversa:


 Deve trattarsi di una lingua che la legge riconosca come qualità di lingua minoritaria.
 Deve trattarsi di un procedimento che si svolga davanti all’A.G. avente competenza di primo o di secondo grado sul
territorio dove è insediata la minoranza linguistica.
 È necessaria che il soggetto alloglotto ne richieda sempre l’uso della lingua minoritaria.

Ex co.3, le disposizioni di tale articolo si osservano a pena di nullità.

Quanto al co.1, si tratta di nullità relativa.

Per quanto riguarda il co.2:


 Se il vizio riguarda una parte privata, viene in gioco l’inosservanza di una disposizione attinente al suo intervento,
sicché si inquadra una nullità a regime intermedio;

 Se si tratta di citazione dell’imputato, si ha nullità assoluta.

Secondo le Sezioni Unite della Cassazione, l’impugnazione redatta in lingua straniera è inammissibile.

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Alla disciplina dell’uso delle lingue minoritarie nel procedimento si ricollega pure l’art 26 disp.att.

Il nesso è più tenute per il co.1, che fa salvo il “diritto dell’imputato e delle altre parti private di nominare il proprio difensore a
prescindere dall’appartenenza etnica o linguistica.”

Il co.2, invece, è dedicato alla difesa di ufficio, e richiamandosi nella disciplina fissata dall’art 109 co.2, fornisce una regola volta
ad assicurare l’effettività della difesa:

 Nell’indicare il difensore d’ufficio o designarne il sostituto ex art 97 co.4, si deve tener conto dell’appartenenza etnica
o linguistica dell’imputato.

Accanto all’art 109, si ricollega l’art 119 disciplinante la “partecipazione del sordo, muto o sordomuto ad atti del
procedimento”.

Tutte le volte in cui un soggetto in tali condizioni voglia/debba fare dichiarazione sono previste particolari modalità di
comunicazione che si avvalgono della parola o dello scritto.

In ipotesi del genere, anche indipendentemente dalla circostanza che la persona in discorso non sappia leggere o scrivere,
l’autorità procedente provvede a nominare uno o più interpreti “scelti di preferenza fra le persone abituate a trattare con
lui”.

3. La sottoscrizione e la data. (Art 110-113)


L’art 110 disciplina la “sottoscrizione degli atti”, dettando le regole per i soli atti (e non per i documenti).

ART 110  Sottoscrizione degli atti


“Quando è richiesta la sottoscrizione di un atto, se la legge non dispone diversamente, è sufficiente la scrittura di propria
mano, in fine dell’atto, del nome e cognome di chi deve firmare.” (co.1)

“Non è valida la sottoscrizione apposta con mezzi meccanici (es. dattilografia) o con segni diversi dalla scrittura.” (co.2)

“Se chi deve firmare non è in grado di scrivere, il pubblico ufficiale, al quale è presentato l’atto scritto o che riceve l’atto orale,
accertata l’identità della persona, ne fa annotazione in fine dell’atto medesimo.” (co.3)

Talora, il codice impone che gli atti dei soggetti privati siano muniti di un’attestazione relativa all’autenticità della firma.

Ex art 39 disp.att, si ricava che sono ora abilitati ad autenticare la sottoscrizione di atti:

 Funzionario di cancelleria, notaio, difensore, sindaco, funzionario delegato dal sindaco, segretario comunale, giudice
di pace, presidente del consiglio dell’ordine forense o un consigliere da lui delegato.

In caso di mancata sottoscrizione dell’atto si hanno ipotesi di invalidità:

 Sia nella specie di inammissibilità sia nella specie della nullità relativa, talora rilevabile anche d’ufficio.

Nel linguaggio del codice, la data resta comprensiva pure del luogo di formazione dell’atto (c.d. data topica).

Di regola, è sufficiente, accanto all’indicazione spaziale, anche quella temporale sotto forma di menzione del giorno, del
mese e dell’anno (art 111 “Data degli atti”); talvolta è prevista anche l’indicazione dell’ora.

Ex co.2, se l’indicazione della data di un atto è prescritta a pena di nullità, questa sussiste solo nel caso in cui la data non
possa stabilirsi con certezza in base ad elementi contenuti nell’atto medesimo o in atti a questo connessi.

La data ha la funzione di collocare l’atto nello spazio e nel tempo, anche al fine di garantire una successione ordinata di atti
che sostanzia il procedimento penale.

Se la documentazione di un atto, per qualsiasi causa è stata distrutta, smarrita o sottratta, né è possibile recuperarla, ma di tale
atto occorre fare uso, il codice prevede l’impiego di più rimedi.

Il più semplice (art 112 “Surrogazione di copie agli originali mancanti”) si risolve nella surrogazione all’originale di una copia
autentica (co.1)
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Ex co.2, a tal fine, il Presidente della Corte o Tribunale, anche d’ufficio, ordina con decreto a chi detiene la copia di consegnarla
alla cancelleria (il detentore può avere un’altra copia gratuita).

Alla copia autentica si attribuisce valore di originale.

Se non è possibile procedere alla surrogazione, soccorre l’istituto della ricostruzione (art 113).

Tale articolo consente un’iniziativa ex officio, senza indicare l’organo incarica a provvedere. Tale organo si individua nel
giudice avanti al quale pende il procedimento o nel giudice dell’esecuzione;

nessuna interdizione, dunque, nei confronti del G.I.P., al quale deve, però, ritenersi sottratto ogni potere di iniziativa officiosa.

La rinnovazione dell’atto mancante è configurata dal co.3 art 113, alla stregua di un’extrema ratio.

Essa è disposta con ordinanza (inoppugnabile, ma revocabile) che ne prescrive le modalità, ma anche le forme, essendo queste
predeterminate dalla legge.

Spetta al giudice, se del caso, indicare gli altri atti che debbano essere rinnovati;

 La rinnovazione della sentenza resa al termine del dibattimento di primo grado implica lo svolgimento di un nuovo giudizio.

4. Il divieto di pubblicazione (Art 114-115)


L’art 114 disciplina il “divieto di pubblicazione di atti ed immagini”, assegnando una circoscritta durata al divieto incondizionato
di pubblicazione, e prevendendo anche numerosi limiti alla pubblicazione, tra cui quelli derivanti dalla flessibilità dell’obbligo del
segreto investigativo ex art 329.

ART 114  Divieto di pubblicazione di atti e di immagini


“È vietata la pubblicazione (anche parziale o per riassunto), con il mezzo della stampa o con altro mezzo di diffusione, degli
atti coperti dal segreto investigativo [329] o anche del loro contenuto.” (co.1)

“È vietata la pubblicazione, anche parziale, degli atti non più coperti dal segreto fino a che non siano concluse le indagini
preliminari (finché restano ignoti i potenziali autori del reato), o fino al termine dell’udienza preliminare, fatta eccezione per
l’ordinanza indicata ex art 292”. (co.2)

“Se si procede al dibattimento, non è consentita la pubblicazione, anche parziale, degli atti del fascicolo per il dibattimento,
se non dopo la pronuncia della sentenza di primo grado, e di quelli del fascicolo del P.M., se non dopo la pronuncia della
sentenza in grado di appello.
È sempre consentita la pubblicazione degli atti utilizzati per le contestazioni.” (co.3)

“È vietata la pubblicazione, anche parziale, degli atti del dibattimento celebrato a porte chiuse ex art 472 co.1 e 2.
In tali casi il giudice, sentite le parti, può disporre il divieto di pubblicazione anche degli atti o di parte degli atti utilizzati per
le contestazioni.
Il divieto di pubblicazione cessa quando sono trascorsi i termini stabiliti dalla legge sugli archivi di Stato o è trascorso il
termine di 10 anni dalla sentenza irrevocabile e la pubblicazione è autorizzata dal ministro di grazia e di giustizia.” (co.4)

“Se non si procede in dibattimento, il giudice, sentite le parti, può disporre il divieto di pubblicazione di atti o di parte di atti
quando la pubblicazione di essi può offendere il buon costume o comportare la diffusione di notizie sulle quali la legge
prescrive di mantenere il segreto nell’interesse dello Stato o causare pregiudizio alla riservatezza dei testimoni o delle parti
private.
Si applica la disposizione dell’ultimo periodo co.4.” (co.5)

“È vietata la pubblicazione delle generalità e dell’immagine dei minorenni testimoni, persone offese o danneggiati dal reato
fino a quando non sono divenuti maggiorenni.
È anche vietata la pubblicazione di elementi che anche indirettamente possono portare alla identificazione del minore.
Il tribunale per i minorenni, nell’interesse esclusivo del minore, o il minorenne che ha compiuto 16 anni, può consentire la
pubblicazione.” (co.6)

“È vietata la pubblicazione dell’immagine di persona privata della libertà personale ripresa mentre la stessa di trova
sottoposta all’uso di manette ai polsi o ad altro mezzo di coercizione fisica, salvo che la persona vi consenta.” (co.6bis)

“È sempre consentita la pubblicazione del contenuto di atti non coperti dal segreto.” (co.7)
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Il divieto ex co.2 non investe le indagini difensive.

Mentre non sussistono divieti in tema di pubblicazione di fatti non desumibili dal procedimento penale, il legislatore ha
provveduto ad articolare con le disposizioni dell’art 114 un sistema di limiti alla pubblicazione degli atti processuali, nel tentativo
di tutelare gli interessi in gioco.

Infatti, la normativa in esame contempera la tutela di 3 situazioni giuridicamente rilevanti:

 La libertà di informazione,
 Il segreto istruttorio,
 La riservatezza dei soggetti coinvolti nel procedimento.

il provvedimento sulle intercettazioni (d.lgs 216/2017; la modifica acquista efficacia dal 29/01/2019) interviene sul co.2 che
vieta la pubblicazione, anche parziale, degli atti non più coperti dal segreto fino a che non siano concluse le indagini preliminari
o fino al termine dell’udienza preliminare.

La riforma, inserisce, così una eccezione alla regola del divieto di pubblicazione degli atti non più coperti dal segreto fino al
termine dell’udienza preliminare, consentendo la pubblicazione dell’ordinanza di custodia cautelare.

Se si procede al dibattimento, si distinguono 3 categorie di atti:


1) Gli atti che all’epilogo del dibattimento risultavano inseriti nel relativo fascicolo erano oggetto di un divieto di
pubblicazione destinato a cadere con la sentenza di primo grado.

Una declaratoria di illegittimità ha accorciato la durata del divieto:


 Ora gli atti inseriti nel fascicolo per il dibattimento sono pubblicabili sin dalla relativa formazione (art 431).

2) Se, però, l’atto viene trasferito dal fascicolo per il dibattimento a quello del P.M., il divieto di pubblicazione si ripristina
automaticamente, e lo stesso vale nel caso in cui l’atto sia poi letto in una porzione di dibattimento tenuto a porte
chiuse.

3) Gli atti che, terminato il dibattimento, risultano, invece, collocati nel fascicolo del P.M., sono pubblicabili solo dopo la
pronuncia della sentenza di secondo grado.

Tuttavia, sono immediatamente pubblicabili gli atti già posti in quest’ultimo fascicolo, in quanto siano stati utilizzati per le
contestazioni.

La conclusione sulla pubblicazione valeva anche per le intercettazioni di comunicazioni e conversazioni, una volta che la difesa
ne venisse legittimamente a conoscenza.

Sennonché, non pochi problemi portano alla necessità di una riforma in materia. Dopo 20 anni, la l.103/2017 ha dettato una
legge delega (d.lgs.216/2017) in materia di intercettazioni in cui la tutela della riservatezza è uno dei pilastri fondamentali.

Il provvedimento ha inteso impedire che le intercettazioni processualmente irrilevanti confluissero tra gli atti del procedimento
e da qui transitassero sui mezzi di comunicazione di massa.

Si è dunque istituito un archivio riservato alla custodia delle intercettazioni irrilevanti/inutilizzabili.

ART 115  Violazione del divieto di pubblicazione


“Salve le sanzioni previste dalla legge penale, la violazione del divieto di pubblicazione prevista ex art 114 e 329 co.3 lett.b
costituisce illecito disciplinare quando il fatto è commesso da impiegati dello Stato o di altri enti pubblici o da persone
esercenti una professione per la quale è richiesta una speciale abilitazione dello Stato.” (co.1)

“Di ogni violazione del divieto di pubblicazione commessa dalle persone indicate ex co.1 il P.M. informa l’organo titolare del
potere disciplinare.” (co.2)

La norma, indirizzata ai dipendenti pubblici appartenenti all’A.G. (cancellieri, coadiutori, etc), ma è operativa anche nei confronti
di tutti gli altri dipendenti pubblici o incaricati di pubblici servizi, rafforza il dettato in tema di divieto di pubblicazione non solo
facendo salva l’operatività della sanzione penale, ma anche introducendo una ipotesi nuova di illecito disciplinare.

Difatti, per i soggetti indicati nel co.1 sussiste anche il dovere, nei confronti della Pubblica Amministrazione, di conservare la
segretezza degli atti processuali.
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5. La circolazione di copie e di informazioni. (Art 116-118)


La circolazione di atti e di informazioni sul procedimento è disciplinata dagli art 116-118.

L’art 116 (“Copie, estratti e certificati”) afferma, come principio generale, che chiunque vi abbia interesse può ottenere, a
proprie spese, il rilascio di copie, estratti o certificati di singoli atti.

Non sono indicate, dalla norma, condizioni per il rilascio, al pari di quanto vale per quella corrispondente in tema di
documenti (art 243).

Il rilascio non può essere ottenuto quando si tratti di atti ancora coperti dal segreto sulle indagini o divenuti oggetto di un
decreto di segretazione.

Il diniego dell’autorizzazione non è impugnabile (neppure tramite ricorso per cassazione), poiché è un atto amministrativo
discrezionale.

Ex art 43 disp.att., nessuna autorizzazione è dovuta quando è riconosciuto al richiedente il diritto al rilascio di copie, estratti o
certificazioni.

Ciò vale, nei confronti:

 Della generalità delle sentenze in quanto emanate in nome del popolo (art 101 co.1 Cost), di persone o di uffici
coinvolti nel procedimento, ma pure delle parti private o dei loro difensori, per una serie di ipotesi tra cui quelle in cui
il diritto al rilascio di copie segue al deposito dell’atto nella segreteria del P.M. o nella cancelleria del giudice.

Dopo la sentenza cost. 192/1997 il diritto ad ottenere copia godeva ormai di un approdo sicuro.

Inoltre, con il d.lgs.216/2017 si sancisce il diritto ad avere la trasposizione, su supporto idoneo alla riproduzione dei dati, delle
relative registrazioni.

Dando attuazione alla direttiva 2016/680/UE, il d.lgs.51/2018 si occupa anche del trattamento dei dati personali da parte
delle autorità competenti ai fini di prevenzione, indagine, accertamento e perseguimento di reati o di esecuzione di sanzioni
penali.

In tale ambito, chiunque vi abbia interesse può chiedere al giudice (e non al P.M.), con le modalità ex art 116 “la rettifica,
cancellazione o la limitazione dei dati personali che lo riguardano.”

Ex co.3 art 116, il rilascio non fa venir meno il divieto di pubblicazione ex art 114.

Inoltre, il co.3bis disciplina che, quando il difensore, anche a mezzo di sostituti presenta all’A.G. atti o documenti, ha diritto al
rilascio di attestazione dell’avvenuto deposito, anche in calce ad una copia.

- Rispetto all’art 116, le disposizioni sulla “richiesta di copie di atti e di informazioni da parte del P.M.” (art 117) e
“richiesta di copie di atti e di informazioni da parte del Ministro dell’Interno” (art 118), assumono natura speciale, in
quanto derogano alla disciplina del segreto investigativo.

L’art 117 garantisce l’esigenza di un efficace coordinamento investigativo (escludendo ogni impiego in chiave probatoria) e
consente di derogare alla disciplina del segreto investigativo per la tutela di un interesse meritevole.

La modifica del co.2bis concerne l’accesso al Procuratore nazionale antimafia al registro delle notizie di reato, al registro
delle misure di prevenzione, a tutti gli altri registri relativi al procedimento penale e al procedimento per l’applicazione delle
misure di prevenzione e alle banche dati.

L’art 118 nasce dalla necessità di conciliare l’interesse alla segretezza delle indagini (e degli atti del processo) e la necessità di
ottenere informazioni a fini di prevenzione ed accertamento di altri reati.
A tutela delle esigenze sottese al vincolo di segretezza si prevede l’estensione del segreto di ufficio anche alle copie e alle
informazioni trasmesse al Ministro dell’Interno.

L’A.G. provvede senza ritardo e può rigettare la richiesta senza decreto motivato.
L’obbligo di motivare il rigetto non è comunque sanzionato dalla legge processuale, potendosi sempre rinnovare la richiesta.

Con la l.124/2007 (Sistema di informazione per la sicurezza della Repubblica e nuova disciplina del segreto) viene inserito l’art
118bis disciplinante la “richiesta di copie di atti e di informazioni da parte del Presidente del Consiglio dei ministri”.
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6. Memorie, richieste e dichiarazioni delle parti. (Art 121-123)


Gli art 121-123 riguardano alcuni poteri accordati alle parti ed alcune modalità di esercizio di tali poteri non necessariamente
propri delle parti.

L’art 121 (“Memorie e richieste delle parti”) si occupa del c.d. ius postulandi delle parti.

Ex co.1, le parti ed i loro difensori hanno il potere di presentare memorie o richieste scritte al giudice in ogni stato e grado del
procedimento, pertanto pure al G.I.P. durante la relativa fase, con deposito nella relativa cancelleria.

L’art 61 e 90 consentono altrettanto potere alla persona sottoposta alle indagini ed alla persona offesa (ma per lui vale solo
la disciplina per la memoria).

Nulla è detto circa la comunicazione al P.M. o la notificazione alle parti private delle memorie o delle richieste presentate;
dunque non sussiste un obbligo generale di comunicare le richieste e le memorie alle altre parti.

Il co.2 art 121, avuto riguardo alle sole richieste, impone al giudice di provvedere entro max 15 giorni (termine ordinatorio.)
Disposizioni speciali stabiliscono termini più brevi.

Ovviamente, l’obbligo scatta solo in presenza di una richiesta “ritualmente formulata”; non sono tali quelle del soggetto
sfornito del diritto a presentarle o che non ha provveduto a depositarle in cancelleria, né quelle precluse da decadenza.

Dunque, con la possibilità di presentare richieste e memorie, si realizza lo spirito “accusatorio“ del nuovo rito, grazie al quale
le parti sono in posizione di parità e hanno il compito di dare impulso al processo. tale facoltà è attribuita alle parti in senso
tecnico (P.M., imputato, parte civile e i difensori), ma anche all’indagato e alla persona offesa.

L’art 122 disciplina la “procura speciale per determinati atti”; in tal caso, la procura deve, a pena di inammissibilità, essere
rilasciata per atto pubblico o scrittura privata autenticata e deve contenere l’oggetto per cui è conferita.

La previsione della procura speciale sorge in relazione ad atti che, riferendosi ad interessi della parte di rilevanza sostanziale,
eccedono i poteri e le facoltà attribuite normalmente al difensore.

Le ipotesi in cui per il compimento di un atto sia necessaria la procura speciale sono previste in maniera tassativa:
- La costituzione di parte civile – la querela e la sua rinuncia/remissione – la richiesta di giudizio abbreviato e quella di
applicazione del patteggiamento.

L’art 123 disciplina le “dichiarazioni e richieste di persone detenute o internate”, in cui quel che conta non è la qualità di
imputato nel procedimento, ma lo stato di restrizione della libertà personale.

L’imputato detenuto/internato ha facoltà di presentare impugnazioni, dichiarazioni o richieste con atto ricevuto dal direttore
dell’istituto.

Esse, dopo l’iscrizione nell’apposito registro, sono immediatamente comunicate all’autorità competente e hanno efficacia come
se fossero ricevute dall’A.G.

La norma predispone un sistema di comunicazione rapido ed efficace tra il detenuto/internato e l’A.G., neutralizzando il
tempo per l’inoltro dell’atto.

L’imputato custodito fuori dall’istituto usufruisce delle medesime facoltà.

7. Le garanzie della legalità. (Art 120 e 124)


Gli art 120 e 124 pongono le garanzie della legalità.

L’art 120 “testimoni ad atti del procedimento” disciplina i requisiti della c.d. testimonianza impropria o strumentale;

 L’intervento del testimone ad atti del procedimento si giustifica per assicurare la regolare effettuazione dell’atto e
precostituire, a tal fine, una prova personale aggiuntiva e distinta rispetto al relativo verbale.

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ART 120  Testimoni ad atti del procedimento


“Non possono intervenire come testimoni ad atti del procedimento:
a) i minori under 14 e le persone palesemente affette da infermità di mente o in stato di manifesta ubriachezza o
intossicazione da sostanze stupefacenti o psicotrope.
La capacità si presume fino a prova contraria.

b) le persone sottoposte a misure di sicurezza detentive o a misure di prevenzione.” (co.1)

Richiami espressi all’art 120 si trovano anche nell’attività di rappresentanza menzionata ex art 250 co.1 in tema di perquisizione
locale.

Ove l’imputato o le altre parti private non vengono avvertiti della facoltà di avvalersi delle funzioni di assistenza-
rappresentanza connesse alla figura del testimone ad atti, si configura una nullità generale a regime intermedio ex art 178 e
180;

se invece, le stesse ipotesi si concretano nei riguardi di un altro soggetto, si resta nell’ambito della mera irregolarità.

L’art 124 “Obbligo di osservanza delle norme processuali” mira, anche lui, a tutelare il valore della legalità nel procedimento,
anche se ormai trova il suo fondamento costituzionale nell’art 111 co.1 Cost, nel prescrivere che la giurisdizione si attua
mediante il giusto processo “regolato dalla legge”.

Dal canto suo, l’art 124 stabilisce il principio dell’obbligo del rispetto delle norme processuali-penali; inoltre, assolve ad una
funzione di chiusura di sistema processuale (in quanto ultima norma del Titolo I) che accoglie il principio di tassatività delle
nullità.

8. Le forme dei provvedimenti e le classificazioni delle sentenze. TITOLO II (Art 125-133)


Il processo vive di forme;

nel suo primo criterio direttivo, la legge delega impone la “massima semplificazione nello svolgimento del processo con
l’eliminazione di ogni atto/attività non essenziale”.

Per cui, qualora una determinata forma non sia espressamente preveduta dalla legge, non è necessaria l’osservanza di
particolari modalità di esternazione dei provvedimenti che, se non diversamente stabilito, possono essere adottati anche
oralmente.

Il codice contrappone:

 gli atti compiuti nel procedimento con forme libere, nelle quali non è descritto il modo di procedere, ma prevale la
tensione al raggiungimento dello scopo, contemplando atti privi di forma e, dunque, innominati.

 Agli atti del processo  con forme vincolate (o tassative/tipiche) in quanto non ammettono equivalenti.

Nel quadro del sistema codicistico predominano gli atti a forma vincolata.

Il legislatore ha fornito una disciplina riguardo ai soli atti del giudice che si traducono in provvedimenti, perché compiuti da un
organo dello Stato, nell’esercizio di un potere.

L’art 125, nel disciplinare le “forme dei provvedimenti del giudice” prevede 3 modelli:

A. Sentenza  idonee a chiudere uno stato/grado del procedimento, in quanto contengono una decisione sulla
regiudicanda. Rappresentano la massima espressione dell’attività giurisdizionale e sono pronunciate nel nome del
popolo italiano (art 101 co.1 Cost);

B. Ordinanze  risolvono questioni incidentali, e governano l’andamento del processo, pur essendovene qualcuna in
grado di concluderlo, come quelle che dichiarano l’inammissibilità dell’impugnazione;

C. Decreti  esprimono un comando dell’autorità procedente, assumendo natura prevalentemente amministrativa.

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A. Sentenze

Numerose sono le classificazioni in tema di sentenze e di provvedimenti ad esse equiparabili.

Quanto al contenuto decisorio, la contrapposizione è tra:

 Sentenza di condanna  considerate ex art 533 come uno degli esiti del dibattimento; sono pronunciabili anche al termine
del giudizio abbreviato.

Vale, di regola, come sentenza di condanna il decreto penale, mentre la sentenza che applica la pena su richiesta delle parti è
solo equiparata ad una sentenza di condanna ex art 445 co.1bis.

 Sentenze di proscioglimento  è una categoria ampia che include:

i. Sentenze di assoluzione  pronunciate al termine del dibattimento con le formule:


- Il fatto non sussiste,
- l’imputato non lo ha commesso,
- il fatto non costituisce reato o non è previsto dalla legge come reato,
- il reato è stato commesso da persona non imputabile/non punibile per altra ragione.

Con esse il giudice si limita a dichiarare l’infondatezza dell’accusa elevata contro l’imputato, che è il tema del processo.

Tali sentenze, divenute irrevocabili, acquistano l’autorità di cosa giudicata godendo dell’efficacia loro attribuita ex art 652-
653.

Tali sentenze sono pronunciabili anche a seguito di giudizio abbreviato, ma dalla loro irrevocabilità non discende l’efficacia
nel giudizio di danno, a meno che la parte civile abbia accettato il rito abbreviato.

ii. Sentenze di non luogo a procedere  pronunciate al termine dell’udienza preliminare con le formule ex art 425 co.1.

Esse, ove non siano più impugnabili, acquistano forza esecutiva, ma non godono dell’irrevocabilità, potendo a certe
condizioni, essere revocate.

iii. Sentenze di non doversi procedere  emesse nei restanti stati e gradi del procedimento e sono meramente processuali.

Qui si collocano le sentenze predibattimentali pronunciate con le formule per cui:


- l’azione penale non doveva essere iniziata o non deve essere perseguita,
- il reato è estinto.

Si collocano anche le sentenze dibattimentali pronunciate con le stesse formule, nonché quelle pronunciate al termine del
giudizio abbreviato.

Vengono annoverate anche le sentenze che riconoscono non doversi procedere per l’esistenza di un segreto di Stato o di
una violazione del divieto di bis in idem.

Trattandosi di sentenze meramente processuali, non implicano un completo approfondimento di merito; dunque, pur
diventando irrevocabili, sono sempre prive di efficacia in sede extrapenale.

Ulteriore classificazione potrebbe essere quella tra:

 Sentenze dichiarative verificano l’esistenza di determinate fattispecie, caratterizzate per la loro natura processuale, ma
senza portata liberatoria propria delle sentenze di non luogo a procedere e di proscioglimento.

Tali sono le sentenze di annullamento e quelle che si pronunciato sulla giurisdizione e competenza (queste due ultime sono
impugnabili.)

 Sentenze costitutive  creative di effetti giuridici.

Tali sono le sentenze emesse dal tribunale per i minorenni che concedono il perdono giudiziale, le sentenze di riabilitazione
e quelle che riconoscono efficacia alle sentenze penali straniere.

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Ulteriore classificazione è quella tra:

 Sentenze di merito risolvono la questione relativa al dovere di punire.

Vi rientrano le sentenze di condanna e di assoluzione, nonché quelle che dichiarano l’estinzione del reato.

 Sentenze processuali  sciolgono meri nodi processuali.

Vi rientrano le sentenze di annullamento, quelle sulla competenza e quelle che dichiarano l’improcedibilità dell’azione.

Rispetto alle classificazioni sopra descritte, una posizione particolare è destinata alle sentenze di proscioglimento per la
particolare tenuità del fatto immesse col d.lgs.28/2015.

In passato, tali tipologie di sentenze erano già presenti con riguardo al procedimento minorile e giudice di pace.

La sua previsione ex art 131bis c.p. dimostra che si è dato vita ad una causa, in senso stretto, di non punibilità, avente natura
soggettiva, intesa a produrre una sorta di depenalizzazione in concreto.

La ratio della riforma è quella di realizzare consistenti econome processuali per effetto di un anticipato epilogo del
procedimento.

Nella prospettiva della deflazione processuale si comprende perché la particolare tenuità del fatto possa essere dichiarata con
un provvedimento di archiviazione.

La fase delle indagini preliminari è la sede elettiva per l’istituto perché qui si propiziano le massime economie.

Le sentenze che dichiarano la particolare tenuità del fatto sono subordinate, ex art 131bis c.p., all’avveramento di 4 condizioni:

1) La condotta dell’imputato deve rilevarsi offensiva di un bene giuridico, anche se “di particolare tenuità”;

2) La pena prevista, se detentiva, non deve superare nel massimo i 5 anni;

3) Contano, inoltre, le modalità della condotta, l’esiguità del danno/pericolo, ma anche l’assenza dell’aver agito “per
motivi abietti/futili, o con crudeltà, anche in danno di animali”.

4) Il comportamento tenuto dal soggetto non deve assumere carattere abituale.

La sentenza di proscioglimento per la particolare tenuità del fatto presuppone l’accertamento del reato, perché si può
riconoscere la particolare tenuità solo di ciò di cui si predica l’offensività.

Dunque, essa segue all’accertamento che il fatto è storicamente avvenuto, è stato commesso dall’imputato senza cause di
giustificazione ed integra una fattispecie incriminatrice da cui sono estranee cause estintive/di non punibilità.

Quindi, l’applicazione dell’art 131bis c.p. si atteggia come un procedimento pienamente cognitivo.

Ciò ha comportato una costruzione particolare degli effetti della sentenza che dichiara la non punibilità per particolare tenuità:

 È idonea, se pronunciata a seguito di giudizio, a divenire irrevocabile (a differenza del provvedimento di archiviazione);
 È sfornita di efficacia extrapenale (al pari delle sentenze che dichiarano la non punibilità).

Ma così non è, perché l’art 651bis tratta tali sentenze rese all’esito del dibattimento/giudizio abbreviato, divenute ormai
irrevocabili, come se fossero sentenze di condanna (con efficacia extrapenale).

B. Ordinanze

Servono, specie risolvendo le questioni incidentali, a governare l’andamento del processo, pur essendovene alcune in grado di
concluderlo, come quelle che dichiarano l’inammissibilità dell’imputazione.

Di regola, esse sono revocabili, come espressamente sancito per quelle applicative di una misura cautelare personale (art 299).

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C. Decreti

Esprimono un comando dell’autorità procedente, assumendo natura prevalentemente amministrativa (ecco spiegato il motivo
per cui possono essere emesse anche dal P.M.).

Sono revocabili.

La scelta di un provvedimento con una data forma, rispetto ad un altro con forma diverso, è frutto di una opzione demandata al
legislatore (c.d. criterio nominalistico).

Di regola, prende forma di ordinanza il provvedimento emesso a seguito dell’instaurazione del contraddittorio tra le parti.

Tipico è il caso dell’archiviazione:

 Accolta de plano la relativa richiesta, l’atto è un  decreto motivato;


 Se pronunciata dopo il procedimento in camera di consiglio, il provvedimento è  una ordinanza.

Segue, infatti, il tradizionale canone secondo il quale i decreti, a differenza delle sentenze e delle ordinanze, non necessitano,
se non diversamente stabilito, di motivazione.

Dunque, è prevista la nullità (relativa) per la mancanza di motivazione delle sentenze e nelle ordinanze, ma ove prescritta,
anche nei decreti, con l’intento di dare piena attuazione all’art 111 co.6 Cost.

Secondo la giurisprudenza prevalente, la motivazione per relationem (ossia quella che si riporti al contenuto di un altro atto)
non è causa di nullità tutte le volte in cui il secondo atto, se non trascritto o non materialmente allegato, sia
conosciuto/facilmente conoscibile dalla parte, ad esempio per effetto del deposito in cancelleria.

La giurisprudenza ammette l’uso di moduli prestampati purché siano adeguatamente completati tramite argomentazioni che
specifichino le ragioni concrete della decisione adottata.

Nella prospettiva di massima semplificazione, trova spazio la categoria dei provvedimenti adottati senza formalità (innominati)
ed esternabili anche oralmente (art 125 co.6), come ad esempio quelli emessi dal Presidente del collegio.

L’art 125 si occupa anche della relativa deliberazione in camera di consiglio, la quale si caratterizza per l’immediatezza
rispetto alla chiusura della trattazione medesima e per la continuità delle operazioni.

Dalla fase deliberativa è escluso, unitamente alle parti, l’ausiliario che di regola assiste il giudice in tutti gli atti ai quali
procedere.
Inoltre, nel co.4 è riconosciuto il segreto sulla deliberazione, tutelato penalmente.

A ciò si ricollega la deroga ex co.5 secondo cui, in caso di provvedimenti collegiali e purché lo richieda un componente del
collegio che non abbia espresso voto conforme alla decisione, è compilato sommario verbale contenente l’indicazione del
dissenziente, della questione del dissenso ed i motivi dello stesso.

Il verbale viene conservato in plico sigillato presso la cancelleria dell’ufficio: ciò servirà a chi ha dissentito, liberandolo da ogni
eventuale responsabilità, se i componenti del collego saranno chiamati a rispondere del loro operato in sede civile.

9. Il procedimento in camera di consiglio. (Art 127)


Il giudice delibera secondo 3 modelli procedimentali:
 La decisione “de plano”  senza preventivo contraddittorio tra le parti; è prevista quando non è possibile rendere
noto preventivamente il contenuto della decisione, o nei casi in cui la relativa semplicità del provvedimento da
adottare determinerebbe scompensi di efficienza se si dovesse sempre stimolare un contraddittorio.

 La decisione all’esito di pubblica udienza  prevista per il dibattimento, ove il carattere della pubblicità è finalizzato
a dare trasparenza all’esercizio della giurisdizione nel suo momento più rilevante.

 Il procedimento in camera di consiglio  utilizzato quando si debba deliberare in contraddittorio tra le parti, ma
senza necessità della presenza del pubblico.

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Il procedimento camerale, per la struttura formale, consente al giudicante di acquisire informazioni e prove, anche d’ufficio,
senza l’osservanza dei principi sull’ammissibilità della prova ex art 190, essendo essenziale l’accertamento dei fatti, nel
semplice rispetto della libertà morale delle persone e con le garanzie del contraddittorio.

Disciplinato ex art 127, è un modello valido per tutti i procedimenti che si svolgono in camera di consiglio (rito camerale), ed
adempio ad una duplice funzione:

 Realizzare un’apprezzabile economia normativa;


 Assicurare il contraddittorio tra le parti e il diritto di difesa dei soggetti interessati.

Tale procedimento può essere adottato anche per l’emissione di una sentenza suscettibile di definire il procedimento
(esempio, sentenza di non luogo a procedere, quella resa al termine del giudizio abbreviato, quella con cui è applicato il
patteggiamento nel corso delle indagini preliminari).

È un rito camerale previsto nell’intento di semplificare e velocizzare il corso del giudizio;

 Sia perché si tratta di questioni prive di particolare difficoltà,


 Sia perché la natura del provvedimento richiede celerità e riservatezza.

ART 127  Procedimento in camera di consiglio


“Quando si deve procedere in camera di consiglio il giudice o il presidente del collegio fissa la data dell’udienza e ne fa dare
avviso alle parti, alle altre persone interessate e ai difensori.
L’avviso è comunicato/notificato almeno 10 giorni prima della data predetta.
Se l’imputato è privo di difensore, l’avviso è dato a quello di ufficio.” (co.1)

“Fino a 5 giorni prima dell’udienza possono essere presentate memorie in cancelleria.” (co.2)

“Il P.M., gli altri destinatari dell’avviso nonché i difensori sono sentiti se compaiono.
Se l’interessato è detenuto/internato in luogo posto fuori dalla circoscrizione del giudice e ne fa richiesta, deve essere sentito
prima del giorno dell’udienza dal magistrato di sorveglianza del luogo.” (co.3)

“L’udienza è rinviata se sussiste un legittimo impedimento dell’imputato/condannato che ha chiesto di essere sentito
personalmente e che non sia detenuto/internato in luogo diverso da quello in cui ha sede il giudice.” (co.4)

“Le disposizioni dei co.1,3 e 4 sono previste a pena di nullità.” (co.5)

“L’udienza si svolge senza la presenza del pubblico.” (co.6)

“Il giudice provvede con ordinanza comunicata/notificata senza ritardo ai soggetti indicati ex co.1, che possono proporre
ricorso per cassazione.” (co.7)

“Il ricorso non sospende l’esecuzione dell’ordinanza, a meno che il giudice che l’ha emessa disponga diversamente con decreto
motivato.” (co.8)

“L’inammissibilità dell’atto introduttivo del procedimento è dichiarata dal giudice con ordinanza, anche senza formalità di
procedura, salvo che sia diversamente stabilito. Si applicano le disposizioni dei co.7 e 8.” (co.9)

“Il verbale dell’udienza è redatto solo in forma riassuntiva a norma dell’art 140 co.2.” (co.10)

La Corte costituzionale, con sentenza 529/1990 ha dichiarato la illegittimità del co.10 nella parte in cui prevede che la
verbalizzazione avvenga solo in forma riassuntiva, senza ammettere che possano esservi casi in cui possa procedersi a
verbalizzazione integrale, stante la considerazione che quella riassuntiva è eccezionale, e non la regola.

10. L’immediata declaratoria di cause di non punibilità e la correzione degli errori materiali. (Art 129-130)
Al giudice sono riconosciute 2 manifestazioni di un potere di iniziativa d’ufficio:

 Immediata declaratoria di determinate cause di non punibilità,


 E la procedura per la correzione di errori materiali.

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L’art 129 disciplina l’”obbligo della immediata declaratoria di determinate cause di non punibilità”, avente funzione di rendere
effettivo il principio di semplificazione massima nello svolgimento del processo, con l’eliminazione di ogni atto/attività non
essenziale, nonché di celerità nel procedimento penale, che permea tutta la disciplina processuale nell’interesse dell’imputato e
che attua un principio generale della ragionevole tempestività del giudizio.

ART 129  Obbligo della immediata declaratoria di determinate cause di non punibilità
“In ogni stato e grado del processo, il giudice, il quale riconosce che:
- il fatto non sussiste
- o che l’imputato non lo ha commesso
- o che il fatto non costituisce reato
- o non è previsto dalla legge come reato
- o che il reato è estinto
- o che manca una condizione di procedibilità,
lo dichiara di ufficio con sentenza.” (co.1)

“Quanto ricorre una causa di estinzione del reato, ma dagli atti risulta evidente che
- il fatto non sussiste
- o che l’imputato non lo ha commesso
- o che il fatto non costituisce reato
- o non è previsto dalla legge come reato,
il giudice pronuncia sentenza di assoluzione o di non luogo a procedere con la formula prescritta.” (co.2)

Tale articolo dispone delle formule terminative secondo un ordine di priorità improntato alla tutela dell’innocenza
dell’imputato.

L’immediata declaratoria opera solo nel processo e non anche nel momento anteriore di natura preprocessuale.

Nella fase delle indagini preliminari un compito equivalente è svolto dall’istituto dell’archiviazione.

L’art 129 co.1 subisce limiti applicativi dipendenti dalla struttura del processo.

Nei confronti dei procedimenti speciali, l’art 444 co.2, art 459 co.3 e art 464quater co.1 esplicitano l’incidenza dell’art 129, la
cui concreta applicabilità impedisce l’accoglimento della richiesta di patteggiamento, di emissione del decreto penale di
richiesta di sospensione del procedimento con messa alla prova.

Il silenzio serbato per il giudizio abbreviato e per il giudizio direttissimo non pone ostacoli applicativi, ma lo stesso non può
dirsi per la richiesta di giudizio immediato (per cui si escluderebbe l’operatività dell’art 129).

L’art 130, invece, disciplina e regola la “correzione di errori materiali”, per cui, con tale metodo (grazie al procedimento
camerale), si riduce l’ambito dei motivi di impugnazione, con un evidente scopo di economia processuale.

Infatti, in assenza di tale disposizione, ogni errore materiale potrebbe divenire ragione per impugnar l’atto.

ART 130  Correzione di errori materiali


“La correzione delle sentenze, ordinanze e decreti inficiati da errori/omissioni che non determinano la nullità, e la cui
eliminazione non comporta una modificazione essenziale dell’atto, è disposta, anche d’ufficio, dal giudice che ha emesso il
provvedimento.
Se questo è impugnato, e l’impugnazione non è dichiarata inammissibile, la correzione è disposta dal giudice competente a
conoscere dell’impugnazione.” (co.1)

“Quando nella sentenza di applicazione della pena su richiesta delle parti (patteggiamento) si devono rettificare solo la specie
e la quantità della pena per errore di denominazione/computo, la correzione è disposta, anche d’ufficio, dal giudice che ha
emesso il provvedimento.
Se questo è impugnato, alla rettificazione provvede la Corte di cassazione ex art 619 co.2., senza bisogno di pronunciare
annullamento della sentenza.” (co.1bis)

“Il giudice provvede in camera di consiglio ex art 127.


Dell’ordinanza che ha disposto la correzione è fatta annotazione sull’originale dell’atto.” (co.2)

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L’apposita procedura di correzione di errori materiali opera in presenza di 3 presupposti:

 Opera solo per sentenze, ordinanze e decreti;

 L’errore materiale non deve essere ricollegato ad una previsione di nullità;

 L’errore si deve sostanziare in una difformità tra pensiero del giudice-contenuto dell’atto, mentre l’omissione deve
riguardare un comando che discende dalla legge.

Numerose sono le ipotesi alle quali è resa esplicitamente applicabile la procedura di correzione di errori materiali:
- In caso di erronea attribuzione delle generalità all’imputato;

- Di omessa condanna delle spese;

- Di correzione della sentenza se occorre completare la motivazione o se mancano o sono incompleti altri requisiti
previsti ex art 546;

- Di condanna di una persona in luogo di un’altra per errore di nome, quando sia stata citata per il giudizio come
imputato anche sotto altro nome.

In tal caso, all’omissione pone rimedio una procedura de plano, tramite ordinanza pronunciata ex officio.

Le S.U. hanno ritenuto che il procedimento di correzione degli errori materiali operi pure nel giudizio di cassazione (co.1bis).

11. Poteri coercitivi (Art 131-133)


I poteri coercitivi del giudice di cui si occupa l’art 131 assumono natura tipicamente amministrativa (c.d. polizia processuale).

ART 131  Poteri coercitivi del giudice


“Il giudice, nell’esercizio delle funzioni, può chiedere l’intervento della P.G. e, se necessario, della forza pubblica, prescrivendo
tutto ciò che occorre per il sicuro e ordinato compimento degli atti ai quali procede.” (co.1)

Tale articolo attribuisce al giudice quell’imperium che è connaturato alla funzione giurisdizionale, in mancanza del quale le
decisioni giurisdizionali non sarebbero in grado di produrre alcun effetto.

La disposizione in esame ha lo scopo di assicurare che il processo si svolga in modo ordinato ed efficace.

ART 132  Accompagnamento coattivo dell’imputato


“L’accompagnamento coattivo è disposto, nei casi previsti dalla legge, con decreto motivato, col quale il giudice ordina di
condurre l’imputato alla sua presenza, se occorre anche con la forza.” (co.1)

“La persona sottoposta ad accompagnamento coattivo non può essere tenuta a disposizione oltre il compimento dell’atto
previsto e di quelli conseguenziali per i quali perduri la necessitò della sua presenza.
In ogni caso la persona non può essere trattenuta oltre le 24 ore.” (co.2)

Tale disposizione mira ad impedire che il procedimento di accompagnamento si traduca, di fatto, in un provvedimento
coercitivo provato della libertà personale.

In attuazione della fondamentale garanzia della tutela della libertà personale, prevista ex art 13 Cost, la norma attribuisce
all’A.G. il potere di disporre l’accompagnamento coattivo solo nei casi previsti dalla legge.

Così nel caso delle indagini preliminari:

 il P.M. può ordinare, sempre autorizzato dal giudice, l’accompagnamento coatto dell’indagato per procedere ad
interrogatorio o a confronto (art 376),
 mentre il giudice può disporlo nei casi di incidente probatorio (art 399).

Nel corso del dibattimento, invece, potrà essere disposto l’accompagnamento coatto dell’imputato solo per alcuni atti
(ricognizione, confronto) e mai per sottoporlo ad esame (490).

L’esame, infatti, potrà essere disposto solo col consenso dell’imputato.


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ART 133  Accompagnamento coattivo di altre persone


“Se il testimone, il perito, la persona sottoposta all’esame del perito diversa dall’imputato, il consulente tecnico, l’interprete
o il custode di cose sequestrate, regolarmente citati o convocati, omettono senza un legittimo impedimento di comparire nel
luogo, giorno e ora stabiliti, il giudice può ordinare l’accompagnamento coattivo e può anche condannarli, con ordinanza, al
pagamento di una somma da € 51 a 516 a favore della cassa delle ammende nonché alle spese alle quali la mancata
comparizione ha dato causa.” (co.1)

“Si applicano le disposizioni dell’art 132.” (co.2)

12. I principi in materia di documentazione degli atti. TITOLO III (Art 134-142)
Con il termine documentazione si fa riferimento  all’attività diretta a cristallizzare in un documento una certa attività
materiale, così da consentire al giudice e alle parti la disponibilità, il controllo e la memoria di tutto quanto si sia svolto
oralmente.

È, dunque, un’attività con cui un atto viene inserito e conservato nella sequenza procedimentale.

Sul piano soggettivo  l’autore dell’atto documentato non coincide con l’autore della documentazione.

Sul piano oggettivo  l’attività di documentazione produce un documento.

Il sistema di documentazione degli atti si estrinseca in dichiarazioni ed operazioni, risultando particolarmente flessibile in
rapporto alla pluralità dei mezzi utilizzabili.

Il Titolo III (art 134-142) disciplina la “documentazione degli atti” del giudice.

Per gli atti del P.M. si rinvia alle modalità di quelli del giudice;

per gli atti della P.G. il rinvio è mediato, facendosi riferimento alla disciplina predisposta per quelli del P.M.

Sono, inoltre, previste disposizioni specifiche per l’incidente probatorio (401 co.5 e 8), per l’udienza preliminare (420 co.4), per
l’udienza dibattimentale ordinaria (480-483 e 510), e per quella davanti al tribunale in composizione monocratica (559 co.2).

13. Le modalità della documentazione. (Art 134-137)


L’art 134 è dedicato alle singole “modalità di documentazione”, sorreggendo l’intera costruzione della materia.

Il co.1 enuncia il principio generale per cui la documentazione degli atti del giudice si effettua “mediante verbale”.

La formula esclude che per tali atti valga la semplice annotazione; questa, infatti, è praticabile solo per gli atti del P.M. o
della P.G..

Il codice non definisce una definizione di “verbale”, sennonché risulta ridimensionata la funzione del verbale, cui si assegna il
compito di fornire non già una fonte di prova, ma solo di svolgere una funzione rappresentativa e conservativa degli atti che si
compiono nel procedimento.

Nel co.2 si ricavano le forme ed i mezzi della documentazione; al verbale redatto in forma riassuntiva si affianca quello redatto
in forma integrale (tale espressione assume significato solo nei confronti delle dichiarazioni verbali, poiché per gli atti
consistenti in operazioni tutto è rimesso alla capacità descrittiva dell’organo procedente).

La scelta se adottare la forma integrale o riassuntiva è rimessa, di regola, al giudice.

Ex co.3, quando il verbale è redatto in forma riassuntiva è effettuata anche la riproduzione fonografica.

L’inosservanza delle disposizioni non è trattata, dunque si esclude l’invalidità.

Nell’elencare i mezzi di documentazione, il codice pone sullo stesso piano la stenotipia o altro strumento meccanico e, in
posizione subordinata la scrittura manuale.

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Ex co.4, quando le modalità di documentazione ex co.2 e 3 sono ritenute insufficienti, può essere aggiunta la riproduzione
audiovisiva, se indispensabile.

Gli arti 135-137 si applicano ai verbali redatti con stenotipia o altro mezzo meccanico, e ne disciplinano la redazione, contenuto
e sottoscrizione.

ART 135  Redazione del verbale


“Il verbale è redatto dall’ausiliario che assiste il giudice.” (co.1)

“Quando il verbale è redatto con la stenotipia o altro strumento meccanico, il giudice autorizza l’ausiliario che non possiede le
necessarie competenze a farsi assistere da personale tecnico, anche esterno all’amministrazione dello Stato.” (co.2)

ART 136  Contenuto del verbale


“Il verbale contiene:
- la menzione del luogo, dell’anno, del mese, del giorno, e quando occorre, dell’ora in cui è cominciato e chiuso,
- le generalità delle persone intervenute,
- l’indicazione delle cause, se conosciute, della mancata presenza di coloro che sarebbero dovuti intervenire,
- la descrizione di quanto l’ausiliario ha fatto o ha constatato o di quanto è avvenuto in sua presenza nonché le
dichiarazioni ricevute da lui o da altro pubblico ufficiale che egli assiste.” (co.1)

“Per ogni dichiarazione è indicato se è stata resa spontaneamente o previa domanda e, in tal caso, è riprodotta anche la
domanda;
se la dichiarazione è stata dettata dal dichiarante, o se questi si è avvalso dell’autorizzazione a consultare note scritte, ne è
fatta menzione.” (co.2)

ART 137  Sottoscrizione del verbale


“Salvo quanto previsto ex art 483 co.1, il verbale, previa lettura, è sottoscritto alla fine di ogni foglio dal pubblico ufficiale che
lo ha redatto, dal giudice e dalle persone intervenute, anche quando le operazioni non sono esaurite e vengono rinviate ad
altro momento.” (co.1)

“Se alcuno degli intervenuti non vuole o non è in grado di sottoscrivere, ne è fatta menzione con l’indicazione del motivo.”
(co.2)

L’eccezione ex art 483 co.1 si riferisce al verbale del dibattimento il quale va sottoscritto foglio per foglio solo dal pubblico
ufficiale che lo ha redatto e non anche dal giudice, che si limita ad apporre un unico visto, né dalle persone intervenute.

14. Le trascrizioni e le riproduzioni (Art 138-142)


ART 138  Trascrizione del verbale redatto con il mezzo della stenotipia
“Salvo quanto previsto ex art 483 co.2, i nastri impressi con i caratteri della stenotipia sono trascritti in caratteri comuni non
oltre il giorno successivo a quello in cui si sono formati.
Essi sono uniti agli atti del processo, insieme con la trascrizione.” (co.1)

“Se la persona che ha impresso i nastra è impedita, il giudice dispone che la trascrizione sia affidata a persona idonea anche
estranea all’amministrazione dello stato.” (co.2)

L’eccezione ex art 483 co.2 si riferisce al fatto che il verbale del dibattimento deve essere trascritto non oltre 3 giorni dalla sua
formazione.

Oggigiorno è possibile procedere a trascrizione simultanea con pc.

Se, ex co.2, la trascrizione è affidata ad una persona idonea, ma diversa rispetto a quella che ha impresso i nastri (perché
impedita), la trascrizione fonografica e audiovisiva sono (in tal caso) trascritte senza limiti di tempo dal personale tecnico
giudiziario.

ART 139  Riproduzione fonografica e audiovisiva


“La riproduzione fonografica/audiovisiva è effettuata da personale tecnico, anche estraneo all’amministrazione dello Stato,
sotto la direzione dell’ausiliario che assiste il giudice.” (co.1)

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“Quando si effettua la riproduzione fonografica nel verbale è indicato il momento di inizio e di cessazione delle operazioni di
riproduzione.” (co.2)

“Per la parte in cui la riproduzione fonografica, per qualsiasi motivo, non ha avuto effetto o non è chiaramente intelligibile,
fa prova il verbale redatto in forma riassuntiva.” (co.3)

“La trascrizione della riproduzione è effettuata da personale tecnico giudiziario.


Il giudice può disporre che essa sia affidata a persona idonea estranea all’amministrazione dello Stato.” (co.4)

“Quando le parti vi consentono, il giudice può disporre che non sia effettuata la trascrizione.” (co.5)

“Le registrazioni fonografiche o audiovisive e le trascrizioni, se effettuate, sono unite agli atti del procedimento.” (co.6)

ART 140  Modalità di documentazione in casi particolari


“Il giudice dispone che si effettui soltanto la redazione contestuale del verbale in forma riassuntiva quando gli atti da
verbalizzare hanno contenuto semplice o limitata rilevanza o quando si verifica una contingente indisponibilità di strumenti
di riproduzione o di ausiliari tecnici.” (co.1)

“Quando è redatto solo il verbale in forma riassuntiva, il giudice vigila affinché sia riprodotta nell’originaria genuina
espressione la parte essenziale delle dichiarazioni, con la descrizione delle circostanze nelle quali sono rese se queste possono
servire a valutarne la credibilità.” (co.2)

Può derogarsi alla verbalizzazione integrale da parte del giudice, secondo il suo discrezionale apprezzamento.

ART 142  Nullità dei verbali


“Salve particolari disposizioni di legge, il verbale è nullo se vi è incertezza assoluta sulle persone intervenute o se manca la
sottoscrizione del pubblico ufficiale che lo ha redatto.” (co.1)

La clausola di salvezza posta ex art 142 va riferita alla disciplina delle ricognizioni, da cui si apprende che:

 la mancata menzione nel verbale di determinati adempimenti e dichiarazioni, nonché delle relative modalità di
svolgimento, determina la nullità del mezzo di prova.

In tal caso, la documentazione dell’atto funge da condizione di validità del suo contenuto.

15. La documentazione dell’interrogatorio del detenuto. (Art 141bis)


Con la l.332/1995 è stato introdotto l’art 141bis, disciplinante le “modalità di documentazione dell’interrogatorio di persone in
stato di detenzione”.

ART 141bis  Modalità di documentazione dell’interrogatorio di persone in stato di detenzione


“Ogni interrogatorio di persona che si trovi, a qualsiasi titolo in stato di detenzione, e che non si svolga in udienza, deve
essere documentato integralmente, a pena di inutilizzabilità, con mezzi di riproduzione fonografica o audiovisiva.
Quando si verifica una indisponibilità di strumenti di riproduzione o di personale tecnico, si provvede con le forme della perizia
o della consulenza tecnica.
Dell’interrogatorio è anche redatto verbale in forma riassuntiva.
La trascrizione della riproduzione è disposta solo se richiesta dalle parti.” (co.1)

La norma tende a garantire la genuinità dell’acquisizione delle fonti di prova aventi valenza indiziante non solo per l’imputato,
ma anche per i terzi eventualmente chiamati in causa.

Tale maggior rigore di documentazione trova ragione anche nella più rilevante valenza probatoria che le dichiarazioni rese in
interrogatorio sono destinata ad avere per effetto delle “contestazioni” o delle “letture” ex art 500,503 e 513.

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16. La partecipazione a distanza (Art 146 / 45bis / 134bis disp.att.)


Le innovazioni tecnologiche hanno ormai dilatato i confini dell’udienza, grazie soprattutto ai nuovi collegamenti a distanza
realizzati tramite una connessione audio-video con una postazione remota.

Il fine è stato perseguito, nel 1992, con riguardo al solo esame a distanza, estendendone la disciplina nel 1998.

Sennonché, gli istituti denominato in rubrica “partecipazione al dibattimento a distanza” e “esame delle persone che
collaborano con la giustizia e degli imputati di reato connesso” danno vita a problematiche costituzionali ben distinte, ma
mirano anche a conseguire obiettivi precisi.

1) La partecipazione a distanza voleva realizzare obiettivi di economia processuale;


2) l’esame a distanza, invece, intendeva garantire la sicurezza personale del dichiarante.

Per il primo istituto si parla oggi di videoconferenza o teleconferenza,


per il secondo, si parla di telesame.

Gli art726quinques e 729quater (inseriti dal d.lgs.149/2017) discorrono a proposito delle rogatorie dall’estero e all’estero, di
videoconferenza come una forma di collegamento audiovisivo a distanza;

mentre l’art 726sexies riserva l’”audizione mediante teleconferenza” a rogatorie dall’estero realizzate tramite il solo mezzo
telefonico.

Ovviamente, si deve escludere che la videoconferenza o il telesame siano la stessa cosa dell’assistenza personale o della
dichiarazione tipiche del contesto spaziale e temporale della pubblica udienza.

Palese, è che gli istituti in parola diano vita a realtà fenomeniche diverse da quelle prese in considerazione dalla disciplina
codicistica, poiché è scontata l’impossibilità di ridurre a zero la differenza tra il c.d. processo virtuale ed il processo attuale.

Si tratta di accertare se la partecipazione o esame a distanza siano ancora giuridicamente riconoscibili nei corrispondenti
istituti disciplinati dal codice, e quindi possano ritenersi ad esso equivalenti.

Prima della riforma Orlando (l.103/2017), la partecipazione a distanza era attivabile:

 se si trattava di un dibattimento relativo ad uno dei reati indicati ex art 51 co.3bis o ex art 407 co.2 lett.a n.4
 e se l’imputato si trovava in stato di detenzione in carcere.

Anche se, a conti fatti, contava solo il fatto obiettivo della detenzione carceraria.

A tal punto, toccava valutare se ricorressero “gravi ragioni di sicurezza/ordine pubblico” o esigenze di economia processuale
consistenti nell’evitare il c.d. turismo giudiziario

3) Una terza ipotesi di partecipazione a distanza si delineava con esclusivo riferimento alla sottoposizione alle misure ex art
41bis co.2 ord.pent. (c.d. carcere duro).

Qui il “turismo giudiziario” veniva impedito per evitare che fosse sfruttato dall’imputato al fine di mantenere contatti con le
organizzazioni criminali.

Pertanto, la partecipazione a distanza già scattava nei dibattimenti nei confronti di detenuti sottoposti al regime del c.d. carcere
duro anche se non fossero imputati, in quel processo, di una delle fattispecie di criminalità organizzata.

Dunque, la partecipazione a distanza superava l’ambito del doppio binario (i due requisiti per cui era attivabile), dovendosi farvi
ricorso pure nei dibattimenti per reati di lieve entità.

La riscrittura dell’art 146bis disp.att. ricomprendere tutte le ipotesi appena ricordate aggiungendone di nuove, ma si
caratterizza per rendere tendenzialmente ordinario l’istituto della partecipazione a distanza e per semplificarne le modalità
di accesso in danno del contraddittorio tra le parti.

Dunque, la riforma Orlando ha riscritto l’art 146bis disp.att. riguardante la Partecipazione al dibattimento a distanza.

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ART 146 disp.att.  Partecipazione al dibattimento a distanza


“La persona che si trova in stato di detenzione per taluno dei delitti indicati ex art 51 co.3bis, nonché ex art 407 co.2 lett.a n.4
partecipa a distanza alle udienze dibattimentali dei processi nei quali è imputata, anche relativi a reati per i quali sia in
libertà.
Allo stesso modo partecipa alle udienze penali e alle udienze civili nelle quali deve essere esaminata quale testimone.” (co.1)

“La persona ammessa a programmi o misure di protezione, comprese quelle di tipo urgente o provvisorio, partecipa a
distanza alle udienze dibattimentali dei processi nei quali è imputata.” (co.1bis)

“Ad esclusione del caso in cui sono state applicate le misure di cui ex art 41bis l.354/1975, e successive modificazioni, il
giudice può disporre con decreto motivato, anche su istanza di parte, la presenza alle udienze delle persone indicate nei co. 1
e 1bis del presente articolo qualora lo ritenga necessario.” (co.1ter)

“Fuori dei casi previsti dai co. 1 e 1bis, il giudice può disporre con decreto motivato la partecipazione a distanza anche
quando sussistano ragioni di sicurezza, qualora il dibattimento sia di particolare complessità e sia necessario evitare ritardi
nel suo svolgimento, ovvero quando si deve assumere la testimonianza di persona a qualunque titolo in stato di detenzione
presso un istituto penitenziario.” (co.1quater)

“Il presidente del tribunale o della corte di assise nella fase degli atti preliminari, oppure il giudice nel corso del dibattimento,
dà comunicazione alle autorità competenti nonché alle parti e ai difensori della partecipazione al dibattimento a distanza.”
(co.2)

“Quando è disposta la partecipazione a distanza, è attivato un collegamento audiovisivo tra l'aula di udienza e il luogo della
custodia, con modalità tali da assicurare la contestuale, effettiva e reciproca visibilità delle persone presenti in entrambi i
luoghi e la possibilità di udire quanto vi viene detto.
Se il provvedimento è adottato nei confronti di più imputati che si trovano, a qualsiasi titolo, in stato di detenzione in luoghi
diversi, ciascuno è posto altresì in grado, con il medesimo mezzo, di vedere ed udire gli altri.” (co.3)

“E' sempre consentito al difensore o a un suo sostituto di essere presente nel luogo dove si trova l'imputato.
Il difensore o il suo sostituto presenti nell'aula di udienza e l'imputato possono consultarsi riservatamente, per mezzo di
strumenti tecnici idonei.” (co.4)

“In tutti i processi nei quali si procede con il collegamento audiovisivo ai sensi dei commi precedenti, il giudice, su istanza, può
consentire alle altre parti e ai loro difensori di intervenire a distanza assumendosi l’onere dei costi del collegamento.” (co.4bis)

“Il luogo dove l'imputato si collega in audiovisione è equiparato all'aula di udienza.” (co.5)

“Un ausiliario abilitato ad assistere il giudice in udienza designato dal giudice o, in caso di urgenza, dal presidente è presente
nel luogo ove si trova l'imputato e ne attesta l'identità dando atto che non sono posti impedimenti o limitazioni all'esercizio
dei diritti e delle facoltà a lui spettanti.
Egli dà atto altresì della osservanza delle disposizioni di cui al co.3 ed al secondo periodo co.4 nonché, se ha luogo l'esame,
delle cautele adottate per assicurarne la regolarità con riferimento al luogo ove si trova.
A tal fine interpella, ove occorra, l'imputato ed il suo difensore.
Durante il tempo del dibattimento in cui non si procede ad esame dell'imputato il giudice o, in caso di urgenza, il presidente,
può designare ad essere presente nel luogo ove si trova l'imputato, in vece dell'ausiliario, un ufficiale di polizia giudiziaria
scelto tra coloro che non svolgono, né hanno svolto, attività di investigazione o di protezione con riferimento all'imputato o ai
fatti a lui riferiti.
Delle operazioni svolte l'ausiliario o l'ufficiale di polizia giudiziaria redigono verbale ex art 136.” (co.6)

“Se nel dibattimento occorre procedere a confronto o ricognizione dell'imputato o ad altro atto che implica l'osservazione
della sua persona, il giudice, ove lo ritenga indispensabile, sentite le parti, dispone la presenza dell'imputato nell'aula di
udienza per il tempo necessario al compimento dell'atto.” (co.7)

Sennonché, la proposta di tale legge ha generato non pochi contrasti e proteste da parte degli avvocati penalisti, tanto che la
Giunta delle Camere Penali ha deliberato varie astensioni da ogni attività giudiziaria nel settore penale facendo rilevare il forte
contrasto tra il nuovo art 146bis disp.att ed i principi costituzionali del giusto processo e manifestando di voler contrastare con
determinazione l’estensione, tramite la riforma del 146bis disp att, dello strumento del “processo a distanza” indistintamente a
tutti i processi con detenuti e senza specifica motivazione.

Anche nei procedimenti che si svolgono in camera di consiglio vale la disciplina approntata per la partecipazione a distanza
dell’imputato al dibattimento, grazie all’introduzione dell’art 45bis disp.att. ad opera sempre della riforma Orlando.

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ART 45bis disp.att.  Partecipazione al procedimento in camera di consiglio a distanza


“Nei casi previsti ex art 146bis disp.att. co.1 e 1bis, la partecipazione dell'imputato o del condannato all'udienza nel
procedimento in camera di consiglio avviene a distanza.” (co.1)

“La partecipazione a distanza è disposta dal giudice con ordinanza o dal presidente del collegio con decreto motivato, che
sono comunicati o notificati unitamente all'avviso ex art 127 co.1.” (co.2)

“Si applicano, in quanto compatibili, le disposizioni previste ex art 146bis co.2,3,4 e 6.” (co.3)

Infine, la l.103/2017 adegua l’art 134bis disp.att. disciplinante la “Partecipazione a distanza nel giudizio abbreviato”.

ART 134bis disp.att  Partecipazione a distanza nel giudizio abbreviato


“Nei casi previsti ex art 146bis co.1 e 1bis disp.att., la partecipazione dell'imputato avviene a distanza anche quando il
giudizio abbreviato si svolge in pubblica udienza.” (co.1)

17. L’esame a distanza (Art 147bis disp.att.)


Per salvaguardare la sicurezza di testimoni o imputati il codice aveva fatto leva sul tradizionale strumento di procedere al
relativo esame a porte chiuse (art 472 co.3 “Casi in cui si procede a porte chiuse”), senza che ne venisse coinvolta la pubblicità
mediata realizzata con la stampa o con i mezzi audiovisivi.

Poiché la cronaca nera segnalava con allarmante frequenza attentati troppo spesso riusciti, all’incolumità dei testimoni, il
legislatore, con d.l.306/1992 ha risposto con l’introduzione dell’esame a distanza.

Si è, dunque, più volte ritoccato il testo dell’art 147bis disp.att., riscrivendone addirittura la rubrica (prima nel 1998, poi con la
l.136/2010).

ART 147bis disp.att.  Esame degli operatori sotto copertura, delle persone che collaborano con la giustizia e degli
imputati di reato connesso
“L'esame in dibattimento delle persone ammesse, in base alla legge, a programmi o misure di protezione anche di tipo
urgente o provvisorio si svolge con le cautele necessarie alla tutela della persona sottoposta all'esame, determinate,
d'ufficio ovvero su richiesta di parte o dell'autorità che ha disposto il programma o le misure di protezione, dal giudice o, nei
casi di urgenza, dal presidente del tribunale o della corte di assise.” (co.1)

“L’esame in dibattimento degli ufficiali e degli agenti di polizia giudiziaria, anche appartenenti ad organismi di polizia esteri,
degli ausiliari e delle interposte persone, che abbiano operato in attività sotto copertura ex art 9 l.146/2006, e successive
modificazioni, si svolge sempre con le cautele necessarie alla tutela e alla riservatezza della persona sottoposta all’esame e
con modalità determinate dal giudice o, nei casi di urgenza, dal presidente, in ogni caso idonee a evitare che il volto di tali
soggetti sia visibile.” (co.1bis)

“Ove siano disponibili strumenti tecnici idonei, il giudice o il presidente, sentite le parti, può disporre, anche d'ufficio, che
l'esame si svolga a distanza, mediante collegamento audiovisivo che assicuri la contestuale visibilità delle persone presenti nel
luogo dove la persona sottoposta ad esame si trova.
In tal caso, un ausiliario abilitato ad assistere il giudice in udienza, designato dal giudice o, in caso di urgenza, dal presidente, è
presente nel luogo ove si trova la persona sottoposta ad esame e ne attesta le generalità, dando atto della osservanza delle
disposizioni contenute nel presente comma nonché delle cautele adottate per assicurare le regolarità dell'esame con
riferimento al luogo ove egli si trova.
Delle operazioni svolte l'ausiliario redige verbale ex art 136.” (co.2)

“Salvo che il giudice ritenga assolutamente necessaria la presenza della persona da esaminare, l'esame si svolge a distanza
secondo le modalità ex co.2 nei seguenti casi:
a) quando l’esame è disposto nei confronti di persone ammesse al piano provvisorio di protezione previsto ex art 13 co.1
d.l.8/1991, convertito, con modificazioni, dalla l.82/1991, e successive modificazioni, o alle speciali misure di protezione di cui
al citato art 13 co.4 e 5 del medesimo decreto-legge;

b) quando nei confronti della persona sottoposta ad esame è stato emesso il decreto di cambiamento delle generalità di cui
all’art 3 d.lgs.119/1993; in tale caso, nel procedere all'esame, il giudice o il presidente si uniforma a quanto previsto dall’art 6
co.6, del medesimo decreto legislativo e dispone le cautele idonee ad evitare che il volto della persona sia visibile;

c) quando, nell'ambito di un processo per taluno dei delitti previsti ex art 51 co.3bis, o ex art 407 co.2 lett.a n.4, devono
essere esaminate le persone indicate nell’art 210 nei cui confronti si procede per uno dei delitti previsti ex art 51 co.3bis, o ex
art 407 co.2 lett.a n.4, del codice, anche se vi è stata separazione dei procedimenti;
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c-bis) quando devono essere esaminati ufficiali o agenti di polizia giudiziaria, anche appartenenti ad organismi di polizia
esteri, nonché ausiliari e interposte persone, in ordine alle attività dai medesimi svolte nel corso delle operazioni sotto
copertura ex art 9 l.146/2006, e successive modificazioni.
In tali casi, il giudice o il presidente dispone le cautele idonee ad evitare che il volto di tali soggetti sia visibile.” (co.3)

“Se la persona da esaminare deve essere assistita da un difensore si applicano le disposizioni previste dell'art 146bis commi 3,
4 e 6.” (co.4)

“Le modalità ex co.2 possono essere altresì adottate, a richiesta di parte, per l'esame della persona di cui è stata disposta la
nuova assunzione ex art 495 co. 1, del codice, o quando vi siano gravi difficoltà ad assicurare la comparazione della persona
da sottoporre ad esame.” (co.5)

18. La traduzione degli atti. TITOLO IV (Art 143-147)


Il Titolo IV (art 143-147) disciplina la “traduzione degli atti”.

La traduzione degli atti non è un mezzo di prova, ma una mediazione linguistica tra i soggetti del procedimento ed il suo
impiego non si esaurisce nell’ambito probatorio.

La Carta Costituzione, garantendo il diritto di difesa (art 24 Cost), richiede sostanzialmente che all’imputato siano dati gli
strumenti per comprendere l’accusa dalla quale deve difendersi, senza dovere quindi patire un trattamento ingiustamente
differenziato (in violazione dell’art 3) rispetto al cittadino che conosca la lingua italiana.

Sulla base di quanto detto, il Titolo IV si colora di contenuti attinenti ai principi fondamentali della civiltà giuridica.

La materia è stata più volte modificata.

In primis l’art 111 co.3 Cost  per cui la persona accusata di un reato dev’essere assistita da un interprete se non comprende o
non parla la lingua usata nel processo.

Ma la spinta decisiva c’è stata con la direttiva 2010/64/UE con cui si è lasciato poco spazio discrezionale al legislatore italiano.

Infatti, il d.lgs.32/2014 aveva dato attuazione alla direttiva (sul diritto all’interpretazione e alla traduzione nei procedimenti
penali), colmando non poche lacune della nostra legislazione.

Si era riconosciuto che il diritto all’assistenza dell’interprete investisse non solo gli atti orali, ma anche quelli scritti, tutte le
volte in cui la mancata conoscenza della lingua italiana fosse evidenziata dall’interessato o accertata dall’autorità procedente.

La manovra è poi proseguita col d.lgs.101/2014, prevedendo che in una serie di contesti qualificati la persona sottoposta alle
indagini venga informata “del diritto all’interprete ed alla traduzione di atti fondamentali”, al pari di quanto si è statuito in
ordine all’avviso al medesimo del diritto ad avvalersi della facoltà di non rispondere.

ART 143  Diritto all’interprete e alla traduzione di atti fondamentali


“L’imputato che non conosce la lingua italiana ha diritto di farsi assistere gratuitamente, indipendentemente dall’esito del
procedimento, da un interprete al fine di poter comprendere l’accusa contro di lui formulata e di seguire il compimento degli
atti e lo svolgimento delle udienze cui partecipa.
Ha anche diritto all’assistenza gratuita di un interprete per le comunicazioni con il difensore prima di rendere un
interrogatorio, o al fine di presentare una richiesta o una memoria nel corso del procedimento.” (co.1)

“Negli stessi casi l'autorità̀ procedente dispone la traduzione scritta, entro un termine congruo tale da consentire l'esercizio
dei diritti e della facoltà̀ della difesa, dell'informazione di garanzia, dell'informazione sul diritto di difesa, dei provvedimenti
che dispongono misure cautelari personali, dell'avviso di conclusione delle indagini preliminari, dei decreti che dispongono
l'udienza preliminare e la citazione a giudizio, delle sentenze e dei decreti penali di condanna.” (co.2)

“La traduzione gratuita di altri atti o anche solo di parte di essi, ritenuti essenziali per consentire all'imputato di conoscere le
accuse a suo carico, può̀ essere disposta dal giudice, anche su richiesta di parte, con atto motivato, impugnabile unitamente
alla sentenza.” (co.3)

“L'accertamento sulla conoscenza della lingua italiana è compiuto dall'autorità̀ giudiziaria.


La conoscenza della lingua italiana è presunta fino a prova contraria per chi sia cittadino italiano.” (co.4)

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“L'interprete e il traduttore sono nominati anche quando il giudice, il pubblico ministero o l'ufficiale di polizia giudiziaria ha
personale conoscenza della lingua o del dialetto da interpretare.” (co.5)

“La nomina del traduttore per gli adempimenti di cui ai co 2 e 3 è regolata ex art 144 ss del presente titolo.
La prestazione dell'ufficio di interprete e di traduttore è obbligatoria.” (co.6)

L’art 143 è dedicato al solo imputato, sicché l’attuazione della direttiva 2012/29/UE relativa alle norme minime in tema di
diritti, assistenza e protezione delle vittime di reato ha comportato l’introduzione, ex d.lgs.212/2015 dell’art 143bis.

ART 143bis  Altri casi di nomina dell’interprete


“L'autorità̀ procedente nomina un interprete quando occorre tradurre uno scritto in lingua straniera o in un dialetto non
facilmente intellegibile ovvero quando la persona che vuole o deve fare una dichiarazione non conosce la lingua italiana.
La dichiarazione può anche essere fatta per iscritto e in tale caso è inserita nel verbale con la traduzione eseguita
dall'interprete. ” (co.1)

“Oltre che nei casi di cui al co.1 e di cui all’art 119, l'autorità̀ procedente nomina, anche d'ufficio, un interprete quando occorre
procedere all'audizione della persona offesa che non conosce la lingua italiana nonché nei casi in cui la stessa intenda
partecipare all'udienza e abbia fatto richiesta di essere assistita dall'interprete.” (co.2)

“L'assistenza dell'interprete può essere assicurata, ove possibile, anche mediante l'utilizzo delle tecnologie di comunicazione
a distanza, sempreché la presenza fisica dell'interprete non sia necessaria per consentire alla persona offesa di esercitare
correttamente i suoi diritti o di comprendere compiutamente lo svolgimento del procedimento.” (co.3)

“La persona offesa che non conosce la lingua italiana ha diritto alla traduzione gratuita di atti, o parti degli stessi, che
contengono informazioni utili all'esercizio dei suoi diritti.
La traduzione può essere disposta sia in forma orale che per riassunto se l'autorità̀ procedente ritiene che non ne derivi
pregiudizio ai diritti della persona offesa.” (co.4)

La citata novella, introducendo tale articolo, ha lo scopo di consentire al giudice di nominare interpreti e traduttori al fine di
permettere anche alla vittima una adeguata e consapevole partecipazione al procedimento penale, tanto in fase investigativa
che nella fase propriamente processuale.

La persona offesa che non conosca la lingua italiana può chiedere di farsi assistere gratuitamente da un interprete durante il
processo e può richiedere, sempre gratuitamente, la traduzione degli atti del processo.

Il diritto alla traduzione può essere esercitato anche prima del processo, sin dal momento della presentazione della denuncia o
della querela (art 107ter disp.att.).

ART 144  Incapacità e incompatibilità dell’interprete


“Non può̀ prestare ufficio di interprete, a pena di nullità̀:
a) il minorenne, l'interdetto, l'inabilitato e chi è affetto da infermità̀ di mente;
b) chi è interdetto anche temporaneamente dai pubblici uffici ovvero è interdetto o sospeso dall'esercizio di una professione
o di un'arte;
c) chi è sottoposto a misure di sicurezza personali o a misure di prevenzione;
d) chi non può̀ essere assunto come testimone o ha facoltà̀ d'astenersi dal testimoniare o chi è chiamato a prestare ufficio
di testimone o di perito ovvero è stato nominato consulente tecnico nello stesso procedimento o in un procedimento
connesso.
Nondimeno, nel caso previsto ex art 119, la qualità̀ di interprete può̀ essere assunta da un prossimo congiunto della persona
sorda, muta o sordomuta.” (co.1)

La norma ha l’evidente scopo di garantire la fedeltà dell’interprete alle informazioni assunte per la traduzione.

È incompatibile con l’ufficio di interprete chi, pur capace di intendere e di volere, potrebbe avere un qualsiasi motivo per
tradurre in maniera infedele.

È incapace, invece, chi non è nelle condizioni psico-fisiche idonee a svolgere con precisione la funzione di interprete.

ART 145  Ricusazione e astensione dell’interprete


“L'interprete può̀ essere ricusato per i motivi indicati ex art 144, dalle parti private e, in rapporto agli atti compiuti o disposti
dal giudice, anche dal pubblico ministero.” (co.1)

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“Quando esiste un motivo di ricusazione, anche se non proposto, ovvero se vi sono gravi ragioni di convenienza per
astenersi, l'interprete ha obbligo di dichiararlo.” (co.2)

“La dichiarazione di ricusazione o di astensione può̀ essere presentata fino a che non siano esaurite le formalità̀ di
conferimento dell'incarico e, quando si tratti di motivi sopravvenuti ovvero conosciuti successivamente, prima che
l'interprete abbia espletato il proprio incarico.” (co.3)

“Sulla dichiarazione di ricusazione o di astensione decide il giudice con ordinanza.” (co.4)

ART 146  Conferimento dell’incarico


“L'autorità̀ procedente accerta l'identità̀ dell'interprete e gli chiede se versi in una delle situazioni previste ex art 144 e 145.”
(co.1)

“Lo ammonisce poi sull'obbligo di adempiere bene e fedelmente l'incarico affidatogli, senz'altro scopo che quello di far
conoscere la verità̀, e di mantenere il segreto su tutti gli atti che si faranno per suo mezzo o in sua presenza.
Quindi lo invita a prestare l'ufficio.” (co.2)

“Quando l'interprete o il traduttore risiede nella circoscrizione di altro tribunale, l'autorità procedente, ove non ritenga di
procedere personalmente, richiede al giudice per le indagini preliminari del luogo il compimento delle attività di cui ai commi
precedenti.” (co.2bis)

Il co.2bis è stato inserito dal d.lgs.32/2014, a sua volta modificato ex d.lgs.129/2016.

ART 147  Termine per le traduzioni scritte. Sostituzione dell’interprete


“Per la traduzione di scritture che richiedono un lavoro di lunga durata, l'autorità̀ procedente fissa all'interprete un termine
che può̀ essere prorogato per giusta causa una sola volta.
L'interprete può̀ essere sostituito se non presenta entro il termine la traduzione scritta.” (co.1)

“L'interprete sostituito, dopo essere stato citato a comparire per discolparsi, può̀ essere condannato dal giudice al
pagamento a favore della cassa delle ammende di una somma da euro 51 a euro 516.” (co.2)

19. Le linee di fondo del regime delle notificazioni. TITOLO V (Art 148-171)
Il Titolo V (art 148-171) disciplina l’istituto delle “notificazioni”.

Nel processo penale gli atti contano in quanto, con l’osservanza di determinate forme e termini, siano portati a conoscenza dei
soggetti diversi dal loro autore  a ciò è predisposto l’istituto delle notificazioni.

L’avvento del modello accusatorio e delle continue riforme, hanno comportato la necessità di adeguare le notificazioni alle
esigenze di celerità, garanzia e parità di posizioni tra soggetti processuali.

L’obiettivo della tutela effettiva è imposto dalle numerose pronunce della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo (C.E.D.U.) che
avevano elevato censure al nostro ordinamento in ordine al regime della contumacia.

Ciò ha comportato, con la l.67/2014 la soppressione del processo in contumacia, col prevedere che al di fuori dei casi di
assenza (art 420bis), impedimento a comparire (art 420ter) o di nullità dell’avviso di udienza all’imputato, il giudice debba
rinviare l’udienza e disporre che il relativo avviso sia notificato personalmente all’imputato tramite P.G.

Se la notifica non riesce, il giudice, con ordinanza dichiara che il processo venga sospeso, nei confronti dell’imputato non
reperito

 La notificazione  è il mezzo predisposto dal legislatore affinché le parti abbiano conoscenza del contenuto di determinati
atti (cioè di quelli finalizzati a produrre effetti nei confronti di chi ne è destinatario)  consente, dunque, la conoscenza
effettiva degli atti.

Il legislatore, nei suoi interventi, nell’intento di sgravare la P.G. da compiti non investigativi, ha limitato fortemente l’impegno
della polizia nell’attività di notificazione degli atti.

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È stato, dunque, previsto, che l’unico organo notificatore è l’ufficiale giudiziario;

inoltre, per gli atti del giudice destinati ai detenuti, ci si può rivolgere alla polizia penitenziaria.

Strutturalmente, il procedimento di notificazione è distinto in 3 fasi:

 L’impulso  consistente nell’ordine/richiesta di eseguire la notificazione e nella consegna materiale dell’atto all’organo
esecutivo;
 L’esecuzione  di cui fanno parte la predisposizione dell’atto da notificare, l’attività di ricerca del destinatario e la consegna
dell’atto alla persona abilitata a riceverlo;
 La documentazione  dell’attività svolta dall’organo esecutivo.

20. Gli organi e le forme delle notificazioni disposte dal giudice o richieste dalle parti.
È opportuno distinguere:

 Le notificazioni disposte dal giudice di cui l’art 148 ne disciplina gli organi e le forme;
 Le notificazioni richieste dalle parti, compreso il P.M.

ART 148  Organi e forme delle notificazioni


“Le notificazioni degli atti, salvo che la legge disponga altrimenti, sono eseguite dell'ufficiale giudiziario o da chi ne esercita
le funzioni.” (co.1)

”Nei procedimenti con detenuti ed in quelli davanti al tribunale del riesame il giudice può̀ disporre che, in caso di urgenza, le
notificazioni siano eseguite dalla Polizia penitenziaria del luogo in cui i destinatari sono detenuti, con l'osservanza delle norme
del presente titolo.“ (co.2)

“L'autorità̀ giudiziaria può̀ disporre che le notificazioni o gli avvisi ai difensori siano eseguiti con mezzi tecnici idonei.
L'ufficio che invia l'atto attesta in calce ad esso di aver trasmesso il testo originale.“ (co.2bis)

“L'atto è notificato per intero, salvo che la legge disponga altrimenti, di regola mediante consegna di copia al destinatario
oppure, se ciò̀ non è possibile, alle persone indicate nel presente titolo.
Quando la notifica non può̀ essere eseguita in mani proprie del destinatario, l'ufficiale giudiziario o la polizia giudiziaria
consegnano la copia dell'atto da notificare, fatta eccezione per il caso di notificazione al difensore o al domiciliatario, dopo
averla inserita in busta che provvedono a sigillare trascrivendovi il numero cronologico della notificazione e dandone atto
nella relazione in calce all'originale e alla copia dell'atto.“ (co.3)

“La consegna di copia dell'atto all'interessato da parte della cancelleria ha valore di notificazione.
Il pubblico ufficiale addetto annota sull'originale dell'atto la eseguita consegna e la data in cui questa è avvenuta.“ (co.4)

“La lettura dei provvedimenti alle persone presenti e gli avvisi che sono dati dal giudice verbalmente agli interessati in loro
presenza sostituiscono le notificazioni, purché́ ne sia fatta menzione nel verbale.“ (co.5)

“Le comunicazioni, gli avvisi ed ogni altro biglietto o invito consegnati non in busta chiusa a persona diversa dal destinatario
recano le indicazioni strettamente necessarie.” (co.5bis)

Ragioni di economia, celerità o riservo hanno indotto, in casi tassativi, a prevedere la notificazione per estratto, cioè la
riproduzione della sola parte essenziale dell’atto.

Inoltre, ex co.3, l’oggetto della notificazione è l’atto nella sua interezza.

Ad ogni modo, la scoperta di nuovi mezzi di comunicazione ha permesso l’utilizzo di alcuni di essi per esigenze di celerità.

ART 149  Notificazioni urgenti a mezzo del telefono e del telegrafo


“Nei casi di urgenza, il giudice può̀ disporre, anche su richiesta di parte, che le persone diverse dall'imputato siano avvisate o
convocate a mezzo del telefono a cura della cancelleria.” (co.1)

“Sull'originale dell'avviso o della convocazione sono annotati il numero telefonico chiamato, il nome, le funzioni o le
mansioni svolte dalla persona che riceve la comunicazione, il suo rapporto con il destinatario, il giorno e l'ora della
telefonata.” (co.2)

“Alla comunicazione si procede chiamando il numero telefonico corrispondente ai luoghi indicati nell'art 157 co. 1 e 2.
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Essa non ha effetto se non è ricevuta dal destinatario ovvero da persona che conviva anche temporaneamente col
medesimo.” (co.3)

“La comunicazione telefonica ha valore di notificazione con effetto dal momento in cui è avvenuta, sempre che della stessa
sia data immediata conferma al destinatario mediante telegramma.” (co.4)

“Quando non è possibile procedere nel modo indicato nei commi precedenti, la notificazione è eseguita, per estratto,
mediante telegramma.” (co.5)

La notifica a mezzo telefono/telegrafo è esclusa per l’imputato per evidenti esigenze di tutela della sua posizione;

ciò perché, l’imputato non può essere esposto al rischio di una notifica non efficace, perché incerta relativamente ai soggetti
che concretamente operano la comunicazione e a quelli che effettivamente la ricevono.

Questa forma di notifica, dettata per far fronte a situazioni di urgenza, ha carattere sussidiario rispetto alle altre forme idonee
ad assicurare una migliore e più sicura conoscenza dell’atto.

Essa è subordinata alla preventiva autorizzazione del magistrato e può essere utilizzata solo per la trasmissione di
avvisi/convocazioni.

L’esigenza di semplificare le forme ha portato a notevoli traguardi, tra cui anche l’art 150 disciplinante “forme particolari di
notificazione disposte dal giudice” che consente di far ricorso a mezzi tecnici innominati per la notificazione, rendendo
possibile l’utilizzo di strumenti tecnici allo stato non ancora diffusi o anche non perfezionati, purché garantiscano la
conoscenza dell’atto.

Ad ogni modo, la posizione di parte attribuita al Pubblico Ministero ha indotto a predisporre una disciplina autonoma per le
notificazioni richieste (non già ordinate) dal medesimo.

ART 151  Notificazioni richieste dal P.M.


“Le notificazioni di atti del P.M. nel corso delle indagini preliminari sono eseguite dall'ufficiale giudiziario, ovvero dalla
polizia giudiziaria nei soli casi di atti di indagine o provvedimenti che la stessa polizia giudiziaria è delegata a compiere o è
tenuta ad eseguire.” (co.1)

“La consegna di copia dell'atto all'interessato da parte della segreteria ha valore di notificazione.
Il pubblico ufficiale addetto annota sull'originale dell'atto la eseguita consegna e la data in cui questa è avvenuta.” (co.2)

“La lettura dei provvedimenti alle persone presenti e gli avvisi che sono dati dal P.M. verbalmente agli interessati in loro
presenza sostituiscono le notificazioni, purché ́ ne sia fatta menzione nel verbale.” (co.3)

Si applicano, anche per il P.M., le forme telefoniche e telegrafiche considerate ex art 149, mentre sono inoperanti quelle ex art
150.

ART 152  Notificazioni richieste dalle parti private


“Salvo che la legge disponga altrimenti, le notificazioni richieste dalle parti private possono essere sostituite dall'invio di
copia dell'atto effettuata dal difensore mediante lettera raccomandata con avviso di ricevimento .”

Il legislatore, anche per evitare un eccessivo aggravio per le strutture amministrative addette alle notificazioni (in particolare per
l’ufficiale giudiziario) ha reso equivalente alla notificazione l’invio per posta di copia dell’atto da parte del difensore e
mediante lettera raccomandata con avviso di ricevimento.

Infatti, la norma è integrata dall’art 56 disp.att. che impone al difensore di documentare la spedizione con il deposito in
cancelleria della copia dell’atto inviato, l’attestazione della conformità all’originale e l’avviso di ricevimento.

21. Le notificazioni all’imputato


La disciplina delle notificazioni all’imputato è costruita sulla base del relativo status personale.

Rileva, dunque, solo lo status di detenzione del destinatario della notificazione, indipendentemente dalle ragioni che
determinano tale condizione (sentenza di condanna o provvedimenti di custodia cautelare).
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È necessario che lo stato di detenzione risulti dagli atti o che sia stato comunicato dall’imputato.

Non va considerato detenuto, agli effetti della notifica, chi è ristretto in luogo diverso dagli istituti penitenziari (es. sottoposto
agli arresti domiciliari o alla custodia in casa di cura)  si applica la disciplina ex art 157.

ART 156  Notificazioni all’imputato detenuto


“Le notificazioni all'imputato detenuto sono eseguite nel luogo di detenzione mediante consegna di copia alla persona.”
(co.1)

“In caso di rifiuto della ricezione, se ne fa menzione nella relazione di notificazione e la copia rifiutata è consegnata al
direttore dell'istituto o a chi ne fa le veci.
Nello stesso modo si provvede quando non è possibile consegnare la copia direttamente all'imputato, perché ́
legittimamente assente.
In tal caso, della avvenuta notificazione il direttore dell'istituto informa immediatamente l'interessato con il mezzo più̀
celere.” (co.2)

“Le notificazioni all'imputato detenuto in luogo diverso dagli istituti penitenziari sono eseguite ex art 157.” (co.3)

“Le disposizioni che precedono si applicano anche quando dagli atti risulta che l'imputato è detenuto per causa diversa dal
procedimento per il quale deve eseguirsi la notificazione o è internato in un istituto penitenziario.” (co.4)

“In nessun caso le notificazioni all'imputato detenuto o internato possono essere eseguite con le forme dell'articolo 159.”
(co.5)

Gli art 156-166 mirano a garantire l’effettività del diritto di difesa sancito ex art 24 Cost.

Le medesime forme di notifica si applicano anche nei confronti della persona sottoposta alle indagini, in virtù del principio ex
art 61 (“Estensione dei diritti e garanzie dell’imputato”).

ART 157  Prima notificazione all’imputato non detenuto


“Salvo quanto previsto ex art 161 e 162, la prima notificazione all'imputato non detenuto è eseguita mediante consegna di
copia alla persona.
Se non è possibile consegnare personalmente la copia, la notificazione è eseguita nella casa di abitazione o nel luogo in cui
l'imputato esercita abitualmente l'attività̀ lavorativa, mediante consegna a una persona che conviva anche
temporaneamente o, in mancanza, al portiere o a chi ne fa le veci.” (co.1)

“Qualora i luoghi indicati nel co.1 non siano conosciuti, la notificazione è eseguita nel luogo dove l'imputato ha temporanea
dimora o recapito, mediante consegna a una delle predette persone.” (co.2)

“Il portiere o chi ne fa le veci sottoscrive l'originale dell'atto notificato e l'ufficiale giudiziario dà notizia al destinatario
dell'avvenuta notificazione dell'atto a mezzo di lettera raccomandata con avviso di ricevimento.
Gli effetti della notificazione decorrono dal ricevimento della raccomandata.” (co.3)

“La copia non può̀ essere consegnata a persona minore under 14 o in stato di manifesta incapacità̀ di intendere o di volere.”
(co.4)

“L'autorità̀ giudiziaria dispone la rinnovazione della notificazione quando la copia è stata consegnata alla persona offesa
dal reato e risulta o appare probabile che l'imputato non abbia avuto effettiva conoscenza dell'atto notificato.” (co.5)

“La consegna alla persona convivente, al portiere o a chi ne fa le veci è effettuata in plico chiuso e la relazione di
notificazione è effettuata nei modi previsti ex art 148 co.3.” (co.6)

“Se le persone indicate nel co.1 mancano o non sono idonee o si rifiutano di ricevere la copia, si procede nuovamente alla
ricerca dell'imputato, tornando nei luoghi indicati nei commi 1 e 2.” (co.7)

“Se neppure in tal modo è possibile eseguire la notificazione, l'atto è depositato nella casa del comune dove l'imputato ha
l'abitazione, o, in mancanza di questa, del comune dove egli esercita abitualmente la sua attività̀ lavorativa.
Avviso del deposito stesso è affisso alla porta della casa di abitazione dell'imputato ovvero alla porta del luogo dove egli
abitualmente esercita la sua attività̀ lavorativa.
L'ufficiale giudiziario dà inoltre comunicazione all'imputato dell'avvenuto deposito a mezzo di lettera raccomandata con
avviso di ricevimento.
Gli effetti della notificazione decorrono dal ricevimento della raccomandata.” (co.8)

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“Le notificazioni successive sono eseguite, in caso di nomina di difensore di fiducia ex art 96, mediante consegna ai difensori.
Il difensore può̀ dichiarare immediatamente all'autorità̀ che procede di non accettare la notificazione.
Per le modalità̀ della notificazione si applicano anche le disposizioni previste ex art 148 co.2bis.” (co.8bis aggiunto nel 2015)

Con tale disposizione il legislatore indica in ordine progressivo, i luoghi in cui l’ufficiale giudiziario deve recarsi per rintracciare il
destinatario della notifica, facendo innanzitutto riferimento alla localizzazione abituale dell’imputato e in via subordinata, se
questi luoghi non sono conosciuti, alla localizzazione provvisoria (temporanea dimora o recapito);

non vi è obbligo di ricercare l’imputato in altri siti.

La l.60/2005 con l’introduzione del co.8bis ha previsto che se l’imputato nomina un difensore di fiducia, le successive notifiche
degli atti possono essergli fatte presso il domicilio di detto difensore.

È data la possibilità, però, al difensore di non accettare tale modalità di notifica.

Per le notificazioni all’imputato latitante od evaso, l’art 165 pone un’equiparazione di trattamento con l’irreperibile.

ART 165 Notificazioni all’imputato latitante o evaso


“Le notificazioni all'imputato latitante o evaso sono eseguite mediante consegna di copia al difensore.” (co.1)

“Se l'imputato è privo di difensore, l'autorità̀ giudiziaria designa un difensore di ufficio.” (co.2)

“L'imputato latitante o evaso è rappresentato a ogni effetto dal difensore.” (co.3)

ART 166  Notificazioni all'imputato interdetto o infermo di mente


“Se l'imputato è interdetto, le notificazioni si eseguono a norma degli articoli precedenti e presso il tutore;
se l'imputato si trova nelle condizioni previste ex art 71 co.1, le notificazioni si eseguono a norma degli articoli precedenti e
presso il curatore speciale.” (co.1)

Tali categorie di imputati (interdetto e infermo) sono maggiormente tutelate per la loro limitata/assente capacità di
comprendere il contenuto degli atti notificati.

La previsione non riguarda l’imputato al quale sia stata applicata la pena accessoria dell’interdizione legale.

ART 169  Notificazioni dell’imputato all’estero


“Se risulta dagli atti notizia precisa del luogo di residenza o di dimora all'estero della persona nei cui confronti si deve
procedere, il giudice o il pubblico ministero le invia raccomandata con avviso di ricevimento, contenente l'indicazione della
autorità̀ che procede, il titolo del reato e la data e il luogo in cui è stato commesso nonché ́ l'invito a dichiarare o eleggere
domicilio nel territorio dello Stato.
Se nel termine di 30 giorni dalla ricezione della raccomandata non viene effettuata la dichiarazione o l'elezione di domicilio
ovvero se la stessa è insufficiente o risulta inidonea, le notificazioni sono eseguite mediante consegna al difensore.” (co.1)

“Nello stesso modo si provvede se la persona risulta essersi trasferita all'estero successivamente al decreto di irreperibilità̀
emesso ex art 159. (co.2)

“L'invito previsto dal co. 1 è redatto nella lingua dell'imputato straniero quando dagli atti non risulta che egli conosca la
lingua italiana.” (co.3)

“Quando dagli atti risulta che la persona nei cui confronti si deve procedere risiede o dimora all'estero, ma non si hanno
notizie sufficienti per provvedere ex co.1, il giudice o il pubblico ministero, prima di pronunciare decreto di irreperibilità̀,
dispone le ricerche anche fuori del territorio dello Stato nei limiti consentiti dalle convenzioni internazionali.” (co.4)

“Le disposizioni precedenti si applicano anche nel caso in cui dagli atti risulti che la persona è detenuta all'estero.” (co.5)

Le disposizioni relative alla notifica dell’imputato all’estero non si applicano nel caso in cui l’imputato abbia in precedenza avuto
notizia del procedimento penale instaurato nei suoi confronti ed abbia eletto domicilio.

Le forme prescritte ex art 169 per le notificazioni all’imputato all’estero non sono tassative, qualora specifiche convenzioni
internazionali consentano una diretta presa di contatto da parte dell’autorità dello Stato estero col soggetto colà residente.

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22. La questione dell’irreperibilità ed i suoi effetti.


Condizione essenziale per far luogo alla dichiarazione di irreperibilità, ex art 159 co.1 è l’impossibilità di eseguire la
notificazione secondo le forme dettate per la prima notifica all’imputato non detenuto.

ART 159  Notificazioni all’imputato in caso di irreperibilità


“Se non è possibile eseguire le notificazioni nei modi previsti ex art 157, l'autorità̀ giudiziaria dispone nuove ricerche
dell'imputato, particolarmente nel luogo di nascita, dell'ultima residenza anagrafica, dell'ultima dimora, in quello dove egli
abitualmente esercita la sua attività̀ lavorativa e presso l'amministrazione carceraria centrale.
Qualora le ricerche non diano esito positivo, l'autorità̀ giudiziaria emette decreto di irreperibilità̀ con il quale, dopo avere
designato un difensore all'imputato che ne sia privo, ordina che la notificazione sia eseguita mediante consegna di copia al
difensore.” (co.1)

“Le notificazioni in tal modo eseguite sono valide a ogni effetto.


L'irreperibile è rappresentato dal difensore.” (co.2)

Tale norma presuppone un infruttuoso tentativo di notificazione nei luoghi stabili ex art 157, attestato da una relata negativa
dell’ufficiale giudiziario.

Ciò premesso, il P.M. o il giudice, a seconda della fase del procedimento, dispongono autonome ricerche della P.G. in tutti i
possibili luoghi di radicamento dell’imputato.

Si tratta di un sistema di ricerche ad ampio spettro, che comprende anche luoghi ulteriori rispetto a quelli di cui all’art 157, che
vanno fra loro cumulate.

Infatti, la mancanza anche di uno solo di tali accertamenti, o anche l’incompleto svolgimento delle ricerche, integra:

 una nullità assoluta, insanabile e rilevabile in ogni stato e grado del procedimento, del decreto di irreperibilità e delle
conseguenti notificazioni presso il difensore.

In funzione di garanzia, lo stato di irreperibilità impedisce al P.M. di chiedere il giudizio immediato ordinario ed impone al
giudice di revocare il decreto penale di condanna.

ART 160  Efficacia del decreto di irreperibilità


“Il decreto di irreperibilità̀ emesso dal giudice o dal pubblico ministero nel corso delle indagini preliminari cessa di avere
efficacia con:
 la pronuncia del provvedimento che definisce l'udienza preliminare
 ovvero, quando questa manchi, con la chiusura delle indagini preliminari.” (co.1)

“Il decreto di irreperibilità̀ emesso dal giudice per la notificazione degli atti introduttivi dell'udienza preliminare nonché́ il
decreto di irreperibilità̀ emesso dal giudice o dal pubblico ministero per la notificazione del provvedimento che dispone il
giudizio cessano di avere efficacia con la pronuncia della sentenza di primo grado. (co.2)

“Il decreto di irreperibilità̀ emesso dal giudice di secondo grado e da quello di rinvio cessa di avere efficacia con la pronuncia
della sentenza.” (co.3)

“Ogni decreto di irreperibilità̀ deve essere preceduto da nuove ricerche nei luoghi indicati ex art 159.” (co.4)

L’irreperibilità è una situazione di fatto accertata in un determinato momento che può sempre modificarsi e variare.

Per tali motivi, il decreto di irreperibilità ha un’efficacia limitata alla singola fase procedimentale o al singolo grado di giudizio
e sarà necessaria la rinnovazione delle ricerche e l’emissione di un nuovo decreto di irreperibilità nelle fasi successive.

Simili svolgimenti devono essere riconsiderati alla luce dell’entrata in vigore della l.67/2014, laddove ha soppresso il processo
in contumacia ed ha introdotto uno specifico strumento di controllo sull’assenza dell’imputato dall’udienza
preliminare/dibattimento.

Il testo della legge non menziona l’irreperibilità, né apporta alcuna modifica agli art 159 e 160, pur determinandone una certa
compressione operativa.

Rispetto alla condizione dell’irreperibilità, la l.67/2014 ha riconosciuto che la pur rituale notificazione presso il difensore
sottende una totale ignoranza dell’esistenza del procedimento da parte del soggetto che vi è sottoposto.

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Pertanto, solo laddove si riscontri la sussistenza di atti/fatti inseriti nella sequenza procedimentale/processuale, che
dimostrino, invece, la consapevolezza dell’esistenza del procedimento, il processo potrà proseguire.

Al contrario:
- se nessun atto/fatto è stato compiuto,
- o se non risulta con certezza che l’imputato è a conoscenza del procedimento,
- o si è volontariamente sottratto alla conoscenza dello stesso o di qualche atto del medesimo,
la previa ritualità della notifica con il rito degli irreperibili non risulterà più efficace per la prosecuzione del processo.

A tal punto il giudice dovrà ordinare che, tramite la P.G., l’avviso di udienza/la citazione a giudizio siano notificati
personalmente all’imputato e, in caso di insuccesso, disporre la sospensione del processo.

È evidente, qui, il favor accordato dal legislatore alla notifica personale, ossia alla consegna a mani proprie.

In sostanza, ai fini dell’accertamento relativo alla costituzione delle parti da tenersi all’esordio dell’udienza
preliminare/dibattimentale, l’efficacia delle notificazioni eseguite nelle forme degli irreperibili (art 159 co.2) risulta
legislativamente venuta meno.

Solo in sede di esecuzione, poiché l’art 670 co.1 impone “l’osservanza delle garanzie previste per l’irreperibilità del
condannato”, ritorna a piena vita l’istituto disciplinato ex art 159.

23. L’elezione di domicilio


Per rendere più efficace il risultato conoscitivo della notificazione, l’imputato ha l’onere, con dichiarazioni/elezione di
domicilio, di indicare il luogo dove dovranno essergli notificati gli atti.

ART 161  Domicilio dichiarato, eletto o determinato per le notificazioni


“Il giudice, il P.M. o la P.G., nel primo atto compiuto con l'intervento della persona sottoposta alle indagini o dell'imputato
non detenuto né internato, lo invitano a dichiarare uno dei luoghi indicati nell’art 157 co.1 ovvero a eleggere domicilio per le
notificazioni, avvertendolo che, nella sua qualità̀ di persona sottoposta alle indagini o di imputato, ha l'obbligo di comunicare
ogni mutamento del domicilio dichiarato o eletto e che in mancanza di tale comunicazione o nel caso di rifiuto di dichiarare
o eleggere domicilio, le notificazioni verranno eseguite mediante consegna al difensore.
Della dichiarazione o della elezione di domicilio, ovvero del rifiuto di compierla, è fatta menzione nel verbale.” (co.1)

“Fuori del caso previsto dal co.1, l'invito a dichiarare o eleggere domicilio è formulato con l'informazione di garanzia o con il
primo atto notificato per disposizione dell'autorità̀ giudiziaria.
L'imputato è avvertito che deve comunicare ogni mutamento del domicilio dichiarato o eletto e che in caso di mancanza, di
insufficienza o di inidoneità̀ della dichiarazione o della elezione, le successive notificazioni verranno eseguite nel luogo in cui
l'atto è stato notificato.” (co.2)

“L'imputato detenuto che deve essere scarcerato per causa diversa dal proscioglimento definitivo e l'imputato che deve
essere dimesso da un istituto per l'esecuzione di misure di sicurezza, all'atto della scarcerazione o della dimissione ha
l'obbligo di fare la dichiarazione o l'elezione di domicilio con atto ricevuto a verbale dal direttore dell'istituto.
Questi lo avverte ex co.1, iscrive la dichiarazione o elezione nell'apposito registro e trasmette immediatamente il verbale
all'autorità̀ che ha disposto la scarcerazione o la dimissione.” (co.3)

“Se la notificazione nel domicilio determinato a norma del co.2 diviene impossibile, le notificazioni sono eseguite mediante
consegna al difensore.
Nello stesso modo si procede quando, nei casi previsti dai co.1 e 3, la dichiarazione o l'elezione di domicilio mancano o sono
insufficienti o inidonee.
Tuttavia, quando risulta che, per caso fortuito o forza maggiore, l'imputato non è stato nella condizione di comunicare il
mutamento del luogo dichiarato o eletto, si applicano le disposizioni degli art 157 e 159.” (co.4)

Con tale sistema di dichiarazione/elezione/determinazione del domicilio il legislatore ha voluto ridurre il dispendio di tempo e
l’incertezza che le ricerche per la notificazione, volta per volta, avrebbero potuto introdurre nel procedimento.

L’art 162 delinea in maniera tassativa le forme con cui è comunicato il domicilio dichiarato/eletto e le relative variazioni.

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ART 162  Comunicazione del domicilio dichiarato o del domicilio eletto


“Il domicilio dichiarato, il domicilio eletto e ogni loro mutamento sono comunicati dall'imputato all'autorità̀ che procede,
con:
- dichiarazione raccolta a verbale
- ovvero mediante telegramma
- o lettera raccomandata con sottoscrizione autenticata da un notaio o da persona autorizzata o dal difensore.” (co.1)

“La dichiarazione può̀ essere fatta anche nella cancelleria del tribunale del luogo nel quale l'imputato si trova.” (co.2)

“Nel caso previsto dal co.2 il verbale è trasmesso immediatamente all'autorità̀ giudiziaria che procede.
Analogamente si provvede in tutti i casi in cui la comunicazione è ricevuta da una autorità̀ giudiziaria che, nel frattempo, abbia
trasmesso gli atti ad altra autorità̀.” (co.3)

“Finché l'autorità̀ giudiziaria che procede non ha ricevuto il verbale o la comunicazione, sono valide le notificazioni disposte
nel domicilio precedentemente dichiarato o eletto.” (co.4)

“L'elezione di domicilio presso il difensore d'ufficio non ha effetto se l'autorità che procede non riceve, unitamente alla
dichiarazione di elezione, l'assenso del difensore domiciliatario.” (co.4bis)

Circa i rapporti tra indagato e difensore riguardo l’elezione di domicilio presso il difensore d’ufficio, la riforma Orlando
(l.103/2017) ha inserito il co.4bis, la fine di garantire maggiore effettività alla difesa tecnica affidata al difensore d’ufficio.

ART 164  Durata del domicilio dichiarato o eletto


“La determinazione del domicilio dichiarato/eletto è valida per ogni stato e grado del procedimento, salvo quanto previsto ex
art 156 e 613 co.2 (ma anche co.4).”

24. Le notificazioni a soggetti diversi dall’imputato


L’art 153 disciplina le “notificazioni e comunicazioni al P.M.”

ART 153  Notificazioni e comunicazioni al P.M.


“Le notificazioni al P.M. sono eseguite, anche direttamente dalle parti o dai difensori, mediante consegna di copia dell'atto
nella segreteria.
Il pubblico ufficiale addetto annota sull'originale e sulla copia dell'atto le generalità di chi ha eseguito la consegna e la data in
cui questa è avvenuta.” (co.1)

“Le comunicazioni di atti e provvedimenti del giudice al P.M. sono eseguite a cura della cancelleria nello stesso modo, salvo
che il P.M. prenda visione dell'atto sottoscrivendolo.
Il pubblico ufficiale addetto annota sull'originale dell'atto la eseguita consegna e la data in cui questa è avvenuta.” (co.2)

Già l’art 151 (“Notificazioni richieste dal P.M.”) attribuisce alla segreteria del P.M. una funzione atipica di organo notificatore,
consentendo così la consegna di copia dell’atto all’interessato.

Ma, oltre ad avere un ruolo di organo della notificazione, la segreteria svolge anche le funzioni di destinatario.

Infatti, tutte le notificazioni sono eseguite dall’organo notificatore, o anche con consegna diretta delle parti o dei difensori, alla
segreteria del P.M., che deve attestare chi ha provveduto alla consegna e la data della stessa.

Deve rilevarsi, invece, che, mentre gli atti provenienti dalle parti o dai difensori vanno notificati al P.M., quelli del giudice vanno
invece comunicati.

La comunicazione viene fatta dal cancelliere personalmente, a mezzo posta o tramite ufficiale giudiziario.

Le annotazioni per presa visione o per presa visione e ricevuta copia sono modalità semplificate, sostitutive di una formale
comunicazione, molto diffuse nella prassi giudiziaria.

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ART 154  Notificazioni alla persona offesa, alla parte civile, al responsabile civile e al civilmente obbligato per la pena
pecuniaria.
“Le notificazioni alla persona offesa dal reato sono eseguite ex art 157 co.1,2,3,4 e 8.
Se sono ignoti i luoghi ivi indicati, la notificazione è eseguita mediante deposito dell'atto nella cancelleria.
Qualora risulti dagli atti notizia precisa del luogo di residenza o di dimora all'estero, la persona offesa è invitata mediante
raccomandata con avviso di ricevimento a dichiarare o eleggere domicilio nel territorio dello Stato.
Se nel termine di 20 giorni dalla ricezione della raccomandata non viene effettuata la dichiarazione o l'elezione di domicilio
ovvero se la stessa è insufficiente o risulta inidonea, la notificazione è eseguita mediante deposito dell'atto nella
cancelleria.” (co.1)

“La notificazione della prima citazione al responsabile civile e alla persona civilmente obbligata per la pena pecuniaria è
eseguita con le forme stabilite per la prima notificazione all'imputato non detenuto.” (co.2)

“Se si tratta di pubbliche amministrazioni, di persone giuridiche o di enti privi di personalità giuridica, le notificazioni sono
eseguite nelle forme stabilite per il processo civile.” (co.3)

“Le notificazioni alla parte civile, al responsabile civile e alla persona civilmente obbligata per la pena pecuniaria costituiti in
giudizio sono eseguite presso i difensori.
Il responsabile civile e la persona civilmente obbligata per la pena pecuniaria, se non sono costituiti, devono dichiarare o
eleggere il proprio domicilio nel luogo in cui si procede con atto ricevuto dalla cancelleria del giudice competente.
In mancanza di tale dichiarazione o elezione o se la stessa è insufficiente o inidonea, le notificazioni sono eseguite mediante
deposito nella cancelleria.” (co.4)

Quando, per il numero elevato delle persone offese o per l’impossibilità di identificazione di alcune, la notificazione ex art 154
riesce difficile, l’art 155 (“notificazioni per pubblici annunzi alle persone offese”) permette all’A.G. di notificare per pubblici
annunzi.

Quindi, l’A.G. dispone con decreto in calce all’atto da notificare. Nel decreto sono designati i destinatari nei cui confronti la
notificazione dev’essere eseguita nelle forme ordinarie e sono indicati i modi opportuni per portare l’atto a conoscenza degli
altri interessati.

L’art 155 è una norma aperta, che consente il ricorso a tutte le possibili forme di divulgazione dell’atto, anche non tipizzate, ma
che sono ritenute idonee a portare l’atto a conoscenza di una pluralità di interessati, pur se non è esperibile nei riguardi degli
imputati, poiché, non assicurando la reale conoscenza dell’atto, lede la effettività del diritto di difesa.

ART 167  Notificazione ad altri soggetti.


“Le notificazioni a soggetti diversi da quelli indicati negli articoli precedenti si eseguono ex art 157 co.1,2,3,4 e 8, salvi i casi
di urgenza previsti dall'art 149 (per telefono in caso di urgenza).” (co.1)

Il legislatore ha ritenuto, con tale norma, di generalizzare l’applicazione del modello che assicura maggiori garanzie di
conoscenza (o meglio, conoscibilità) dell’atto, cioè la procedura della prima notifica all’imputato non detenuto (art 157),
rispetto alle notifiche da effettuare ai soggetti per i quali il codice non prevede una esplicita regolamentazione.

È possibile effettuare notificazioni e comunicazioni per via telematica anche in materia processuale penale; ciò avviene tramite
la Poste Elettronica Certificata.

Dal 2010 in poi, si sono avuti più e più interventi e regolamentazioni per il nuovo sistema di comunicazione telematica.

Dal 15/12/2014 le notificazioni telematiche a persone diverse dall’imputato effettuate ex art 148 co.2bis, art 149, 150 e 151
co.2 acquistano piena efficacia nei procedimenti davanti ai tribunali e corte di appello.

Nel 2017 sono state previste le notificazioni telematiche ai difensori nel processo penale di legittimità presso la Corte Suprema
di cassazione.

Ad ogni modo, laddove non sia possibile procedere per via telematica “per causa non imputabile al destinatario”, continuano
ad applicarsi le norme degli art 148 s.

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25. La relazione di notificazione e le cause di nullità.


Il sistema delle notificazioni conosce anche altre ipotesi di documentazione, come si ricava ex art 148 co.4 e 5, ex art 152 in
rapporto all’art 56 disp.att e dall’art 153 co.1 e 2.

L’art 168, infatti, disciplina la “Relazione di notificazione”, momento documentale e finale del procedimento notificativo.

ART 168  Relazione di notificazione


“Salvo quanto previsto ex art 157 co.6, l'ufficiale giudiziario che procede alla notificazione scrive, in calce all'originale e alla
copia notificata, la relazione in cui indica l'autorità o la parte privata richiedente, le ricerche effettuate, le generalità della
persona alla quale è stata consegnata la copia, i suoi rapporti con il destinatario, le funzioni o le mansioni da essa svolte, il
luogo e la data della consegna della copia, apponendo la propria sottoscrizione.” (co.1)

“Quando vi è contraddizione tra la relazione scritta sulla copia consegnata e quella contenuta nell'originale, valgono per ciascun
interessato le attestazioni contenute nella copia notificata.” (co.2)

“La notificazione produce effetto per ciascun interessato dal giorno della sua esecuzione.” (co.3)

La relazione serve proprio ad accertare se tutte le modalità proprie della notificazione siano state rispettate.

Per ragioni di coerenza sistematica, neppure la relazione fa fede, sino a querela di falso, di quanto l’ufficiale attesti di aver fatto o
di essere avvenuto in sua presenza  il giudice ne valuta liberamente il contenuto.

Ex art 170 co.1 (“Notificazioni col mezzo della posta”) le notificazioni possono essere eseguite anche col mezzo degli uffici postali.

ART 170  Notificazioni col mezzo della posta


“Le notificazioni possono essere eseguite anche col mezzo degli uffici postali, nei modi stabiliti dalle relative norme speciali.”
(co.1)

“E' valida la notificazione anche se eseguita col mezzo di un ufficio postale diverso da quello a cui inizialmente fu diretto il
piego.” (co.2)

“Qualora l'ufficio postale restituisca il piego per irreperibilità del destinatario, l'ufficiale giudiziario provvede alle notificazioni
nei modi ordinari.” (co.3)

Venendo al regime delle invalidità delle notificazioni, alle cause di nullità delle notificazioni ex art 171, devono aggiungersi
quelle enucleabili in via generale ex art 178.

ART 171  Nullità delle notificazioni


“La notificazione è nulla:
a) se l'atto è notificato in modo incompleto, fuori dei casi nei quali la legge consente la notificazione per estratto;
b) se vi è incertezza assoluta sull'autorità o sulla parte privata richiedente ovvero sul destinatario;
c) se nella relazione della copia notificata manca la sottoscrizione di chi l'ha eseguita;
d) se sono violate le disposizioni circa la persona a cui deve essere consegnata la copia;
e) se non è stato dato l'avvertimento nei casi previsti ex art 161 co.1,2,3 e la notificazione è stata eseguita mediante
consegna al difensore;
f) se è stata omessa l'affissione o non è stata data la comunicazione prescritta ex art 157 co.8;
g) se sull'originale dell'atto notificato manca la sottoscrizione della persona indicata nell'articolo 157 co. 3;
h) se non sono state osservate le modalità prescritte dal giudice nel decreto previsto ex art 150 e l'atto non è giunto a
conoscenza del destinatario.” (co.1)

Le modalità di notifica sono finalizzate a far conseguire al destinatario (imputato/altro soggetto) l’effettiva conoscenza o almeno
la potenziale conoscibilità dell’atto notificato.

Il legislatore, in tale articolo, individua situazioni in cui l’attività notificata non è idonea al raggiungimento dello scopo prefissato
ed è pertanto affetto da nullità.

Si tratta di ipotesi tassative, ex art 177 (“tassatività”).

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26. Le regole generali in materia di termini TITOLO VI (Art 172-176)


Il procedimento è una sequenza logica e cronologica di atti, funzionalmente diretti ad una pronuncia conclusiva dello stesso;
dunque l’elemento temporale appare di grande rilevanza.

La scansione del tempo del procedimento è affidata all’esistenza di termini:

 entro i quali (termine acceleratorio)


 o dopo i quali (termini dilatorio)

possono prodursi degli effetti o compiersi degli atti.

 Termine perentorio  quello la cui scadenza comporta la perdita del potere di compiere l’atto o la cessazione dei suoi
effetti.

l’inosservanza di tali termini è riportata alla sanzione della decadenza dal corrispondente potere, salva la restituzione nel
termine scaduto.

Talora i termini sono stabiliti in relazione a determinati accadimenti, più spesso ad unità di tempo.

La disciplina dei termini è contenuta nel Titolo VI (art 172-176).

ART 172  Regole generali


“I termini processuali sono stabiliti a ore, a giorni, a mesi o ad anni.” (co.1)

“I termini si computano secondo il calendario comune.” (co.2)

“Il termine stabilito a giorni, il quale scade in giorno festivo, è prorogato di diritto al giorno successivo non festivo.” (co.3)

“Salvo che la legge disponga altrimenti, nel termine non si computa l'ora o il giorno in cui ne è iniziata la decorrenza; si
computa l'ultima ora o l'ultimo giorno.” (co.4)

“Quando è stabilito soltanto il momento finale, le unità di tempo stabilite per il termine si computano intere e libere.” (co.5)

“Il termine per fare dichiarazioni, depositare documenti o compiere altri atti in un ufficio giudiziario si considera scaduto nel
momento in cui, secondo i regolamenti, l'ufficio viene chiuso al pubblico.” (co.6)

ART 173 Termini a pena di decadenza. Abbreviazione


“I termini si considerano stabiliti a pena di decadenza soltanto nei casi previsti dalla legge.” (co.1)

“I termini stabiliti dalla legge a pena di decadenza non possono essere prorogati, salvo che la legge disponga altrimenti.”
(co.2)

“La parte a favore della quale è stabilito un termine può chiederne o consentirne l'abbreviazione con dichiarazione ricevuta
nella cancelleria o nella segreteria dell'autorità procedente.” (co.3)

I termini perentori sono solo quelli stabiliti ex lege, poiché la loro inosservanza comporta decadenza del potere.

Talora, il legislatore si preoccupa di ricollegare alla decadenza l’inammissibilità dell’atto realizzato a termine scaduto;

altre volte, pur non attribuendo qualifiche di sorta ai termini, pone a pena d’inammissibilità dell’atto l’osservanza degli stessi.

L’inammissibilità si sostanzia in un vizio dell’atto, integrando una specie del genus dell’invalidità.

la previsione a pena:

 Di decadenza  guarda alla vicenda estintiva del potere;


 Di inammissibilità  guarda all’invalidità dell’atto purtuttavia compiuto.

Agli atti inammissibili si estende, per l’inutile decorso del tempo, la disciplina operante per la decadenza, compresa la
restituzione nel termine.

Vanno menzionati (ex co.2 art 173):


 Proroga dei termini delle indagini preliminari,
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 e la proroga dei termini della custodia cautelare.


Entrambe sempre richieste dal P.M. al giudice.

Solo nel secondo caso, essendo il potere cautelare personale affidato in via esclusiva all’organo giurisdizionale, si dovrebbe
parlare di un’”autoproroga”.

Diverso dalla proroga è il prolungamento dei termini di comparizione ex art 174.

ART 174  Prolungamento dei termini di comparizione


“Se la residenza dell'imputato risultante dagli atti ovvero il domicilio dichiarato o eletto ex art 161 è fuori del comune nel
quale ha sede l'autorità giudiziaria procedente, il termine per comparire è prolungato del numero di giorni necessari per il
viaggio.
Il prolungamento è di un giorno ogni cinquecento chilometri di distanza, quando è possibile l'uso dei mezzi pubblici di
trasporto e di un giorno ogni cento chilometri negli altri casi.
Lo stesso prolungamento ha luogo per gli imputati detenuti o internati fuori del comune predetto.
In ogni caso il prolungamento del termine non può essere superiore a tre giorni.
Per l'imputato residente all'estero il prolungamento del termine è stabilito dall'autorità giudiziaria, tenendo conto della
distanza e dei mezzi di comunicazione utilizzabili.” (co.1)

“Le stesse disposizioni si applicano quando si tratta di termine stabilito per la presentazione di ogni altra persona per la quale
l'autorità procedente emette ordine o invito.” (co.2)

Il prolungamento scatta dal momento della fissazione del termine dilatorio ordinario, indipendentemente dalla circostanza che
quest’ultimo sia o no prorogabile.

L’istituto della sospensione dei termini non è preso in considerazione dal Titolo IV benché significative applicazioni se ne
rinvengono nel tessuto codicistico.

Ex art 70 co.3, per la durata della fase delle indagini preliminari, la sospensione riguarda l’espletamento della perizia volta a
stabilire se la persona sottoposta alle indagini sia in grado di partecipare coscientemente al processo.

Ex art 405 co.4, la sospensione ha riguardo al tempo intercorrente fra la richiesta di autorizzazione a procedere ed il momento
in cui la medesima perviene al P.M.

Ex art 304 co.1, sono contemplati i casi di sospensione per la durata della custodia cautelare.

Inoltre, la sospensione dei termini processuali in materia penale opera anche dal 1° al 31° agosto nel periodo feriale; tale
sospensione si estende anche al procedimento di esecuzione ed a quello di sorveglianza.

Non investe, invece, l’attività del giudice, in quanto, nonostante il periodo feriale, può ben essere depositata la motivazione di
un provvedimento anche se il magistrato sia in ferie.

27. La restituzione nel termine e la soppressione del processo in contumacia (Art 175)
La restituzione nel termine è un rimedio processuale che attribuisce un vero e proprio diritto spettante a parte e difensori
(soggetti titolari del diritto ad ottenere la restituzione), riconoscendo con esso, esigenze di equità e giustizia.

La restituzione opera per i termini stabiliti sia a pena di decadenza, quanto per quelli che prescrivono una inammissibilità.

Il legislatore ha distribuito la relativa disciplina nell’art 175 e nell’art 670 co.3.

In quest’ultima sede, tramite l’instaurazione di un incidente di esecuzione, il condannato può operare una sorta di
contestazione del giudicato, aprendo la strada delle impugnazioni.

Nonostante il tenore letterario della disposizione, riesce difficile escludere la legittimazione, almeno nella fase delle indagini
preliminari, della persona offesa.

È escluso che l’istituto possa essere invocato per la presentazione della querela: l’aspirante querelante non è parte e la querela
non si situa tra gli atti del procedimento, essendo anteriore al suo inizio.
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La restituzione nel termine è disciplinata ex art 175, ma si articola in 2 ipotesi dalla portata e matrice storica ben distinta:

1) La prima, quella per dire ordinaria, presuppone ex art 175 co.1 la prova assoluta che non si è potuto osservare un termine
stabilito a pena di decadenza (o di inammissibilità) per:
 Caso fortuito
 O forza maggiore.

Verificandosi l’integrazione dei presupposti, il giudice non può che concedere la restituzione.

Il termine per proporre la richiesta di restituzione nel termine è di 10 giorni, che decorrono da quello nel quale è cessato il
fatto costituente caso fortuito o forza maggiore.

2) La seconda ipotesi ha vissuto una storia tormentata.

Nella versione originaria art 175 co.2, l’istituto scattava quando fosse stata pronunciata sentenza contumaciale o un decreto
penale di condanna;

di conseguenza, l’imputato che dimostrava di non aver avuto effettiva conoscenza del provvedimento veniva rimesso nel
termine per proporre impugnazione/opposizione.

Tale disciplina dava vita a fondate critiche, perché si negava la restituzione nel termine quando la mancata conoscenza del
provvedimento fosse riconducibile anche alla mera assenza di diligenza nell’imputato e non solo alla scelta di non partecipare
al processo.

Col tempo, la riforma del procedimento in contumacia è divenuta improcrastinabile, specie dopo la pronuncia del 2004 della
C.E.D.U., con la quale il nostro Paese è stato condannato a causa della scarsa efficacia della disciplina della restituzione nel
termine per l’imputato raggiunto da una sentenza contumaciale.

Anziché sopprime la figura del processo in contumacia, il legislatore aveva optato per l’integrale sostituzione del co.2 art 175.

Ne derivava che, nei casi di sentenza contumaciale/decreto di condanna, l’imputato era restituito, a sua richiesta, nel termine
per proporre impugnazione/opposizione senza dover fornire la prova dell’incolpevole non conoscenza, che gravava su di lui nella
disciplina originaria.

Sennonché, tale ampliamento dell’area della restituzione nel termine per assicurare un rimedio effettivo al contumace
“inconsapevole” non aveva soddisfatto la prevalente dottrina.

Dal punto di vista del principio di eguaglianza, alla restituzione nel termine non conseguiva il diritto di adire al giudizio
abbreviato o di richiedere l’applicazione della pena.

Dal punto di vista del diritto di difesa, il contumace “inconsapevole” non godeva nel giudizio di appello del diritto alla
rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale.

Dunque, la l.67/2014 si è proposta di allineare il nostro sistema processuale alle regole vigenti nella maggior parte degli
ordinamenti europei, modificando l’art 175 co.2 con l’inserimento di 2 rimedi, esperibili qualora il procedimento in assenza
sia stato attivato in difetto dei suoi presupposti.

Quindi, nel corso del processo, dopo che il giudice ha emesse l’ordinanza che dispone proseguirsi in assenza dell’imputato,
quest’ultimo, comparendo all’udienza, può fornire la prova che la sua assenza è stata dovuta ad “una incolpevole mancata
conoscenza della celebrazione del processo”.

In tal caso, il giudice rinvia quell’udienza e l’imputato può avvalersi dei suoi diritti difensivi, modellati a seconda che compaia
all’udienza preliminare o a quella dibattimentale.

L’ipotesi in discorso può riportarsi alla restituzione nel termine.

Stessa conclusione vale nel caso in cui l’imputato sia in grado di dimostrare che versava nell’assoluta impossibilità di
comparire per caso fortuito, forza maggiore o altro legittimo impedimento benché la prova attestante l’impedimento sia
pervenuta al giudice con ritardo senza alcuna sua colpa.

Conclusosi il processo, alla logica restitutoria si sostituisce la creazione di un ulteriore, residuale mezzo straordinario di
impugnazione perché esperibile contro una sentenza ormai passata in giudicato  rescissione del giudicato.
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La riforma Orlando ha rimodellato l’istituto della rescissione del giudicato, inserendo l’art 629bis.

l’istituto opera nel caso in cui sia stata emessa una sentenza, di condanna o applicativa di una misura di sicurezza, passata in
giudicato e pronunciata all’esito di un processo celebratosi, per tutta la sua durata, in assenza del già imputato.

Se il soggetto dimostra che l’assenza è stata causata da un’incolpevole mancata conoscenza del processo, la corte di appello
revoca la sentenza e dispone la trasmissione degli atti al giudice di primo grado.

Ad ogni modo, i riferimenti alla sentenza contumaciale o al contumace, tuttora presenti nel codice, non possono ritenersi
tutti implicitamente abrogati, benché la legge ambisce a regolare l’intera materia.

Per taluni richiami, l’interprete deve propendere per l’abrogazione secca, così per quello ex art 175 co.8.

Residua il profilo della restituzione nel termine per l’imputato condannato a seguito di decreto penale divenuto esecutivo.

La l.67/2014 ha riscritto integralmente il co.2 art 175. Ad oggi, l’art 175 si presenta così.

ART 175  Restituzione nel termine


“Il P.M., le parti private e i difensori sono restituiti nel termine stabilito a pena di decadenza, se provano di non averlo
potuto osservare per caso fortuito o per forza maggiore.
La richiesta per la restituzione nel termine è presentata, a pena di decadenza, entro 10 giorni da quello nel quale è cessato il
fatto costituente caso fortuito o forza maggiore.” (co.1)

“L'imputato condannato con decreto penale, che non ha avuto tempestivamente effettiva conoscenza del provvedimento, è
restituito, a sua richiesta, nel termine per proporre opposizione, salvo che vi abbia volontariamente rinunciato.” (co.2)

“La richiesta indicata al co.2 è presentata, a pena di decadenza, nel termine di 30 giorni da quello in cui l'imputato ha avuto
effettiva conoscenza del provvedimento.
In caso di estradizione dall'estero, il termine per la presentazione della richiesta decorre dalla consegna del condannato”
(co.2bis)

“La restituzione non può essere concessa più di una volta per ciascuna parte in ciascun grado del procedimento.” (co.3)

“Sulla richiesta decide con ordinanza il giudice che procede al tempo della presentazione della stessa.
Prima dell'esercizio dell'azione penale provvede il giudice per le indagini preliminari.
Se sono stati pronunciati sentenza o decreto di condanna, decide il giudice che sarebbe competente sulla impugnazione o sulla
opposizione.” (co.4)

“L'ordinanza che concede la restituzione nel termine per la proposizione della impugnazione o della opposizione può essere
impugnata solo con la sentenza che decide sulla impugnazione o sulla opposizione.” (co.5)

“Contro l'ordinanza che respinge la richiesta di restituzione nel termine può essere proposto ricorso per cassazione.” (co.6)

“Quando accoglie la richiesta di restituzione nel termine per proporre impugnazione, il giudice, se occorre, ordina la
scarcerazione dell'imputato detenuto e adotta tutti i provvedimenti necessari per far cessare gli effetti determinati dalla
scadenza del termine.” (co.7)

“Se la restituzione nel termine è concessa a norma del co.2, non si tiene conto, ai fini della prescrizione del reato, del tempo
intercorso tra la notificazione della sentenza contumaciale o del decreto di condanna e la notificazione alla parte dell'avviso di
deposito dell'ordinanza che concede la restituzione.” (co.8)

ART 176  Effetti della restituzione nel termine


“Il giudice che ha disposto la restituzione provvede, a richiesta di parte e in quanto sia possibile, alla rinnovazione degli atti ai
quali la parte aveva diritto di assistere.” (co.1)

“Se la restituzione nel termine è concessa dalla corte di cassazione, al compimento degli atti di cui è disposta la rinnovazione
provvede il giudice competente per il merito.” (co.2)

Restituito in termine, l’interessato potrà fruire di esso per l’intero e non per la frazione eventualmente residuale al momento del
verificarsi del legittimo impedimento (caso fortuito/forza maggiore).

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28. L’invalidità degli atti TITOLO VII (Art 177-186)


Mentre nel processo civile vige il principio della libertà delle forme, nel processo penale gli atti sono, in stragrande maggioranza,
a forma vincolata.

Dunque, perfezione dell’atto e sua efficacia si implicano reciprocamente.

In linea di principio, la mancanza anche di un solo elemento della fattispecie non dovrebbe consentire la produzione dei
relativi effetti secondo il brocardo “quod nullum est nulum producit effectum”.

Ciò nonostante, l’ordinamento non decreta l’invalidità, e quindi l’inefficacia;

in questo caso si è fuori del sistema dell’invalidità, delineandosi una mera irregolarità.

Ma anche laddove l’atto si configuri come invalido, quasi mai sarà del tutto inefficace.

Giocano, infatti, forti ragioni di economia e di speditezza processuale che inducono il legislatore ad avvalersi del principio di
conservazione degli atti imperfetti:

L’atto diviene idoneo a produrre effetti, anche se questi ultimi assumono carattere precario, in attesa di trovare uno dei
seguenti sbocchi:
 La sanatoria del vizio  dà vita ad un’altra fattispecie, equivalente, dal punto di vista degli effetti, a quella viziata,
ma integrata da più fatti ulteriori, ai quali si attribuisce il nome di cause di sanatoria, perché consolidano ex tunc gli
effetti dell’atto.

 O la declaratoria di invalidità dell’atto.

Tutte le volte in cui l’invalidità è dichiarata dal giudice, si ha ex tunc, l’eliminazione degli effetti dell’atto.

L’adozione di un modello di stampo accusatorio comporta la creazione di adeguati meccanismi sanzionatori, aventi una
funzione di supporto rispetto all’osservanza delle forme, e tali da assicurare l’effettività delle regole sull’ammissione,
acquisizione e valutazione della prova.

Sono ritenute specie di invalidità:

- L’inesistenza - La nullità - L’inammissibilità - L’inutilizzabilità.

Invece, la decadenza non rientra nella specie di invalidità.

Il Titolo VII (art 177-186) si è limitato a disciplinare solo la nullità (salvo un unico riferimento, in negativo, all’inammissibilità, ex
art 186 “Inosservanza di norme tributarie”).

L’inammissibilità non vede enunciato nei suoi confronti il principio di tassatività (art 177).

Nondimeno, si ritiene solitamente che il principio in discorso sia estendibile all’inammissibilità, giacché nei casi in cui essa è
menzionata senza indicarne la causa, questa va rintracciata con riferimento a tutte le condizioni della domanda richiesta dalla
legge

La natura dei requisiti la cui assenza produce inammissibilità è disparata:

- Compimento dell’atto scaduto;


- Vizio riguardante la titolarità, o la forma della domanda, l’omissione di taluni contenuti della stessa;
- La sussistenza di un certo rapporto con un altro atto.

Quanto al trattamento, l’inammissibilità, oggetto di autonomo motivo di ricorso per cassazione (art 606 co.1 lett.c), è
dichiarata d’ufficio, in ogni stato e grado del procedimento, senza altra causa di sanatoria se non quella del giudicato, a meno
che non siano espressamente previsti limiti temporali alla sua rilevanza.

Nemmeno l’inutilizzabilità è inclusa nel Libro II, nonostante sia una sanzione processuale fornita di una sua puntuale
autonomia, sia pure nel quadro definito ex art 191 (“Prove illegittimamente acquisite”), come dimostra la sua elevazione a
motivo di ricorso per cassazione, a fianco della nullità e dell’inammissibilità.

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L’inutilizzabilità può investire non solo le prove, ma pure gli atti delle indagini preliminari.

 Così, ad esempio, le “notizie” e le “indicazioni” assunte dagli ufficiali di P.G. nei confronti della persona sottoposta alle
indagini, senza l’assistenza del difensore, sul luogo o nell’immediatezza del fatto sono inutilizzabili (art 350 co.6);
deve quindi ritenersi viziata l’ordinanza, la quale abbia disposto una misura cautelare traendo i necessari “gravi indizi di
colpevolezza” da tali “sommarie informazioni”.

Quel che rende arduo costruire una teoria unitaria dell’inutilizzabilità è la varietà delle ipotesi riconducibili a questa figura; ciò
contribuisce a spiegare perché non sia stato enunciato nei confronti di questa specie di invalidità, il principio di tassatività.

Circa i modi di operare sul piano soggettivo, l’inutilizzabilità è, per lo più,

 di natura assoluta  perché proveniente da un vero e proprio divieto di ammissione o di acquisizione valido nei
confronti di chiunque,
 mentre solo talora assume natura relativa  in quanto riferita a determinate categorie di soggetti.

Di recente, le S.U. hanno ritenuto che la sanzione dell’inutilizzabilità operi anche nel procedimento volto ad ottenere la
riparazione per ingiusta detenzione (nella specie dei risultati delle intercettazioni telefoniche).

Di conseguenza, l’inutilizzabilità della prova dichiarata nel procedimento di cognizione comporta il divieto di trarre dalla
stessa elementi circa il dopo o la colpa grave che possano impedire il riconoscimento al prosciolto dell’equa riparazione ex art
314 co.1, indipendentemente dalla natura civilistica/penalistica assegnata al procedimento de quo.

L’art 191 co.2 sancisce la rilevabilità in ogni stato e grado del procedimento, anche d’ufficio, della inutilizzabilità.

Utile, qui, è rammentare una recente pronuncia delle S.U. che ha affrontato il delicato tema dell’abuso del processo a
proposito di un caso di reiterato avvicendamento di difensori privo di reali garanzie.

Ebbene, sulla scorta delle S.U. civili, si è ritenuto che l’abuso del processo si risolve in un vizio, per sviamento, della funzione,
o in una frode della funzione.

29. Il principio di tassatività delle nullità e la tecnica di previsione (Art 177-178)


Le disposizioni in tema di nullità sono dominate dal principio di tassatività.

ART 177  Principio di tassatività


“L'inosservanza delle disposizioni stabilite per gli atti del procedimento è causa di nullità soltanto nei casi previsti dalla
legge.” (co.1)

Da ciò, discende che all’interprete non è consentito ricorrere all’integrazione analogica; dunque il giudice non può ravvisare
cause di invalidità fuori dai casi stabiliti dalla legge.

I vizi della volontà considerati dal codice civile non sono riferibili agli atti processuali penali data l’autosufficienza del relativo
sistema delle nullità.

Dunque, un atto, anche se inficiato da violenza/minaccia è processualmente valido.

Gli interrogatori dell’imputato (art 64 co.2) e le prove (art 188) affette da vizi della volontà conseguenti all’adozione di
metodi o tecniche idonee ad influire sulla libertà di autodeterminazione rientrano nell’ambito dell’inutilizzabilità.

Diverso è il caso in cui venga in gioco il difetto assoluto della volontà, quale conseguenza di una coazione fisica. In tal caso di
avrà una inesistenza giuridica.

Tra le nullità non sono inquadrabili:

 gli errores in iudicando  cioè quei vizi sostanziali dei provvedimenti del giudice, elevati ex art 606 co.1 lett.b ad
autonomo motivo di ricorso per cassazione.

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Nondimeno, anche gli errores in iudicando rientrano a far parte della teoria dell’invalidità.

Le restanti difformità dallo schema tipico, escluse le specifiche ipotesi di inammissibilità e di inutilizzabilità, non possono che
essere riportate alla tipologia della mera irregolarità, produttiva di conseguenze di natura disciplinare ex art 124 o ricavabili da
altri rami dell’ordinamento, come quello penale, civile o tributario.

A meno che, non debbano ricondursi alla specie più grave d’invalidità, ravvisabile nell’inesistenza giuridica.

Il ricorso a tale ultima categoria, comprendente quei vizi tanto macroscopici da indurre il legislatore a non ipotizzare neppure
l’eventualità e l’interprete a negare la collocazione nell’ambito degli atti giuridici, continua a prospettarsi come il frutto di
un’operazione interpretativa.

L’inesistenza genera un vizio rilevabile non solo in ogni stato e grado del procedimento, ma anche nella fase esecutiva.

Si delinea così la differente terminologia adottata:

 nel linguaggio civilistico  definisce nulli gli atti inidonei a produrre effetti ed annullabili quelli che producono effetti
suscettibili di cadere mercé l’instaurazione di apposite azioni;
 nel linguaggio penale  li chiama inesistenti e nulli.

Su un piano diverso, è l’abnormità del provvedimento del giudice.

Qui l’atto è idoneo ad integrare lo schema normativo minimo benché si caratterizzi per il suo contenuto del tutto
estemporaneo sul piano funzionale e strutturale.

È assoggettata agli ordinari termini ad impugnandum, perdendo dunque rilevanza a seguito della formazione del giudicato.

Alcune nullità sono ricavabili da una disposizione generale.

ART 178  Nullità di ordine generale


“E' sempre prescritta a pena di nullità l'osservanza delle disposizioni concernenti:
a) le condizioni di capacità del giudice e il numero dei giudici necessario per costituire i collegi stabilito dalle leggi di
ordinamento giudiziario;
b) l'iniziativa del P.M. nell'esercizio dell'azione penale e la sua partecipazione al procedimento;
c) l'intervento, l'assistenza e la rappresentanza dell'imputato e delle altre parti private nonché la citazione in giudizio della
persona offesa dal reato e del querelante.” (co.1)

Con tale norma, il legislatore ha individuato delle categorie generali di nullità, in relazione al ruolo di soggetti come il giudice, il
P.M., l’imputato, le altre parti private e il difensore.

Alle nullità di ordine generale si contrappongono quelle speciali, perché stabilite da una apposita previsione legislativa.

Si tratta di una categoria residuale, e il legislatore può occuparsene solo in sede di trattamento.

Ad evitare che le reciproche interferenze tra tecniche di previsione e regole di trattamento ingenerino difficoltà negli interpreti,
si è avvertita l’esigenza di precisare che non sempre la previsione in maniera specifica comporta il regime consueto delle nullità
speciali, come lascia chiaramente intendere il co.2 art 179 (“nullità assolute”).

Dunque, parlando:

 di nullità “generali” e “speciali”  si allude alla differente tecnica di previsione adottata dal legislatore.
 Di nullità “assolute”, “relative”, “intermedie”  si allude al regime di trattamento previsto dalla legge per le diverse
specie di nullità.

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30. Le nullità assolute (Art 179)


Le nullità che l’art 179 designa come assolute, si caratterizzano per la nota dell’insanabilità.

ART 179  Nullità assolute


“Sono insanabili e sono rilevate di ufficio in ogni stato e grado del procedimento:
- le nullità previste ex art 178 co.1 lett.a,
- quelle concernenti l'iniziativa del P.M. nell'esercizio dell'azione penale (sia la sua mancanze che invalidità)
- e quelle derivanti dalla omessa citazione dell'imputato o dall'assenza del suo difensore nei casi in cui ne è
obbligatoria la presenza.” (co.1)

“Sono altresì insanabili e sono rilevate di ufficio in ogni stato e grado del procedimento le nullità definite assolute da
specifiche disposizioni di legge.” (co.2)

Nell’ambito delle nullità generali ex art 178, l’art 179 individua le situazioni patologiche più gravi, in quanto afferenti a profili di
rilievo essenziale nel procedimento.

La conclusione del procedimento, con l’emissione del provvedimento finale divenuto irrevocabile, segna il limite oltre il quale
non è più consentita l’eccezione di parte, o il rilievo di ufficio, delle nullità assolute, in quanto gli effetti del giudicato possono
essere rimossi nei soli casi espressamente previsti dalla legge.

Da ricondurre al regime delle nullità assolute, sono in primis le violazioni delle disposizioni concernenti l’atto di promuovimento
dell’azione penale, facendo riferimento sia alla sua mancanza, che alla sua invalidità.

Alle ipotesi contemplate ex art 405 co.1, sono da aggiungersi quelle:

- dell’imputazione coatta (409 co.5),


- e della contestazione in udienza del reato commesso o del fatto nuovo (art 423 co.1 e 2, art 517 e 518),
- e la citazione diretta a giudizio nel procedimento davanti al tribunale in composizione monocratica (art 550).

Nell’ambito delle nullità assolute si collocano anche le violazioni delle disposizioni sulla capacità e sulla legittimazione del
rappresentante del P.M., purché riflettano la sua iniziativa nell’esercizio dell’azione penale.

Per quanto riguarda l’imputato e il suo difensore, la disposizione codicistica mira a presidiare le numerose sedi del
contraddittorio indefettibile.

L’intervento dell’imputato è garantito nei confronti delle nullità che derivano:

- dall’omessa citazione al dibattimento di primo grado, ancorché tenuto a seguito di giudizio direttissimo instaurato nei
confronti di imputato libero o di giudizio immediato, e al dibattimento di secondo grado.
- Anche dall’omesso “avviso” per l’udienza preliminare.

Quanto al difensore dell’imputato, è presidiata da nullità assoluta:

- L’assenza in dibattimento di primo e di secondo grado;


- Ogni altra ipotesi nella quale ne sia dichiarata obbligatoria la presenza.

In tale ultimo ambito si collocano:


- L’assenza del difensore dall’interrogatorio di persona sottoposta a misura cautelare personale;
- Dalle sommarie informazioni che la P.G. assume dalla persona nei cui confronti vengono svolte le indagini;
- Dall’interrogatorio e dal confronto, delegati dal P.M. alla P.G. cui partecipi la persona sottoposta alle indagini che si
trovi in stato di libertà.

Rispetto a tali ipotesi, pure l’incapacità/incompatibilità del difensore dell’imputato genera una nullità assoluta.

L’art 179 co.2 riconosce per tabulas l’esistenza di nullità a previsione speciale definite come assolute.

 L’esempio è dato dall’art 525 co.2, dove è stabilito, con riguardo al principio di immediatezza del giudizio, che alla
deliberazione della sentenza debbono concorrere gli stessi giudici che hanno partecipato al dibattimento.

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31. Le nullità intermedie (Art 180)


Il regime delle nullità generali, diverse da quelle assolute, è dettato dall’art 180.

ART 180  Regime delle altre nullità di ordine generale


“Salvo quanto disposto ex art 179, le nullità previste ex art 178 sono rilevate anche di ufficio, ma non possono più essere
rilevate né dedotte dopo la deliberazione della sentenza di primo grado ovvero, se si sono verificate nel giudizio, dopo la
deliberazione della sentenza del grado successivo.” (co.1)

La norma regola le ipotesi di nullità c.d. a regime intermedio, o nullità generali non sussumibili di previsione dell’art 179.

Le nullità intermedie, identificate in via residuale, sono contemplate unicamente da una norma sanzionatoria di carattere
generale, l’art 180, e non da previsioni speciali.

La nullità intermedia è sanabile con le modalità ex art 183 (“Sanatorie generali delle nullità”).

Un limite di maggior portata per la deduzione della nullità intermedia deriva dalla lettura coordinata con l’art 182 co.1 e 2.

La cassazione ha espresso, inoltre, il principio di diritto secondo cui il termine ultimo per dedurre la nullità a regime
intermedio coincide con la deliberazione della sentenza del medesimo grado anche nell’ipotesi in cui fossero assenti
dall’udienza sia l’imputato, sia l’altro difensore pur ritualmente avvisati.

Per tali nullità vale il principio per il quale una nullità risulta in via automatica devoluta al giudice dell’impugnazione (ciò vale
solo per l’appello).

Per il giudizio di cassazione, la lettura dell’art 609 co.2 sembrerebbe impedire un’analoga conclusione. Ma evidenti ragioni
sistematiche, unite all’irrazionalità di un diverso trattamento nei due gradi di giudizio, consigliano di propendere anche qui
per la tesi della devoluzione ex lege.

Eccetto le nullità riferite al giudice (interamente assorbite nella nullità assoluta), l’area delle nullità intermedie si ricava per
sottrazione dell’area delle nullità assolute ex art 179 co.1 dalla più ampia area delle nullità generali ex art 178.

L’assenza del P.M. in relazione a sequenze procedimentali in cui la sua presenza è indefettibile genera una nullità a regime
intermedio, laddove in costanza dei medesimi presupposti, ciò è causa di nullità assoluta per il difensore dell’imputato.

Estesa è la categoria delle nullità a regime intermedio che concernono l’inosservanza delle disposizioni circa l’intervento,
l’assistenza e la rappresentanza dell’imputato.

Essendo l’inosservanza delle disposizioni riguardanti l’intervento, l’assistenza e la rappresentanza delle altre parti private
sempre tutelato da nullità a regime intermedio, ne discende che l’omessa citazione di tali soggetti risulta sottoposta ad un
regime più blando di quello previsto per l’omessa citazione dell’imputato.

In ordine all’inosservanza delle disposizioni che concernono la sola citazione a giudizio della persona offesa e del querelante,
l’inserimento di tale vizio nell’ambito delle nullità a regime intermedio suona come un riconoscimento dell’esigenza che tali
nullità sono rilevabili anche ex officio, a differenza di quelle relative.

32. Le nullità relative (Art 181)


Il contenuto della categoria delle nullità relative è ricavabile ex art 181 per esclusione.

ART 181  Nullità relative


“Le nullità diverse da quelle previste dagli art 178 e 179 co.2 sono dichiarate su eccezione di parte.” (co.1)

“Le nullità concernenti:


- gli atti delle indagini preliminari
- e quelli compiuti nell'incidente probatorio
- e le nullità concernenti gli atti dell'udienza preliminare
devono essere eccepite prima che sia pronunciato il provvedimento previsto ex art 424.
Quando manchi l'udienza preliminare, le nullità devono essere eccepite entro il termine previsto ex art 491 co.1 e 3.” (co.2)

“Le nullità concernenti il decreto che dispone il giudizio ovvero gli atti preliminari al dibattimento devono essere eccepite
entro il termine previsto ex art 491 co.1.
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Entro lo stesso termine, ovvero con l'impugnazione della sentenza di non luogo a procedere, devono essere riproposte le
nullità eccepite a norma del primo periodo del co. 2, che non siano state dichiarate dal giudice.” (co.3)

“Le nullità verificatesi nel giudizio devono essere eccepite con l'impugnazione della relativa sentenza.” (co.4)

Le nullità relative sono quelle che sanzionano vizi di minore gravità, diversi da quelli di ordine generale ex art 178.

Tali nullità sono solo di ordine speciale  nascono da tassative previsioni di legge, e sono sanabili, nei modi previsti ex art 183
(“Sanatorie generali delle nullità”) e 184 (“Sanatoria delle nullità delle citazioni, avvisi e notificazioni”).

Sono ricavabili per esclusione; e sono residuali, dunque speciali, poiché la loro esistenza dipende da un’espressa comminatoria.

33. La deducibilità e le sanatorie (Art 182-184)


ART 182  Deducibilità delle nullità
“Le nullità previste ex art 180 e 181 non possono essere eccepite:
- da chi vi ha dato o ha concorso a darvi causa
- ovvero non ha interesse all'osservanza della disposizione violata.” (co.1)

“Quando la parte vi assiste, la nullità di un atto deve essere eccepita prima del suo compimento ovvero, se ciò non è possibile,
immediatamente dopo.
Negli altri casi la nullità deve essere eccepita entro i termini previsti dagli arti 180 e 181 co. 2, 3 e 4.” (co.2)

“I termini per rilevare o eccepire le nullità sono stabiliti a pena di decadenza.” (co.3)

La norma non pone limiti di legittimazione alla deducibilità delle nullità assolute, tenuto conto della particolare rilevanza dei
vizi sanzionati, a differenza delle nullità intermedie e relative.

Perché l’interesse a dedurre la nullità sussista, è sufficiente la semplice possibilità che il provvedimento viziato produca la
lesione di un diritto o altra situazione giuridicamente rilevante del destinatario di esso.

ART 183  Sanatorie generali delle nullità


“Salvo che sia diversamente stabilito, le nullità sono sanate:
a) se la parte interessata ha rinunciato espressamente ad eccepirle ovvero ha accettato gli effetti dell'atto;
b) se la parte si è avvalsa della facoltà al cui esercizio l'atto omesso o nullo è preordinato.” (co.1)

La prima causa di sanatoria prevista dalla norma richiama la tradizionale categoria dell’acquiescenza, espressa o tacita;

la seconda, giustificata da ragioni di economia processuale, è informata al principio del c.d. raggiungimento dello scopo, in
considerazione del fatto che l’atto, ancorché valido, ha ugualmente espletato la sua funzione.

La clausola di salvezza posta all’inizio dell’art 183 esclude che le sanatorie generali operino nei confronti delle nullità
assolute che l’art 179 co.1 dichiara insanabili.

Non vi è dubbio che esse valgono, oltre che per le nullità relative, anche per quelle a regime intermedio, perché collocate
anch’esse in una disposizione autonoma (art 180).

L’art 184 prevede una sanatoria speciale.

ART 184  Sanatoria delle nullità delle citazioni, degli avvisi e delle notificazioni
“La nullità di una citazione o di un avviso ovvero delle relative comunicazioni e notificazioni è sanata se la parte interessata
è comparsa o ha rinunciato a comparire.” (co.1)

“La parte la quale dichiari che la comparizione è determinata dal solo intento di far rilevare l'irregolarità ha diritto a un
termine per la difesa non inferiore a 5 giorni.” (co.2)

“Quando la nullità riguarda la citazione a comparire al dibattimento, il termine non può essere inferiore a quello previsto ex
art 429.” (co.3)

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La norma è applicazione del principio generale di sanatoria ex art 183 lett.b:

 se la parte che è stata invalidamente citata o avvisata compare ugualmente o rinuncia a comparire, esercita la facoltà che
l’atto era preordinato a produrre, cioè quella di consentirgli la partecipazione al procedimento.

Tale sanatoria speciale scatta nei confronti del P.M., delle parti private, nonché dei loro difensori, quanto alla nullità di una
citazione/avviso/comunicazioni e notificazioni.

La comparizione deve essere personale, sicché quella del difensore non funge da sanatoria rispetto all’imputato, né valgono
presunzioni di alcun genere;

inoltre, dev’essere volontaria, sicché non opera come causa di sanatoria l’accompagnamento coattivo (art 132).

Ad ogni modo, la comparizione opera come sanatoria, ancorché la parte non abbia consapevolezza del vizio o non sia
intenzionato a sanarlo.

L’inapplicabilità della sanatoria della comparizione alla nullità assoluta conseguente all’omessa citazione dell’imputato è
argomentata dalla Relazione al progetto preliminare sulla base del tenore incondizionato dell’art 179 co.1, anche se tal
soluzione potrebbe apparire indebolita dalla mancata riproduzione della formula con cui esordisce, invece, l’art 183 co.1
(“salvo che sia diversamente stabilito”).

La parte che dichiari di essere comparsa con l’unico intento di “far rilevare l’irregolarità” non impedisce il verificarsi della
sanatoria, ma ha diritto ad un termine a difesa non inferiore a 5 giorni.

Per la sola citazione a comparire al dibattimento, l’art 184 co.3, precisa poi che il termine a difesa non può essere inferiore a 20
giorni, pari a quello contemplato in via ordinaria dall’art 429 per il giudizio davanti al tribunale o la corte d’assise.

Data la generalità della disposizione, questo nuovo termine dilatorio parrebbe valere anche per il giudizio davanti al tribunale
in composizione monocratica, rispetto al quale l’art 552 co.3 stabilisce, invece, un termine ordinario di 60 giorni per la
comparizione.

34. Gli effetti della dichiarazione di nullità (Art 185)


Una volta escluso che ricorrano limiti all’eccezione o alla deduzione della nullità o che si siano verificate cause di sanatoria, il
giudice deve dichiarare la nullità dell’atto, i cui effetti sono disciplinati ex art 185.

ART 185  Effetti della dichiarazione di nullità


“La nullità di un atto rende invalidi gli atti consecutivi che dipendono da quello dichiarato nullo.” (co.1)

“Il giudice che dichiara la nullità di un atto ne dispone la rinnovazione, qualora sia necessaria e possibile, ponendo le spese a
carico di chi ha dato causa alla nullità per dolo o colpa grave.” (co.2)

“La dichiarazione di nullità comporta la regressione del procedimento allo stato o al grado in cui è stato compiuto l'atto
nullo, salvo che sia diversamente stabilito.” (co.3)

“La disposizione del co.3 non si applica alle nullità concernenti le prove.” (co.4)

Dal co.1 si ricava il concetto di nullità derivante, che si trasmette nello stesso tipo di quella anteriore.

La propagazione si riferisce solo ad un rapporto di successione cronologica, tale da tradursi in un nesso di causalità necessaria:

 sul piano logico  la sentenza è viziata da nullità perché fondata in via esclusiva su una prova nulla, mentre tra le singole
prove esiste solo un nesso a livello psicologico.

 o sul piano giuridico  l’atto successivo è nullo perché è nullo quello che ne costituisce il presupposto.

Se la nullità è dichiarata in uno stato o grado diverso da quello in cui la stessa si è verificata, il codice (co.3 e 4 art 185) opera
una distinzione:

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 la dichiarazione di nullità comporta la regressione del procedimento allo stato e grado in cui è stato compiuto l’atto nullo,
purché si tratti di un atto di natura non probatoria (es. annullamento del decreto di citazione a giudizio come tipico atto di
natura propulsiva);

 se si tratta di nullità concernenti le prove, il giudice non può avvalersi della regressione (co.4), ma deve provvedere, ex co.2
art 185, alla rinnovazione, sempreché ciò sia necessario ai fini della decisione e la prova sia ripetibile.

Naturalmente, il disegno di realizzare una consistente economia processuale non può mai operare nel giudizio di cassazione:

 i limiti istituzionali propri del giudizio di legittimità impongono di far luogo all’annullamento con rinvio (art 623).

ART 186  Inosservanza di norme tributarie


“Quando la legge assoggetta un atto a una imposta o a una tassa, l'inosservanza della norma tributaria non rende
inammissibile l'atto né impedisce il suo compimento, salve le sanzioni finanziarie previste dalla legge.” (co.1)

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Capitolo III
Prove
1. Premessa. Le scelte sistematiche nella disciplina delle prove
Il libro III è interamente dedicato alle prove, concentrandovi la disciplina in tre titoli:

Titolo I “disposizioni generali” (art 187-193); Titolo II “mezzi di prova” (art 194-243); Titolo III “mezzi di ricerca della prova”(art
244-271).

Racchiudere l’intera disciplina delle prove in un unico contesto normativo interno al codice ha permesso di:
 sottolineare la centralità del tema probatorio nell’ambito di un processo aderente allo schema accusatorio;
 superare l’impostazione frammentaria cui erano ispirati i codici previgenti (che ravvisano il vero baricentro del processo
nella fase delle indagini);
 creare un vero e proprio sottoinsieme normativo dedicato alle prove penali, articolato sulla regolamentazione del
“diritto alla prova”, nonché sui rapporti tra prova e decisione.

Alla base di tale scelta vi era il recupero della legalità della prova.

Bisognava ripristinare il primato del principio di legalità sull’intera disciplina della prova (evitando di ricadere negli
schematismi della prova legale), riaffermando con forza la necessità del giudice di “conoscere attraverso prove”.

Quanto disposto dalle prime norme (disposizioni generali) permette di delineare le nervature del diritto delle prove e porre le
premesse di una teoria della prova.

Rimane aperto l’interrogativo circa l’operatività delle disposizioni in questione, in merito alla tematica dei “mezzi di prova” e
dei “mezzi di ricerca della prova”.

2. Segue: il problema della sfera di incidenza della normativa contenuta nel libro sulle prove.
Le norme sulla prova contenute nel Libro III (ma anche nel Libro V “indagini ed udienza preliminare” e Libro VII “giudizio”)
trovano applicazione anche al di là delle aree processuali dedicate alla formazione della prova, in particolare:

 La fase del dibattimento e,


 di svolgimento dell’incidente probatorio, anticipatrice ante giudicium delle garanzie dibattimentali.

Riguardo alla fase dell’incidente probatorio, si impongono accorgimenti interpretativi.

Circa l’oggetto della prova (art 187) si dovrà ripiegare sulla “ipotesi di imputazione” (risultante da altri adempimenti del P.M.,
come es. dalla informazione di garanzia ricalcata sulla iscrizione ex art 335, o dalla enunciazione del “fatto”), accordando le
specifiche disposizioni dettate in ordine all’oggetto dell’incidente (art 393 co.1 e 398 co.2).

Non si può fare riferimento ad una “imputazione” (non formulabile ancora nel momento dell’incidente).

La possibilità di applicare le norme del Libro III anche nelle fasi preliminari è piuttosto problematica per l’assenza di univoche
indicazioni legislative, ma non può essere accantonato sulla base di frettolosi schematismi.

Per esempio, sembri che alcune norme del libro sulle prove debbano applicarsi nelle fasi anteriori al dibattimento, quando è
previsto l’intervento del giudice in funzione di decisione o garanzia.

1) Se il giudice interviene in funzione di organo di decisione, dovranno osservarsi le disposizioni generali in tema di
ammissione delle prove tenendo conto di quanto dispone il co.1 art 422 (“Attività di integrazione probatoria del
giudice”):
o “Il giudice può disporre, anche d’ufficio l’assunzione delle prove delle quali appare evidente la decisività ai fini della
sentenza di non luogo a procedere”.

Tale comma rovescia quanto stabilito ex co.1 art 190 (“Diritto alla prova”) secondo cui:
o “le prove sono ammesse a richiesta di parte. Il giudice provvede escludendo le prove vietate dalla legge e quelle superflue
o irrilevanti”.
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Si applicheranno, inoltre, le disposizioni in tema di acquisizione e di assunzione della prova, tenendo conto che l’art 422 co.3
e 4 attribuiscono allo stesso giudice la conduzione della procedura probatoria.

Al termine dell’udienza preliminare, il giudice potrà poi pronunciare:


 Decreto di rinvio a giudizio (art 429 “Decreto che dispone il giudizio”);
 Sentenza di non luogo a procedere (art 425);
 Sentenza di condanna nel caso di giudizio abbreviato (art 442 “Decisione”);
 Sentenza di applicazione della pena su richiesta delle parti (art 448 “Provvedimenti del giudice”).

Per la formazione del convincimento giudiziale, il medesimo giudice (per la selezione e valutazione del materiale probatorio)
dovrà tener conto degli art 191 (“Prove illegittimamente acquisite”) e art 192 (“Valutazione della prova”) secondo cui:
 Solo le prove acquisite in modo conforme ex lege possono essere utilizzate per la corretta formazione del convincimento;

 Il giudice è libero di valutare le prove raccolte (principio del libero convincimento), e la necessità di acquisire riscontri
esterni per ritenere attendibili le dichiarazioni dei pentiti (imputato/coimputato di reati collegati).

2) Se il giudice interviene in funzione di organo di garanzia (es per adottare un provvedimento in tema di coercizione
personale ex art 291 o in tema di intercettazioni telefoniche ex 267) di fronte agli elementi probatori fornitigli, può
utilizzare alla base del proprio provvedimento solo quelli il cui impiego non sia incoerente con la disciplina in tema di
prove.

Più delicato è il discorso circa l’operatività delle norme del Libro III rispetto alle indagini preliminari svolte dal P.M. perché:

 Non possono conseguire risultati utilizzabili come prova in sede dibattimentale;


 Per molti atti di indagine si è utilizza una terminologia diversa rispetto agli atti compiuti di fronte al giudice, per
sottolineare la differente rilevanza probatoria.

Ovviamente, tanto il P.M, quanto gli organi di polizia giudiziaria sono tenuti all’osservanza di principi di fondo probatori, in
quanto alcuni loro atti sono destinati ad essere inseriti nel fascicolo per il dibattimento, acquisendo valore di prova in tale
sede.

Anche perché dipende dal consenso delle parti che tutti gli atti di indagine preliminare compiuti dal P.M o P.G. possano
venire utilizzati come prove alla base di una sentenza di merito idonea a definire il procedimento prima del passaggio al
dibattimento, come capita nei procedimenti speciali.

Se ne desume, quindi, che le “disposizioni generali” del Libro III si applicano nel corso delle indagini preliminari del P.M (e p.g.)
entro i limiti consentiti dalla natura e finalità delle stesse; tenuto conto del principio:

 Che esclude la ordinaria utilizzabilità degli atti compiuti nelle fasi preliminari ai fini della sentenza dibattimentale.

Il discorso è invece diverso, a seconda che si faccia riferimento alle norme circa:
1) “mezzi di ricerca della prova”
2) “mezzi di prova”

1) I mezzi di ricerca della prova corrispondono alle attività tipiche della fase delle indagini preliminari, dunque la relativa
disciplina deve essere osservata dal p.m. e dalla p.g.

Inoltre, i mezzi di ricerca della prova hanno come destinatario l’autorità giudiziaria (e non il giudice, come per le norme sui
mezzi di prova) consentendo dunque, di trovar applicazione nella fase preliminare al dibattimento.

2) I mezzi di prova fanno riferimento al giudice, trattandosi di atti affidati alla sua gestione, in quanto destinati a sfociare in
prove “formate” nel processo, e quindi idonee a concorrere alla formazione del convincimento giudiziale.

Proprio per sottolineare tali differenze tra il giudice e p.m. per le omologhe attività che quest’ultimo compie all’interno delle
indagini preliminari, il legislatore ha previsto una sua specifica autonomia per distinguerla da quella dei mezzi di prova in senso
stretto.

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Infatti, gli atti del p.m corrispondenti a tali mezzi di prova sono stati definiti e regolati con una differente nomenclatura.
Si parla di:
 operazioni e accertamenti tecnici del p.m. anziché di perizie del giudice;
 individuazione di persone e di cose del p.m. anziché di ricognizioni del giudice;
 assunzione di informazioni anziché di testimonianze;
 interrogatorio di persona imputata in un procedimento connesso, anziché di esame.

In definitiva, le norme relative ai diversi mezzi di prova non devono, in linea di massima (sempre ammesse operazioni
interpretative delicate, ovviamente), applicarsi nel corso delle indagini preliminari del p.m.

Infatti non manca nel codice, la presenza di un’autonoma disciplina per gli atti di indagine del p.m. omologhi ai tipici mezzi di
prova; quindi, le norme previste per questi ultimi (i mezzi di prova) si applicano solo in via residuale nei confronti dei primi
(omologhi atti di indagine del p.m.).

3. L’oggetto della prova TITOLO I (Art 187-193)


L’art 187 definisce l’oggetto della prova.

Si supera qualsiasi allusione circa l’irraggiungibile “accertamento della verità storica”.


Dunque, non ogni conoscenza può essere oggetto di prova, ma solo quelle utili all’accertamento del fatto ed alle questioni
connesse.

Viene enunciato il principio di pertinenza della prova, secondo cui:


 la prova serve per accertare l’esistenza di determinati fatti considerati rilevanti ai fini della decisione.

Così facendo, si è superata la disciplina del vecchio codice, che impone al giudice di compiere “tutti” gli atti che apparissero
“necessari per l’accertamento della verità”.

Art 187  Oggetto della prova:


“Sono oggetto di prova i fatti che si riferiscono all’imputazione, alla punibilità e alla determinazione della pena o della
misura di sicurezza(co.1).

Sono altresì oggetto di prova i fatti dai quali dipende l’applicazione di norme processuali. (co.2)

Se vi è costituzione di parte civile, sono inoltre oggetto di prova i fatti inerenti alla responsabilità civile derivante dal reato
[c.p. 185]” (co.3).

L’oggetto della prova costituisce l’obiettivo verso cui tende la prova; essa è ammissibile solo se concerne fatti rilevanti e utili
per il processo, e cioè il fatto-reato (imputazione), il suo autore (responsabilità e punibilità), la sanzione (determinazione pena e
misura di sicurezza), l’eventuale connessa azione civile (obbligo del risarcimento danni) nonché fatti procedurali (es. nullità
notificazione o impedimento difensore)

In relazione alla disciplina dell’oggetto della prova, si pongono alcune distinzioni.

1) A seconda che le prove si riferiscano, o meno, immediatamente al thema probandum principale:


 Prove dirette  quelle aventi per oggetto il fatto da provare;
 Prove indirette  quelle che non hanno direttamente ad oggetto il fatto da provare, bensì un altro, dal quale il giudice
potrà risalire al primo. Queste si caratterizzano come prove critiche.

Le prove indirette si definiscono anche come prove indiziarie e tali sono gli indizi (frammento o elemento di prova) di cui
parla l’art 192 co.2 (Valutazione della prova).

2) Ulteriore distinzione è quella tra:


 Prova storica (detta anche rappresentativa)  il fatto da provare viene descritto o riprodotto immediatamente davanti
al giudice;
 Prova critica (o logica, non rappresentativa)  per cui è reso necessario l’intervento logico-critico del giudice come per le
prove indirette.

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La prima distinzione fa leva sull’eventualità che la circostanza oggetto della prova si riferisca direttamente, o no, al tema da
provare (cioè ad uno dei fatti cui allude l’art 187);
la seconda pone l’accento sul processo logico del giudice per ritenere raggiunto il risultato probatorio su quel tema.

Tutte le prove indirette presentano la struttura di prove critiche. Non si esclude che una prova critica possa avere natura di
prova diretta (es. una registrazione della voce dell’autore del reato nel momento della consumazione).

4. Prove atipiche e garanzie per la libertà morale della persona (Art 188-189)
Nei confronti delle prove atipiche (o innominate), non è prevista alcuna preclusione di prove “non disciplinate dalla legge”.

Infatti, si trasferisce in capo al giudice il compito di un vaglio preliminare per l’ammissibilità di tali prove (ovviamente non
devono essere contrarie alla legge).

Di fronte alla prova atipica spetta al giudice il potere di decidere se la stessa possa trovare ingresso in sede processuale, sulla
base di una verifica subordinata a due valutazioni:
 che essa “risulti idonea ad assicurare l’accertamento dei fatti”,
 che “non pregiudica la libertà morale della persona”.

Qualora venga, poi, ammessa la prova, sarà compito del giudice definire le modalità della sua assunzione, dopo aver sentito
le parti per concordare, se possibile, le relative cadenze procedurali.

Art 189  Prove non disciplinate dalla legge


“Quando è richiesta una prova non disciplina dalla legge, il giudice può assumerla se essa risulta idonea ad assicurare
l’accertamento dei fatti e non pregiudica la libertà morale della persona [art 188]. Il giudice provvede all’ammissione, sentite
le parti sulle modalità di assunzione della prova.” (co.1)

Art 188  Libertà morale della persona nell’assunzione della prova


“Non possono essere utilizzati, neppure con il consenso della persona interessata, metodi o tecniche idonei a influire sulla
libertà di autodeterminazione o ad alterare la capacità di ricordare e valutare i fatti” (co.1)

Il nuovo codice ha consacrato l’ammissibilità, a determinate condizioni, delle prove innominate, disponendo una disciplina
sanzionatoria ex art 191 (Prove illegittimamente acquisite), per il caso di prove (tipiche) acquisite in violazione dei divieti ex
lege, per superare la vecchia prassi di ammettere prove tipiche, ma assunte in modo irrituale.

5. Diritto alla prova e criteri di ammissione (Art 190)


Sulla base del modello accusatorio (del processo di parti), il giudice deve giudicare secondo quanto allegato e provato.

Le parti vantano un vero e proprio diritto alla prova (come manifestazione del diritto di difesa).

Si supera la logica inquisitoria ispirata all’idea della iniziativa officiosa del giudice in materia di prove, e considerando solo
come eccezioni “i casi in cui le prove sono ammesse d’ufficio”.

Art 190  Diritto alla prova, afferma il principio accusatorio per cui:

“Le prove sono ammesse a richiesta di parte. Il giudice deve provvedere senza ritardo con ordinanza escludendo le prove
vietate dalla legge e quelle che sono manifestatamente superflue o irrilevanti”. (co.1)

La legge stabilisce i casi in cui le prove sono ammesse d’ufficio. (co.2)

I provvedimenti sull’ammissione della prova possono essere revocati sentite le parti in contraddittorio.” (co.3)

Per salvaguardare l’imparzialità e terzietà del ruolo giudicante, il nuovo codice (ispirato al modello accusatorio) ha limitato a
casi tassativi ed eccezionali le ipotesi di ammissione d’ufficio della prova, fissando la regola della domanda di parte e
garantendo loro l’ammissione e l’acquisizione dei mezzi di prova richiesti.

La violazione del diritto alla prova è motivo di ricorso per cassazione (art 606 lett.d).

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Tra le specificazioni del diritto alla prova riconosciuto alle parti, è da ricordare l’attribuzione:
 all’imputato del diritto ad ottenere l’ammissione delle prove a discarico “sui fatti costituenti oggetto delle prove a
carico”;
 ed al p.m. del corrispondente diritto in ordine alle prove a carico “sui fatti costituenti oggetto delle prove a
discarico”.

Qui, il legislatore ha attribuito particolar risalto al diritto di controprova, configurando uno specifico motivo di ricorso per
cassazione con riferimento alla “mancata assunzione di una prova decisiva”, allorché la stessa sia stata richiesta dalla parte.

Rispetto alla disciplina ordinaria di ammissione della prova, presenta carattere derogatorio la norma dell’art 190-bis co.1
(Requisiti della prova in casi particolari), destinata ad operare nei procedimenti per i delitti di criminalità organizzata ex art 51
co.3-bis.

Infatti, nel corso di tali procedimenti, quando richiesto ad esempio l’esame di un testimone o altro soggetto ex art 210, e
questi abbiano già reso dichiarazioni, l’esame di tale soggetti è ammesso solo:
 se riguarda “fatti o circostanze diversi da quelli oggetto delle precedenti dichiarazioni”,
 o quando il giudice o una delle parti lo ritengano “necessario sulla base di specifiche esigenze”.

Ne deriva, quindi una evidente deroga in rapporto ai criteri di ammissione della prova sanciti ex art 190, che ubbidisce ad
un’esigenza di tutela delle persone da esaminare di fronte al pericolo dell’”usura” psicologica, evitando anche (alle suddette
persone) la prospettiva della esposizione a ripetuti rischi o disagi personali.

Si tutela la sicurezza e incolumità dei testimoni e coimputati, prevenendo così, rischi di intimidazione o violenza.

I principi espressi dall’art 190 risultano applicabili nell’intero arco del procedimento, quindi anche alle fasi anteriori al
dibattimento, entro limiti di compatibilità di tali fasi.

Nessun dubbio sul fatto che tali principi si applicano in sede di incidente probatorio, dove è innegabile che possa parlarsi di:
 un diritto alla prova in capo ai soggetti legittimati,
 e del potere-dovere del giudice di pronunciarsi sull’ammissibilità delle corrispondenti richieste.

Nessun dubbio che tali principi si applicano anche in sede di udienza preliminare, tenendo conto:
 delle modalità di “assunzione delle prove”;
 e della specialità del criterio di ammissione sancitovi, imperniato sul parametro della “decisività” delle prove
suddette in vista della sentenza di non luogo a procedere.

Ovviamente, i principi generali riguardanti il diritto alla prova sono destinati a trovare più ampia applicazione nella fase
dibattimentale, a cominciare dalla disciplina del diritto alla controprova e dalla dialettica dell’esame diretto ed incrociato.

Ed è sempre in fase dibattimentale che sono previste le più vistose eccezioni, configurando poteri di iniziativa probatoria ex
officio, attribuiti al Presidente del Collegio o al Giudice del dibattimento in base al criterio dell’”assoluta necessità”.

6. Prove illegittimamente acquisite e sanzione di inutilizzabilità. (Art 191)


A tutela del principio di legalità in materia di prova si colloca la regola che sancisce la non utilizzabilità delle “prove
illegittimamente acquisite”, cioè ammesse “in violazione dei divieti ex lege”.

Art 191  Prove illegittimamente acquisite


“Le prove acquisite in violazione dei divieti stabiliti dalla legge non possono essere utilizzate” (co.1)

L’inutilizzabilità è rilevata anche d’ufficio in ogni stato e grado del procedimento. (co.2)

Le dichiarazioni o le informazioni ottenute mediante il delitto di tortura sono inutilizzabili, salvo che contro le persone
accusate di tale delitto e al solo fine di provarne la responsabilità penale.” (co. 2bis aggiunto con riforma Orlando)

Assume risalto la categoria della inutilizzabilità, intesa come vizio e come sanzione processuale disposta in violazione dei divieti
probatori ex lege, diversificando la sanzione prevista per i vizi del procedimento di acquisizione della prova rispetto alla
tradizionale sanzione della nullità, riservata ai vizi di forma degli atti per i quali essa venga comminata (art 177).

Ciò non ammette sanatoria, essendo modellato (lo schema dell’inutilizzabilità delle prove) sullo schema della nullità assolute.
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Tenendo conto del co.2 art 191, la inutilizzabilità delle prove è rilevabile pure in Cassazione; non a caso tra i motivi di ricorso vi è
anche quello dell’“inosservanza delle norme processuali stabilite a pena di…inutilizzabilità” (art 606 co.1 lett c).

In ogni caso, il disposto dell’art 191, si configura:


 Da un lato (co.1), come norma generale di previsione della sanzione di inutilizzabilità, da combinarsi con tutte le
disposizioni che, pur sancendo un divieto probatorio (divieto di ingresso della prova nel processo) non prevedono
alcun riflesso sanzionatorio in caso di trasgressione;

 Dall’altro lato (co.2), come norma generale di riferimento per il regime normativo del vizio delle inutilizzabilità, che
trova applicazione tutte le volte in cui singole disposizioni dichiarino inutilizzabili atti probatori.

La sanzione della inutilizzabilità trova applicazione nell’inosservanza di un divieto di ammissione/acquisizione stabilito ex lege.

7. Valutazione della prova e regole di convincimento del giudice. (Art 192)


Art 192  Valutazione della prova
“Il giudice valuta la prova dando conto dei risultati acquisiti e dei criteri adottati”. (co.1)

L’esistenza di un fatto non può essere desunta da indizi, a meno che questi siano gravi, precisi e concordanti. (co.2)

Le dichiarazioni rese dal coimputato del medesimo reato o da persona imputata in un procedimento connesso ex art 12, sono
valutate unitamente agli altri elementi di prova che ne confermano l’attendibilità. (co.3)

La disposizione del co.3 si applica anche alle dichiarazioni rese da persona imputata di un reato collegato a quello per cui si
procede, nel caso previsto ex 371 co.2 lett b.” (co. 4)

Tale norma ribadisce il principio del “libero convincimento” del giudice del merito, il quale è libero di valutare le prove raccolte,
organizzandole e dando a ciascuna di esse il peso e significato ritenuti più opportuno (c.d. principio del libero convincimento).

Ovviamente, deve trattarsi solo dell’area delle prove legittimamente ammesse ed acquisite, dunque utilizzabili.

Il convincimento del giudice non può formarsi fuori da tale ambito, altrimenti significherebbe fare uso di prove per legge non
utilizzabili.

Il giudice ha l’obbligo di motivazione dei provvedimenti;


dovrà ricostruire il percorso logico-conoscitivo che lo ha condotto ad apprezzare le prove disponibili e a trarne conclusioni (in
primis per la propria consapevolezza, ma anche per gli eventuali riscontri da parte del giudice dell’impugnazione).

Il principio del libero convincimento del giudice incontra (oltre al limite razionale dell’obbligo motivazionale) anche alcuni limiti
di tipo normativo.

Lo stesso art 192 enuncia due specifiche regole di giudizio che circoscrivono la sfera di libero apprezzamento probatorio:

 Ex co.2, l’inutilizzabilità di elementi indiziari, a meno che questi siano gravi, precisi e concordanti (in tal caso gli
indizi assumono valenza di prova);

 Ex co.3, le dichiarazioni di natura testimoniale provenienti da un coimputato del medesimo reato o da persona
imputata in un procedimento connesso, non possono venir valutate ex se, ma devono sempre esserlo “unitamente
agi altri elementi di prova che ne confermano l’attendibilità”

In tal modo il codice sembra configurare una presunzione di inattendibilità delle suddette dichiarazioni (tra le quali rientrano le
ipotesi di “chiamata in correità”), riconoscendo il principio della necessità di acquisizione di riscontri esterni per ritenere
attendibili le dichiarazioni accusatorie di coimputato o di imputato di reati collegati (c.d. pentiti).

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Da ultimo, una ulteriore ipotesi di limite al principio del libero convincimento del giudice (sia pure circoscritto alla prova
della “colpevolezza dell’imputato”) è quella espressa nel divieto di valutazione sancito dall’art 526 co.1bis (Prove utilizzabili
ai fini della deliberazione).

SI esclude che tal prova possa essere ottenuta sulla base di:
o “dichiarazioni rese da chi, per libera scelta, si è sempre volontariamente sottratto all’esame dea parte dell’imputato o del
suo difensore”.

Tale regola probatoria opera solo nelle ipotesi in cui il dichiarante si sia “sottratto” all’esame in contraddittorio.

8. La testimonianza. TITOLO II Capo I (Art 194-207)


Conclusosi il Titolo I del Libro III, dedicato alle disposizioni generali, i Titoli II e III sono rispettivamente dedicati ai:

 Singoli mezzi di prova (art 193-243)  Testimonianze, esami delle parti, confronti, ricognizioni, esperimenti giudiziali,
perizie documenti. Offrono al giudice risultati direttamente utilizzabili per la decisione.

 Mezzi di ricerca della prova (art 244-271)  Ispezioni, Perquisizioni, Sequestri, Intercettazioni telefoniche. Non
integrano di per sé una fonte del convincimento giudiziale, ma risultano diretti a permettere l’acquisizione di cose,
tracce, notizie o dichiarazioni idonee ad assumere rilevanza probatoria.

I mezzi di ricerca della prova si caratterizzano, inoltre, anche in quanto sono diretti a propiziarsi l’acquisizione al processo di
elementi probatori precostituiti rispetto al medesimo;
i mezzi di prova, invece, si qualificano per la loro funzionalità ad assicurare la formazione della prova in sede processuale.

Ulteriore distinzione:
 I mezzi di prova si concentrano sulle modalità di assunzione in iudicio della prova medesima;
 I mezzi di ricerca della prova si concentrano sulle modalità di individuazione e ingresso nel processo di elementi
preesistenti allo svolgimento processuale.

Iniziamo trattando i mezzi di prova destinati ad assumere risalto in sede dibattimentale:

 Esame testimoniale e esame delle parti.

Art 194  Oggetto e limiti della testimonianza


“Il testimone è esaminato sui fatti che costituiscono oggetto di prova [art 187]. Non può deporre sulla moralità dell’imputato,
salvo che si tratti di fatti specifici, idonei a qualificarne la personalità in relazione al reato e alla pericolosità. (co.1)

L’esame può estendersi anche ai rapporti di parentela e di interesse che intercorrono tra il testimone e le parti o altri testimoni
nonché alle circostanze il cui accertamento è necessario per valutarne la credibilità.
La deposizione sui fatti che servono a definire la personalità della persona offesa dal reato è ammessa solo quando il fatto
dell’imputato deve essere valutato in relazione al comportamento di quella persona. (co.2)

Il testimone è esaminato su fatti determinati [art 499]. Non può deporre sulle voci correnti nel pubblico né esprimere
apprezzamenti personali salvo che sia impossibile scinderli dalla deposizione sui fatti.” (co.3)

Il legislatore ha inteso circoscrivere i limiti oggettivi della testimonianza: solo i fatti che costituiscono oggetto di prova possono
segnare il contenuto delle dichiarazioni del teste, anche se, per valutare la credibilità del teste, l’esame può essere esteso al c.d.
oggetto indiretto del processo e cioè a fatti indirettamente collegabili a quelli oggetto dell’imputazione.

Quanto alla Testimonianza (art 194-207) merita di essere trattata la normativa ex art 195 (Testimonianza indiretta)

1) Da un lato, viene sancita la inutilizzabilità della deposizione di chi non possa o non voglia indicare la persona o la fonte
da cui abbia appreso la notizia al centro dell’esame testimoniale (co.7 art 195).

Ne deriva il divieto di acquisire e impiegare le notizie proveniente dagli informatori confidenziali.

Il tutto in applicazione del principio che vieta le testimonianze di provenienza anonima.

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2) D’altro lato, quando il testimone riferisce fatti o circostanze, la cui conoscenza dichiari di aver appreso da persone
diverse, queste ultime possono essere chiamate a deporre d’ufficio dal giudice, e devono esserlo su richiesta di parte, a
pena di inutilizzabilità delle dichiarazioni de relato laddove tale richiesta venga disattesa (co.1-3 art 195)

Il co.4 art 195 (fino al 2008) presenta una deroga rigida rispetto all’ordinaria disciplina della testimonianza indiretta.
 Stabilisce (nei confronti di ufficiali e agenti di p.g.) di deporre sul contenuto delle dichiarazioni acquisite da
testimoni.

Tale deroga garantisce il principio di oralità della prova.

Sennonché, il co 4 art 195 è stato dichiarato costituzionalmente illegittimo in quanto “sfornito di ragionevole giustificazione”,
ed è stato riscritto secondo quanto segue:
o “gli ufficiali e gli agenti di polizia giudiziaria non possono deporre sul contenuto delle dichiarazioni acquisite da testimoni
con modalità ex art 351 (Altre sommarie informazioni) e art 357 co.2 (Documentazione dell’attività di p.g.). Negli altri casi
si applicano le disposizioni dei co.1,2 e 3.”

Regola cardine è la necessità di verifica diretta della fonte “di prima mano”.

Per consentire di assicurare un controllo sulla fonte delle deposizioni di “seconda mano” si aggiunge anche la regola di
esclusione della testimonianza dei soggetti che facciano riferimento a fatti conosciuti da persone titolari di un segreto
professionale o segreto d’ufficio (comprensivo anche del Segreto di Stato).

Delineiamo ora la capacità di testimoniare.

Art 196  Capacità di testimoniare


“Ogni persona ha la capacità di testimoniare. (co.1)

Qualora, per valutare le dichiarazioni del testimone, sia necessario verificarne l’idoneità fisica o mentale a rendere
testimonianza, il giudice anche d’ufficio può ordinare gli accertamenti opportuni con i mezzi consentiti dalla legge [art
189,191,220]. (co.2)

I risultati degli accertamenti ex co.2, disposti prima dell’esame testimoniale non precludono l’assunzione della testimonianza.”
(co.3)

Dunque, non esistono aprioristiche preclusioni nell’uso degli strumenti idonei ad accertare i fatti di causa. Chiunque sia
portatore di conoscenze utili ai fini del processo è idoneo (e obbligato, qualora venga citato) ad assumere il ruolo di teste.

Descriviamo ora la disciplina delle incompatibilità con l’ufficio della testimonianza e le ipotesi di incompatibilità a
testimoniare dell’imputato.

Art 197  Incompatibilità con l’ufficio del testimone


“Non possono essere assunti come testimoni:
a) i coimputati del medesimo reato o le persone imputate in un procedimento connesso ex art 12, salvo che nei loro
confronti sia stata pronunciata sentenza irrevocabile di proscioglimento, di condanna o di applicazione della pena ex
art 444;
b) salvo quanto previsto ex art 64 co.3 lett.c, le persone imputate in un procedimento connesso ex art 12 o di un reato
collegato ex art 371, prima che nei loro confronti sia stata pronunciata sentenza irrevocabile di proscioglimenti,
condanna o di applicazione della pena ex art 444;
c) il responsabile civile e la persona civilmente obbligata per la pena pecuniaria;
d) coloro che nel medesimo procedimento svolgono o hanno svolto la funzione di giudice, p.m. o loro ausiliario, nonché il
difensore che abbia svolto attività di investigazione difensiva e coloro che hanno formato la documentazione delle
dichiarazioni e informazioni assunte ex art 391ter.” (co.1)

La ragione dell’incompatibilità con l’ufficio di testimone va ricondotta all’applicazione del principio del nemo tenetur se
degetere, secondo cui nessuno può essere obbligato a rendere dichiarazioni che potrebbero risultare sfavorevoli al proprio
interesse.

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Art 197bis  Persone imputate o giudicate in un procedimento connesso o per reato collegato che assumono l’ufficio di
testimone
“L’imputato in un procedimento connesso ex art 12 o di un reato collegato ex art 371 co 2 lett.b, può essere sempre sentito
come testimone quando nei suoi confronti è stata pronunciata sentenza irrevocabile di proscioglimento, di condanna o di
applicazione della pena ex art 444”. (co.1)

L’imputato in un procedimento connesso ex art 12 co.1 lett c, o di un reato collegato ex art 371 co.2 lett b, può essere sentito
come testimone, inoltre nel caso previsto dall’art 64 co.3 lett.c. (co.2)

Nei casi previsti ex co.1 e 2 il testimone è assistito da un difensore. In mancanza di un difensore di fiducia è nominato un
difensore d’ufficio. (co.3)
(formula del testimone assistito. Il difensore ha sia il diritto di presenziare all’esame, sia il diritto di formulare richieste,
riserve e osservazioni a tutela della posizione dell’assistito testimone).

Nel caso previsto dal co.1 il testimone non può essere obbligato a deporre sui fatti per i quali è stata pronunciata in giudizio
sentenza di condanna nei suoi confronti, se nel procedimento egli aveva negato la propria responsabilità o non aveva reso
alcuna dichiarazione.
Nel caso previsto dal co.2 il testimone non può essere obbligato a deporre su fatti che concernono la propria responsabilità in
ordine al reato per cui si procede o si è proceduto nei suoi confronti. (co.4)
(entrambe garanzie ex ante, cioè come limiti rispetto all’ordinaria estensione dei doveri testimoniali).

In ogni caso le dichiarazioni rese dai soggetti di cui al presente articolo non possono essere utilizzate contro la persona che le
ha rese nel procedimento a suo carico, nel procedimento di revisione della sentenza di condanna e in qualsiasi giudizio civile o
amministrativo relativo al fatto oggetto dei procedimenti e delle sentenze suddette. (co.5)
(garanzia ex post, detta anche garanzia “ombrello”)

Alle dichiarazioni rese dalle persone che assumono l’ufficio di testimoni ai sensi del presente articolo si applica la disposizione
ex art 192 co.3 (co.6)
(per cui si esige che anche le suddette dichiarazioni, per assumere pieno valore probatorio, debbano venire corroborate da
“altri elementi di prova che ne confermano l’attendibilità”)

Analizziamo adesso i doveri processuali cui è tenuto il soggetto che assume la veste di testimone,

Art 198  Obblighi del testimone


“Il testimone ha l’obbligo di presentarsi al giudice e attenersi alle prescrizioni data dal medesimo per le esigenze processuali e
di rispondere secondo verità alle domande che gli sono rivolte. (co.1)

Il testimone non può essere obbligato a deporre su fatti dai quali potrebbe emergere una sua responsabilità penale [art 63].”
(co.2)

La disposizione così consacrata nel co.2 art 198 non costituisce l’unica eccezione all’obbligo del testimone di “rispondere
secondo verità alle domande che gli sono rivolte”, poiché il legislatore ha confermato la tradizionale area delle deroghe a tale
obbligo.

Deroghe da inquadrarsi tra gli effetti dei “segreti” opponibili allo stesso giudice, e modellate come divieti (da valutarsi ex art
191) rispetto all’assunzione della testimonianza in chiave obbligatoria, sia pur con diverse modulazioni, a seconda che in capo al
testimone sussista una facoltà (art 199, 200 e 203) o un obbligo (art 201 e 202) di astenersi dal deporre.

Oltre la disciplina della testimonianza dei prossimi congiunti dell’imputato, imperniata sull’ordinario riconoscimento della
facoltà di astensione e sul diritto al relativo avviso, a pena di nullità (art 199), le deroghe all’obbligo della disposizione sono
riconducibili alla sfera dei segreti, rilevanti in sede di acquisizione probatoria.

Ai sensi dell’art 200 (Segreto professionale), determinate categorie di soggetti hanno facoltà di astensione dal deporre in
virtù del segreto professionale, salvi i casi in cui hanno l’obbligo di riferirne all’autorità giudiziaria.

Tuttavia, ai sensi del co.3 art 200, il giudice, relativamente nei confronti dei giornalisti professionisti, può obbligarli a rivelare
l’identità delle persone che hanno loro fornito notizie in via fiduciaria, qualora tali notizie risultino indispensabili per la prova
del reato, e la loro veridicità possa venire accertata solo con l’identificazione della fonte fiduciaria.

Disciplina analoga per la facoltà di astensione dei titolari di un segreto professionale risulta estesa anche per il segreto di ufficio
ex art 201.
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Aspetto peculiare della disciplina del segreto d’ufficio è rappresentato dalla prerogativa riconosciuta agli ufficiali e agenti di
polizia giudiziaria (entrambi appartenenti ai servizi di sicurezza) di non rivelare i nomi dei propri informatori confidenziali,
senza possibilità alcuna per il giudice di obbligarli a fornire le relative informazioni, fermo il divieto di acquisizione e di
utilizzo processuale delle informazioni provenienti dai medesimi (art 203 co.1)

Quanto alle ipotesi di opposizione del Segreto di Stato, in sede testimoniale, da parte degli stessi soggetti tenuti ad opporre il
segreto d’ufficio, l’art 202 (Segreto di Stato), è stato riformulato dalla l.124/2007 che ha conferito un nuovo assetto alla tutela.

Viene mantenuto l’obbligo di tali soggetti di “astenersi dal deporre su fatti coperti da segreto di Stato”.

In situazioni del genere vi è l’obbligo dell’a.g. di rivolgersi al Presidente del Consiglio dei ministri al fine di chiedere conferma
della sussistenza di quel segreto, sospendendo, nel frattempo ogni iniziativa volta ad acquisire “la notizia oggetto del
segreto”.

Qualora entro 30 giorni la relativa conferma venga fornita (con atto motivato), all’a.g. sarà vietata l’acquisizione e
l’utilizzazione “anche indiretta delle notizie coperte dal segreto”.

Per conseguenza, quando il giudice reputi essenziale, per la definizione del processo, la conoscenza delle notizie inibite alla sua
sfera cognitiva, potrà solo dichiarare con sentenza “non doversi procedere per l’esistenza del Segreto di Stato”.

Al di fuori di una simile eventualità, il processo potrà proseguire “in base a elementi autonomi e indipendenti” dagli atti “coperti
dal segreto”.

Naturalmente il processo proseguirà quando il Presidente del Consiglio dei ministri neghi la sussistenza di un tale segreto o
non ne dia conferma entro 30 giorni dalla richiesta, permettendo all’autorità giudiziaria di provvedere per l’ulteriore corso
del procedimento.

Qualora il conflitto viene risolto nel senso della insussistenza del segreto, il presidente del Consiglio dei ministri non può più
opporlo “con riferimento al medesimo oggetto”, sicché il procedimento potrà proseguire senza ulteriori intoppi.

Se, invece, il conflitto viene risolto nel senso della sussistenza del predetto segreto, l’autorità giudiziaria non può “né acquisire,
né utilizzare” gli atti o i documenti rispetto ai quali il medesimo segreto sia stato opposto.

L’art 204 (Esclusione del segreto) vieta che possano venire opposti il segreto di ufficio e di Stato su fatti, notizie e documenti
“concernenti” reati diretti all’eversione dell’ordinamento costituzionale.

Del provvedimento di rigetto di tale eccezione viene data comunicazione al presidente del Consiglio, per consentirgli le
opportune iniziative in caso di contrasto con le valutazioni operate dal giudice.

In tali ipotesi si attribuisce al presidente del Consiglio il potere di “confermare” il segreto con “atto motivato”, quando
ritenga che il fatto, la notizia o il documento coperto dal segreto di Stato “non concerne il reato per cui si procede”.

Mancando una tale conferma, nei 30 giorni successivi alla prevista comunicazione, il giudice potrà procedere al sequestro del
documento o all’esame del soggetto interessato.

In ultima analisi, riveste importanza il trattamento processuale della testimonianza falsa/reticente:

 escludendo qualsiasi rapporto di pregiudizialità del relativo procedimento rispetto al procedimento principale e, dal
divieto di arresto in udienza per il testimone

Art 207  Testimoni sospettati di falsità o reticenza. Testimoni renitenti.

Il vecchio codice di procedura prevedeva il meccanismo dell’arresto del “falso” testimone in udienza.

Il nuovo codice ha escluso simili situazioni:


 il persistente ingiustificato rifiuto di rispondere provoca solo l’immediata trasmissione degli atti al P.M. (dunque
apertura immediata di un nuovo procedimento a carico del teste reticente),

 mentre il sospetto di una falsa testimonianza potrà essere, da parte del giudice, oggetto di apposita comunicazione
al P.M. solo in sede di conclusione del grado di giudizio.

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9. L’esame delle parti. Capo II (Art 208-210)


Il nuovo istituto dell’esame delle parti (art 208-210), a differenza della testimonianza, che per il teste è attività doverosa, è un
mezzo di prova che si assume su base volontaria: la parte privata non può essere sottoposta ad esame se non ne fa richiesta o
non vi consente.

Art 208  Richiesta dell’esame


“Nel dibattimento, l’imputato, la parte civile che non debba essere esaminata come testimone, il responsabile civile e la
persona civilmente obbligata per la pena pecuniaria sono esaminati se ne fanno richiesta o vi consentono”.

Ovviamente, manifestata la propria volontà favorevole all’esame, la parte sottopostavi (innanzitutto, l’imputato) perde la
possibilità di esercitare senza pregiudizio la strategia del silenzio.

La scelta (dell’imputato) del rifiuto all’esame non è del tutto libera in riferimento all’esame sul fatto proprio, ma deve
inquadrarsi nella particolare prospettiva dell’onere.

Nel caso di esame sul fatto altrui anche all’imputato deve applicarli la disciplina ex art 210 sempre che non abbia assunto la
figura di “testimone assistito”.

Sebbene non si parli (al contrario di quel che accade al testimone) di un obbligo “rispondere secondo verità alle domande che gli
sono rivolte”, non è prevista alcuna formale attribuzione alla parte esaminata della facoltà di non rispondere.

Art 209  Regole per l’esame


“All’esame delle parti si applicano le disposizioni previste ex art 194, 198 co.2 e 499 e, se è esaminata una parte diversa
dall’imputato, quelle previste ex art 195”. (co.1)

Se la parte rifiuta di rispondere a una domanda, ne è fatta menzione nel verbale. (co.2)

Un eventuale atteggiamento negativo (co.2 art 209) assumerà valore anche sul piano probatorio, essendo quel verbale
destinato a confluire nel fascicolo dibattimentale, e dunque tra le prove utilizzabili per la decisione ex art 526.

Rimane fermo, come per il testimone, l’esplicito riconoscimento della facoltà di non rispondere, tutte le volte in cui dalla
risposta potrebbe “emergere una sua responsabilità penale” (art 198 co.2 e 209 co.1).

Invece, per le regole di esclusione dettate in materia di testimonianza indiretta, esse risultano richiamate solo con riguardo
all’esame delle parti diverse dall’imputato (art 195 e 209 co.1), essendo preferibile acquisire al processo tutte le informazioni a
sua conoscenza, salvo poi al giudice il potere di valutarne la credibilità, anche tenendo conto della loro eventuale provenienza da
altre persone.

Art 210  Esame di persona imputata in un procedimento connesso


“Nel dibattimento, le persone imputate in un procedimento connesso ex art 12 co.1 lettera c, nei confronti delle quali si
procede o si è proceduto separatamente e che non possono assumere l’ufficio di testimone, sono esaminate a richiesta di
parte, o nel caso indicato nell’art 195, anche di ufficio. (co.2)

Esse hanno l’obbligo di presentarsi al giudice, il quale, ove occorra, ne ordina l’accompagnamento coattivo. Si osservano le
norme sulla citazione dei testimoni. (co.2)

Le persone indicate nel co.1 sono assistite da un difensore che ha diritto di partecipare all’esame. In mancanza di un difensore
di fiducia è designato un difensore di ufficio. (co.3)

Prima che abbia inizio l’esame, il giudice avverte le persone indicate nel co.1, che, salvo quanto disposto ex art 66 co.1, esse
hanno facoltà di non rispondere. (co.4)

All’esame si applicano le disposizioni previste ex art 194, 195, 498, 499 e 500. (co.5)

Le disposizioni dei commi precedenti si applicano anche alle persone imputate in un procedimento connesso ex art 12 co.1
lett.c, o di un reato collegato ex art 371 co.2 lett.b, che non hanno reso in precedenza dichiarazioni concernenti la
responsabilità dell’imputato.
Tuttavia, a tali persone è dato l’avvertimento ex art 64 co.3 lett c, e, se esse non si avvalgono della facoltà di non rispondere,
assumono l’ufficio di testimone.
Al loro esame si applicano, in tal caso, oltre alle disposizioni ex co.5, anche quelle previste ex art 197bis e 497.” (co.6)
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Le similitudini rispetto alla prova testimoniale si limitano all’obbligo di presentazione e al potere del giudice di ottenere, con
l’assistenza della forza pubblica, la presenza in dibattimento.

L’imputato di reato connesso o collegato, essendo parte, sebbene in separato processo, ha la facoltà di non rispondere (e di ciò
deve essere avvertito, a cura del giudice);

inoltre, non ha, al contrario del testimone, l’obbligo di dire la verità, pertanto non è tenuto a prestare giuramento;

viene esaminato con l’assistenza di un difensore (di fiducia o, in mancanza, d’ufficio).

10. Confronti, ricognizioni ed esperimenti giudiziali. Capo III-V (Art 211-219)


Capo III  Confronti (art 211-212)

Art 211  Presupposti del confronto


“Il confronto è ammesso solo fra persone già esaminate o interrogate, quando vi è disaccordo fra esse su fatti e circostanze
importanti”. (co.1)

Le dichiarazioni divergenti che giustificano il confronto devono riguardare temi di prova centrali della vicenda per cui il
processo è in corso e le persone tra le quali il confronto si celebra devono già essere state sentite separatamente l’una dall’altra.

Il confronto può aver luogo anche nel corso delle indagini preliminari (art 370 “Atti diretti e atti delegati”), sebbene senza la
valenza probatoria propria dell’atto assunto in dibattimento.

Art 212  Modalità di confronto


“Il giudice, richiamate le precedenti dichiarazioni ai soggetti tra i quali deve svolgersi il confronto, chiede loro se le confermano
o le modificano, invitandoli, ove occorra, alle reciproche contestazioni”. (co.1)

“Nel verbale è fatta menzione delle domande rivolte dal giudice, delle dichiarazioni rese dalle persone messe a confronto e di
quanto altro è avvenuto durante il confronto”. (co.2).

Capo IV  Ricognizioni (art 213-217)

Tale disciplina, sia che abbia ad oggetto le persone (art 213) o le cose (art 215), si caratterizza per l’accuratezza e analiticità
della descrizione degli adempimenti preliminari e dei modi di svolgimento dell’atto (art 214) a causa di una certa diffidenza
legislativa verso l’attendibilità dei risultati di questo delicato mezzo di prova.

Si prevede che sia causa di nullità anche la semplice mancata menzione, in sede di verbale, dell’osservanza delle forme
prescritte per scandire la relativa procedura, dai suoi preliminari alla vera e propria attività ricognitiva (art 213 co.3, 214 co.3
e 215 co.3).

Il giudice è attribuito del potere-dovere di adottare le necessarie cautele volte ad impedire che la persona chiamata ad
effettuare la ricognizione possa subire intimidazioni da parte di quella sottoposta all’atto, disponendo che l’atto stesso “sia
compiuto senza che quest’ultima possa vedere la prima” (art 214 co.2 “Svolgimento ricognizione”).

Art 216  Altre ricognizioni


“Quando dispone la ricognizione di voci, suoni o di quanto altro può essere oggetto di percezione sensoriale, il giudice
procede osservando le disposizioni ex art 213, in quanto applicabili. (co.1)

Si applicano le disposizione dell’art 214 co.3.” (co.2).

Sia nel caso di confronti, sia nel caso delle ricognizioni la persona chiamata a compiere l’atto viene a trovarsi nella condizione di
dover rilasciare dichiarazioni che sono assimilabili per il loro contenuto informativo a quelle rese dall’imputato in sede di
interrogatorio o di esame ex art 503 (L’esame delle parti private) o, rispettivamente, dal testimone in sede di sommarie
informazioni o di esame ex art 500 (Contestazioni nell’esame testimoniale).

Quando si tratta dell’imputato, nei suoi riguardi operano le garanzie del principio “nemo tenetur se degetere”, riconoscendogli
il diritto a non collaborare allo svolgimento dell’atto o della facoltà di non rispondere alle domande che gli vengano rivolte.

Stesse garanzie valgono per i coimputati dello stesso reato, nonché degli imputati di un procedimento connesso o collegato.
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Capo V  Esperimenti giudiziali

Si tratta di mezzo di prova finalizzato ad accertare se un fatto “sia o possa essere avvenuto in un determinato modo”,
attraverso la riproduzione della situazione e la ripetizione delle modalità relative al suo presumibile svolgimenti (art 218
“Presupposti dell’esperimento giudiziale”).

La preoccupazione del legislatore si è appuntata sull’esigenza di una maggiore specificazione in ordine alle forme da osservarsi
per fare luogo alla relativa procedura, come disposto ex art 219.

Rimane confermato l’obbligo del giudice di provvedere affinché l’esperimento possa regolarmente svolgersi senza offendere
“sentimenti di coscienza”, e senza esporre a pericolo “l’incolumità delle persone o la sicurezza pubblica”.

11. La perizia. Capo VI (Art 220-233)


La disciplina della perizia (art 220-233) è collocata tra i mezzi di prova.

L’art 220 ne disciplina l’oggetto, definendone il presupposto di ammissibilità.

Art 220  Oggetto della perizia


“La perizia è ammessa quando occorre svolgere indagini o acquisizioni dati o valutazioni che richiedono specifiche
competenze tecniche, scientifiche o artistiche. (co.1)

Salvo quanto previsto ai fini dell’esecuzione della pena o misura di sicurezza, non sono ammesse perizie per stabilire
l’abitualità o professionalità nel reato, la tendenza a delinquere, il carattere e la personalità dell’imputato e in genere le
qualità psichiche indipendenti da cause patologiche.” (co.2)

Le risultanze dell’indagine peritale sono, a loro volta, soggette (come ogni strumento a contenuto probatorio) alla valutazione
del giudice, il quale non è vincolato dal risultato della perizia, potendo distaccarsene.

Ciò è possibile solo all’interno del principio del libero convincimento, rettamente inteso:

 Non potendo supplire, con la sua scienza privata, alla soluzione di eventuali problemi di natura tecnica, scientifica o
artistica che si dovessero profilare al fine della decisione, il giudice potrà distaccarsi dalle conclusioni adottate dal
perito, purché sia in grado di darne adeguata motivazione.

Ai sensi del regolamento di polizia mortuaria, se nel corso di un’autopsia non ordinata dall’a.g. emerge il “sospetto che la
morte sia dovuto a reato”, il medico settore deve “sospendere le operazioni e darne immediata comunicazione all’a.g.”.

Quando il giudice accerti la sussistenza di una delle necessità ex art 220 co.1, egli sarà obbligato ad ammettere e disporre la
perizia anche d’ufficio come dispone l’art 224 co.1 (Provvedimenti del giudice), dandone ordinanza e indicando accanto alla
nomina del perito, anche la “sommaria enunciazione dell’oggetto delle indagini”.

In relazione alla tematica dell’incapacità, incompatibilità ed astensione del perito (art 222, 223) emerge solo la necessità di
assicurare un adeguato livello di specifica qualificazione delle persone cui la perizia venga affidata.

La nomina del perito avviene tra i soggetti iscritti negli appositi albi o tra le persone fornite di particolar competenza nella
specifica disciplina. (art 221 “Nomina del perito”).

Circa le ulteriori sequenze procedurali, l’art 224 co.2 attribuisce al giudice il potere di adottare ogni altro provvedimento
necessario per l’esecuzione delle relative operazioni, escludendo le misure incidenti sulla libertà personale dell’imputato o
persone terze, salvo quelle previste ex lege.

A tal proposito, nel 1996 la Corte Cost. ha dichiarato illegittimo costituzionalmente tale comma, nella parte in cui permetteva
di ricavare la possibilità per il giudice di disporre eventuali prelievi coattivi di sangue, o altro materiale organico, qualora
fosse necessario per lo svolgimento della perizia. Es. Test del DNA.

Di conseguenza, è stato emano un nuovo articolo, il 224bis destinato a disciplinare i provvedimenti del giudice in caso di
perizie “che richiedono il compimento di atti idonei ad incidere sulla libertà personale”; laddove mancasse il consenso della
persona interessata, il giudice potrà disporre l’esecuzione coattiva sempreché risulti indispensabile per la prova dei fatti.

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La suddetta ordinanza dovrà contenere, oltre alle generalità della persona da sottoporre a perizia, anche l’indicazione delle
ragioni che rendono “assolutamente indispensabile” procedere, unitamente all’avviso della facoltà riconosciuta alla stessa
persona di farsi assistere da un difensore o persona di fiducia.

Lo svolgimento delle operazioni peritali non deve porsi in contrasto con la legge, né “mettere in pericolo la vita, l’integrità
fisica o la salute della persona o nascituro” e né devono provocare “sofferenze di non lieve entità”, salvo restando il rispetto
della dignità e pudore del sottopostovi.

Quando la persona (invitata a presentarsi per la perizia) non compaia senza motivazione alcuna, il giudice potrà disporne
l’accompagnamento coattivo;
quando, invece, sia comparsa, ma si rifiuti di prestar consenso, il giudice potrà disporre l’esecuzione in forma coattiva nel
rispetto della legge e in proporzione allo scopo.

In ogni caso, l’atto peritale è nullo quando la persona che vi è sottoposta non sia assistita da difensore, ove nominato (si
tratta di una nuova ipotesi di assistenza difensiva obbligatoria, la cui violazione dà luogo a nullità assoluta).

Tornando alla perizia, una volta che il giudice abbia conferito l’incarico, e formulato i relativi quesiti (art 226 “Conferimento
dell’incarico”) iniziano le attività peritali.

Ai sensi dell’art 228 (Attività del perito), il perito può essere autorizzato dal giudice ad assistere all’esame delle parti ed
all’assunzione di altre prove, mentre potrà visionare atti e cose prodotte dalle parti solo nei limiti in cui i medesimi siano
acquisibili al fascicolo dibattimentale.

Ai sensi del co.3 art 228, il perito potrà raccogliere notizie dall’imputato, dall’offeso o anche da “altre persone”, ma tali notizie
potranno essere utilizzati “solo ai fini dell’accertamento peritale”.

Quanto alla relazione finale della perizia, il perito risponde immediatamente ai quesiti propostigli e in forma orale con
“parere raccolto nel verbale”, salvo al giudice il potere di autorizzare anche la presentazione di una relazione scritta, ove la
stessa risulti indispensabile per illustrare il suddetto parere.

Se non in grado di fornire una risposta immediata (salvo sempre la sostituzione del perito ex art 231), si prevede la
concessione di un termine massimo di 90 giorni, ma prorogabile fino a 6 mesi nel caso di “accertamenti di particolare
complessità” entro il quale dovrà fornire il parere (art 227 “Relazione peritale”)

La presumibile durata dell’accertamento peritale può assumere presupposto di ammissibilità dell’incidente probatorio,
essendo previsto ex art 392 co.2 (Casi incidente probatorio) che in tal sede possa farsi luogo a perizia la medesima, se fosse
disposta nel dibattimento, ne potrebbe determinare “una sospensione superiore a 60 giorni”.

Circa la “tutela dei diritti delle parti rispetto alle perizie”, viene disciplinata la partecipazione dei consulenti tecnici (nominabili
in numero non superiore a quello dei periti, sia dal p.m., sia dalle parti private) lungo l’intero arco di svolgimento della perizia,
fin dal momento della formulazione dei quesiti.

Si potrà sottoporre ad esame, in sede dibattimentale, tanto i periti, quanto i consulenti tecnici, secondo le disposizioni
dettate per i testimoni (art 501 “Esame dei periti e consulenti tecnici”).

Circa le modalità di intervento dei consulenti tecnici, essi sono autorizzati ad assistere al conferimento dell’incarico e a
partecipare a tutte le operazioni peritali: formulando osservazioni e riserve, ma anche proponendo al perito lo svolgimento di
specifiche indagini, dandosene atto in sede di relazione (art 230 “Attività dei consulenti tecnici”).

L’art 233 disciplina la possibilità di nomina e intervento dei consulenti tecnici delle parti fuori dei casi di perizia, con
l’attribuzione a tali consulenti del potere di esporre al giudice il proprio parere su singole questioni, attraverso
eventualmente, presentazione di memorie ex art 121 (Memorie e richieste delle parti).

Qualora successivamente alla nomina del consulente tecnico il giudice decidesse di disporre perizia, al medesimo consulente
sarebbero riconosciuti diritti e facoltà (art 233 co.2).

Se la perizia non venisse disposta, il consulente può di propria iniziativa svolgere le indagini e accertamenti consentitegli
dall’oggettiva disponibilità di persone, cose o luoghi assunti come oggetto della consulenza; fornendo alla parte interessata gli
apporti tecnici necessari per gli ulteriori sviluppi processuali, ma anche di porre il giudice in condizione di non poter discostarsi
dal contenuto del parere (e delle eventuali memorie) che gli vengano presentate.
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12. La prova documentale. Capo VII (Art 234-243)


La disciplina della prova documentale (art 234-243) è contenuta nel Capo VII, e raggruppa i concetti che riguardano la nozione di
“documento”.

È utile la distinzione dell’area dei:


 “Documenti” in senso stretto  formati fuori dall’ambito processuale, nel quale vi entrano per acquisire rilevanza
probatoria. È solo a questa categoria che si riferisce la disciplina della prova documentale.

 “atti”  formati all’interno del procedimento, e rappresentativi di quanto vi sia accaduto. Es. i verbali.

Art 234  Prova documentale


“È consentita l’acquisizione di scritti o altri documenti che rappresentano fatti, persone o cose mediante la fotografia, la
cinematografia, la fonografia o qualsiasi altro mezzo. (co.1)

Quando l’originale di un documento del quale occorre far uso è per qualche causa distrutto, smarrito o sottratto e non è
possibile recuperarlo, può esserne acquisita copia. (co.2)

È vietata l’acquisizione di documenti che contengano informazioni sulle voci correnti nel pubblico intorno ai fatti di cui si
tratta nel processo o sulla moralità in generale delle parti, dei testimoni, dei consulenti tecnici e dei periti.” (co.3)

Tale norma chiarisce che per l’ammissione della prova documentale è necessario che il documento risulti formato
materialmente fuori dal processo, ma non necessariamente prima del procedimento e che l’oggetto della documentazione
attenga al contesto del fatto oggetto del processo.

È sempre ammessa l’acquisizione dei documenti necessari al giudizio sulla personalità dell’imputato e, se del caso, della
persona offesa dal reato, ricomprendendovi anche quelli esistenti presso gli uffici pubblici di servizio sociale e presso gli uffici di
sorveglianza (art 236 co.1 “Documenti relativi al giudizio sulla personalità”)

Ai sensi del co.2 art 236, i certificati del casellario giudiziario e le sentenze irrevocabili possono venir acquisiti anche per
valutare la credibilità dei testimoni.

Di recente, nel 2015 è stato inserito il nuovo art 234bis che consente l’acquisizione di documenti e dati informatici conservati
all’estero, anche diversi da quelli disponibili al pubblico, previo consenso del legittimo titolare.

I documenti costituenti corpo del reato (a differenza dei documenti come ordinario mezzo di prova) hanno un regime
differenziato. Ad essi non si applica la disciplina dei mezzi di prova, e viene stabilito che i medesimi “devono essere acquisiti
qualunque sia la persona che li abbia formati o detenga” anche d’ufficio (art 235 “Documenti costituenti corpo del reato”).

Normativa ad hoc è dettata per i documenti proveniente dall’imputato, nel senso che di essi è sempre consentita l’acquisizione
“anche di ufficio”, sebbene si tratti di documenti sequestrati presso altri o da altri prodotti (art 237 “Acquisizione di documenti
provenienti dall’imputato”).

Per riconosce la provenienza dei documenti, al fine di tal verifica il documento viene sottoposto per il riconoscimento alle
parti private ed ai testimoni (art 239 “Accertamento provenienza dei documenti”).

Ai documenti anonimi, invece, viene confermata la classica regola di esclusione, dunque “essi non possono essere acquisiti,
né utilizzati” a meno che “costituiscano corpo del reato o provengano dall’imputato” (art 240 “Documenti anonimi ed atti
relativi ad intercettazioni illegali”).

I commi successivi ex art 240 disciplinanti “i documenti, supporti o atti…..illegalmente formati o acquisiti” prevedono che di
tali documentazioni/supporti/atti il P.M debba disporre l’immediata secretazione e custodia in luogo protetto, stabilendo
che di essi sia vietato farne copia e che “il loro contenuto non può essere utilizzato” salva la sua utilizzabilità come notizia di
reato (art 240 co.2)

Nell’arco di termini molto brevi il P.M. deve chiedere al giudice per le indagini preliminari la distruzione dei suddetti
materiali; verrà redatto a termine dell’operazione apposito verbale dove verrà dato atto anche “dell’avvenuta intercettazione
o detenzione o acquisizione illecita” dei materiali in discorso.

Ne risulta, quindi, delineata una procedura di eliminazione anticipata della prova (sospetta di forte incostituzionalità per
carenza dei valori ex art 24 co.2, art 111 co.2 e 4, e art 112 Cost.
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Quanto all’ipotesi di falsità dei documenti (salvo il caso in cui accertata e dichiarata con sentenza di condanna o di
proscioglimento ex art 537) la disciplina è regolata dall’art 241.

Art 241  Documenti falsi


“Fuori dei casi previsti ex art 537, il giudice, se ritiene la falsità di un documento acquisito al procedimento, dopo la definizione
di questo, ne informa il p.m. trasmettendogli copia del documento.” (co.1)

Il nuovo codice di procedura non ha riproposto il vecchio istituto del c.d. incidente di falso, apparso incompatibile con il nuovo
assetto dei rapporti tra giudizi; dunque, coerentemente con quanto stabilito ex art 2 (“Cognizione del giudice”), si è conferito al
giudice il potere di risolvere autonomamente la questione sulla falsità, con efficacia incidenter tantum.

Ogni questione da cui dipenda la pronuncia sulla res iudicanda (compresa quella relativa al falso documentale), deve essere
definita nel processo in corso, senza necessità di sospensione. Tuttavia, l’accertamento incidentale è vincolante nel solo
processo nel quale è stato compiuto.

In capo al giudice che abbia disatteso il contenuto del documento, ritenendolo falso, permane il dovere di informare il p.m.
della relativa notizia di reato.

Risalto assume la disciplina ex art 238 (“Verbali di prove di altri procedimenti”) per regolare l’ingresso nell’ambito
processuale dei verbali relativi alle prove di altri procedimenti, qui considerati come documenti in ragione della loro
provenienza eb externo rispetto al processo nel quale dovrebbero venire acquisiti.

L’acquisizione dei verbali di prove è ammessa secondo i normali criteri di legge, solo quando si tratti di prove assunte
nell’incidente probatorio o nel dibattimento (art 238 co.1 e 2), mentre la stessa regola non vale per i verbali di cui sia stata
data lettura in sede dibattimentale.

Nel caso di acquisizione di verbali di prove ex co.1 e 2 art 238, ove si tratti di verbali recanti dichiarazioni, essi sono utilizzabili
solo contro gli imputati i cui difensori abbiano partecipato alla loro assunzione (co. 2-bis art 238).

Inoltre, è sempre ammessa l’acquisizione della documentazione di atti che non sono ripetibili. Se la ripetizione dell’atto è
divenuta impossibile per fatti o circostanze sopravvenuti, l’acquisizione è ammessa se si tratta d fatti o circostanze
imprevedibili (co.3 art 238).

Al di fuori delle ipotesi su prescritte, i verbali di dichiarazioni possono essere utilizzati nel dibattimento soltanto nei confronti
dell’imputato che vi consenta; in mancanza di consenso, detti verbali possono essere utilizzati per le contestazioni previsti ex
art 500 e 503 (co.4 art 238).

Salvo quanto previsto ex art 190bis (“Requisiti della prova in casi particolari”), resta fermo il diritto delle parti di ottenere ex
art 190 l’esame delle persone le cui dichiarazioni sono state acquisite ex co.1,2,2bis e 4 del presente articolo. (co.5 art 2380).

Inoltre, ex art 238bis (“Sentenze irrevocabili”) è sempre consentita l’acquisizione delle sentenze irrevocabili, ai fini della prova
dei fatti in esse accertati, e sono valutate ex art 187 e 192 co.3.

Tale rilevanza probatoria, deve essere valutata anche in base ad elementi di riscontro: infatti è presente il richiamo all’art 192
co.3, la cui ratio risiede nell’intento di non disperdere gli elementi conoscitivi acquisiti in provvedimenti che hanno acquisiti
comunque il valore di cosa giudicata, fermo restando il principio del libero convincimento del giudice.

Per la disciplina della modalità di introduzione nel processo delle prove documentali, va ricordata la regola desumibile ex art
495 (“Provvedimenti del giudice in ordine alla prova”) e 515 (“Allegazione di atti al fascicolo per il dibattimento”).

In particolare, dopo che siano stati ammessi su richiesta delle parti, i documenti dovranno essere inseriti nel fascicolo per il
dibattimento e, quindi, potranno considerarsi legittimamente acquisiti.

Quanto alle fasi anteriore al dibattimento, rilevante è la disciplina dell’avviso di conclusione delle indagini preliminari (art
415bis), nonché all’udienza preliminare, in vista della quale si stabilisce che anche il difensore dell’imputato possa “produrre
documenti”, i quali dovranno essere ammessi dal giudice prima dell’inizio della discussione.

Conclusasi l’udienza preliminare con il rinvio a giudizio, tra i documenti acquisiti in precedenza sono destinati a confluire nel
fascicolo per il dibattimento solo i certificati del casellario giudiziale ed i restati atti ex art 236, mentre tutti gli altri documenti
già raccolti dal p.m nel corso delle indagini entreranno a far parte del fascicolo del p.m. formato ex art 433.

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13. Ispezioni e perquisizioni. TITOLO III Capo I-II (Art 244-252)


Disciplinando, adesso, i mezzi di ricerca della prova (Titolo III), il codice tratta nel Capo I e II di due tipici atti “a sorpresa”:

1) Le ispezioni (art 244-246)  dirette ad accertare sulle persone, nei luoghi o nelle cose “le tracce e gli altri effetti
materiali del reato”.

2) le perquisizioni (art 247-252)  dirette a ricercare “il corpo del reato o cose pertinenti al reato” sulle persone o in
luoghi determinati, o ad eseguire in questi ultimi “l’arresto dell’imputato o dell’evaso”.

Entrambe attribuiti ai poteri dell’autorità giudiziaria (dunque non solo giudice, ma anche p.m.).

Ciò vale anche per il sequestro (art 253-236 Capo III).

I due istituti trattati hanno una forte incidenza sui diritti di libertà tutelati costituzionalmente ex art 13 e 14 Cost.

Il che si traduce in un rafforzamento della dimensione garantistica delle previsioni ad essi collegate, a cominciare dalla stessa
necessità del decreto motivato dell’a.g. come presupposto per l’esercizio di tali poteri.

Con la modifica del 2008, sia le perquisizioni che le ispezioni possono avere ad oggetto anche sistemi informatici o telematici.

Art 245  Ispezione personale


“Prima di procede all’ispezione personale l’interessato è avvertito della facoltà di farsi assistere da persona di fiducia, purché
questa sia prontamente reperibile e idonea ex art 120 (“Testimoni ad atti del procedimento”). (co.1)

L’ispezione è eseguita nel rispetto della dignità e, nei limiti del possibile, del pudore di chi vi è sottoposto. (co.2)

L’ispezione può essere eseguita anche per mezzo di un medico. In questo caso l’a.g. può astenersi dall’assistere alle operazioni.
(co.3)

Circa l’ispezione di luoghi o cose ex art 246, va sottolineata la garanzia rappresentata dalla consegna del correlativo decreto
all’imputato (prima dell’inizio delle operazioni) ed alla persona titolare della disponibilità dei luoghi, sempreché siano presenti.

L’autorità giudiziaria ha il potere di impedire l’allontanamento di una o più persone dai luoghi dell’ispezione, prima della loro
conclusione, e di farvele ricondurre se del caso in forma coattiva, in entrambe le ipotesi con provvedimento motivato da
ricomprendersi nel verbale (art 246);

l’autorità ha anche il potere di disporre rilievi segnaletici, descrittivi e fotografici, insieme ad ogni altra necessaria operazione
tecnica (art 244 co.2).

2) In materia di perquisizioni l’autorità giudiziaria procede personalmente, salva la possibilità di delegarvi un ufficiale di polizia
giudiziaria.

Il legislatore ha posto garanzie a tutela delle persone interessate, in materia sia di perquisizioni personali (art 249), sia
perquisizioni locali (art 250), ricalcando quanto dettato per le ispezioni.

Art 251  Perquisizioni nel domicilio. Limiti temporali


“La perquisizione in un’abitazione o nei luoghi chiusi adiacenti ad essa non può essere iniziata prima delle ore 7:00 e dopo le
ore 20:00. (co.1)

Tuttavia, nei casi urgenti l’autorità giudiziaria può disporre per iscritto che la perquisizione sia eseguita fuori suddetti limiti
temporali. (co.2)

Tale limite temporale, fissato per la perquisizione domiciliare rispetta il principio della privata dimora ex art 14 Cost.

Viene poi enunciato in termini generali (sia per perquisizione locale che domiciliare) il principio della “richiesta di consegna”
come attività prodromica rispetto alla perquisizione, quando si ricerchi una cosa determinata (se tale cosa viene consegnata in
adesione all’invito dell’autorità procedente, la perquisizione potrà essere evitata, sempreché non sia utile procedervi “per la
completezza delle indagini”) (art 248 co.1).

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Con riferimento ad “atti, documenti e corrispondenza presso banche”, l’A.G. può procedere al loro esame (eventualmente
dopo averne chiesto l’esibizione), quando si tratti di “rintracciare cose da sottoporre a sequestro” o di “accertare circostanze
utili per l’indagine”.

Tale disposizioni non si applica quando i responsabili di tali istituti rifiutino il loro consenso: in tal caso l’A.G. (e solo lei, non la
p.g.) dovrà necessariamente procedere a perquisizione (art 248 co.2)

Per quanto riguarda la disciplina delle ispezioni e perquisizioni presso gli uffici dei difensori, si caratterizza per la previa
necessità che ne venga avvisato il locale consiglio dell’ordine forense, affinché il presidente o un suo delegato possa assistere
alle operazioni.

Identiche modalità procedurale sono disposte anche per il sequestro, con la precisazione che presso i difensori ed i consulenti
tecnici non si può procedere a sequestro di “carte o documenti relativi all’oggetto della difesa, salvo che costituiscano corpo del
reato”.

Sono inoltre vietati il sequestro ed ogni altra forma di controllo della corrispondenza tra imputato e suo difensore,
sempreché l’A.G. non abbia “fondato motivo di ritenere che si tratti di corpo del reato”;

sono vietate anche le intercettazioni di conversazioni e di comunicazione dei difensori, dei consulenti tecnici e loro ausiliari,
nonché quelle tra i medesimi ed i loro assistiti.

Il legislatore ha stabilito espressamente, nell’ultimo co. Art 103 che i risultati delle ispezioni, perquisizione, sequestri e
intercettazioni eseguiti in violazione delle precedenti disposizioni non possono venire utilizzati, con l’unica eccezione
rappresentata dall’ipotesi in cui costituiscano corpo del reato.

Da ricordare, ci sono alcune figure particolari di perquisizione consentite agli organi di polizia giudiziaria ex leggi speciali,
quando durante operazioni dirette alla prevenzione/repressione di determinati delitti, si verificano situazioni di necessità ed
urgenza tali da non permettere un tempestivo intervento dell’A.G.

Quando tali operazioni riguardano il traffico illecito di stupefacenti, la P.G. può procedere a perquisizioni, ove abbia il
fondato motivo di ritenere che possano essere rinvenute sostanze stupefacenti.

Inoltre, la P.G. ha il potere, in situazioni di necessità ed urgenza, di procedere ad “immediata perquisizione sul posto” di
persone e di mezzi di trasporto “al solo fine di accertare l’eventuale possesso di armi, strumenti di effrazione ed esplosivi”;

mentre è stato attribuito ai solo ufficiali di P.G. il potere di procedere a perquisizioni locali anche di “interi edifici o blocchi di
edifici” quando via sia il fondato motivo di ritenere che vi si trovino armi o che vi sia rifugiato un latitante od evaso in
relazione ad alcuni delitti con finalità di terrorismo o ex art 51 co.3bis.

In tutte le suddette ipotesi particolari di perquisizione di polizia, si prevede che delle relative operazioni compiute venga data
tempestiva notizia al Procuratore della Repubblica per l’eventuale convalida delle stesse, che dovrà sopravvenire entro le
successive 48 ore, affinché i risultati possano venire utilizzati nel procedimento.

14. Il sequestro. Capo III (Art 253-265)


Il sequestro penale (art 253-263) è un particolare mezzo di acquisizione della prova, dunque va tenuto distinto dal sequestro
cautelare, che ubbidiscono ad esigenze diverse (“conservativo” o “preventivo”).

Art 253  Oggetto e formalità del sequestro


“L’A.G. dispone con decreto motivato [354] il sequestro del corpo del reato o delle cose pertinenti al reato necessarie per
l’accertamento dei fatti [187]. (co.1)

Sono corpo del reato le cose sulle quali o mediante le quali il reato è stato commesso, nonché le cose che ne costituiscono il
prodotto, il profitto o il prezzo. (co.2)

Al sequestro procede personalmente l’A.G. o un ufficiale di P.G. delegato con lo stesso decreto. (co.3)

Copia del decreto di sequestro è consegnata all’interessato, se presente.” (co.4)

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Il sequestro in esame viene definito probatorio ed ha come finalità l’apprensione di una cosa determinata, mobile o immobile,
per garantire al giudice il mezzo di prova.

Trattandosi di un mezzo di ricerca della prova, il sequestro probatorio è atto che si compie, in genere, nel corso delle indagini
preliminari, spesso ad esito di ispezioni o perquisizioni (logica consequenzialità tra perquisizione e sequestro), ad opera della
P.G., su delega del P.M. o, in caso di urgenza, di propria iniziativa.

Il sequestro può, anche, non esser preceduto da alcuna perquisizione.

Particolare dubbio costituzionale è sorto nell’ipotesi di perquisizione eseguita contra legem e della conseguente
inutilizzabilità come prova dei suoi risultati.

Tuttavia, le Sezioni Unite hanno ritenuto che la sanzione di inutilizzabilità non opera quando si tratta di sequestro ex art 253
del “corpo del reato” o delle “cose pertinenti al reato”, sulla base del rilievo che in tali ipotesi debba reputarsi irrilevante il
modo in cui si sia pervenuti, e debba invece prevalere l’obbligo dell’autorità di disporre il sequestro.

Discipliniamo, ora, alcune fattispecie peculiari di sequestro (prescindendo da quello presso i difensori, trattati prima).

Sequestro di corrispondenza

L’art 254 prevede la sequestrabilità negli uffici postali di lettere, pieghi, pacchi e di ogni altro oggetto presumibilmente
spedito all’imputato o a lui diretto, o che possa avere relazione con il reato.

Il co.3 impone la immediata restituzione all’avente diritto delle carte e dei documenti sequestrati, laddove si accerti ex post
la loro estraneità all’ambito della corrispondenza suscettibile di sequestro con la previsione dell’inutilizzabilità dei medesimi
sul piano probatorio.

Nel 2008, con l’aggiunta dell’art 254bis il sequestro è stato esteso anche ai dati informatici, telematici o di
telecomunicazione, la cui acquisizione deve avvenire con copia di essi su un adeguato supporto

Sequestro presso istituti bancari

L’unica peculiarità ex art 255 consiste nella possibilità che l’esecuzione di tale atto venga delegata agli organi di P.G., in linea
con la già richiamata possibilità di delega agli stessi del potere di esaminare “atti, documenti e corrispondenza presso
banche”.

Presso le banche possono venire sequestrati documenti, titoli, valori, somme ed ogni altra cosa, ancorché depositata o
contenuta in cassette di sicurezza, quando si abbia fondato motivo di ritenere la loro pertinenza al reato, indipendentemente
dal fatto che appartengano all’imputato o siano iscritti a suo nome.

Dunque, è ribadita l’insussistenza del segreto bancario di fronte al potere di sequestro dell’A.G.

Rapporti tra sequestro e segreti (rilevanti nella disciplina della prova testimoniale, per l’esenzione dell’obbligo)

Non vi è molto da aggiungere, essendo state già ricalcate le linee della normativa già dettata per i rapporti tra segreti e
testimonianza, sulla base del generale “dovere di esibizione” imposto alle persone indicate ex art 200 e 201, quando venga
loro richiesta dall’A.G. la consegna di atti, documenti e di ogni altra cosa di cui abbiano la disponibilità “per ragioni del loro
ufficio, incarico, ministero, professione o arte”.

A meno che le medesime persone vi si oppongano, dichiarando per iscritto il vincolo derivante da un segreto professionale, o
d’ufficio, o da segreto di Stato (art 256 co.1 “Dovere di esibizione e segreti”).

Ove l’opposizione si riferisca all’esistenza di un segreto, e l’A.G. dubiti della fondatezza delle suddette dichiarazioni, la
medesima autorità potrà disporre i necessari accertamenti, a conclusione dei quali il sequestro dovrà essere ordinato, ne
caso di accertata infondatezza dell’opposizione di quei segreti (art 256 co.1 e 2).

Nel caso di opposizione del segreto giornalistico il sequestro dovrà essere ordinato in ogni caso, quando le notizie fornite
dalla fonte fiduciaria del giornalista siano indispensabili ai fini della prova del reato e la loro veridicità può essere accertata
solo attraverso la identificazione di tal fonte.

Non sono sequestrabili, come per la testimonianza, gli atti e documenti contenenti i nomi degli informatori confidenziali.
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Nel caso di opposizione del Segreto di Stato, gli adempimenti prescritti all’A.G. corrispondono a quelli ex art 202, con il
conseguente epilogo della sentenza di non doversi procedere nel caso di conferma del segreto, da parte del Presidente del
Consiglio dei Ministri, su una prova ritenuta essenziale dal giudice per la definizione del processo.

Se tale conferma non viene tempestivamente fornita, l’A.G. potrà disporre il sequestro degli stessi atti o documenti.

Con la l.124/2007 è stato inserito il nuovo art 256bis, relativo all’acquisizione, ad opera dell’A.G. di documenti presso le sedi dei
servizi di informazione per la sicurezza, nell’eventualità in cui dai responsabili dei relativi uffici non venga eccepito il Segreto di
Stato.

In tali casi, l’A.G., dopo aver proceduto con ordine di esibizione all’esame sul post dei suddetti documenti, e dopo avere
acquisito solo quelli “strettamente indispensabili” alle indagini, può rivolgersi al Pres. Del Consiglio dei Ministri, sollecitandone
una decisione, ove ritenga che i documenti esibiti non siano quelli richiesti, o siano incompleti.

Qualora il responsabile dell’ufficio detentore dei documenti da acquisire eccepisca il segreto di Stato, l’esame e la consegna
degli stessi deve venir sospesa, per farsi luogo alla loro immediata trasmissione al presidente del Consiglio dei Ministri, il quale
avrà una duplice alternativa:

 Autorizzare l’acquisizione di tali documenti, oppure


 dare conferma del segreto di Stato (salva la precisazione per cui, quando non si pronunci per tal conferma entro 30
giorni dalla trasmissione, l’A.G. potrà procedere all’atto acquisitivo).

Il decreto di sequestro (da motivare con l’enunciazione del fatto di reato e la dimostrazione della necessità per
l’accertamento) è impugnabile con richiesta di riesame.

Le cose sequestrate si assicurano con il sigillo.

La l.125/2008, in un’ottica di economica, ha consentito all’A.G. di provvedere immediatamente alla distruzione delle merci di
cui sono vietati la fabbricazione, il possesso, la detenzione o la commercializzazione.

Nel caso vengano sequestrate merci contraffatte in procedimento contro ignoti, la stessa P.G., decorsi 3 mesi, può
provvedere alla distruzione, previa comunicazione all’A.G. Ciò perché, la non identificazione dell’indagato non rende
applicabili le garanzie difensive.

Un cenno meritano le vicende estintive del sequestro, che consentono la restituzione delle cose ad esso assoggettato per il
venir meno delle esigenze probatorie che avevano determinato il provvedimento.

Ex co.1 art 262 (“Durata del sequestro e restituzione delle cose sequestrate”), quando “non è necessario mantenere il sequestro a
fini di prova”, le cose sequestrate devono essere restituite “a chi ne abbia il diritto, anche prima della sentenza”

A tale ultima regola, si collega in via derogatoria, la possibile conversione del sequestro, da misura probatoria a misura con
finalità cautelare.

Di preciso, venuto meno il presupposto probatorio del sequestro penale, il giudice potrà disporre il mantenimento del
vincolo a titolo di sequestro conservativo o preventivo (anziché ordinare la restituzione delle cose sequestrate), solo quando
abbia verificato la sussistenza dei presupposti cautelari richiesti per l’una o l’altra misura.

Tornando al procedimento per la restituzione delle cose sottoposto a sequestro penale, l’art 263, prevede che il relativo
provvedimento:

 possa venir pronunciato de plano (in assenza di istruttoria) quando non vi siano dubbi sulla loro appartenenza,

 mentre quando sorga controversia sulla proprietà delle stesse la sua risoluzione dovrà essere rimessa al competente
giudice civile, fermo restando il vincolo del sequestro.

Nel corso delle indagini preliminari, sulla restituzione delle cose sequestrate provvede il P.M con decreto motivato.

Se proposta opposizione contro tale decreto (di restituzione o che la respinge) deciderà il giudice per le indagini preliminari.

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15. Le intercettazioni di conversazioni o di comunicazioni. Capo IV (Art 266-271)


Il Libro III dedicato alle prove si conclude con il Capo IV, dedicato alle intercettazioni di conversazioni e di comunicazioni (art
266-271).

Il risalto di tali mezzi di ricerca della prova è testimoniato dalla protezione offerta ex art 15 Cost, che riconosce l’inviolabilità
della “libertà e segretezza delle comunicazioni”, limitabili solo “per atto motivato dall’A.G., con le garanzie ex lege”.

Tale istituto ha creato non poche polemiche, ed oggi, con la riforma Orlando (l.216/2017) sono stati introdotti ulteriori
strumenti di garanzia, prevenendo nuove norme che hanno come obiettivo dichiarato la tutela della riservatezza dei soggetti
intercettati (nuove norme applicabili solo dopo il 21/07/2018).

L’art 266 (“Limiti di ammissibilità”) definisce i limiti oggettivi (in riferimento alla natura ed alla gravità dei reati per i quali si
sta procedendo) entro i quali sono ammissibili le intercettazioni di conversazioni o di comunicazioni di tutte le trasmissioni
“a distanza”.

A norma del successivo art 266bis sono, inoltre, consentite le intercettazioni del flusso di comunicazioni relativo a sistemi
informatici o telematici.

Dunque, le intercettazioni sono un mezzo di ricerca della prova consistente nell’apprensione occulta, in tempo reale, del
contenuto di una comunicazione o di una conversazione in corso tra due o più persone presenti (c.d. intercettazioni
ambientali).

Tuttavia, nei luoghi di domicilio tale intercettazione è consentita solo se vi risulti in corso di svolgimento l’attività criminosa.

Delicato è l’uso a tali fini di captatori informatici (c.d. trojan virus) che, installati occultamente in un dispositivo connesso ad
internet, consentono di acquisire in tempo reale ogni sorta di dato.

Per effetto della riforma Orlando, viene aggiunto il co.2bis all’art 266 per chiarire che l’uso del captatore informatico in
dispositivi elettronici portatili è consentito, ai fini dell’intercettazione tra presenti in ambito domiciliare, soltanto se si
procede per taluno dei delitti ex art 51 co.3bis e 3quater.

Al di fuori di tale ambito procedimentale, l’uso dell’insidioso mezzo soggiace, in ambito domiciliare, al limite costituito dal
presupposto dello svolgimento in atto, in tale luogo, di attività criminosa.

Per quanto concerne i presupposti e le forme del provvedimento relativo alle operazioni di intercettazione, essi risultano
dettati ex art 267, dove è definita la scansione delle competenze.

Ex art 267, si prevede che, di regola, l’intercettazione possa venir disposta dal P.M. solo a seguito di autorizzazione da parte
del giudice per le indagini preliminari, il quale provvederà con decreto motivato quando, per “gravi motivi” di reato,
l’intercettazione risulti “assolutamente indispensabile” per la prosecuzione delle indagini.

Tuttavia, nei casi di urgenza, l’iniziativa di disporre l’intercettazione può essere direttamente assunta dal P.M. con decreto
motivato, da convalidarsi entro 48 ore ad opera del medesimo giudice mediante un proprio decreto; in assenza di convalida,
l’intercettazione non potrà essere proseguita, ed i risultati già ottenuti non potranno essere utilizzati.

Le Sezioni Unite hanno escluso la necessità di estendere all’acquisizione dei tabulati (attestanti il flusso del traffico telefonico di
una certa utenza) le garanzie dettate in tema di intercettazioni telefoniche.

Sicché, in proposito, è sufficiente il provvedimento motivato dell’A.G. impersonata dal P.M.

Per l’acquisizione di tabulati, devono essere conservati dal fornitore del servizio:
 per 24 mesi, per il traffico telefonico, dalla data della comunicazione “per finalità di accertamento e repressione dei
reati”,
 12 mesi, invece, per i dati concernenti il traffico telematico;
 Solo 30 giorni per i dati concernenti le “chiamate senza risposta”

Entro tali termini di conservazione i dati possono venire acquisiti dal P.M, con decreto motivato, anche su istanza dei difensori
delle parti.
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Resta salvo il potere del difensore dell’imputato di richiedere direttamente al fornitore i dati relativi alle utenze intestate al
proprio assistito, ex art 391-quater (Richiesta di documentazione alla pubblica amministrazione).

Da ricordare che alcuni interventi del 2015/2016, nell’ambito della lotta al terrorismo, hanno previsto tempi di conservazione
più lunghi per i dati relativi al traffico telefonico o telematico.

Per tali reati, il termine è stato aumentato dalla riforma Orlando a 72 mesi (6 anni).

Tornando al tema centrale delle intercettazioni, il decreto del P.M deve stabilire le “modalità” e “la durata” delle corrispondenti
operazioni.

Ex art 267 co.3 tali operazioni hanno una durata massima di 15 giorni (con possibilità di proroga dal giudice), e devono venire
eseguite dal P.M personalmente o tramite ufficiale di P.G.

Disciplina particolare è stata dettata con riferimento a delitti di “criminalità organizzata”, o al delitto di “minaccia col mezzo
del telefono”.

Si è stabilito che quando l’intercettazione risulti “necessaria” per lo svolgimento di tali indagini, essa può essere autorizzata
dal giudice anche solo in presenza di “sufficienti indizi” di reato.

La durata delle operazioni così autorizzate è massima di 40 giorni (prorogabile dal giudice con decreto motivo, per periodi
successivi di 20 giorni).

Il P.M. deve annotare in un apposito registro riservato tutti i decreti che abbiano disposto, autorizzato, convalidato o prorogato
le intercettazioni, nonché i tempi di inizio e di conclusione delle operazioni.

Operazioni, che vengono compiute “esclusivamente” per mezzo degli impianti installati nella procura della Repubblica.

Quanto alle ulteriori forme di svolgimento delle operazioni, l’art 268 (“Esecuzione delle operazioni”) stabilisce che le
comunicazioni intercettate siano sempre registrate, e che nel relativo verbale venga trascritto, anche sommariamente, il loro
contenuto.

Tuttavia, la riforma Orlando ha introdotto un divieto di trascrivere nel verbale le comunicazioni o conversazioni a diverso
titolo irrilevanti. Divieto rivolto alla polizia, che se necessario deve informare preventivamente dei contenuti delle
intercettazioni il P.M.

Solo il P.M. ha il potere, infatti, di valutarne l’effettiva rilevanza e disporne eventualmente la trascrizione.

Scaduto il termine per lo svolgimento delle operazioni, verbali e registrazioni sono immediatamente trasmessi al P.M., che può
anche disporre il differimento della loro trasmissione per il tempo occorrente all’ufficiale di P.G. per consultarne le risultanze a
fini investigativi.

La novità più significativa introdotta dalla riforma è l’istituzione di un archivio riservato dove conservare i verbali,
registrazioni “ed ogni altro atto ad esse relativo”. Archivio a cui potranno accedere anche i difensori delle parti, ma senza
diritto di estrarne copia.

Il contenuto delle conversazioni intercettate continuerà ad essere coperto dal segreto finché il giudice non ne abbia disposto
l’acquisizione, se ed in quanto rilevanti a fini di prova.

Entro 5 giorni dalla conclusione delle operazioni, il P.M deposita annotazioni, verbali e registrazioni, insieme ai decreti e,
l’elenco delle comunicazioni che reputa rilevanti.

Entro ulteriori 5 giorni, il P.M. deve presentare al giudice la richiesta di acquisizione delle intercettazioni depositate, e i
difensori hanno facoltà di chiedere l’acquisizione delle intercettazioni che loro reputano rilevanti e l’eliminazione di quelle
inutilizzabili o di cui è vietata la trascrizione; il P.M, può, poi, chiedere l’eliminazione dei quelle cui sia sopravvenuta
l’irrilevanza.

Il giudice, decorsi 5 giorni dalla presentazione delle richieste, con ordinanza emessa in camera di consiglio, dispone
l’acquisizione delle intercettazioni richieste, escludendo quelle irrilevanti o inutilizzabili. Con l’ordinanza viene meno il segreto.

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Il sistema prevede ora un doppio filtro, prima da parte del P.M. e poi da parte del giudice, senza contare che una selezione a
monte sulle comunicazioni da trascrivere va già fatta dalla P.G., sotto il controllo del P.M.

Può accadere, però, che le intercettazioni debbano essere utilizzate prima della conclusione delle operazioni o della procedura
di acquisizione davanti al giudice: è il caso della richiesta di una misura cautelare, richiesta alla quale il P.M. deve allegare gli
elementi che dimostrano la sussistenza dei gravi indizi di colpevolezza e delle esigenze cautelari.

Qui la selezione delle intercettazioni rilevanti viene effettuata senza contraddittorio dal P.M., che le inserisce direttamente del
fascicolo delle indagini.

Sempre a tutela della riservatezza, tanto nella richiesta, quanto nell’ordinanza cautelare, devono essere riportati solo “i brani
essenziali” delle comunicazioni o conversazioni intercettate, considerato che l’ordinanza cautelare (non essendo atto di
indagine) non è coperta dal segreto, e quindi non ne è vietata la pubblicazione.

Nel riconoscere alla difesa il diritto di richiedere copia delle registrazioni, è stato previsto (riforma Orlando) che il difensore non
solo può accedere ai verbali, ma può ottenere la trasposizione delle registrazioni “su apposito supporto per la copia”, per
potersene avvalere in vista dell’eventuale richiesta di riesame della misura.

La documentazione delle intercettazioni non acquisite deve essere conservata nell’archivio fino al passaggio in giudicato della
sentenza, permettendone l’eventuale recupero anche nei gradi successivi al giudizio.

Tuttavia, gli interessati, a tutela della propria riservatezza, possono chiederne la distruzione al giudice.

Circa la disciplina dell’utilizzazione in altri procedimenti delle intercettazioni (art 270), si prevedere che queste possano essere
utilizzate solo quando le medesime risultino “indispensabili per l’accertamento di delitti per i quali è obbligatorio l’arresto in
flagranza”.

Secondo quanto precisato dalle Sezioni Unite, ove la conversazione o comunicazione intercettata costituisca essa stessa
corpo del reato è sempre utilizzabile nel processo penale e dunque anche in procedimenti diversi da quello d’origine.

La l.124/2007 fa riferimento alle ipotesi in cui l’A.G., attraverso intercettazioni, abbia acquisito “comunicazioni di servizio” di
appartenenti al sistema dei servizi di sicurezza.

La relativa documentazione deve venir secretata e custodita in “luogo protetto”, prevedendo la trasmissione al Presidente del
Consiglio dei Ministri copia della suddetta documentazione, nella parte “contenente le informazioni di cui intende avvalersi nel
processo” allo scopo di accertare se alcuna di esse “sia coperta da segreto di Stato”.

Tali informazioni (in attesa di risposta dal P.C.d.M.) possono venir utilizzate, seppur limitatamente, per una prospettiva
cautelare: “solo se vi sia pericolo di inquinamento delle prove, o pericolo di fuga” o quando “sia necessario intervenire per
prevenire o interrompere la commissione di un delitto”.

Per quel che riguarda, infine, il regime dei divieti di utilizzabilità delle intercettazioni eseguite contra legem, l’art 271 co.1
stabilisce che i relativi risultati non possono essere utilizzati sul piano probatorio. È sempre opportuno tener presente i limiti di
ammissibilità ex art 266.

Fonte di un divieto di utilizzazione nel caso di inosservanza è il principio ex art 68 co.3 Cost, in virtù della necessaria
autorizzazione della Camera di appartenenza per poter “sottoporre i membri del Parlamento ad intercettazioni”.

Tali ipotesi sono da considerare solo qualora le intercettazioni debbano effettuarsi direttamente “nei confronti” di un
parlamentare, dunque l’autorizzazione deve essere richiesta dall’autorità che ha emesso il provvedimento da eseguire: cioè,
nel nostro caso, dal P.M.

Nel frattempo, l’esecuzione del suddetto provvedimento dovrà rimanere sospesa, sicché laddove si continuasse,
l’intercettazione sarebbe “fuori dei casi consentiti dalla legge”.

Continuando il discorso ex art 271, il divieto di inutilizzazione viene esteso fino a ricomprendervi tutte le intercettazioni
riguardanti le comunicazioni delle persone ex art 200 co.1, quando abbiano ad oggetto fatti conosciuti “per ragioni del loro
ministero, ufficio o professione”, salvo che tali persone “abbiano deposto sugli stessi fatti, o li abbiano in altro modo divulgati”.

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Quanto alla sorte delle registrazioni e dei verbali relativi alle intercettazioni riconosciute come inutilizzabili, il co.3 art 271
dispone che essi debbano venire distrutti per ordine del giudice in ogni stato e grado del processo salvo che i medesimi
costituiscano corpo del reato.

Avendo analizzato il caso delle intercettazioni dirette (disposte nei confronti di membri del Parlamento), la disciplina delle
intercettazioni indirette o “fortuite, casuali” è da distinguere a seconda che il giudice per le indagini preliminari ritenga:

 Irrilevanti, ai fini del procedimento, i verbali e le registrazioni delle conversazioni o comunicazioni intercettate “nel
corso del procedimento riguardante terzi” alle quali abbiano occasionalmente preso parte dei membri del
Parlamento,

 Oppure rilevanti, cioè che ritenga necessario utilizzare le risultanze delle relative intercettazioni, su istanza di una
parte, dopo avere sentito le altre parti.

Nella prima ipotesi (irrilevanza), le risultanze devono essere integralmente distrutte;

nella seconda ipotesi (rilevanza), il giudice, per poterle utilizzare, deve tempestivamente richiedere l’autorizzazione della
Camera di appartenenza del parlamentare, le cui conversazioni siano state in modo casuale intercettate, trasmettendo con la
richiesta copia integrale dei verbali e delle registrazioni.

I problemi sorgono quando l’autorizzazione viene negata, perché è tassativo che in un simile caso “la documentazione delle
intercettazioni” deve essere “distrutta immediatamente, e comunque non oltre 10 giorni dalla comunicazione di diniego”.

Tutti i verbali e registrazioni acquisiti “in violazione del disposto” su descritto, devono essere “dichiarati inutilizzabili” ad opera
del giudice “in ogni stato e grado del procedimento” (inutilizzabilità sul piano probatorio).

La l.140/2003 è intervenuta sull’art 68 Cost sancendo l’inapplicabilità della “protezione parlamentare” anche nei confronti di
soggetti non aventi tal qualifica, per cui la mancata autorizzazione non comporterà la distruzione delle intercettazioni (che
coinvolgono anche un Parlamentare) che possono essere poste a carico di soggetti terzi.

Diversa è la posizione del Presidente della Repubblica, che non è assimilabile a quella del parlamentare.

Nei suoi confronti (in virtù del ruolo ricoperto) vige un divieto assoluto di intercettazione, con conseguente obbligo di
distruzione immediata di tali registrazioni, anche se si tratta di intercettazioni “eseguite fuori dei casi consentiti ex lege”.

È importante ricordare, che le intercettazioni preventive di comunicazioni o conversazioni (comprese quelle tra soggetti
presenti, anche all’interno del domicilio) non sono direttamente collegate alla tematica processuale.

Esse sono disciplinate dall’art 226 disp.att., il quale le riconosce e consente, su iniziativa del Ministro dell’interno o da
un’autorità da lui delegata, quando risultino necessarie “per l’acquisizione di notizie concernenti la prevenzione” dei delitti
ex art 407 co.2 lett.a n.4 e art 51 co.3bis e 3quater, commessi mediante impiego di tecnologie informatiche o telematiche.

Tali intercettazioni possono venire disposte anche su iniziativa dei direttori dei servizi di informazione per la sicurezza quando
ritenute indispensabili per l’espletamento delle attività loro demandata.

Gli elementi eventualmente acquisiti attraverso tali intercettazioni “non possono essere utilizzati nel procedimento penale,
fatti salvi i fini investigativi” aggiungendosi, inoltre, per evitare qualunque possibile aggiramento di tale regola, che in ogni
caso le suddette attività di intercettazione preventiva e le notizie acquisite a seguito delle stesse “non possono essere
menzionate in atti di indagine, né costituire oggetto di deposizione, né essere altrimenti divulgate”.

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Capitolo IV
Misure Cautelari
1. Premessa. Il sistema delle misure cautelari.
Il Libro IV, dedicato alla disciplina delle misure restrittive per esigenze cautelari è suddiviso in:

 Titolo I (art 272-315)  dedicato alle misure cautelari personali;


 Titolo II (art 316-325)  dedicato alle misure cautelari reali.

Non trova collocazione (per ragioni di connessioni, evidenti, con il regime delle attività di P.G.) la disciplina dell’arresto in
flagranza ed al fermo, collocati nel Libro V.

Assente, in tal libro IV, è anche la disciplina dell’accompagnamento coattivo.

Ciò significa che le medesime misure non potranno essere adottate per ottenere dall’imputato quelle condotte collaborative,
il cui rifiuto rientra a pieno titolo nella sfera del diritto di difesa (trattandosi dell’applicazione del diritto al silenzio).

La L.332/1995 ha rafforzato le garanzie individuali, dedicando apposita previsione al tema dei rapporti tra diritto al silenzio
dell’imputato e misure cautelari.

Nel codice le disposizioni relative alle misure cautelari risultano, di regola, dettate facendo riferimento all’imputato.

Sicché, nel corso delle indagini preliminari, la persona a carico della quale venga disposta una misura cautelare non avrà ancora
assunto la qualità di imputato: si tratterà di una persona indiziata (anzi, gravemente indiziata), nei cui confronti si stanno
svolgendo indagini preliminari, e per la quale opererà l’estensione dei diritti e garanzie previsti per l’imputato ex art 61.

2. Riserva di legge e riserva di giurisdizione in materia di misure cautelari personali. TITOLO I Capo I (Art
272-279)
Nel Titolo I (dedicato alle misure cautelari personali) assume risalto il Capo I (art 272-279) dedicato alle “disposizioni generali”.

Nel Capo I sono presenti le disposizioni che rappresentano i pilastri del sistema delle cautele incidenti sulla libertà personale
dell’imputato (tenendo conto del modello fornito ex art 13 Cost).

Il primo fondamento (espressione di riserva di legge), è il principio di legalità ex art 272, il quale stabilisce:
o “Le libertà della persona possono essere limitate con misure cautelari solo a norma delle disposizioni del presente titolo”.

Si desume un significato garantistico del principio così enunciato, sotto il profilo della tassatività, in quanto diretto a
vincolare alla previsione legislativa l’esercizio della discrezionalità del giudice in materia di “limitazioni alle libertà della
persona”.

Il secondo fondamento (espressione della riserva di giurisdizione), è la competenza funzionale ex art 279.

Art 279  Giudice competente


“Sull’applicazione e sulla revoca delle misure cautelari, nonché sulle modifiche delle loro modalità esecutive, provvede il
giudice che procede. Prima dell’esercizio dell’azione penale, provvede il giudice per le indagini preliminari.” (co.1)

3. I presupposti del fumus commissi delicti e del periculum libertatis. (Art 273-274)
Nel Capo I, sono presenti le disposizioni che disciplinano i presupposti delle misure cautelari personali:

1) Fumus commissi delicti  probabilità di effettiva consumazione del reato definita in termini di gravi indizi di
colpevolezza.

2) Periculum libertati  bisogno cautelare di evitare che l’indagato/imputato “lasciato libero” possa pregiudicare le
esigenze connesse all’accertamento ritenute meritevoli di protezione.

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Circa il primo profilo, analizziamo l’art 273.

Art 273  Condizioni generali di applicabilità delle misure


o “Nessuno può essere sottoposto a misure cautelari se a suo carico non sussistono gravi indizi di colpevolezza” (co.1)

Si accentua, in tal comma, la consistenza della piattaforma indiziaria indispensabile per l’adozione di qualsiasi misura
cautelare personale.

o “Nella valutazione dei gravi indizi di colpevolezza si applicano le disposizioni ex art 192 co.3 e 4, art 203 e 271 co.1”
(co.1bis)

Tale comma, inserito nel 2001 in attuazione del Giusto processo, descrive i criteri di valutazione probatoria.

o “Nessuna misura può essere applicata se risulta che il fatto è stato compiuto in presenza di una causa di giustificazione o
di non punibilità o se sussiste una causa di estinzione del reato o una causa di estinzione della pena che si ritiene possa
essere irrogata.” (co.2)

Tale comma impone un sommario accertamento negativo.

Il termine indizio di colpevolezza in tale sede non ha il significato di prova indiretta (art 192 co.2), bensì è costituito da quegli
elementi di prova (o fonti di prova se la misura è adottata in sede di indagini preliminari) che inducono a ritenere
estremamente probabile che l’imputato sia effettivamente responsabile del fatto contestato.

La giurisprudenza ha precisato che gli indizi necessari per l’adozione di una misura cautelar non coincidono con quelli necessari
per l’eventuale successiva condanna, ma devono lasciar ritenere probabile la colpevolezza dell’imputato.

Non sono utilizzabili come fonti di prova:

 Le dichiarazioni dei coimputati o di imputati in procedimento connesso, in assenza di riscontri (art 192 co.3 e 4);
 La testimonianza indiretta, senza indicazione della fonte della notizia (art 195 co.7);
 Le fonti confidenziali (art 203);
 Le intercettazioni illegittimamente captate (art 271 co.1).

Circa il secondo profilo (periculum libertatis), l’art 274 (“Esigenze cautelari”) determina le “esigenze cautelari” che sole,
concorrendo con il primo presupposto, devono considerarsi idonee a giustificare l’adozione delle misure cautelari personali.

Devono essere esigenze ciascuna autonomamente sufficiente a legittimare il ricorso allo strumento cautelare.

Ne risulta un duplice corollario:


 Da un lato, la esclusione di qualsiasi automatismo nell’adozione delle misure in parola, escludendone la
“obbligatorietà” delle stesse in base alla natura/gravità dell’imputazione cui si riferiscono i “gravi indizi di colpevolezza”.

 Dall’altro, il rifiuto di qualunque meccanismo imperniato sull’obbligo del giudice di “giustificare”, motivandone in
positivo le ragioni, la mancata adozione della custodia cautelare.

Si prevede uno specifico onere motivazionale in caso di adozione della misura carceraria circa l’inidoneità in concreto della
detenzione domiciliare controllata, a fronteggiare la situazione di ritenuto pericolo.

4. Le diverse esigenze cautelari


Art 274  Esigenze cautelari
“Le misure cautelari sono disposte:
a) Quando sussistono specifiche ed inderogabili esigenze attinenti alle indagini relative ai fatti per i quali si
procede, in relazione a situazioni di concreto e attuale pericolo per l’acquisizione o la genuinità della prova,
fondate su circostanze di fatto espressamente indicate nel provvedimento a pena di nullità rilevabile anche
d’ufficio” (co.1 lett a)

Il riferimento legislativo è quello di consentire il ricorso alle misure cautelari personali per fronteggiare il pericolo di
“inquinamento” delle prove, aggiungendovi l’intento di escludere qualunque possibilità di impiego delle misure in questione
per assicurare il “compimento di atti determinati” per i quali è necessaria la presenza dell’imputato.

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b) “quando l’imputato si è dato alla fuga o sussiste concreto e attuale pericolo che egli si dia alla fuga, sempre che
il giudice ritenga che possa essere irrogata una pena superiore a 2 anni di reclusione. Le situazioni di concreto e
attuale pericolo non possono essere desunte esclusivamente dalla gravità del titolo di reato per cui si procede”
(co.1 lett b)

Qui il pericolo di fuga dev’essere concreto e necessariamente anche attuale.

c) “quando, per specifiche modalità e circostanze del fatto e per la personalità della persona sottoposta alle
indagini/imputato, desunta da comportamenti o atti concreti o dai suoi precedenti penali, sussiste il concreto e
attuale pericolo che questi commetta gravi delitti con uso di armi o di altri mezzi di violenza personale o diretti
contro l’ordine costituzionale o delitti di criminalità organizzata o della stessa specie di quello per cui si procede.
Le misure di custodia cautelare sono disposte soltanto se si tratta di delitti per i quali è prevista la pena della
reclusione non inferiore nel massimo a 4 anni, o in caso di custodia cautelare in carcere, di delitti per i quali è
prevista la pena della reclusione non inferiore nel massimo a 5 anni nonché per il delitto di finanziamento
illecito dei partiti.
Le situazioni di concreto e attuale pericolo non possono essere desunte esclusivamente dalla gravità del titolo di
reato per cui si procede”. (co.1 lett c)

L’ultima affermazione, aggiunta con la l.41/2015 ha ribadito rimarcare come il rischio da presidiare con la misura limitativa
della libertà non può essere puramente ipotetico, ma deve tradursi nella individuazione puntuale di occasioni reali e
prossime, che con ogni probabilità l’imputato lasciato in libertà sfrutterebbe per commettere nuovi reati.

Da ciò si desume la illegittimità di qualsiasi provvedimento di adozione, o di mantenimento, delle misure cautelari (soprattutto
della custodia carceraria), che risulti finalizzato ad ottenere la confessione dell’imputato.

È del tutto normale, evidentemente, che il fatto dell’avvenuta confessione possa venire valutato dal giudice come rilevante per
escludere la sussistenza, o la permanenza, di taluna delle esigenze che altrimenti potrebbero giustificare la sottoposizione
dell’imputato ad una misura cautelare.

Da aggiungere, in conclusione del co.1 lett a, quanto precisato nel 1995 dal legislatore, il quale ha stabilito che:
o “Le situazioni di concreto e attuale pericolo non possono essere individuate nel rifiuto della persona sottoposta alle
indagini o dell’imputato di rendere dichiarazioni né nella mancata ammissione degli addebiti.”

Dunque, in nessun caso l’esercizio del diritto al silenzio, da parte dell’imputato, può essere posto a fondamento, sul terreno
del periculum libertatis, di una misura cautelare disposta a suo carico, e quindi, che nessuna misura cautelare (in primis quella
carceraria) possa venire legittimamente adottata allo scopo di indurre l’imputato stesso a collaborare con l’A.G.

5. I principi di adeguatezza e di proporzionalità della scelta delle misure. (Art 275)


In merito alla discrezionalità del giudice, una volta accertata la sussistenza di (almeno) una delle esigenze cautelari ex art 274,
per la “scelta delle misure” da adottarsi nel caso concreto l’art 275 (“Criteri di scelta delle misure”) detta alcuni “criteri”
fondamentali, ispirati alla logica della adeguatezza e proporzionalità.

Esistendo una pluralità di misure cautelari personali, viene enunciato il principio di adeguatezza.

o “Nel disporre le misure, il giudice tiene conto della specifica idoneità di ciascuna in relazione alla natura e al grado delle
esigenze cautelari da soddisfare nel caso concreto”” (co.1 art 275).

Dovrà dunque scegliere la misura meno gravosa per l’imputato, tra quelle di per sé idonee a fronteggiare le suddette
esigenze.

Al principio di adeguatezza si raccorda il principio di proporzionalità.

o “Ogni misura deve essere proporzionata all’entità del fatto e alla sanzione che sia stata o si ritiene possa essere irrogata”
(co.2)

Il giudice nel determinare la misura meglio idonea ad essere adottata, dovrà tener conto non solo dell’attitudine della misura
stessa a soddisfare le esigenze cautelari verificate caso per caso, ma anche della sua congruità, sotto il profilo della deminutio
libertatis che ne deriva all’imputato: sia rispetto alla gravità del fatto addebitatogli, sia al quantum di pena irrogata/da irrogare.

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Il co.2 bis art 275, introdotto con la riforma 1995 si riconduce, logicamente, al principio di proporzionalità.

Sono state ampliate le ipotesi preclusive delle misure cautelari.

Viene dettato in capo al giudice un esplicito divieto di disporre sia la custodia cautelare in carcere che gli arresti domiciliari
quando il medesimo ritenga che “con la sentenza possa essere concessa la sospensione condizionale della pena”;

tale divieto opera anche quando “il giudice ritiene che, all’esito del giudizio, la pena detentiva irrogata non sarà superiore a 3
anni”

Tale norma (co.2bis) dimostra l’intento del legislatore di rendere residuale ed eccezionale il ricorso alle più afflittive misure
privative della libertà, escludendone nei casi in cui sia prevedibile si dall’inizio che l’eventuale condanna alla pena detentiva
potrà non essere scontata in carcere o alla possibilità di accesso del condannato alle misure alternative alla detenzione.

La preclusione subisce alcuni limiti.

La custodia in carcere può essere disposta in sostituzione della misura non carceraria quando siano state violate le connesse
prescrizioni.

Inoltre, può farsi ricorso alla carcerazione se, rilevata l’inadeguatezza di ogni altra misura, gli arresti domiciliari non possano
essere disposti per mancanza di un luogo idoneo per l’esecuzione.

Il divieto non opera quando si procede per una serie di delitti indicati dalla norma:
 Dall’incendio boschivo allo stalking, dal furto in abitazione o con strappo alla pedopornografia, dai maltrattamenti in
famiglia ai delitti di mafia.

Tornando al tema del principio di adeguatezza, devono sottolinearsi le modifiche introdotte con i co. 1bis e 2ter art 275.

Entrambi si occupano dei criteri relativi alla scelta delle misure cautelari da disporre contestualmente ad una sentenza di
condanna.

Il co.1bis detta un criterio di carattere generale, e prevede che:

o “Contestualmente ad una sentenza di condanna, l’esame delle esigenze cautelari è condotto tenendo conto anche
dell’esito del procedimento delle modalità del fatto e degli elementi sopravvenuti, dai quali possa emergere che, a
seguito della sentenza, risulta taluna delle esigenze indicate ex art 274 co.1 lett b e c.” (co.1bis)

Evidente è la preoccupazione di vincolare il giudice a tener conto anche dei risultati del relativo accertamento, nonché di
ogni altro elemento sopravvenuto, quali fattori rilevanti per la valutazione delle suddette esigenze cautelari.

Il co.2ter detta un criterio specifico per il caso di condanna di appello.

o “Nei casi di condanna di appello le misure cautelari personali sono sempre disposte, contestualmente alla sentenza,
quando, all’esito dell’esame condotto a norma del co.1bis, risultano sussistere esigenze cautelari ex art 274 e la condanna
riguarda uno dei delitti ex 380 co.1, e questo risulta commesso da soggetto condannato nei 5 anni precedenti per delitti
della stessa indole.” (co.2ter)

Ciò significa che in deroga alla regola generale per cui il giudice procedente applica le misure cautelari su richiesta del P.M.,
nel caso di sentenza di condanna pronunciata in appello, contestualmente alla sentenza il medesimo giudice dovrà
obbligatoriamente valutare la sussistenza delle esigenze cautelari e degli altri presupposti ex co.2ter, ed applicare “sempre”
la misura cautelare personale più adeguata, ogni qualvolta tale valutazione abbia dato esisto positivo.

Il co.3 si riferisce alla misura della custodia cautelare in carcere, stabilendo che la medesima:

o “Può essere disposta solo quando le altre misure coercitive o interdittive, anche se applicate cumulativamente, risultino
inadeguate.”

Tale comma individua nel ricorso alla carcerazione dell’imputato una vera e propria extrema ratio: tale da utilizzarsi solo
quando le esigenze cautelari del singolo caso non possono venir soddisfatte da nessuna altra forma di limitazione della
libertà.
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Tale regola subisce, però, una eccezione (sempre nel co.3) dove è stabilito che, quando sussistano gravi indizi di colpevolezza
in ordine ai delitti indicati nel comma, la misura applicabile è sempre quella carceraria, salvo che siano acquisiti “elementi dai
quali risulti che non sussistono esigenze cautelari”.

Il che,
 Da un lato, non incide sul dovere del giudice di provvedere solo dietro richiesta del P.M.;
 Dall’altro, configura in capo all’indiziato dei suddetti delitti una forte presunzione relativa del periculum libertati ed
una vera e propria presunzione assoluta di adeguatezza della misura carceraria.

Ne deriva (per il giudice) un vero e proprio onere di motivazione negativa, circa la (non) sussistenza in concreto di esigenze
cautelari, tutte le volte in cui ritenga di non dover disporre quest’ultima misura.

E, dal punto di vista del giudice, dovrebbe essere una sora di scudo difensivo di fronte al rischio di minacce che potrebbe
ricevere, soprattutto nei procedimenti per delitti di criminalità organizzata.

A seguito delle ripetute censure della Corte Costituzionale, il meccanismo presuntivo assoluto di adeguatezza della custodia in
carcere era rimasto confinato in un ambito più ridotto di quello tracciato dal legislatore.

Con riferimento, infatti, alla fattispecie oggetto di scrutinio del giudice delle leggi, la presunzione si configurava come relativa,
essendo stata dichiarata l’incompatibilità costituzionale della norma là dove non permetteva al giudice di ricorrere a strumenti
cautelari non carcerari pur quando avesse accertato in positivo la sussistenza di specifici elementi da cui desumere la sufficienza
di misure diverse e meno rigorose della custodia in carcere.

Sul testo è intervenuta la riforma 2015 che:


 Da un lato, ha mantenuto ferma la regola riguardo ai delitti di mafia e l’ha estesa ai delitti di matrice
sovversiva/terroristica;

 Dall’altro, ha previsto che quando sussistono gravi indizi di colpevolezza in ordine agli altri gravi delitti “è applicata
la custodia cautelare in carcere, salvo che siano acquisiti elementi dai quali risulti che non sussistono esigenze
cautelari o che, in relazione al caso concreto, le esigenze cautelari possono essere soddisfatte con altre misure”.

6. Altre applicazioni del principio di adeguatezza


Il co.4 art 275 sancisce una sorta di presunzione di “non necessità”, per quanto riguarda l’impiego della custodia carceraria, con
riferimento ad una gamma variegata di ipotesi, rispetto alle quali si delinea una previsione di divieto della suddetta misura
(“non può essere disposta né mantenuta la custodia cautelare in carcere”).

Quindi, non si applica la misura carceraria quando siano imputati:


 una donna incinta
 o una madre con figli di 6 anni massimo con lei conviventi,
 o un padre qualora “la madre sia deceduta o assolutamente impossibilitata a dare assistenza alla prole”,
 od ancora una persona over 70 anni.

Nei loro confronti si prevede che debba venire di regola applicata una misura diversa dalla custodia in carcere, salva
l’eccezione rappresentata dall’eventualità che “sussistano esigenze cautelari di eccezionale rilevanza”.

Qualora ricorrano i presupposti per la custodia carceraria, ma non sussistano esigenze cautelari di eccezionale rilevanza, e si
tratti di imputati tossicodipendenti/alcoldipendenti sottoposti a programma terapeutico di recupero, nei loro confronti si
dispone la misura degli arresti domiciliari, allorché l’interruzione del programma in atto potrebbe pregiudicare il loro recupero.

Un esplicito “divieto di custodia cautelare” è stabili ex co.4bis art 275 nei riguardi degli imputati che siano affetti:
 ”da Aids conclamata o da grave deficienza immunitaria”

 “da altra malattia particolarmente grave”, per cui le condizioni di saluti sono incompatibili con lo stato di
detenzione, e siano comunque tali da non consentire “adeguate cure” in caso di detenzione carceraria.

Dunque, accertata una delle suddette condizioni di salute, la custodia carceraria “non può essere disposta né mantenuta”.

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Sennonché, il co.4ter art 275 configura alcune deroghe a tal divieto, lasciando intendere che:

o “Se sussistono esigenze cautelari di eccezionale rilevanza dovrà farsi logo a custodia cautelare presso idonee strutture
sanitarie penitenziarie, a meno che l’adozione di tale misura non risulti possibile senza pregiudizio per la salute
dell’imputato o per quella degli altri detenuti.”

Più in generale, quando il soggetto risulti imputato o sia stato sottoposto ad altra misura cautelare, per uno dei delitti ex art
380 (in quanto commessi dopo l’applicazione delle misure previste ex co.4ter), il giudice potrà disporne la custodia cautelare
in carcere allo scopo di evitare gli inconvenienti derivanti, soprattutto in rapporto al pericolo di reiterazione di determinati
reati, dal riconoscimento a tali soggetti di una sorta di “immunità” rispetto alla custodia carceraria.

Quando ciò avviene


 il co.4ter prescrive che l’imputato debba essere sempre condotto in un istituto dotato di reparto attrezzato per la cura e
l’assistenza necessarie;
 mentre, il co.4quinques dispone che la custodia carceraria è esclusa quando la malattia da cui è affetto l’imputato si
trovi in una fase così avanzata da non rispondere più a trattamenti e terapie.

Sempre con riferimento alla sfera del principio di adeguatezza, si inserisce l’art 276 (“Provvedimenti in caso di trasgressione alle
prescrizioni imposte”), sia pur con riferimento all’ipotesi di condotte dell’imputato contrastanti con le prescrizioni inerenti alle
singole misure cautelari.

Il co.1 enuncia il principio per cui (nel caso di inosservanza delle prescrizioni):
 il giudice può ordinare la sostituzione della misura già disposta,
 oppure, ordina il suo cumulo con altra più grave.

Sempre, di regola, dietro richiesta P.M, e senza previo contraddittorio, come in ogni altra ipotesi di applicazione ex novo di
una misura cautelare.

Rinunciando a qualsiasi automatismo, il codice attribuisce al giudice un potere discrezionale che si configura quale una sorta di
“proiezione” ulteriore del potere attribuito al medesimo giudice ex art 275 in tema di scelta della misura da adottare.

La decisione verte (sul se e) su quale misura debba adottarsi in luogo, o in aggiunta, della misura originariamente applicata; e
i criteri di valutazione sono quelli imperniati sulla “entità”, sui “motivi” e sulle “circostanze della violazione”.

Dunque, non ogni “trasgressione” dell’imputato alle prescrizioni impostegli dovrà necessariamente dare luogo ad un nuovo
provvedimento in chiave sostitutiva/cumulativa, ma soltanto le trasgressioni che siano tali da far ritenere non più sufficiente
l’originaria misura a fronteggiare la mutata situazione cautelare.

L’art 276 co.1 si preoccupa, qui, di precisare che, ove la trasgressione riguardi le prescrizioni relative ad una misura
interdittiva, il giudice potrà disporne la sostituzione/cumulo anche con una misura coercitiva.

In prospettiva derogatoria, si collocava il co.1ter art 276, con riferimento al caso in cui la condotta trasgressiva riguardasse:

o “Le prescrizioni degli arresti domiciliari concernenti il divieto di non allontanarsi dalla propria abitazione o da altro luogo di
privata dimora”.

Tale disposizione (co.1ter) è stata sostituita dalla l.47/2015, che vi ha aggiunto la previsione dell’ultimo periodo “salvo che il
fatto sia di lieve entità”, superando il favore di una valutazione caso per caso in merito alla gravità della trasgressione.

7. La salvaguardia dei diritti della persona sottoposta a misura cautelare. (Art 277)
Art 277  Salvaguardia dei diritti della persona sottoposta a misure cautelari
“Le modalità di esecuzione delle misure devono salvaguardare i diritti della persona ad esse sottoposta, il cui esercizio non sia
incompatibile con le esigenze cautelari del caso concreto.” (co.1)

In quanto applicabile anche ai detenuti, tale disposizione deve raccordarsi con l’art 285 co.2, stando alla quale la persona
sottoposta a custodia carceraria “non può subire limitazioni della libertà”, prima del trasferimento in istituto, se non “per il
tempo e con le modalità strettamente necessarie alla sua traduzione.”

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8. I criteri di determinazione della pena ai fini dell’applicazione delle misure. (Art 278)
Tra le disposizioni del Capo I, trova posto anche l’art 278 che detta regole per la determinazione della pena agli effetti
dell’applicazione delle misure stesse.

Art 278  Determinazione della pena agli effetti dell’applicazione delle misure
“Agli effetti dell’applicazione delle misure, si ha riguardo alla pena stabilita dalla legge per ciascun reato consumato/tentato.
Non si tiene conto della continuazione, della recidiva e delle circostanze del reato, fatta eccezione della circostante
aggravante ex n.5 art 61 c.p. e della circostante attenuante ex art 62 n.4 c.p. nonché delle circostanze per le quali la legge
stabilisce una pena di specie diversa da quella ordinaria del reato e di quelle ad effetto speciale.” (co.1)

Tale articolo non fa alcun riferimento alla minore età dell’imputato, ma l’omissione si spiega in virtù del fatto che trova la sua
disciplina nella legislazione processuale penale minorile.

9. Misure coercitive e misure interdittive. Capo II e III (Art 280-290)


Il Titolo I è poi ulteriormente composto, dal:

 Capo II  dedicato alle singole misure coercitive (di privazione/limitazione della libertà personale),

 Capo III  dedicato alle singole misure interdittive (di limitazione temporanea dell’esercizio di determinate potestà,
facoltà o diritti).

Per entrambe le categorie su citate, vige il limite oggettivo correlato alla gravità del reato, stabilendosi che le une e le altre
possano applicarsi soltanto:

o “quando si procede per delitti per i quali la legge stabilisce la pena dell’ergastolo o della reclusione superiore nel
massimo a 3 anni” (art 280 e 287 “Condizioni di applicabilità”)

Sono presenti, tuttavia, delle eccezioni.

1) In linea generale, per le misure coercitive, è lo stesso art 280 al co.1 a predisporne: “salvo quando disposto ex co.2 e 3” in
riferimento all’impiego della custodia cautelare in carcere.

Tale custodia può essere applicata solo quando si procede per delitti “consumati/tentati per i quali sia prevista la pena della
reclusione non inferiore nel massimo a 5 anni”.

In virtù del problema del sovraffollamento carcerario l’Italia è stata condannata per trattamento inumano e degradante dei
detenuti in violazione dell’art 3 c.e.d.u. Da ciò, è scaturito una riforma della materia innalzando il suddetto limite a 5 anni (dai
3 originariamente previsti).

La riforma si è improntata sul dove prevedere applicazioni di misure punitive non privative della libertà personale in
alternativa a quella carceraria e riducendo al minimo il ricorso alla custodia cautelare in carcere.

Il limite sopra descritto non opera “nei confronti di chi abbia trasgredito alle prescrizioni inerenti ad una misura cautelare”,
sicché a carico di tali imputati la misura carceraria potrà essere applicata anche con riferimento a delitti punibili con pena
detentiva “superiore nel massimo a 3 anni”.

2) Una seconda eccezione è stabilita sempre nel co.1 art 280, facendo salvo quando disposto “dall’art 391”.

Tal richiamo va riferito al co.5 art 391 dove, nel disciplinare la conversione dell’arresto in flagranza o del fermo in una
“misura coercitiva ex art 291”, qui compresa la misura in carcere, si dispone che tale conversione possa aver luogo:
 “anche al di fuori dei limiti di pena previsti”, quando l’arresto “è stato eseguito per uno dei delitti indicati ex art 381
co.2”,

 o “per uno dei delitti per i quali è consentito anche fuori dai casi di flagranza”: dunque, anche con riferimento a
determinati delitti punibili “con la reclusione non inferiore nel massimo a 3 anni”.

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Ciò significa che, per le ipotesi delittuose contemplate ex art 381 co.2, l’applicazione di una misura di coercizione personale
potrà configurarsi solo a seguito di conversione dell’arresto in flagranza, mentre non potrà trovare base nel potere coercitivo
originariamente spettante al giudice.

Nel 1995 il legislatore ha circoscritto l’applicabilità della custodia in carcere solo ai delitti punibili con la “reclusione non
inferiore nel massimo a 4 anni”.

Di conseguenza, l’applicazione della custodia carceraria a seguito di convalida dell’arresto in flagranza:

 continua ad essere consentita nei soli casi in cui l’arresto sia stato eseguito ex art 381 co.2,

 mentre è preclusa nei casi in cui l’arresto sia stato eseguito a norme dell’art 381 co.1, ogniqualvolta si tratti di delitti
per i quali la legge stabilisce la pena della reclusione in misura “superiore nel massimo a 3 anni”, ma “inferiore nel
massimo a 5 anni”.

In questi ultimi casi, a causa della mancata predisposizione di una clausola derogatoria analoga a quella ex art 391 co.5,
opera il limite di applicabilità sancito, per la custodia in carcere, dal co.2 art 280 e richiamato art 274 co.1 lett.c.

Sennonché, tutto ciò è assurdo, perché per effetto di un simile difetto di coordinamento legislativo, esiste una fascia di
situazione rispetto alle quali, pur dopo la convalida dell’arresto in flagranza, non potrà essere applicata la misura custodiale
nei confronti dell’arrestato, nonostante l’accertamento dei presupposti cautelari idonei per l’applicazione ex art 391 co.5.

Ne deriva una disparità disciplinare irragionevole, dinanzi alla quale nemmeno le successive modifiche legislative hanno
operato il necessario intervento di portata razionalizzatrice.

Quanto al resto, non essendo ammessa alcuna ulteriore deroga, il limite stabilito ex art 280 deve ritenersi operante per tutte le
altre misure coercitive, comprese le più blande, com’è il divieto di espatrio (ad esempio).

10. La tipologia delle misure coercitive ed il principio di gradualità


Le misure cautelari personali coercitive sono ordinate in termini di progressiva afflittività, dando vita ad una ideale gerarchia.

La classificazione è così disposta:

a) Misure cautelari coercitive non custodiali, in cui si inseriscono:

 Divieto di espatrio (art 281);


 Obbligo di presentazione alla P.G. (art 282);
 Allontanamento dalla casa familiare (art 282bis);
 Divieto di avvicinamento ai luoghi frequentati dalla persona offesa (art 282ter) (introdotta con il nuovo delitto di
Stalking).

L’art 284quater prevede che le decisioni relative all’allontanamento dalla casa familiare e al divieto di avvicinamento ai
luoghi della persona offesa siano comunicate all’autorità di pubblica sicurezza competente, nonché alla persona offesa e ai
servizi socio-assistenziali del territorio.

La persona offesa, con la comunicazione del provvedimento, sia informata della facoltà di richiedere al giudice della cautela
l’adozione di una decisione che estenda gli effetti della misura protettiva al territorio di altro Stato membro dell’Unione
europea in cui la persona protetta risieda, soggiorni o dichiari di voler risiedere o soggiornare.

 Divieto e obbligo di dimora (art 283).

Circa l’obbligo di dimora, il giudice ha il potere di imporre all’imputato di “non allontanarsi dall’abitazione in alcune ore del
giorno, senza pregiudizio per le normali esigenze di lavoro” (art 283 co.4).

è una prescrizione analoga a quella degli arresti domiciliari, riguardo alla quale l’obbligo dell’imputato “di non allontanarsi
dalla propria abitazione” può risultare attenuato solo dalla autorizzazione del giudice “ad assentarsi nel corso della giornata
dal luogo di arresto per il tempo necessario a provvedere ad indispensabili esigenze di vita o lavorative”.

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Dunque, attraverso la duplice possibilità offerta al giudice di graduare la sottoposizione dell’imputato all’obbligo di “non
allontanamento” dalla propria abitazione (con obbligo di dimora o arresti domiciliari) si coglie una conferma dell’ampia
gamma di modalità utilizzabili dal giudice stesso per adeguare alla concreta situazione cautelare i propri interventi coercitivi.

L’imputato agli arresti domiciliari “si considera in stato di custodia cautelare”, dunque potrà usufruire dei vantaggi derivanti
dalla suddetta equiparazione: con riferimento alla disciplina dei termini massimi di custodia, nonché al meccanismo di
scomputo della durata della misura domiciliare dalla durata della pena.

Quella degli arresti domiciliari è una autonoma misura di coercizione domiciliare alternativa alla custodia.

Circa la concedibilità degli arresti domiciliari, un limite soggettivo è sancito ex nuovo co.5bis art 284, in termini di divieto nei
confronti degli imputati già condannati (dunque con sentenza irrevocabile) per il reato di evasione nei 5 anni precedenti al
fatto per cui si procede.

Tale divieto, non opera ove il giudice possa pervenire ad una duplice valutazione positiva:
 In ordine alla lieve entità del fatto
 Ed alla inidoneità della misura a soddisfare le esigenze cautelari in concreto sussistenti.

L’art 275bis subordina la misura degli arresti domiciliari all’assoggettamento dell’imputato a particolari “procedure di
controllo”, da attuarsi con “mezzi elettronici o altri strumenti tecnici”  braccialetto elettronico.

Il consenso dell’imputato è una condizione necessaria per poter fruire degli arresti domiciliari in luogo ella custodia
cautelare in carcere.

b) Misure cautelari coercitive custodiali:


 Arresti domiciliari (art 284);
 Custodia in carcere (art 285);
 Custodia attenuata per detenute madri (art 285bis);
 Custodia in luogo di cura (art 286).

11. Le forme della custodia cautelare.


La misura della custodia in carcere trova base nel provvedimento con cui il giudice dispone che l’imputato “sia catturato ed
immediatamente condotto in un istituto di custodia per rimanervi a disposizione dell’A.G.” (art 285).

In conformità con i principi di gradualità, proporzionalità, personalizzazione delle misure cautelari, la custodia in carcere
rappresenta la misura maggiormente limitativa della libertà personale e, pertanto, costituisce la extrema ratio, applicabile
soltanto quando ogni altra misura si riveli inidonea alla salvaguardia delle esigenze cautelari.

Quando si tratta di un imputato in stato di infermità di mente tale da incidere sulla sua capacità di intendere e di volere, il
giudice potrà disporne la custodia cautelare non carceraria mediante ricovero provvisorio in una idonea struttura psichiatrica,
adottando ogni accorgimento necessario per prevenirne il pericolo di fuga (art 286).

L’art 285bis consente al giudice di disporre la custodia presso un istituto a custodia attenuata per detenute madri, sempre
che le esigenze cautelari accertate lo consentano.

Quanto agli imputati che si trovino nelle gravi condizioni di salute descritte ex art 275 co.4bis, stabilisce il co.3 art 286bis che
il giudice possa disporre il ricovero provvisorio in una adeguata struttura del servizio sanitario nazionale “per il tempo
necessario”, adottando, ove occorra, i provvedimenti “idonei a evitare il pericolo di fuga”.

Dopodiché, cessate le esigenze del ricovero, il giudice provvederà ex art 275 (“Criteri di scelta delle misure”).

Tornando alle disposizioni comuni alle misure di custodia cautelare, sia in carcere che in luogo di cura, va ricordato il principio
relativo alla computabilità per una sola volta della durata delle stesse ai fini della determinazione della pena da eseguire, ex art
657 (“Computo della custodia cautelare e delle pene espiate senza colpa”).

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12. La tipologia delle misure interdittive


Le misure cautelari personali interdittive sono le seguenti:

 Sospensione dell’esercizio della responsabilità genitoriale (art288);


 Sospensione da un pubblico ufficio o servizio (art 289);
 Divieto temporaneo di esercitare determinate attività (professionali/imprenditoriali o determinati uffici direttivi) (art
290).

Riguardo ai criteri di scelta delle misure interdittive, per le quali valgono i principi di adeguatezza e di proporzionalità ex art
275, va ricordata l’ulteriore possibilità offerta al giudice di dare più specifica attuazione a tali principi attraverso l’applicazione
solo parziale della misura prescelta.

Infatti, le diverse disposizioni a riguardo consentono che l’incidenza della misura stessa possa venire in concreto limitata solo
a una parte della potestà, o a un settore o a una parte dell’attività inerente all’ufficio o alla professione interdetti.

13. Profili formali dei provvedimenti cautelari e procedimento applicativo. Capo IV (Art 291-298)
Il procedimento applicativo delle misure cautelari è contenuto nel Capo IV (art 291-298) dedicato alla “Forma ed esecuzione dei
provvedimenti”.

Evidente, ex art 291, la distinzione dei ruoli tra:

 P.M  organo richiedente misura cautelare personale;


 Giudice  organo decidente

Art 291  Procedimento applicativo


“Le misure sono disposte su richiesta del P.M., che presenta al giudice competente gli elementi su cui la richiesta si fonda
[273,274], compresi i verbali di cui all’art 268 co.2, limitatamente alle comunicazioni e conversazioni rilevanti, nonché tutti
gli elementi a favore dell’imputato [358] e le eventuali deduzioni e memorie difensive già depositate.” (co.1)

Se riconosce la propria incompetenza per qualsiasi causa [21], il giudice, quando ne ricorrono le condizioni e sussiste
l’urgenza di soddisfare taluna delle esigenze cautelari ex art 274, dispone la misura richiesta con lo stesso provvedimento
con il quale dichiara la propria incompetenza. Si applicano in tal caso le disposizioni ex art 27. (co.2)

La richiesta di misure cautelari personali ad opera del magistrato del P.M. deve essere accompagnata dall’”assenso scritto” del
procuratore della Repubblica o da altro magistrato da lui delegato; ma tale mancanza non incide sulla validità dell’ordinanza
cautelare successivamente emessa dal giudice.

La richiesta formulata dal P.M. non è vincolante; il giudice può disporre anche una misura cautelare meno grave di quella
richiesta dall’organo dell’accusa. Non può, invece, disporre una misura più grave, per la quale mancherebbe qualunque
iniziativa del P.M.

Ciò è un sintomo del rafforzamento della posizione del giudice.

Essendo il provvedimento cautelare un tipico atto “a sorpresa”, il procedimento di adozione non prevede l’instaurazione del
contraddittorio con l’imputato.

Sulla richiesta del P.M. il giudice provvede inaudita altera parte.

L’unica eccezione è rappresentata dalla sospensione dell’esercizio di un pubblico servizio/ufficio, per la quale il giudice deve
procedere, prima di provvedere, all’interrogatorio dell’indagato di un delitto contro la Pubblica Amministrazione.

Quanto agli aspetti formali del provvedimento del giudice (di regola una ordinanza), la disciplina è disposta ex art 292,
indicando tra i requisiti:

 L’”ipotesi di imputazione” rappresentata dalla “descrizione sommaria del fatto”, indicando le norme violate;

 La sua motivazione, diretta a responsabilizzare al massimo il giudice nell’esposizione delle ragioni che lo abbiano
indotto ad adottare la misura.

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Necessaria è anche la predeterminazione della durata della misura (in particolare la sua “data di scadenza…in relazione alle
indagini da compiere”), quando la stessa sia stata disposta in vista dell’esigenza cautelare ex art 274 lett a, cioè al fine di
garantire l’acquisizione o la genuinità della prova.

A seguito della legge del 1995, si prescrivono al giudice 2 ulteriori adempimenti:

 L’esposizione delle ragioni per le quali siano stati ritenuti “non rilevanti gli elementi forniti dalla difesa”;

 Quando viene applicata la misura carceraria, l’esposizione delle “concrete e specifiche ragioni” per le quali si sia
ritenuto che le esigenze cautelari del caso “non possono essere soddisfatte con altre misure”.

Su un piano più generale, nel rapportare le esigenze cautelari riscontrate in concreto alla “specifica idoneità” della misura
applicata, il giudice deve sempre dar conto della osservanza dei “criteri di scelta” ex art 275, con particolare riguardo ai canoni
di adeguatezza e proporzionalità.

Il giudice deve anche esplicitare la propria “autonoma valutazione” degli elementi che motiverebbero l’ordinanza.

L’analitica enunciazione dei requisiti in particolare motivazionali, del provvedimento applicativo di una misura cautelare
riveste una funzione di garanzia, ponendo le condizioni essenziali per una piena e completa esplicazione del diritto di difesa
dell’indagato/imputato in sede di interrogatorio e di impugnazione del provvedimento.

Finalità della riforma sulle misure cautelari è quella di rafforzare l’obbligo di autonoma valutazione da parte del giudice,
soprattutto per evitare il rischio che le motivazioni si fondino esclusivamente sulle osservanze del P.M. richiedente la misura.

Con la modifica apportata dalla riforma Orlando, relativa al contenuto dell’ordinanza con la quale il giudice concede la
misura, la riforma dispone che solo i brani essenziali delle conversazioni intercettate posano essere riprodotti nell’ordinanza
e solo quando gli stessi siano necessari per esporre le esigenze cautelari o gli indizi.

Va poi ricordato che tra gli obblighi di motivazione rientra anche quello relativo alla scelta della misura carceraria:

o “il giudice deve infatti indicare le specifiche ragioni per cui ritiene inidonea, nel caso concreto, la misura degli arresti
domiciliari con le procedure di controllo ex art 275bis co.1”

Tutti i requisiti ex art 292 co.2 sono stabiliti a pena di nullità, e questa nullità, definita come rilevabile anche d’ufficio, deve
ritenersi assoggettata alle regole generali di deducibilità e di sanatoria ex art 181-183.

Ulteriore nullità risulta prevista nel nuovo co.2ter art 292 con riferimento all’ipotesi dell’ordinanza che non contenga la
valutazione degli elementi “a carico e a favore dell’imputato” individuabili ex art 358 e 327bis.

Occorre aggiungere che quanto precede va necessariamente coordinato con la successiva disciplina del procedimento di
riesame, in particolare con le previsioni:

 Ex art 309 co.6  che non prescrive la allegazione dei motivi a pena di inammissibilità della richiesta di riesame,
consentendone la enunciazione davanti allo stesso giudice del riesame;

 Ex art 309 co.9 secondo cui il tribunale competente per il riesame può “annullare il provvedimento impugnato”
anche sulla sola base “degli elementi addotti dalle parti nel corso dell’udienza” ed “anche per motivi diversi da quelli
enunciati”.

L’una e l’altra norma dirette ad affrancare il tribunale da qualunque condizionamento nella declaratoria delle nullità delle
ordinanze sottoposte a riesame.

Sempreché non si tratti di nullità sanabili dallo stesso tribunale.

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14. Gli adempimenti esecutivi e le garanzie difensive. (Art 293)


Dall’art 293 (“Adempimenti esecutivi”) emergono, tra gli adempimenti diretti a dare esecuzione alle ordinanze recanti una
misura cautelare, quelli strettamente funzionali a consentire l’esercizio della difesa, sotto il profilo della difesa personale e
tecnica.

Art 293  Adempimenti esecutivi


“Salvo quanto previsto ex art 156 (“Notificazioni all’imputato detenuto”), l’ufficiale/agente incaricato di eseguire l’ordinanza
che ha disposto la custodia cautelare consegna all’imputato copia del provvedimento assieme ad una comunicazione scritta,
con cui lo informa dei suoi diritti difensivi, e cioè:
a) Della facoltà di nominare un difensore di fiducia e di essere ammesso al patrocinio a spese dello Stato nei casi
ex lege;
b) Del diritto di ottenere informazioni in merito all’accusa;
c) Del diritto all’interprete ed alla traduzione di atti fondamentali;
d) Del diritto di avvalersi della facoltà di non rispondere;
e) Del diritto di acceder agli atti sui quali si fonda il provvedimento;
f) Del diritto di informare le autorità consolari e di dare avviso ai familiari;
g) Del diritto di accedere all’assistenza medica di urgenza;
h) Del diritto di essere condotto davanti all’A.G. entro 5 giorni dall’inizio dell’esecuzione, se la misura applicata è
quella della custodia cautelare in carcere o entro 10 giorni se la persona è sottoposta ad altra misura cautelare;
i) Del diritto di comparire dinanzi al giudice per rendere l’interrogatorio, di impugnare l’ordinanza che dispone la
misura cautelare e di richiederne la sostituzione o la revoca. (co.1)

Qualora la comunicazione scritta di cui al co.1 non sia prontamente disponibili in lingua comprensibile all’imputato, le
informazioni sono fornite oralmente, salvo l’obbligo di dare, senza ritardo, comunicazione scritta all’imputato. (co.1bis)

L’ufficiale/agente di P.G. incaricato di eseguire l’ordinanza informa immediatamente il difensore di fiducia eventualmente
nominato o quello di ufficio designato, e redige verbale di tutte le operazioni compiute, menzionando la consegna della
comunicazione scritta o l’informazione orale fornita. (co.1ter)

Le ordinanze che dispongono misure diverse dalla custodia cautelare sono notificate all’imputato. (co.2)

Le ordinanze ex co.1 e 2, dopo la loro notificazione o esecuzione, sono depositate nella cancelleria del giudice che le ha
emesse insieme alla richiesta del P.M. e agli atti presentati con la stessa. Avviso del deposito è notificato al difensore. Il
difensore ha diritto di esame e di copia dei verbali delle comunicazioni e conversazioni intercettate. Ha diritto alla
trasposizione, su supporto idoneo alla riproduzione dei dati, delle relative registrazioni. (co.3)

Copia dell’ordinanza che dispone una misura interdittiva è trasmessa all’organo eventualmente competente a disporre
l’interdizione in via ordinaria. (co.4)

Tale norma ha una funzione garantista, prevedendo il compimento, nella fase esecutiva, di attività volte a garantire
all’imputato/indagato la tutela del suo diritto di difesa tecnica.

Quanto alla disciplina della latitanza, va ricordata anche l’art 296, enunciate la regola volta a circoscrivere l’operatività dei
suoi effetti al solo “procedimento penale nel quale essa è stata dichiarata”.

La previsione di maggior risalto è quella che autorizza il giudice o il P.M. ad utilizzare lo strumento della intercettazione di
conversazioni o di comunicazioni telefoniche, nonché di altre forme di telecomunicazioni, anche allo scopo di “agevolare le
ricerche del latitante”.

Apposita disciplina è stata dettata nei confronti dei latitanti in rapporto a particolari delitti.

Per agevolare le ricerche del latitante si è stabilito che possa utilizzarsi anche l’intercettazione di comunicazioni tra persone
presenti quando si tratta di latitanti in relazione a delitti ex art 51 co.3bis o uno dei delitti di terrorismo.

Ancora in materia di adempimenti collegati alle misure di custodia cautelare deve ricorsi la l.146/2006 in merito alle
“operazioni sotto copertura”.

L’A.G. può, con decreto motivato, ritardare l’esecuzione dei provvedimenti applicativi di una misura cautelare, quando ciò
sia necessario per acquisire rilevanti elementi probatori, o per l’individuazione o la cattura dei responsabili dei più gravi delitti
di criminalità organizzata.

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Circa la traduzione di persone in stato detentivo, deve essere adottata ogni opportuna cautela per “proteggere” tali persone
“dalla curiosità del pubblico e da ogni specie di pubblicità”, nonché “per evitare ad esse inutili disagi”.

Nell’intento di tutelare la dignità personale delle persone sottoposte a misure restrittive, l’uso delle manette ai polsi è
obbligatorio solo quanto lo richiedano “la pericolosità del soggetto, o il pericolo di fuga, o circostanze di ambiente che
rendono difficile la traduzione”, mentre in qualsiasi altro caso l’uso delle manette è vietato.

Agli adempimenti successivi all’esecuzione della misura della custodia cautelare in carcere appartiene anche l’istituto
dell’interrogatorio dell’indiziato ex art 294.

L’ art 294 (“Interrogatorio della persona sottoposta a misura cautelare personale”) contiene un atto denominato interrogatorio
di garanzia, costituente il primo strumento di difesa riconosciuto all’indagato sottoposto a misura cautelare.

Esso consiste in un adempimento necessario, da esperirsi quando viene emessa una misura cautelare, che consente al giudice di
valutare immediatamente la sussistenza (e la persistenza) dei gravi indizi di colpevolezza e delle esigenze cautelari, nonché
l’adeguatezza della misura adottata.

L’interrogatorio dev’essere effettuato “immediatamente e comunque entro 5 giorni dall’inizio dell’esecuzione della custodia”,
a meno che l’indiziato stesso sia assolutamente impedito.

Ex co.1bis art 294, analogo interrogatorio di garanzia è previsto nei confronti di qualunque persona sottoposta a “misura
cautelare, sia coercitiva che interdittiva”, diversa dalla custodia in carcere, con la precisazione che il predetto adempimento
debba venire assolto “entro 10 giorni dall’esecuzione del provvedimento o dalla sua notificazione”.

Anche in tal caso, l’inosservanza del termine produce la perdita di efficacia della corrispondente misura.

15. L’interrogatorio della persona in stato di custodia. (Art 294)


L’art 294 disciplina le modalità di compimento dell’interrogatorio della persona in stato di custodia.

Sarà lo stesso giudice che ha deciso in ordine al provvedimento restrittivo, salvo la facoltà di richiedere l’assunzione al giudice
del luogo.

L’atto dovrà svolgersi secondo le regole generali dettate in materia (art 64-65 “Regole generali per l’interrogatorio” e
“L’interrogatorio nel merito”).

Da aggiungersi, è l’obbligatorietà della documentazione integrale dell’interrogatorio stesso, con riproduzione


fonografica/audiovisiva.

È una prescrizione “stabilita a pena di nullità” probatoria dei risultati dell’atto; sicché, l’avvenuto interrogatorio (nel caso di
sua inosservanza) dovrà ritenersi idoneo ad integrare tutte quelle fattispecie che lo configurano come presupposto
necessario per il prodursi di misura custodiale, altrimenti sancita ex art 302.

Circa la cornice soggettiva, dell’interrogatorio che verrà condotto dal giudice, essa è definita nel co.4 art 294 col prevedere:

 una facoltà di intervento del P.M. ed un obbligo del difensore correlativo, ai quali verrà dato tempestivo avviso.

Necessario è il rispetto, per il presentarsi del difensore, dell’osservanza del termine, corrispondente a quello (“non superiore
a 5 giorni” dall’inizio della custodia) durante il quale il giudice per le indagini preliminari, dietro richiesta P.M., può
dilazionare l’esercizio del diritto dell’indiziato di conferire con il proprio difensore (art 104, co.3).

Ciò pone il medesimo giudice nella condizione di esercitare questo potere dilatorio, sempreché sussistano “specifiche ed
eccezionali ragioni di tutela”, per consentirgli di interrogare l’indiziato assoggettato a custodia prima dell’eventuale colloquio
con il difensore.

Circa il contenuto di garanzia dell’interrogatorio, in primis, deve essere preceduto dalla verifica che all’imputato in stato di
custodia cautelare in carcere o agli arresti domiciliari sia stata data la comunicazione sui diritti difensivi della persona privata
della libertà personale.

In caso contrario, il giudice dovrà dare o completare la comunicazione o l’informazione.


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Inoltre, ex co.3 art 294, il giudice deve valutare se “permangono” le condizioni di applicabilità e le esigenze cautelari richieste
per l’assoggettamento a custodia ex art 273,274 e 275.

Presumendo che già prima dell’adozione della misura il giudice abbia necessariamente accertato la sussistenza di tali
presupposti, il senso della disposizione è quello di porre le premesse per una nuova valutazione degli stessi, alla luce degli
elementi che gli siano stati forniti dall’indiziato in sede di interrogatorio;

ciò a conferma della natura difensiva degli stessi, in quanto volto a consentire all’indiziato di fare presenti le circostanze
adducibili a suo favore, obbligando il giudice ad un controllo successivo sulla “tenuta” delle valutazioni operate ex ante, a
fronte degli elementi emersi in quella sede.

Infatti, il giudice può provvedere, anche di ufficio, alla revoca/sostituzione della misura disposta.

L’identificazione di tale atto, come interrogatorio di garanzia, risulta alla base dell’indirizzo giurisprudenziale che ritiene tale
interrogatori viziato da nullità quando non sia stato preceduto dal deposito nella cancelleria del giudice dell’ordinanza cautelare
e degli atti indicati.

Riconoscendo tale fisionomia difensiva, si spiega la previsione del meccanismo di caducazione ex art 302 che stabilisce che:

 la custodia cautelare disposta fino alla dichiarazione di apertura del dibattimento “perde immediatamente efficacia”
ogniqualvolta il giudice “non procede all’interrogatorio entro il termine ex 294”.

Lo stesso art 302 (“Estinzione della custodia cautelare per omesso interrogatorio della persona in stato di custodia
cautelare”), continua precisando che, una volta avvenuta la liberazione dell’indiziato, il medesimo potrà essere di nuovo
sottoposto a custodia cautelare, su richiesta del P.M., sempreché ne ricorrano i presupposti, solo dopo che sia stato
interrogato in stato di libertà.

La caducazione poe legis per mancata audizione della persona sottoposta a misura cautelare non preclude la reiterazione
della misura stessa: essa potrà essere nuovamente adottata, su richiesta del P.M., purché l’indagato sia effettivamente posto
in libertà e venga interrogato in stato di libertà dal G.I.P. (o non si presenti a rendere interrogatorio senza giustificato motivo).

In tal caso, la funzione di controllo circa l’esistenza dei presupposti probatori e cautelari, cui è destinato l’interrogatorio,
viene espletata prima del ripristino della misura.

Non sarà invece necessario il previo interrogatorio in caso di nuova emissione di misura cautelare, a seguito di dichiarazione di
inefficacia di quella precedente, per il mancato rispetto dei termini nel procedimento di riesame. La ragione è chiara:

 l’imputato ha già avuto la chance dell’interrogatorio nel corso della procedura del primo provvedimento.

Ritornando all’art 294, la riforma del 1995, nell’attuale versione del co.6, ha sancito espressamente che:
o “l’interrogatorio della persona in stato di custodia cautelare da parte del P.M. non può precedere l’interrogatorio del
giudice”.

È una norma di difficile giustificazione razionale, in virtù della diversa natura dei due interrogatori, tra i quali non dovrebbe
avvenire alcuna collisione funzionale:
 Quello del P.M. presenta un carattere investigativo;
 Quello del giudice presenta una dimensione di garanzia per la persona detenuta.

Sicché, in assenza di ragioni di segno garantistico, la regola della necessaria anteriorità dell’interrogatorio del giudice
sembra potersi spiegare solo alla luce di un aprioristico atteggiamento legislativo di diffidenza verso l’attività dell’organo
dell’accusa.

Dato che in caso di situazioni di urgenza investigativa il P.M. può aver la necessità di interrogare il prima possibile la persona in
custodia, il co.1ter art 294 stabilisce che:

 Ove lo stesso P.M. ne faccia istanza nel presentare la richiesta di custodia cautelare ex art 291, il giudice è tenuto ad
effettuare l’interrogatorio “entro il termine di 48 ore” dall’inizio della custodia.

Il legislatore ha compensato la rigidezza del divieto di anticipazione dell’interrogatorio del P.M., rispetto a quello del giudice,
risultante ex co.6 art 294, e attenuato i possibili inconvenienti per lo sviluppo delle indagini.

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Non è azzardato immaginare che, in eventualità del genere (di urgenza) i P.M. preferiranno ricorrere allo strumento del fermo di
indiziati ex art 384, a seguito del quale il P.M. continua ad essere legittimato ad interrogare l’indiziato sottoposto a fermo, prima
che il medesimo possa essere interrogato del giudice nell’ambito del successivo procedimento di convalida.

È da escludere che nell’ipotesi ex art 1ter art 294, qualora il giudice non effettui il suddetto interrogatorio entro 48 ore, così
come richiestogli dal P.M., ne consegua la caducazione della custodia cautelare sancita ex art 302, dovendosi tale
conseguenza ricondurre alla inosservanza del termine ordinario di 5 giorni ex art 294 co.1.

Rispetto a tale termine, l’unico fissato ex lege a tutela della posizione del detenuto, sarebbe assurdo che la suddetta
iniziativa acceleratoria del P.M. potesse produrre un effetto boomerang, addirittura in chiave di perdita di efficacia della
misura, ove non raggiungesse il suo scopo.

16. Il computo dei termini di durata delle misure. (Art 297)


La disciplina del computo dei termini di durata delle misure cautelari è regolata ex art 297.

Art 297  Computo dei termini di durata delle misure


“Gli effetti della custodia cautelare decorrono dal momento della cattura, dell’arresto o del fermo. (co.1)

Gli effetti delle altre misure decorrono dal momento in cui l’ordinanza che le dispone è notificata ex art 293. (co.2).

Se nei confronti di un imputato sono emesse più ordinanze che dispongono la medesima misura per uno stesso fatto, o per
fatti diversi commessi anteriormente alla emissione della prima ordinanza in relazione ai quali sussiste connessione ex art 12
co.1 lett b,c, limitatamente ai cdi di reati commessi per eseguire gli altri, i termini decorrono dal giorno in cui è stata
eseguita o notificata la prima ordinanza e sono commisurati all’imputazione più grave.
La disposizione non si applica alle ordinanze per fatti non desumibili dagli atti prima del rinvio a giudizio disposto per il fatto
con il quale sussiste connessione ex co.2. (co.3)

L’unica deroga alla regola della retrodatazione del dies a quo per il computo dei termini di durata della misura disposta con le
ordinanze conseguenti alla prima, è quella ricavabile ex co.3.

Alla base del rigido congegno di computo ex co.3, vi è il proposito del legislatore di contrastare una certa deplorevole prassi
giudiziaria (quella delle contestazioni “a catena”), spesso adottata in chiave elusiva dell’ordinaria disciplina dei termini delle
misure cautelari.

Il divieto della suddetta contestazione a catena è diretto ad evitare che venga dilatata la durata della misura cautelare con
l’artificiosa emissione, in tempi diversi, di plurime ordinanze coercitive per lo stesso fatto o per fatti diversi o connessi,
nonostante l’esistenza nel processo, al momento della emanazione del primo provvedimento, di indizi gravi e sufficienti per
emanare un’unica ordinanza per tutti i reati.

Ove la pluralità di ordinanze emesse nei confronti dello stesso imputato riguardi fatti diversi, l’eventuale passaggio in giudicato
della condanna per il fatto considerato nel primo provvedimento cautelare non fa venir meno l’operatività della regola di
retrodatazione del termine iniziale della misura disposta con successiva ordinanza cautelare, non potendo il giudicato produrre
l’effetto di azzerare il tempo della custodia già sofferta.

“Nel computo dei termini della custodia cautelare si tiene conto dei giorni in cui si sono tenute le udienze e di quelli impiegati
per la deliberazione della sentenza nel giudizio di primo grado o nel giudizio sulle impugnazioni solo ai fini della
determinazione della durata complessiva della custodia ex art 303 co.4. (co.4)

Se l’imputato è detenuto per un altro reato o è internato per misura di sicurezza, gli effetti della misura decorrono dal giorno
in cui è notificata l’ordinanza che la dispone [293], se sono compatibili con lo stato di detenzione/internamento; altrimenti
decorrono dalla cessazione di questo.
Ai soli effetti del computo dei termini di durata massima, la custodia cautelare si considera compatibili con lo stato di
detenzione per esecuzione di pena o di internamento per misura di sicurezza.” (co.5)

Quanto disposto ex co.5 disciplina l’ipotesi del cumulo tra un provvedimento cautelare ed un provvedimento di custodia per
altro reato.

La stessa disposizione si preoccupa di stabilire che, gli effetti del computo dei termini massimi, la custodia cautelare “si
considera compatibile con lo stato di detenzione per esecuzione di pena o di internamento per misura di sicurezza”.
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In tema, è da analizzare anche la sospensione dell’esecuzione delle misure.

Art 298  Sospensione dell’esecuzione delle misure


“L’esecuzione di un ordine con cui si dispone la carcerazione nei confronti di un imputato al quale sia stata applicata una
misura cautelare personale per un altro reato ne sospende l’esecuzione, salvo che gli effetti della misura disposta siano
compatibili con la espiazione della pena. (co.1)

La sospensione non opera quando la pena è espiata in regime di misure alternative alla detenzione.” (co.2)

17. I provvedimenti di revoca e di sostituzione. Capo V (Art 299-308)


L’art 299 riunisce in un unico contesto normativo le ipotesi di “revoca e sostituzione delle misure”.

In tal cornice si delinea l’istanza di revoca come fattispecie estintiva delle misure cautelari personali, la quale mira a
verificare la sussistenza attuale delle condizioni di applicabilità delle misure (ex art 273), in riferimento sia a fatti
sopravvenuti che a fatti originari e coevi all’ordinanza impositiva.

È una tipica applicazione delle regole di discrezionalità vincolata cui deve attenersi il giudice nel momento applicativo delle
suddette misure.

Art 299  Revoca e sostituzione delle misure


“Le misure coercitive e interdittive sono immediatamente revocate quando risultano mancanti, anche per fatti sopravvenuti,
le condizioni previste ex art 273 o dalle disposizioni relative alle singole misure o le esigenze cautelari ex 274. (co.1)

Salvo quanto previsto ex 275 co.3, quando le esigenze cautelari risultano attenuate o la misura applicata non appare più
proporzionata all’entità del fatto o alla sanzione che si ritiene possa essere irrogata, il giudice sostituisce la misura con
un’altra meno grave o ne dispone l’applicazione con modalità meno gravose. (co.2)

Quanto ai profili procedurali, durante le indagini preliminari, il giudice debba provvedere in ordine alla revoca ed alla
sostituzione delle misure, di regola, solo dietro richiesta del P.M. o dell’imputato, ed entro 5 giorni dal deposito di tal richiesta.

Ai sensi del co.3, nel corso delle indagini preliminari, il giudice può assumere d’ufficio l’iniziativa della revoca o della
sostituzione delle misure suddette, quando risulti già investito del procedimento per l’esercizio di uno dei poteri
appartenenti alla sua competenza funzionale, in particolare:
 Quando assuma l’interrogatorio dell’indiziato in stato di custodia cautelare ex art 294;
 O quando sia richiesto della proroga del termine per le indagini preliminari ex 406;
 O quando proceda all’assunzione di un incidente probatorio ex 392 ss.

Prima di provvedere sulla revoca/sostituzione delle misure (d’ufficio o su richiesta dell’imputato) il giudice deve sempre sentire
il P.M., il quale esprimerà il proprio parere entro 2 giorni successivi, salvo la possibilità (per il giudice) di procedere alla decisione
qualora, entro tale termine, il suddetto parere non sia stato espresso. (co.3bis art 299)

Stessa regola vale nel caso in cui la revoca/sostituzione della misura applicata, o la sua applicazione con modalità meno gravose,
venga richiesta dall’imputato dopo la chiusura delle indagini preliminari. (co.4bis art 299)

In tutte queste ipotesi, il co.3ter dispone che il giudice (avendo valutato gli elementi posti a fondamento della richiesta di
revoca/sostituzione), prima di provvedere possa sempre procedere ad interrogatorio della persona sottoposta alla misura.

Senonché tale interrogatorio diventa doveroso per il giudice, ove l’imputato lo abbia specificamente richiesto, quando
l’istanza di revoca/sostituzione della misura sia basata su “elementi nuovi o diversi rispetto a quelli già valutati.”

Particolare attenzione è richiesta nel caso di revoca/sostituzione di determinate misure coercitive applicate nei procedimenti
aventi ad oggetto delitti commessi con violenza alla persona:

 Il provvedimento deve essere immediatamente comunicato a cura della P.G. ai servizi socio-assistenziali e al difensore
della persona offesa.

A meno che la revoca/sostituzione siano state proposte in sede di interrogatorio di garanzia, il richiedente deve notificare
l’atto presso il difensore della persona offesa o, in mancanza di quest’ultimo, alla persona offesa, salvo che non abbia
provveduto a dichiarare o eleggere domicilio;
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il difensore e la persona offesa potranno presentare, entro i 2 giorni successivi alla notifica, una memoria al giudice, il quale
procede una volta decorso il predetto termine. (co.3 art 299)

Qualora si accerti che le esigenze cautelari si sono accresciute rispetto a quelle individuate alla base della misura applicata, è
previsto che il giudice, su richiesta del P.M., debba sempre sostituire la misura originaria con un’altra più rigida, o disporne
l’applicazione con modalità più gravose; potendo disporre, in alternativa alla sostituzione in peius, l’applicazione, congiunta a
quella in esecuzione, di altra misura coercitiva o interdittiva (co.4 art 299).

È poi stabili che il giudice possa “in ogni stato e grado del procedimento” disporre anche d’ufficio, e prescindendone da
particolari formalità, i necessari “accertamenti sulle condizioni di salute o su altre condizioni o qualità personali
dell’imputato” (co.4ter 299)

A tal proposito, particolare disciplina è dettata alle ipotesi che si verificano quando la richiesta di revoca/sostituzione della
misura della custodia cautelare sia fondata sulle “condizioni di salute particolarmente gravi” ex co.4bis art 299.

in tale ultima ipotesi, qualora il giudice non ritenga di accogliere tale richiesta sulla base degli atti prodotti, è prescritto che
debbano essere disposti “con immediatezza” gli accertamenti medici del caso, con la nomina di un perito ad hoc, il quale
dovrà “tener conto del parere del medico penitenziario” e riferire al giudice “entro 5 giorni o, in caso di rilevata urgenza, non
oltre 2 giorni dall’accertamento”.

In tutte le ipotesi ex art 299 co.4ter, durante il periodo compreso tra il provvedimento che dispone gli accertamenti e la
scadenza del termine per il loro espletamento, il termine di 5 giorni sancito per la pronuncia del giudice ex co.3, è sospeso.

In tali situazioni trova applicazione il disposto dell’art 286bis co.3 (“Divieto di custodia cautelare”), permettendo di disporre il
ricovero provvisorio dell’imputato (avendo accertato le condizioni di salute) in idonea struttura del servizio sanitario per il
tempo necessario, adottando se del caso adeguate cautele.

18. Particolari fattispecie di estinzione automatica delle misure. (Art 300-302)


Presupponendo un provvedimento di accertamento sulla carenza, o sul grado di differenziata intensità, dei presupposti delle
misure cautelari, il codice dà risalto ad alcune altre figure di estinzione caratterizzate dall’automatismo degli effetti, in quanto
derivanti dal verificarsi di determinati eventi.

 Estinzione della custodia cautelare ex art 302, a causa dell’omesso interrogatorio dell’indiziato entro il termine ex art
294 (semplicemente da ricordare);
 Estinzione ipso iure di tutte le suddette misure in conseguenza della pronuncia di determinati provvedimenti, sulla
base dell’art 300.

Art 300  Estinzione delle misure per effetto della pronuncia di determinate sentenze
“Le misure disposte in relazione a un determinato fatto perdono immediatamente efficacia quando, per tale fatto e nei
confronti della medesima persona, è disposta l’archiviazione o è pronunciata sentenza di non luogo a procedere o di
proscioglimento. (co.1)

Se l’imputato si trova in stato di custodia cautelare e con la sentenza di proscioglimento/di non luogo a procedere è applicata
la misura di sicurezza del ricovero in ospedale psichiatrico giudiziario, il giudice provvede ex art 312 (“Condizioni di
applicabilità misure di sicurezza”). (co.2)

Quando, in qualsiasi grado del processo, è pronunciata sentenza di condanna, le misure perdono efficacia se la pena irrogata
è dichiarata estinta o condizionalmente sospesa. (co.3)

La custodia cautelare perde efficacia quando è pronunciata sentenza di condanna, ancorché sottoposta a impugnazione, se
la durata della custodia già subita non è inferiore all’entità della pena irrogata. (co.4)

Qualora l’imputato prosciolto o nei confronti del quale sia stata emessa sentenza di non luogo a procedere sia
successivamente condannato per lo stesso fatto, possono essere disposte nei suoi confronti misure coercitive quando
ricorrono le esigenze cautelari previste ex art 274 co.1 lett b/c. (co.5)

In tutte queste ipotesi ex art 299 l’effetto estintivo si produce di diritto, sicché il giudice dovrà adottare con ordinanza i
provvedimenti necessari per far cessare immediatamente l’esecuzione delle misure ormai estinte.

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Quando, poi, la cessazione della misura consegua ad una sentenza della corte di cassazione, si applica l’art 626.

Da interpretare bene è l’art 624bis, stando al quale la corte di cassazione “nel caso di annullamento della sentenza di
appello, dispone la cessazione delle misure cautelari”. Ovviamente tale disposto si applica solo alle misure cautelari adottate
“nei casi di condanna di appello”.

Resta fermo il principio per cui non potrà farsi luogo alla “immediata liberazione” della persona sottoposta a custodia cautelare
quando tale custodia debba continuare per un altro reato, o la persona stessa debba essere consegnata ad altra autorità.

Avendo analizzato l’art 300, ad analogo meccanismo estintivo si riconduce l’ipotesi di caducazione ex art 301, col prevedere
la perdita di efficacia delle misure applicate per esigenze cautelari di natura probatoria, quando alla scadenza del termine
fissato nel provvedimento applicativo, non ne venga ordinata la rinnovazione.

Si tratta di una previsione generale, applicabile a tutte le misure cautelari adottate per finalità probatoria.

In particolare, la loro rinnovazione (da disporre con nuova ordinanza applicativa) potrà essere disposta dal giudice, su
richiesta del P.M. anche per più di una volta, purché entro i termini massimi di durata previsti ex 305 co.2 e 308

Sono poi venute a collocarsi, a seguito delle riforme 1995, i nuovi co.2bis e 2ter art 301.

Art 301 Estinzione di misure disposte per esigenze probatorie


“Salvo il disposto dell’art 292 co.2 lett d, quando si procede per i reati diversi da quelli previsti ex art 407 co.2 lett.a n.1-6, sia
da quelli per il cui accertamento sono richieste archiviazioni complesse……, la custodia cautelare in carcere, disposta per il
compimento delle indagini previste ex art 274 co.1 lett.a, dura massimo 30 giorni.” (co.2bis)

“La proroga della medesima misura è disposta, per non più di 2 volte ed entro il limite complessivo di 90 giorni, dal giudice
con ordinanza, su richiesta inoltrata dal P.M. prima della scadenza, valutate le ragioni che hanno impedito il compimento
delle indagini per le cui esigenze la misura era stata disposta e previo interrogatorio dell’imputato.” (co.2ter)

Nulla esclude che, alla scadenza di tale termine (di proroga) il P.M. possa chiedere, ed il giudice disporre, la rinnovazione della
custodia in carcere nei confronti dello stesso imputato e sempre per esigenze di natura probatoria.

Tale rinnovazione dovrà essere disposta con pronuncia di un provvedimento idoneo a fungere da nuovo titolo di custodia, in
conformità dei limiti legali di durata.

Attraverso la predeterminazione del termine di durata entro i limiti assai ristretti, l’art 301 mira a realizzare un equo
bilanciamento tra la limitazione della libertà personale e le esigenze cautelari di natura processuale, connesse all’acquisizione
e alla genuinità della prova.

19. I termini di durata massima della custodia cautelare. (Art 303)


L’art 303 (“Termini di durata massima della custodia cautelare”) individua tutte le varie ipotesi in cui si realizza il fenomeno della
caducazione della misura custodiale per decorso dei termini massimi della stessa.

Nel co.1 è prevista una serie di:

 termini “autonomi” di durata massima della custodia cautelare in relazione ai diversi stati/gradi del procedimento,
 e (con riferimento a ciascuna di tali suddette fasi) i termini “intermedi” sono stati differenziati in funzione della gravità
dell’imputazione e in funzione della pena applicata in concreto, quando già vi sia stata sentenza di condanna.

Tale disposizione definisce i presupposti della perdita di efficacia della custodia cautelare per effetto del decorso del tempo,
ed il conseguente “diritto dell’imputato” ad essere “scarcerato”.

La necessità di bilanciare le esigenze cautelari con i diritti di libertà dell’indagato è realizzata con la fissazione di limiti alla
durata della custodia correlati allo stadio del procedimento ed alla gravità del reato, sul presupposto che la lentezza della
giustizia non può indefinitivamente pregiudicare lo status libertatis dell’individuo il quale, in assenza di una decisione definitiva
di condanna, è pur sempre beneficiario della presunzione di non colpevolezza.

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In particolare, ex co.1 art 303, per quanto riguarda la fase preliminare, la custodia cautelare è destinata a perdere efficacia
quando, dall’inizio della sua esecuzione, e senza che sia stato emesso il decreto che dispone il giudizio/ordinanza di giudizio
abbreviato, siano decorsi i seguenti termini:

a) 3 mesi, quando si procede per un delitto per il quale la legge stabilisce la pena della reclusione non superiore nel massimo a
6 anni;
b) 6 mesi, quando si procede per un delitto per il quale è stabilita la pena della reclusione superiore nel massimo a 6 anni;
c) 1 anno, quando si procede per un delitto per il quale è stabilita la pena dell’ergastolo/reclusione non inferiore nel massimo
a 20 anni, oppure per uno dei delitti ex art 407 co.2 lett.a.

Per quanto riguarda la fase del giudizio di primo grado. Secondo il rito ordinario, la custodia è destinata a perdere efficacia
quando dal provvedimento che dispone il giudizio, e senza che sia stata pronunciata sentenza di primo grado, la sua durata
abbia superato il termine di:

 6 mesi, quando si procede per un delitto per il quale la legge stabilisce la pena della reclusione non superiore nel
massimo a 6 anni;
 1 anno, quando si procede per un delitto per il quale risulta stabilita la pena della reclusione non superiore nel
massimo a 20 anni;
 1 anno e 6 mesi quando si procede per un delitto per il quale risulta stabilita la pena dell’ergastolo o della reclusione
superiore nel massimo a 20 anni.

Qualora si proceda per uno dei delitti ex art 407 co.2 lett.a i termini menzionati “sono aumentati fino a 6 mesi”, con la
precisazione che quest’ultimo termine dev’essere imputato:
 al termine previsto per la fase precedente,
 o ai termini previsti per le fasi successive

alla sentenza di condanna in appello, che saranno corrispondentemente ridotti.

Per quanto riguarda la fase del giudizio abbreviato, la custodia è destinata a perdere efficacia quando dall’ordinanza con cui sia
stato disposto tale giudizio, e sena che sia stata pronunciata sentenza di condanna ex art 442, la sua durata abbia superato il
termine di:

 3 mesi, quando si procede per un delitto per il quale la legge stabilisce la pena della reclusione non superiore nel
massimo a 6 anni;
 6 mesi, quando si procede per un delitto per il quale risulta stabilita la pena della reclusione non superiore nel
massimo a 20 anni;
 9 mesi, quando si procede per un delitto per il quale risulta stabilita la pena dell’ergastolo/reclusione superiore nel
massimo a 20 anni.

Il criterio è diverso, invece, relativamente alle ulteriori fasi di giudizio perché la definizione dei termini massimi intermedi è
stata operata facendo riferimento alla pena concretamente irrogata in sede di condanna.

Così, per quanto riguarda la fase del giudizio di secondo grado, la custodia cautelare è destinata a perdere efficacia quando
dalla pronuncia della sentenza di condanna in primo grado, e senza che sia stata pronunciata sentenza di condanna in
appello, sia decorso il termine di:
 9 mesi, se vi è stata condanna alla pena della reclusione non superiore a 3 anni;
 1 anno, se vi è stata condanna alla pena della reclusione non superiore a 10 anni;
 1 anno e 6 mesi se vi è stata condanna alla pena dell’ergastolo/reclusione superiore a 10 anni.

Stessa disciplina si applica nelle fasi di giudizio successive alla pronuncia della sentenza di condanna in grado di appello, e finché
la condanna non sia diventata irrevocabile, salva una importante precisazione, in particolare:

 Quando vi sia già stata condanna anche in primo grado,


 O quando l’impugnazione sia stata proposta esclusivamente dal P.M.

si stabilisce che non debba più farsi riferimento ai termini intermedi di fase, ma che si applichi “soltanto” la disposizione ex art
303 co.4, contenente i termini di durata complessiva della custodia cautelare.

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Per completare il quadro, ricordiamo il co.2, per cui nell’eventualità di regresso del procedimento ad una diversa fase, o di
rinvio dinanzi ad un diverso giudice, a partire dalla data del correlativo provvedimento, riprendono a decorrere ex novo i
termini stabiliti con riguardo a ciascuno stato e grado del procedimento.

Si spiega anche la previsione di un termine massimo di “durata complessiva” della custodia che il co.4 individua a tre diversi
livelli, definiti in base alla gravità dell’imputazione, sulla base della seguente scansione:

 2 anni, quando si procede per un delitto per il quale la legge stabilisce la pena della reclusione non superiore nel
massimo a 6 anni;
 4 anni, quando si procede per un delitto per il quale la legge stabilisce la pena della reclusione non superiore nel
massimo a 20 anni;
 6 anni, quando si procede per un delitto per il quale la legge stabilisce la pena della reclusione superiore nel massimo a
20 anni o l’ergastolo.

In queste ipotesi risulta superato il “tetto” dei 4 anni indicato come soglia massima per la durata complessiva della custodia
cautelare, ed evidentemente ritenuto poco realistico in luogo di riforma dell’art 303.

I limiti indicati, di regola dall’art 303 co.4 non sono suscettibili di superamento:

 Né in forza del meccanismo di proroga dei termini di custodia ex 305;


 Né in forza della previsione di “neutralizzazione” dei giorni di udienza, nonché di quelli utilizzati per la deliberazione
della sentenza nella fase del giudizio.

20. Proroga e sospensione dei termini massimi di custodia. (Art 304-305)


Nell’analizzare le deroghe all’ordinaria disciplina dei termini di durata massima della custodia cautelare, analizziamo la
sospensione e la proroga di quei termini.

Art 305  Proroga della custodia cautelare


“In ogni stato e grado del procedimento di merito, quando è disposta perizia sullo stato di mente dell’imputato, i termini di
custodia cautelare sono prorogati per il periodo di tempo assegnato per l’espletamento della perizia.
La proroga è disposta dal giudice con ordinanza, su richiesta del P.M., sentito il difensore.
L’ordinanza è soggetta a ricorso per cassazione nelle forme previste dall’art 311. (co.1)

Nel corso delle indagini preliminari, il P.M. può chiedere la proroga dei termini di custodia cautelare che siano prossimi a
scadere, quando sussistono gravi esigenze cautelari che, in rapporto ad accertamenti particolarmente complessi o a nuove
indagini disposte, rendano indispensabile il protrarsi della custodia.
Il giudice, sentito il P.M. e il difensore, provvede con ordinanza appellabile ex art 310. (contraddittorio semplificato ma
effettivo)
La proroga è rinnovabile una sola volta.
I termini previsti dall’art 303 co.1 non possono essere superati di oltre la metà.” (co.2)

La proroga della custodia cautelare nel corso delle indagini preliminari è istituto di carattere eccezionale, con riferimento alle
esigenze cautelari (che devono essere gravi), al collegamento tra queste e la proroga (che deve essere indispensabile) e agli
accertamenti da compiere (che devono essere particolarmente complessi).

La disciplina della sospensione ex art 304 (“Sospensione dei termini di durata massima della custodia cautelare”) presenta
particolar complessità.

La sospensione viene trattata come fenomeno idoneo a determinare in certi casi, anche il superamento dei termini ex art
303 co.4 per la durata complessiva della custodia cautelare.

Gli interrogativi di maggior risalto investono la definizione delle fattispecie di sospensione dei termini di custodia, che l’art
304 co.1 ha individuato in riferimento a varie situazioni relative alla fase del giudizio.

Con riguardo, alle ipotesi di sospensione/rinvio del dibattimento:

 Da un lato, per impedimento dell’imputato o suo difensore, o dietro loro richiesta;


 Dall’altro, a causa della mancata presentazione, dell’allontanamento o della mancata partecipazione di uno o più
difensori, qualora ne rimangano privi di assistenza uno o più imputati.
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Deve poi aggiungersi la sospensione dei termini di custodia, sempre nella fase del giudizio, durante “la pendenza dei termini
previsti ex art 544 co.2 e 3” per la redazione differita dei motivi della sentenza.

Analogamente, i termini devono essere sospesi quando le situazioni descritte si verifichino nell’ambito del giudizio
abbreviato.

Inserendo, nel 1995, il nuovo co.4 art 304, l’operatività dell’istituto della sospensione dei termini di custodia è stata allargata
anche alla fase della udienza preliminare.

In particolare i termini ex 303 co.1 sono sospesi tutte le volte in cui la stessa udienza venga sospesa/rinviata per il verificarsi di
uno dei “casi indicati ex art 304 co.1 lett.a,b”.

Figura speciale di sospensione è quella conseguente alla “sospensione del processo” a seguito di richiesta di rimessione ex
art 47.

Al riguardo si osservano le disposizioni ex art 304, a cominciare dall’adozione del provvedimento sospensivo con “ordinanza
appellabile”.

Sempre nel 1995, è stato aggiunto il nuovo co.5 stando al quale le ipotesi di sospensione ex 304 co.1 lett.a,b e co.4 “non si
applicano”, all’interno del processo cumulativo, nei confronti dei coimputati cui le stesse “non si riferiscono”, sempreché questi
ultimi chiedano che nei loro confronti si proceda “previa separazione dei processi”.

Il legislatore si è poi preoccupato di disciplinare l’eventualità di una sospensione dei termini anche in relazione “allo
svolgimento e complessità” del dibattimento medesimo.

Nel co.2 ha, dunque, stabilito che il regime della sospensione (in caso di complessità dei dibattimenti/giudizi abbreviati
relativi a gravi delitti ex art 407 co.2 lett.a) può venir esteso anche ai periodi di tempo in cui “sono tenute le udienze o si
delibera la sentenza” nella fase del giudizio.

Ai sensi del co.3, quando sussistono i presupposti definiti dal co.2 art 304, la sospensione dei termini di custodia non potrà venir
disposta dal giudice ex officio, ma unicamente dietro richiesta del P.M., e sempre con ordinanza appellabile ex 310.

Se manca tale richiesta, o non venga pronunciato il suddetto provvedimento sospensivo, si verificherà l’effetto di
“congelamento” del decorso dei termini di custodia ex art 297 co.4.

Il nuovo co.6 art 304 individua il limite finale di durata su due distinti livelli:

 Da un lato, avendo riguardo alla durata della custodia nelle diverse fasi del procedimento, si stabilisce che tale
durata non possa in ogni caso superare il doppio dei termini “intermedi” di fase sanciti ex 303 co.1,2 e 3, senza
tener conto dell’ulteriore termine ex 303 co.1 lett.b n.3bis.

 Dall’altro, avendo riguardo alla durata complessiva della custodia, si stabilisce che tale durata non può superare i
termini ex 303 co.4 “aumentati della metà”, o quando risulti più favorevole, il limite commisurato ai “due terzi del
massimo della pena temporanea prevista per il reato contestato o ritenuto in sentenza”.

Così facendo si è ridotto il tetto massimo di potenziale prolungamento della durata della custodia cautelare.

L’unica deroga alla disciplina dei termini fissata ex co.6 art 304, si ricava dal co.7, dove è previsto che dei “periodi di
sospensione” si tenga conto solo nel computo riguardante il limite relativo alla durata complessiva della custodia, e non anche in
quello riguardante il limite relativo alle diverse fasi del procedimento, operandosi così una sorta di “neutralizzazione” dei
suddetti “periodi”.

Ricordiamo anche come, il corso della prescrizione rimane sospeso anche nel caso in cui “la sospensione…dei termini di
custodia cautelare è imposta da una particolare disposizione di legge”.

Il richiamo sembra operato alle ipotesi in cui venga effettivamente disposta la sospensione dei termini di custodia cautelare,
e dunque con esclusivo riguardo ai processi con imputati sottoposti a custodia.

Sicché, la sospensione del corso della prescrizione dovrebbe operare anche nei confronti degli imputati in stato di libertà.

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21. I provvedimenti adottabili nei confronti dell’imputato scarcerato per decorrenza dei termini. (Art 307)
L’art 307 disciplina i provvedimenti adottabili nei confronti dell’imputato “scarcerato” per decorrenza dei termini massimi di
custodia cautelare, delineando una duplice prospettiva di interventi in chiave sostitutiva.

1) Anzitutto, si stabilisce che a carico dell’imputato il giudice debba disporre le altre misure cautelari di cui ricorrano i
presupposti (escludendo, ovviamente gli arresti domiciliari, per la loro equiparazione alla custodia), sempreché si accerti la
permanenza delle esigenze che avevano giustificato la sua sottoposizione alla custodia;

inoltre, le misure previste ex art 281, 282 e 283 potranno essere disposte anche “cumulativamente” quando si proceda per uno
dei delitti ex art 407 co.2 lett.a.

2) In secondo luogo, si prevede che anche successivamente alla scarcerazione per decorrenza dei termini, la custodia
cautelare debba essere rinnovata quando si verifichino due situazioni di specifica rilevanza cautelare (idonee a legittimare il
ripristino della misura custodiale):

a. L’ipotesi dell’imputato scarcerato che abbia dolosamente trasgredito alle prescrizioni inerenti ad una delle misure
cautelari applicategli in luogo della custodia;

b. L’ipotesi della sopravvenienza a carico del suddetto imputato di una sentenza di condanna di primo/secondo
grado (qualora il medesimo si sia dato alla fuga o si accerti un concreto pericolo di fuga).

In queste ultime ipotesi, il ripristino della custodia potrà avvenire sia “contestualmente”, sia “successivamente” alla
sentenza stessa.

Il co.3 art 307 si preoccupa di dettare la regola della decorrenza ex novo dei termini relativi alla fase in cui il procedimento si
trova e la stessa regola risulta sancita dall’art 303 co.3 anche con riguardo al caso dell’imputato sottrattosi mediante evasione
all’esecuzione della custodia cautelare (reviviscenza della custodia cautelare, con il nuovo decorso dei termini correlativi).

Il co.4 prevede che la P.G. possa chiedere il fermo dell’imputato che, trasgredendo alle prescrizioni inerenti a una misura
cautelare disposta ex co.1, o nell’ipotesi prevista dal co.2 lett.b, o stia per darsi alla fuga.

Del fermo è data notizia senza ritardo, o comunque entro 24 ore, al procuratore della Repubblica, presso il tribunale del luogo
ove il fermo è stato eseguito.

Con il provvedimento di convalida, il giudice per le indagini preliminari, se il P.M. ne fa richiesta, dispone con ordinanza, quando
ne ricorrono le condizioni, la misura della custodia cautelare e trasmette gli atti al giudice competente.

Con tale norma, dunque, all’imputato scarcerato per decorrenza dei termini di custodia possono essere applicate altre
misure coercitive se permangono le esigenze cautelari; è escluso che possa applicarsi la misura degli arresti domiciliari, in
quanto equiparata, negli effetti, alla custodia cautelare.

Al fine dell’applicazione della misura occorre una verifica in positivo della persistenza delle condizioni di applicabilità.

22. I termini di durata massima delle misure cautelari non custodiali. (Art 308)
L’art 308 nel definire la disciplina dei termini di durata massima delle misure diverse dalla custodia cautelare, opera una
distinzione di fondo a seconda che si tratti di misure coercitive o interdittive.

Art 308  Termini di durata massima delle misure diverse dalla custodia cautelare
“Le misure coercitive diverse dalla custodia cautelare [281,282,283] perdono efficacia quando dall’inizio della loro esecuzione
[293] è decorso un periodo di tempo pari al doppio dei termini previsti ex 303. (co.1)

Le misure interdittive non possono avere durata superiore a 12 mesi e perdono efficacia quando è decorso il termine fissato
dal giudice nell’ordinanza. In ogni caso, qualora siano state disposte per esigenze probatorie, il giudice può disporne la
rinnovazione nei limiti temporali previsti dal primo periodo del comma presente. “ (co.2)

Il testo del co.2 è il risultato della riforma della l.47/2015, prevedendo ora 12 mesi (a fronte dei soli 2 mesi del testo originario).
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“L’estinzione delle misure interdittive non pregiudica l’esercizio dei poteri che la legge attribuisce al giudice penale o ad altre
autorità dell’applicazione di pene accessorie o di altre misure interdittive.” (co.3)

Tale articolo, dunque, prevede i termini di durata sia delle misure coercitive sia delle misure interdittive.

Finalità della riforma sulle misure cautelari è quella di dilatare la durata delle misure interdittive da 2 mesi a 12 mesi il periodo
di possibile applicazione delle misure interdittive da parte del giudice e sopprimendo il secondo periodo del co.2, cioè l’attuale
possibilità di disporne la rinnovazione (oltre i 2 mesi) quando le misure siano disposte per esigenze probatorie, fermo restando il
rispetto dei limiti previsti dal co.1.

Per ragioni di coordinamento si è abrogato il co.2bis che ha esteso da 2 a 6 mesi l’efficacia delle misure interdittive nel caso si
proceda per alcuni specifici delitti contro la pubblica amministrazione.

Analoga soppressione concerne la previsione secondo cui, se tali misure interdittive sono state disposte per esigenze probatorie,
il giudice, nell’ipotesi in questione, può disporne la rinnovazione anche oltre 6 mesi dall’inizio dell’esecuzione, fermo restando
che la loro efficacia viene meno se dall’inizio della loro esecuzione è decorso un periodo di tempo pari al triplo dei termini di
durata massima della custodia cautelare, previsti ex art 303.

23. Il procedimento di riesame dei provvedimenti coercitivi dinanzi al tribunale. Capo VI (Art 309-311)
Per i rimedi contro i provvedimenti applicativi delle misure cautelari sono riconducibili i vari istituti delle impugnazioni, tra cui il
riesame, l’appello e il ricorso per cassazione per saltum (Capo V “Impugnazioni” art 309-311).

Non va dimenticato che le decisioni cautelari sono immediatamente esecutive, e che qui (a differenza di ciò che vale per la
sentenza) opera il principio ex 588 co.2, per cui:

 Le impugnazioni contro i provvedimenti in materia di libertà personale “non hanno in alcun caso effetto sospensivo”.

Circa il profilo dell’interesse ad impugnare nell’ambito del procedimento cautelare, l’interesse dell’indagato a proporre
impugnazione contro ordinanza che abbia applicato o mantenuto a suo carico la misura della custodia cautelare permanga
anche nel caso di revoca di tal misura, o di una sua sostituzione con una misura meno grave.

In tali ipotesi la persistenza del suddetto interesse in capo all’indagato si radica sull’esigenza dello stesso di poter ottenere una
decisione irrevocabile circa l’illegittimità dell’originaria misura custodiale, idonea a fungere da presupposto del diritto alla
riparazione per ingiusta detenzione nel caso previsto ex art 314 co.2.

L’art 309 delinea lo strumento del riesame “anche nel merito” utilizzabile esclusivamente contro le ordinanze che abbiano
disposto una misura coercitiva.

Art 309  Riesame delle ordinanze che dispongono una misura coercitiva
“Entro 10 giorni dalla esecuzione/notificazione del provvedimento, l’imputato può proporre richiesta di riesame, anche nel
merito, della ordinanza che dispone una misura coercitiva [281-286], salvo che si tratti di ordinanza emessa a seguito di
appello o del P.M. [310]. (co.1)

Per l’imputato latitante il termine decorre dalla data di notificazione eseguita ex art 165. Tuttavia, se sopravviene
l’esecuzione della misura, il termine decorre da tale momento quando l’imputato prova di non aver avuto tempestiva
conoscenza del provvedimento. (co.2)

Il difensore dell’imputato può proporre la richiesta di riesame entro 10 giorni dalla notificazione dell’avviso di deposito
dell’ordinanza che dispone la misura. (co.3)

Nei termini previsti ex co.1,2,3 non si computano i giorni per i quali è stato disposto il differimento del colloquio. (co.3bis)

Appare evidente come la titolarità spetta al solo imputato, accanto al quale è menzionato anche il difensore, salva la previsione
di un diverso regime di decorrenza del termine di 10 giorni fissato per proporre il riesame.

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“La richiesta di riesame è presentata nella cancelleria del tribunale indicato ex co.7. Si osservano le forme previste ex 582 e
583. (co.4)

“Sulla richiesta di riesame decide, in composizione collegiale, il tribunale del capoluogo del distretto di corte d’appello, in cui
ha sede l’ufficio del giudice che abbia emesso l’ordinanza impugnata.” (co.7)

“Il presidente cura che sia dato immediato avviso all’A.G. procedente la quale, entro il giorno successivo, e comunque non
oltre il 5°giorno, trasmette gli atti presentati ex 291 co.1, nonché tutti gli elementi sopravvenuti a favore della persona
sottoposta alle indagini. (co.5)

Quest’ultimo termine (“non oltre il 5°giorno”) deve ritenersi decorrente dal giorno stesso della presentazione della richiesta di
riesame.

Insieme agli atti, cioè quelli già presentati dal P.M. al giudice, in vista dell’adozione del provvedimento, dovranno venir trasmessi
al tribunale “tutti gli elementi sopravvenuti a favore della persona sottoposta alle indagini”.

“Con la richiesta di riesame possono essere enunciati anche i motivi e l’imputato può chiedere di comparire personalmente.
Chi ha proposto la richiesta ha, inoltre, facoltà di enunciare nuovi motivi davanti al giudice del riesame facendone dare atto a
verbale prima dell’inizio della discussione.” (co.6)

Tra questi motivi, che potranno riguardare in primis i presupposti della misura coercitiva adottata, sia sotto il profilo del fumus
commissi delicti, sia sotto il profilo del periculum libertatis, devono ritenersi sempre compresi anche quelli diretti a contestare
la sussistenza dei “gravi indizi di colpevolezza”.

L’imputato ha inoltre il diritto di presenziare di persona all’udienza.

“Il procedimento davanti al tribunale si svolge in camera di consiglio nelle forme ex 127. L’avviso della data fissata per
l’udienza è comunicato, almeno 3 giorni prima, al P.M. presso il tribunale indicato nel co.7 e, se diverso, a quello che ha
richiesto l’applicazione della misura; esso è notificato, altresì, entro lo stesso termine, all’imputato ed al suo difensore.
Fino al giorno dell’udienza gli atti restano depositati in cancelleria, con facoltà per il difensore di esaminarli e di estrarne
copia.” (co.8)

“Il P.M. che ha richiesto l’applicazione della misura può partecipare all’udienza in luogo del P.M. presso il tribunale indicato
nel co.7. L’imputato che ne abbia fatto richiesta ex co.6 ha diritto di comparire personalmente.” (co.8bis)

“Entro 10 giorni dalla ricezione degli atti il tribunale, se non deve dichiarare l’inammissibilità della richiesta, annulla, riforma
o conferma l’ordinanza oggetto del riesame decidendo anche sulla base degli elementi addotti dalle parti nel corso
dell’udienza.
Il tribunale può annullare il provvedimento impugnato o riformarlo in senso favorevole all’imputato anche per motivi diversi
da quelli enunciati o può confermarlo per ragioni diverse da quelle indicate nella motivazione del provvedimento stesso.
Il tribunale annulla il provvedimento impugnato se la motivazione manca o non contiene l’autonoma valutazione, ex 292,
delle esigenze cautelari, degli indizi e degli elementi forniti dalla difesa.” (co.9)

Nel co.9 (introdotto nel 2015) sono definiti le tipologie di provvedimenti adottabili dal tribunale stesso:

 Declaratoria di inammissibilità della richiesta;


 Annullamento, riforma o conferma dell’ordinanza sottoposta a riesame;
 Revoca dell’ordinanza su descritta.

Il tribunale, dovendo tener conto pure degli ulteriori “elementi addotti dalle parti” procede senza una vera e propria attività
istruttoria, incompatibile con le esigenze di speditezza del procedimento incidentale di controllo.

La richiesta di riesame ha natura di mezzo totalmente devolutivo, in quando si attribuisce al tribunale il potere di provvedere,
anche nel merito, senza particolari vincoli della cognizione e della decisione.

L’ultima parte del comma sarebbe (nell’idea originaria della l.47/2015) da ricondurre all’obbligo costituzionale di disporre
limitazioni della libertà personale solo con “atto motivato dall’A.G.” ex art 13 co.2 Cost, il quale è riferito al momento genetico
dell’atto coercitivo.

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“Su richiesta formulata personalmente dall’imputato entro 2 giorni dalla notificazione dell’avviso, il tribunale differisce la
data dell’udienza da un minimo di 5 ad un massimo di 10 giorni se vi siano giustificati motivi. In tal caso il termine per la
decisione e quello per il deposito dell’ordinanza sono prorogati nella stessa misura.” (co.9bis)

Il co.9bis dispone una deroga, prevista per evitare che l’eccessiva compressione dei tempi possa nuocere all’efficacia dell’azione
difensiva.

“Se la trasmissione degli atti non avviene nei termini di cui al co.5 (non oltre il 5°giorno) o se la decisione sulla richiesta di
riesame o il deposito dell’ordinanza del tribunale in cancelleria non intervengono nei termini prescritti, l’ordinanza che
dispone la misura coercitiva perde efficacia e, salve eccezionali esigenze cautelari specificamente motivate, non può essere
rinnovata.
L’ordinanza del tribunale deve essere depositata in cancelleria entro 30 giorni dalla decisione salvi i casi in cui la stesura della
motivazione sia particolarmente complessa per il numero degli arrestati o la gravità delle imputazioni.
In tali casi il giudice può disporre per il deposito un termine più lungo, comunque non eccedente il 45°giorno da quello della
decisione.” (co.10)

Il co.10 riconosce l’esigenza del rispetto dei termini di 10 giorni fissato per la decisione sulla richiesta di riesame, disponendo,
altrimenti, l’immediata caducazione (estinzione automatica) della misura coercitiva disposta con l’ordinanza assoggettata al
riesame.

Il riferimento alla trasmissione degli atti (prima parte del comma) prende in considerazione non l’inoltro degli stessi, ma il fatto
che debbano pervenire al medesimo tribunale.

Quanto delineato ex art 309 è un mezzo di impugnazione azionabile unicamente dall’indagato o dal suo difensore, volto a
realizzare un controllo di merito sull’ordinanza applicativa di una misura coercitiva.

La richiesta di riesame non necessita di esplicazione di motivi (a differenza dell’appello) e la decisione è ancorata a termini
brevi, pena la perdita di efficacia della misura.

Finalità dell’ultima modifica, è rafforzare la posizione processuale e le garanzie difensive dell’imputato.

24. La disciplina dell’appello e del ricorso per cassazione in materia di misure cautelari personali.

1) L’appello come mezzo di impugnazione “contro le ordinanze in materia di misure cautelari personali” viene delineato ex art
310 come residuale rispetto alla richiesta di riesame ex art 309.

Dunque, i provvedimenti suscettibili di appello sono tutte le ordinanze di misure cautelari personali diverse da quelle
assoggettabili a riesame.

Art 310  Appello


“Fuori dei casi previsti ex art 309 co.1, il P.M, l’imputato e il suo difensore possono proporre appello contro le ordinanze in
materia di misure cautelari personali, enunciandone contestualmente i motivi.” (co.1)

L’appello è l’unica possibilità di impugnazione nel merito riconosciuto al P.M., essendogli precluso lo strumento del riesame.

“Per i profili procedurali, si osservano le disposizioni ex art 309 co.1,2,3,4 e 7.


Dell’appello è dato immediato avviso all’A.G. procedente che, entro il giorno successivo, trasmette al tribunale l’ordinanza
appellata e gli atti su cui la stessa si fonda.
Il procedimento davanti al tribunale si svolge in camera di consiglio nelle forme ex art 127.
Fino al giorno dell’udienza gli atti restano depositati in cancelleria con facoltà per il difensore di esaminarne ed estrarne
copia,
il tribunale decide entro 20 giorni dalla ricezione degli atti con ordinanza depositata in cancelleria entro 30 giorni dalla
decisione.
L’ordinanza del tribunale deve essere depositata in cancelleria entro 30 giorni dalla decisione salvi i casi in cui la stesura della
motivazione sia particolarmente complessa per il numero degli arrestati o la gravità delle imputazioni.
In tali casi, il giudice può indicare nel dispositivo un termine più lungo, non eccedente il 45°giorno da quello della decisione.”
(co.2)

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Deve ritenersi implicito il rinvio alla disciplina generale dell’appello a cominciare dalla regola dell’effetto limitatamente
devolutivo.

Il tribunale investito ex art 310 vedrà circoscritta la sua cognizione (contrariamente a quanto accade in sede di riesame)
esclusivamente ai punti dell’ordinanza appellata, cui si riferiscano i motivi tempestivamente proposti; tra i quali dovrebbero
essere compresi anche quelli concernenti la sussistenza dei “gravi indizi di colpevolezza”.

“L’esecuzione della decisione con la quale il tribunale, accogliendo l’appello del P.M., dispone una misura cautelare è sospesa
fino a che la decisione non sia divenuta definitiva” (co.3)

Mentre oggetto di riesame è solo l’ordinanza applicativa della misura, oggetto di appello sono tutte le altre diverse decisioni in
tema di provvedimenti de libertate.

In tal sede vige il principio devolutivo, che si sostanza nel fatto che la sfera cognitiva del giudice di appello è limitata ai punti
della decisione impugnata ed indicati nei motivi di gravame.

La modifica intervenuta integra la scarna formulazione del co.2, precisando che la decisione sull’appello del tribunale del
riesame (entro 20 giorni dalla ricezione degli atti) sia assunta con ordinanza depositata in cancelleria entro 30 giorni dalla
deliberazione.

2) Contro le ordinanze emesse dal tribunale a seguito di riesame ex 309, o a seguito di appello ex 310, è disciplinato il ricorso
per cassazione ex art 311.

Art 311  Ricorso per cassazione


“Contro le decisioni emesse ex art 309 e 310, il P.M. che ha richiesto l’applicazione della misura, l’imputato e il suo difensore
possono proporre ricorso per cassazione entro 10 giorni dalla comunicazione o dalla notificazione dell’avviso di deposito del
provvedimento.
Il ricorso può essere proposto anche dal P.M. presso il tribunale indicato ex co.7 art 309.” (co.1)

Benché la norma preveda la legittimazione dell’imputato a proporre ricorso, ad avviso delle Sezioni Unite della Corte di
Cassazione il mezzo non può essere proposto personalmente dalla parte, ma deve essere sottoscritto, a pena di inammissibilità,
da difensori iscritti nell’albo speciale della corte di cassazione.

“Entro i termini ex 309 co.1,2 e 3, l’imputato e il suo difensore possono proporre direttamente ricorso per cassazione per
violazione di legge contro le ordinanze che dispongono una misura coercitiva.
La proposizione del ricorso rende inammissibile la richiesta di riesame.” (co.2)

Il co.2 disciplina l’ipotesi di un ricorso omisso medio (direttamente, per violazione di legge).

Si tratta (in entrambi i tipi) di un ricorso caratterizzato da ritmi temporali piuttosto serrati.

Come risulta non solo dalla disciplina della sua presentazione presso la cancelleria del giudice a quo, e dal meccanismo di
trasmissione degli atti alla corte di cassazione, da parte dell’A.G. procedente, bensì anche dalla previsione che impone alla
stessa corte di decidere entro 30 giorni dalla ricezione di tali atti, osservando la procedura in camera di consiglio ex art 127,
salva per il resto la disciplina generale del ricorso per cassazione.

Inoltre, i motivi devono venire enunciati contestualmente al ricorso.

Con il ricorso per cassazione è possibile rilevare esclusivamente i vizi di legittimità ex art 606.

Il vaglio della Suprema Corte, quindi, potrà avere ad oggetto solo l’accertamento di eventuali errores in procedendo o in
iudicando.

Non essendo giudice di merito, la Cassazione non può ricostruire i fatti, ma solo valutare la correttezza giuridica del
provvedimento impugnato.

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25. L’applicazione provvisoria di misure di sicurezza. Capo VII (Art 312-313)


La disciplina dell’applicazione provvisoria delle misure di sicurezza, pur presentando natura, presupposti e contenuti diversi
rispetto alle misure cautelari personali intese in senso proprio, è stata collocata nel Capo VII del Libro IV (art 312-313); tutto ciò
per soddisfare le esigenze ex art 206 c.p. (“Applicazione provvisoria delle misure di sicurezza”).

Art 312  Condizioni di applicabilità


“Nei casi previsti dalla legge, l’applicazione provvisoria delle misure di sicurezza è disposta dal giudice, su richiesta del P.M.,
in qualunque stato e grado del procedimento, quando sussistono gravi indizi di commissione del fatto e non ricorrono le
condizioni previste ex art 273 co.2” (co.1)

Si tratta (ex art 206 c.p.):

 Del ricovero in ospedale psichiatrico giudiziario per gli infermi di mente


 e del ricovero in casa di cura e di custodia per le persone in condizioni psicofisiche alterate

Il legislatore ha sottolineato la rilevanza della funzione di prevenzione e di difesa sociale nell’ambito delle misure di sicurezza
che il giudice può applicare anche prima che il giudizio giunga a conclusione e quindi prima dell’affermazione di una
responsabilità penale, a soggetti tassativamente indicati ex lege e socialmente pericolosi ed in relazione a cui, ritardando
l’applicazione provvisoria della misura, si compromettono esigenze di prevenzione sociale.

Il giudice deve quindi accertare la “pericolosità sociale” del soggetto contro cui si sta procedendo.

Art 313  Procedimento


“Il giudice provvede con ordinanza ex art 292, previo accertamento sulla pericolosità sociale dell’imputato. Ove non sia
possibile procedere all’interrogatorio della persona sottoposta alle indagini prima della pronuncia del provvedimento, si
applica la disposizione ex art 294.” (co.1)

Dunque, la pronuncia del provvedimento applicativo della misura di sicurezza dovrà, di regola, essere preceduta
dall’interrogatorio dell’imputato (se non è possibile, si applica l’art 294).

“Salvo quanto previsto ex art 299 co.1, ai fini dell’art 206 co.2 c.p., il giudice procede a nuovi accertamenti sulla pericolosità
sociale dell’imputato nei termini indicati ex art 72 ”

Tipica causa estintiva di tali misure è quella, ex art 206 co.2 c.p., che prevede la revoca delle misure di sicurezza quando le
persone ad esse sottoposte “non siano più socialmente pericolose”.

Il giudice può procedere ex officio ad una sorta di periodico riesame circa la “pericolosità sociale” prescrivendo “nuovi
accertamenti” ex art 72.

“Ai fini delle impugnazioni, la misura prevista ex art 312 è equiparata alla custodia cautelare. Si applicano le norme sulla
riparazione per l’ingiusta detenzione [314].” (co.3)

Anche per l’applicazione provvisoria di una misura di sicurezza è necessario che sussistano gravi indizi di reità.

26. La riparazione per l’ingiusta detenzione. Capo VIII (Art 314-315)


L’istituto della riparazione per “ingiusta detenzione” è disciplinato nel Capo VIII (Riparazione per ingiusta detenzione art 314-
315) ed è da coordinarsi con le ipotesi di risarcimento danno da responsabilità civile.

Fissando l’esigenza della “riparazione” non solo nel caso dell’”errore giudiziario” ma anche nel caso dell’”ingiusta detenzione”,
il legislatore delegante ha lasciato intendere di voler allargare l’orbita di incidenza della procedura riparatoria ad ogni forma di
“detenzione” che dovesse risultare ingiusta.

L’art 314 ha individuato 2 fasce di ipotesi di detenzione:

1) La prima fascia è riferita dal co.1 art 314 alla situazione dell’imputato che, dopo aver subìto un periodo di custodia
cautelare sia stato prosciolto con sentenza irrevocabile per non aver commesso il fatto, o perché il fatto non sussiste, o
non costituisce reato, comprese le eventualità del fatto compiuto nell’adempimento di un dovere/esercizio di una facoltà
legittima, od ancora perché il fatto non è previsto dalla legge come reato.
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Lo stesso vale, grazie all’estensione ex co.3 art 314, per la persona nei cui confronti siano stati pronunciati, al termine delle
indagini preliminari, una sentenza di non luogo a procedere o un provvedimento di archiviazione.

2) Diverse sono le situazioni ricomprese nella seconda fascia, che il co.2 art 314 definisce con riguardo al caso dell’imputato
già sottoposto a custodia cautelare nel corso del processo, facendo riferimento alle ipotesi in cui sia stato accertato con
decisione irrevocabile che il relativo provvedimento era stato emesso, o mantenuto, senza che sussistessero le “condizioni
di applicabilità previste ex 272 e 280”.

In tali ipotesi risulta la illegittimità della restrizione subita dall’imputato (e non l’ingiustizia), assunta a presupposto per il
diritto alla riparazione.

Con successive modifiche, l’istituto della riparazione per l’ingiusta detenzione deve operare anche in ipotesi di detenzione
originata da arresti in flagranza o da fermo disposto ex 384, nonché alle ipotesi di detenzione originata da un provvedimento
di arresto provvisorio, o di applicazione provvisoria di misura cautelare a carico dell’estradando, in assenza delle “condizioni
per una sentenza favorevole all’estradizione”.

Bene si spiega anche la previsione contenuta nel co.4 art 314, là dove esclude la configurabilità di un diritto alla riparazione:
 per quella parte della custodia cautelare che sia stata compiuta ex art 657 ai fini della determinazione della misura di
una pena,
 o per il periodo in cui le relative limitazioni siano state sofferte ex art 297 e 298 anche in forza di un altro titolo.

Dunque, tale diritto ad ottenere la riparazione per aver sofferto una ingiusta detenzione sorge:

 sia nell’ipotesi di ingiustizia sostanziale  quando il procedimento termina con l’emissione di una sentenza
irrevocabile di proscioglimento di merito/archiviazione;

 sia nel caso di ingiustizia formale  che si concretizza, indipendentemente dalla condanna dell’imputato, con
l’accertamento della illegittimità del titolo costitutivo della custodia cautelare determinata dalla sua adozione pur in
assenza di gravi indizi, o in difetto dei limiti di pena che ne avrebbero consentito l’adozione.

Quanto ai profili procedurali, l’art 315 (“Procedimento per la riparazione”) dispone che:

 “La domanda di riparazione (per un ammontare massimo di 516.456,89 euro) debba essere proposta, a pena di
inammissibilità, entro 2 anni:
o dal giorno in cui siano divenute irrevocabili le sentenze previste ex art 314 co.1 e 2,
o o sia divenuto inoppugnabile la sentenza di non luogo a procedere,
o o dal giorno in cui il provvedimento di archiviazione sia stato notificato al soggetto destinatario.”

La legittimazione a proporre la suddetta domanda spetta al soggetto interessato, che si trovi in una delle situazioni descritte
ex art 314 o anche ai suoi eredi.

La riparazione per ingiusta detenzione costituisce un diritto soggettivo spettante a colui che l’ha subita nei confronti dello
Stato, non di natura risarcitoria (in quanto non sorge da un illecito), ma in applicazione di principi di solidarietà verso la vittima
di una custodia cautelare indebita, per cercare di compensarlo delle conseguenze di natura morale, patrimoniale, fisica e
psichica che la custodia ha prodotto.

27. Le misure cautelari reali: a) sequestro conservativo; b) sequestro preventivo; c) rimedi contro i
provvedimenti di sequestro. TITOLO II Capo I e II (Art 316-325)
A conclusione del Libro IV, vi è il Titolo II (art 316-325) dedicato:

 alle misure cautelari reali  forme di tutela reale che comportano l’indisponibilità temporanea di beni, sia mobili che
immobili, sotto il profilo giuridico e, talvolta, anche sotto quelli fisico-materiale.

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Il codice individua due diverse specie di tali misure:

a) sequestro conservativo
b) sequestro preventivo.

Entrambe affidate alla competenza del giudice di merito (dietro richiesta P.M. o anche della parte civile nel primo caso) in
omaggio alla stessa logica di riserva di giurisdizione, cui si ispira l’intero sistema delle misure cautelari personali.

a) Sequestro conservativo  è una misura preordinata ad evitare la sottrazione/dispersione di garanzie reali per il
pagamento della pena pecuniaria, delle spese di giustizia e delle obbligazioni nascenti dal reato.

La sua funzione è quella di assicurare, attraverso il vincolo posto sui beni mobili/immobili dell’imputato, l’esecuzione della
sentenza che potrebbe venire emessa, tutte le volte in cui vi sia “fondata ragione di ritenere che manchino o si disperdano” le
relative garanzie:

 Sia sotto il profilo del pagamento della pena pecuniaria, delle spese processuali e delle altre somme dovute all’erario
statale, nell’ipotesi di iniziativa del P.M;
 Sia sotto il profilo dell’adempimento delle obbligazioni civili da reato, nell’ipotesi di iniziativa della parte civile.

Altri presupposti, sono:


 Sussistenza del fumus boni iuris  la probabile fondatezza della pretesa penale o civile;
 Periculum in mora  pericolo nel ritardo per le ragioni patrimoniali del richiedente.

Procedimento:
 Richiesta del P.M/Parte civile al giudice che emette la relativa ordinanza;
 Eventuale richiesta di riesame proponibile da chiunque vi abbia interesse, al tribunale collegiale del capoluogo di
provincia (art 318).

Accanto alla soppressione dell’ipoteca legale, si ritrova la disciplina:

 Dell’offerta di cauzione  in funzione alternativa ex ante o sostitutiva ex post, rispetto al provvedimento di sequestro (art
319);
 Della conversione del sequestro in pignoramento  come conseguenza del giudicato di condanna (art 320).

b) Sequestro preventivo  misura cautelare reale volta ad interrompere l’iter criminoso o ad impedire la commissione di
nuovi reati.

Tale sequestro si caratterizza per il suo spiccato finalismo cautelare.

Presupposti:
 Sussistenza di elementi idonei a suffragare la configurabilità della fattispecie di reato ipotizzata (c.d. fumus delicti);
 Quando la libera disponibilità di una cosa pertinente al reato può:
- Aggravare/protrarre le conseguenze del reato;
- Agevolare la commissione di altri reati.

Non è richiesta la sussistenza di gravi indizi di colpevolezza a carico di un soggetto indagato o imputato.

Al di fuori di tali presupposti, il sequestro delle “cose di cui è consentita la confisca” è di regola rimesso alla discrezionalità del
giudice, mentre diventa obbligatorio nel caso dei procedimenti per i delitti dei pubblici ufficiali contro la pubblica
amministrazione.

Procedimento:
 Richiesta del P.M. al giudice che emette relativo decreto, notificato a:
- Indagato; imputato e suo difensore; persona alla quale le cose sono sequestrate; persona che avrebbe
diritto alla restituzione.

Durante le indagini preliminari, in caso di urgenza (per cui non può attendersi il provvedimento del giudice competente per la
fase), il provvedimento può essere disposto:
 Dal P.M. con proprio decreto di sequestro;
 Dalla P.G., trasmettendo verbale al P.M. entro 48 ore.

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In entrambi i casi, è necessario che il P.M. inoltri una richiesta di convalida al giudice entro 48 ore, pena la caducazione di
effetti.
La perdita di efficacia sarà conseguente anche qualora il giudice non emetta il decreto di sua competenza di convalida entro
10 giorni dalla ricezione di tale richiesta.

Inoltre, è previsto che la misura venga revocata dal giudice (a richiesta del P.M/interessato) o, nel corso delle indagini
preliminari, dallo stesso P.M., quando si accerti l’insussistenza delle esigenze di prevenzione che l’avevano giustificata.

Con riguardo, infine, alla perdita di efficacia del sequestro preventivo conseguente alla pronuncia di determinate sentenze (art
323), vanno sottolineate due specifiche previsioni:

 Da un lato, l’ipotesi di conversione del sequestro preventivo in sequestro probatorio

Ciò avviene ogni volta in cui il sequestro preventivo, avendo avuto per oggetto “più esemplari identici” della cosa sequestrata
(sequestro di massa), abbia perso efficacia a seguito di una sentenza di proscioglimento o di non luogo a procedere,
impugnata dal P.M.

In tali casi, ove la cosa presenti interesse probatorio, il giudice ordinerà il mantenimento del sequestro solo su un unico
esemplare, disponendo la restituzione degli altri esemplari.

 Dall’altro, l’ipotesi di conversione conseguente alla pronuncia di sentenza di condanna.

Quanto su detto opera, ovviamente, quando non sia stata disposta la confisca delle cose sequestrate in via preventiva, nel
qual caso dovranno rimanere fermi gli effetti del sequestro.

Al di fuori di tale eventualità, e sempreché non permanga l’esigenza cautelare ex 321, dovrà essere ordinata la restituzione di
tali cose, ma il giudice potrà disporre la conversione del sequestro preventivo in sequestro conservativo, ove ne sussistano i
presupposti dietro richiesta del P.M/Parte civile.

In ogni caso, il diverso fenomeno della conversione del sequestro penale in una delle due figure di sequestro cautelare, si
presenta quando si profili una situazione idonea ad integrare i presupposti del sequestro conservativo/preventivo (art 262-263).

Una volta maturate le premesse per la restituzione delle cose sequestrate a fini probatori, essa non debba essere predisposta
quando sussistano gli estremi per l’adozione di una misura cautelare reale:

 In tali ipotesi il giudice dovrà ordinare che il sequestro sia mantenuto a titolo di sequestro conservativo o preventivo.

c) Circa il sistema dei rimedi contro i provvedimenti di sequestro, esso fa perno sullo strumento del riesame, come tipica
impugnazione nel merito, di fronte al tribunale in composizione collegiale:
 sia contro l’ordinanza di sequestro conservativo (art 318),
 sia contro il decreto di sequestro preventivo (art 322)

dopo che analoga previsione era stata detta con riferimento al decreto di sequestro per finalità probatorie.

La richiesta di riesame “non sospende l’esecuzione del provvedimento” di riesame.

In tutti questi casi, il procedimento di riesame è delineato ex art 324 sulla falsariga dell’art 309, compresi i meccanismi del
contraddittorio richiamati attraverso il rinvio alle forme dell’art 127.

In caso di contestazione sulla proprietà delle cose sequestrate, il giudice del riesame dovrà rimettere la decisione della
controversia al giudice civile, mantenendo fermo, nel frattempo, il sequestro.

Quanto agli aspetti procedurali, l’art 324 co.7 (“Procedimento di riesame”) richiama anche le disposizioni dell’art 309 co.9,9bis e
10, creando non pochi dubbi.

L’intervento delle Sezioni Unite ha disposto che il rinvio dell’art 324 al co.10 art 309 non comporta l’applicazione, in materia
di misure reali, né del congegno caducatorio per omessa trasmissione degli atti, né del divieto di rinnovazione della misura.

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Tutte le ordinanze emesse dal tribunale in sede di riesame intorno ai provvedimenti di sequestro, sono suscettibili di ricorso per
cassazione.

Tuttavia, si ammette che lo stesso ricorso possa venir proposto “direttamente” contro i medesimi provvedimenti di sequestro,
in quanto emessi dal giudice, con la conseguenza che in tal caso il ricorso “rende inammissibile la richiesta di riesame”.

Fuori dei casi di riesame del decreto di sequestro preventivo ex art 322, al P.M., all’imputato e alle altre persone interessate alle
cose sequestrate è riconosciuto il diritto di proporre appello al tribunale, in composizione collegiale, contro:

 le altre ordinanze in materia di sequestro preventivo,


 nonché, contro il decreto di revoca eventualmente emesso dal P.M.

mentre nulla del genere si dice per quanto riguarda i corrispondenti provvedimenti in materia di sequestro conservativo (art
322bis, ove si esclude l’effetto sospensivo di tale appello, richiamandosi l’art 310 in quanto compatibile).

Naturalmente, anche contro le ordinanze emesse dal tribunale in sede di appello è ammesso il ricorso per cassazione ex art 325
co.1.

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Capitolo V
Indagini preliminari e udienza preliminare
1. Le indagini preliminari: finalità e caratteri essenziali. TITOLO I (Art 326-329)
Il Libro V introduce la parte dinamica del codice e disciplina le “Indagini preliminari e udienza preliminare” (art 326-437).

La locuzione “indagini preliminari” allude ad una attività di individuazione e raccolta dati utili a stabilire se il processo debba o
meno essere instaurato.

L’adozione di un rito dai caratteri accusatori e di un metodo di conoscenza a struttura dialettica (individuando nel
contraddittorio dibattimentale il baricentro dell’accertamento), postula una attività di indagine meramente preparatoria.

Art 326  Finalità delle indagini preliminari


“Il P.M. e la P.G. svolgono, nell’ambito delle rispettive attribuzioni, le indagini necessarie per le determinazioni inerenti
all’esercizio dell’azione penale.” (co.1)

La vera funzione delle indagini preliminari consiste nel verificare l’opportunità o meno di esercitare l’azione penale e dare vita al
vero e proprio giudizio.

Dal momento in cui riceve notizia di reato, il P.M., è chiamato ad effettuare una scelta:
 Decidere se esercitare l’azione penale,
 O avanzare richiesta di archiviazione.

Per scegliere, il P.M. dovrà verificare se la notizia è fondata e se sussistono gli elementi idonei a sostenere l’accusa in
giudizio.

A tal scopo svolge direttamente o delegando P.G., le indagini preliminari.

Quindi, le indagini preliminari possono concretarsi in:


 atti tipici, previsti e regolati dalle norme del codice, quanto a presupposti e modalità di svolgimento (perquisizioni,
sequestri, esame delle persone informate sui fatti, etc),

 ed atti atipici (pedinamento), purché utili ai fini ex art 326.

Ricapitolando, l’azione penale è l’atto introduttivo del processo, collocato a valle delle indagini preliminari, le quali sono
funzionali ad assumere elementi necessari per l’azione ma privi di valore probatorio per il giudizio.

Ponendo una spiegazione e distinzione terminologica, abbiamo:

 Processo  parte del procedimento connotata dalla giurisdizione ed introdotta dall’imputazione.


 Procedimento  fase delle indagini (o, meglio, l’intera sequenza composta da indagini + giudizio).

 Persona sottoposta alle indagini (poi diverrà indagato) il protagonista del primissimo scenario accusatorio
 Imputato  soggetto destinatario di una imputazione, della domanda introduttiva della sequenza procedurale,
destinata a concludersi con una indefettibile risposta giurisdizionale.

 Atti di indagine  compiuti dal P.M (c.d. atti omologhi);


 Atti di prova  compiuti innanzi al giudice.

La presa d’atto progressiva della pervasività degli atti compiuti dal P.M. ha condotto ad una sostanziale giursdizionalizzazione
della fase di indagine, esigendo un rafforzamento delle garanzie e maggiori spazi difensivi.

La perdita di centralità del dibattimento, dovuta alle modifiche apportate alla disciplina dell’udienza preliminare e del giudizio
abbreviato, ha mutato lo scenario rispetto al quale l’organo di accusa era chiamato ad operare le sue determinazioni per
l’esercizio dell’azione.

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Tenuto comunque a svolgere “ogni attività necessaria” (art 358), il P.M. è ora chiamato ad irrobustire il quadro probatorio
per passare il vaglio della udienza preliminare, ordito come un filtro a maglie progressivamente più strette.

L’organo di accusa è tenuto, ora, a svolgere indagini complete per ottenere una piattaforma probatoria sufficientemente
convincente, in vista di una possibile richiesta dell’imputato di essere giudicato allo stato degli atti in sede di giudizio
abbreviato (rito che consente all’imputato, se lo richiede, di essere giudicato solo sul materiale conoscitivo raccolto nella fase
preliminare).

2. I protagonisti dell’attività investigativa. (Art 327)


Protagonisti dell’attività di indagine preliminare sono il pubblico ministero e la polizia giudiziaria.

Il P.M.:

 È titolare dell’obbligo di esercitare l’azione penale;


 Dirige le indagini.

Ex art 370 (“Atti diretti e atti delegati”) egli compie “personalmente ogni attività necessaria a fini indicati ex art 326”.

 Compie “accertamenti su fatti e circostanze a favore della persona sottoposta alle indagini”.

La Corte Costituzionale ha evidenziato come il principio di obbligatorietà dell’azione penale non comporta l’obbligo di
esercitare l’azione ogni qualvolta il P.M. sia raggiunto da una notizia di reato, ma debba essere contemperato con il fine di
evitare l’instaurazione di un processo superfluo: fine che si realizza anche mediante l’obbligo di svolgere accertamenti a
favore della persona sottoposta alle indagini.

La P.G.:

 Affianca il P.M in un ruolo ancillare, che si colloca ex art 109 Cost, stando al quale “l’A.G. dispone direttamente della P.G.”

Da un lato l’art 326 sottolinea come le indagini siano compiute da entrambi i soggetti “nell’ambito delle rispettive
attribuzioni”, già lasciando presagire una diversità di ruoli operativi;
dall’altro, l’art 327 esplica la portata di quella indicazione: “il P.M. dirige le indagini e dispone direttamente della P.G.”.

Dunque, solo all’organo dell’accusa (e non anche al giudice) viene affidata la disponibilità degli organi di polizia del corso delle
indagini, secondo un legame segnato ex art 56-58.

Emerge dallo stesso codice che la disciplina delle “attività a iniziativa della P.G.” precede quella delle indagini del P.M.,
suggerendo che essa possa trovare spazio solo fino al momento in cui il magistrato non avesse impartito le necessarie
direttive;
mentre, una volta assunta da parte di quest’ultimo la direzione delle indagini, ogni autonomia investigativa doveva ritenersi
sostanzialmente preclusa.

L’allentamento del vincolo di dipendenza funzionale che lega la polizia giudiziaria al p.m. trova un primo riscontro nelle
disposizioni generali introduttive della disciplina della fase preliminare:

 La P.G. “anche dopo la comunicazione della notizia di reato, continua a svolgere attività di propria iniziativa secondo le
modalità indicate nei successivi articoli”.

3. Il segreto sugli atti di indagine. (Art 329)


I soggetti che partecipano e concorrono alla formazione degli atti sono tenuti all’obbligo del segreto;

ciò, per evitare ed impedire che la conoscenza degli atti investigativi compiuti dal p.m. e dalla p.g. possa pregiudicare l’attività di
individuazione e di raccolta degli elementi necessari per l’esercizio dell’azione penale.

La violazione del segreto è sanzionata ai sensi del codice penale.

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Il segreto sugli atti di indagine (nella sua dimensione interna, operante nei confronti dei protagonisti della vicenda processuale)
rischia di ostacolare le chances difensive.

Detto ciò, la necessità di tutelare gli esiti dell’indagine cede davanti all’esigenza di garantire il diritto di difesa ex art 24 co.2
Cost, che si concreta:

 nel diritto della persona sottoposta alle indagini ad essere informata “riservatamente della natura e dei motivi dell’accusa
elevata a suo carico” e di disporre “del tempo e delle condizioni necessari per preparare la sua difesa” di cui è menzione
nell’art 111 co.3 Cost.

Il segreto riguarda “gli atti di indagine compiuti dal P.M. e P.G.”, nonché (dopo la riforma Orlando, l.216/2017) “le richieste
del P.M. di autorizzazione al compimento di atti di indagine e gli atti del giudice che provvedono su tali richieste”.

Di regola, idoneo ad estendersi lungo tutto l’arco delle indagini, cade ogni qualvolta l’imputato possa o debba avere
conoscenza dell’atto; il ché avviene:

 nei casi in cui l’atto si formi necessariamente in sua presenza perché lo contempla come protagonista dello stesso
(sommarie informazioni, interrogatorio, confronto, ispezione personale);
 o perché l’atto rientri nel novero di quelli cui lo stesso indagato/suo difensore possono assistere, con diritto o senza diritto
di esserne preavvisati;
 o ancora quando l’atto venga utilizzato a sostegno di una richiesta avanzata dal P.M. al giudice in vista di una sua decisione
endofasica (nel caso di richiesta di misura cautelare ex art 291).

Una seconda dimensione caratterizza il segreto di indagine, come esigenza di segretezza “esterna”.

Con lo stesso divieto si vuole impedire che la conoscenza dell’attività investigativa si diffonda anche presso soggetti non
direttamente coinvolti nel processo penale.

È dunque previsto un divieto assoluto di pubblicazione di questi stessi atti ex art 114 co.1.

Salvo quelle ipotesi di deroga al segreto, correlate alla circolazione di copie e informazioni tra autorità giudiziarie o tra
autorità giudiziarie e amministrative, esigenze di efficienza delle indagini possono consentire al P.M. di derogare al regime di
segretezza degli atti dettato nell’art 329 co.1 (“Obbligo del segreto”), con i provvedimenti ex co.2 (“desegretazione”) e al co.3
(“segretazione”) ex art 329.

Nel caso in cui al co.2, quando è necessario per la prosecuzione delle indagini, il P.M. può, con decreto motivato, consentire
la pubblicazione di singoli atti o parti di essi (es. quando la pubblicazione di un identikit è necessaria per dar impulso alle
indagini); gli atti pubblicati sono depositati presso la segreteria del P.M.

Il co.3 art 329, prevede una duplice ipotesi, sempre che sia necessario per la prosecuzione delle indagini:
 il P.M. può prorogare con decreto motivato, il segreto su singoli atti quando l’imputato lo consente o quando la
conoscenza dell’atto può ostacolare le indagini riguardanti altre persone;
 o può disporre un divieto di pubblicare il contenuto di singoli atti o notizie specifiche relative a determinate
operazioni.

4. I diritti della difesa e il ruolo delle parti private. (Art 327bis)


La segretezza dell’impianto accusatorio può condizionare i diritti difensivi della persona già raggiunta da indizi di reità, e non ne
impedisce ogni esplicazione.

Con la l. 397/2000 è stata potenziata la sfera di garanzie dell’interessato di conoscere l’ipotesi di reato provvisoriamente elevata
a suo carico.

A seguito di tale legge, tra i protagonisti della fase delle indagini, compaiono ora anche i difensori, i quali ex art 327bis possono
svolgere investigazioni per ricercare ed individuare elementi di prova a favore del proprio assistito “fin dal momento
dell’incarico professionale”.

Incarico che può essere conferito, in ogni stato e grado del procedimento, nell’esecuzione penale e per promuovere il
giudizio di revisione.
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Inoltre, il difensore può ricevere un apposito mandato che lo abiliti a svolgere indagini, con esclusione di quegli atti che
richiedano l’autorizzazione/intervento dell’A.G., anche prima che si instauri un procedimento penale e per la mera eventualità
che ciò avvenga.

Il difensore può procedere alle investigazioni:

 Personalmente,
 o conferire incarico ad un sostituto, ad investigatori privati autorizzati, o a consulenti tecnici, dotati di apposita
autorizzazione del prefetto.

Ai soggetti chiamati a collaborare con il difensore nell’attività investigativa sono riconosciute le stesse garanzie di libertà
accordate al difensore ex art 103 co.2 e 5

Per fornire all’imputato adeguati strumenti difensivi anche nel momento in cui si sia ancora alla ricerca della prova, alla indagine
ufficiale si è giustapposta una indagine di carattere privato, una vera e propria attività di investigazione, speculare a quella
compiuta dall’organo dell’accusa.

A segnare la diversità dei ruoli, resta il fatto che il P.M. conservi un onere di obiettività che non può gravare sul difensore

Diritti di informazione e partecipazione analoghi (in certa misura) a quelli riconosciuti alla persona sottoposta alle indagini
sono previsti per la persona offesa, rispetto alla quale è da registrarsi una progressiva valorizzazione del suo ruolo,
intensificando gli obblighi informativi connessi ad alcuni momenti della fase preliminare.

Al contrario, non sono sulla scena delle indagini le parti eventuali, legittimate a costituirsi per l’udienza preliminare.

D’altro canto, un giudice presidia ogni snodo cruciale che si prospetti nel corso della fase investigativa, tutelando i diritti
fondamentali della persona e la correttezza delle dinamiche del procedimento:
 l’art 328 (“Giudice per le indagini preliminari”) prevede che il giudice per le indagini preliminari provvede sulle
richieste provenienti dal P.M., dalle parti private e dalla persona offesa.

5. Il ruolo del giudice per le indagini preliminari. (Art 328)


La presenza del giudice in una fase non giurisdizionale è resa necessaria dal fatto che gli atti di indagine sono suscettibili di
incidere su diritti costituzionalmente tutelati.

Dunque, nel 1998, il legislatore ha affidato le decisioni incidenti su detti diritti ad un giudice monocratico, detto giudice per le
indagini preliminari, segnando così la netta diversità dal giudice istruttore.

Giudice “senza fascicolo”, egli interviene su richiesta del P.M, delle parti private e della persona offesa dal reato
esclusivamente “nei casi previsti dalla legge”.

Tra i suoi compiti principali, vi sono poteri di controllo in ordine a decisioni incidenti sulle libertà fondamentali, sui diritti alla
proprietà o alla disponibilità dei beni.

Egli può essere chiamato:

a) Ad emettere provvedimenti di natura cautelare concernenti la libertà personale (art 292) o di natura reale (art 317, 321);
b) A disporre la convalida delle misure precautelari adottate dal P.M. o P.G. (art 391);
c) A disporre l’accompagnamento coattivo;
d) Ad autorizzare atti che incidono sulla inviolabilità delle comunicazioni e domicilio, come le intercettazioni;
e) A pronunciare provvedimenti concernenti prelievi coattivi di campioni biologici;
f) A decidere sulla restituzione di cose sequestrate.

Su un diverso versante, il giudice interviene quando sia necessario tutelare diritti strettamente collegati alla dimensione
processuale.

A tutela del diritto di difesa, egli è chiamato a:

a) Compiere accertamenti sulla capacità dell’imputato di partecipare coscientemente al processo (art 70-71);
b) Decidere sulla dilazione del diritto dell’imputato privato della libertà, di conferire immediatamente col proprio difensore.
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Quando è necessario compensare lo squilibrio tra parte pubblica e parte privata può:

c) Autorizzare il difensore a conferire, ricevere dichiarazioni o assumere informazioni da persona detenuta nel corso delle
indagini difensive;
d) Decidere sulla richiesta di un difensore di ottenere documenti dalla pubblica amministrazione in caso di rifiuto di
quest’ultima;
e) Autorizzare il difensore all’accesso ai luoghi privati o non aperti al pubblico.

Infine, quando è necessario anticipare l’acquisizione della prova, egli interviene per assicurare la formazione del
contraddittorio, con il potere di ammettere e dirigere l’incidente probatorio.

Di significativa rilevanza, come ipotesi di intervento dell’organo giurisdizionale, i poteri di controllo attribuiti al giudice:
a) Sui tempi di svolgimento delle indagini (art 406-407);
b) Sui presupposti per il loro ulteriore sviluppo (art 414,415 e 434);
c) nonché sulle determinazioni in materia del P.M.

Infine, il medesimo giudice diviene organo del giudizio, quando le parti si orientino verso una procedura alternativa al
dibattimento.

Egli accede a definire il processo, quando:

a) il P.M. abbia richiesto il decreto penale di condanna (art 461);


b) le parti si siano accordate per l’applicazione della pena su richiesta (art 444 ss);
c) l’imputato abbia avanzato richiesta di giudizio abbreviato;
d) lo stesso imputato abbia richiesto la sospensione della pena con messa alla prova (art 464bis ss).

Le funzioni di giudice per le indagini preliminari sono svolte, di regola, da un magistrato del tribunale nel cui circondario è
stato commesso il reato.

Regole peculiari riguardano la competenza del giudice per le indagini nel caso di procedimenti per alcuni gravi delitti: allorché:

 la titolarità delle indagini è attribuita ad un magistrato dell’ufficio del P.M. presso il tribunale del capoluogo del
distretto (quando si tratti di procedimenti per i delitti ex art 51 co.3bis e 3quater),
 specularmente, le funzioni di giudice per le indagini preliminari saranno svolte da un magistrato del tribunale del
capoluogo del distretto nel cui ambito ha sede il giudice competente (art 328 co.1bis).

Regola analoga riguarda i delitti ex art 51 co.3quinques: nel ribadirla, l’art 328 co.1quater include nel criterio derogatorio di
competenza indicatovi anche il giudice dell’udienza preliminare.

Sicché, l’ordinamento giudiziario impone “la designazione di un giudice diverso per lo svolgimento delle funzioni di giudice
dell’udienza preliminare”:

 il magistrato che ha svolto le funzioni di giudice per le indagini preliminari non potrà cioè svolgere, di regola, le funzioni
di giudice nell’udienza preliminare.

6. L’avvio del procedimento: la notizia di reato. TITOLO II (Art 330-335)


Il procedimento prende avvio a seguito dell’acquisizione di una notizia di reato (cioè, una ipotesi di reato, che è compito del
processo penale verificare, a concretar la quale basta un fumus di rilevanza penalistica di un fatto).

Art 330  Acquisizione delle notizie di reato


“Il P.M. e la P.G. prendono notizia dei reati di propria iniziativa e ricevono le notizie di reato presentate/trasmesse a norma
degli articoli successivi.” (co.1)

Gli organi inquirenti possono, dunque rivestire:

 Un ruolo propulsivo nella ricerca delle notitiae criminis,


 O fungono da collettori delle stesse.

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È il codice a disciplinare le forme attraverso le quali le notizie di reato sono ricevute dagli organi inquirenti:
1) Denuncia da parte di pubblici ufficiali (art 331);

Se, nell’esercizio delle loro funzioni/servizio hanno notizia di un reato perseguibile d’ufficio, devono farne denuncia per
iscritto, anche se è reato è contro ignoti. Tale denuncia è da presentare/trasmettere senza ritardo al P.M o P.G.

2) Denuncia da parte di privati (art 333);

La denuncia è presentata oralmente/per iscritto, personalmente o a mezzo di procuratore speciale, al P.M. o a un ufficiale di
P.G.; se è presentata per iscritto, è sottoscritta dal denunciante o da un suo procuratore speciale.

3) Referto (art 334);

Il referto è la notizia di reato proveniente dai soggetti che esercitano una professione sanitaria, i quali abbiano prestati la loro
opera in casi che possano configurare un delitto perseguibile d’ufficio. L’obbligo di referto non sussiste quando si tratti di reati
contravvenzionali, o quando colui che richiede l’assistenza sia il possibile autore del reato.

Sono tutte notizie qualificate, cioè definite nel codice come tali e disciplinate ex art 331-334bis.

Accanto a queste ultime, le dichiarazioni di querela, istanza, richiesta, nell’esprimere la volontà di rimuovere l’ostacolo alla
procedibilità, possono fungere da veicolo per la notizia di reato, sempre che la stessa non sia già nella disponibilità degli
organi inquirenti.

Ricadono, invece, nel novero delle notizie non qualificate tutti gli eventi fenomenici idonei a prospettare la possibilità di
commissione di un reato, come ad esempio le notizie di fonte giornalistica, la constatazione diretta di un fatto, eventualmente
accompagnata dall’arresti in flagranza, o anche una informazione confidenziale.

Un ruolo attivo nella ricerca di elementi penalisticamente rilevanti è connaturato alla attività svolta dalla polizia, la quale,
nell’assommare in sé la duplice funzione di carattere amministrativo e giudiziario, beneficia dell’osmosi tra le due diverse sfere
di competenza.

Il legislatore ha poi esteso analogo potere di iniziativa anche al P.M.

Tuttavia, la simmetria istituita ex art 330 tra le sfere operative dei 2 soggetti è solo apparente e merita alcune specificazioni:
 La P.G. ha il dovere di prendere notizia dei reati e di riferirne all’A.G.

L’agente/ufficiale di P.G. che abbia “avuto comunque notizia di un reato” e non ne abbia comunicato l’apposita informativa
nei casi in cui fosse obbligatorio è sanzionato penalmente (art 361 c.p.)

Al contrario, il singolo magistrato non sembra gravato da analoghi obblighi:


 L’art 70 ord.giud. prevede che quando un magistrato addetto all’ufficio della procura, “fuori dall’esercizio delle sue
funzioni”, venga a conoscenza di “fatti che possono determinare l’inizio dell’azione penale o di indagini preliminari,
può segnalarli per iscritto al titolare dell’ufficio”.

Tale disposizione sembra stabilire una mera facoltà (non un obbligo). Spetterà al titolare dell’ufficio, se informato, adottare i
provvedimenti di natura formale conseguenti a quella segnalazione: quest’ultimo “quando non sussistono i presupposti per la
richiesta di archiviazione e non intende procedere personalmente, provvede a designare per la trattazione uno/più magistrati
dell’ufficio”.

Poiché l’attività procedimentale ha inizio solo a seguito di una notizia di reato, il dubbio che si pone è quello concernente la
liceità nonché l’estensione della attività investigativa che venga compiuta prima di quel momento.

Secondo la giurisprudenza, si tratta di attività lecita in quanto preordinata ad acquisire e precisare gli estremi della notizia di
reato, fino a che non incida su valori costituzionalmente protetti quali i diritti di libertà.

Devono ritenersi non consentiti, oltre ai provvedimenti di natura cautelare incidenti sulla libertà, tutti gli atti di indagine di
natura invasiva (perquisizioni, ispezioni o intercettazioni di conversazioni o comunicazioni).

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7. Segue: l’iscrizione della notizia di reato nel registro previsto dall’art 335.
La notizia di reato non è essa stessa un atto di indagine e non è assoggettata alla disciplina di quegli atti (es. nessun regime di
segretezza).

Presupposto dello sviluppo procedimentale, la notizia di reato deve essere iscritta in un apposito registro (c.d. modello 21) non
appena sia acquisita dal P.m. o a la P.G. gliela comunichi ex art 347 (“Obbligo di riferire la notizia di reato”).

Spetta al P.M. iscrivere “immediatamente”, nell’apposito registro custodito presso l’ufficio, ogni notizia di reato che gli perviene
o che ha acquisito di propria iniziativa, anche quando diretta contro ignoti (in tal è da iscriversi nell’apposito registro, c.d.
modello 44); contestualmente o dal momento in cui risulta, andrà inserito anche il nome della persona alla quale il reato stesso
è attribuito (art 335 co.1).

Spetta al P.M. aggiornare l’iscrizione, qualora muti la qualificazione giuridica del fatto o questo risulti diversamente
circostanziato, senza procedere a nuove iscrizioni (art 335 co.2); in tutti gli altri casi, gli eventuali mutamenti determineranno
una nuova iscrizione.

È dall’iscrizione nominativa che devono essere computati:

 il termine di durata delle indagini, scaduto il quale ogni atto investigativo dovrà ritenersi inutilmente compiuto,
 nonché il termine per la richiesta del giudizio immediato, del decreto penale di condanna e del giudizio direttissimo
nei confronti dell’indagato che abbia reso confessione.

Dallo stesso momento, l’art 405 co.2 (“Inizio dell’azione penale. Forme e termini”) sembra imporre la decorrenza del termine
di 6 mesi per la richiesta di rinvio a giudizio (disciplina da coordinarsi con l’art 407 “Termini di durata massima indagini
preliminari”).

In virtù dell’obbligatorietà del P.M. a provvedere all’iscrizione della notitiae criminis, l’assenza di una sanzione specifica (per
l’inottemperanza all’obbligo di iscrizione), genera il rischio che, tra il momento in cui la notizia di reato viene acquisita e il
momento in cui la stessa sia effettivamente iscritta, possa intercorrere un lasso di tempo indefinito e incontrollato.

Per far fronte a tal problema, la giurisprudenza ha prospettato come rimedio, la retrodatazione del dies a quo di durata delle
indagini, tutte le volte in cui fosse accertata la tardiva iscrizione.

Sennonché, l’apprezzamento della tempestività dell’iscrizione rientra nell’esclusiva valutazione discrezionale del P.M. ed è
sottratto al sindacato del giudice.

La l.103/2017 si è limitata ad alcune modifiche alle norme di ordinamento giudiziario finalizzate a rafforzare i poteri di controllo
demandati ai dirigenti degli uffici requirenti:

 spetta al procuratore della Repubblica il compito di assicurare insieme al corretto, puntuale ed uniforme esercizio
dell’azione penale, anche l’”osservanza delle disposizioni relative all’iscrizione delle notizie di reato”.

L’obbligo di iscrizione della notizia di reato nel registro previsto dall’art 335 scatta solo nel caso di una informazione dotata
degli elementi per definirsi tale.

Di fronte ad una pseudo-notizia di reato, il P.M. dovrà iscrivere la stessa in un diverso registro (c.d. modello 45), esistente
presso ogni procura della Repubblica, trasmettendo poi gli atti all’archivio (potere di cestinazione o di archiviazione diretta)
senza richiedere al giudice su di essa un formale provvedimento di archiviazione.

Il potere di cestinazione può prestarsi a disinvolte operazioni di deflazione del carico penale poiché sottrae al giudice il
controllo sull’inazione.

Quest’ultimo dovrà in ogni caso pronunciarsi nelle forme dell’art 409, ove il P.M. abbia rivolto al giudice la richiesta di
archiviazione.

L’art 335 (“Registro delle notizie di reato”) è volto a garantire l’effettivo rispetto dei termini di durata massima delle indagini
preliminari in modo da porre fine al fenomeno di istruttorie protrarre per lunghissimo tempo con conseguente pregiudizio per il
diritto dell’imputato di vedere risolta la propria posizione.

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La riforma Orlando ha previsto, a tutela delle aspettative della persona offesa, che quest’ultima possa chiedere a P.M., senza
pregiudizio del segreto investigativo, decorsi 6 mesi dalla data di presentazione della denuncia/querela, di essere informata
dall’autorità che ha in carico il procedimento circa lo stato del medesimo.

8. Segue: denuncia dei pubblici ufficiali, denuncia dei privati, referto. (Art 331-334bis)
1) Un obbligo di denuncia è posto in capo ai pubblici ufficiali e agli incaricati di un pubblico servizio che nell’esercizio o a
causa delle loro funzioni hanno notizia di un reato perseguibile di ufficio, i quali devono procedervi anche quando non sia
individuata la persona alla quale il reato è attribuito (contro ignoti).

L’apprensione della informazione su un fatto costituente reato deve avvenire nell’esercizio o a causa delle funzioni del servizio.

Diversamente, dovrà trovare applicazione l’art 333, là dove si prevede la facoltà per ciascun soggetto privato di denunciare.

Il co.1 art 331 pone in essere una clausola di salvezza stabilendo “salvo quanto stabilito ex art 347”, cioè la informativa della
P.G. che, per compito istituzionale, deve prendere notizia dei reati ed informare il P.M. con le cadenze e le modalità ivi
stabilite.

Tra i pubblici ufficiali sono ricompresi anche i magistrati:

 “se nel corso di un procedimento civile o amministrativo, emerge un fatto nel quale si può configurare un reato
perseguibile di ufficio, l’autorità che procede redige e trasmette senza ritardo la denuncia al P.M.” (co.4 art 331)

Anche se non menzionato, anche il giudice penale può essere il soggetto tenuto alla informazione.

La legge lo prevede espressamente in un caso:


 Di fronte ad un testimone che rifiuti di deporre, il giudice deve disporre “l’immediata trasmissione degli atti al P.M.
perché proceda a norma di legge.” (art 207 co.1)

Quanto alla forma, la denuncia deve essere redatta per iscritto, eventualmente con un unico atto proveniente da più persone
obbligate alla denuncia per il medesimo fatto.

I contenuti sono disposti ex art 332.

Art 332  Contenuto della denuncia


“La denuncia contiene la esposizione degli elementi essenziali del fatto e indica il giorno dell’acquisizione della notizia nonché
le fonti di prova già note.
Contiene inoltre, quando è possibile, le generalità, il domicilio e quanto altro valga alla identificazione della persona alla
quale il fatto è attribuito, della persona offesa e di coloro che siano in grado di riferire su circostanze rilevanti per la
ricostruzione dei fatti” (co.1)

Contenuto minimo che deve avere la denuncia a riguardo agli elementi essenziali del fatto: data, luogo, modalità condotta,
mezzi usati, etc. e la data in cui è stata acquisita la notizia.

Quanto ai destinatari può essere presentata/trasmessa “senza ritardo” non solo al P.M. ma anche ad un ufficiale di P.G., salvo
che nell’ipotesi di cui al co.4 art 331.

2) Per quanto riguarda la denuncia da parte di privati, questa è una facoltà, salvi i casi previsti dalla legge (art 333).

La legge stabilisce quando la relativa omissione è penalmente sanzionata; così, ad esempio, nei casi di:

 Omessa denuncia di un delitto contro la personalità dello Stato per il quale la legge stabilisce la pena dell’ergastolo;
 Omessa denuncia di cose provenienti da delitto;
 Omessa denuncia di materie esplodenti e di precursori di esplosivi;
 Omessa denuncia del rinvenimento di armi o di parti di esse o di esplosivi;
 Omessa denuncia in ordine a fatti o circostanze relative ad un sequestro di persona a scopo di estorsione.

La pronuncia proveniente da un privato può essere presentata oralmente o per iscritto, personalmente o a mezzo di un
procuratore speciale, al P.M. o ad un ufficiale di P.G. il quale ha l’obbligo di rilasciare una ricevuta.

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L’art 333 co.3, nel prevedere che “delle denunce anonime non può essere fatto alcun uso, salvo quanto disposto ex art 240”,
lascia intendere che, provenendo l’informazione da un soggetto di cui non sia nota l’identità, essa non valga come notitiae
criminis e non deve essere iscritta nell’apposito registro.

La denuncia anonima non resta senza traccia; essa viene iscritta in un apposito registro (modello 46).

Inoltre, non è escluso che il P.M. e la P.G. possano trarre spunto per la loro attività da un’informazione anche anonima.

3) Il referto è la denuncia cui sono obbligati gli esercenti una professione sanitaria che abbiano prestato la propria opera in
casi che possono presentare i caratteri di un delitto perseguibile d’ufficio.

Vi sono tenuti coloro che svolgono una professione sanitaria principale o secondaria, non coloro che svolgono mestieri
espressione della c.d. arte medica.

In quanto pubblici ufficiali, i medi che svolgono la propria professione in strutture pubbliche non rientrano tra i soggetti
obbligati al referto ma sono sottoposti alla disciplina ex art 331.

L’obbligo di collaborazione nei confronti dello Stato da parte di chi svolge un servizio di pubblica necessità penalmente
sanzionato prevale sul segreto professionale.

L’obbligo del referto viene meno (e così la sanzione penale) quando la notizia del reato sia suscettibile di esporre la persona
assistita a conseguenze di carattere penalistico.

Ciò per evitare che il soggetto bisognoso di cure sia messo nella scomoda alternativa tra il precludersi l’accesso alla assistenza
sanitaria o il sottoporti alle cure col rischio di essere incriminato.

Il referto deve pervenire entro 48 ore, o se vi è pericolo nel ritardo, immediatamente, al P.M. o a qualsiasi ufficiale di P.G. del
luogo in cui chi è obbligato a redigerlo ha prestato la propria opera o assistenza o, in loro mancanza, all’ufficiale di P.G. più vicino
(art 334 co.1).

La forma scritta è suggerita dal testo normativo, il quale prevede un dettagliato contenuto, dovendosi indicare nel referto ogni
elemento utile ad identificare e rintracciare la persona alla quale è stata prestata assistenza, ogni circostanza in cui questa è
stata prestata nonché le notizie che servono a stabilire le circostanze del fatto, i mezzi con i quali è stato commesso e gli effetti
che ha causato o può causare (art 334 co.2).

Infine, per garantire massima esplicazione del diritto di difesa nel processo penale, è precisato che:

 “il difensore e gli altri soggetti ex art 391bis non hanno obbligo di denuncia neppure relativamente ai reati dei quali
abbiano avuto notizia nel corso delle attività investigative da essi svolte” (art 334bis).

Si tratta di una innovazione in linea con lo spirito della legge sulle indagini difensive infatti, compito del difensore è solo
quello di contribuire a provare l’estraneità ai fatti del proprio assistito, per cui nessun obbligo di denunzia di fatti
penalmente rilevanti, eventualmente emersi nel corso delle indagini, può essere posto a suo carico.

9. Gli ostacoli alla progressione: le condizioni di procedibilità. TITOLO III (Art 336-346)
La legge stabilisce che, l’instaurazione del processo o il suo ulteriore incidere sono subordinati a determinati eventi
riconducibili a manifestazioni di volontà di un soggetto, o ad accadimenti oggettivi.

Negli stessi casi, anche le indagini preliminari e il loro successivo sviluppo processuale se risultano condizionati.

L’art 50, nel definire i caratteri e titolarità dell’azione penale, circoscrive l’obbligo di agire in capo all’organo di accusa ai casi
in cui non è necessaria la querela, la richiesta, la istanza o l’autorizzazione a procedere.

È un temperamento all’obbligo di esercizio dell’azione penale.

Le condizioni di procedibilità sono disciplinate nel Titolo III (art 336-346), ed esse sono:

 Querela (art 336-340); istanza (art 341); richiesta (art 342); autorizzazione a procedere (art 343-344).

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Nell’art 345 si desume l’esistenza di condizioni di procedibilità “diverse” da quelle citate.

Sicuramente ascrivibile al novero delle condizioni di procedibilità di carattere atipico è il segreto di Stato; infatti, qualora il
segreto sia confermato e la conoscenza di quanto coperto dal segreto appaia essenziale per la definizione del processo, il giudice
“dichiara non doversi procedere per l’esistenza del segreto di Stato”.

L’esistenza di un precedente giudicato, costituisce una ipotesi di improcedibilità apprezzabile come tale.

La Corte Costituzionale e le Sezioni Unite, sul presupposto che tanto il provvedimento di archiviazione quanto la sentenza di
non luogo a procede spieghino un effetto limitatamente preclusivo di un secondo procedimento, riconducono al tema in
esame le preclusioni correlata alla riapertura delle indagini ex art 414 e alla revoca della sentenza di non luogo a procedere
ex 434 ss.

Secondo la dottrina, tra le condizioni di procedibilità atipiche va ricondotta anche la clausola di specialità nell’estradizione.

Ulteriori ipotesi sono poi individuate:


 nello stato di flagranza per i reati ex art 260, 688, 707 e 720 c.p.;
 nella presenza del reo nel territorio dello Stato per i reati ex art 8-10 c.p.;
 nella situazione individuata in tema di espulsione dello straniero irregolare.

Da ultimo, il co.2 art 345 (“Difetto di una condizione di procedibilità. Riproponibilità dell’azione penale”) accosta alla mancanza
delle altre condizioni di procedibilità la nuova ipotesi di declatoria di non doveri procedere per essere l’incapacità irreversibile.

10. Segue: gli effetti sul procedimento e sul processo della mancanza della condizione di procedibilità.
La mancanza di una condizione di procedibilità ha effetti sulla attività di indagine e sul processo eventualmente avviato.

Quanto alla fase preliminare, la stessa mancanza non impedisce ogni attività, si tratta di indagini fortemente caratterizzate
dall’evento impeditivo dell’azione.

Ad un immediato epilogo definitivo si perverrà, attraverso sua decisione di archiviazione ex art 41, solo nell’ipotesi in cui sia
evidente che la condizione di procedibilità non potrà più sopravvenire: così nel caso di remissione della querela.

Nelle altre ipotesi, la mancanza della condizione avrà un effetto sostanzialmente paralizzante:
 Il termine per le indagini comincerà a decorrere solo dal momento in cui l’ostacolo sarà rimosso e dal momento in
cui querela, richiesta e istanza pervengono al P.M. (art 405 co.3);
 se necessaria l’autorizzazione a procedere, il decorso di quello stesso termine resta sospeso dalla richiesta al
momento in cui l’autorizzazione venga concessa (art 45 co.4).

Prima di quel momento, eventuali attività di indagine potranno essere esperite solo nei limiti ex art 346, stando al quale, in
mancanza di una condizione di procedibilità che può ancora sopravvenire, possono essere compiuti gli atti di indagine
preliminare necessari ad assicurare le fonti di prova, e possono essere assunte le prove previste ex art 392.

L’assenza della condizione di procedibilità, non impedisce la instaurazione del processo.

Pur non determinando invalidità, l’azione promossa in difetto della prescritta condizione è destinata ad un esito abortivo: il
giudice, non potendo accedere al merito, dovrà pronunciarsi in ogni fase e stato del processo con una decisione di non doversi
procedere.

Quest’ultima decisione sarà suscettibile di passare in giudicato, ma ciò non impedirà un nuovo processo per il medesimo
fatto:
 se la condizione sopravvenga in un secondo momento, o se diventi superflua, l’azione penale può essere
nuovamente esercitata nei confronti della medesima persona e per il medesimo fatto.

Lo stesso avviene anche nel caso in cui il non doversi procedere per difetto di una condizione di procedibilità sia stato
dichiarato con archiviazione o con sentenza di non luogo a procede, come impone l’art 345 co.2, equiparando le condizioni
atipiche a quelle espressamente nominate nel co.1.

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11. Segue: querela, istanza e richiesta di procedimento. (Art 336-342)

1) Art 336  Querela


“La querela è una dichiarazione nella quale, la persona offesa dal reato, personalmente o a mezzo di procuratore speciale, si
manifesta la volontà che si proceda in ordine a un fatto previsto dalla legge come reato.” (co.1)

Nella querela, a differenza della denuncia, si deve manifestare esplicitamente la volontà che l’autore del reato sia perseguito.

il codice di procedura penale si limita a dettare le formalità di presentazione della querela (art 339), così come quelle relative
alle vicende estintive dello stesso diritto (rinuncia, dichiarazione preventiva di non volersi avvalere del diritto di querela,
remissione espressa nel non voler continuare a coltivare la querela già dichiarata).

Titolare è la persona offesa del reato.

La querela va presentata entro 3 mesi dal giorno della notizia del fatto che costituisce reato, con le modalità previste per la
denuncia e alle medesime autorità alle quali può essere presentata denuncia o a un agente consolare all’estero (art 337 co.1).

Essendo, il diritto di querela riservato al querelante o a un suo procuratore speciale, l’identificazione del proponente è
essenziale;
dunque, se recapitata da un incaricato o spedita per posta in piego raccomandato, essa deve recare la sottoscrizione
autentica del proponente;

se proposta oralmente, il verbale in cui è ricevuta deve essere sottoscritto dal querelante o dal procuratore speciale.

In ogni caso, l’autorità che riceve la querela deve provvedere all’attestazione della data e del luogo della presentazione,
all’identificazione della persona che la propone e alla trasmissione degli atti all’ufficio del P.M.

Il diritto non può più essere esercitato, e dunque la querela non può essere promossa, se l’avente diritto vi abbia rinunciato.

La rinuncia può essere tacita o espressa; nel secondo caso, assume le forme ex art 339.

Dunque, la rinuncia espressa alla querela è fatta personalmente o a mezzo di procuratore speciale, con dichiarazione
sottoscritta, o con dichiarazione fatta oralmente a un ufficiale di P.G. o a un notaio, i quali, accertata l’identità del rinunciante,
redigono verbale che dev’essere sottoscritto dal dichiarante, pena l’assenza di effetti (art 339 co.1).

La rinuncia può estendersi anche all’azione civile per le restituzioni e per il risarcimento del danno.

Il diritto di querela si estingue:

 Per la decadenza derivante dal suo mancato esercizio nel termine previsto,
 Per la morte della persona offesa, la quale, se la querela è stata già proposta. Non estingue il reato.

Una volta esercitato il medesimo diritto, è possibile rimettere la querela nei casi previsti dagli art 152 ss. c.p.

La rimessione deve intervenire prima della condanna, non può essere sottoposta a termini/condizioni e, perché abbia
effetto, deve essere accettata.

Essa comporta che le spese del procedimento siano a carico del querelato, salvo che nell’atto di rimessione sia stato
diversamente convenuto.

Se previsto dalla legge, la querela proposta è irrevocabile.

Le forme per la proposizione della remissione e per l’accettazione della stessa sono previste ex art 339 per la rinuncia espressa
alla querela: entrambi gli atti devono essere presentati personalmente o a mezzo di un procuratore speciale, con dichiarazione
ricevuta dall’autorità procedente o da un ufficiale di P.G. che deve trasmetterla immediatamente alla predetta autorità.

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2) L’istanza di procedimento è una condizione di procedibilità la cui titolarità è rimessa in capo all’offeso per taluni delitti
comuni commessi all’estero.

L’istanza di procedimento è l’atto con cui la persona offesa da un reato chiede la punizione dell’autore di un delitto
commesso all’estero che sarebbe procedibile di ufficio se commesso in Italia.

In relazione ai delitti contro la libertà individuale e contro la libertà personale, l’art 604 c.p. prevede che essi siano perseguibili
senza necessità dell’istanza della persona offesa “quando il fatto è commesso all’estero da cittadino italiano, o in danno al
cittadino italiano, o dallo straniero in concorso con cittadino italiano”.

L’istanza può essere proposta entro 3 mesi dal giorno in cui la persona offesa ha avuto notizia del fatto che costituisce reato, e
comunque non oltre 3 anni dal giorno in cui il colpevole si trova nel territorio dello Stato.

L’istanza viene proposta dalla persona offesa “con le forme della querela”.

L’istanza a differenza dalla querela è irretrattabile, perché trattandosi di reati che, se commessi in territorio italiano sarebbero
di regola perseguibili ex officio, si ritiene che, una volta rimosso l’ostacolo alla procedibilità, il potere di ritrattare l’azione non
possa essere demandato alla volontà di un soggetto privato.

3) La richiesta di procedimento è una dichiarazione spettante ad una pubblica autorità con la quale questa dichiari di volere
che si proceda con riguardo ad un determinato reato (art 342).

In particolare, spetta al Ministro della giustizia la titolarità della richiesta rispetto ai delitti di cui agli art 8,9 e 10 c.p., nonché
per i delitti perseguibili a querela della persona offesa quando essi siano commessi in danno del Presidente della Repubblica, per
i reati ex art 313 co.4 c.p.

La condizione di procedibilità (come per l’istanza) può essere proposta nei termini ex art 128 c.p. ed è irretrattabile nonché
irrinunciabile.

Il codice si limita a disciplinarne le forme, stabilendo che essa debba essere presentata al P.M. con atto sottoscritto
dall’autorità procedente (art 342).

12. Segue: autorizzazione a procedere ed autorizzazioni ad acta. (Art 343-344)


1) Nei confronti di alcuni soggetti, il procedimento subisce limiti e contempla divieti di varia natura fino a quando l’autorità
pubblica competente, sollecitata dal P.M., non abbia deliberato l’autorizzazione a procedere.

La ratio di tale autorizzazione, sta nella necessità di bilanciare istanze punitive e prerogative connesse alle funzioni di alcuni
organi amministrativi, preservando il singolo appartenente all’organo da iniziative persecutorie.

L’autorizzazione a procedere è necessaria per i reati commessi dal presidente del consiglio p dai ministri nell’esercizio delle
loro funzioni, nonché per i reati commessi dai giudici della Corte Costituzionale.

Con la modifica dell’art 68 Cost, non sono più soggetti ad autorizzazione a procedere i procedimenti interessanti i membri del
Parlamento, per i quali residua una disciplina di autorizzazioni legittimanti il compimento di singoli atti di natura istruttoria e
cautelare.

L’autorizzazione a procedere è necessaria per alcuni delitti contro la personalità dello Stato (art 313 c.p.).

Questa costituisce una condizione di promuovibilità dell’azione penale e di perseguibilità, nel senso che, a seconda dei casi,
l’autorizzazione può intervenire per rimuovere l’ostacolo iniziale o quello sopravvenuto all’esercizio della pretesa punitiva.

Qualora ne risulti la necessità fin dal momento delle indagini, l’autorizzazione deve essere richiesta:
 prima di procedere a giudizio direttissimo o di richiedere il giudizio immediato, il rinvio a giudizio, il decreto penale
di condanna o di emettere il decreto di citazione a giudizio,

e comunque, entro 30 giorni dall’iscrizione del nome della persona per la quale essa è necessaria nell’apposito registro.

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Può avvenire che la necessità dell’autorizzazione emerga solo una volta esercitata l’azione penale:

 in tal caso il processo dev’essere sospeso e l’autorizzazione dev’essere richiesta “senza ritardo” (art 344 co.3)

Se vi è pericolo nel ritardo, il giudice provvede all’assunzione delle prove richieste dalle parti.

Quando si procede nei confronti di più persone per alcune delle quali soltanto è necessaria l’autorizzazione, per evitare
ritardi tempistici, è previsto che si possa procedere separatamente contro coloro per i quali l’autorizzazione non è necessaria.

Un altro ordine di limiti è connesso ai poteri di indagine del P.M., il quale a pena di inutilizzabilità dei risultati probatori, e salvo
che il soggetto sia stato colto nella flagranza di uno dei reati per i quali è previsto l’arresto obbligatorio in flagranza, non può
(finché non sia concessa autorizzazione) compiere alcun provvedimento suscettibile di incidere sui diritti fondamentali
dell’indiziato.

Ex art 343 co.2 è fatto divieto di disporre il fermo o misure cautelari personali nei confronti della persona rispetto alla quale è
prevista l’autorizzazione medesima, nonché di sottoporla a perquisizione personale o domiciliare, a ispezione personale, etc,
mentre si può procedere all’interrogatorio solo ove l’interessato lo richieda.

Tali limiti cadono una volta concessa l’autorizzazione (art 343).

Discipline diverse sono prescritte per alcune categorie di persone:

 in tal caso devono applicarsi queste ultime disposizioni e “in quanto compatibili con esse, quelle di cui agli art 344, 345
e 346”.

2) Particolari autorizzazioni ad acta concorrono con la richiesta di autorizzazione a procedere per i membri della Corte
Costituzionale e per i ministri.

Nel primo caso, alla Corte deve essere rivolta la richiesta di autorizzazione se un suo giudice ordinario o aggregato deve essere
arrestato, o altrimenti privato della libertà personale, o sottoposto a perquisizione, salvo che sia colto nell’atto di commettere
un delitto per il quale è obbligatorio il mandato/ordine di cattura in riferimento all’art 380 co.1 e 2.

Alla camera di appartenenza o al Senato va richiesta autorizzazione per sottoporre il Presidente del Consiglio dei Ministri o un
ministro, nonché gli altri Parlamentari, a misure limitative della libertà personale, a intercettazioni telefoniche o sequestro o
violazione di corrispondenza o a perquisizioni, salvo che siano colti nell’atto di commettere uno dei delitti ex art 380 co.1 e 2.

Venuta meno la necessità di autorizzazione a procedere nei confronti dei Parlamentari, è prevista solo la necessità di
autorizzazioni ad acta per il compimento dei singoli atti che si riflettano su diritti fondamentali di un membro del parlamento.

Più precisamente, alla Camera di appartenenza va richiesta l’autorizzazione per sottoporre i membri del Parlamento a
perquisizioni o a ispezioni; per arrestarli o privarli della libertà personale, o mantenerli in detenzione, salvo che si tratti di dare
esecuzione a una sentenza irrevocabile di condanna o il parlamentare sia colto nell’atto di commettere un delitto per il quale
è previsto l’arresto obbligatorio in flagranza.

L’autorizzazione è richiesta dall’autorità che ha emesso il provvedimento da eseguire (P.M o giudice);

in attesa dell’autorizzazione, l’esecuzione del provvedimento rimane sospesa.

Al componente del Parlamento italiano è equiparato il membro italiano del Parlamento europeo.

13. L’attività di indagine della P.G: l’obbligo di riferire la notizia di reato. TITOLO IV (Art 347-357)
Pur essendo entrami titolari del potere di prendere notizia dei reati anche di propria iniziativa, P.M. e P.G. non hanno, rispetto
alla stessa notizia, i medesi doveri e poteri:

 P.M.  è il solo destinatario ultimo (magistrato gravato dall’obbligo dell’azione penale), il quale deve
immediatamente attivarsi, procedendo alla iscrizione della notizia nell’apposito registro.

 P.G.  sulla quale grava, invece, l’obbligo di informare il P.M. di ogni notizia che rechi il fumus di un illecito penale,
previa una essenziale attività di accertamento.

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Il legislatore ha accentuato l’unitarietà dello sviluppo investigativo, valorizzando il ruolo di guida del magistrato fin dalle
prime battute del procedimento.

L’obiettivo era quello di evitare il riprodursi di prassi invalse nel sistema processuale previgente, nel quale lunghe e
complesse indagini preistruttorie mettevano capo al rapporto di polizia, divenuto lo strumento per presentare all’A.G. gli
elementi di prova autonomamente raccolti e i motivi in base ai quali l’ufficiale di P.G. ravvisava la responsabilità penale di un
soggetto.

I ridotti spazi operativi, infatti, avevano prodotto una deresponsabilizzazione della polizia giudiziaria e la difficile gestione del
carico delle notizie di reato.

Ben presto, dopo l’approvazione del codice ed a seguito di una recrudescenza della criminalità di stampo mafioso, la normativa
è stata rivista.

A seguito di riforme la P.G. ha guadagnato un certo grado di autonomia, svincolandosi da quello stretto rapporto di
subordinazione inizialmente instauratosi, che finiva per ingessarne l’operato investigativo fino all’intervento del P.M.,
subordinandolo in ogni caso alle direttive del magistrato.

Con la riforma del 1992, la polizia giudiziaria deve ora riferire al P.M. “senza ritardo” (prima entro 48 ore).

L’informativa, da presentarsi in forma scritta deve contenere gli elementi essenziali del fatto e gli altri elementi sino ad
allora raccolti, con l’indicazione delle fonti di prova e delle attività compiute e con la relativa documentazione.

Inoltre, deve comunicare le informazioni concernenti le generalità, il domicilio ed ogni altra notizia utile alla identificazione
della persona sottoposta alle indagini, della persona offesa e di coloro che siano in grado di riferire su circostanze idonee alla
ricostruzione del fatto (art 347 co.2 “Obbligo di riferire la notizia di reato”).

Con la riforma si è voluto incidere su una razionalizzazione dei tempi necessari per i prescritti adempimenti ma non un
mutamento degli atti da compiersi e del ruolo attribuito alla polizia, ancora definito dal co.1:

 Una volta individuati gli estremi essenziali della notizia di reato, ogni ulteriore indugio costituirà causa di “ritardo”,
censurabile dal magistrato.

Il magistrato è informato della data di acquisizione della notizia di reato, dal momento che nella informativa in ogni caso con
la comunicazione deve essere indicato il giorno e l’ora in cui la notizia di reato è stata acquisita (co.4): adempimento
funzionale all’accertamento di una responsabilità disciplinare prospettabile ex art 16 disp.att.

Le espressioni che si riferiscono al “senza ritardo” o “immediatamente” (usati nel co.1 e 4 art 347) pur se non impongono
termini precisi e determinati, indicano attività da compiere in un margine ristretto di tempo, e cioè non appena possibile, tenuto
conto delle normali esigenze di un ufficio pubblico onerato di un medio carico di lavoro.

Con tali locuzioni si rischiava di legittimare una zona temporale di indagine piuttosto ampia, in cui la P.G. agisce senza alcun
controllo dell’A.G. e senza che nessun adempimento formale segni l’inizio del procedimento: solo in capo al P.M. grava
l’obbligo di iscrizione della notizia di reato nell’apposito registro.

Al rischio di indagini autonome e parallele suscettibili di sfuggire al controllo del magistrato, si affianca quello di surrettizi
ampliamenti della durata delle indagini preliminari.

Rispetto al regime temporale ex art 347 co.1, sono previste due deroghe:

 In primis, al co.2bis si stabilisce che la stessa comunicazione debba essere data entro 48 ore dal compimento di un atto
per il quale sia prevista l’assistenza del difensore, salva diversa disposizione di legge.

Così facendo si garantisce un controllo sollecito dell’A.G. su atti suscettibili di incidere sui diritti della persona sottoposta a
indagini.

Gli “atti per i quali è prevista l’assistenza del difensore” sono sia quelli per i quali la presenza del difensore è obbligatoria, sia
tutti quelli cui lo stesso difensore ha diritto di assistere.

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 In secundis, stando al co.3, quando la notizia riguardi uno dei delitti ex art 407 co.2 lett.a nn.1-6 e quando ricorrono
ragioni di urgenza, la comunicazione deve essere data “immediatamente”, anche in forma orale, salva la trasmissione
senza ritardo e in forma scritta della stessa, con la allegata documentazione.

Una regola speciale armonizza gli adempimenti conseguenti ad una notizia di reato non perseguibile d’ufficio, quando ancora
non sia sopravvenuta la condizione di procedibilità:
 La P.G. riferisce senza ritardo (o immediatamente in forma orale se sussistono ragioni di urgenza/reati ex art 407..)
al P.M. “l’attività di indagine prevista ex art 346” trasmettendo anche la relativa documentazione ove detto organo
ne faccia richiesta.

Una deroga al regime informativo ex art 347, funzionale alla archiviazione cumulativa di notizie di reato ex art 415 co.4 è quella
di cui all’art 107bis disp.att., il quale prevede che le denunce a carico di ignoti, unitamente agli eventuali atti di indagine solti
per la identificazione dell’autore del reato, siano trasmesse all’ufficio di procura competente con elenchi mensili.

14. Segue: le attività investigative tipiche e atipiche. (Art 55 / 347-348)


I compiti della P.G. e i suoi rapporti col P.M. sono esposti nell’art 55 c.p.p.

Art 55 Funzioni della polizia giudiziaria


“La polizia giudiziaria deve, anche di propria iniziativa:
 prendere notizia dei reati,
 impedire che vegano portati a conseguenze ulteriori,
 ricercarne gli autori,
 compiere gli atti necessari per assicurare le fonti di prova
 e raccogliere quant’altro possa servire per l’applicazione della legge penale [347-357]. (co.1)

Svolge ogni indagine e attività disposta o delegata dall’A.G. (co.2)

Le funzioni indicate nei co.1 e 2 sono svolte dagli ufficiali e dagli agenti di polizia giudiziaria.” (co.3)

Gli atti di indagine della P.G., in quanto formati senza contraddittorio:

 sono utilizzabili per adottare decisioni nel corso delle indagini preliminari, nell’udienza preliminare e nei riti alternativi;
 sono inutilizzabili in sede di dibattimento (la P.G., come pure il P.M., acquisiscono fonti di prova, ma non formano la
prova).

Il combinato disposto dagli artt 347 e 348 (“Assicurazione delle fonti di prova”) scandisce in 3 tempi l’azione investigativa di
polizia:
 investita del potere-dovere di prendere notizia dei reati di propria iniziativa (art 330), è libera di agire lungo le
direttrici fissate dall’art 55 co.1, finché non ne riferisca al P.M. nei tempi prescritti.

Subito dopo, l’art 348 indica un duplice scenario che si sussegue in rapporto alla solerzia operativa del titolare delle indagini.

Art 348  Assicurazione delle fonti di prova


“Anche successivamente alla comunicazione della notizia di reato [347], la P.G. continua a svolgere le funzioni indicate nell’art
55 raccogliendo in specie ogni elemento utile alla ricostruzione del fatto e alla individuazione del colpevole. (co.1)

Al fine indicato nel co.1, procede, fra l’altro:


a) alla ricerca delle cose e delle tracce pertinenti al reato nonché alla conservazione di esse e dello stato dei luoghi [352-
354];
b) alla ricerca delle persone in grado di riferire su circostanze rilevanti per la ricostruzione dei fatti [351];
c) al compimento degli atti indicati negli articoli seguenti. (co.2)

Dopo l’intervento del P.M. la P.G. compie gli atti a essa specificamente delegati ex art 370, esegue le direttive del P.M. ed
inoltre svolge di propria iniziativa, informandone prontamente il P.M., tutte le attività di indagine per accertare i reati o
richieste da elementi successivi emersi e assicura le nuove fonti di prova.” (co.3)

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L’art 348 co.3 ricalca, al riguardo, l’art 55 co.2, profilando 2/3 dei moduli operativi che esprimono i rapporti tra i protagonisti delle
investigazioni e i loro ruoli.

Si parla, al riguardo, rispettivamente, di attività delegata (“compie gli atti ad essa delegati”) e di attività guidata di indagine
(“eseguire le direttive del P.M.”).

Sempre nel co.3, emerge anche il terzo modulo, là dove si lascia intendere come i margini di autonomia permangano, in certa
misura, anche dopo che il P.M. abbia impartito le direttive di indagine (la polizia continua a svolgere “tutte le altre attività….e
assicura le nuove fonti di prova”).

Un unico limite ne restringe la libertà di azione, nello svolgimento di attività di indagine parallela: deve informarne “prontamente
il P.M.”

Quando procede di propria iniziativa, la P.G. gode di ampia discrezionalità quanto alla scelta degli strumenti, in funzione della
circostanza che una rigida predeterminazione dei suoi poteri finirebbe per rendere inadeguata la sua azione rispetto alle tante
evenienze delle vicende investigative.

Una serie di atti di indagini sono espressamente disciplinati nel Titolo IV Libro V agli art 349-357:

 procedere alla identificazione della persona nei cui confronti vengono svolte le indagini o di altre persone (art 349);
 raccogliere informazioni dalla persona nei cui confronti vengono svolte le indagini (350), da persone informate sui fatti
(351) o da imputati in procedimento connesso (351 co.1bis).

Può inoltre procedere ad atti di indagini suscettibili di incidere sulla libertà e su altri diritti fondamentali della persona:

 perquisizioni; acquisizioni di plichi o di corrispondenza; accertamenti urgenti sui luoghi o sulle persone; sequestro del
corpo del reato e delle cose a questo pertinenti.

Sono attività il cui svolgimento (di regola affidato al P.M.) è legittimato dal pericolo di dispersione della prova.

La P.G. può, altresì, svolgere attività atipiche (operazioni di osservazione, controllo e pedinamento, videoregistrazioni)

Sono considerati “soggettivamente” atipici quegli atti che la legge attribuisce al P.M. (riconoscimento attraverso una fotografia).

Rispetto agli strumenti investigativi di carattere atipico si pone il problema della legittimità degli stessi, allorché siano
suscettibili di intercettare diritti fondamentali della persona.

Il principale quesito verte sul tema della utilizzabilità di elementi di prova assunti contra consitutionem: secondo le Sez.Unite
tali atti devono ritenersi inutilizzabili tutte le volte in cui incidano su libertà fondamentali della persona, in quanto non ne sia
prevista la predeterminazione legislativa di casi e modi.

È possibile, infine, che quando siano necessarie specifiche competenze tecniche, la P.G., si avvalga di persone idonee che non
possono rifiutare la propria opera (art 348 co.4).

Dunque, non sono consentiti alla P.G. atti di carattere valutativo: pertanto, le competenze tecniche potranno essere utilizzata
solo per il compimento di attività di carattere materiale.

Con tale norma, il legislatore sottolinea il ruolo del P.M. come organo necessario della fase delle indagini assegnandogli
l’obbligo di dare le direttive, con tempestività e precisione, alla P.G. per lo svolgimento delle investigazioni.

Inoltre, si ribadisce il fatto che nelle indagini vengono raccolte solo “fonti di prova”, in quanto la vera e propria prova si forma
solo in giudizio, nel contraddittorio tra le parti.

15. Segue: l’identificazione della persona sottoposta alle indagini e delle altre persone. (Art 349)
L’attività di regola prodromica ad ogni accertamento, svolto dalla P.G., è quella della identificazione del soggetto nei cui
confronti si svolgono le indagini e delle altre persone che possono riferire circostanze rilevanti per la ricostruzione dei fatti (art
349 co.1)

L’identificazione dell’indagato (ad opera della P.G.) è operata, se possibile, sulla base delle dichiarazioni dallo stesso fornite, il
quale viene ammonito circa le conseguenze di un rifiuto o di una dichiarazione mendace ed altresì invitato a dichiarare o a
eleggere il domicilio per le notificazioni a norma dell’art 161 (art 349 co.2).
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La P.G. è fornita di variegati strumenti per pervenire alla identificazione del soggetto che non voglia dichiarare la propria
identità.

Solo se si tratti di persona sottoposta alle indagini, è possibile procedere attraverso il ricorso ai rilievi dattiloscopici, fotografici
o antropometrici, o ad altri accertamenti.

Tra gli “altri accertamenti” possono rientrare quelli che comportano il prelievo di capelli o saliva anche in mancanza del
consenso dell’interessato.

Il co.2bis art 349 prevede che la P.G. procede al prelievo coattivo “nel rispetto della dignità personale del soggetto”, e con
l’esile garanzia di una “previa autorizzazione scritta, oppure resa oralmente e confermata per iscritto, del P.M.”

Se taluna delle persone indicate nel co.1 rifiuta di farsi identificare o fornisce generalità o documenti di identificazione che
presentino sufficienti elementi per ritenerne la falsità, la P.G. la accompagna nei propri uffici, la cui permanenza è presidiata da
alcune garanzie:

 In primis, non può protrarsi oltre “il tempo strettamente necessario per l’identificazione” e comunque non oltre le 12
ore; solo dove l’identificazione risulti essere complessa, la persona potrà esser trattenuta per un lasso di tempo più
esteso ma comunque non superiore alle 24 ore: in tal ipotesi, ferma la facoltà per il soggetto di chiedere di avvisare un
familiare/convivente, sarà necessario il previo avviso, anche orale, al P.M. (art 349 co.4).

In ogni caso, dell’accompagnamento e dell’ora in cui questo è stato compiuto è data immediata notizia al P.M., il quale, se
ritiene che non ricorrano le condizioni previste ex co.4, ordina il rilascio della persona accompagnata (co.5 art 349).

Il P.M. deve essere anche informato del rilascio della persona accompagnata e dell’ora in cui esso è avvenuto (co.6 art 349).

Tale disciplina ha assunto una maggiore rilevanza in seguito al verificarsi di episodi di violenza legati al terrorismo
internazionale.

Le operazioni di identificazione possono infatti rilevarsi decisive nell’ottica di un possibile intervento preventivo, al fine di
individuare il potenziale terrorista che spesso utilizza documenti falsi cambiando identità.

16. Segue: le sommarie informazioni. (Art 350-351)


Tra i principali compiti della P.G. vi è quello di assumere informazioni dalla:

 persona già raggiunta da indizi di reato,


 da persone informate sui fatti e
 da imputati o indagati in procedimenti connessi o collegati.

L’art 350 (“Altre sommarie informazioni”) delinea 3 differenti discipline che concernono altrettanti casi di assunzione di
informazioni dal soggetto sottoposto a indagini.

In primo luogo, solo gli ufficiali di P.G. (e non gli agenti) possono assumere informazioni dal soggetto che non sia in stato di
arresto/fermo, né sottoposto alla misura ex art 384bis (“Allontanamento d’urgenza dalla casa familiare”).

Si tratta del “quasi-interrogatorio”, atto da compiersi nel rispetto delle garanzie ex art 64, ma senza la necessità di
contestazione del fatto, in virtù del mancato richiamo all’art 65 (co.1 art 350).

Prima di procedere, la P.G. invita il soggetto a nominare un difensore di fiducia o provvedere ad un difensore d’ufficio (co.2).

L’assunzione delle dichiarazioni si svolge, a pena di nullità assoluta ex art 179, con la necessaria presenza del difensore, che ha
l’obbligo di presenziare al compimento dell’atto (co.3)

Le informazioni così assunte potranno essere utilizzate in dibattimento per le contestazioni.

Il co.5 e 6 art 350 disciplinano la differente ipotesi delle informazioni assunte “sul luogo o nell’immediatezza del fatto”:

 si tratta di informazioni utili solo per la prosecuzione delle indagini (come rivela il divieto di ogni forma di documentazione
e di utilizzazione) che gli ufficiali (e non gli agenti) di P.G. possono assumere anche in assenza del difensore.

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Ex co.7, la P.G. (anche gli agenti in tal caso) può infine ricevere dichiarazioni spontanee dalla persona nei cui confronti vengono
svolte le indagini.

Il carattere spontaneo presuppone di ritenersi non necessaria l’assistenza difensiva.

Quanto al valore probatorio, i relativi verbali saranno utilizzabili in dibattimento, esclusivamente ai fini delle contestazioni, ex
art 503 co.3, ma le dichiarazioni spontanee saranno invece pienamente utilizzabili nei procedimenti speciali privi di
dibattimento.

La P.G. può assumere il contributo conoscitivo della persona sottoposta alle indagini anche essendo delegata dal P.M. a
svolgere l’interrogatorio, ex art 370.

In tal caso, l’atto può essere assunto solo da persona non sottoposta a restrizione della libertà e con l’assistenza necessaria
del difensore (co.1 art 370).

Le garanzie riconosciute per l’interrogatorio delegato hanno un riflesso sulla utilizzabilità dibattimentale dell’atto: il relativo
verbale potrà essere allegato al fascicolo dibattimentale, finendo per fornire elementi di natura pienamente probatoria.

La P.G. può assumere anche informazioni da soggetti informati sui fatti, con le stesse garanzie che presidiano l’assunzione della
prova testimoniale.

Nell’assunzione delle dette informazioni “si applicano le disposizioni del co.1 art 362”, per l’assunzione di informazioni da parte
del P.M. (co.1 art 351).

Nel rinviare all’art 362 co.1, si rendono applicabili alla disciplina ex art 351, le disposizioni ex art 197, 197bis, 198, 199, 200,
201, 202 e 203

Per cui, nell’espletamento dell’atto, devono trovare luogo le forme previste per la testimonianza, con la conseguenza che:
 non possono essere sentiti soggetti che si trovano nei casi di incompatibilità previsti ex art 197;
 i soggetti chiamati a rilasciare informazioni hanno obbligo di presentarsi e di rispondere secondo verità, ma non possono
essere costretti a deporre su fatti dai quali potrebbe emergere una responsabilità penale (art 198);
 se si tratti di prossimi congiunti dell’indagato devono essere avvertiti, a pena di nullità, della facoltà di astenersi dal
rendere dichiarazioni (art 199);
 i soggetti dai quali si assumano informazioni possono astenersi dal rispondere nel rispetto delle norme sui segreti (art
200, 201 e 202);
 sono applicabili le garanzie previste per gli informatori della P.G. e dei servizi di sicurezza (art 203).

Il potenziale testimone, pur tenuto a rispondere secondo verità, non potrà essere penalmente sanzionato per la falsità delle
sue dichiarazioni, salvo che esse siano tali da integrare gli estremi del reato di favoreggiamento personale o di calunnia: non è
applicabile all’atto assunto dalla P.G. la disciplina che punisce chi rilasci false dichiarazioni al P.M. o al procuratore della Corte
penale internazionale.

È previsto anche il divieto dell’arresto in flagranza della persona richiesta di fornire informazioni dalla P.G. per reati concernenti
il contenuto delle informazioni o il rifiuto di fornirle.

Inoltre, il rinvio al secondo periodo del co.1 art 362 esclude che alle persone già sentite dal difensore o dal suo sostituto
possano essere richieste informazioni sulle domande formulate e sulle risposte date:

 tal divieto permette di evitare interferenze tra l’attività investigativa pubblica o quella privata.

Tale istituto ha subito l’influenza europea circa la tutela dei soggetti deboli.

Un primo intervento è stato realizzato nel 2012 introducendo il co.1 ter all’art 351, secondo cui nei procedimenti per il delitto
di maltrattamenti contro familiari e conviventi, per taluni delitti contro la libertà individuale e contro la libertà personale “la
P.G., quando deve assumere sommarie informazioni da persone minori, si avvale dell’ausilio di un esperto in psicologia o in
psichiatria infantile, nominato dal P.M.”.

Successivamente, nel 2015 si è ulteriormente modificato il co.1ter art 351, ampliando la tutela e lo spettro dei destinatari:
 da un lato, vengono riconosciute alle persone offese, in condizioni di particolare vulnerabilità, garanzie analoghe a
quelle già previste per i minori.
 Dall’altro, si sono introdotti nuovi profili di garanzia.
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Accomunata, sotto la rubrica “altre sommarie informazioni” con la disciplina della assunzione di informazioni da soggetti che
rivestono il ruolo di potenziali testimoni, trova luogo nell’art 351 co.1bis, una scarna previsione concernente l’assunzione di
informazioni da imputati in procedimento connesso o da imputati di un reato collegato a quello per cui si procede nel caso
previsto dall’art 371 co.2 lett.b.

Riservato l’atto ai soli ufficiali, prima di procedere all’audizione, il soggetto deve venir avvertito di essere assistito da un
difensore, il quale ha diritto di assistere all’atto.

Il rinvio all’art 362 recepisce, tra le regole applicabili alle sommarie informazioni, l’art 197bis, la quale assume rilievo rispetto a
coloro che già sono sentiti come imputati/indagati.

I quali ultimi dovranno essere destinatarii dell’avviso ex art 64 co.3 lett.c e potranno assumere, nel successivo dibattimento, la
veste di testimoni “assistiti” essendo chiamati a deporre con le garanzie ex art 197bis.

17. Segue: perquisizioni, accertamenti urgenti, acquisizioni di plichi. (Art 352-354)


Oltre che nei casi previsti dalla legge speciale, gli ufficiali di P.G. possono procedere a perquisizione personale o locale, in caso
di urgenza.

La relativa disciplina è strutturata tenendo conto dell’art 13 co.3 Cost., per cui l’intervento degli organi di pubblica sicurezza può
essere legittimato solo in “casi eccezionali di necessità ed urgenza” e attraverso provvedimenti sottoposti a convalida dell’A.G.

L’art 352 (“Perquisizioni”) ne disciplina presupposti e procedura.

Circa i presupposti, essi ripropongono le situazioni legittimanti le perquisizioni disposte dal P.M.

È possibile procedere a:

 Perquisizione personale  quando vi sia fondato motivo di ritenere che sulla persona si trovino occultate cose o tracce
pertinenti al reato che possono essere cancellate o disperse;
 Perquisizione locale  quando vi sia il fondato motivo di ritenere che quelle cose o tracce si trovino in un determinato
luogo o che ivi si trovi la persona sottoposta alle indagini o l’evaso.

I connotati di necessità ed urgenza idonei a legittimare l’operato della P.G. trovano una duplice connotazione nei primi 2
commi ex art 352.

Il co.1 prevede che gli ufficiali di P.G. possano procedere a perquisizione personale/locale nella flagranza del reato o nel caso di
evasione. Qui la necessità di urgenza è in re ipsa.

Il co.2 prevede che gli ufficiali potranno compiere una perquisizione locale/personale, quando si debba procedere alla
esecuzione di un’ordinanza che dispone la custodia cautelare o di un ordine che dispone la carcerazione nei confronti di
persona imputata/condannata per uno dei delitti per i quali è obbligatorio l’arresti in flagranza ex art 380, o al fermo di persona
indiziata di delitto ex art 384.

In questi casi vi si potrà procedere solo se sussistano “particolari motivi di urgenza che non consentono la emissione di un
tempestivo decreto di perquisizione”.

Ipotesi peculiare concerne le perquisizioni informatiche:

 Nella flagranza di reato, o nei casi ex art 352 co.2, quando sussistono i presupposti e le altre condizioni ivi previsti, gli
ufficiali potranno procede a perquisizioni di sistemi informatici o telematici ancorché protetti da misure di sicurezza,
quando vi sia il fondato motivo di ritenere che in questi si trovino occultati dati, informazioni, programmi o tracce
pertinenti al reato che possono essere cancellati/dispersi.

Nel procedere alle operazioni di perquisizione, è necessario operare in modalità tali da assicurare la conservazione del
materiale informatico/telematico e idonee ad impedirne l’alterazione.

Di regola, sono legittimati alla perquisizione i soli ufficiali di P.G., ma “nei casi di particolare necessità ed urgenza” possono
procedervi gli agenti, anche senza motivare, nel verbale redatto ex art 357, le ragioni del loro intervento, quando esse
emergano dalla eccezionalità delle circostanze.

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Per le modalità di esecuzione si deve far riferimento alle norme del Libro III.

Una regola derogatoria viene dettata per la perquisizione domiciliare, la quale può essere eseguita anche fuori dai limiti
temporali previsti ex art 251, quando il ritardo potrebbe pregiudicarne l’esito (art 352 co.3).

Quanto al procedimento, eseguita la perquisizione, la P.G. dovrà trasmettere il verbale delle operazioni compiute “senza ritardo
e comunque non oltre le 48 ore” al P.M., il quale dovrà convalidarle nelle successive 48 ore.

Alla P.G. compete anche il potere di compiere rilievi e accertamenti su persone e luoghi (art 354 “Accertamenti urgenti sui
luoghi, sulle cose e sulle persone. Sequestro”).

In particolare, la P.G. deve curare che le tracce e le cose pertinenti al reato siano conservate e che lo stato dei luoghi e delle
cose non venga mutato prima dell’intervento del P.M. (art 354 co.1);

se vi è pericolo che tali cose, tracce e luoghi si alterino/disperdano o si modifichino, il compito di eseguire i necessari
accertamenti e rilievi sullo stato dei luoghi e delle cose è demandato ai solo ufficiali, e sempre che il P.M. non possa
intervenire tempestivamente, o non abbia ancora assunto la direzione delle indagini (art 354 co.2)

in caso di necessità ed urgenza, gli ufficiali di P.G. provvedono, ove possibile, all’immediata duplicazione su adeguati
supporti per assicurare la conservazione del materiale informatico/telematico.

Ex co.3 art 354, i soli ufficiali possono procedere ad accertamento e rilievi sulla persona, diversi dalla ispezione personale.

Tutte le volte in cui se ne presenti l’urgenza, nell’attività di indagine svolta, la P.G. potrà procede al sequestro del corpo del
reato e delle cose ad esso pertinenti.

In tal caso dovrà dare atto nel relativo verbale del motivo del provvedimento e consegnarne copia alla persona alla quale le
cose sono state sequestrate.

Il verbale è da trasmettere entro 48 ore al P.M. del luogo ove il sequestro è stato eseguito, il quale, ricorrendone i
presupposti, convaliderà il sequestro entro le 48 ore successive con decreto motivato o disporrà la restituzione delle cose
sequestrate.

Contro il decreto di convalida si può proporre, entro 10 giorni dalla notifica del decreto o dalla data in cui l’interessato ha
avuto conoscenza dell’avvenuto sequestro, richiesta di riesame, anche nel merito ex art 324; ma la relativa richiesta non
sospende l’esecuzione del procedimento.

Infine, spetta alla P.G., il potere di acquisire plichi sigillato o altrimenti chiusi; il materiale così acquisito dovrà essere trasmesso
intatto al P.M. per l’eventuale sequestro (art 353 co.1).

L’art 353 (“Acquisizione di plichi o corrispondenza”) disciplina 2 situazioni di urgenza, riguardo alle quali il pericolo di dispersione
della prova legittima l’intervento immediato della polizia;

stando al co.2, se si ha fondato motivo di ritenere che i plichi contengano notizie utili alla ricerca e all’assicurazione di fonti di
prova che potrebbero andare disperse a causa del ritardo, l’ufficiale di P.G. informa col mezzo più rapido il p.m., il quale può
autorizzarne l’apertura immediata e l’accertamento del contenuto.

Ex co.3, se si tratta di lettere, pieghi, pacchi, etc, per i quali è consentito il sequestro ex art 254, gli ufficiali di P.G., in caso di
urgenza, ordinano a chi è preposto al servizio postale, telegrafico, etc di sospendere l’inoltro.

Se entro 48 ore dall’ordine della P.G. il P.M. non dispone il sequestro, gli oggetti di corrispondenza sono inoltrati.

Con tale disposizione (art 353 “Acquisizione di plichi o corrispondenza”) si è cercato di bilanciare l’esigenza di assicurare le fonti
di prova con il diritto, costituzionalmente garantito, di corrispondere e comunicare liberamente e riservatamente (art 15 Cost).

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18. L’attività di indagine del P.M.: atti diretti e atti delegati. TITOLO V (Art 358-378)
Ex art 370 co.1 il P.M. deve compiere “personalmente ogni attività di indagine”.

Tale regola subisce un temperamento in considerazione di esigenze di efficacia delle indagini, per cui diviene irrealistica la
prospettiva di un P.M. attore unico di ogni indagine.

Art 370  Atti diretti e atti delegati


“Il P.M. compie personalmente ogni attività di indagine. Può avvalersi della P.G. per il compimento di attività di indagine e di
atti specificamente delegati, compresi gli interrogatori ed i confronti cui partecipi la persona sottoposta alle indagini che si
trovi in stato di libertà, con l’assistenza necessaria del difensore. (co.1)

Quando procede a norma del co.1, la P.G. osserva le disposizioni ex art 364, 365 e 373. (co.2)

Per singoli atti da assumere nella circoscrizione di altro tribunale, il P.M., qualora non ritenga di procedere personalmente,
può delegare, secondo la rispettiva competenza per materia, il P.M. presso il tribunale del luogo. (co.3)

Qualora ricorrono ragioni di urgenza o altri gravi motivi, il P.M. delegato ex co.3 ha facoltà di procedere di propria iniziativa
anche agli atti che a seguito dello svolgimento di quelli specificamente delegati appaiono necessari ai fini delle indagini.”
(co.4)

19. Segue: il coordinamento investigativo. (Art 371-372)


Per esigenze di celerità e non solo, il legislatore ha disciplinato diversi sistemi di cooperazione tra uffici e di osmosi dei relativi
risultati di indagine.

Ferma restando la possibilità per il P.M. di richiedere all’A.G. copie di atti e informazioni scritte sul loro contenuto, anche in
deroga al segreto investigativo, l’art 371 (“Rapporti tra diversi uffici del P.M.”) prevede uno strumento di coordinamento.

Art 371  Rapporti tra diversi uffici del P.M.


“Gli uffici diversi del P.M. che procedono a indagini collegate, si coordinano tra loro per la speditezza, economica ed efficacia
delle indagini medesime.
A tali fine provvedono allo scambio di atti e di informazioni nonché alla comunicazione delle direttive rispettivamente
impartite alla P.G.
Possono altresì procedere, congiuntamente, al compimento di specifici atti. (co.1)

L’istituto del coordinamento è applicabile nei casi in cui le indagini siano collegate, ex co.2:

a) “se i procedimenti sono connessi ex art 12;


b) Se si tratta di reati dei quali gli uno sono stati commessi in occasione degli altri, o per conseguirne/assicurarne al
colpevole o ad altri il profitto, il prezzo, il prodotto o l’impunità, o se sono reati commessi da più persone in danno
reciproco le une delle altre, o se la prova di un reato o di una circostanza influisce sulla prova di un altro reato o di
un’altra circostanza;
c) Se la prova di più reati deriva, anche in parte, dalla stessa fonte” (co.2)

Ai sensi del co.2 lett.a, gli organi di indagine, prima dell’esercizio dell’azione penale, saranno liberi di optare per la
concentrazione dei procedimenti presso lo stesso ufficio o di trascurare i vincoli che legano i reati e di indagare sugli stessi
separatamente, accedendo al meccanismo del coordinamento investigativo.

Nel corso degli anni sono stati posti dei correttivi che suppliscono al mancato spontaneo coordinamento, delineando dei poteri
di sollecitazione e impulso affidati al procuratore generale presso la corte d’appello, promuovendo il coordinamento e
l’avocazione delle indagini preliminari quando possibile.

20. Segue: attività di indagine tipica e atipica. (Art 358)


L’art 358, impone al P.M. di compiere “ogni attività necessaria ai fini indicati nell’art 326”. La generalità della locuzione “ogni
attività necessaria” richiama un complesso di atti investigativi tipici e atipici.

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Quanto agli atti tipici, nel Titolo V (“attività del P.M.”) trova luogo solo la disciplina di alcuni tra gli strumenti legislativamente
previsti.

Si tratta di una serie di atti investigativi corrispondenti ai mezzi di prova, diversamente denominati per rimarcare la differenza di
natura e regime che intercorre tra gli atti probatori compiuti davanti al giudice e quelli compiuti dal P.M. ad uso endofasico:

 accertamenti tecnici (359-360); Individuazioni (art 361); assunzione di informazioni (362); interrogatorio di persone
imputate in procedimento connesso (363).

Essi sono stati concepiti come atti caratterizzati da tendenziale fluidità delle forme, in funzione della natura processuale delle
indagini preliminari e della loro limitata spendibilità probatoria.

Con una serie di modifiche, la disciplina dell’assunzione di informazioni è stata assimilata all’analogo strumento probatorio,
tramite il richiamo all’applicabilità delle disposizioni in materia di testimonianza.

Non sono stati disciplinati i confronti, i quali possono essere compiuti come espressioni di attività libera;

mentre l’interrogatorio della persona sottoposta a indagini potrà essere assunto nel rispetto delle forme dettate ex art 64 e
65.

Il P.M. può procedere a ispezioni, perquisizioni, sequestri, intercettazioni, mezzi di ricerca della prova disciplinati nel Titolo III
Libro III.

Sono strumenti tipici della fase delle indagini, la cui titolarità è posta in capo all’ “autorità giudiziaria” (dizione comprensiva sia
del giudice che del P.M.), se non esclusivamente al P.M. (su autorizzazione del giudice).

In quanto deputati a confluire nel fascicolo dibattimentale, essi sono predisposti per assumere un ruolo importante rispetto ad
un’attività che si presenta a gittata endofasica.

Evidente, è che tra le attività “necessarie” rispetto agli scopi perseguiti, ex art 358 (“Attività di indagine del P.M.”), possano
rientrare attività di indagine atipiche, le quali possono quindi essere svolte dal P.M.

21. Segue: gli accertamenti tecnici. (Art 359-360)


Art 359  Consulenti tecnici del P.M.
“Il P.M., quando procede ad accertamenti, rilievi segnaletici, descrittivi o fotografici e ad ogni altra operazione tecnica per cui
sono necessarie specifiche competenze, può nominare e avvalersi di consulenti, che non possono rifiutare la loro opera. (co.1)

Il consulente può essere autorizzato dal P.M. ad assistere a singoli atti di indagine.” (co.2)

Concretandosi in operazioni ripetibili, la consulenza tecnica (utilizzabile nella fase delle indagini e nei riti alternativi) non
produce risultati probatori di regola spendibili in dibattimento: per tal motivo il P.M. può procedervi senza obbligo di
coinvolgere la persona sottoposta alle indagini e la persona offesa dal reato.

L’art 360 (“Accertamenti tecnici non ripetibili”) si riferisce solo ad accertamenti che non possono essere rinviati o ripetuti al
dibattimento.

La disposizione si riferisce ad accertamenti che riguardino “persone, cose o luoghi il cui stato è soggetto a modificazione”

A differenza dell’art 359, la consulenza tecnica disposta ex art 360, è destinata ad essere inserita nel fascicolo per il
dibattimento e potrà essere acquisita e utilizzata dal giudice, a norma degli art 511 e 526.

Si tratta di una forma di anticipazione della prova la cui acquisizione è demandata al P.M.

Da un lato, il P.M. essendo titolare del potere di svolgere accertamenti irripetibili, si è inteso assicurare la non dispersione
della prova, anche nei casi in cui non sarebbe stato possibile assumerla con le forme maggiormente garantite dell’incidente
probatorio.

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Dall’altro lato, la legge ha previsto un duplice livello di garanzie:


 tutte le parti private interessate possono agire da comprimari, partecipando all’atto disposto dal magistrato
inquirente.
Si inscena, in tal caso, un contraddittorio tra difensori e consulenti, ma senza la presenza del giudice.

 In alternativa, è possibile contrastare il compimento dell’atto: un potere conferito alla sola persona sottoposta alle
indagini, la quale può esprimere la volontà che l’accertamento sia condotto davanti al giudice, salvo che ciò non
pregiudichi la assunzione della prova.

La duplice variante procedurale è introdotta da un avviso:

la persona sottoposta alle indagini, la persona offesa e i loro difensori devono essere informati “senza ritardo” del giorno,
dell’ora e del luogo fissati per il conferimento dell’incarico e della facoltà di nominare consulenti tecnici (art 360 co.1).

Se la persona sottoposta alle indagini ne sia priva è avvisata che è assistita da un difensore d’ufficio ma può nominarne uno di
fiducia (co.2).

L’avviso è prodromico al contraddittorio acefalo: il difensore e i consulenti tecnici, eventualmente nominati, hanno diritto di
assistere al conferimento dell’incarico; di partecipare agli accertamenti e di formulare osservazioni e riserve (co.3).

Da tener presente è che l’obbligo di avviso e la correlativa sanzione di nullità per l’eventuale inadempimento ricorrono solo
nel caso che al momento del conferimento dell’incarico al consulente sia già stata individuata la persona nei confronti della
quale si procede:
mentre i risultati degli accertamenti tecnici non ripetibili saranno utilizzati anche nei confronti di soggetti che al momento del
conferimento dell’incarico non erano ancora indagati per assenza di elementi indiziari a loro carico.

In alternativa, alla partecipazione al contraddittorio ex co.3, la persona sottoposta alle indagini, prima del conferimento
dell’incarico, può formulare riserva di promuovere incidente probatorio.

Con modifica della riforma Orlando, il nuovo co.4bis art 360 prevede che:
 “la riserva di cui al co.4 perde efficacia e non può essere ulteriormente formulata se la richiesta di incidete probatorio
non è proposta entro il termine di 10 giorni dalla formulazione della riserva stessa”.

Di fronte al comportamento della controparte, il P.M. deve prestare acquiescenza, rinunciando ai programmati accertamenti,
salvo che questi non possano più essere utilmente compiuti se differiti (art 360 co.4).

Di regola, gli atti di indagine preliminare compiuti dal P.M. o dalla P.G. non sono direttamente utilizzabili a fini di prova,
essendo la prova in senso pieno destinata a formarsi in dibattimento.
A tale regola vengono apportati alcuni temperamenti nel senso che determinate categorie di atti compiuti nella fase delle
indagini (come gli accertamenti tecnici non ripetibili) possono essere valutati come prova anche in giudizio, tanto che
vengono inseriti ab initio nel fascicolo per il dibattimento.

Alcune modifiche apportate con la l.103/2017 riguardano il tentativo di razionalizzare e contingentare i tempi di durata della
fase preliminare.
In particolare, sul termine per proporre l’incidente probatorio (art 360 co.4bis e 5), si è aggiunto un nuovo co.4bis in materia
di accertamenti tecnici non ripetibili disposti su iniziativa del P.M.:
 Dopo aver proposto riserva di incidente probatorio, la persona sottoposta alle indagini ha l’onere di agire
concretamente in tempi brevi, formulando la richiesta per l’instaurazione di tale procedura, entro 10 giorni.

In caso contrario, decorsi 10 giorni, la riserva perde efficacia e l’autorità inquirente è libera di procedere al proprio
accertamento.

Il successivo co.5 stabilisce, infatti, che all’inutilizzabilità degli atti compiuti dal P.M. nonostante la presentazione della riserva di
incidente probatorio, faccia ora eccezione, oltre al caso di urgenza, anche l’inefficacia della stessa.

Viene così impedito che una patologica inerzia dell’indagato generi situazioni di stallo, idonee ad ostacolare il compimento
dell’atto investigativo.

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22. Segue: il prelievo coattivo di campioni biologici e le indagini genetiche. (Art 359bis)
Se l’accertamento tecnico suppone un prelievo di un campione biologico, o altra operazione che incida sul corpo umano, le
relative operazioni devono avvenire nel rispetto dei diritti della persona.

In primis, allorché il campione di materiale biologico debba essere prelevato da persona vivente non consenziente, la limitazione
della libertà richiede una predeterminazione legislativa dei casi e dei modi.

Affidato dal d.l. 144/2005 alla P.G., il potere di procedere a prelievo di campioni biologici trovava spazio tra gli accertamenti
urgenti ex art 354;
ora, abrogato, l’art 354 co.3 ultimo periodo, la possibilità di prelievo di campioni di materiale biologico è disciplinata nell’art
359bis tra gli atti del P.M..

Resta salva la disposizione contenuta nell’art 349 co.2bis, in base al quale la P.G. può procedere all’identificazione della persona
nei cui confronti vengono svolte le indagini o di altri soggetti, tramite accertamenti che comportino il prelievo di capelli e saliva,
quando non vi sia il consenso a detto prelievo da parte dell’interessato.

A tale previsione speciale, si aggiunge un regime di prelievo forzoso d’urgenza regolato nell’art 359bis co.3bis, nell’ambito delle
indagini in materia per reati di omicidio stradale e lesioni personali stradali gravi o gravissime.

Se il conducente si rifiuta di sottoporti agli accertamenti dello stato di ebrezza alcolica o di alterazione correlata all’uso di
sostanze stupefacenti/psicotrope, se vi è fondato motivo di ritenere che dal ritardo possa derivare grave/irreparabile
pregiudizio alle indagini, gli ufficiali di P.G., procedono all’accompagnamento dell’interessato presso il più vicino presidio
ospedaliero per sottoposto al necessario prelievo o accertamento, procedendosi in tal caso all’esecuzione coattiva delle
operazioni se la persona rifiuta di sottoporvisi.

Prima di procedere, gli ufficiali devono munirsi di un decreto di autorizzazione da parte del P.M., che può, nei casi di urgenza,
essere adottato anche oralmente e successivamente confermato per iscritto.

Del decreto e delle operazioni da compiersi è data notizia al difensore dell’interessato, che ha facoltà di assistervi, senza che ciò
possa comportare pregiudizio nel compimento delle operazioni.

Si applicano le previsioni ex co.1 e 2 art 365.

Entro 48 ore successive, il P.M. richiede la convalida del decreto e degli eventuali ulteriori provvedimenti al giudice per le
indagini preliminari, che provvede entro 48 ore, dandone immediato avvisto al P.M. e al difensore.

Il prelievo deve essere disposto dal P.M., il quale, quando ravvisi la necessità di compiere le operazioni ex art 224bis, “deve
farne richiesta al giudice che le autorizza con ordinanza”, ove ricorrano le condizioni previste (art 359bis co.1): il giudice
autorizza e il P.M. dispone con decreto contenente le relative indicazioni contenutistiche.

In caso di urgenza, “quando vi è fondato motivo di ritenere che dal ritardo possa derivare grave/irreperibile pregiudizio alle
indagini”, il P.M. dispone lo svolgimento delle operazioni con decreto motivato, che deve contenere i medesimi elementi
prescritti per l’ordinanza del giudice ex art 224bis, se del caso, “provvedendo a disporre l’accompagnamento coattivo, qualora
la persona da sottoporre alle operazioni non si presenti senza addurre un legittimo impedimento, o l’esecuzione coattiva delle
operazioni, se la persona comparsa rifiuti di sottoporvisi”.

Quando proceda in via d’urgenza, entro le 48 ore successive, il P.M. dovrà richiedere, al giudice per le indagini preliminari la
convalida del decreto e dell’eventuale provvedimento di accompagnamento coattivo; sulla richiesta di convalida, il giudice
“provvede con ordinanza al più presto e comunque entro le 48 ore successive, dandone avviso immediatamente al P.M. e al
difensor” (art 359bis co.2).

In virtù di un espresso rinvio all’art 224bis, l’accertamento del P.M. mutua dall’analogo atto del giudice la regolamentazione
relativa ai presupposti, all’oggetto, ai soggetti passivi e alle modalità esecutive.

Tali accertamenti (ex art 224bis) potranno essere disposti nell’ambito dei reati previsti dall’art 224bis, e solo in quanto
“assolutamente indispensabili per la prova dei fatti”.

Non possono essere disposte operazioni che contrastino con espressi divieti posti dalla legge o che possano mettere in pericolo
la vita, l’integrità fisica o la salute della persona/nascituro, o che possano provocare sofferenze di non lieve entità.

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Le operazioni peritali sono comunque eseguite nel rispetto della dignità e del pudore di chi vi è sottoposto.

Ovviamente, a parità di risultato, sono prescelte le tecniche meno invasive.

Circa il regime sanzionatorio, “le disposizioni art 132 co.2 e 224bis co.2,4 e 6 si applicano a pena di nullità delle operazioni e
di inutilizzabilità delle informazioni così acquisite”, e vige l’applicabilità della disciplina della inutilizzabilità, attraverso il
rinvio all’art 191 co.2.

La legge si preoccupa di tipizzare le modalità di acquisizione dei campioni da persona non consenziente, disciplinando i casi e
modi del prelievo forzoso.

Nessuna disciplina è prevista per il prelievo consensuale, ma non c’è dubbio a ritenerla valida.

Il dato conoscitivo estrapolato a seguito del prelievo (avendo estrapolato il profilo genetico) deve essere comparato con altro
profilo da compiersi, avvalendosi di elementi emersi nell’ambito del medesimo procedimento o ricorrendo alle risorse della
banca dati nazionale del DNA.

Ragioni di tutela della privacy impongono la conservazione solo temporanea dei campioni e dei relativi profili genetici,
stabilendo che:
 Se acquisiti nel corso di un procedimento penale  essi devono esser distrutti alla chiusura del procedimento o del
processo;
 Se pervengono alla banca dati i tempi sono regolati dalla l.85/2009.

Oggi, la disciplina è regolata da un decreto ministeriale del 2017.

23. Segue: l’assunzione di informazioni e l’individuazione di persone e di cose. (Art 361-363)


Il P.M. può raccogliere informazioni dalle persone in grado di riferire circostanze utili per le indagini con le forme ex art 362
(“Assunzione di informazioni”).

È un atto di indagine omologo alla testimonianza ma utilizzabile solo ai fini previsti ex art 326, e, in dibattimento, nei casi di
contestazione/irripetibilità sopravvenuta.

Quando deve procedere ad atti che richiedono la presenza della persona offesa e delle persone in grado di riferire su
circostanze utili per le indagini, il P.M. le cita a comparire con le forme ex art 377;

nello stesso modo provvede alla citazione del consulente tecnico, dell’interprete e del custode delle cose sequestrate,
attraverso un decreto che contiene:
a) Le generalità della persona;
b) Il giorno, l’ora e il luogo della comparizione nonché l’autorità davanti alla quale la persona deve presentarsi;
c) L’avvertimento che il P.M. potrà disporre ex art 133 l’accompagnamento coattivo in caso di mancata comparizione
senza che sia stato addotto legittimo impedimento.

Sono state introdotte le forme e garanzie proprie della testimonianza.

Ex co.1bis art 362 (introdotto nel 2012), “nei procedimenti per i delitti di cui all’art 351 co.1ter, il P.M., quando deve assumere
informazioni da persone minori, si avvale dell’ausilio di un esperto in psicologia/psichiatria infantile”.

Allo stesso modo provvede quando deve assumere sommarie informazioni da una persona offesa, anche maggiorenne, in
condizioni di particolare vulnerabilità.

L’assimilazione alla testimonianza dell’atto compiuto dal P.M. si spinge anche sul versante delle conseguenze che
raggiungono l’eventuale dichiarante renitente, reticente o mendace.

il soggetto che, in sede di assunzione di informazioni davanti al P.M., rilascia dichiarazioni false, o tace in tutto o in parte ciò
che sa intorno ai fatti su cui viene sentito, è punibile ex art 371bis co.1 c.p:
 Si prevede la immediata procedibilità per il solo caso di rifiuto;
 Il procedimento per le false dichiarazioni resta sospeso finché nel processo nel corso del quale sono state assunte le
informazioni sia stata pronunciata sentenza di primo grado o il procedimento sia stato anteriormente definito con
archiviazione o con sentenza di non luogo a procedere.

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La regola concernente la sospensione del procedimento in caso di false dichiarazioni contempla una deroga:

 La sospensione non opera se i fatti di cui all’art 371bis c.p. sono commessi al fine di impedire, ostacolare o sviare
un’indagine o un processo penale in relazione ad una serie considerevole di delitti.

Resta fermo il divieto di arresto in flagranza ex art 381 co.4bis, garanzia che tende ad evitare il pregiudizio alla
autodeterminazione del potenziale testimone, il quale potrebbe essere intimidito dall’uso strumentale della precautela.

Art 363  Interrogatorio di persona imputata in un procedimento connesso


“Le persone imputate in un procedimento connesso ex art 12 sono interrogate dal P.M. sui fatti per cui si procede nelle forme
previste dall’art 210 co.2, 3, 4 e 6. (co.1)

Il richiamo all’art 210 induce a ritenere che:

 possa essere disposto l’accompagnamento coattivo del dichiarante;


 che a quest’ultimo debba essere garantita l’assistenza difensiva;
 che debba essere avvertito della facoltà di non rispondere alle domande;
 nonché essere destinatario dell’avviso ex art 64 co.3 lett.c

Rientra tra gli atti di natura dichiarativa anche l’istituto dell’individuazione di persone o di cose disciplinato ex art 361,
secondo cui il P.M. procede all’individuazione di persone, cose o di quanto altro può essere oggetto di percezione sensoriale,
quando sia “necessario per l’immediata prosecuzione delle indagini”.

Le persone, le cose e gli altri oggetti sono presentati o sottoposti in immagine a chi deve eseguire la individuazione.

Se vi sia fondata ragione di ritenere che la persona chiamata alla individuazione possa subire intimidazioni o altra influenza
dalla presenza di quella sottoposta a individuazione l’atto dovrà essere compiuto “senza che quest’ultima possa veder la
prima”.

Le perplessità che circondano l’istituto della ricognizione risultano amplificate dalla previsione dell’atto informale, il quale:

 da un lato, non è assistito da garanzie così stringenti come quelle per l’atto probatorio;
 dall’altro, è suscettibile di creare interferenze con quest’ultimo, introducendo un medium tra il ricordo della persona o
della cosa da riconoscere e l’atto formale di riconoscimento e così potenzialmente distorcendo l’esito dello strumento
probatorio successivamente esperito in sede processuale.

L’individuazione di un soggetto è soggetta alle regole processuali che consentono l’utilizzabilità in dibattimento di
dichiarazioni rese da una persona informata dei fatti nella fase delle indagini preliminari.

24. Segue: l’interrogatorio della persona sottoposta alle indagini. (Art 374-377)
Il P.M. può assumere il sapere della persona sottoposta alle indagini, attraverso l’interrogatorio con le forme ex art 64 e 65.

L’interrogatorio è atto che esprime una esplicazione di autodifesa dell’imputato ed un atto investigativo con il quale l’organo
che svolge le indagini può assumere informazioni ad un soggetto, le cui parole possono rivestire un ruolo di significativa
importanza per la ricostruzione del quadro probatorio.

L’interrogatorio della persona sottoposta alle indagini è rimesso ad una scelta strategica del P.M. che, lungo il corso dell’intera
fase, può decidere se e quando compierlo.

Grava sul P.M. un obbligo di sentire il soggetto che ne faccia richiesta, solo in limine rispetto all’apertura del processo:
 A seguito dell’avviso di conclusione delle indagini ex art 415bis co.3, se l’indagato chieda di essere sottoposto ad
interrogatorio “il P.M. deve procedervi”.

Prima di quel momento, il soggetto nei cui confronti sono svolte le indagini preliminari può presentarsi in ogni tempo al P.M.
per rilasciare dichiarazioni spontanee.

L’iniziativa dell’indagato non pregiudica l’applicazione di misure cautelari.

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Di fronte alla richiesta di essere sentito, al P.M. si offrirà una alternativa:

 Potrà limitarsi ad accogliere quanto l’indagato si dimostrerà interessato a comunicare,


 O potrà contestare il fatto e convertire il colloquio in un atto equivalente per ogni effetto all’interrogatorio, da svolgersi con
le forme ex art 64 e 65 e con le garanzie difensive ex art 364.

Se il P.M. decide di sentire di propria iniziativa la persona sottoposta alle indagini, dovrà inviarle un invito a presentarsi ex
art 375, eventualmente potendo disporne, su autorizzazione del giudice, l’accompagnamento coattivo ex art 376.

L’invito a presentarsi deve contenere:

a) Le generalità o le altre indicazioni personali che valgono a identificare la persona sottoposta alle indagini;
b) Il giorno, l’ora e il luogo della presentazione, nonché l’autorità davanti alla quale presentarsi;
c) L’avvertimento che il P.M. potrà disporre, ex art 132, l’accompagnamento coattivo in caso di mancata presentazione
senza che sia stato addotto legittimo impedimento.

Quando la persona è chiamata a rendere l’interrogatorio, l’invito contiene anche la sommaria enunciazione del fatto quale
risulta dalle indagini fino a quel momento compiute.

L’invito può contenere l’indicazione degli elementi e delle fonti di prova e l’avvertimento che potrà essere presentata richiesta
di giudizio immediato.

L’invito a presentarsi è notificato almeno 3 giorni prima di quello fissato per la comparizione, salvo che, per ragioni di
sicurezza, il P.M. ritenga di abbreviare il termine, e sempre che sia lasciato il tempo necessario per comparire.

25. La documentazione degli atti della P.G. e del P.M. (Art 373)
La documentazione degli atti di P.G. si articola in due diverse forme:

 Di regola la polizia ricorre alla annotazione connotata da forme libere e sommarie, per tutte le attività svolte, comprese
quelle dirette alla individuazione delle fonti di prova.
 Disciplina più rigorosa è riservata agli atti previsti nel co.2 art 357, per i quali è necessario redigere verbale per la
documentazione degli atti del P.M.

In particolare, si tratta di verbali suscettibili di confluire nel fascicolo dibattimentale:

a) Denunce, querele e istanze presentate oralmente;


b) Sommarie informazioni rese e dichiarazioni spontanee ricevute dalla persona nei cui confronti vengono svolte le
indagini;
c) Informazioni assunte ex art 351;
d) Perquisizioni e sequestri;
e) Operazioni e accertamenti ex art 349, 353 e 354;
f) Atti che descrivono fatti e situazioni, eventualmente compiuti sino a che il P.M. non abbia impartito le direttive per lo
svolgimento delle indagini.

La documentazione dell’attività di P.G. è posta a disposizione del P.M. e successivamente, trova la sua ordinaria collocazione
nel fascicolo delle indagini.

Anche per gli atti del P.M. vige un tendenziale principio di libertà delle forme.

Alla documentazione delle attività di indagine preliminare si procede soltanto mediante la redazione del verbale in forma
riassuntiva o mediante le annotazioni ritenute necessarie.

La redazione del verbale è prevista solo per gli atti specificamente indicati nel co.1 art 373:

a) Delle denunce, querele e istanze di procedimento presentate oralmente;


b) Degli interrogatori e dei confronti con la persona sottoposta alle indagini;
c) Delle ispezioni, perquisizioni e sequestri;
d) Delle sommarie informazioni assunte ex art 362;
dbis) Dell’interrogatorio assunto ex art 363;
e) Degli accertamenti tecnici compiuti ex art 360
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Quanto alle modalità operative, la regola è che gli atti debbano essere documentati nel corso del loro compimento.

Solo quando ricorrono insuperabili circostanze che impediscono la documentazione contestuale, la legge ammette che essa
possa avvenire “immediatamente dopo”.

Il verbale è nullo:

 se vi è incertezza assoluta sulle persone intervenute


 o se manca la sottoscrizione del P.M. che lo ha redatto.

L’atto contenente la notizia di reato e la documentazione relativa alle indagini sono conservati in apposito fascicolo presso
l’ufficio del P.M. assieme agli atti trasmessi dalla P.G. ex art 357.

26. Le misure precautelari. TITOLO VI (Art 379-391)


Il Titolo VI (art 379-391) disciplina gli istituti che consentono la provvisoria restrizione della libertà personale (c.d. misure
precautelari) quali l’arresto in flagranza, fermo e allontanamento urgente dalla casa familiare.

Sotto il profilo funzionale, basti pensare che l’arresto in flagranza tende a coincidere, per sua natura, con l’apprensione della
notizia di reato, ponendo chi lo esegue di fronte ad immediate esigenze di assicurazione della prova.

Sotto il profilo strutturale, il potere di arresto in flagranza è esplicitamente riservato alla P.G., il potere di fermo, al P.M.; il
potere di allontanamento dalla casa familiare alla P.G. su autorizzazione del P.M.

Espressione di una deroga alla riserva di giurisdizione, tali provvedimenti sono provvisori, essendo destinati a decadere se
non convalidati attraverso una procedura assistita da rigide cadenze temporali.

Unica la procedura di convalida, per la quale è competente il solo giudice, in coerenza con le scelte adottate in materia di
libertà, che negano al P.M. la possibilità di incidere sulla libertà dell’imputato, essi sono distinti quanto ai presupposti e alla
titolarità.

Tali poteri restrittivi possono esser posti in rapporto di stretta strumentalità rispetto all’applicazione delle misure cautelari
personali coercitive.

L’ambito applicativo dei singoli strumenti è circoscritto rispetto a diverse fasce di reati individuate, secondo un criterio
quantitativo e qualitativo, a determinar il quale valgono i criteri di computo della pena stabiliti dall’art 278, in relazione
all’applicazione delle misure cautelari (art 379).

Art 385  Divieto di arresto o di fermo in determinate circostanze


“L’arresto o il fermo non è consentito quando, tenuto conto delle circostanze del fatto, appare che questo è stato compiuto
nell’adempimento di un dovere o nell’esercizio di una facoltà legittima o in presenza di una causa di non punibilità.” (co.1)

Tale disposizione si propone di evitare che possano essere privati della libertà personale ad iniziative della P.G o P.G., persone
per le quali, in considerazione della situazione in cui hanno agito, in relazione alla quale è ravvisabile ab initio la sussistenza di
scriminanti/cause di esclusione della punibilità appare già piuttosto evidente l’insussistenza di esigenze cautelari e, quindi,
destinate ad essere rimesse in libertà dopo poche ore.

27. Segue. L’arresto in flagranza. (Art 380-383)


Titolari del potere di procedere all’arresto in flagranza sono gli ufficiali e gli agenti di P.G.

Quanto al P.M. la relativa menzione circa la sua titolarità si rimedia in via interpretativa, perché sarebbe quasi ingiustificabile
negare al soggetto preposto alla conduzione delle indagini quanto è consentito a chi di regola deve eseguirne le direttive.

La legge è esplicita in un caso; ex art 476 co.1 il P.M. è legittimato a disporre l’arresto per i reati commessi in udienza.

Ex 383, il potere di arresto spetto anche ai privati, solo nei casi ex art 380 (ovvero quando il suo esercizio da parte della P.G.
sarebbe obbligatorio) e sempre che si tratti di delitti perseguibili d’ufficio.

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Chi ha eseguito l’arresto deve consegnare “senza ritardo” l’arrestato, nonché eventuali cose costituenti il corpo del reato: la
limitazione della libertà personale operata dal privato non deve protrarsi oltre il tempo strettamente necessario a tale
incombente, per non trasmodare in arbitrio.

Presupposto per l’arresto è la flagranza di reato ex art 382.

Art 382  Stato di flagranza


“È in stato di flagranza chi viene colto nell’atto di commettere il reato o chi, subito dopo il reato, è inseguito dalla P.G., dalla
persona offesa o da altre persone o è sorpreso con cose o tracce dalle quali appaia che egli abbia commesso il reato
immediatamente prima. (co.1)

Nel reato permanente lo stato di flagranza dura fino a quando non è cessata la permanenza.” (co.2)

La prima parte dell’art 382 co.1 si riferisce alla flagranza c.d. propria, che suppone un rapporto di contestualità tra la
commissione del reato e l’intervento della forza pubblica/dei privati.

Le altre due situazione sono ricondotte al concetto di flagranza c.d. impropria o quasi-flagranza. (in tali fattispecie il carattere di
contestualità tra reato e intervento dell’autorità si attenua).

È necessario che l’attività di inseguimento venga posta in essere sulla base di una diretta ed autonoma percezione da parte
del soggetto che procede e non solo in considerazione di una denuncia fatta dalla persona offesa/terzi presenti nel luogo del
reato;

occorre, inoltre, che non vi sia soluzione di continuità nell’attività di inseguimento che si estende tra percezione del reato e
arresto.

Analogamente, il requisito della sorpresa del reo con cose o tracce del reato richiede l’esistenza di una stretta contiguità fra la
commissione del fatto e la successiva sorpresa del presunto autore di esso con le “cose o le tracce” del reato e, dunque, il
susseguirsi, senza soluzione di continuità, della condotta del reo e dell’intervento degli operanti.

Il nesso di contestualità tra constatazione del fatto e apprensione del reo subisce un ulteriore allentamento fino a disperdersi in
alcune previsioni stabilite da leggi speciali in occasione di manifestazioni sportive.

Medesima disciplina è stata estesa in caso di reati commessi con violenza alle persone o alle cose, compiuti alla presenza di più
persone anche in occasioni pubbliche, per i quali è obbligatorio l’arresto ai sensi dell’art 380.

In alcuni casi è previsto l’arresto anche fuori dai casi di flagranza:


 In caso di evasione;
 Quando le persone sottoposte a misure di prevenzione personale commettono determinati reati o contravvengano
a obblighi inerenti alle misure;
 I cittadini stranieri o appartenenti a Stati membri dell’Unione europea che trasgrediscano all’ordine di espulsione o
allontanamento pronunciato dal giudice.

All’arresto in flagranza può procedersi solo ove il soggetto sia colto nella flagranza di un reato che rientri:

 Nell’arresto obbligatorio ex art 380,


 O nell’arresto facoltativo ex art 381.

I casi di arresto obbligatorio sono definiti con un riferimento di carattere edittale:


 La P.G. deve procedere all’arresto di chiunque sia colto in flagranza di un delitto non colposo, consumato o tentato,
per il quale la legge stabilisce la pena dell’ergastolo/reclusione non inferiore nel minimo a 5 anni e nel massimo a 20
anni (art 380 co.1).

Il co.2 riserva la medesima disciplina del co.1 anche per i reati di significativa gravità, soggetto ad una continua espansione
(da ultimo vi è stato aggiunto il delitto di omicidio stradale colposo).

Con la medesima tecnica normativa sono definiti i casi di arresto facoltativo.

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La P.G. ha la semplice facoltà di procedere all’arresto di chiunque sia colto in flagranza (ex art 381):

 di un delitto non colposo, consumato o tentato per il quale la legge stabilisce la pena della reclusione superiore nel
massimo a 3 anni;
 o di un delitto colposo per il quale la legge stabilisce la pena della reclusione non inferiore nel massimo a 5 anni.

Il co.4bis art 381 introduce una deroga che impedisce il ricorso all’arresto in casi che altrimenti potrebbero ricadere nella
previsione del co.1

Inoltre, vige anche il divieto di arresto del testimone per reati concernenti il contenuto della disposizione.

Fuori dai casi individuati col riferimento al limite edittale, la P.G. ha facoltà di procedere all’arresto di chi sia colto nella flagranza
di uno dei delitti elencati nel co.2 art 381.

Impropriamente definito facoltativo, l’arresto ex art 381 esprime un potere discrezionale della P.G., che deve procedervi
ogni qualvolta ritiene la misura giustificata dalla “gravità del fatto” o dalla “pericolosità del soggetto desunta dalla sua
personalità o dalle circostanze del fatto” (art 381 co.4)

Infine, se si tratta di un delitto perseguibile a querela, l’arresto in flagranza può essere eseguito solo se la querela viene
proposta. La proposizione della querela può avvenire anche con dichiarazione resa oralmente all’ufficiale o all’agente di P.G.
presente nel luogo; e se l’avente diritto dichiara di rimettere la querela, l’arrestato è posto immediatamente in libertà (art 380
co.3 e 381 co.3).

28. Segue: il fermo dell’indiziato di delitto. (Art 384)


Un potere di restrizione della libertà personale è riservato al P.M. il quale può procedervi, anche fuori dei casi di flagranza.

Art 384  Fermo di indiziato di delitto


“Anche fuori dei casi di flagranza, quando sussistono specifici elementi che, anche in relazione alla impossibilità di identificare
l’indiziato, fanno ritenere fondato il principio di fuga, il P.M. dispone il fermo della persona gravemente indiziata di un delitto
per il quale la legge stabilisce la pena dell’ergastolo o della reclusione in inferiore nel minimo a 2 anni e superiore nel
massimo a 6 anni o di un delitto concernente le armi da guerra e gli esplosivi o di un delitto commesso per finalità di
terrorismo, anche internazionale, o di eversione dell’ordine democratico.” (co.1)

Titolare del potere di fermo è il solo P.M. che può disporlo (previo assenso scritto del procuratore della Repubblica) anche ove
il soggetto si trovi in un luogo posto al di fuori della competenza territoriale del giudice presso il quale è incardinato.

“Nei casi previsti dal co.1 e prima che il P.M. abbia assunto la direzione delle indagini, la P.G. (ufficiali ed agenti) procedono al
fermo di propria iniziativa.” (co.2)

“La P.G. procede inoltre al fermo di propria iniziativa:


a) qualora sia successivamente individuato l’indiziato
b) o sopravvengono specifici elementi, quali il possesso di documenti falsi, che rendano fondato il pericolo che
l’indiziato sta per darsi alla fuga e non sia possibile, per la situazione di urgenza, attendere il provvedimento del
P.M.” (co.3)

Altra ipotesi di fermo è quella prevista nei confronti di un soggetto scarcerato per decorrenza dei termini nelle ipotesi previste
ex art 307 co.4.

A tutti altri fini, è invece predisposto il fermo di identificazione ex art 349 co.4, esercitabile, oltre che nei confronti
dell’indagato, anche nei confronti di potenziali testimoni.

A differenza dell’arresto, il fermo prescinde dalla flagranza ed ha come presupposti solo la presenza di gravi indizi e del
pericolo di fuga (che non consente di attivare l’iter normale di richiesta di misura cautelare al giudice).

Secondo l’opinione della giurisprudenza di legittimità, il P.M., finché ritenga sussistere, perdurare o essere successivamente
intervenuto il pericolo di fuga della persona indiziata di delitto, può, senza risentire di preclusioni, reiterare il provvedimento
di fermo, sempre che ne sussistano gli ulteriori presupposti di legittimità (gravi indizi e titolo del reato).

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29. Segue: l’allontanamento d’urgenza dalla casa familiare. (Art 384bis)


Introdotto nel 2013 dal decreto c.d. femminicidio, l’art 384bis disciplina un’autonoma misura, preordinata ad anticipare la tutela
cautelare rispetto ai reati commessi in ambito familiare, graduando l’afflittività dell’intervento precautelare.

La P.G. ha facoltà di disporre l’allontanamento urgente dalla casa familiare della persona che sia colta in flagranza di uno dei
delitti indicati ex art 282bis co.6, con divieto di avvicinarsi ai luoghi abitualmente frequentati dalla persona offesa.

Per procedervi è necessaria la previa autorizzazione del P.M., che può essere resa per iscritto/oralmente, ma deve essere
successivamente confermata, in questo secondo caso, per iscritto/per via telematica.

Presupposto per la sua applicazione è la sussistenza di fondati motivi per ritenere che le condotte criminose di cui sia stata
ravvisata la flagranza possano essere reiterate, ponendo in grave ed attuale pericolo la vita o l’integrità fisica/psichica della
persona offesa.

Con riguardo alla procedura, devono essere rispettate, in quanto applicabili, le disposizioni di cui agli artt 385-391, nonché le
regole di cui all’art 381 co.3, qualora si intervenga per reati procedibili a querela.

Si estendono obblighi informativi e garanzie, cadenze temporali del procedimento di convalida e relativi esiti.

Quanto agli esiti, richiesto dal P.M. di disporre una misura coercitiva, il giudice potrà decidere nei limiti del petitum e sulla scorta
degli elementi a sostegno della richiesta.

Nel procedere all’allontanamento urgente, ufficiali e agenti di P.G. devono provvedere “senza ritardo” agli obblighi di
informazione imposti ex l. 11/2009:
 Essi devono fornire alla persona offesa tutte le informazioni relative ai centri antiviolenza presenti sul territorio, e in
particola nella sua zona di residenza e, qualora la persona offesa ne faccia richiesta, devono provvedere a metterla
direttamente in contatto con tali strutture assistenziali.

30. Segue: il procedimento di convalida. (Art 386-391)


Una volta eseguito l’arresto o il fermo, la P.G. deve operare su due fronti:

 Assicurare immediate garanzie al soggetto privato della libertà;


 Compiere ogni atto doveroso per il passaggio di consegne al P.M., al quale spetta rivolgere al giudice le richieste
conseguenti all’esecuzione del provvedimento.

Sotto il primo profilo (garanzie), grava sulla P.G: una sera di obblighi informativi (art 386):

 All’arrestato/fermato deve essere consegnata una comunicazione scritta, redatta in forma chiara e precisa, tradotta in
lingua a lui comprensibile, con cui lo si informa:
a) Della facoltà di nominare un difensore (o esser ammesso al patrocinio a spese dello Stato);
b) Del diritto di ottenere informazioni in merito all’accusa;
c) Del diritto all’interprete ed alla traduzione di atti fondamentali;
d) Del diritto di avvalersi della facoltà di non rispondere;
e) Del diritto di accedere agli atti sui quali si fonda l’arresto/fermo;
f) Del diritto di informare le autorità consolari e di dare avviso ai familiari;
g) Del diritto di accedere all’assistenza medica di urgenza;
h) Del diritto di essere condotto davanti all’A.G. per la convalida entro 96 ore dall’avvenuto arresto/fermo;
i) Del diritto di comparire dinanzi al giudice per rendere l’interrogatorio e di proporre ricorso contro l’ordinanza
che decide sulla convalida dell’arresto o del fermo.

Art 387  Avviso dell’arresto o del fermo ai familiari


“La P.G., con il consenso dell’arrestato o del fermato, deve senza ritardo dare notizia ai familiari dell’avvenuto arresto o del
fermo.” (co.1)

Inoltre, dell’avvenuto arresto/fermo, la P.G. deve informare immediatamente il difensore di fiducia eventualmente nominato, o
quello di ufficio designato dal P.M. ex art 97.

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Sotto il secondo profilo (passaggio di consegne), la P.G. deve dare “immediatamente notizia al P.M. del luogo ove
l’arresto/fermo è stato eseguito”.

Dunque, assolti gli obblighi di informazione e garanzia, la P.G. devono mettere l’arrestato/fermato a disposizione del P.M. al
più presto e comunque non oltre 24 ore dall’arresto o dal fermo.

L’arrestato/fermato viene posto a disposizione del P.M. mediante la conduzione nella casa circondariale o mandamentale del
luogo dove l’arresto/fermo è stato eseguito, salvo quanto previsto ex art 558 (“Convalida dell’arresto e giudizio direttissimo”).

Entro il medesimo termine deve essere trasmesso il relativo verbale, anche per via telematica.

Entrambi gli adempimenti sono previsti a pena di inefficacia della misura di arresto/fermo (art 386 co.7).

Il P.M., entro 48 ore dall’arresto/fermo dovrà chiedere la convalida al giudice per le indagini preliminari competente in
relazione al luogo dove l’arresto/fermo è stato eseguito (art 390 co.1), sempre che non ritenga che il soggetto debba essere
immediatamente scarcerato.

La richiesta di convalida andrà comunque inoltrata: quando non intenda chiedere una misura cautelare personale, perché
non vi sono esigenze, il P.M. deve disporre l’immediata liberazione dell’arrestato/fermato, ma alla liberazione deve fare
seguito l’udienza di convalida.

Poiché il soggetto è in libertà, non ci vi è alcun limite temporale per la richiesta di convalida. Infatti, il giudice, nel fissare
l’udienza, deve darne avviso, senza ritardo, anche alla persona liberata.

Se, invece, il P.M. ravvisa la sussistenza di esigenze cautelari dovrà chiedere, unitamente alla convalida, anche una misura
cautelare.

Il procedimento di convalida deve essere attivato in ogni caso, poiché è sempre configurabile l’interesse all’accertamento
giurisdizionale della legalità dell’arresto, essendo il giudizio di convalida finalizzato alla verifica dei requisiti di legittimità dei
provvedimenti sulla libertà personale.

In caso di ritardo della richiesta di convalida, se lo reputi utile, previo avviso al difensore, può procedere all’interrogatorio
dell’arrestato/fermato (art 388, con esplicito richiamo all’art 64 e parafrasati i contenuti dell’art 65) per fini investigativi.

A seguito della richiesta del P.M., il giudice fissa l’udienza di convalida al più presto e comunque entro le 48 ore successive,
dandone avviso senza ritardo la P.M. e al difensore (art 390 co.2 “Richiesta di convalida arresto/fermo”).

L’udienza di convalida si svolge nel luogo in cui l’arrestato/fermato si trova custodito, salvo che nel caso di custodia nel
proprio domicilio o altro luogo di privata dimora.

Quando sussistono eccezionali motivi di necessità/urgenza il giudice, con decreto motivato, può disporre il trasferimento
dell’arrestato/fermato per la comparizione davanti a sé.

L’udienza si celebra in camera di consiglio con la partecipazione necessaria del difensore dell’arrestato/fermato (art 391 co.1
“Udienza di convalida”), il quale ha diritto di consultare ed estrarre copia dei documenti presentati per la convalida.

Non è più prevista come necessaria la presenza del P.M.

 Se non ritiene di comparire, la parte pubblica è tenuta a trasmettere al giudice le sue richieste in ordine alla libertà
personale, con gli elementi su cui le stesse si fondano;
 Se compare, indica i motivi dell’arresto/fermo e illustra le richieste in ordine alla libertà personale (co.3 art 391).

Dopo aver verificato che siano state completate le procedure comunicative (scritte o orali), il giudice procede
all’interrogatorio dell’arrestato/fermato, salvo che questi non abbia potuto o si sia rifiutato di comparire; sente in ogni caso
il difensore (co.3).

Il giudice decide con ordinanza (ricorribile per cassazione dall’arrestato/fermato o P.M.), convalidando il provvedimento se
l’arresto/fermo è stato legittimamente eseguito e se sono stati osservati i termini ex art 386 co.3 e 390 co.1.

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In caso di mancata convalida, una decisione negativa potrebbe annunciare conseguenze di natura disciplinare, nonché ad una
eventuale riparazione per ingiusta detenzione.

L’arresto/fermo cessa di avere efficacia se l’ordinanza di convalida non è pronunciata/depositata nelle 48 ore successive al
momento in cui l’arrestato/fermato è stato posto a disposizione del giudice.

Se il P.M. ha richiesto l’applicazione di una misura cautelare, il giudice (in presenza di condizioni di applicabilità ex art 273 e
di almeno una esigenza cautelare ex art 274) dispone l’applicazione di una misura coercitiva ex art 291.

Se non emette il provvedimento restrittivo dispone, sempre con ordinanza, l’immediata liberazione dell’arrestato/fermato
(co.6 art 391).

 Se pronunciate in udienza, le ordinanze conclusive dell’udienza di convalida sono comunicate al P.M. e notificate
all’arrestato/fermato che non siano comparsi;
 Se non pronunciate in udienza, le medesime ordinanze sono comunicate/notificate a coloro che hanno diritto di proporre
impugnazione.

I termini per l’impugnazione decorrono dalla lettura del provvedimento in udienza o dalla sua comunicazione/notificazione.

L’udienza di convalida, in quanto tale, attiene solo al controllo giurisdizionale sull’atto privativo di libertà, ma non vale a
legittimare l’ulteriore protrazione dello stato di fermo/arresto.

Pertanto, se il giudice non emette, su richiesta del P.M., anche separata ordinanza di applicazione di una delle misure
cautelari, deve ordinare l’immediata liberazione dell’indagato.

31. Il diritto di difesa nelle indagini: la conoscenza dell’accusa e l’accesso al registro delle notizie di reato.
L’art 111 co.3 Cost assicura che “la persona accusata di un reato sia, nel più breve tempo possibile, informata riservatamente
della natura e dei motivi dell’accusa elevata a suo carico”.

Dunque, la conoscenza dell’addebito è premessa indefettibile per articolare una risposta in chiave difensiva; per cui si
presupposte la tempestività della informazione.

Tale diritto deve essere contemperato con le esigenze di tutela dell’efficacia delle indagini, le quali potrebbero essere
pregiudicate dalla prematura conoscenza degli esiti delle stesse.

Diversi istituti prevedono che in alcune ipotesi l’intera fase di indagine possa svolgersi senza che il diretto interessato ne sia a
conoscenza:

 Se le indagini terminano con l’archiviazione, il procedimento può addirittura chiudersi senza che il soggetto indiziato venga
mai a conoscenza di essere stato sottoposto a indagini.

Se il P.M. si risolva ad esercitare l’azione penale, vi è un preciso obbligo, ineludibile a pena di nullità della seguente richiesta di
rinvio a giudizio, di dare un avviso che contiene:

- la sommaria enunciazione del fatto per il quale si procede,


- delle norme di legge che si assumono violate,
- della data e del luogo del fatto,
- l’avvertimento che la documentazione relativa alle indagini espletate è depositata presso la segreteria del P.M. e che
l’indagato e il suo difensore hanno facoltà di prenderne visione ed estrarne copia.

Si tratta di una informazione tardiva, perché interviene alla conclusione della fase preliminare, quando il P.M. ha raccolto
elementi sufficientemente significativi in chiave accusatoria per dare avvio al processo, ormai composti in un quadro
provvisoriamente consolidato.

Essa assolve un ruolo decisivo, consentendo all’indagato di instaurare contraddittorio sulle indagini prima che l’accusa sia
formalizzata nella richiesta di rinvio a giudizio: può verificare e contraddire l’impianto accusatorio, ma anche lucrare un
supplemento investigativo.

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Il medesimo avviso deve anche informare la persona ancora sottoposta alle indagini delle facoltà difensive ex art 415bis co.3
(entro 20 giorni può presentare memorie, produrre documenti, depositare documentazione relativa ad investigazione del
difensore, chiedere al P.M. il compimento di atti di indagine, chiedere di essere sottoposto ad interrogatorio, etc.).

Prima di quel momento, la persona sottoposta alle indagini può aver conoscenza dell’esistenza di un procedimento a suo carico
solo in via eventuale.

Un ruolo centrale riveste l’istituto dell’informazione di garanzia (art 369):

 È un avviso che il P.M. deve inviare al compimento del primo atto al quale il difensore ha diritto di assistere, alla persona
sottoposta alle indagini e alla persona offesa.

Quanto al contenuto, devono esservi indicati ex co.1:

 le norme di legge che si assumono violate,


 l’indicazione della data e del luogo del fatto
 e l’invito a nominare un difensore di fiducia.

L’informazione di garanzia non illustra un fatto, ma si limita ad indicare gli estremi formali dell’addebito; pone, quindi,
l’indagato in condizione di nominare un difensore di fiducia in grado di assistere all’atto di indagine, in funzione del quale
l’informazione è stata inviata;

inoltre, ex co. 1bis (introdotto nel 2014), si impone di informare i medesimi destinatari del “diritto alla comunicazione previsto
ex art 335 co.3”

La norma, tesa a garantire l’effettività del diritto di difesa, chiarisce che il P.M. non ha l’obbligo di effettuare tale
comunicazione all’inizio delle indagini preliminari, ma solo se e quando occorra compiere uno degli atti garantiti (art 364) o a
sorpresa (art 365) ai quali il difensore ha diritto, con o senza avviso, di assistere.

Vi sono poi una serie di atti che, in quanto dotati dei medesimi requisiti informativi, tengono luogo della informazione di
garanzia, essendo considerati (dalla giurisprudenza) equipollenti alla stessa; e cioè:

 l’avviso che il P.M. deve inviare nel caso in sui si debba compiere un accertamento tecnico irripetibile o un interrogatorio;
 consegna dei decreti di perquisizione o di sequestro.

Le Sezioni Unite hanno precisato che, ove la persona sottoposta alle indagini non abbia assistito all’atto, una volta che questo
sia compiuto, viene ad esaurirsi l’esigenza preclusiva connessa alla “sorpresa”, con la conseguenza che riemerge l’obbligo del
P.M. del tempestivo inoltro dell’informazione predetta, anche al fine di assicurare all’interessato la pienezza delle facoltà
difensive riconducibili al deposito degli atti previsto ex art 366.

La notizia che si stanno svolgendo indagini a suo carico può, poi, pervenire all’indagato nel corso di attività di indagine della
P.G. che si svolgano in sua presenza o in occasione di ulteriori atti che lo vedano come protagonista passivo:

 quando egli sia destinatario di un provvedimento cautelare/precautelare (293);


 quando si debba svolgere un incidente probatorio richiesto dal P.M. (393);
 o vi sia una richiesta di proroga dei termini di indagine (406 co.3).

È possibile che la conoscenza del procedimento derivi da una iniziativa del diretto interessato, il quale, per attivarsi, deve avere
motivo di ritenere di essere sottoposto ad un procedimento presso un determinato ufficio giudiziario.

Ex art 335, l’iscrizione della notizia di reato e gli eventuali aggiornamenti della stessa, sono comunicati alla persona alla quale
il reato è attribuito, alla persona offesa e ai rispettivi difensori, ove ne facciano richiesta.

Ogni volta che l’iscrizione non risulti o non possa essere comunicata, la segreteria della procura della Repubblica risponderà con
la formula: “Non risultano iscrizioni suscettibili di essere comunicate”.

Anche l’accesso a tal canale informativo può subire restrizioni di carattere temporaneo:

 se vi sono esigente attinenti all’attività di indagine, il P.M. può disporre con decreto motivato, il segreto sulle iscrizioni
per un periodo non superiore a 3 mesi e non rinnovabile (co.3bis art 335).

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Un nuovo co.3ter (introdotto con la riforma Orlando ex l.103/2017) dispone che:

 “Senza pregiudizio del segreto investigativo, decorsi 6 mesi dalla data di presentazione della denuncia, o della querela,
la persona offesa dal reato può chiedere di essere informata dall’autorità che ha in carico il procedimento circa lo stato
del medesimo”.

Tale art 335 è volto a garantire l’effettivo rispetto dei termini di durata massima delle indagini preliminari in modo da porre
fine al fenomeno, non infrequente, di istruttorie protratte per lunghissimo tempo con conseguente pregiudizio per il diritto
dell’imputato di vedere risolta, in un senso o nell’altro, la propria posizione.

La riforma Orlando ha previsto, a tutela delle aspettative della persona offesa, che quest’ultima possa chiedere al P.M., senza
pregiudizio del segreto investigativo, decorsi 6 mesi dalla data di presentazione della denuncia/querela, di essere informata
dall’autorità che ha in carico il procedimento circa lo stato del medesimo.

32. Segue: nomina del difensore e il ruolo della difesa tecnica. (Art 369bis)
Il diritto alla difesa tecnica è irrinunciabile, dunque, se l’imputato non ha nominato un difensore di fiducia, gli verrà affidato un
difensore d’ufficio.

Una particolare informativa da inviarsi, ex art 369bis, lo avvertirà della nomina, facendogli alcune ulteriori notizie su diritti e
doveri che circondano il suo rapporto col difensore.

In particolare, la comunicazione sul diritto di difesa deve contenere:

a) L’informazione della obbligatorietà della difesa tecnica nel processo penale, con l’indicazione della facoltà e dei diritti
attribuiti dalla legge alla persona sottoposta alle indagini;
b) Il nominativo del difensore d’ufficio e il suo indirizzo e recapito telefonico;
c) L’indicazione della facoltà di nominare un difensore di fiducia con l’avvertimento che, in mancanza, l’indagato sarà
assistito da quello nominato d’ufficio;
d) L’indicazione dell’obbligo di retribuire il difensore d’ufficio ove non sussistano le condizioni per accedere al beneficio
di cui alla lett.e e l’avvertimento che, in caso di insolvenza, si procederà ad esecuzione forzata;
d-bis) l’informazione del diritto all’interprete ed alla traduzione di atti fondamentali;
e) L’indicazione delle condizioni per l’ammissione al patrocinio a spese dello Stato.

La figura del difensore ha subito una evoluzione considerevole. Uno snodo è da ricollegare alla introduzione nell’art 111 co.3
Cost del diritto dell’imputato di godere delle condizioni necessarie per preparare la sua difesa e del diritto alla prova, quali
imprescindibili esplicazioni del diritto di difesa, già sancito nell’art 24 co.2 Cost.

Si è delineata una duplice linea prospettica:

1) La prima colloca il difensore nell’orbita delle indagini compiute dalla P.G. e dal P.M.

Egli vi si aggira quale comprimario della scena investigativa pubblica a tutela dei diritti fondamentali della persona e della
genuinità degli esiti probatori.

Ove la legge lo preveda, assiste al compimento degli atti di iniziativa altrui, presentando al P.M. “richieste, osservazioni e riserve
delle quali è fatta menzione nel verbale”.

Non ha il potere di indirizzare, nelle stesse condizioni, il contributo del proprio assistito, né gli è concesso influenzare i
partecipanti: come ogni altra persona che intervenga all’atto, gli è vietato “fare segni di approvazione o disapprovazione”.

Il difensore ha un generale potere di interlocuzione con l’organo di accusa; piuttosto, l’art 367 prevede che nel corso delle
indagini “i difensori hanno facoltà di presentare memorie e richieste scritte al P.M.”; nessuna risposta sembra dovuta al
difensore richiedente.

2) Lungo la seconda linea prospettica, il difensore può compiere autonomamente una serie di atti investigativi per la ricerca
di elementi utili per la difesa del proprio assistito, muovendosi specularmente all’organo di accusa.

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33. Segue: l’assistenza del difensore agli atti di indagine del P.M. e della P.G.
L’assistenza del difensore agli atti di indagine della P.G. e del P.M., finalizzata a presidiare la correttezza dell’azione inquirente,
è stabilita in correlazione con la potenziale proiezione dibattimentale delle conseguenti acquisizioni.

Ciò tiene conto della necessità di preservare l’efficacia dell’azione investigativa, rispetto a quei casi in cui l’invito rivolto al
difensore potrebbe precludere/alterare gli esiti dell’accertamento.

Ne deriva un triplice regime.

1. In primo luogo, il difensore ha facoltà di assistere all’atto con diritto di essere preavvertito, quando la P.G. proceda
all’assunzione di sommarie informazioni dalla persona nei cui confronti vengono svolte le indagini ex art 350 co.1-4.

Dunque, le sommarie informazioni sono assunte con la necessaria presenza del difensore, a pena di nullità assoluta ex art 179.

Nell’ambito dell’attività condotta dal P.M., il diritto di avviso è dovuto al difensore nel caso di accertamenti tecnici urgenti, in
relazione ai quali, il difensore deve essere avvisato senza ritardo dell’ora e del luogo fissati per il conferimento dell’incarico e
delle facoltà di nominare consulenti tecnici (art 360 co.1).

Quando si debba procedere ad interrogatorio, ispezione, individuazione di persone o confronto al quale debba intervenire la
persona sottoposta alle indagini, il difensore deve essere avvisato almeno 24 ore prima del compimento di tali atti, nonché
delle ispezioni a cui non deve partecipare la persona sottoposta alle indagini.

Abbiamo una duplice deroga:

 Nei casi di assoluta urgenza, quando vi è fondato motivo di ritenere che il ritardo possa pregiudicare la ricerca o
l’assicurazione delle fonti di prova, il P.M. può procedere a interrogatorio, ispezione, individuazione di persone o a
confronto anche prima del termine fissato, dandone avviso al difensore senza ritardo e comunque tempestivamente.
(il P.M. dovrà indicare i motivi della deroga e le modalità di avviso).

 L’avviso può essere del tutto omesso quando il P.M. procede a ispezione e vi è fondato motivo di ritenere che le tracce
o gli altri effetti materiali del reato possano essere alterati: anche in tal caso il difensore può intervenire all’atto.

2. In secondo luogo, quando si tratti di atti a sorpresa è prevista la facoltà del difensore di assistere all’atto senza diritto di
essere preavvisato.

L’ambito di questo regime partecipativo è disciplinato ex art 356 e 365, con riguardo agli atti della P.G. e del P.M.

Tra gli atti a iniziativa della P.G. vi rientrano: le perquisizioni; gli accertamenti urgenti sui luoghi, sulle cose e sulle persone e i
sequestri; nonché la immediata apertura del plico.

La P.G. dovrà avvertire la persona sottoposta alle indagini che ha facoltà di farsi assistere dal difensore di fiducia.

Ove l’indagato non si avvalga di tale facoltà, nessun obbligo grava sulla P.G. di dover designare un difensore d’ufficio.

Quanto al P.M., nel procedere al compimento di atti di perquisizione o sequestro, egli deve chiedere alla persona sottoposta
alle indagini, che sia presente, se è assistita da un difensore di fiducia e, qualora ne sia priva, designa un difensore un difensore
d’ufficio ex art 97.

Il difensore può assistere al compimento dell’atto, ferma la facoltà per l’indagato di farsi assistere da persona di sua fiducia.

In entrambi i casi ora enunciati, ove il difensore decida di non intervenire, non si produrrà alcuna ripercussione sulla
legittimità del compimento dell’atto, salvo che la sua partecipazione sia prevista come necessaria.

3. In terzo luogo, la legge non prevede alcun diritto di assistere:


 all’assunzione di informazioni da persone a conoscenza di notizie utili e al relativo confronto tra di esse (art 362);
 all’interrogatorio di persona imputata in procedimento connesso (363);
 per l’assunzione di sommarie informazioni ex art 351 co.1bis che la P.G. può assumere con la presenza del difensore
del dichiarante, ma senza che la persona sottoposta a indagini sia assistita.

Il difensore che non abbia assistito all’atto può accedere alla sua documentazione subito dopo il suo compimento; a meno che, i
verbali degli atti ai quali il difensore ha diritto di assistere, sono depositati nella segreteria del P.M. entro il 3° giorno successivo
al compimento dell’atto, con facoltà per il difensore di esaminarli ed estrarne copia nei 5 giorni successivi.

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Al difensore, cui già non fosse stato dato avviso del compimento dell’atto, deve essere immediatamente notificato l’avviso di
deposito e da questo avvisto decorrerà il termine di 5 giorni per prendere visione degli atti ed estrarne copia.

Il P.M. può disporre, per gravi motivi, che il deposito degli atti e l’esercizio della facoltà nel co.1 siano ritardati per massimo 30
giorni.

Contro il decreto del P.M. la persona sottoposta alle indagini e il difensore possono proporre opposizione al giudice, che
provvede ai sensi dell’art 127 (art 366 co.2).

34. Segue: le investigazioni difensive. TITOLO VI-BIS (Art 391bis-391decies)


La materia delle indagini difensive è stata oggetto di una incisiva riforma ex L.397/2000 che, inserendo nel Libro V il titolo V-bis,
intitolato “Investigazioni difensive” (art 391bis-decies), ha cercato di creare una effettiva parità tra accusa e difesa, soprattutto
nella fase delle indagini preliminari, completando e potenziando i poteri di ricerca delle fonti di prova da parte del difensore.

Tra le novità di rilievo si segnala la possibilità di compiere investigazioni difensive preventive, antecedenti, cioè,
all’instaurazione del procedimento penale (ad es.. un soggetto temendo il suo coinvolgimento in un fatto delittuoso, pur senza
essere indagato, incarica il suo difensore di svolgere delle investigazioni difensive per documentare il suo alibi).

Il nuovo armamentario difensivo trova attuazione nei nove articoli racchiusi nel Titolo VI-bis, chiamato ad hoc per anticipare la
formazione della prova.

Chiaro è l’intento legislativo di attribuire al patrono della difesa di parte uno status paritario rispetto alla autorità inquirente e
poteri di indagine pressoché ricalcati sugli atti tipici dell’organo di accusa, per evidenziarne una totale equiparazione di
forme e valore probatorio.

Ovviamente, tra P.M. e difensore, il rimando alla parità delle armi non può voler dire eguaglianza di poteri.

Infatti, il difensore, dotato di minore autonomia rispetto all’organo di accusa, nel compimento di alcune attività è invece
marcatamente più libero del primo, con riguardo alle modalità di svolgimento degli atti, a quelle di documentazione e alla
possibilità di utilizzare gli elementi raccolti.

Privo di poteri coercitivi, il difensore dovrà ricorrere:

 al giudice, o allo stesso organo di accusa, chiedendo che lo soccorrano di fronte a fonti di prova renitenti e a pubbliche
amministrazioni resistenti;
 o al solo giudice, quando si tratti di assicurare garanzie difensive a soggetti indiziati od ottenere l’autorizzazione ad
ascoltare dichiaranti detenuti.

Ovviamente, la differenza tra il P.M. e il difensore è segnata dalla diversa finalità delle rispettive indagini:

 il primo, è una figura pubblica, cui è impressa una caratteristica di oggettività;


 il secondo è una figura privata, il cui orizzonte è orientato verso un fine di “individuare e ricercare elementi di prova a
favore del proprio assistito”.

Ed è proprio per tali ragioni che il difensore ha ampia libertà nell’individuare e approfondire i temi di prova; nel decidere se
documentare la propria attività e, una volta documentata, nel decidere se e quando immettere i verbali, autonomamente
redatti, nel procedimento.

35. Segue: l’acquisizione di notizie dalle persone informate sui fatti.


La prima attività investigativa del difensore, ad essere regolata, è la possibilità di conferire con le persone che siano in grado di
riferire circostanze utili ai fini dell’attività investigativa (art 391bis co.1).

La disciplina dell’acquisizione di informazioni da fonti dichiarative è modulata attraverso 3 differenti modelli:

1) Il colloquio non documentato;


2) La richiesta e ricezione di una dichiarazione scritta documentata;
3) L’assunzione di informazioni.

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Al colloquio non documentato, l difensore ricorre per sondare l’attendibilità, la pertinenza e la rilevanza delle conoscenze in
possesso della persona contattata, ai fini della ricostruzione dei fatti.

È una interlocuzione informale cui sono legittimati anche il sostituto, gli investigatori privati autorizzati e i consulenti tecnici.

Le altre due modalità di acquisizione di notizie sono riservate al difensore e al suo sostituto (art 391bis co.2).

In quanto dotate di potenziale valore probatorio, la dichiarazione scritta e le informazioni ex co.2 devono essere
documentate ex art 391ter e sono presidiate da una sanzione di inutilizzabilità per la mancata osservanza delle modalità di
svolgimento (art 391bis co.6).

Ove il difensore ritenga di voler utilizzare le informazioni provenienti dalla persona con la quale conferisce, il colloquio dovrà
essere documentato attraverso le forme ordinarie di documentazione degli atti previste dagli art 132-142, in quanto applicabili.

Alla documentazione procede lo stesso difensore o un suo sostituto i quali possono avvalersi per la materiale redazione del
verbale di persona di loro fiducia.

Il difensore/suo sostituto può anche chiedere alla persona informata sui fatti di rilasciare una dichiarazione scritta, nella quale
tale persona riferisce le circostanze utili di cui è a conoscenza.

In tal caso la dichiarazione deve essere autenticata dal difensore ed allegata ad una relazione da lui stesso redatta in cui
dovranno risultare:

a) La data in cui ha ricevuto la dichiarazione;


b) Le proprie generalità e quelle della persona che ha rilasciato la dichiarazione;
c) L’attestazione di avere rivolto gli avvertimenti previsti ex co.3 art 391bis;
d) I fatti sui quali verte la dichiarazione.

Tutte e 3 queste forme di acquisizione di notizie utili per l’indagine da persone che ne siano a conoscenza devono essere
precedute dal composito elenco di avvertimenti di cui al co.3 art 391bis, a pena di inutilizzabilità delle dichiarazioni e salve
le conseguenze disciplinari (art 391bis co.6).

Più precisamente, il difensore, il sostituto, gli investigatori privati autorizzati o i consulenti tecnici devono informare le
persone indicate nel co.1:
a) Della propria qualità e dello scopo del colloquio;
b) Se intendono semplicemente conferire o ricevere dichiarazioni o assumere informazioni indicando, in tal caso, le
modalità e la forma di documentazione;
c) Dell’obbligo di dichiarare se sono sottoposte ad indagini o imputate nello stesso procedimento, in un procedimento
connesso o per un reato collegato;
d) Della facoltà di non rispondere o di non rendere la dichiarazione;
e) Del divieto di rilevare le domande eventualmente formulate dalla P.G. o dal P.M. e le risposte date;
f) Delle responsabilità penali conseguenti alla falsa dichiarazione.

Quanto ai soggetti con i quali il difensore e i suoi ausiliari possono conferire, si tratta di ogni persona in grado di riferire notizie
utili, salva diversa indicazione e con le garanzie assicurate dalla disciplina contenuta nell’art 391bis.

Espressamente richiamata, la disciplina delle incompatibilità a testimoniare ex art 197 lett.c e d (art 391bis co.1) interdice alla
difesa di interloquire con i soggetti ivi considerati:

 Il responsabile civile e la persona civilmente obbligata per la pena pecuniaria;


 Coloro che nel medesimo procedimento svolgono o hanno svolto la funzione di giudice, P.M. o loro ausiliario nonché il
difensore che abbia svolto attività di investigazione difensiva e coloro che hanno formato la documentazione delle
dichiarazioni e delle informazioni assunte ex art 391-ter.

Non si applica, invece, il disposto della lett a e b ex art 197:

o “il difensore può acquisire informazioni da persona sottoposta alle indagini o imputato nello stesso procedimento, in
un procedimento connesso o per un reato collegato a quello del proprio assistito.” (co.5 art 391bis); in tal caso occorre
che egli ne dia avviso al difensore di fiducia della persona, la cui presenza è necessaria.

L’intervento del giudice è necessario quando debba essere sentita una persona detenuta: per procedervi, occorrerà che il
difensore ottenga un’autorizzazione dell’A.G. competente.

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Premesso che all’assunzione di informazioni non possono assistere la persona sottoposta alle indagini, la persona offesa e le
altre parti private (art 391bis co.8), per evitare che il dichiarante possa subire indebite influenze, nell’audizione davanti al
difensore sono previste garanzie in certa misura omologhe a quelle dettate con riguardo alla attività della polizia e del P.M.

In primis, quando assume informazioni da persone minori si avvale dell’ausilio di un esperto in psicologia/psichiatria.

In secundis, tutela il soggetto che rilascia dichiarazioni autoindizianti: qualora il dichiarante renda dichiarazioni dalle quale
emergano indizi di reità a suo carico, il difensore o il sostituto interrompono l’assunzione di informazioni da parte della persona
non imputata o della persona non sottoposta ad indagini, e le precedenti dichiarazioni non possono essere utilizzate contro la
persona che le ha rese.

Infine, è precluso al difensore e a chi lo affianchi nelle indagini, richiedere notizie sulle domande formulate e sulle risposte
date alle persone già sentite dalla P.G. o dal P.M.

Per evitare che le indagini vengano pregiudicate dalla diffusione di notizie, al P.M. è attribuito un potere più penetrante:

 Se sussistono specifiche esigenze attinenti all’attività di indagine, il P.M. può, con decreto motivato, vietare alle
persone sentite di comunicare i fatti e le circostanze oggetto dell’indagine di cui hanno conoscenza.

Il divieto ha durata massima di 2 mesi, e deve essere comunicato alle persone che hanno rilasciato dichiarazioni, avvertendole
delle responsabilità penali conseguenti all’indebita rivelazione delle notizie.

La persona informata sui fatti deve rispondere secondo verità, come davanti al P.M. e al giudice, pena la sua responsabilità
ex art 371ter c.p. per le false dichiarazioni rilasciate al difensore.

Avvertita della relativa facoltà, invece, può non rispondere o non rendere la dichiarazione al difensore.

In tal caso, la difesa ha la possibilità di rivolgersi al P.M. affinché, entro 7 giorni dalla richiesta, disponga l’audizione del
dichiarante renitente, sempre che non si tratti di persone sottoposte a indagini nello stesso o in un altro procedimento nelle
ipotesi previste dall’art 210.

Sennonché, la richiesta di audizione tramuta l’iniziativa difensiva in un atto dell’organo inquirente:

 Essa si svolgerà “alla presenza del difensore” cui pure è concesso di formulare le domande “per primo” ma con le forme
ex art 362 per l’assunzione di informazioni davanti all’organo di accusa.
 L’atto confluirà nel fascicolo del P.M., e così acquisito sarà suscettibile di essere utilizzato alla stregua degli atti di
indagine; il difensore, scegliendo tale via otterrà la dichiarazione, ma perderà la discrezionalità di non mostrare l’atto
sfavorevole alla propria strategia difensiva.

In alternativa all’audizione del potenziale testimone ex co.10, il difensore può chiedere che il soggetto venga sentito con
incidente probatorio “anche al di fuori delle ipotesi previste ex art 392 co.1” (art 391bis co.11).

Posta in capo al difensore la titolarità del diritto di richiedere l’instaurazione dell’incidente probatorio, la disposizione lascia
ritenere che la richiesta possa essere avanzata non solo dal difensore della persona sottoposta alle indagini ma anche da
quello della persona offesa.

36. Segue: la richiesta di documenti alla pubblica amministrazione e l’accesso ai luoghi.


Oltre ad acquisire dichiarazioni, le investigazioni difensive possono tendere ad acquisire elementi probatori di carattere reale.

In primis, l’art 391-quater attribuisce al difensore la possibilità di rivolgersi alla pubblica amministrazione per prendere visione o
acquisire copia, a sue spese, di documenti formati o detenuti stabilmente dall’amministrazione stessa.

Il difensore risulta l’unico soggetto legittimato allo svolgimento di tale particolare attività investigativa.

Il soggetto destinatario dell’istanza difensiva è la pubblica amministrazione, in particolare, quella che “ha formato il documento
o che lo detiene stabilmente”.

L’art 391-quater co.1 prevede che la richiesta del difensore venga presentata “ai fini delle indagini difensive”, ma non prevede
uno specifico obbligo di esplicitazione delle finalità perseguite.

Ovviamente, il difensore deve indicare le circostanze che rendono il documento rilevante per le attività investigative.

La consegna non è un atto dovuto; la pubblica amministrazione può rifiutare l’accesso agli atti.
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Qualora la pubblica amministrazione si rifiuti di collaborare, o non risponda entro 30 giorni dalla presentazione della richiesta,
il co.3 prevede l’applicazione degli art 367 e 368.

Il difensore, non può rivolgersi direttamente al giudice, ma ha la possibilità di sollecitare il P.M. tramite una richiesta scritta
ex art 367, con la quale prospettare al P.M. un provvedimento finalizzato al raggiungimento dello scopo.

Qualora il P.M. non intenda dar corso alla richiesta del difensore, dovrà trasmettere la richiesta stessa al giudice per le
indagini preliminari, il quale dovrà valutare se la richiesta sia fondata e se il mancato accoglimento da parte del P.M. possa
pregiudicare la difesa; tale valutazione verrà svolta in assenza del contraddittorio tra le parti, secondo lo schema ex art 368.

In base agli art 391-sexies e 391-septies, il difensore, il sostituto e i suoi ausiliari possono anche effettuare un accesso ai luoghi,
potendo osservare direttamente l’ambiente in cui si sono svolti i fatti, potendo rinvenire elementi rilevanti ai fini difensivi.

L’attività indicata dall’art 391-septies è di tipo meramente ricognitivo, di osservazione e raccolta dati da analizzare in sede
diversa, e non può causare modificazioni dello stato delle cose poiché non deve interferire con l’attività di ricerca svolta dagli
organi dell’accusa.

Legittimati all’accesso sono il difensore e i suoi ausiliari.

In assenza di un divieto esplicito, tale facoltà spetta anche all’imputato o alla persona sottoposta alle indagini, potendo, così,
contribuire alla ricostruzione dei fatti attraverso l’osservazione dell’ambiente in cui essi si sono svolti.

Specifica disciplina è dedicata all’accesso ai luoghi privati o non aperti al pubblico e relative pertinenze ex art 391-septies.

Per poter accedere in tali luoghi, i soggetti della difesa devono ottenere il consenso del soggetto che ha la disponibilità della
cosa o del luogo.

Dove tal consenso manchi, l’accesso deve essere autorizzato dal giudice, su richiesta del difensore, con un decreto motivato che
ne specifiche le modalità (al quale non potrà seguir alcun rifiuto da parte della persona che la disponibilità della cosa o del
luogo).

Inoltre, la persona che ha disponibilità del luogo, qualora sia presente al momento dell’accesso, deve essere informata della
possibilità di farsi assistere da una persona di fiducia, prontamente reperibile e idonea per legge.

Ex co.3 art 391-septies, per eseguire i rilievi di cui all’articolo precedente, i soggetti della difesa potranno accedere anche ai
luoghi di abitazione e alle loro pertinenze.

In assenza del consenso del soggetto privato che ha disponibilità del bene, l’autorizzazione del giudice sarà concessa solo nel
caso in cui vi sia la necessità di accertare le tracce e gli altri effetti materiali del reato.

Secondo quanto dispone l’art 391-septies co.1, difensore, sostituto e i loro ausiliari possono redigere il verbale, nel quale sono
contenuti tutti i dati necessari di quanto svolto. Tale atto deve essere sottoscritto dall’autore e dalle persone intervenute.

La redazione del verbale non costituisce adempimento obbligatorio: essa rappresenta un onere per il difensore che intenda
realizzare i risultati dell’indagine in chiave probatoria nel procedimento (art 391-decies co.2).

37. Segue: gli atti irripetibili.


La disciplina delle modalità investigative si risolve nel triplice ambito di operatività:

 Assunzione di elementi dichiarativi;


 Richiesta di documentazione alla pubblica amministrazione;
 Rilievo sui luoghi.

Il quadro tracciato dagli art 391-bis, -quater, -sexies e -septies non è esaustivo; quanto vi rimane sotteso è esplicitato dall’art
391-decies, là dove, nel definire il valore probatorio di atti e accertamenti irripetibili, implicitamente si legittima il difensore
all’esperimento degli stessi.

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Dunque, in occasione dell’accesso ai luoghi, il difensore può svolgere anche:

 rilievi irripetibili  atti ricognitivi che non comportano un’attività invasiva o valutazioni proprie degli accertamenti
tecnici e che hanno ad oggetto cose o luoghi soggetti a modificazioni, i quali devono essere svolti tempestivamente, al
fine di evitare la dispersione degli elementi di prova.

il co.2 disciplina l’utilizzabilità di tali atti:

o “fuori dei casi in cui è applicabile l’art 234, la relativa documentazione è inserita nel fascicolo per il dibattimento.”

In base al co.3, il P.M. ha la possibilità di assistere al compimento di tali atti personalmente o per mezzo di una delega alla P.G.;
in tal caso il verbale sarà inserito nel fascicolo del difensore e in quello del P.M. e confluirà, in seguito, nel fascicolo del
dibattimento, seguendo lo stesso percorso del verbale degli accertamenti tecnici non ripetibili.

Anche in occasione diversa dall’accesso ai luoghi, il difensore può svolgere l’accertamenti tecnici ripetibili e non; ciò lo si ricava:

 dall’art 327-bis co.3, che consente al difensore di avvalersi dell’aiuto di consulenti tecnici nel caso in cui sia necessario
svolgere attività investigative che richiedano particolari conoscenze tecniche,
 e dall’art 391-decies co.3, che si riferisce agli accertamenti tecnici irripetibili, per disciplinarne procedura e valore
probatorio, sulla falsariga del corrispondente atto del P.M.

Il co.3 art 391-decies prevede che il difensore, se decida di svolgere accertamenti tecnici irripetibili, debba “darne avviso,
senza ritardo, al P.M. per l’esercizio delle facoltà previste, in quanto compatibili, dall’art 360”.

Il tenore letterale della disposizione sembra escludere che l’avviso sia dovuto alla persona offesa: letta così, la disposizione
potrebbe risultare una violazione del principio del contraddittorio.

L’art 15 delle Regole di comportamento del penalista prevede che nel caso in cui si proceda ad accertamenti tecnici
irripetibili il difensore o il suo sostituto debbano dare avviso senza ritardo “a tutti coloro nei confronti dei quali l’atto può
avere effetto e dei quali si abbia conoscenza”.

38. Segue: il valore probatorio degli atti compiuti dal difensore


Nel tentativo di ottenere una equiparazione del valore probatorio (alla cui base vi è una ricerca di parificazione della figura del
difensore a quella del P.M.), un ruolo centrale è rivestito dalla previsione di un fascicolo del difensore, funzionale a raccogliere
la documentazione degli atti compiuti, quale preludio ad una successiva utilizzabilità del materiale che vi è conferito.

Formato e conservato presso l’ufficio del giudice per le indagini preliminari (art 391-octies), esso è di regola, “riservato”:

 Il P.M. non ha la possibilità di prendere visione del fascicolo del difensore in ogni momento delle indagini, ma solo
quando debba essere adottata una decisione su richiesta delle altre parti o con il loro intervento.

Dopo la chiusura delle indagini, è inserito nel fascicolo del P.M.

Seppur tendenzialmente omogenei gli usi probatori degli atti in essi contenuti, i fascicoli previsti ex art 373 co.5 e 391-octies
co.3 ben si differenziano quanto ai rispettivi criteri di formazione:

 Nel primo, sarà inserito ogni atto compiuto;


 Nel secondo, il difensore inserirà solo quanto vorrà.

Quest’ultimo, libero di decidere se, come e in quale fase dell’arco procedimentale offrire i risultati investigativi alla
conoscenza del giudice e della controparte, può celarli, quando siano inutili o controproducenti per la linea difensiva
adottata.

Ove voglia servirsene, avrà l’onere di presentarli al giudice o al P.M., con le forme previste dalla legge, ben sapendo che una
volta introdotto nel procedimento, l’elemento conoscitivo cessa di essere nell’esclusiva disponibilità del soggetto privato per
entrare a far parte del materiale cognitivo del procedimento penale, svincolandosi, così, anche dallo scopo per il quale l’atto
investigativo era stato svolto.

L’art 391-octies co.3 prevede che la documentazione dell’attività investigativa difensiva, presentata al giudice durante le
indagini preliminari/udienza preliminare, debba essere inserita nel fascicolo del difensore in originale, o in copia se il difensore
ne richiede la restituzione.

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La discrezionalità di quest’ultimo, nel produrre/selezionare il materiale da immettere nel procedimento, ha un limite ben
preciso:
 Il suo dovere di difendere il proprio assistito, non può spingerlo ad una infedele verbalizzazione, per tacere le
circostanze a carico dell’imputato;

né, dopo aver verbalizzato integralmente, egli potrebbe presentare soltanto parti di atti, per oscurare informazioni
sfavorevoli.

Il difensore ha una ampia possibilità di servirsi del materiale cognitivo raccolto, a partire dalle indagini preliminari, nelle quali
l’ostensione probatoria delinea un dialogo tra difensore e giudice. A quest’ultimo, possono essere presentati elementi utili in
funzione di una decisione che debba essere adottata con l’intervento della parte privata.

Ma il difensore può porre a disposizione del giudice ogni risultanza probatoria che ritenga utile per il caso che siano adottate
decisioni inaudita parte, come tipicamente sono quelle su materia cautelare.

L’art 391-octies co.4 prospetta anche un dialogo tra le parti, prevedendo che il difensore possa presentare gli elementi di prova
raccolti, direttamente al P.M.

Ex co.1, il difensore ha anche la possibilità di far pervenire gli elementi di prova raccolti al giudice dell’udienza preliminare:

 Prima dell’inizio della discussione, potranno essere presentati:


- i risultati ottenuti durante la fase delle indagini, ma non depositati in precedenza,
- o i risultati delle attività di indagine suppletiva, svolte in seguito alla chiusura delle indagini preliminari.

Ove poi l’udienza preliminare rappresenti la scena per lo svolgimento di un rito speciale, tale documentazione risulta
utilizzabile, in quella sede, anche per il giudizio.

Il tema dell’utilizzabilità degli elementi dell’investigazione difensiva nel giudizio abbreviato è stato fonte di vivace dibattito, tra
propugnatori di diverse visioni del principio del contraddittorio ex art 111 co.4 Cost.

In linea di principio, ove si concordi che il contraddittorio possa essere derogato solo quando le parti prestino acquiescenza
rispetto ad una diversa modalità di accertamento, non dovrebbe ritenersi ammesso che sia la sola parte che ha formato
unilateralmente gli elementi di prova a poter consentire all’utilizzabilità degli stessi al di fuori del metodo dialettico.

Questo, invece, è quanto avviene riguardo al giudizio abbreviato:


introdotto da una richiesta dell’imputato di essere giudicato allo stato degli atti, con la prospettiva di un beneficio premiale
in termini di riduzione della pena, il rito viene ammesso sulla scorta di un vaglio solo formale da parte del giudice e senza che
il P.M. abbia un potere di veto.

In altre parole, se l’imputato si sia avvalso della facoltà di depositare i risultati delle proprie investigazioni difensive, egli
realizza una trasformazione dei propri elementi di indagine in prove utilizzabili dal giudice.

Il legislatore nel 2017 è intervenuto attraverso la riscrittura dell’art 438 co.4, rimodulando le prerogative delle parti dinanzi alla
richiesta di giudizio abbreviato immediatamente successiva al deposito delle investigazioni difensive.

Un breve termine (max 60 giorni) spetta al P.M. per svolgere indagini suppletive “limitatamente ai temi introdotti dalla difesa”;

mentre all’imputato viene consentito un inedito discessus, essendogli attribuita la facoltà di revocare la richiesta di giudizio
abbreviato.

Complementare rispetto all’art 391-octies, relativo al valore probatorio delle indagini delle parti private nella fase preliminare e
nell’udienza preliminare, l’art 391-decies regola il regime di impiego in fase dibattimentale degli elementi raccolti dal difensore
nella sua attività investigativa e sembra confermare l’intento del legislatore di attuare una simmetria tra le indagini svolte dal
P.M./P.G. e quelle svolte dai soggetti della difesa anche sul piano della utilizzabilità.

L’art 391-decies co.1 prevede che le dichiarazioni inserite nel fascicolo del difensore possano essere impiegate dalle parti per le
contestazioni e per le letture, in tutti i casi in cui ciò è consentito in relazione agli atti delle indagini preliminari svolte
dall’accusa, secondo quanto stabilito ex art 500, 512 e 513.

Abbiamo già visto che gli atti irripetibili, compiuti in occasione dell’accesso ai luoghi ed immessi nel procedimento, sono
destinati a confluire nel fascicolo per il dibattimento.

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La stessa sorte riguarda gli esiti degli accertamenti tecnici non ripetibili di cui fa menzione l’art 391-decies co.3.

Un doppio regime connota il percorso intermedio dei relativi verbali.

In ogni caso, se si tratti di accertamenti, o solo ove il P.M. vi abbia assistito, se si tratti altri atti, prima di accedere alla
destinazione finale (in base a quanto previsto ex art 431 co.1 lett c), essi sono inseriti nel fascicolo del difensore ed in quello del
P.M.

La duplica custodia consente che tali atti restino a disposizione anche dell’organo di accusa, il quale, non avendo libero accesso
al fascicolo difensivo, non potrebbe disporne al momento di sciogliere l’alternativa che lo attende nella fase conclusiva delle
indagini.

39. L’intervento del giudice per la prova: l’ambito applicativo dell’incidente probatorio. TITOLO VII (Art
392-404)
L’incidente probatorio è l’istituto attraverso il quale le parti possono assumere elementi conoscitivi, cristallizzando il valore
probatorio, durante le indagini preliminari.

Esso contente di riprodurre la struttura dell’accertamento dibattimentale, offrendo alle parti una sede per l’acquisizione della
prova davanti ad un giudice e in contraddittorio.

Esso concreta comunque una deroga al principio di immediatezza, poiché l’incidente si svolge al cospetto di un giudice che è
diverso da quello che sarà chiamato alla decisione finale.

La formazione della prova avviene in un contesto idonea a garantire il contraddittorio, ma il confronto si svolge in una fase
arretrata e, di regola, sulla scorta di una conoscenza limitata dei risultati delle indagini.

Di qui il carattere eccezionale dell’istituto, la cui fisionomia funzionale consiste nell’esigenza di conferire dignità di prova (in una
fase non giurisdizionale) ad atti il cui compimento non fosse rinviabile.

L’istituto è disciplinato nel Titolo VII “Incidente probatorio” (art 392-404).

Nell’art 392 co.1 (“Casi”) era stato collocato il catalogo dei casi suscettibili di dar luogo alla acquisizione anticipata della prova in
quanto non rinviabile (resta ancora invariato l’originale catalogo).

In forza dell’elencazione, l’incidente probatorio può essere instaurato per procedere:

1) A testimonianze e confronti, quando vi è fondato motivo di ritenere che il potenziale testimone non potrà essere
esaminato nel dibattimento per infermità o altro grave impedimento; o quando ci sia il motivo di ritenere che la
medesima persona sia esposta a violenza, minaccia, offerta o promessa di denaro o di altra utilità affinché non deponga
o deponga il falso.

2) All’esame della persona sottoposta alle indagini su fatti concernenti la responsabilità di altri, o all’esame delle persone
indicate nell’art 210 e all’esame dei testimoni di giustizia (intervento del 2018). La ragione di un intervento normativo è
quella di una presunzione legislativa di non rinviabilità dell’acquisizione delle dichiarazioni di particolari soggetti che,
avvalendosi della facoltà di non rispondere loro riconosciuta, potrebbero essere indotti a non ripetere in dibattimento
le dichiarazioni che erano disposti a rilasciare nel corso delle indagini.

3) A una perizia o a un esperimento giudiziale, se la prova riguarda una persona, una cosa o un luogo il cui stato è
soggetto a modificazione non evitabile;

4) A una ricognizione, quando particolari ragioni di urgenza non consentono di rinviare l’atto al dibattimento.

L’istituto si è prestato, per la sua estrema flessibilità ad un certo ampliamento del suo spettro operativo.

Tra le ipotesi inedite, un intervento del 2009, interpolando il co.2 art 392, ne ha esteso lo spettro operativo alla perizia che
comporti l’esecuzione di accertamenti o prelievi su persona vivente previsti ex art 224-bis.

Inoltre, può applicarsi l’incidente probatorio anche quando si tratti di supplire alla mancanza di poteri coercitivi del difensore
nell’acquisire il sapere delle persone in grado di riferire elementi utili ai fini difensivi.
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Nell’estensione dell’istituto, la tutela del minore e del maggiorenne vulnerabile ha avuto un ruolo di primo piano

Per effetto del decreto in materia di sicurezza pubblica e della L. 172/2012, si è estesa la possibilità di far ricorso all’incidente
probatorio anche al di fuori delle ipotesi previste dall’art 392, sul presupposto che nei procedimenti per determinati delitti il
differimento al dibattimento dell’acquisizione probatoria rende più difficoltosa la sua percezione.

In particolare, il nuovo co.1bis art 392 prevede che il P.M., anche su richiesta della persona offesa, o la persona sottoposta alle
indagini, può chiedere che si proceda ad incidente probatorio all’assunzione della testimonianza di persona minorenne, o della
persona offesa maggiorenne, nei procedimenti per i delitti ivi previsti.

Il d.lgs.212/2015 in materia di diritti, assistenza e protezione delle vittime di reato interviene sulle disposizioni in materia di
acquisizione delle deposizioni testimoniali in sede di incidente probatorio e di esame dibattimentale consentendo al giudice di
estendere alle persone offese particolarmente vulnerabili (in ragione della minore età, infermità di mente o della natura del
reato per cui si procede) le particolari cautele oggi previste solo per i procedimenti penali relativi a specifiche tipologie di reato,
elencate dal legislatore.

La nuova legge sui testimoni di giustizia (l.6/2018) ha esteso anche ai testimoni di giustizia la possibilità di essere ascoltati con
indicente probatorio durante le indagini preliminari.

Attualmente, tale forma di assunzione della prova è prevista per i soli collaboratori di giustizia.

40. Segue: il procedimento


Ex co.1 art 392, titolari del potere di richiedere l’incidente probatorio sono il P.M. e la persona sottoposta alle indagini.

Salvo che nel caso in cui all’art 391bis co.11, la persona offesa non rientra tra i soggetti legittimati a richiedere:
 Può fare richiesta al P.M. di promuoverne l’instaurazione con il diritto di ottenere una risposta; non accogliendo, il
P.M. pronuncia decreto motivato e lo notifica alla stessa

Nell’udienza preliminare, il potere di promuovere la procedura va riconosciuto all’imputato e alle parti già costituite.

Tempi brevi e forme essenziali connotano una procedura densa di garanzie.

Secondo l’art 393 co.1 (“Richiesta”), la richiesta deve essere presentata entro i termini per la conclusione delle indagini
preliminari, e comunque in tempo sufficiente per l’assunzione della prova prima della scadenza dei medesimi termini, salva la
possibilità di richiederne la proroga finalizzata all’esecuzione dell’incidente (co.4).

Il limite è solo apparente:


 dopo una declaratoria di illegittimità degli artt 392 e 393, l’incidente probatorio può essere richiesto anche
nell’udienza preliminare.

La Corte ha precisato che la richiesta può essere avanzata anche nel tempo che intercorre tra la conclusione delle indagini e
l’udienza, ove vi sia un concreto ed effettivo pericolo di dispersione del materiale conoscitivo.

Quanto ai contenuti, ex co.3 art 393, la richiesta deve indicare, a pena di inammissibilità:

a) la prova da assumere, i fatti che ne costituiscono l’oggetto e le ragioni della sua rilevanza per la decisione
dibattimentale;
b) le persone nei confronti delle quali si procede per i fatti oggetto della prova;
c) le circostanze che, ex art 392, rendono la prova non rinviabile al dibattimento (cioè che giustificano il ricorso
all’incidente probatorio), nonché, ove provenga dal P.M., anche i difensori delle persone interessate ex co.1 lett.b, la
persona offesa e il suo difensore.

Depositata la richiesta nella cancelleria del giudice per le indagini preliminari, il richiedente deve notificare a tutte le parti
interessate la richiesta stessa, depositando la prova dell’avvenuta notifica nella medesima cancelleria (art 395).

Tale notificazione è la premessa per un contraddittorio, cartolare e a tempi ridottissimi, intorno all’ammissibilità della
richiesta.

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Ex art 396 (“Deduzioni”), dalla data della notifica decorre un termine di 2 giorni entro il quale il P.M./persona sottoposta alle
indagini possono presentare deduzioni sull’ammissibilità e fondatezza della richiesta, depositare cose, produrre documenti e
indicare altri fatti che devono costituire oggetto della prova e altre persone interessate alla prova stessa.

Venuto a conoscenza della richiesta presentata dalla persona sottoposta alle indagini, il P.M. può chiedere al giudice il
differimento dell’incidente probatorio, con le forme previste ex art 397, quando la sua esecuzione pregiudicherebbe uno o più
atti di indagine preliminare.

La richiesta di differimento deve essere avanzata entro 2 giorni dalla notificazione della richiesta di incidente probatorio. Il
giudice provvede entro 2 giorni con ordinanza (comunicata immediatamente al P.M.), e può:

 dichiarare inammissibile la richiesta se manchino i requisiti formali (tempi e contenuti ex co.2 art 397);
o può rigettarla (il co.1 art 397 avverte che il differimento non è consentito quando pregiudicherebbe l’assunzione
della prova).

 Accoglierla, fissando l’udienza per l’incidente probatorio “non oltre il termine strettamente necessario” al compimento
dell’atto o degli atti di indagine che hanno giustificato il differimento (ordinanza immediatamente comunicata al P.M. e
notificata alle persone di cui al co.1 lett.b art 393).

Scaduto il termine per le deduzioni o quello successivo conseguente al differimento dell’incidente probatorio, il giudice decide
sulla richiesta con ordinanza non impugnabile, la quale sarà un’ordinanza:

 di inammissibilità  quando la richiesta non permette di capire quale sia la prova e la sua rilevanza, quali siano le
ragioni di urgenza, quali le persone interessate, compresi i difensori;
 a di rigetto  per mancanza delle condizioni di merito;
 di accoglimento  negli altri casi.

Dunque, l’istituto del differimento (art 397) risponde all’esigenza di evitare che il meccanismo di pre-acquisizione probatoria
possa essere usato dall’indagato come espediente per conoscere anticipatamente gli elementi in possesso del P.M., in modo
da pregiudicare uno o più atti di indagine.

Tuttavia, in tal caso, il P.M. dovrà dedurre il pregiudizio per l’attività investigativa, dimostrando anche il nesso di immediata
consequenzialità che esiste tra l’attività richiesta e il predetto pregiudizio per le indagini.

L’art 398 (“Provvedimenti sulla richiesta di incidente probatorio”) si preoccupa di tutelare l’efficacia dello strumento in esame,
prevedendo al co.4, che, nella necessità di procedere a più incidenti probatori, essi debbano essere assegnati alla medesima
udienza, sempre che non possa derivarne il ritardo.

Il co.5 art 398, prescrive che quando ricorrano ragioni di urgenza tali da impedire lo svolgimento dell’incidente nella
circoscrizione del giudice competente, quest’ultimo possa delegare il giudice per le indagini preliminari nel luogo in cui la prova
deve essere assunta.

Con l’ordinanza che accoglie la richiesta, il giudice stabilisce:

a) l’oggetto della prova nei limiti della richiesta e delle deduzioni;


b) le persone interessate all’assunzione della prova individuate sulla base della richiesta e delle deduzioni;
c) la data dell’udienza (entro 10 giorni dal provvedimento).

Avvisate della data dell’udienza almeno 2 giorni prima, le parti sono avvertite della facoltà di “prendere cognizione ed
estrarre copia delle dichiarazioni già rese dalla persona da esaminare”. (co.3 art 398).

Al contrario, nei procedimenti per i reati indicati nell’art 392 co.1bis, all’obbligo del P.M. di depositare tutti gli atti di indagine,
fa riscontro il diritto della persona sottoposta alle indagini e dei difensori delle parti di ottenere copia degli atti depositati.

Quando si tratti di indagini che riguardano ipotesi di reato previste dal co.1bis art 392, il giudice, ove fra le persone
interessate all’assunzione della prova vi siano minorenni, con l’ordinanza stabilisce il luogo, il tempo e le modalità particolari
con cui procedere all’incidente probatorio, quando le esigenze di tutela delle persone lo rendono necessario ed opportuno.

A tal fine, l’udienza può svolgersi anche in luogo diverso dal tribunale, avvalendosi il giudice di strutture specializzate di
assistenza o, in mancanza, presso l’abitazione della persona interessata all’assunzione della prova.

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Quanto detto riguarda anche la documentazione, irrobustendone le forme. Le dichiarazioni testimoniali devono essere
documentate integralmente. Dell’interrogatorio è anche redatto verbale in forma riassuntiva.

L’applicabilità delle regole, dettate con riguardo ai minori nell’art 398 co.5bis (dichiarato illegittimo e reso applicabile al
maggiore infermo di mente) è stata esteso alla persona maggiorenne in condizioni di particolare vulnerabilità (co.5ter
aggiunto nel 2014 dal decreto in materia di prevenzione e repressione della tratta degli esseri umani e alla protezione delle
vittime).

A completare la garanzia, è stato aggiunto (nel 2012) e sostituito (nel 2015) il co.5quater, il quale prevede che:
 il giudice su richiesta della persona offesa o del suo difensore, quando debba procedere all’esame di una persona
che versa in condizioni di particolare vulnerabilità, debba adottare modalità protette.

L’udienza si svolge in camera di consiglio con la partecipazione necessaria del P.M. e del difensore della persona sottoposta alle
indagini (o in sua assenza, un difensore ex art 97).

La partecipazione del difensore della persona offesa è facoltativa.

La persona sottoposta alle indagini e la persona offesa hanno diritto di assistere all’incidente probatorio quando si deve
esaminare un testimone o un’altra persona.

Negli altri casi possono assistere previa autorizzazione del giudice.

Instauratasi l’udienza, non sono più ammesse questioni relative all’ammissibilità/fondatezza della richiesta;

l’assunzione della prova deve avvenire nella medesima udienza o, se non sia possibile, in una udienza che si svolga nel giorno
successivo non festivo.

Le prove sono assunte con le forme stabilite per il dibattimento (art 401 co.5 “Udienza”). Dopo l’assunzione, i verbali, le cose e i
documenti acquisiti nell’incidente probatorio sono trasmessi al P.M. e saranno inclusi nel suo fascicolo, in attesa di transitare in
quello del dibattimento.

I difensori hanno diritto di prendere visione e di estrarne copia.

La prova assunta in incidente probatorio può essere utilizzata in dibattimento esclusivamente nei confronti degli imputati i
cui difensori abbiano partecipato alla relativa assunzione;
infatti, il giudice indica, nell’ordinanza, le persone interessate all’assunzione della prova, individuate in base alla richiesta e
alle deduzioni.

In linea di principio, è vietato estendere l’assunzione della prova a fatti riguardanti persone diverse da quelle i cui difensori
partecipano all’incidente probatorio, ed in ogni caso verbalizzare dichiarazioni riguardanti tali soggetti.

Per quel che riguarda l’efficacia delle prove acquisite nel corso dell’incidente probatorio, non vi è dubbio che esse possano
essere utilizzate ai fini della decisione al pari di quelle formate in giudizio, tant’è che i verbali dell’incidente probatorio sono
inseriti, sin dall’inizio, nel fascicolo del dibattimento.

Vi è, però, una significativa limitazione soggettiva nel senso che le prove assunte nel corso dell’incidente probatorio non
sono utilizzabili nei confronti di persone diverse da quelle indicate dallo stesso P.M. nella richiesta di incidente.

Se vi è necessità, è possibile richiedere una estensione dell’incidente probatorio, ex art 402;

 il giudice (su richiesta P.M. o difensore della persona sottoposta alle indagini), se ricorrono i requisiti e sempre che il
rinvio non pregiudichi l’assunzione della prova, dispone le necessarie notifiche ex art 398 co.3, rinviando l’udienza per
il tempo strettamente necessario e comunque non oltre 3 giorni.

In ogni caso, il divieto (di estensione) è presidiato dalla sanzione della utilizzabilità ex co.1 art 403.

Una sola eccezione è prevista dal co.1bis art 403, il quale prevede che:
o “Le prove di cui al co.1 non sono utilizzabili nei confronti dell’imputato raggiunto solo successivamente all’incidente
probatorio da indizi di colpevolezza se il difensore non ha partecipato alla loro assunzione, salvo che i suddetti indizi
siano emersi dopo che la ripetizione dell’atto sia divenuta impossibile”.

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Un analogo divieto presidia, nell’art 404 (“Efficacia dell’incidente probatorio nei confronti della parte civile”), gli interessi della
parte civile:

o “La sentenza pronunciata sulla base di una prova assunta con incidente probatorio a cui il danneggiato dal reato non è
stato posto in grado di partecipare non produce gli effetti previsti ex art 652, salvo che il danneggiato stesso ne abbia
fatta accettazione anche tacita.” (co.1).

41. La chiusura delle indagini preliminari: ragionevole durata del procedimento e limiti al potere
investigativo. TITOLO VIII (Art 405-415bis)
Nell’ indicare le finalità delle indagini preliminari, l’art 326 già preannuncia all’organo inquirente le determinazioni inerenti
all’esercizio dell’azione penale.

Il P.M., infatti, deve ispezionare l’orizzonte a 360°, senza trascurare nulla per definire le premesse dell’obbligo di azione.

L’obbligo di esercitare l’azione penale gli impone uno sforzo di accertamento completo e rigoroso, dovendo essere compiuta
“ogni attività necessaria” allo scopo (art 358 “Attività di indagine del P.M.”).

Eppure, il suo operare non può protrarsi indefinitivamente: vi si oppongono, infatti, istanze di tempestività delle indagini e
di tutela della persona che non deve essere troppo a lungo assoggettata all’intrusione di una inchiesta, che può incidere
anche significativamente sui suoi diritti.

A tal proposito, il codice ha delineato il Titolo VIII (art 405-415bis) dedicato alla “Chiusura delle indagini preliminari”.

Il legislatore ha, dunque, fissato un tempo massimo perché il P.M. indaghi e decida:

 Tempo diversamente graduato a seconda della gravità dei reati (art 405 co.2);
 Prorogabile anche più volte (406), entro un termine ultimo, pur essendo modulato, in relazione al tipo di reato e alla
complessità dello scenario investigativo (art 407).

Se il P.M. non rispetti i limiti temporali fissati ex lege, l’azione penale non sarà preclusa, ma eventuali operazioni
investigative saranno sanzionate con l’inutilizzabilità degli atti compiuti oltre il termine (art 407 co.3), salvo quanto previsto
dall’art 415bis.

L’art 415bis (“Avviso all’indagato della conclusione delle indagini preliminari”) rende esplicita la deroga puntualizzando che le
dichiarazioni rilasciate dall’indagato, l’interrogatorio del medesimo ed i nuovi atti di indagine del P.M. sono utilizzabili se
compiuti entro il termine stabilito ex co.4, ancorché sia decorso il termine stabilito ex lege o prorogato dal giudice per
l’esercizio dell’azione penale o per la richiesta di archiviazione.

Qualora, scaduto il termine originario/prorogato, risultino necessari ulteriori accertamenti investigativi, questi saranno rinviati.
In tal caso, i possibili scenari sono 2:

1) se gli elementi già raccolti lo hanno condotto a formulare l’imputazione, il P.M. potrà svolgere dopo la richiesta di rinvio
a giudizio, attività di indagine suppletiva. Dopo il decreto che dispone il giudizio, potrà compiere le indagini integrative
e continuare ad indagare, anche nel corso del giudizio, con i limiti ex art 430bis (“Divieto di assumere informazioni”).

2) Se, al contrario, il tempo non sarà stato sufficiente a consentirgli di individuare, entro il termine di chiusura delle
indagini, elementi idonei a giustificare una richiesta di rinvio a giudizio, ci potrà comunque essere un seguito: egli potrà
ancora indagare, ma dovrà richiedere al giudice un decreto di autorizzazione alla riapertura delle indagini ex art 414.

La eventuale incompletezza delle indagini è monitorata nel corso delle procedure giurisdizionali che seguono la richiesta del
P.M. Il giudice presidia la correttezza ed efficacia delle investigazioni, preludendo, se del caso, ad un supplemento di indagini,
sia nel corso del procedimento camerale, sia nell’udienza preliminare:

 Nel primo, ove l’impianto accusatorio appaia carente per difetto di impegno investigativo, il giudice “se ritiene
necessarie ulteriori indagini può indicarle con ordinanza al P.M”;

 Nella seconda, il giudice, “se le indagini preliminari sono incomplete, indica le ulteriori indagini”

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In entrambe le procedure, il controllo giurisdizionale è affiancato da un controllo attribuito al procuratore generale presso la
corte di appello: avvertito da apposita comunicazione, il procuratore generale può intervenire, se del caso, avocando le
indagini.

Dunque, riassumendo, la finalità della previsione di un termine massimo delle indagini preliminari sono quelle di assicurare
ritmi accelerati alla fase investigativa e di tutelare l’interesse dell’indagato e della persona offesa ad una tempestiva definizione
della vicenda processuale.

Il dies a quo di decorrenza del termine è quello della iscrizione del nome dell’indagato nel registro delle notizie di reato (atto
dovuto e non procrastinabile ex art 335).

42. Segue: i termini di durata massima delle indagini e il procedimento di proroga. (Art 405-407)
Ai sensi dell’art 405 co.2, l’azione penale deve essere esercitata, tramite richiesta di rinvio a giudizio entro 6 mesi dall’iscrizione
del nome della persona alla quale il reato è attribuito nel registro delle notizie di reato.

Il termine è di 1 anno nel caso si proceda per gravi delitti indicati nell’art 407 co.2 lett.a.

Ai sensi del 408 co.1, la richiesta di archiviazione deve essere esercitata entro lo stesso termine dettato nell’art 405 o in quello
successivamente individuato dalle proroghe.

Se il P.M. intende esercitare l’azione, basta che, prima dello scadere del termine, venga inviato l’avviso di conclusione delle
indagini (così è da intendersi la formula “salvo quanto previsto ex art 415bis”).

L’iscrizione del nome della persona alla quale il reato è attribuito nel registro ex art 335 continua a rappresentare il dies a quo
per il computo del tempo di durata delle indagini, mentre il momento di decorrenza di un nuovo ed autonomo termine stabilito
per l’esercizio dell’azione penale deve essere rapportato allo scadere del tempo per le indagini.

Quest’ultimo è plasmabile a seconda delle necessità investigative che si palesano nel caso concreto.

Infatti, su richiesta del P.M., il giudice può concedere una proroga del termine di indagine.

Per ottenere più tempo, al P.M. basta esibire una “giusta causa”, mentre ulteriori proroghe potranno essere richieste “nei
casi di particolare complessità delle indagini o di oggettiva impossibilità di concluderle entro il termine prorogato” (art 406
co.2).

Ciascuna proroga non può essere autorizzata per un tempo superiore a 6 mesi.

Tuttavia, per imprimere particolare celerità alle indagini, per i reati di maltrattamento contro familiari e conviventi, omicidio
stradale, lesioni personale stradali gravi o gravissime, atti persecutori, omicidio colposo commesso in violazione delle
norme per la prevenzione degli infortuni sul lavoro, la proroga può essere concessa solo una volta (co.2ter art 406).

Ex art 407 co.1, la durata delle indagini preliminari non può superare i 18 mesi. Sennonché, la fase preliminare (ex co.2) può
estendersi fino a 2 anni in quattro casi:

a) Se le indagini riguardano i gravi delitti indicativi (di stampo mafioso e terroristico; omicidio, rapina ed estorsione,
sequestro di persona; delitti concernenti armi e stupefacenti; delitti contro la libertà individuale e personale);
b) Nel caso di indagini complesse per la molteplicità dei fatti tra loro collegati o per l’elevato numero di persone
sottoposte alle indagini o di persone offese;
c) Se le indagini richiedano il compimento di atti all’estero;
d) Nel caso in cui si tratti di indagini collegate ex art 371.

Un contraddittorio esclusivamente cartolare prelude alla ordinanza con cui il giudice concede la proroga: la richiesta di
proroga (art 406) è notificata dal giudice con l’avviso (ai destinatari) della facoltà di presentare memorie entro 5 giorni dalla
notificazione.

Entro 10 giorni dalla scadenza del termine per la presentazione delle memorie il giudice decide:
 Se accoglie la richiesta, autorizza l’estensione delle indagini con ordinanza emessa in camera di consiglio senza
l’intervento del P.M. e dei difensori.

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 Se ritiene che la proroga non debba essere concessa, il giudice deve far luogo ad un procedimento camerale “nelle
forme ex 127” (art 406 co.5). A termine del procedimento:
- può autorizzare il P.M. a proseguire le indagini;
- o respingere la richiesta di proroga, fissando un termine non superiore a 10 giorni per la formulazione delle
richieste conclusive delle indagini (art 406 co.7).

Nessun tipo di contraddittorio si realizza quando si procede per i delitti ex art 51 co.3bis e 407 co.2 lett.a nn.4 e 7bis. In tal
caso, il giudice decide, de plano, entro 10 giorni dalla presentazione della richiesta, dandone notizia al P.M.

Gli atti compiuti nelle more del procedimento di proroga sono utilizzabili, salvo che, in caso di diniego, gli stessi siano compiuti
oltre lo spirare del termine originariamente previsto per le indagini.

43. Segue: un nuovo ed autonomo termine “finale” per la chiusura della fase preliminare.
L’azione penale promossa al di fuori delle cadenze temporali è immune da vizi, e dunque i relativi adempimenti finiscono per
non essere presidiati da alcun limite temporale, nonostante la presenza di limiti concernenti i termini per le indagini ed i
conseguenti adempimenti dell’organo di accusa.

Infatti, il mancato rispetto dei termini di indagine comporta solo l’inutilizzabilità degli atti, non coinvolgendo la corretta
instaurazione del processo.

Per garantire il rispetto dei termini previsti ai fini delle determinazioni del P.M. sono rivolte le interpolazioni apportate dalla
riforma Orlando, destinate ad essere applicate ai procedimenti nei quali le notizie di reato sono iscritte nell’apposito registro di
cui all’art 335, successivamente alla data di entrata in vigore della l. 103/2017.

La nuova disciplina stabilisce un termine acceleratorio per l’esercizio dell’azione o per la presentazione della richiesta di
archiviazione.

Il limite definitivo della fase preliminare viene riscritto:

 Il nuovo co.3bis art 407, nel garantire la tempestività delle determinazioni del P.M., prevede un duplice dies a quo, fissa un
dies a quem, contempla deroghe e allestisce una via di fuga.

“In ogni caso il P.M. è tenuto ad esercitare l’azione penale o a richiedere l’archiviazione entro il termine di 3 mesi dalla scadenza
del termine massimo di durata delle indagini e comunque dalla scadenza dei termini ex art 415bis” (co.3bis).

In prima battuta, si può affermare che lo spazio decisionale del P.M. è stato formalmente ampliato quantomeno di 3 mesi
rispetto a ciò che era finora previsto.

Gli adempimenti sono segnati da una serie di termini ordinatori che risultano oggi irrigiditi con la conseguenza di possibili
effetti negativi sul diritto di difesa.

La rigidità temporale è temperata attraversi una duplice deroga che concerne taluni dei procedimenti già considerati
caratterizzati da complessità e per i quali il legislatore prevede tempi di indagine più ampi ex art 407 co.2.

Non tutti i procedimenti che godono di un regime privilegiato (quanto alla estensione temporale del potere investigativo),
ricevono altrettanta considerazione in tale sede:
 In primis, nel caso di indagini particolarmente complesse ex art 407 co.2 lett.b “su richiesta presentata dal P.M. prima
della scadenza, il procuratore generale presso la corte d’appello può prorogare, con decreto motivato, il termine per non
più di 3 mesi, dandone notizia al procuratore della Repubblica”.

 In secundis, un termine più ampio è previsto nella consueta prospettiva del doppio binario: lo stesso legislatore fissa in
15 mesi il termine per l’esercizio dell’azione quando si tratta dei delitti ex co.2 lett.a nn.1,2 e 4 art 407.

L’ipotesi del mancato rispetto del termine è presa in considerazione nel nuovo testo normativo. È previsto in capo al P.M. che
non riesca ad adempiere, un obbligo informativo:

 Ove non assuma le proprie determinazioni deve darne immediata comunicazione al procuratore generale presso la
corte di appello (ciò favorendo l’esercizio dei poteri di vigilanza sull’obbligo di azione).

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In ogni caso, non sarà la previsione di nuovi termini ad incidere sul sovraccarico giudiziario, principale responsabile della
irragionevole durata del procedimento nel suo complesso.

Se il principio di obbligatorietà impone di escludere che l’azione penale esercitata tardivamente sia invalida, l’istituzione di un
nuovo termine (“finale”) non può essere idonea a porre rimedio alle disfunzioni segnalate, ed anzi le aggrava.

Difficilmente, del resto, il blando rimedio incentrato sull’obbligo di informazione al procuratore generale presso la corte
d’appello e su un suo intervento potrà restituire efficienza al sistema.

44. Le determinazioni inerenti all’esercizio dell’azione penale.


Ribandendo quanto stabilito nell’art 50, l’art 405 torna a prospettare l’alternativa tra l’esercizio dell’azione penale e
archiviazione, indicando nelle rispettive richieste i due complementari epiloghi delle indagini.

Il P.M. “quando non deve chiedere l’archiviazione, esercita l’azione penale” (art 405 co.1).

Poiché l’azione penale è la regola, le sue premesse non sono esplicitate.

L’obbligo sancito nell’art 112 Cost non impone, dunque, sequenze automatiche tra notizia di reato ed esercizio dell’azione:
 Quest’ultima è da proporre solo quando l’ipotesi fluida che ha sospinto le indagini finisca per concretarsi in una tesi
che appaia plausibile sostenere nel processo.

L’azione penale azzardata (perché alla notizia di reato non è stato possibile coagulare un impianto accusatorio sufficiente)
potrebbe rivelarsi controproducente, perché quell’esito sarebbe presidiato da effetti preclusivi più robusti di quelli sprigionati
dal provvedimento di archiviazione.

Così, l’aver agito incautamente finirebbe per tutelare con più vigore quell’indagato rispetto ad un eventuale seguito di
indagine, senza che se ne possa ravvisare una adeguata giustificazione.

Spetta al P.M. decidere se ricorrano i presupposti, avviandosi verso l’una o l’altra delle vie segnate dalla illustrata alternativa; la
sua valutazione è una tipica espressione di discrezionalità tecnica.

Al ricorrere delle condizioni indicate dalla legge deve conseguire una scelta di carattere vincolato.

Quando non sussistono quei presupposti che impongono di deflettere l’azione, il P.M. dovrà procedere, formulando
l’imputazione nei modi previsti dalla legge.

L’art 405 li enumera, individuandoli con un richiamo agli atti introduttivi dei riti speciali considerati nei riti speciali nei Titoli II-
VI LIBRO VI e con la richiesta di rinvio a giudizio.

Il catalogo è incompleto e non aggiornato; non contempla la citazione diretta a giudizio, disciplinata con riguardo al
procedimento monocratico che si svolge senza udienza preliminare.

Quanto alle modalità di avvio del processo nei riti alternativi, sono richiamate le disposizioni concernenti l’applicazione della
pena su richiesta delle parti, il giudizio direttissimo, il giudizio immediato, il decreto penale (manca il riferimento al Titolo I e
Vbis).

45. L’archiviazione della notizia di reato: i presupposti. (Art 408)


L’archiviazione, postulando scelte rinunciatarie rispetto all’azione, si impernia sulla infondatezza della notizia di reato.

L’art 408 co.1 stabilisce che il P.M. debba presentare richiesta di archiviazione al giudice “se la notizia di reato è infondata”.

Il superamento dell’aggettivo “manifesta” dell’infondatezza è una conseguenza della rivisitazione dei meccanismi di
instaurazione del processo.

La notizia di reato è solo “infondata”, nella nuova struttura processuale, perché l’infondatezza è acclarata a seguito di un iter
investigativo lungo e articolato e incentrata su valutazioni più complesse.

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Il legislatore ha cercato di conferire maggiore determinatezza al concetto sul quale insiste il discrimine tra azione/non azione.

Ex art 125 disp.att. “il P.M. presenta al giudice la richiesta di archiviazione quando ritiene l’infondatezza della notizia di reato
perché gli elementi acquisiti nelle indagini preliminari non sono idonei a sostenere l’accusa in giudizio”.

La Corte Costituzionale chiarì che in tale regola dovesse leggersi la traduzione in chiave accusatoria del principio di non
superficialità del processo, in quanto il dire che gli elementi acquisiti non sono idonei a sostenere l’accusa equivale al dire che,
sulla base di essi, l’accusa è insostenibile e che, quindi, la notizia di reato è, sul piano processuale, infondata (Corte cos. 1991).

La Corte spiegò, bene, come la scelta del P.M. dovesse passare per un apprezzamento degli elementi raccolti nelle indagini,
postulando una prognosi da compiersi non nell’ottica del risultato dell’azione, ma in quella della superfluità o no
dell’accertamento giudiziale.

Non una prognosi di condanna, ma la sussistenza di un quadro probatorio articolato seppur non univoco, avrebbe dovuto
convincere il P.M. ad agire.

Il favor actionis avrebbe dovuto guidare l’organi dell’accusa nei casi di dubbi, dovendo tener conto della possibilità di
acquisire nuovi elementi dopo la richiesta del rinvio a giudizio o dopo la pronuncia del decreto che dispone il giudizio.

Ovviamente, i più complessi scenari sistematici obbligano il P.M. a prestare maggior cautela nella scelta binaria.

Non si potrebbe non tener conto del riformulato assetto del giudizio abbreviato:

 Sarebbe poco accorta la scelta di un P.M. che continuasse a contare sulla possibilità di una corroborazione
dibattimentale di elementi incerti, pur sapendo che una tempestiva richiesta dell’imputato di essere giudicato in
udienza preliminare allo stato degli atti può congelare il materiale cognitivo sul quale l’accertamento dovrà essere
compiuto.

Definita la nozione di infondatezza, come superfluità dell’accertamento processuale, ad esso possono essere ricondotte
anche le ulteriori fattispecie di archiviazione che il legislatore considera nell’art 411:
 Mancanza di una condizione di procedibilità, estinzione del reato, fatto non previsto dalla legge come reato.

Più complesso è il discorso riguardo al nuovo caso di archiviazione per particolare tenuità del fatto, che verrà analizzato in
seguito.

Ulteriore situazione da analizzare per completare il novero delle ipotesi di archiviazione è l’archiviazione per essere ignoto
l’autore del reato ex art 415:
 Qui la carenza degli elementi che rendono doverosa l’azione scavalca il concetto di infondatezza. Ove sia ignoto
l’autore del reato, mancano gli elementi per sostenere l’accusa in giudizio, poiché non è ancora individuata la
persona nei cui confronti quell’accusa potrebbe essere sostenuta.

Una peculiare disciplina concerne l’archiviazione nel caso di trasferimento all’estero del procedimento penale ex art 746quater
inserito nel 2017, da prospettarsi quando il P.M. abbia notizia della pendenza di un procedimento penale all’estero, per gli stessi
fatti per i quali si è proceduto all’iscrizione ex art 335.

46. Segue: l’archiviazione per particolare tenuità dl fatto.


Nel 2015 un nuovo istituto concernente la non punibilità per particolare tenuità del fatto è stato recepito nel processo penale
ordinario.

L’ambito applicativo è segnato dall’art 131bis c.p. che ne circoscrive l’operatività ai soli “reati per i quali è prevista la pena
detentiva non superiore nel massimo a 5 anni, o la pena pecuniaria, sola o congiunta alla predetta pena”, secondo i criteri di
determinazione della pena indicati nel co.4.

La nozione di tenuità del fatto si impernia su un duplice requisito:

 La particolare tenuità dell’offesa  desunta dalla modalità della condotta e dalla esiguità del danno o pericolo;
 E la non abitualità del comportamento.

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Riallacciandosi a tale disciplina, l’art 411 co.1 prevede ora che la richiesta di archiviazione ed i conseguenti provvedimenti
debbano essere adottati quando risulta che la persona sottoposta alle indagini “non è punibile ex art 131bis c.p. per
particolare tenuità del fatto”.

Inquadrata nella categoria delle cause di non punibilità, presuppone che l’effetto liberatorio consegua alla previa
identificazione di un fatto tipico che appaia così scarsamente lesivo del bene protetto, da giustificare l’esito liberatorio:

 Essa presuppone una prognosi sulla colpevolezza del soggetto ed una contestuale valutazione del carattere scarsamente
lesivo del fatto.

Solo apparentemente incompatibile con la procedura di archiviazione, la nuova ipotesi può iscriversi nella medesima logica
che è quella di evitare un processo superfluo, impedendo l’accesso al giudizio di una notizia di reato suscettibile di tradursi in
una decisione di proscioglimento.

Sembra lecito ritenere che la esplicita menzione della nuova causa di archiviazione debba essere correlata precipuamente alla
volontà legislativa di definire per quella una procedura ad hoc.

Ed infatti benché si applichino anche alla nuova fattispecie le “disposizioni degli art 408, 409, 410 e 410bis” (art 411 co.1), l’art
411 (“Altri casi di archiviazione”) è arricchito di un nuovo co.1bis, recante i tratti specifici di un particolare modulo procedurale
da coordinarsi al rito già previsto in linea generale ed esplicitamente richiamato nel co.1 del medesimo articolo.

47. Segue: il procedimento di archiviazione. (Art 409)


La richiesta di archiviazione avanzata dal P.M. deve essere rivolta al giudice perché valuti la sussistenza delle condizioni
legittimanti l’inazione.

L’art 408 co.1 dispone che il P.M., se la notizia di reato è infondata, presenta al giudice richiesta di archiviazione, trasmettendo il
fascicolo contente la notizia di reato, la documentazione relativa alle indagini espletate e i verbali degli atti compiuti davanti al
giudice per le indagini preliminari.

Della stessa, deve essere data notizia alla persona offesa, in funzione dei poteri che quest’ultima può esercitare nella
procedura di archiviazione.

Sulla richiesta del P.M. da presentarsi ora entro il termine previsto ex art 407 co.3bis si innesta il procedimento preordinato a
vagliare le scelte dell’organo di accusa.

Due moduli procedurali sono previsti a seconda che le parti private intervengano/non intervengano.

Un primo modulo è di estrema semplicità. L’organo competente ha il potere di disporre l’archiviazione de plano, cioè senza
formalità di procedura, ove concordi da subito con la richiesta del P.M.

In tal caso, emanato decreto di archiviazione, restituisce gli atti all’organo di accusa: nessun contraddittorio precede quel
provvedimento che conclude l’iter, avallando la scelta rinunciataria.

Manca un interesse ad interloquire; la mancata opposizione della persona offesa rivelerà la sua acquiescenza.

Per tali ragioni, il decreto di archiviazione è impugnabile solo quando siano stati pretermessi i diritti dell’offeso; mai
impugnabile da parte della persona sottoposta alle indagini, le verrà notificato solo nel caso in cui sia stata sottoposta a
custodia cautelare, in vista di un suo eventuale interesse a chiedere la riparazione per l’ingiusta detenzione.

Fuori da tali ipotesi, il provvedimento di archiviazione costituisce l’esito di un procedimento in camera di consiglio (secondo
modello), da svolgersi nelle forme dell’art 127.

Quando il giudice non è immediatamente convinto della infondatezza della notizia di reato, e ritenga opportuno (o necessario)
ascoltare i soggetti portatori di interessi in conflitto, è tenuto a fissare un’udienza camerale.

Secondo quanto introdotto con la riforma Orlando nell’art 409 co.2, l’udienza dovrà essere fissata “entro 3 mesi”.

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L’art 409 co.2 prescrive che della data per l’udienza debba essere dato avviso al P.M., alla persona sottoposta alle indagini e al
suo difensore, nonché all’offeso dal reato (e al procuratore generale della corte d’appello per i provvedimenti di sua
competenza).

Anche sulla scorta di quanto vi avviene, il giudice potrà convincersi ad esercitare i suoi poteri di indirizzo che mirano a trattenere
il procedimento nella fase preliminare attraverso l’imposizione di un supplemento di indagine (co.4) o a spingerlo oltre la soglia
ultima di quella fase verso il giudizio (co.5).

Se tali evenienze non si realizzino, l’ordinario epilogo sarà una ordinanza di archiviazione; suscettibile di reclamo.

Salvo che si pongano le esigenze di natura investigativa ex co.4, il giudice è tenuto ora a provvedere sulle richieste “entro 3
mesi”.

La vera e propria disciplina del procedimento di archiviazione è stata modificata essenzialmente per velocizzare la decisione
conclusiva del G.I.P.
Quest’ultimo, se non accoglie la richiesta di archiviazione presentata dal P.M., deve fissare, entro 3 mesi, l’udienza camerale
ex co.2;
inoltre, qualora, al termine di tale udienza, non ritenga necessario il compimento di ulteriori indagini, ha di nuovo 3 mesi di
tempo per provvedere “sulle richieste”, ossia per decidere se emettere ordinanza di archiviazione, o chiedere al P.M. di
formulare l’imputazione.

Due sono gli aspetti da sottolineare:


 Ci si è preoccupati di stabilire precise scansioni temporali per la fissazione dell’udienza e per le decisioni a essa
successive;
 Si tratta sempre di termini ordinatori, che non incoraggiano alcuna conseguenza sulla validità della procedura.

Scompare il co.6 art 409 per far spazio alla neo disciplina di cui all’art 410bis.

48. Segue: l’opposizione dell’offeso dal reato alla richiesta di archiviazione. (Art 410)
In quanto titolare dell’interesse leso dal reato, alla persona offesa spetta il potere di opporsi alla richiesta di archiviazione (art
410).

A garanzia della sua persona, egli debba essere informato della sua facoltà di essere avvisato della richiesta di archiviazione.

L’art 408 co.2 impone che l’avviso della richiesta debba essere notificato, da parte del P.M., alla persona offesa, la quale abbia
dichiarato di voler essere informata circa la suddetta richiesta di archiviazione al momento della presentazione della notizia di
reato o anche successivamente.

La titolarità del diritto spetta ad ogni persona offesa dal reato, indipendentemente dalla ricezione dell’avviso; infatti, l’art
410 prevede che “la persona offesa dal reato” possa chiedere la prosecuzione delle indagini.

Nell’avviso è precisato che, entro 20 giorni, la persona offesa può prendere visione degli atti e presentare opposizione con
richiesta motivata di prosecuzione delle indagini (termine raddoppiato dalla riforma del 2017, ma che non ha modificato quello
di 10 giorni ex art 411 co.1bis).

Per i delitti commessi con violenza alla persona (da intendersi come violenza in generale, dunque comprensiva anche di atti
persecutori e maltrattamenti contro familiari/conviventi, furto in abitazione e furto con strappo) l’avviso della richiesta di
archiviazione è notificato alla persona offesa ed il termine è elevato a 30 giorni.

Con l’opposizione l’offeso dovrà esibire argomenti idonei a giustificare l’incontro camerale;

l’atto di opposizione dovrà indicare l’oggetto della investigazione suppletiva e i relativi elementi di prova “a pena di
inammissibilità”.

Benché il giudice potrebbe essere indotto a non accogliere la domanda di archiviazione anche sulla scorta di sollecitazioni di
carattere argomentativo, il diritto all’opposizione si fonda solo sull’indicazione, da parte dell’offeso, di lacune investigative.

Sarebbe necessario, dunque, che emergano elementi di prova dotati del carattere di concretezza e specificità.

Solo in difetto di tali requisiti, il giudice potrà archiviare de plano;

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viceversa, ove la richiesta appaia ammissibile, egli dovrà convocare l’udienza ex co.2 art 409, introducendo la variante
partecipata del procedimento di archiviazione.

Se ciò avverrà, il seguito sarà quello ordinario:


 Il giudice dovrà provvedere “a norma dell’art 409 co.2,3,4 e 5” ma il contraddittorio avrà una minore estensione dal
punto di vista soggettivo

L’art 410 co.3 prevede che “in caso di più persone offese, l’avviso per l’udienza è notificato al solo opponente”.

Nel caso di inammissibilità dell’opposizione, invece, l’offeso avrà diritto a che il giudice dia conto delle ragioni per le quali alle
doglianze dell’offeso non sia stato dato seguito, dedicandovi adeguata motivazione nel decreto di archiviazione.

Il G.I.P. può de plano disporre l’archiviazione solo se ricorrono le due condizioni di inammissibilità dell’opposizione e
dell’infondatezza della notizia di reato. In caso contrario, prima di decidere, deve fissare l’udienza in camera di consiglio.

49. Segue: il procedimento di archiviazione per particolare tenuità del fatto. (Art 411 co.1bis)
Ulteriore modulo procedurale è quello introdotto nel 2015 nell’art 411 co.1bis in relazione alla nuova ipotesi di archiviazione
per particolare tenuità del fatto.

Occorre tener a mente che essa rappresenta il risultato di un compromesso tra diritti della persona sottoposta alle indagini e
intenti deflativi.

Tale archiviazione è contenuta nell’art 411 co.1; alla nuova ipotesi si applicano le regole ordinarie, in quanto compatibili.

Nel nuovo co.1bis vi si compendiano il diritto all’avviso ed il conseguente diritto di opposizione della persona sottoposta alle
indagini e della persona offesa; una sintetica disciplina del contraddittorio camerale; i vari epiloghi; un decreto quale sbocco di
un iter mancante di contraddittorio; la restituzione degli atti al P.M. tutte le volte in cui non si possa pronunciare un
provvedimento di archiviazione.

Le peculiarità della fattispecie di particolare tenuità del fatto hanno indotto il legislatore a introdurre alcune novità nel
procedimento:

 Il nuovo co.1bis prevede che la procedura si svolga in una apposita udienza camerale, solo ove vi sia una richiesta degli
interessati.

Rispetto al regime ordinario, risultano rafforzati i poteri di intervento dell’offeso e della persona sottoposta ad indagini:

 Ove la richiesta di archiviazione sia avanzata per particolare tenuità del fatto all’offeso è dovuto l’avviso quale garanzia
prodromica al diritto di opposizione da esercitarsi, entro 10 giorni con un atto in cui devono essere indicate, a pena di
inammissibilità, “le ragioni del dissenso rispetto alla richiesta”.

L’art 411 co.1bis concede le medesime prerogative alla persona sottoposta alle indagini, cui viene conferito un potere di
opposizione inedito, in ragione delle conseguenze che la adottanda decisione potrebbe spiegare nei suoi confronti: potrebbe,
infatti, costituire una premessa per escludere nuovi giudizi di tenuità del fatto in successivi procedimenti penali.

Di qui l’interesse della persona sottoposta alle indagini di interloquire nella prospettiva di ottenere una archiviazione con una
formula più favorevole.

L’iter decisorio, ricalcato sul modello ex art 409, prevede:

a) Un vaglio di ammissibilità del giudice sulle eventuali opposizioni, limitato a verificare che siano esposte le ragioni di
dissenso, senza alcun apprezzamento del rilievo sostanziale delle stesse;

b) Un contraddittorio camerale conseguente ad un atto di opposizione ammissibile, in alternativa ad una procedura de


plano, ove le eventuali opposizioni siano inammissibili o non siano state presentate;

c) Due epiloghi alternativi:


a. una decisione di archiviazione assunta con ordinanza/decreto (a seconda se svolta o meno l’udienza camerale)
b. la restituzione degli atti al P.M., quando il giudice ritenga di non accogliere la richiesta di archiviazione.

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La precisazione secondo cui il giudice (in caso di restituzione) può “eventualmente” provvedere “ai sensi dell’art 409 co.4 e 5”
prospetta due ulteriori varianti, la cui disciplina è mutuata dalla procedura ordinaria:
 non convito della sussistenza dei presupposti per l’archiviazione, nel restituire gli atti al P.M., il giudice può indicargli
con ordinanza ulteriori indagini, fissando un termine per il loro compimento;

 o disporre con ordinanza che il P.M. entro 10 giorni formuli l’imputazione (Formulazione coatta).

Nonostante l’avverbio “eventualmente” il giudice, richiesto di archiviare per tenuità del fatto, può disporre l’archiviazione per
altre ragioni.

L’ipotesi, introdotta nel 2015, disciplina il procedimento di archiviazione relativo alla particolare tenuità del fatto, in cui sia la
persona sottoposta alle indagini che la persona offesa, sulla richiesta di archiviazione del P.M., contestano la ritenuta tenuità del
fatto.

La riforma (l.103/2017) ha semplicemente aggiunto un rinvio alla disciplina del nuovo art 410bis.

50. Segue: l’impugnazione del provvedimento di archiviazione. (Art 410bis)


Con la riforma Orlando, il legislatore ha abrogato l’originario co.6 art 409, riformando il regime dell’impugnabilità del
provvedimento di archiviazione, attraverso l’introduzione di un nuovo art. 410bis.

Prima del 2017


In precedenza, la giurisprudenza aveva definito i profili oggettivi e soggettivi dell’impugnazione.

Con riguardo all’oggetto dell’impugnazione, l’impugnabilità era circoscritta ai soli provvedimenti dispositivi
dell’archiviazione, restando escluso che analogo rimedio potesse essere proposto nei confronti delle decisioni pure
conseguenti ai diversi epiloghi dell’udienza camerale:
 Inammissibile, dunque, il ricorso contro i provvedimenti ex co.4 (ordinanza con la quale vengono disposte indagini
coatte) e co.5 (ordinanza che impone la formulazione dell’imputazione).

Il ricorso era, invece, esperibile contro il decreto emesso ex art 409 co.1, quando fosse stato omesso l’avviso della stessa
richiesta di archiviazione alla persona offesa, che avesse chiesto di esserne informata nella notizia di reato o successivamente
alla sua presentazione, come riconosciuto dalla Corte Costituzionale.

Quanto ai motivi, rientravano nella previsione i casi di omesso avviso dell’udienza prevista ex art 409 co.2 alla persona
sottoposta alle indagini e alla persona offesa dal reato.

Quanto ai soggetti titolari del diritto di impugnazione era ricompreso anche il procuratore generale presso la corte d’appello,
quando nei suoi confronti fosse stata omessa la comunicazione ex art 409 co.3

Dopo 2017.

A seguito delle modifiche normative, con riguardo alla ordinanza di archiviazione si continua a prevedere che la stessa sia
nulla solo nei casi di cui all’art 127 co.5 (art 410bis co.2).

Quanto al decreto di archiviazione, il nuovo testo dell’art 410bis si preoccupa di fissare i casi di nullità del decreto, stabilendo
che il vizio ricorra:

 Quando sia emesso senza che la persona offesa dal reato sia stata posta in condizioni di presentare opposizione alla
archiviazione;
 o perché non avvertita della richiesta avanzata dal P.M.;
 O perché il giudice si sia pronunciato nelle more del termine a lei concesso per la presentazione dell’atto di opposizione
ex co.3 e 3bis art 408.

La novità più importante riguarda il tipo di rimedio e l’organo chiamato a decidere sui casi di nullità del decreto e
dell’ordinanza;

si attribuisce la competenza ad esaminare eventuali doglianze contro il provvedimento di archiviazione, espresse in forma di
reclamo, al tribunale in composizione monocratica.
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Il reclamo non era stato finora registrato nella disciplina del procedimento di cognizione delineata dal codice, nel quale
sembra ora dover trovare collocazione quale inedito strumento di impugnazione.

L’organo monocratico, adito “dall’interessato” entro 15 giorni dalla conoscenza del provvedimento, decide con ordinanza non
impugnabile, a seguito di un procedimento meramente cartolare;

 Il procedimento si svolge “senza intervento delle parti interessate” e si precisa che debba essere dato avviso, “almeno
10 giorni prima, dell’udienza fissata per la decisione alle parti medesime, che possono presentare memorie non oltre il
5° giorno precedente l’udienza”.

Il co.4 art 410bis contempla le alternative decisorie:

 Il giudice, se il reclamo è fondato, annulla il provvedimento oggetto di reclamo e ordina la restituzione degli atti al
giudice che lo ha emesso; a quest’ultimo spetta:
- rimediare al difetto di contraddittorio, ove il vizio concernesse la convocazione dell’udienza, essendo
a lui imputabile,
- o rinviare gli atti a sua volta al P.M. per quanto di sua competenza.

Fuori dei casi di fondatezza, al giudice si prospettano le consuete alternative:

 una declaratoria di inammissibilità del reclamo (senza esplicazione delle cause, che si ricavano dalla disciplina);
 o il rigetto dello stesso con la conferma del provvedimento.

In entrambi i casi la parte privata che lo ha proposto è condannata al pagamento delle spese del procedimento e, nel caso di
inammissibilità, anche al pagamento di una somma in favore della cassa delle ammende.

51. Segue: i poteri di controllo del giudice per le indagini preliminari sull’obbligo di agire.
L’esito della procedura camerale innestata dalla richiesta di archiviazione può condurre ad epiloghi differenti da quelli fin qui
considerati.

Richiesto dell’archiviazione, il giudice deve esplicare il suo compito di tutore del principio di obbligatorietà dell’azione.

Egli potrà dissentire ed è dotato di poteri coattivi, speculari alle “mancanze” dell’organo di accusa che egli è tenuto a rilevare:

 Da un lato, può imporre al P.M. di approfondire le investigazioni;


 Dall’altro, può ordinargli di formulare l’imputazione, per concorrere poi ad aprire la fase strettamente processuale.

Sul fronte della verifica della completezza dello spettro investigativo, il potere del giudice si concreta nell’indicazione di
nuove indagini, la necessità delle quali può essere rilevata sulla scorta del fascicolo che il P.M. è tenuto a trasmettergli, dei
risultati del contraddittorio camerale, o dell’eventuale atto di opposizione della persona offesa dal reato.

In ogni caso, nell’udienza camerale, il giudice se reputa che il quadro investigativo necessiti di approfondimento, indica al
P.M. le ulteriori indagini, fissando un termine “indispensabile” per lo svolgimento delle stesse (termine del tutto
indipendente da quelli ex art 405 e 407)

Quanto ai contenuti dell’ordine del giudice, essi si conformino a seconda del quadro di indagine e delle lacune individuate.

Dunque, il giudice dovrebbe indicare l’oggetto di prova e la direzione anche se nulla impedisce che egli fornisca più dettagliate
indicazioni.

In ogni caso, il potere del giudice di indicare nuovi temi di indagine non si estende fino al punto di coartare il P.M. sulle modalità
di svolgimento delle investigazioni.

Il giudice può conoscere e valutare autonomamente tutto quanto risulti dal fascicolo e può suggerire al P.M. nuove indagini
su fatti diversi o anche su persone diverse, a condizione che non interferisca con le funzioni del P.M.

Risulta più complicato affrontare il tema del carattere vincolante dell’ordine giudiziale e dell’esito della procedura nel caso in
cui il P.M. appaia renitente ad ottemperare alle indicazioni del giudice.

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Premesso che l’ordinanza del giudice definisce il procedimento di archiviazione, il P.M. viene ricollocato (dall’ordinanza
pronunciata ex art 409 co.4) nella vecchia alternativa: svolte le nuove indagini nel tempo indicate, il P.M. torna ad assumere le
proprie determinazioni.

Se nessun nuovo ulteriore elemento sembra aver mutato il quadro probatorio, è ragionevole ritenere che egli reiteri la richiesta
di archiviazione:

 Di fronte a ciò, il giudice avrà il potere-dovere di esercitare ex novo i poteri conferitigli ex art 409.

Se il supplemento investigativo abbia fornito significativi elementi di novità egli potrà essersi convinto a esercitare l’azione
penale.

Possono verificarsi, però, delle situazioni patologiche:


 Il P.M., potrà non adempiere le indicazioni e tornare ad assumere le determinazioni che gli sono imposte.

Riconoscendo al P.M. un divieto di insistere nella sua richiesta di archiviazione senza aver preventivamente investigato nella
direzione suggerita dal giudice, se chiederà l’archiviazione l’unico rimedio idoneo a risolvere l’impasse è l’avocazione (potere
conferito al procuratore generale).

Ulteriore alternativa per il giudice, non convito della irrilevanza dei fatti illustrati nel fascicolo, che si trovi nella situazione di
dover fronteggiare un P.M. negligente ed un procuratore generale assente, è il potere di imporre la formulazione
dell’imputazione, contando su acquisizioni probatorie successive.

Ma è chiaro che, in difetto di un quadro probatorio definito e di fronte ad un P.M. scarsamente convinto dell’accusa, l’esito
non potrà che essere deludente.

Del pari deludente sarebbe l’epilogo che segna il secondo possibile scenario patologico.

Se il P.M., ignorando le sollecitazioni all’approfondimento delle indagini, optasse per l’esercizio dell’azione penale, nessuna
sanzione potrebbe rimediare ad una iniziativa non sufficientemente fondata.

È noto che la procedura di archiviazione non deve occuparsi dell’azione avvenuta, ma deve scongiurare l’inazione.

In tutti i casi di azione temeraria è il giudice dell’udienza preliminare a filtrare le domande per non dar corso al giudizio quando
ne difettano le premesse, dopo aver attivato ogni possibile rimedio per compensare eventuali lacune del quadro probatorio.

Dato che il giudice è dotato di un significativo potere di impulso, può sindacare la valutazione operata dal P.M. in punto di
concludenza degli elementi di indagine.

In sede di controllo dei risultati di indagine, o in seguito alle indagini suppletive (ove il P.M. insista nel riproporre la richiesta di
archiviazione), il giudice, qualora, dissentendo dal P.M., si convinca che sussistano elementi che rendano obbligatorio
l’esercizio dell’azione, potrà disporre con ordinanza che, “entro 10 giorni, il P.M. formuli l’imputazione”.

Tale formulazione coatta dell’accusa costituisce una modalità di esercizio dell’azione penale sui generis, non contemplata tra
quelle ex art 405: resta atto del P.M. ma è evidente che il meccanismo conferisce al giudice la decisione ultima in ordine alla
sussistenza degli elementi che obbligano ad agire.

Il giudice, dunque, può imporre l’esercizio dell’azione; valuta il fascicolo ed ogni ulteriore risultanza senza esser limitato nella
diagnosi della richiesta del P.M.;

ma, non potrebbe, ad esempio:

 Ordinare la formulazione coatta della imputazione per un fatto diverso o per un soggetto diverso, prima che il P.M.
abbia adempiuto le consuete attività; se lo facesse, sarebbe un atto abnorme.
 Nemmeno disporre l’archiviazione nei confronti di soggetti e per fatti in ordine ai quali il P.M. non aveva formulato
alcuna richiesta.

È chiamato, invece, a supplire il P.M. rispetto ad adempimenti che potrebbero vederlo non troppo solerte:

 Spetta al giudice, “entro 2 giorni dalla formulazione dell’imputazione”, fissare con decreto l’udienza preliminare,
osservando le disposizioni ex art 418 e 419.

Si prescinde, qui, da una richiesta di rinvio a giudizio.


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52. Segue: il controllo sull’obbligatorietà dell’azione del procuratore generale presso la corte d’appello e il
potere di avocazione. (Art 412-413)
Il giudice, titolare di un potere di controllo sull’inazione, acquista rilievo solo quando il P.M. manifesti l’intenzione di non
procedere;

se il P.M. omette di rivolgersi al giudice, il G.I.P. non è fornito di alcun strumento né per conoscere dell’eventuale
inadempimento né per incidervi.

Un controllo della gestione dell’attività investigativa e delle conseguenti determinazioni è affidato al procuratore generale
presso la corte d’appello, al quale spetta insieme al potere di vigilanza, il potere di avocare le indagini.

All’inerzia del P.M. nell’adozione dei provvedimenti che la legge gli impone alla chiusura della fase preliminare presiede il
meccanismo previsto ex art 412 co.1.

A seguito della riforma Orlando, si prevede che “se il P.M. non esercita l’azione penale o non richiede l’archiviazione nel termine
previsto ex art 407 co.3bis”, il procuratore generale “dispone con decreto motivato l’avocazione delle indagini”.

Una volta avocate le indagini, “il procuratore generale svolge le indagini preliminari indispensabili e formula le sue richieste
entro 30 giorni dal decreto di avocazione”.

L’istituto dell’avocazione obbligatoria è stato semplicemente aggiornato alle novità derivanti dall’introduzione dell’art 407
co.3bis:
il Procuratore generale presso la Corte di appello, per poter procedere, oltre all’esaurimento del termine di durata delle
indagini preliminari, dovrà attendere anche il mancato esercizio, nel termine, ora concesso al P.M. dell’azione penale o
dell’archiviazione.

Resta, invece, intatto il secondo periodo del co.1, in cui vengono regolate le tappe successive all’avocazione:
 Il Procuratore generale, svolte le indagini preliminari “indispensabili”, deve formulare “le sue richieste entro 30
giorni”.

Art 413  Richiesta della persona sottoposta alle indagini o della persona offesa dal reato.
“La persona sottoposta alle indagini o la persona offesa dal reato può chiedere al procuratore generale di disporre
l’avocazione ai sensi dell’art 412 co.1” (co.1)

“Disposta l’avocazione, il procuratore generale svolge le indagini preliminari indispensabili e formula le sue richieste entro 30
giorni dalla richiesta proposta ex co.1” (co.2)

L’avocazione può essere promossa d’ufficio dal Procuratore generale, o essere stimolata dalle parti private (indagato/persona
offesa) interessate alla definizione del procedimento.

53. La riapertura delle indagini. (Art 414)


Art 414  Riapertura delle indagini
“Dopo il provvedimento di archiviazione emesso a norma degli articoli precedenti, il giudice autorizza con decreto motivato la
riapertura delle indagini su richiesta del P.M. motivata dalle esigenze di nuove investigazioni.” (co.1)

“Quando è autorizzata la riapertura delle indagini, il P.M. procede a nuova iscrizione ex art 335.” (co.2)

54. Segue: l’archiviazione per essere ignoto l’autore del reato. (Art 415)
La disciplina dell’archiviazione per essere ignoto l’autore del reato prevede che il P.M. entro 6 mesi dalla data della
registrazione della notizia di reato, debba presentare al giudice una richiesta di archiviazione o di autorizzazione a proseguire le
indagini (art 415 co.1).

Quando accoglie la richiesta di archiviazione o di autorizzazione a proseguire le indagini, il giudice pronuncia decreto motivato
e restituisce gli atti al P.M.

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Se ritiene che il reato sia da attribuire a persona già individuata ordina che il nome di questa sia iscritto nel registro delle notizie
di reato (co.2).

Con la riforma Orlando, è stato aggiunto il co.2bis, che dispone:

o “Il termine di cui al co.2 art 405 decorre dal provvedimento del giudice” (co.2bis)

Ex co.3, si osservano, in quanto applicabili, le altre disposizioni di cui al presente Titolo (cioè gli art 405-414).

In virtù di tal richiamo, deve ritenersi che la procedura di archiviazione conseguente a tale richiesta non differisca da quella
ordinaria:
 se il giudice dissente o la persona offesa si oppone, la decisione va adottata all’esito dell’udienza camerale ex art
409.

Sono salvi, naturalmente, i diritti dell’offeso del reato (art 408 e 410).

Il co.4 art 415 dispone che, nell’ipotesi di cui all’art 107bis disp.att., di coordinamento e transitorie, la richiesta di archiviazione
ed il decreto del giudice che accolga la richiesta sono pronunciati cumulativamente con riferimento agli elenchi trasmessi fagli
organi di polizia con l’eventuale indicazione delle denunce che il P.M. o il giudice intendono escludere, rispettivamente, dalla
richiesta o dal decreto.

Per effetto del nuovo co.2bis, in materia di archiviazione nei procedimenti contro ignoti, è stato stabilito che, in caso di
iscrizione coatta del nome dell’indagato nel registro delle notizie di reato, il P.M. goda sempre e comunque del termine
ordinario, e prorogabile, di 6 mesi per il compimento delle indagini (art 405 co.2), che comincia a decorrere dal
provvedimento del giudice.

55. L’udienza preliminare: premessa. TITOLO IX (Art 416-433)


Fuori dai casi che dovrebbero condurre ad una richiesta di archiviazione, il P.M. deve formulare l’imputazione con la richiesta di
rinvio a giudizio.

La richiesta di rinvio è l’atto introduttivo dell’udienza preliminare, segnando la soglia tra procedimento e processo.

L’udienza preliminare, rappresenta, dunque, il primo approdo del procedimento alla giurisdizione e tende a realizzare uno scopo
essenziale:

 Evitare dibattimenti iniqui per l’imputato e inutili per l’ordinamento.

Tale udienza rappresenta la sede di “accertamento sul merito”, la cui valutazione del G.U.P. potrebbe condizionare la decisione
dibattimentale.

Il giudice (diverso dal magistrato delle indagini preliminari) opera un controllo sul corretto esercizio dell’azione penale,
filtrando le imputazioni non sostenute da un impianto accusatorio sufficientemente robusto per giustificare il dibattimento.

La decisione che ne scaturisce suppone un confronto orale tra le parti, preceduto da una discovery degli atti.

Esercitando i poteri difensivi riconosciutigli in extremis nella fase preliminare, la persona sottoposta alle indagini avrebbe
potuto prevenire l’azione convincendo il P.M. a non agire;

ormai trasformata in imputato, potrà articolare le proprie argomentazioni difensive davanti ad un giudice, chiamato a dirimere
l’alternativa tra l’instaurazione del dibattimento e il non luogo a procedere.

Tra le chances che l’udienza offre, potrà decidere di rifuggire dal dibattimento volgendosi verso procedure alternative, o di
anticipare lo svolgimento, rinunciando alla discussione preliminare sulla necessità dello stesso dibattimento.

Il contraddittorio tra le parti e la valutazione del giudice si sviluppano intorno agli esiti delle indagini, ormai svelate, ma i
termini del dibattito non sono fissati al momento della richiesta introduttiva.

Alla luce del principio di continuità delle indagini, P.M. e difensori potranno proseguire le investigazioni, anche oltre il momento
introduttivo dell’udienza e chiedere di assumere prove con le forme dell’incidente probatorio.

Inoltre, il giudice può imporre al P.M. di tornare ad indagare.


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L’evoluzione normativa ha rivitalizzato l’istituto (in passato incapace di svolgere la propria funzione), attraverso la dilatazione
dei margini operativi, lungo una via che ha attribuito all’udienza taluni essenziali profili propri del dibattimento.

L’epilogo dell’udienza preliminare ha assunto la pregnanza di un giudizio di merito.

Alterati gli equilibri originali, il nuovo assetto legislativo sembrerebbe lasciar paventare il rischio che l’imputazione abbia già le
sembianze di una condanna.

56. Segue: la richiesta di rinvio a giudizio e gli atti introduttivi. (Art 416-419)
La disciplina dell’udienza preliminare è disciplinata nel Titolo IX (art 416-433).

La richiesta di rinvio a giudizio deve essere depositata dal P.M. nella cancelleria del giudice (art 416 co.1 “Presentazione della
richiesta del P.M.”).

Il termine per l’adempimento dovrebbe coincidere con quello già fissato ex art 405 co.2; tuttavia, tra la chiusura delle indagini e
l’esercizio dell’azione penale, può decorrere un termine imprecisato.

Il legislatore pone una eccezione che sembra ampliare il termine ordinariamente fissato:

 Qualora si proceda per i reati di omicidio colposo commesso in violazione delle norme per la prevenzione degli
infortuni sul lavoro e omicidio colposo stradale, la richiesta di rinvio a giudizio deve essere disciplinata “entro 30 giorni
dalla chiusura delle indagini preliminari” (art 416 co.2bis).

I requisiti formali della richiesta di rinvio a giudizio sono fissati ex art 417, per cui essa deve contenere:

a) Le generalità dell’imputato o le altre indicazioni personali per identificarlo, nonché le generalità della persona offesa dal
reato qualora ne sia possibile l’identificazione;
b) L’enunciazione, del fatto, delle circostanze aggravanti e di quelle che possono comportare l’applicazione di misure di
sicurezza, con l’indicazione dei relativi articoli di legge;
c) L’indicazione delle fonti di prova acquisite;
d) La domanda al giudice di emissione del decreto che dispone il giudizio;
e) La data e la sottoscrizione.

La definizione dell’accusa è requisito fondamentale poiché a quella si correla ogni successiva risposta in chiave difensiva.

La disposizione richiede che essa sia enunciata “in forma chiara e precisa”.

In vista del successivo contraddittorio, il P.M. deve mettere a disposizione delle parti il corpo del reato e le cose pertinenti al
reato e trasmettere il fascicolo contenente la notizia di reato, la documentazione relativa alle indagini espletate e i verbali degli
atti compiuti davanti al giudice per le indagini preliminari (art 416 co.2).

A quest’ultimo adempimento è correlata la facoltà dell’imputato e del suo difensore di prendere visione degli atti.

La richiesta del P.M. innesca la sequenza giurisdizionale. Tempi brevissimi cadenzano la fissazione dell’udienza:

 Entro 5 giorni dal deposito della richiesta, il giudice stabilisce con decreto, il giorno, l’ora e il luogo dell’udienza in
camera di consiglio, dovendo tener conto che tra la data di deposito della richiesta e la data dell’udienza non può
intercorrere un termine superiore a 30 giorni (art 418 co.2).

Una fitta disciplina regola il dovere del giudice di dare notizia alle parti e ai difensori dell’udienza (art 419).

Oneri informativi dettagliati e diversamente modulati a seconda dei destinatari sono previsti ex co.1 e 4 art 419:
 All’imputato e alla persona offesa deve essere notificato l’avviso del giorno, dell’ora e del luogo dell’udienza, con la
richiesta di rinvio a giudizio formulata dal P.M.

Il solo imputato è avvertito del suo diritto a partecipare al processo e delle conseguenze della sua mancata partecipazione.

Gli avvisi sono notificati e comunicati almeno 10 giorni prima della data dell’udienza. Entro lo stesso termine è notificata la
citazione del responsabile civile e della persona civilmente obbligata per la pena pecuniaria (art 419 co.4).

Le disposizioni del co.1 e 4 sono previste a pena di nullità (art 419 co.7).
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L’omessa/erronea citazione dell’imputato, nonché la mancata indicazione della data e del luogo dell’udienza, comporta una
nullità generale a regime assoluto, riconducibile all’art 179 co.1, poiché l’adempimento in discorso ha natura sostanziale di
citazione.

Nello stesso termine ex art 419 co.4, l’avviso è comunicato al P.M. e notificato al difensore dell’imputato, con alcuni contenuti
aggiuntivi:

 A quest’ultimo è diretto l’avvertimento della facoltà di prendere visione degli atti e delle cose trasmessi a norma
dell’art 416 co.2 e di presentare memorie e produrre documenti (art 419 co.2).

Ad entrambi è rivolto l’invito a trasmettere la documentazione relativa alle indagini eventualmente espletate dopo la richiesta
di rinvio a giudizio: ma l’invito riguarda un atto doveroso per il solo P.M.;

i difensori hanno un mero onere di depositare la documentazione degli atti di investigazione in funzione del loro interesse
all’utilizzo di quegli stessi atti.

I contenuti dell’avviso dovuto al difensore dell’imputato tendono a favorire la conoscenza degli atti, depositati dal P.M. ex art
416 co.2;

l’adempimento di cui all’art 415bis anticipa la discovery ad un momento anteriore, costituendo necessario preludio della
presentazione della richiesta di rinvio a giudizio.

Per contro, l’invito a depositare la ulteriore attività di indagine (c.d. indagini suppletive), compiuta a seguito della richiesta di
rinvio a giudizio, prelude a futuri ampliamenti della discovery.

L’imputato, soppesati gli elementi di accusa, potrà scegliere se accedere ad un rito premiale che si svolga nell’udienza
preliminare:

 Egli può aver interesse a richiedere il giudizio abbreviato, in vista della riduzione della pena che esso comporta, quando
il materiale di accusa sia a tal punto inequivocabile da poter essere difficilmente contrastato in dibattimento.

Nel momento nevralgico che precede l’udienza, all’imputato si apre una ulteriore via, che si scandisce nelle 3 fasi:

 “indagine” – “udienza preliminare” – “dibattimento”.

Può rinunciare all’udienza preliminare e richiedere il giudizio immediato, rispettando alcune formalità.

La dichiarazione di rinuncia deve essere presentata in cancelleria, personalmente o a mezzo di procuratore speciale, almeno 3
giorni prima della data dell’udienza e notificata al P.M. e alla persona offesa dal reato a cura dell’imputato (art 419 co.5).

Preso atto della rinuncia, il giudice emette decreto di giudizio immediato.

Tuttavia, ad un imputato sicuro di essere assolto, potrebbe apparire preferibile essere destinatario di una sentenza emessa in
seguito al dibattimento, per la diversa stabilità della medesima e per gli effetti dei relativi esiti nel giudizio civile o
amministrativo.

Se non vi avrà rinunciato per accedere immediatamente al dibattimento e se nessuno dei riti alternativi gli apparirà appetibile,
assistito dal difensore, l’imputato potrà interloquire con le altre parti e con il giudice nella prospettiva dell’epilogo per lui più
favorevole.

57. Segue: gli accertamenti relativi alla costituzione delle parti. (Art 420-420quinques)
L’udienza si svolge in camera di consiglio con la partecipazione necessaria del P.M. e del difensore dell’imputato (art 420 co.1
“Costituzione delle parti”).

La procedura camerale è caratterizzata da tempi ad hoc e da un contraddittorio rafforzato.

Autonome disposizioni regolano anche le forme di redazione del verbale, redatto di regola in forma riassuntiva a norma ex art
140 co.2, salvo che il giudice, su richiesta di parte, non ne disponga la riproduzione fonografica o audiovisiva o la redazione del
verbale con la stenotipia.

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Chiusa la discussione, il giudice potrà pervenire a due differenti epiloghi (art 424 “Provvedimenti del giudice”):

 Se il processo non dovrà essere instaurato il giudice dovrà emettere una sentenza di non luogo a procedere,
suscettibile di acquisire una stabilità non definitiva;
 Se il giudice riterrà sussistenti gli elementi per il dibattimento dovrà pronunciare un decreto non motivato con il quale
dispone il giudizio.

Oggi, la fase introduttiva dell’udienza preliminare è gravata da una articolata procedura che interessa le formalità di verifica
dell’instaurazione del rapporto processuale.

L’art 420 co.2 prevede che il giudice debba procedere a verificare la regolare costituzione delle parti, ma l’intera materia è stata
riformulata, essendo stati trasferiti negli art 420bis – 420quinques gli adempimenti prima contenuti negli art 485ss. (abrogati
nel 1999).

La nuova procedura di accertamento della costituzione delle parti è applicabile al dibattimento, in forza del richiamo contenuto
nell’art 484 co.2bis.

Con riguardo alle parti private diverse dall’imputato, la verifica concerne:

 la parte civile che può costituirsi per l’udienza preliminare;


 il responsabile civile intervenuto volontariamente o citato;
 e il civilmente obbligato.

A costoro si riferisce il co.2 art 420, là dove dispone che il giudice dovrà ordinare la rinnovazione degli avvisi, delle citazioni, delle
comunicazioni e notificazioni quando ne abbia dichiarato la nullità.

Per l’imputato, la partecipazione al suo processo è espressione del diritto di difesa, a cui può rinunciarvi; ma l’ordinamento non
può disconoscere tale diritto.

Il tema della partecipazione dell’imputato al proprio processo ha subito una evoluzione nota (cap.II par.27):
incentrato sull’istituto della restituzione del termine (art 175), l’intervento del 2005 non intaccava la possibilità che il
processo si svolgesse in ogni caso in absentia, limitandosi ad apprestare un rimedio restitutorio solo parziale.

Nel 2014 il legislatore è nuovamente intervenuto eliminando l’istituto della contumacia, per impedire che il processo si possa
svolgere in assenza dell’imputato anche quando egli potrebbe non esserne a conoscenza.

In tale prospettiva descritta, verificata la correttezza della notificazione, è necessario accertare se la assenza dell’imputato
possa essere la conseguenza di un impedimento, di una mancata conoscenza dell’addebito o se derivi da un suo disinteresse:
solo nell’ultimo caso il giudice potrà procedere.

Nelle altre ipotesi, l’ordinamento impone di accertare la sussistenza di cause ostative alla sua comparizione e, del caso,
attendere.

Il giudice procederà senza la presenza dell’imputato quando questi, libero o detenuto, non è presente ma, anche se impedito,
ha espressamente rinunciato ad assistervi (art 420bis co.1 “Assenza dell’imputato”).

Quando non vi sia una rinuncia espressa, il giudice dovrà accertare se si versi nelle situazioni che provino o portino a
presumere ex lege la conoscenza del processo elencate ex art 420bis co.2.

Dunque, si potrà procedere in assenza dell’imputato che nel corso del procedimento abbia:
 dichiarato/eletto domicilio;
 sia stato arrestato/fermato/sottoposto a misure cautelare;
 o abbia nominato un difensore di fiducia;
 nonché nel caso in cui l’imputato assente abbia ricevuto personalmente la notificazione dell’avviso dell’udienza o
risulti con certezza che lo stesso è a conoscenza del procedimento o si è volontariamente sottratto alla conoscenza
del procedimento o di atti del medesimo.

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L’art 420bis fa salvo quanto previsto dall’art 420ter:

 ciò significa che non sarà possibile procedere quando l’imputato, anche se detenuto, non si presenta alla prima udienza
e risulti che l’assenza è dovuta ad assoluta impossibilità di comparire per caso fortuito, forza maggiore o altro
legittimo impedimento (art 420ter co.1).

in tali casi, il giudice, con ordinanza, anche d’ufficio, rinvia ad una nuova udienza e dispone che sia rinnovato l’avviso
all’imputato ex art 419 co.1.

Nello stesso modo il giudice deve provvedere quando appare probabile che l’assenza dell’imputato sia dovuta ad assoluta
impossibilità di comparire per caso fortuito/forza maggiore (art 420ter co.2).

Quest’ultima disposizione prevede che tale probabilità sia liberamente valutata dal giudice e non possa formare oggetto di
discussione successiva né motivo di impugnazione;

tuttavia, l’imputato è ora ammesso a dimostrare che la prova dell’impedimento è pervenuta con ritardo senza sua colpa.
Il giudice dovrà pure rinviare l’udienza, anche d’ufficio, quando ricorrano le condizioni descritte nel co.1, quando l’imputato,
anche se detenuto, non si presenti alle successive udienze: in tal caso, deve fissare con ordinanza la data della nuova udienza e
disporne la notificazione all’imputato (art 420ter co.3).

Quando si procede in sua assenza, l’imputato è rappresentato dal difensore.

È rappresentato dal difensore e considerato presente l’imputato che, dopo essere comparso, si allontana dall’aula di udienza o
che, presente ad una udienza, non compare in udienze successive.

Le ipotesi di assenza previste dall’art 420bis co.2 pongono una presunzione solo relativa del disinteresse dell’imputato a
partecipare al proprio processo e non ne ostacolano il suo tardivo ingresso:
 se egli compaia prima della decisione, l’ordinanza che ha disposto di procedere in sua assenza viene revocata anche
d’ufficio.

Ove, poi, questi sia in grado di ribaltare la presunzione sulla quale quell’ordinanza era fondata, fornendo la prova che (pur
essendo a conoscenza del procedimento) non abbia avuto conoscenza della celebrazione del processo, senza sua colpa,
viene rimesso in termine per esercitare il suo diritto alla prova.

Nell’udienza preliminare, il giudice rinvia l’udienza e l’imputato può chiedere l’acquisizione di atti e documenti ex art 421 co.3;

nel corso del giudizio di primo grado, l’imputato ha diritto di formulare richiesta di prove ex art 493.

Ferma restando, in ogni caso, la validità degli atti regolarmente compiuti in precedenza, l’imputato può anche chiedere la
rinnovazione di prove già assunte;

l’art 489 co.2 (“Dichiarazioni dell’imputato contro il quale si è proceduto in assenza nell’udienza preliminare”) lo rimette nel
termine per formulare le richieste ex art 438 e 444.

La tutela si estende ai gradi di giudizio successivi; quando l’imputato provi la sua incolpevole mancata conoscenza, del processo
dovrà essere nuovamente investito il giudice di primo grado, e dalla regressione riaffiorerà il suo diritto alla scelta del rito.

Inoltre, la presunzione legislativa che consente al giudice di procedere anche nei casi in cui non vi sia la certezza del disinteresse
dell’imputato potrà essere ribaltata anche a seguito del passaggio in giudicato della sentenza pronunciata in absentia.

Il legislatore ha apprestato un ulteriore rimedio di carattere straordinario:


 se, una volta definito il processo, risulti che la mancata conoscenza del processo medesimo da parte dell’imputato
non fosse riconducibile a sua colpa egli può chiedere la rescissione del giudicato.

Quest’ultimo rimedio attribuisce a chi lo attiva il diritto ad un nuovo giudizio, poiché comporta, ove la sua richiesta venga
accolta, la trasmissione degli atti al giudice di primo grado, e non garantisce del tutto il soggetto che sia incorso nella vicenda
in discorso.

Esso fa gravare sul diretto interessato l’onere della prova che l’assenza è stata dovuta ad una incolpevole mancata
conoscenza della celebrazione del processo ed è concesso solo al condannato o al sottoposto a misura di sicurezza con
sentenza passata in giudicato, nei cui confronti si sia proceduto in assenza.

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Ogni tutela dettate per le ipotesi di assenza ex art 420bis deve ritenersi estesa alle vicende riconducibili ex art 420ter.

Il giudice revoca, inoltre, l’ordinanza con cui ha disposto di procedersi in assenza quando risulta che il procedimento doveva
essere sospeso ex art 420quater.

Quando, compiuti tutti gli adempimenti ex art 420 e 420ter, non sussista alcuna prova che l’imputato sia assente per sua
volontà, il giudice deve compiere un ultimo tentativo per ottenere la presenza dell’imputato:
 rinvia l’udienza e dispone che l’avviso sia notificato all’imputato personalmente ad opera della P.G.

Se non sarà stato possibile ottenere la presenza dell’imputato o la sua rinuncia espressa o presunta, il giudice dovrà sospendere
il processo. sempre che non debba essere pronunciata sentenza ex art 129.

Per evitare che il decorso del tempo possa impedire l’acquisizione della prova, durante la sospensione del processo, il giudice
acquisisce le prove non rinviabili.

Per circoscrivere gli effetti negativi scaturenti dalla sospensione, impedendo che si propaghino a soggetti diversi dall’imputato
irreperibile, si stabilisce che si possa procedere alla separazione di eventuali procedimenti connessi per imputati per i quali la
causa di sospensione non operi.

In secondo luogo, è previsto che non debba applicarsi la sospensione del processo ex art 75 co.3:

 il danneggiato potrà trasferire la azione civile nella sede propria in qualsiasi momento non essendovi impedito dal
vincolo altrimenti derivante da quest’ultima disposizione.

La stasi processuale dovrà essere monitorata a intervalli fissi:

 alla scadenza di un anno (e, finché il procedimento non abbia ripreso il suo corso, ad ogni successiva scadenza
annuale), o anche prima quando ne ravvisi l’esigenza,

il giudice dovrà disporre nuove ricerche dell’imputato per la notifica dell’avviso.

Il giudice dovrà revocare l’ordinanza di sospensione in quattro casi:


a) se le ricerche ex co.1 hanno avuto esito positivo;

b) se l’imputato ha nel frattempo nominato un difensore di fiducia;

c) in ogni altro caso in cui vi sia la prova certa che l’imputato è a conoscenza del procedimento avviato nei suoi
confronti;

d) se deve essere pronunciata sentenza ex art 129. (art 420quinques co.2)

Con l’ordinanza di revoca della sospensione del processo, il giudice fissa la data per la nuova udienza, disponendo che l’avviso
sia notificato all’imputato e al suo difensore, alle altre parti private e alla persona offesa, nonché al P.M.

L’imputato può accedere al giudizio abbreviato o all’applicazione della pena su richiesta.

Come ricordato, la presenza del difensore dell’imputato è prevista come necessaria, ed ogni violazione della detta garanzia è
sanzionata a pena di nullità assoluta, ex art 179 co.1.

L’art 420 co.3 prevede che, se il difensore dell’imputato non è presente, il giudice debba provvedere ex art 97 co.4.

Il giudice deve rinviare l’udienza nel caso di assenza del difensore, quando un legittimo impedimento impedisca la sua
partecipazione; l’impedimento, oltre che prontamente comunicato, deve derivare da una impossibilità di comparire assoluta.

La disposizione non si applica se l’imputato non resterebbe comunque sfornito della difesa fiduciaria perché assistito da due
difensori, quando l’impedimento riguardi uno dei medesimi, o quando il difensore impedito ha designato un sostituto.

Infine, l’imputato, più interessato alla speditezza del procedimento che alla assistenza difensiva, può sempre consentire che si
proceda in assenza del difensore impedito.

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Di recente, un intervento del 2017 ha aggiunto all’art 420ter un nuovo co.5bis, il quale prevede che:

o “agli effetti di cui al co.5 il difensore che abbia comunicato prontamente lo stato di gravidanza si ritiene legittimamente
impedito a comparire nei 2 mesi precedenti la data presunta del parto o nei 3 mesi successivi al parto”.

Libera scelta (e non una assoluta impossibilità) è quella che determina l’astensione dall’udienza del difensore che intenda
aderire ad una manifestazione di protesta indetta dagli organismi forensi.

L’adesione del difensore all’astensione proclamata dagli organismi rappresentativi della categoria impone il rinvio anche
delle udienze camerali.

Il suddetto rinvio dell’udienza trova attuazione con l’unico limite calibrato dalle regole di autoregolamentazione.

Il giudice deve accertare se l’adesione all’astensione sia avvenuta nel rispetto delle regole fissate dalle relative disposizioni
primarie e secondarie, previa la loro corretta interpretazione.

58. Segue: lo svolgimento dell’udienza e le integrazioni probatorie. (Art 421-422)


Conclusi gli accertamenti relativi alla costituzione delle parti, il giudice dichiara aperta la discussione (art 421 “Discussione”).

La discussione si concreta in un sintetico confronto tra il P.M. e i difensori delle parti private ed imputato.

Conclusa l’esposizione introduttiva del P.M. e prima che prendano parola i difensori, l’imputato può rendere dichiarazioni
spontanee e chiedere di essere sottoposto all’interrogatorio, per il quale si applicano gli art 64 e 65.

Su richiesta di parte, il giudice dispone che l’interrogatorio sia reso nelle forme ex art 498 e 499.

Terminati gli interventi e le repliche, il P.M. ed i difensori formulano e illustrano le rispettive conclusioni, utilizzando gli atti
contenuti nel fascicolo trasmesso ex art 416 co.2, nonché gli atti e i documenti ammessi dal giudice prima dell’inizio della
discussione.

È possibile, tuttavia, che l’udienza preliminare divenga la scena per ulteriori momenti acquisitivi, sollecitati dalle parti o dal
giudice.

Quest’ultimo potrà emettere una ordinanza, con la quale, se le indagini preliminari sono incomplete, indica le ulteriori
indagini, fissando il termine per il loro compimento e la data della nuova udienza preliminare (art 421bis co.1).

Nell’udienza preliminare il giudice è chiamato a vagliare la sostenibilità in giudizio di una accusa già formulata dall’organo
competente, per impedire che accuse processualmente infondate proseguano il cammino.

In tale fase, eccessive ingerenze, rischierebbero di compromettere il suo ruolo di terzietà.

Anche qui, la completezza delle indagini è presidiata da un controllo affidato al procuratore generale presso la corte
d’appello, il quale a seguito della comunicazione prevista dal co.1 può disporne l’avocazione con decreto motivato.

Problematico è il rapporto tra le indagini iussi iudici (per ordine del giudice) e le investigazioni del difensore (il quale
sembrerebbe non essere destinatario di un ordine del giudice).

Se non ritenga di investire il P.M. del compito di nuove indagini, il giudice potrà far luogo ad una attività istruttoria da lui stesso
condotta.

L’esercizio del potere di integrazione probatoria è regolato da un criterio marcatamente restrittivo:

 Il giudice potrà disporre, anche d’ufficio, l’assunzione delle prove delle quali appare evidente la decisività ai fini della
sentenza di non luogo a procedere.

Non potrebbe trattarsi di prove idonee a corroborare un eventuale rinvio a giudizio, né di prove che non siano adeguate a
indirizzarlo definitivamente verso l’epilogo alternativo.

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Quanto a quest’ultimo, ogni elemento di prova suscettibile di incrinare la necessaria prognosi di resistenza dell’imputato
probatorio rientra nel novero dell’art 422 (“Attività di integrazione probatoria del giudice”).

Se non è possibile procedervi nella medesima udienza, il giudice dovrà fissare la data della nuova udienza e disporre la
citazione dei testimoni, dei periti, dei consulenti tecnici e delle persone indicate ex art 210 di cui siano stati ammessi
l’audizione o l’interrogatorio.

L’audizione e l’interrogatorio sono condotti dal giudice.

Il P.M. e i difensori possono porre domande, a mezzo del giudice, nell’ordine previsto dall’art 421 co.2; al temine, il P.M. e i
difensori formulano e illustrano le rispettive conclusioni.

Anche nell’ambito della istruzione officiosa, l’imputato può chiedere di essere sottoposto all’interrogatorio, che si svolgerà con
le stesse modalità appena viste:

 Si applicano, di regola, le disposizioni ex art 64 e 65;


 Ma, su richiesta di parte, il giudice dispone che l’interrogatorio sia reso nelle forme previste ex art 498 e 499.

Infine, con il d.lgs 216/2017 è stato aggiunto il nuovo co.4bis all’art 422, che prevede la possibilità di acquisire gli esiti delle
intercettazioni di conversazioni/comunicazioni non già selezionati prima della chiusura delle indagini.

La nuova disposizione rinvia alle previsioni ex art 268ter e 268quater “in quanto compatibili”, affidando all’interprete la
risoluzione di ogni questione interpretativa al riguardo.

Appaiono non applicabili le disposizioni concernenti i tempi e modi dettati dall’art 268ter per la presentazione delle richieste,
mentre sembra indubbio che il criterio di acquisizione non possa essere quello della “non manifesta irrilevanza”, dettato ex art
268quater co.1, ma quello più restrittivo proprio della fase:

 Sicché, il giudice dovrà esercitare i suoi poteri in virtù del parametro della “evidente decisività ai fini della sentenza di
non luogo a procedere”.

59. Segue: la modifica dell’imputazione. (Art 423)


La richiesta di rinvio a giudizio formalizza l’accusa fissando il thema probandum sul quale il P.M. richiede che il giudice si
pronunci.

Potrebbe capitare che nel corso dell’udienza risultino mutati i contorni dell’addebito. In tal caso, l’imputazione deve essere
nuovamente calibrata.

L’art 423 (“Modificazione dell’imputazione”) prevede 4 ipotesi di mutamento.

Le prime 3 sono disciplinate nel co.1 e ricevono uguale trattamento:

 Se il fatto risulti diverso da come è descritto nell’imputazione,


 O emerge un reato connesso a norma dell’art 12 co.1 lett.b,
 O una circostanza aggravante,

il P.M. modifica l’imputazione e la contesta all’imputato presente o, se questi è assente, la comunica al suo difensore.

Ad una ulteriore ipotesi, collocata nel co.2, corrisponde una disciplina più complessa:

 Se risulti un fatto nuovo non enunciato nella richiesta di rinvio a giudizio, per il quale si debba procedere di ufficio,

il giudice ne autorizza la contestazione se il P.M. ne fa richiesta e vi è il consenso dell’imputato.

La disciplina non è adeguatamente provvista di garanzie, le quali sarebbero da individuare in via interpretativa, dovendosi
riconoscere il diritto dell’imputato ad un termine a difesa.

Secondo la Corte Costituzionale, sebbene il principio di correlazione tra imputazione e sentenza sia stato espressamente
disciplinato solo con riferimento alla fase del giudizio, la disposizione prevista ex art 521 (“Correlazione tra l’imputazione
contestata e la sentenza”) deve trovare applicazione anche con riferimento al giudice dell’udienza preliminare.

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Viene riconosciuto al giudice il potere di dare al fatto una definizione giuridica diversa da quella enunciata nell’imputazione.

Applicabile anche il principio di cui all’art 521 co.2:

 Se accerta che il fatto è diverso da quello enunciato nella richiesta di rinvio a giudizio, il giudice deve disporre la
trasmissione degli atti all’organo dell’accusa perché eserciti ex novo l’azione penale.

A tal ultimo proposito, secondo le Sezioni Unite, tanto può fare solo dopo una prima sollecitazione a riformulare
l’imputazione che non sia stata raccolta dall’organo di accusa.

La norma ex art 423 è ispirata a principi di economia processuale. Infatti, con il meccanismo della modifica dell’imputazione,
il sistema processuale ne esce più snello e senza inutili appesantimenti.

Il co.2 è ispirato dallo stesso principio, anche se qui la possibilità della nuova contestazione è subordinata a determinati
presupposti.
Se detta disposizione non esistesse, ogni modifica dell’imputazione comporterebbe un regresso del processo nella fase delle
indagini per un nuovo esercizio dell’azione penale.

60. Segue: la sentenza di non luogo a procedere e la sua revoca. (Art 424-428 e 434ss)
Il momento deliberativo è regolato da forme sintetiche ed essenziali, oltre che cadenze temporali ristrette:

 Il giudice procede alla deliberazione subito dopo che è stata chiusa la discussione (art 424 co.1 “Provvedimenti del
giudice”) e dà immediata lettura del provvedimento (co.2).

La lettura equivale a notificazione per le parti presenti.

Ex co.3, il provvedimento è immediatamente depositato in cancelleria e le parti hanno diritto di ottenerne copia.

Una deroga è prevista per la sentenza di non luogo a procedere. Per quest’ultima potrebbe non essere possibile per il
giudice fornire una motivazione immediata:

in tal caso il giudice provvede entro il 30°giorno da quello della pronuncia (co.4).

Il co.1 definisce gli epiloghi ordinari (si tratta di provvedimenti complementari) dell’udienza preliminare:

 Sentenza di non luogo a procedere,


 E decreto che dispone il giudizio.

È ipotizzabile anche un diverso finale:

 Ritenendo la propria incompetenza, il giudice dovrebbe dichiararla con sentenza, trasmettendo gli atti al P.M. ex art 22
co.3.

Il perimetro in cui il giudice può spaziare è segnato dal co.1 art 425 (“Sentenza di non luogo a procedere”).

Il giudice pronuncia sentenza di non luogo a procedere se sussiste:


 una causa che estingue il reato,
 o per la quale l’azione penale non doveva essere iniziata o non deve essere proseguita,
 se il fatto non è previsto dalla legge come reato
 o quando risulta che il fatto non sussiste
 o che l’imputato non lo ha commesso
 o che il fatto non costituisce reato
 o che si tratti di persona non punibile per qualsiasi causa, indicandone la causa nel dispositivo (ricomprendente
anche la non punibilità per particolare tenuità del fatto).

Il catalogo anticipa, in buona parte, le formule della sentenza di assoluzione dibattimentale ex art 530 co.1.

Non è prevista la formula terminativa che impone il proscioglimento nel caso in cui il reato è stato commesso da persona non
imputabile (l’art 425, nel silenzio, lo esclude).

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Il giudice non può pronunciare sentenza di non luogo a procedere “se ritiene che dal proscioglimento dovrebbe conseguire
l’applicazione di una misura di sicurezza diversa dalla confisca” (art 425 co.4).

Come dire, attraverso una interpretazione al contrario, che nei confronti del soggetto incapace di intendere e di volere
potrebbe essere pronunciata sentenza di non luogo a procedere, in quanto “persona non punibile”, a condizione che, ritenuto
non socialmente pericoloso, non debba essergli applicata una misura di sicurezza personale.

Il co.2 art 425 stabilisce che, ai fini della pronuncia della sentenza di cui al co.1, il giudice tiene conto delle circostanze
attenuanti, potendo effettuare il bilanciamento delle circostanze di cui all’art 69 c.p. (precisazione, questa, che ha perso di
significato dopo il 2005).

È nel co.3 art 425 che risiede il cardine su cui insistono i delicati equilibri della fase.

A seguito dell’intervento legislativo del 1999, è stato sostituito l’originario art 425, per cui, adesso, il giudice pronuncia sentenza
di non luogo a procedere “anche quando gli elementi acquisiti risultano insufficienti, contraddittori o comunque non idonei a
sostenere l’accusa in giudizio”.

In passato, prima del 99, la sentenza poteva essere pronunciata solo quando una delle situazioni di proscioglimento in fatto
risultasse “evidente”, lasciando arbitro il P.M. di agire o non agire.

Tal criterio permetterebbe di imporre il decreto che dispone il giudizio solo in presenza di un quadro nitido della colpevolezza:

 non “contraddittori” né “insufficienti”, gli elementi dovrebbero presentarsi come premesse univoche per la pronuncia
del decreto che dispone il giudizio.

Nonostante l’aggiunta del legislatore del 1999, la disposizione resta ancora ambigua, poiché essa accosta ad una valutazione
di insufficienza e contraddittorietà degli elementi, una prognosi sulla loro idoneità ad essere corroborati dalla dialettica
dibattimentale.

La regola di giudizio per la sentenza di non luogo a procedere resta qualificata da una deliberazione di tipo prognostico di
sostenibilità dell’accusa in giudizio, sicché il giudice dovrebbe prosciogliere l’imputato non in qualunque situazione di
incertezza, ma solo nell’ipotesi in cui il dubbio non appaia superabile neppure a seguito del passaggio al giudizio, secondo la
valutazione di “utilità” del dibattimento già elaborata dalla Corte Costituzionale con riferimento all’art 125 disp.att.

L’art 426 c.1 (“Requisiti della sentenza”) prevede i contenuti necessari della sentenza:

a) l’intestazione “in nome del popolo italiano” e l’indicazione dell’autorità che l’ha pronunciata;
b) le generalità dell’imputato o le altre indicazioni personali che valgono ad identificarlo nonché le generalità delle altre parti
private;
c) l’imputazione;
d) il dispositivo, con l’indicazione degli articoli di legge applicati;
e) la data e la sottoscrizione del giudice; in caso di impedimento del giudice, la sentenza è sottoscritta dal presidente del
tribunale previa menzione della causa della sostituzione (co.2 art 426).

Solo alcuni di questi requisiti sono presidiati da nullità. Oltre alla mancanza della motivazione, la sentenza è nulla se manca o
è incompleto nei suoi elementi essenziali il dispositivo o se manca la sottoscrizione del giudice (art 426 co.3).

Dichiarazione di falsità di atti o documenti e statuizioni di natura civile concernenti il querelante costituiscono contenuti di
natura eventuale della sentenza di non luogo a procedere.

Essa può contenere la dichiarazione di falsità di un atto o di un documento tutte le volte in cui venga accertata nel corso del
processo (co.5 art 425).

Quando si tratti di reato per il quale si procede a querela della persona offesa, con la sentenza di non luogo a procedere
perché il fatto non sussiste o l’imputato non lo ha commesso il giudice condanna il querelante al pagamento delle spese del
procedimento anticipate dallo Stato (art 427 co.1 “Condanna del querelante alle spese e ai danni”), salvo che non emerga
l’assenza di colpa a questi ascrivibile nell’esercizio del diritto di querela.

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Quando è fatta domanda di richiesta di parte, il giudice condanna il querelante alla rifusione delle spese sostenute
dall’imputato e, se il querelante si è costituito parte civile, anche di quelle sostenute dal responsabile civile citato o
intervenuto.

Quando ricorrono giusti motivi, le spese possono essere compensate in tutto o in parte (co.2), ma se il reato è estinto per
remissione della querela, si applica la disposizione dell’art 340 co.4, secondo cui le spese del procedimento sono a carico del
querelato, salvo che nell’atto di remissione sia stato diversamente convenuto (co.5).

Nel caso di colpa grave, il giudice può condannare il querelante a risarcire i danni all’imputato e al responsabile civile che ne
abbia fatto domanda (art 423 co.3).

Contro il capo della sentenza di non luogo a procedere che decide sulle spese e sui danni possono proporre impugnazione il
querelante, l’imputato e il responsabile civile (co.4).

La disciplina dell’impugnazione della sentenza di non luogo a procedere, è stata di recente nuovamente (dopo il 2006)
riformata dalla L.103/2017:
 prima appellabile, poi solo soggetta a ricorso per cassazione, ora nuovamente appellabile.

Legittimati all’appello (oltre quanto previsto ex 427) sono il procuratore della Repubblica e il procuratore generale.

Riguardo al procuratore generale, può appellare solo nei casi di avocazione o qualora il procuratore della repubblica abbia
prestato acquiescenza al provvedimento.

Anche l’imputato rientra tra i soggetti legittimati, salvo che con la sentenza sia stato dichiarato che il fatto non sussiste o che
l’imputato non l’ha commesso (art 428 co.1).

Quanto alla persona offesa, può ora proporre appello, nei casi di nullità ex art 419 co.7.

Ai medesimi soggetti legittimati all’appello spetta l’alternativa del ricorso per saltum, ex art 569.

Sull’impugnazione, la Corte di Appello decide in camera di consiglio con le forme ex art 127: si tratta delle forme ordinarie della
procedura camerale (e non quelle dell’appello funzionali a forme di acquisizione probatorie qui non consentite).

La nuova disciplina regola anche gli epiloghi del giudizio, a seconda dell’appellante:

 l’appello del P.M. può preludere a una conferma della sentenza (con immediato decreto che dispone il giudizio) o ad
una riforma; in caso contrario, potrà confermare la sentenza.

Secondo il nuovo co.3bis art 428 contro la sentenza di non luogo a procedere pronunciata in grado di appello può essere
proposto il ricorso per cassazione, destinato a svolgersi con le forme semplificate ex art 611:

legittimati al ricorso son solo l’imputato e il procuratore generale, ed esclusivamente per i motivi ex lett.a,b e c co.1 art 606.

Infine, un nuovo co.3quater (introdotto nel 2018), prevede che siano inappellabili “le sentenze di non luogo a procedere relative
a contravvenzioni punite con la sola pena dell’ammenda o con pena alternativa”;

sebbene nulla sia disposto esplicitamente, queste ultime saranno ricorribili per cassazione dall’imputato, dal procuratore
generale presso la corte d’appello e dal procuratore della Repubblica.

Quando non più soggetta a impugnazione la sentenza “acquista forze esecutiva” (art 650 co.2).

Essa spiega effetti preclusivi ma la sua stabilità è limitata, potendo essere sempre revocata, quando se ne ravvisano gli
estremi.

La pronuncia della sentenza di non luogo a procedere ha carattere preclusivo, in quanto:

 è interdetto l’esercizio dell’azione penale;


 gli atti di indagine, se espletati contra legem, sono inutilizzabili ex art 191;
 inoltre, non può essere applicata una misura cautelare, per lo stesso fatto, nei confronti dell’imputato prosciolto,
prima che, emerse nuove fonti di prova, sia pronunciata dal G.I.P. la revoca della sentenza medesima.

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È il G.I.P. che, su richiesta del P.M., dispone la revoca della sentenza (art 434).

Quanto ai presupposti, il P.M. può chiedere la revoca se dopo la pronuncia di una sentenza di non luogo a procedere
sopravvengono o si scoprono nuove fonti di prova che, possono determinare il rinvio a giudizio (434).

Nella richiesta di revoca il P.M. indica le nuove fonti di prova, specifica se queste sono già state acquisite o sono ancora da
acquisire:

 nel primo caso, dovrà richiedere il rinvio a giudizio;


 nel secondo caso, la riapertura delle indagini.

Poiché l’efficacia preclusiva della decisione, impedisce che si svolgano indagini prima che sia emesso il provvedimento di
revoca, i nuovi elementi di prova acquisiti successivamente alla pronuncia della sentenza di non luogo a procedere possono
essere utilizzati ai fini della revoca della sentenza e della successiva applicazione di una misura cautelare personale nei
confronti dell’imputato prosciolto, a condizione che essi siano acquisiti aliunde nel corso di indagini estranee al
procedimento già definito o siano provenienti da altri procedimenti, ovvero reperiti in modo casuale o spontaneamente
offerti, e comunque non siano il risultato di indagine finalizzate alla verifica ed all’approfondimento degli elementi emersi.

Il procedimento si svolge in camera di consiglio nelle forme ex art 127:

 il giudice, se non dichiara inammissibile la richiesta, designa un difensore all’imputato che ne sia priva, fissa la data
dell’udienza in camera di consiglio e ne fa dare avviso al P.M., all’imputato al difensore e alla parte offesa (art 435 co.3).

Sulla richiesta di revoca il giudice provvede con ordinanza (art 436 co.1);

 se non dichiara inammissibile o non rigetta la richiesta, i provvedimenti conseguenti variano a seconda dell’iter segnato
dalla domanda del P.M.
 se il P.M. ha chiesto il rinvio a giudizio, il giudice fissa l’udienza preliminare, dandone avviso agli interessati e presenti e
disponendo per gli altri la notificazione (art 436 co.2).

Se la richiesta preludeva a nuove indagini in ordine alle fonti di prova ancora da acquisire, il giudice ordina la riapertura delle
indagini, stabilendo per il loro compimento un termine improrogabile non superiore a 6 mesi (co.3).

In tal caso, il soggetto già imputato, tornerà ad essere indagato e la nuova vicenda potrà concludersi anche con una
archiviazione (co.4).

Qualora sulla base dei nuovi atti di indagine non debba chiedere l’archiviazione, entro la scadenza del termine, il P.M. trasmette
alla cancelleria del giudice la richiesta di rinvio a giudizio.

Contro l’ordinanza che dichiara inammissibile o rigetta la richiesta di revoca il P.M. può proporre ricorso per cassazione solo
per i motivi ex art 606 co.1 lett.a,b ed e (art 437).

Nessun rimedio è invece previsto contro l’ordinanza che ammette il seguito.

61. Segue: il decreto che dispone il giudizio e la formazione dei fascicoli. (Art 429 e 431-433)
Quando l’accusa passa il vaglio dell’udienza preliminare, è compito del giudice imprimere un impulso al processo; egli dovrà
emettere un decreto con cui dispone il giudizio.

Quel provvedimento spiega due funzioni essenziali:

 Cristallizza l’accusa, offrendo al giudice del dibattimento il thema probandum,


 e contiene la vocatio in iudicium

È lo stesso giudice dell’udienza preliminare a fissare l’agenda del giudice dibattimentale, su sua indicazione e salvi i suoi
possibili provvedimenti sul punto.

Criteri peculiari per la formazione dei ruoli di udienza e per la trattazione dei processi sono fissati dall’art 132 disp.att., per
garantire una corsia preferenziale ad alcuni processi in ragione di esigenze che dimostrino la necessità e celerità della
celebrazione del giudizio (vedere elenco codice).

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Tra i contenuti del decreto che dispone il giudizio (art 429), spiccano, essendo sanzionati da nullità, accanto alle indicazioni che
valgono ad accertare l’identità dell’imputato, i requisiti delle lett.c ed f art 429 co.2.

Essenziale “l’enunciazione, in forma chiara e precisa, del fatto, delle circostanze aggravanti e di quelle che possono comportare
l’applicazione di misure di sicurezza, con l’indicazione dei relativi articoli di legge”; così come l’indicazione del luogo, del giorno
e dell’ora della comparizione, con l’avvertimento all’imputato che non comparendo sarà giudicato in contumacia (anche se
andrebbe letto come “non comparendo si applicheranno le disposizioni ex art 420bis,ter,quater e quinques”).

Accanto a tali contenuti, nel decreto, dovrà anche comparire “l’indicazione sommaria delle fonti di prova e dei fatti cui esse si
riferiscono”, senza richiedere alcuna elaborazione critica, preservando la neutralità del giudice dibattimentale, evitando il
pregiudizio che deriverebbe da un provvedimento motivato.

Ed ancora, dovranno risultare dal decreto le generalità delle altre parti private, con l’indicazione dei difensori; della persona
offesa dal reato qualora risulti identificata; il dispositivo, con l’indicazione del giudice competente per il giudizio; la data e la
sottoscrizione del giudice e dell’ausiliario che assiste.

Un termine dilatorio riguarda l’intervallo tra decreto-dibattimento: deve intercorrere un termine minimo di 20 giorni tra la
data del decreto e quella del giudizio (art 429 co.3).

Una regola speciale fissa, per taluni casi, anche un termine di carattere acceleratorio:
 qualora si proceda per i reati ex art 589 co.2 c.p. e 589bis, il termine di cui al co.3 art 429 non può essere superiore a
60 giorni

Il decreto letto in udienza per quanti sono o devono considerarsi presenti deve essere notificato all’imputato contumace
(assente) nonché all’imputato e alla persona offesa, comunque non presenti alla lettura del provvedimento di cui al co.1 art 424,
almeno 20 giorni prima della data fissata per il giudizio.

Immediatamente dopo l’emissione del decreto che dispone il giudizio (o in apposita udienza fissata entro 15 giorni, se una parte
lo richieda) il giudice provvede nel contraddittorio delle parti alla formazione del fascicolo per il dibattimento (art 431 co.1).

Ormai giunti sulle soglie del dibattimento, si tratta di individuare e separare il materiale che può essere conosciuto dal
giudice dibattimentale da quello che deve restare fuori dal circuito processuale (perché esito delle indagini di parte).

Si tratta di un adempimento funzionale al sistema del c.d. doppio fascicolo. Tale attività va condotta in contraddittorio,
affinché le parti possano vigilare sulla qualità degli atti che vi confluiscono.

Nel fascicolo per il dibattimento sono raccolti:

a) gli atti relativi alla procedibilità dell’azione penale e all’esercizio dell’azione civile;
b) i verbali degli atti non ripetibili compiuti dalla P.G.;
c) i verbali degli atti ripetibili compiuti dal P.M. e difensore;
d) i documenti acquisiti all’estero mediante rogatoria internazionale e i verbali degli atti non ripetibili assunti con le stesse
modalità;
e) i verbali degli atti assunti nell’incidente probatorio;
f) i verbali degli atti assunti all’estero a seguito di rogatoria internazionale (diversi da quelli della lett.d) ai quali i difensori
sono stati posti in grado di assistere e di esercitare le facoltà loro consentite dalla legge italiana;
g) il certificato generale del casellario giudiziario e gli altri documenti indicati nell’art 236;
h) il corpo del reato e le cose pertinenti al reato, qualora non debbano essere custoditi altrove (art 431 co.1).

Le parti possono concordare l’acquisizione al fascicolo per il dibattimento di atti contenuti nel fascicolo del P.M., nonché
della documentazione relativa all’attività di investigazione difensiva (art 431 co.2).

Tutto quello che non rientra nella tassativa elencazione ex art 431, deve essere trasmesso al P.M. con gli atti acquisiti
all’udienza preliminare, e unitamente al verbale d’udienza (art 433 co.1).

I difensori hanno facoltà di prendere visione e di estrarre copia, nella segreteria del P.M. degli atti raccolti nel fascicolo
formato ex co.1 (art 433 co.2).

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62. L’attività integrativa di indagine. (Art 430-430bis)


Abbiamo già visto che nel corso dell’udienza preliminare, il P.M. e i difensori non sono tenuti a interrompere la propria attività
investigativa la quale si estende anche oltre l’emissione del decreto che dispone il giudizio.

Lo stabilisce l’art 430 co.1 (“Attività investigativa di indagine del P.M. e difensori”).

La disposizione fissa solo il dies a quo e non il dies ad quem (prevedendo che i soggetti sono legittimati “ai fini delle proprie
richieste al giudice del dibattimento”).

Più precise indicazioni temporali si ricavano dall’art 430bis, dove la giurisprudenza ritiene che l’orizzonte delle indagini possa
spingersi lungo tutto l’arco del dibattimento e pure nel corso della discussione finale ex art 523 co.6, eventualmente
proiettandosi oltre, verso il giudizio di appello.

Dunque, la ricerca della prova a processo instaurato è eccezionale.

Nella fase che si apre con il decreto di rinvio a giudizio, il potere di indagine subisce dei limiti:

o “non possono essere compiuti atti per i quali è prevista la partecipazione dell’imputato o del difensore di questo” (art
430 co.1).

La documentazione relativa all’attività indicata nel co.1 è immediatamente depositata nella segreteria del P.M. con facoltà
delle parti di prendere visione e di estrarne copia (art 430 co.2).

A tal fine la segreteria del P.M. deve dare avviso del deposito della documentazione, senza ritardo, ai difensori.

Gli atti delle indagini integrative non confluiscono nel fascicolo di parte, se non quando siano serviti per formulare richieste al
giudice e questo le abbia accolte (art 433 co.3).

L’art 430bis (“Divieto di assumere informazioni”), introdotto nel 1999, pone ulteriori limiti alla attività di indagine per evitare
che le parti possano porre in essere strategie sleali incrociate, cercando di sondare preventivamente le fonti di prova già
citate a dibattimento dalle altre parti o dal giudice.

La disposizione (art 430bis) risulta applicabile ad attività che si svolgono anche anteriormente all’emissione del decreto che
dispone il giudizio:

 La tutela è infatti testualmente estesa ad un lungo tratto del procedimento che si inarca dall’incidente probatorio alla
prova ammessa ex officio, al termine dell’istruzione dibattimentale, ex art 507.

Ciò spiega il divieto posto in capo al P.M., alla P.G. e al difensore di assumere informazioni dalla persona ammessa ai sensi
dell’art 507 o indicata nella richiesta di incidente probatorio o ai sensi dell’art 422co.2; o nella lista prevista ex 468 e presentata
dalle altre parti processuali.

Viene puntualizzato che le informazioni assunte in violazione del divieto sono inutilizzabili (art 43.bis co.1).

Tale divieto cessa dopo l’assunzione della testimonianza e nei casi in cui questa non sia ammessa o non abbia luogo (art
430bis co.2).

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CAPITOLO VI
Procedimenti speciali
1. Considerazioni introduttive sulla nozione di “specialità”.
Il procedimento ordinario di primo grado è composto da 3 segmenti principali:

 Indagini preliminari; udienza preliminare; giudizio-

Il procedimento speciale, invece, si caratterizza per l’assenza di almeno uno dei 3 segmenti.

L’eguaglianza dei cittadini di fronte alla legge e il bisogno di garantire i diritti delle parti alla stessa maniera, imporrebbero una
procedura uniforme.

In realtà, il codice prevede delle procedure alternative a quella prevista come ordinaria.

In passato,
la scarsa gravità del reato da perseguire o l’evidente fondatezza dell’accusa, legittimavano la semplificazione o l’omissione
di taluni adempimenti processuali.

Recente,
è la tendenza di attuare semplificazioni dell’ordinario svolgimento processuale, con incentivi premiali che incoraggiano la
rinuncia dell’imputato alla fase dibattimentale e all’esercizio di quei diritti di difesa e di prova che in essa potrebbero
trovare spazio.

Un’esigenza economica sta al fondo delle disposizioni che regolano i vari procedimenti speciali.

Poiché tale semplificazione finisce con l’incidere su garanzie costituzionali anche diverse dall’eguaglianza, quali il diritto di difesa,
il giudice naturale, nonché la presunzione di innocenza, è necessaria una autorizzazione ex lege.

La disciplina dei procedimenti speciali è regolata nel Libro VI (art 438-464nonies), che prevede 6 tipi:
 Il giudizio abbreviato; l’applicazione di pena su richiesta delle parti; il giudizio direttissimo; il giudizio immediato; il
procedimento per decreto e la sospensione del processo con messa alla prova.

Ma la serie non è esaustiva, in quanto la dicitura “speciale” spetta anche a quei tipi di procedimento caratterizzati
dall’assenza di una fase/sotto-fase, presente invece del procedimento ordinario.

Dunque, meritano di essere ricordati (anche se non disciplinati nel Libro VI):
 Il procedimento di oblazione  consente una chiusura anticipata della vicenda processuale, evitando la fase
dibattimentale per contestuale degradazione dell’illecito penale in illecito amministrativo;

 La estinzione del reato per condotte riparatorie;

 Il giudizio immediato richiesto dall’imputato  contente di anticipare il dibattimento saltando l’udienza


preliminare;

 E infine i procedimenti che traggono origine da una contestazione suppletiva


- nell’udienza preliminare  privi, in tal caso, dell’indagine preliminare;
- o nel dibattimento  privi, in tal caso, dell’intera fase preliminare al giudizio.

Anche il procedimento davanti al giudice monocratico per i reati ex art 550, costituisce una specialità, in quanto sempre privo
dell’udienza preliminare.

Non rientrano, in tal discorso, quegli istituti volti a semplificare il procedimento in fase di impugnazione, come il
“patteggiamento in appello” o il ricorso immediato per cassazione; la specialità qui in questione riguarda il solo
procedimento di primo grado e non le soluzioni tecniche che caratterizzano i gradi successivi del giudizio.

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2. Ragioni della “specialità”.


I procedimenti speciali possono essere suddivisi in 3 gruppi:

1) Riti fondati su un requisito soggettivo  quale la scelta volontaria di una o di entrambe le parti.

Vi rientrano il giudizio abbreviato, l’applicazione di pena su richiesta delle parti (“patteggiamento”), il procedimento di
oblazione, l’estinzione del reato per condotte riparatorie, la sospensione del processo con messa alla prova e il giudizio
immediato richiesto dall’imputato.

Espressione di una giustizia “consensuale”, le parti hanno la facoltà di disporre di taluni stati o situazioni processuali, con
conseguente rinuncia alle chances di intervento che la legge vi collega.

È una scelta idonea ad influire sul merito della causa e sulla determinazione della pena.

Di qui la difficoltà ad armonizzare le normative riguardanti le principali manifestazione di giustizia consensuale (giudizio
abbreviato e patteggiamento) con tradizionali capisaldi, quali la legalità della pena, l’obbligatorietà dell’azione penale e la
presunzione di innocenza.

2) Riti fondati su requisiti oggettivi  scarsa gravità o evidenza dell’accusa per esempio, imperativamente affermati dal
magistrato penale.

Vi rientrano il giudizio direttissimo, giudizio immediato richiesto dal P.M., contestazione suppletiva del reato concorrente o
del reato continuato.

Espressione di una giustizia “autoritativa”, qui l’esigenza di semplificazione si giustifica in forza di predefiniti presupposti
processuali, connotati da una certa oggettività, la cui sussistenza viene affermata d’autorità, asserita dal P.M. e poi vagliata e
confermata dal giudice.

3) Gruppo misto  formato da quei procedimenti in cui la semplificazione costituisce il risultato di un’iniziale scelta
imperativa, combinata con il consenso dell’imputato o con l’accordo delle due parti principali del processo (imputato e
P.M.).

Affini a quelli del secondo gruppo, sono procedimenti la cui semplificazione procedurale dipende da un atto autoritativo del
magistrato penale, combinato con un atto volontario di una o di entrambe le parti.

Vi appartengono il procedimento per decreto (art 459-464), il giudizio direttissimo esperibile col consenso delle parti (art
449) e la contestazione suppletiva del fatto nuovo (art 423 e 518).

3. Rapporti fra i procedimenti speciali.


I procedimenti speciali non sono incompatibili fra loro. La scelta si impone solo all’interno del medesimo gruppo, nel senso che:

 Un procedimento del tipo “consensuale” esclude la trasformazione in altro procedimento dello stesso tipo.

Ad esempio, una volta ammesso il “patteggiamento”, non è possibile chiedere il giudizio abbreviato;

inoltre, il giudizio immediato richiesto dall’imputato esclude la possibilità di richiedere sia il rito abbreviato sia il
“patteggiamento” (art 458 co.3).

L’instaurazione di una procedura consensuale è incompatibile con qualsiasi semplificazione autoritativa del procedimento.

Ad esempio, la scelta del giudizio abbreviato/patteggiamento esclude sia il giudizio immediato, sia il giudizio direttissimo.

 È invece, sempre consentito il passaggio da un rito scelto ex auctoritate a uno dei riti consensuali, premiato con uno
sconto di pena (come giudizio abbreviato o patteggiamento).

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A rendere doverosa e opportuna tale trasformazione concorrono due ragioni:


 Una di tipo economico  il rito premiale, chiudendosi prima del dibattimento, realizza quasi sempre un risparmio di
risorse, maggiore rispetto al rito speciale imposto ex auctoritate ed è quindi “favorito” dal sistema.
 Una di tipo giuridico-costituzionale e si collega all’esigenza di garantire un trattamento uniforme degli imputati di
fronte alle possibili scelte processuali.

Dunque, l’accesso ai riti premiali (e ai connessi sconti di pena) non può essere ostacolato dall’instaurazione “autoritativa” di
un procedimento speciale.

C’è di mezzo anche il diritto di difesa  cioè il diritto d’ogni imputato di scegliere il modo più adeguato e consono ai propri
interessi per difendersi.

Infatti, sottrarre alla difesa la chance del rito alternativo per effetto di una scelta imperativa dell’A.G. significherebbe esporre
l’imputato a una irragionevole disparità di trattamento.

4. Giustizia “consensuale” e corrispondenti forme di “specialità”.


Ampio spazio è dedicato, dal codice, alla giustizia consensuale.

Se si guarda al passato, lo spazio riservato alla “negoziabilità” è stato aumentato.

Nel 1930, la volontà delle parti (in particolar modo dell’imputato), figurava solo in 2 casi come presupposto per la
semplificazione, comportando una chiusura anticipata del processo:
 Oblazione per le contravvenzioni punibili con l’ammenda;
 e procedimento per decreto  per i reati punibili con pena pecuniaria.

Una soluzione pattizia/consensuale della causa penale era ammessa esclusivamente in presenza di reati bagatellari.

Una prima significativa dilazione degli istituti negoziali si verifica con la l. 689/1991:

 l’oblazione viene estesa, così da includere le contravvenzioni punibili con la pena alternativa, per le quali il giudice
ritenga di applicare la pena pecuniaria;
 viene introdotta una forma di “patteggiamento” (embrione dell’attuale “applicazione della pena su richiesta delle
parti”), permettendo alle parti di accordarsi sul quantum della pena, evitando il dibattimento, a fronte di reati di scarsa
gravità.

La riforma del 1988 ha ampliato il dominio delle parti sulle situazioni processuali:

 sono stati estesi gli ambiti del patteggiamento e del procedimento per decreto;
 è stato introdotto un nuovo rito speciale  il giudizio abbreviato, riconoscendo all’imputato la facoltà di rinunciare
all’udienza preliminare e, all’intera fase preliminare del processo.

Con la legge sul giudico unico di primo grado (1998) si è:


 rimodernata la normativa sul giudizio abbreviato, ampliandone l’operatività e correggendo talune storture che la
rendevano costituzionalmente illegittima;
 rimodificato il procedimento per decreto per accrescerne l’efficacia deflattiva;
 parzialmente modificato il patteggiamento e il giudizio immediato.

Nel 2001, la legge sulla responsabilità amministrativa delle persone giuridiche fa leva sugli istituti premiali,

 rendendo accessibile all’ente-imputato sia il giudizio abbreviato, sia l’applicazione della sanzione su richiesta, sia il
procedimento per decreto.

Grazie alla l.134/2003, il patteggiamento ha visto dilatarsi il proprio ambito di applicabilità.

Più di recente, la l.67/2014 ha introdotto un nuovo rito:

 la sospensione del processo con messa alla prova (Titolo Vbis)  modellato sull’analogo istituto della giustizia
minorile.

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Da ultimo, la l.103/2017 (riforma Orlando) ha introdotto alcune novità:

 estinzione del reato per condotte riparatorie;


 è intervenuta sui presupposti di ammissibilità del giudizio abbreviato e sui limiti di pena per i reati contravvenzionali,
nonché sui limiti di ricorribilità per cassazione contro la sentenza che applica la pena richiesta dalle parti.

I riti consensuali, sempre più incoraggiati dalla legge processuale, hanno in comune la rinuncia delle parti (in particolare
dell’imputato) a giovarsi dei possibili vantaggi abbinati a determinate situazioni processuali tipiche del procedimento
ordinario.

Rinunciando al dibattimento, l’imputato si priva della facoltà di contrastare l’accusa con quella dovizia di strumenti che la
fase del giudizio offrirebbe.

Una simile rinuncia comporta una accelerazione dello svolgimento processuale, ma in modo da avvantaggiare l’accusa
perché rende legittima una sentenza di merito sulla base degli atti compiuti unilateralmente da P.G. e P.M.

Infatti, nessun imputato farebbe ovviamente una scelta così rischiosa ed autolesionistica, se non fosse per il carattere
premiale di questi procedimenti. La legge offre sensibili sconti di pena e cospicui vantaggi per incentivare la rinuncia alle
opportunità difensive delle quali l’imputato potrebbe giovarsi in dibattimento.

Ben diversa la ragione che determina la rinuncia all’udienza preliminare nel giudizio immediato richiesto dall’imputato (art 419
co.5), o all’intera fase preliminare del processo nei casi di giudizio direttissimo consensuale:

 qui è assente qualsiasi connotazione premiale.

Col consentire l’amputazione di una fase del procedimento penale per arrivare prima al giudizio, l’imputato rinuncia sì alla
possibilità di profittare di certe chances difensive, ma per tutelare meglio la propria situazione in vista di un irrevocabile e
pronosticabile proscioglimento in cambio di uno sconto di pena.

5. Procedimento di oblazione.
Il procedimento di oblazione è collocato nel codice penale, ed appartiene alle procedure speciali di tipo consensualistico.

 Consiste in una chiusura anticipata del processo, provocata da una richiesta dell’imputato, di regolare in denaro la
propria “pendenza” penale.

Il termine oblazione designa il comportamento del soggetto che “offre” una somma di denaro, al fine di conseguire
l’estinzione del reato, facendo cessare immediatamente il processo a suo carico.

Il rito è esperibile unicamente per reati contravvenzionali punibili con l’ammenda:

 In astratto (oblazione c.d. obbligatoria ex art 462 c.p.)  il giudice è tenuto ad accogliere la richiesta, se soltanto
l’imputato l’ha presentata ritualmente entro il termine prescritto.

L’unica eccezione è per i reati permanenti, insuscettibili di oblazione.

 In concreto (oblazione c.d. facoltativa ex art 162bis c.p.)  il giudice ha un certo margine di discrezionalità.

Il giudice deve rigettare la richiesta quando:


 ritenga di dover applicare la pena detentiva anziché quella pecuniaria;
 considera grave il fatto commesso e quindi incongrue l’”offerta” dell’imputato;
 nei casi di recidiva, abitualità e professionalità del reato.

I due tipi di oblazione differiscono anche sotto altri profili:

 quella obbligatoria  fissa in 1/3 del massimo dell’ammenda prevista in via edittale, la somma da pagare per
estinguere la contravvenzione (art 462 co.1 c.p.).
 quella facoltativa  impone il dimezzamento della massima ammenda prevista, per ottenere lo stesso risultato.

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Già nel corso delle indagini preliminari, la domanda di oblazione può essere presentata al P.M., il quale la inoltra al giudice
insieme col fascicolo dell’indagine.

Possono attivarsi sia l’imputato sia il difensore, senza bisogno di procura speciale.

Iniziato il processo, la richiesta va presentata direttamente al giudice, prima che sia aperto il dibattimento o prima che sia
emesso decreto penale di condanna.

Nel caso di oblazione facoltativa, la domanda può essere riproposta anche nel corso del dibattimento, fino all’inizio della
discussione finale.

Quest’ultima eventualità pone un problema di informazione per l’imputato, circa la possibilità di attivarsi:
 egli potrebbe persino ignorare l’esistenza di un procedimento a proprio carico, del quale rischierebbe di venire a
conoscenza a “giochi fatti”, dopo l’eventuale decreto di condanna.

Per scongiurare quest’eventualità, la legge prevede che il P.M. (all’atto di chiedere il decreto penale) informi l’imputato sia
della possibilità di essere ammesso all’oblazione, sia dei vantaggiosi effetti conseguibili tramite la stessa.

L’omesso avvertimento sarebbe lesivo del diritto di difesa, poiché priverebbe l’imputato di una chance processuale.

Non è prevista, però, alcuna nullità; se il P.M. non adempia a questo suo dovere, l’avviso dev’essere fatto dal giudice,
contestualmente all’emissione del decreto penale per il fatto oblazionabile, reintegrando l’imputato a chiedere l’oblazione.

Il termine per la richiesta di oblazione è perentorio, ritenendo inammissibile la richiesta tardiva.

Se nel dibattimento fosse contestato un fatto diverso o un reato concorrente suscettibile di oblazione, i termini si riaprirebbero.

Se la richiesta è accolta, il giudice dichiara non doversi procedere per estinzione del reato con sentenza inappellabile.

In caso di rigetto, il rito è destinato a proseguire nella forma ordinaria o secondo le regole del procedimento per decreto, ma
imputato e difensore possono rinnovare la richiesta di oblazione anche nel corso del dibattimento di primo grado, fino all’inizio
della discussione finale.

La richiesta potrebbe essere riproposta anche in limine al giudizio di secondo grado, sul presupposto di un erroneo rigetto da
parte del giudice di prima istanza.

In tal caso, il giudice di appello concede un termine di 10 giorni entro i quali l’imputato è ammesso al pagamento della
sanzione pecuniaria; ciò per conseguire anche tardivamente l’estinzione del reato negatogli per sbaglio in precedenza.

6. Offerta riparatoria finalizzata alla declaratoria di estinzione del reato.


L’art 162ter c.p. consente una chiusura anticipata del processo, promettendo l’estinzione del reato all’imputato che ripara
integralmente il danno procurato alla vittima.

La regola trova applicazione solo per i reati perseguibili a querela, purché questa sia soggetta a remissione.

Sono esclusi i delitti di violenza sessuale per i quali la querela è irrevocabile.

Tale procedimento consente di giungere all’estinzione del reato, evitando il dibattimento, anche a prescindere dalla rimessione
della querela.

È escluso, inoltre, il delitto di atti persecutori che il d.l. 148/2017 ha sottratto a tale definizione anticipata.

Quanto al presupposto per la definizione del rito e per l’estinzione del reato, non è essenziale che l’offerta risarcitoria sia
accettata dalla persona offesa; è sufficiente che il giudice consideri l’offerta congrua e proporzionata al danno cagionato.

Sul piano procedurale, la legge contiene una scarna previsione circa il termine entro il quale formulare la proposta:

 Prima che sia dichiarato aperto il dibattimento di primo grado (come accade per l’oblazione).

Non è previsto nessun terminus a quo, ma si ritiene che la richiesta possa essere avanzata già nel corso delle indagini
preliminari.

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Sarebbe opportuno estendere a tale procedimento la disciplina secondo la quale l’indagato va avvertito dal P.M. della
possibilità di conseguire l’estinzione del reato, riparando il danno.

Per il resto, altri dettagli procedurali non trovano esplicita previsione legislativa, dunque spetta all’interprete individuare la
soluzione di taluni interrogativi.

In primis, riguardo alla posizione della persona sottoposta alle indagini o dell’imputato e al loro diritto di essere informati
circa questa chances di uscita collaterale dal procedimento penale.

Nella procedura di oblazione di fronte ad un reato contravvenzionale, il P.M. è tenuto ad avvisare l’indagato della facoltà di
ottenere una declaratoria di estinzione del reato dietro pagamento di una sanzione pecuniaria.

Analogo dovere incombe sul giudice che dovesse emettere un decreto penale di condanna per un reato contravvenzionale.

Un avviso dello stesso tenore dovrebbe dato anche all’indagato/imputato per i delitti che rientrano nell’ambito applicativo
dell’art 162ter c.p.

Sarebbe opportuno che il P.M. avviasse l’interessato della prospettiva che l’art 162ter c.p. gli apre. In mancanza di tale avviso,
dovrà essere il giudice a consentire (con apposita menzione del decreto di condanna) un ripristino per l’imputato della facoltà
riparatoria concessagli.

È da tener presente che molti dei delitti cui risulta applicabile l’art 162ter possono ben essere estranei all’ambito applicativo
del procedimento per decreto (es. la truffa semplice).

L’offerta riparatoria può essere presentata già nel corso delle indagini preliminari, prima che il P.M. eserciti l’azione penale, o
successivamente fino alla dichiarazione di apertura del dibattimento.

L’ammissibilità della domanda è vagliata dal giudice destinatario della richiesta, alla stregua del criterio della congruità della
somma offerta a riparare il danno cagionato (statuizione che il giudice adotta dopo aver sentito “le parti e la persona offesa dal
reato”).

L’accoglimento della richiesta apre la via alla declaratoria di estinzione del reato, che sarà sancita:

 con provvedimento di archiviazione, se l’offerta è presentata nel corso delle indagini preliminari;
 o con sentenza di non doversi procedere, quando la domanda di riparazione fosse successiva.

Infine, se la richiesta di riparazione del danno fosse rigettata, si andrebbe verso il giudizio, ma una nuova offerta di
riparazione può essere reiterata, finché il dibattimento rimane aperto.

Una rimessione in termini è poi prevista nel caso di mutata qualifica giuridica del fatto, come accadrebbe se (durante il
dibattimento), l’imputazione di estorsione fosse derubricata in esercizio arbitrario delle proprie ragioni mediante violenza
sulle cose, perseguibile a querela.

In caso di rigetto dell’offerta riparatoria resterebbe aperta, per l’imputato, la possibilità di attivarsi con la richiesta di altro rito
alternativo (patteggiamento, giudizio abbreviato, sospensione del processo con messa alla prova).

7. Applicazione della pena su richiesta delle parti. TITOLO II (Art 444-448)


L’applicazione di pena su richiesta delle parti (per semplicità “patteggiamento”) si risolve in una rinuncia dell’imputato a
contestare l’accusa.

La prima tappa dell’istituto è il 1981, la cui normativa attribuiva all’imputato la facoltà di provocare una chiusura anticipata del
processo e di evitare il dibattimento, chiedendo l’applicazione di sanzioni sostitutive delle pene detentive brevi.

Tale esperienza positiva ha portato il legislatore ad ampliarne la portata nel corso degli anni successivi.

Con la legge 134/2003, la possibilità di patteggiare la pena è stata estesa ben oltre i confini della criminalità bagatellare, alla
quale questo tipo di procedura premiale era inizialmente associata.

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Oggi, il patteggiamento è contenuto nel Titolo II (art 444-448), ed è esperibile per una serie di atti identificati ex art 444 co.1
attraverso il riferimento alla sanzione in concreto applicabile;

vi rientrano i delitti e le contravvenzioni punibili con:

 Pena pecuniaria,
 o con una delle sanzioni sostitutive previste dalla l. 689/81,
 o con una pena detentiva non superiore a 5 anni.

La pena pecuniaria può essere applicata congiuntamente alla pena detentiva, tenendo conto ai criteri di conversione.

Sono ammessi al patteggiamento reati punti con pene che, in astratto, superano i 5 anni di reclusione (ad esempio, con le
diminuzioni consentite dalle attenuanti, potrebbero rientrarvi anche i reati come rapina aggravata, estorsione, omicidio
volontario).

Il patteggiamento risulta escluso nei procedimenti:


 per delitti di criminalità organizzata (art 51 co.3bis), di terrorismo (art 51 co.3quter), o per determinati delitti
contro la personalità individuale o contro la libertà sessuale;
 nonché con riguardo a imputati che, dovendo rispondere di reati punibili con sanzione detentiva superiore a 2 anni,
siano delinquenti abituali, professionali o per tendenza o risultino plurirecidivi (art 444 co.1bis).

Nel caso di delitti contro la pubblica amministrazione, la richiesta di patteggiamento è ammessa a condizione che l’imputato
restituisca integralmente il prezzo/profitto del reato.

Il rito è poi precluso nel procedimento minorile; ed è incompatibile con la giurisdizione tendenzialmente conciliativa del
giudice di pace.

Circa la “premialità”, questa è ridimensionata per chi accetta di “patteggiare” pene detentive da 2 a 5 anni; dunque possono
delinearsi due tipologie di patteggiamento:

 maius (patteggiamento allargato)  concernente i reati più gravi;


 minor (patteggiamento ristretto).

Nei procedimenti a carico di persone giuridiche il patteggiamento è ammesso per tutti gli illeciti sanzionati con pena
pecuniaria, ma per quelli sanzionati con altra pena il rito speciale è esperibile a condizione che non si debba applicare, in via
definitiva, una delle sanzioni interdittive.

Fulcro del rito speciale è l’accordo fra le parti principali del processo (imputato e P.M.); accordo circa il quantum di pena da
applicare. Basta il disaccordo di una delle due a rendere impraticabile la soluzione patteggiata.

L’accordo, però, è condizione solo necessaria (non di per sé sufficiente) per la semplificazione, poiché la legge impone al
giudice di verificare i presupposti dell’intesa raggiunta, alla luce dei parametri sostanziali e processuali che andremo ad
illustrare.

Oggetto dell’accordo è la pena da applicare per il fatto descritto nell’imputazione.

Dal punto di vista dell’imputato, ciò comporta rinunce a diritti che gli spetterebbero in base alle ordinarie regole processuali:

 rinuncia ad esercitare il diritto alla prova, rinuncia a controvertere sul fatto e sulla relativa qualifica giuridica, rinuncia
a controvertere sulla specie e sulla misura della pena da applicare.

In compenso, ottiene una serie di vantaggi (taluni dei quali comuni ai due tipi di patteggiamento “maior e minus”):
 lo sconto di pena  la sanzione va diminuita “fino ad 1/3”;

 assenza di effetti pregiudizievoli della sentenza che applica la pena concordata  nessun effetto vincolante nei
giudizi civili e amministrativi.

 Assenza di pubblicità  incentivo alla scelta del rito speciale per imputati che, avendo una fama e notorietà da
difendere, preferiscono sottrarsi ai “riflettori” della scena dibattimentale (anche, magari, qualora avessero ragione).

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Vantaggi ulteriori, sono collegati al solo patteggiamento minus:

 Affrancamento dell’imputato dall’obbligo di pagare le spese processuali;


 Esenzione da pene accessorie e misure di sicurezza (art 445 co.1), eccettuata la confisca;
 La non menzione della sentenza nel certificato generale del casellario giudiziale richiesto dal privato.

Ulteriore vantaggio è la possibilità per l’imputato che patteggia, di conseguire l’estinzione del reato per fatti che (giudicati in
via ordinaria) non rientrerebbero nell’ambito dell’art 167 c.p.:

 La pena concordata che non superi i 2 anni di detenzione, può essere sospesa sub condicione e la relativa condanna
può sfociare in una declaratoria di estinzione del reato,
- se nei 5 anni post sententiam l’imputato non commette un altro delitto
- o se, nei 2 anni successivi, non si rende responsabile di una contravvenzione della stessa indole di quella che
aveva costituito oggetto di accordo (art 445 co.2)

Dal punto di vista dell’accusa, la scelta di patteggiare comporta:

 la rinuncia a controvertere sulle questioni di fatto e di diritto connesse col tema dell’imputazione.

Diversamente dall’imputato, il P.M. è tenuto ad effettuare la propria scelta alla stregua di parametri obbiettivi, operando
nell’interesse della legge e affidandosi a quegli stessi criteri che la legge impone al giudice per stabilire se la richiesta di
patteggiamento vada ammessa o rigettata.

1) Il P.M. esprime il proprio consenso dopo aver appurato che il materiale d’indagine è sufficiente per applicare la pena
richiesta (altrimenti prosegue le indagini o chiede l’archiviazione della notizia di reato o la sentenza di non luogo a
procedere);

2) deve, inoltre, verificare la corretta qualificazione giuridica assegnata al fatto dall’imputato nella richiesta di patteggiamento
o nell’atto di assenso;

3) deve chiedersi se all’esperibilità del rito non ostino i motivi di esclusione oggettiva o soggettiva menzionati nell’art 444
co.1bis;

4) infine, deve interrogarsi sulla congruità della sanzione richiesta rispetto alla gravità del fatto e alla personalità del suo
autore.

Il P.M. non è tenuto a dare conto alle ragioni che lo spingono a optare per il patteggiamento; dunque l’uso di tali criteri non
può essere sindacato quando viene raggiunto l’accordo con l’imputato.

Inoltre, se agisse senza tener conto dei criteri (dunque perseguendo fini di politica criminale), trascenderebbe i limiti delle sue
attribuzioni, finendo con l’introdurre un anomalo elemento di discrezionalità nel modo di coltivare l’iniziativa penale.

Il motivo per cui il consenso del P.M. al patteggiamento non necessita di motivazione è perché ci penserà poi il giudice a vagliare
se il rito possa aver luogo.

Prima di pronunciarsi sul merito della questione, il giudice deve condurre una verifica sulla ammissibilità della richiesta; a
meno che non ricorra una delle situazioni ex art 129, qual caso dovrà pronunciare sentenza di proscioglimento.

Il giudice compie il vaglio di ammissibilità:

 verificando che il reato rientri fra quelli suscettibili di essere definiti con questa speciale procedura;
 in secondo luogo, appurando che la qualificazione giuridica prospettata dalle parti sia corretta;
 infine, valutando che la pena dalle stesse indicata sia congrua rispetto alle finalità che le sono proprie, ex art 27 co.3 Cost.

Quanto all’eventuale incompletezza dell’indagine, il giudice deve assolvere l’imputato, se a suo carico non risulta alcun
elemento, sicché grava sul P.M. l dovere di negare il proprio consenso a fronte di un’imputazione non sufficientemente
suffragata da elementi conosciti acquisiti nella fase preliminare.

Insomma, conviene al P.M. riflettere bene prima di prestar consenso alla richiesta di patteggiamento, per evitare che
l’insufficienza dello sforzo investigativo sfoci in una (per lui) indesiderata assoluzione.
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Invece, il dissenso opposto alla richiesta dell’imputato va sempre motivato (art 446 co.6); questo perché tale dissenso è idoneo
a influire sullo svolgimento procedurale, precludendo il rito speciale, cioè impedendo la soluzione anticipata del processo.

Col suo dissenso, il P.M. impone la discussione dibattimentale del caso, ma non pregiudica in alcun modo il contenuto della
decisione che si sarebbe dovuta e potuta applicare all’esito del patteggiamento:
 non preclude una tardiva applicazione della pena chiesta dall’imputato, ogni volta che il giudice ritenga ingiustificato
il dissenso stesso.

Ma per poter esercitare tal funzione critica, i giudici devono esser messi in condizione di conoscere i motivi di dissenso del
P.M. (ecco perché il dissenso va necessariamente motivato e giustificato).

Se il dissenso non fosse motivato, al giudice del merito spetterebbe l’ultima parola sulla meritevolezza dello sconto, che la
legge offre all’imputato disposto ad accettare la pena richiesta.

8. Segue: introduzione e svolgimento procedurale.


Il patteggiamento è introdotto da una richiesta presentata al giudice da una delle due parti (imputato o P.M.). Alla richiesta di
una parte, deve poi seguire il consenso prestato dall’altra parte non richiedente.

Richiesta e consenso sono formulati:

 oralmente, se presentati in udienza.


 In forma scritta negli altri casi (art 446 co.2).

Trattandosi di atti negoziali, ne è requisito indispensabile la volontarietà. Ciò comporta che l’imputato deve agire
personalmente o tramite il difensore munito di procura speciale.

Per le persone giuridiche agisce il rappresentante legale, purché questi non abbia la veste di imputato del reato da cui dipende
l’illecito amministrativo, nel qual caso si dovrà procedere alla nomina di un rappresentante ad hoc.

Un vizio della volontà renderebbe invalidi sia la richiesta che il consenso e sarebbe motivo di inammissibilità del rito speciale;
verificare l’assenza di vizi rientra tra i doveri d’ufficio del giudice.

Quanto al termine di presentazione, la richiesta può essere avanzata già nel corso dell’indagine preliminare (art 447 co.1),
nonché nella successiva udienza preliminare, finché le parti non hanno concluso la relativa discussione.

Altri termini sono imposti nei procedimenti privi di udienza preliminare:

1) Nel procedimento monitorio la richiesta va proposta dall’imputato contestualmente all’opposizione contro il decreto di
condanna (art 461 co.3).

2) Negli altri procedimenti privi di tale fase, il termine ultime cade sempre nella fase predibattimentale:
- Entro 15 giorni dalla notificazione del decreto di citazione, quando si procede con giudizio immediato (art 458 co.1);
- Prima che sia dichiarato aperto il dibattimento (art 492), nel giudizio direttissimo e in quello conseguente a citazione
diretta davanti al tribunale monocratico.

Entro questi stessi termini, la parte che non ha formulato la richiesta, ha facoltà di prestare il proprio consenso, benché, in
precedenza, tale consenso fosse stato espressamente negato (art 446 co.4).

Una speciale rimessione in termini assiste l’imputato erroneamente processato come assente, purché in grado di documentare
l’incolpevole ignoranza del processo a suo carico:

 Il processo regredisce alla fase introduttiva del giudizio e all’imputato è riconosciuto il diritto di chiedere il
patteggiamento in limine al dibattimento.

Una sorta di rimessione in termini favorevole alla difesa è ammessa a fronte di una contestazione del fatto diverso, del reato
concorrente o di una circostanza aggravante (art 516-517), quando all’imputato non possa essere rimproverata l’omessa,
tempestiva richiesta di patteggiamento in ordine alle nuove impugnazioni.

La legge processuale non precisa quale sia il contenuto della richiesta, ma si ricava che essa deve almeno indicare il fatto da
giudicare, la relativa qualificazione giuridica e la pena ritenuta congrua.

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248

Assume un contenuto particolare la richiesta presentata dal P.M. durante l’indagine preliminare.

Qui, l’introduzione del rito coincide sempre con l’esercizio dell’azione penale, sicché la richiesta o il consenso provenienti
dall’organo requirente debbano necessariamente contenere l’atto di imputazione.

Il P.M. deve astenersi dal presentare una richiesta di patteggiamento o prestare il proprio consenso, quando ancora
l’indagine è incompleta e quando l’esito investigativo appaia insufficiente per sostenere l’accusa in giudizio (in tal caso
dovrebbe essere avviata la procedura di archiviazione).

Il consenso dell’imputato rileva qui come atto di volontà:


 È privo di valore probatorio, non equivale ad assunzione di responsabilità ed è inidoneo a colmare eventuali
incompletezze investigative.

Si ritiene che la richiesta di patteggiamento sia revocabile o modificabile dal proponente finché non interviene il consenso
dell’altra parte.

Ciò risulterebbe essere confermato dalla previsione di un (eccezionale) caso di irrevocabilità:


 per l’ipotesi in cui la richiesta sia presentata durante l’indagine preliminare e il giudice abbia assegnato un termine
all’altra parte per esprimere il proprio consenso;

la legge vieta alla parte istante di revocare/modificare la richiesta, finché quel termine è in corso (art 447 co.3). Dunque,
negli altri casi, la revoca/modifica della richiesta è consentita.

L’intesa che accusa e difesa raggiungono sulla pena da applicare obbliga il giudice a decidere circa l’ammissibilità del rito
speciale.

Il giudice sarà tenuto a verificare:

 l’insussistenza di cause di non punibilità ex art 129, che altrimenti lo obbligherebbero a prosciogliere l’imputato;

 l’esistenza dell’accordo fra le parti e l’effettiva volontà delle stesse di chiudere in anticipo il processo;

 accerta che non sussista una delle esclusioni oggettive e soggettive indicate nell’art 444 co.1,1bis e ter;

 infine, controlla la corretta qualificazione giuridica data al fatto dalle parti e la congruità della pena dalle stesse
proposte.

Se concluso con esito positivo, il vaglio di ammissibilità impone una soluzione di merito conforme all’accordo intervenuto tra
le parti, dovendo il giudice applicare la pena esattamente nella specie e nella misura quantificata nell’accordo, non a pena
diversa, nemmeno se questa fosse inferiore a quella prospettata nell’accordo fra le parti.

Invece, dove il giudice non condivida il “progetto di sentenza” prospettato dalle parti, deve rigettare la richiesta di
patteggiamento, determinando così la prosecuzione del procedimento lungo il normale iter verso il dibattimento.

Tuttavia, la dichiarazione di inammissibilità non preclude nuove richieste di fronte al medesimo giudice, finché è aperto il
termine per la loro presentazione.

Anche l’inammissibilità dichiarata dal giudice primo destinatario della domanda di patteggiamento, è esposta al successivo
sindacato di altro giudice, rispettivamente al sindacato:

 del giudice dibattimentale  se la richiesta di patteggiamento è stata rigettata dal G.I.P.;


 del giudice di appello  se la richiesta è stata presentata per la prima volta e rigettata dal giudice dibattimentale;
 dal giudice di cassazione  nei casi di citazione diretta e direttissima aventi ad oggetto reati non appellabili.

Un caso particolare di inammissibilità è provocato dal dissenso che il P.M. oppone alla richiesta dell’imputato.

Tale disaccordo impedisce solo la soluzione “patteggiata” del rito sul piano processuale; non preclude, invece, l’applicazione
(nella fase del giudizio) della pena, nella specie e misura chiesta dall’imputato.

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249

Ciò accade quando il giudice del dibattimento (o d’appello) reputi quel dissenso privo di adeguata giustificazione, alla stregua
dei criteri a cui anche il P.M. è vincolato.

Infatti, il P.M. è tenuto a spiegare il proprio dissenso.

Si vuole, in tal modo, assicurare l’indipendenza del giudice di merito di fronte all’atto negativo del P.M.

Se il giudice intende contestare il dissenso del P.M., o se non condivide la declaratoria di inammissibilità del giudice primo
destinatario della richiesta di patteggiamento, l’imputato ha facoltà di reiterare la richiesta davanti al giudice dibattimentale o
a quello dell’impugnazione.

Per verificare la fondatezza del dissenso o della declaratoria di inammissibilità, il giudice ordina l’esibizione degli atti
contenuti nel fascicolo del P.M. prima di dichiarare aperto il dibattimento e, se la verifica dà esito negativo (dopo che gli atti
esibiti sono stati inseriti nel fascicolo dibattimentale), il medesimo giudice applica lo sconto di pena erroneamente escluso
nella fase precedente.

9. Segue: la sentenza.
Il patteggiamento non esige un accertamento positivo della responsabilità penale.

La sentenza contiene un semplice accertamento negativo della non punibilità, risolvendosi nella constatata insussistenza delle
cause di proscioglimento ex art 129 co.1.

L’insufficienza o contraddittorietà di prove non sarebbero di ostacolo ad una applicazione della pena su richiesta delle parti,
poiché il giudice (in sede di patteggiamento) sarebbe tenuto a prosciogliere solo se risultasse provata una delle cause ex art
129, o se in atti non vi fosse prova alcuna di colpevolezza.

Per riassumere, la situazione di incertezza non gioca a favore dell’imputato (come invece accadrebbe nel dibattimento o nel
giudizio abbreviato.

Nel patteggiamento la decisione è presa “allo stato degli atti”, cioè sulla base del materiale raccolto nell’indagine, che non può
essere integrato con altro materiale probatorio.

Bisogna riconoscere che, fra la sentenza di condanna emessa al termine del dibattimento e quella che applica la pena richiesta
dalle parti già nell’indagine o nell’udienza preliminare, sussiste uno scarto evidente perché diversa è la regola di giudizio da
applicare.

La giurisprudenza di legittimità ritiene applicabile l’in dubio pro reo (art 530 co.2), quando a pronunciarsi sulla richiesta di
patteggiamento sia il giudice del dibattimento o il giudice dell’impugnazione.

Ciò esclude, dunque, l’inapplicabilità del suddetto principio nei patteggiamenti conclusi prima del dibattimento.

Inoltre, tali sentenze hanno una qualità diversa da quelle di condanna.

Sta in questa diversità la problematica questione riguardante la natura della sentenza che applica la pena richiesta dalle parti, la
cui soluzione è data dall’art 445 co.1bis, il quale equipara la suddetta sentenza “a una pronuncia di condanna”.

Presa alla lettera, tale disposizione ravvisa nella sentenza di patteggiamento una condanna penale, tutte le volte che la legge
collega certi effetti all’esistenza di una sentenza condannatoria.

Talvolta è la legge stessa ad escludere che la sentenza in questione vada considerata come decisione di condanna.

Così, è stabilito, limitatamente alle ipotesi di patteggiamento minus, che tale sentenza non può applicare pene accessorie,
nemmeno quando queste sono collegate ex lege alla condanna per determinati reati.

È anche inidonea a sortire effetti vincolanti in sede civile risarcitoria, o in sede amministrativa o in sede civile extra-
risarcitoria.

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Unica eccezione è l’effetto vincolante che la sentenza di patteggiamento è capace di produrre nel procedimento disciplinare:

 L’art 445 co.1bis impone all’autorità disciplinare di considerare accettata la responsabilità penale di colui che patteggia.

Sennonché, ciò ha creato non poche incertezze, perché la sentenza ex art 445 pregiudica l’esito del giudizio preliminare, ma è
priva di effetti vincolanti nei giudizi civili e amministrativi.

La Corte Costituzionale ha considerato ragionevole questo eccezionale caso di pregiudizialità della sentenza patteggiata, sul
rilievo che il giudizio disciplinare ha una sua peculiarità e costituisce una species a sé stante, in modo da giustificare una
regolamentazione distinta rispetto ai giudizi civili o amministrativi soggetti all’effetto vincolante delle sole sentenze emesse a
seguito di dibattimento o giudizio abbreviato.

Talvolta, poi, la legge ribadisce la regola espressa dall’art 445 co.1bis mettendo sullo stesso piano la comune sentenza di
condanna e quella di patteggiamento, anche in situazione in cui rileva l’effettiva responsabilità del condannato, pur considerata
come indice di pericolosità:

 Se ne ha dimostrazione, ad esempio, nella normativa speciale antimafia dove lo status di “condannato” ex art 444 è
spesso equiparato a quello di condannato con sentenza dibattimentale.

La giurisprudenza era giunta a negare la natura condannatoria delle sentenze di patteggiamento ai fini del giudizio di
revisione.

La norma giurisprudenziale è stata ribaltata nel 2003, provvedendo a novellare l’art 629 includendo fra i provvedimenti
suscettibili di revisione anche le “sentenze emesse ex art 444 co.2”.

 Da un lato, la scelta legislativa contribuisce ad avvicinare la sentenza di patteggiamento alla sentenza di condanna.

 Dall’altro, essa conferma l’irriducibilità ad una vera e propria condanna di una sentenza (che oggi può comportare
l’applicazione di una pena detentiva fino a 5 anni)

Il dubbio circa la natura di questa particolare sentenza (di patteggiamento) è affiorato di nuovo nell’applicazione di quelle
previsioni normative, che allo status di condannato associano automaticamente determinati effetti, senza precisare
ulteriormente se gli stessi si producono anche a seguito di sentenza ex art 444.

Inizialmente, la giurisprudenza si è andata orientando nel senso di negare la natura condannatoria alla sentenza in
questione.

L’atteggiamento mutò dopo la l.134/2003 in relazione agli esiti di un patteggiamento maior:


 Sentenze che applicavano una pena superiore ai 2 anni sembravano prossime alla condanna più di quelle che
chiudevano un patteggiamento minus

Le si ritenne, dunque, idonee a far revocare la sospensione condizionale della pena in precedenza concessa.

Sennonché tale distinzione fra sentenze non durò a lungo. Infatti, la giurisprudenza avrebbe riconosciuto la natura
prevalentemente condannatoria di tutte le sentenze irroganti pene richieste dalle parti.

Da ricordare è la pronuncia delle Sezioni Unite del 2005, secondo cui ogni sentenza di patteggiamento è idonea a determinare
la revoca della sospensione condizionale della pena.

Più in generale, le sentenze ex art 444 sortiscono gli ordinari effetti della condanna, salvo che la legge non disponga
diversamente.

Ulteriore caratteristica delle sentenze di patteggiamento è la loro inappellabilità.

Logico è ritenere, infatti, che il consenso prestato all’applicazione della pena precluda il secondo grado di giudizio.

L’unico caso di appellabilità, previsto ex art 448 co.2, è a vantaggio del P.M, il quale può appellare la sentenza con la quale il
giudice del dibattimento ha applicato la pena richiesta dall’imputato, ritenendo ingiustificato il suo dissenso.

Il P.M. è ammesso a ridiscutere davanti al giudice di secondo grado il punto controverso che lo ha visto in disaccordo con il
giudice di primo grado.

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Se al giudice dell’impugnazione quel suo dissenso apparisse ingiustificato, dovrebbe seguirne un giudizio ordinario che solo il
giudice territoriale può chiudere con una sentenza di merito.

Di regola, la sentenza ex art 444 è impugnabile col solo mezzo del ricorso per cassazione, per alcuni motivi indicati nell’art 448
co.2bis (introdotto dalla riforma Orlando):

 Errores in procedendo (attinenti a vizi della volontà espressa dall’imputato nel formulare la richiesta di
patteggiamento o alla mancata correlazione fra quest’ultima e il contenuto della sentenza);

 Errores in iudicando  identificati nella erronea qualifica giuridica dedotta nell’accordo fra le parti e nella errata
commisurazione della pena.

Eventuali errori di denominazione della pena o di calcolo nella sua determinazione sono rimediabili con la procedura di
correzione, attivabile anche ex officio.

10. Segue: azione civile e patteggiamento.


Il patteggiamento è una partita a due tra P.M. e imputato,

Il giudice, nella veste di arbitro, deve verificare l’ammissibilità del rito, e vagliare il “progetto di sentenza” fornitogli dalle parti
principali del processo.

Il danneggiato da reato non vi può intervenire, né per esercitare azione risarcitoria, né per opporsi alla definizione anticipata del
giudizio.

In questo procedimento speciale, l’azione civile per il risarcimento del danno da reato risulta preclusa (come conferma l’art
444 che sottrae al giudice il potere di decidere la relativa questione).

Questo perché il tipo di procedimento penale considerato è “incompleto”:


 Un procedimento definito allo stato degli atti, alla stregua di una deliberazione del materiale di indagine, non è la
sede idonea per accertare la responsabilità dell’imputato, nemmeno sotto il profilo civilistico per l’eventuale danno
cagionato dal reato.

Al più, il danneggiato già costituitosi parte civile, può esigere dall’imputato il pagamento delle spese processuali fino a quel
momento sostenute.

Di regola, il processo civile eventualmente instaurato dal danneggiato uscito forzosamente dal processo penale non sarebbe
destinato a subire la sospensione ex art 75 co.3, né sarebbe pregiudicato dall’esito della procedura di patteggiamento.

Non è una vera eccezione alla regola appena illustrata, il potere che la legge riconosce al giudice dell’impugnazione di
decidere sulla questione civile con la sentenza di patteggiamento (art 448 co.3).

11. Giudizio abbreviato. TITOLO I (Art 438-443)


Tutti i reati possono essere giudicati in forma abbreviata (TITOLO I art 438-443), cioè:

 giudicato un giudice monocratico;


 nessun bisogno di dibattimento;
 sulla base degli atti di indagine,

Eccezionali, sono i casi in cui il giudizio abbreviato non è praticabile, a causa del tipo di sanzione da applicare.

Ciò è quel che accade nel processo a carico di persone giuridiche, quando il giudice ritenga di dover irrogare la sanzione
interdittiva perpetua.

È, inoltre, precluso (come il patteggiamento) nella giurisdizione conciliativa del giudice di pace.

La fase introduttiva del rito prevede 2 diversi moduli procedurali, offerti alla libera ed esclusiva scelta dell’imputato.

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1) Il primo modulo è imperniato su una richiesta semplice  l’imputato si limita a chiedere che “il processo sia definito
all’udienza preliminare allo stato degli atti” come dice l’art 438 co.1 (“Presupposti del giudizio abbreviato”).

2) Il secondo modulo prevede una richiesta complessa (o condizionata)  nel chiedere il giudizio abbreviato, l’imputato pone
come condizione che siano assunti taluni mezzi di prova, per colmare un supposto deficit conoscitivo intorno alla questione
di merito, che si pretende insufficientemente chiarita dalla precedente attività investigativa.

Complessa nella sua struttura, tale richiesta esige un controllo di ammissibilità complesso da parte del giudice.

In entrambi i casi, la richiesta di giudizio abbreviato è un atto personalissimo, che il difensore può presentare in vece
dell’imputato solo se munito di procura speciale.

Nei processi a carico di persone giuridiche, provvede il legale rappresentante.

L’imputato sa (anzi, deve sapere) che chiedere il giudizio abbreviato implica dei costi sul piano delle garanzie; infatti, in cambio
dello sconto di pena egli rinuncia ad una serie di diritti che la procedura ordinaria gli garantirebbe:

 Rinuncia al contraddittorio nella formazione della prova;

 Rinuncia al diritto alla prova  rinuncia totale, nel caso di richiesta semplice; parziale, nel caso di richiesta complessa,
condizionata a una integrazione probatoria.

 Rinuncia ad eccepire vizi procedurali intercorsi in precedenza, se sanzionati con nullità relative o a regime intermedio.

La richiesta funge qui da causa di sanatoria di nullità non insanabili.

 Rinuncia a eccepire cause di inutilizzabilità della prova che non derivino dalla “violazione di un divieto probatorio”;

 Rinuncia a eccepire l’incompetenza territoriale dell’organo giudicante  ora, chi chiede il giudizio abbreviato sa che,
salvo eccezioni, non potrà contestare la competenza territoriale del giudice procedente.

12. Segue: termini per la richiesta e decisioni sulla sua ammissibilità.


L’imputato (o il legale rappresentante dell’ente) che intende profittare del giudizio abbreviato, ne fa richiesta durante l’udienza
preliminare, “fino a che non siano presentate le conclusioni a norma degli art 421 e 422” (art 438 co.2).

La richiesta va presentata dopo le conclusioni del P.M. e, al più tardi, quando il difensore formula le proprie conclusioni;
in caso di più imputati, per ciascuno di essi il termine coincide con l’argomentazione finale del rispettivo difensore.

La richiesta in questione può essere presentata, al più presto, in limine all’udienza preliminare.

Tipica manifestazione di scelta difensiva, la facoltà di richiedere il giudizio abbreviato va garantita anche nei procedimenti
privi di udienza preliminare.

Ecco spiegato il motivo per cui la legge ne regola appositamente la fase introduttiva nei diversi procedimenti semplificati ex
auctoritate, segnatamente, nel giudizio immediato, nel giudizio direttissimo, nel procedimento semplificativo davanti al
giudice monocratico e nel procedimento per decreto.

1) Nel giudizio immediato (solo se promosso per iniziativa del P.M.) l’imputato può presentare la richiesta al giudice delle
indagini preliminari, dopo che questi gli abbia notificato il decreto di citazione a giudizio, e precisamente, entro 15 giorni
dall’ultima notifica del decreto stesso all’imputato, o dell’avviso al difensore, della data fissata per il giudizio.

La richiesta va poi comunicata al P.M. per informarlo del cambiamento di rotta che l’imputato vuole imprimere al processo.

Dell’udienza nella quale il giudizio abbreviato si svolgerà, il giudice deve dare avviso a tutti gli interessati (P.M., imputato,
difensore ed eventuale vittima del reato) almeno 5 giorni prima.
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2) In caso di giudizio direttissimo, e a seguito di citazione diretta davanti al tribunale in composizione monocratica, dove il
rinvio a giudizio non è soggetto al vaglio preliminare del G.I.P. o G.U.P., la richiesta è presentata al giudice dibattimentale, in
udienza, prima che sia dichiarato aperto il dibattimento.

3) Nel procedimento per decreto, l’opponente può chiedere il giudizio abbreviato al giudice che ha emesso la condanna, il
quale fissa l’udienza per il giudizio, dandone avviso a tutti gli interessati con almeno 5 giorni di anticipo sull’udienza
medesima, per consentire la preparazione della discussione e dell’eventuale integrazione probatoria.

Soccorre anche qui (nel giudizio abbreviato) la possibile rimessione in termini ex art 489 co.2 per l’imputato erroneamente
dichiarato assente (in analogia a quanto visto per il patteggiamento).

Infine, la richiesta può essere presentata anche nel corso del dibattimento, quando il P.M. abbia proceduto a nuove
contestazioni ex art 516 e 517.

Come per l’oblazione e patteggiamento, la contestazione del fatto diverso, del reato connesso ex art 12 lett.b, della circostanza
aggravante, rimette l’imputato in termini per accedere al rito abbreviato.

Presentata la richiesta, incombe sul giudice che la riceve, il dovere di controllarne l’ammissibilità.

Il vaglio è condotto diversamente a seconda che si tratti di richiesta semplice o complessa:

A. Nel caso di richiesta semplice, di regola, il giudice si limita ad un controllo meramente formale:
 Verifica se l’atto di parte sia stato presentato ei termini prescritti (art 438 co.2);
 Se sia riconducibile ad una scelta volontaria dell’imputato, eventualmente rappresentato da procurato speciale;
 Se la volontà di essere giudicato “allo stato degli atti” risulti espressa in forma inequivoca.

Solo per le richieste semplici provenienti dal rappresentante legale della persona giuridica il vaglio di ammissibilità implica
una valutazione discrezionale circa la meritevolezza di una pena.

Quando dà esito positivo, il controllo sulla richiesta semplice sfocia nell’ordinanza che ammette il rito speciale.

In caso contrario, la richiesta va rigettata e non può essere riproposta.

B. Nel caso di richiesta complessa, il giudice aggiunge al controllo meramente formale, un controllo sul contenuto della
domanda di parte.

Dato che, l’efficacia di tale richiesta, è subordinata ad una “integrazione probatoria” reputata decisiva dal richiedente, il
giudice verifica:
 se essa sia davvero “necessaria” per decidere il merito della causa
 e se l’assunzione delle prove richieste dall’imputato sia “compatibile con le finalità di economia processuale proprie
del procedimento” (art 438 co.5)

Seppur non menzionata, l’ammissibilità di questa specie di richiesta va vagliata anche alla stregua del criterio di validità dei
mezzi di prova dei quali l’imputato esige l’assunzione, giacché la prova vietata sarebbe suscettibile di acquisizione pure nel
giudizio abbreviato.

Entrambi i criteri impegnano la discrezionalità del giudice:


 il concetto di necessità evoca il nesso di pertinenza che deve collegare la reclamata integrazione probatoria con i fatti da
provare ai fini della decisione di merito, e l’idea di non superfluità della prova.
 Il criterio connesso con l’esigenza economica risulta molto elastico.

Per evitare qualsiasi dubbio di disparità difensive, con un intervento della Corte costituzionale è stato ritenuto sindacabile dal
giudice del dibattimento il rigetto che, per ragioni di economia processuale, il G.I.P. o il G.U.P. oppone alla richiesta complessa.

Va affrontato a parte il caso dell’eventuale rigetto opposto per gli stessi motivi del giudice del dibattimento, quando il rito
abbreviato è chiesto dopo l’instaurazione del giudizio direttissimo o nei processi a citazione diretta.

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La ragione del diverso trattamento risiede nella circostanza che primo destinatario di una richiesta complessa è proprio il
giudice del dibattimento.

In tal caso, non rimane che sperare nel giudice d’appello, al quale l’imputato può rivolgersi chiedendogli di censurare la
decisione con la quale il giudice dibattimentale ha ingiustificatamente rigettato la richiesta di integrazione probatoria, in tal
modo privandolo dello sconto di pena che ne sarebbe conseguito.

Pertanto, se al termine del dibattimento il giudice si dovesse rendere conto di aver sbagliato nel rigettare in limine litis la
richiesta di giudizio abbreviato, dovrebbe applicare lo sconto di pena, benché non si sia realizzata alcuna economia
processuale.

Ma torniamo ai compiti del G.I.P. o del G.U.P. destinatario della prima richiesta. Egli decide con ordinanza, se ammettere o
meno il rito speciale.

L’eventuale rigetto della domanda dell’imputato non impedisce la rinnovazione della richiesta, davanti al medesimo giudice,
finché sia in corso l’udienza preliminare, come stabilisce l’art 438 co.6.

La nuova richiesta sarà accolta, se l’imputato avrà saputo riformularla in maniera rispondente ai criteri suaccennati:

 Ciò comporta una variazione nel “programma” di integrazione probatoria.

Allo stesso risultato si può giungere ammettendo la presentazione di una richiesta semplice, dopo che quella complessa è
stata rigettata per l’inadeguatezza dell’integrazione probatoria inizialmente proposta.

Così interpretato, l’art 438 co.6 riconosceva all’imputato la facoltà di presentare simultaneamente più richieste, fra loro
alternative, ciascuna delle quali contente un diverso “progetto” di integrazione probatoria.

Era altresì ragionevole consentire il cumulo di una richiesta complessa con una richiesta semplice, in modo da lasciar operare
quest’ultima qualora la prima fosse rigettata per incompatibilità con le finalità economiche del rito.

Qualsiasi dubbio al riguardo è caduto, da quando la stessa legge ammette ora che, in subordine all’eventuale rigetto della
richiesta complessa, l’imputato ha facoltà di presentare una richiesta semplice o una richiesta di patteggiamento,
assicurandosi l’accesso ad uno dei due riti alternativi.

La richiesta semplice implica una rinuncia totale al diritto alla prova.

In realtà, la difesa poteva superare le difficoltà ed i rischi conseguenti al possibile rigetto di una richiesta complessa,
presentando documentazione d’indagine privata, contestualmente ad una richiesta semplice di giudizio abbreviato.

L’escamotage consentiva di introdurre materiale probatorio, spesso a sorpresa, senza bisogno di ricorrere ad una richiesta
complessa.

Intorno a tale pratica aleggiava un dubbio di legittimità, per la disparità di trattamento a danno del P.M., costretto a subire il
colpo a sorpresa della difesa, senza poter controbattere con proprie richieste di prova.

Oggi, la situazione è regolata dal legislatore del 2017. L’art 438 co.4 (novellato con la riforma Orlando) ammette il deposito di
atti di indagine difensiva poco prima di presentare una richiesta semplice, ma impone una dilazione temporale alla
convocazione del giudizio abbreviato.

L’attesa non può prolungarsi oltre 60 giorni:

 Giusto il tempo per consentire al P.M. di effettuare eventuali indagini suppletive, sui temi oggetto dell’investigazione
privata.

È una chance offerta al magistrato requirente che può neutralizzare il vantaggio di quell’esibizione a sorpresa di atti difensivi
prima del 2017 concessa.

All’imputato resta la facoltà di revocare la richiesta di giudizio abbreviato, qualora si veda in difficoltà nel difendersi dalle
nuove scoperte del P.M.

Se la richiesta fosse rigettata, il procedimento sarebbe destinato a proseguire lungo l’iter ordinario, verso il dibattimento.
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L’ordinanza che nega accesso al rito speciale influisce sul quantum di pena da irrogare in caso di condanna, poiché comporta
l’impossibilità di applicare quella attenuazione del trattamento sanzionatorio (art 442 co.2), cui la legge abbina l’effettiva
definizione del processo in forma abbreviata.

Tuttavia, lo si ribadisce nella Sentenza della Corte costituzionale 169/2003 che l’imputato ha ora facoltà di sottoporre
all’esame del giudice dibattimentale (e, se del caso, del giudice di appello) il provvedimento che, negandogli l’accesso al rito,
non può privarlo del diritto allo sconto di pena, qualora ne sussistano i presupposti.

L’esame va condotto tenendo conto anche degli atti allocati nel fascicolo del P.M., che di regola dovrebbero restare
inaccessibili al giudice dibattimentale.

Quando, invece, la prima verifica di ammissibilità dà esito positivo, il giudice dispone l’udienza di giudizio abbreviato, con
un’ordinanza che solo eccezionalmente potrà essere revocata.

13. Segue: svolgimento procedurale.


Il rito si svolge in camera di consiglio, in un’udienza alla quale il P.M. non è ammesso, salvo che l’imputato/imputati ne facciano
richiesta (art 441 co.3).

La pubblicità del rito è ammessa solo nel procedimento di primo grado (non in appello):

 Ciò, nell’esclusivo interesse degli imputati, i quali vantano un diritto assistito da una semplice nullità relativa,
suscettibile di essere limitato nei casi in cui si giustificherebbe il sacrificio della pubblicità dibattimentale.

L’udienza vede la partecipazione delle parti principali del processo, cioè l’imputato, difensore, P.M.

Trovano applicazione le norme sul legittimo impedimento a comparire, assenza e irreperibilità, che valgono per la fase
introduttiva dell’udienza preliminare.

Non è esclusa la presenza della parte civile, che ha facoltà di ricusare l’accettazione del rito abbreviato, ma non di impedirne lo
svolgimento.

La non accettazione del rito speciale comporta l’uscita dal processo penale del soggetto che si reputa danneggiato, con la
conseguenza di mettere in discussione l’effetto vincolante che la sentenza conclusiva del giudizio abbreviato altrimenti avrebbe
nel separato giudizio civile di danno.

Il danneggiato può costituirsi parte civile anche dopo che è stata accolta la richiesta presentata a norma dell’art 438, ma in tal
caso la legge non gli permette di tornare sui propri passi, rifiutando il rito speciale.

Quanto a modalità procedurali, valgono le norme riguardanti l’udienza preliminare, con qualche adattamento necessario.

Apparente è l’eccezione prevista dall’art 441 co.1, in base alla quale non sarebbero destinate a trovar applicazione,
nell’udienza di giudizio abbreviato, le disposizioni che regolano l’assunzione di prova (422) e il mutamento dell’imputazione
(423) nell’udienza preliminare.

Tale eccezione aveva senso quando il giudizio abbreviato poteva essere ammesso sul presupposto della definibilità “allo
stato degli atti”.

Ma, oggi che l’eventualità di una modifica dell’imputazione diventa possibile proprio perché l’integrazione probatoria è
consentita tanto su richiesta di parte, quanto per iniziativa diretta del giudice, l’eccezione finisce col perdere il significato che
aveva.

Infatti, gli ultimi 2 commi dell’art 441, col riconoscere i poteri di integrazione probatoria e di contestazione suppletiva,
smentiscono l’eccezione con riguardo alla generalità dei giudizi abbreviati.

Il giudizio abbreviato ha svolgimenti in parte diversi, secondo che scaturisca da una richiesta semplice o complessa.

A. Nel primo caso, il giudice si avvia verso la decisione di merito, verificando:


 In primis, se gli atti presenti nel fascicolo a sua disposizione siano sufficienti a risolvere la questione di fatto.

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Se così non fosse, cioè se sussistesse qualche incertezza al riguardo, egli avrebbe il potere di assumere “anche d’ufficio gli
elementi necessari ai fini della decisione” (art 441 co.5).

Caratteristica di tale situazione processuale è il potere del giudice di assumere le prove ritenute necessarie a superare il
dubbio che lo assilla.

Egli può agire d’ufficio o su sollecitazione dell’imputato, al quale non spetta un diritto alla prova; egli ha accettato un giudizio
“allo stato degli atti”, abdicando al suo diritto alla prova (art 438 co.1).

Correlativamente, il P.M., privato del diritto alla prova, perde il potere di svolgere ulteriori indagini ex art 430 a partire dal
momento in cui la richiesta semplice dell’imputato viene accolta.

Tornando ai poteri istruttori del giudice, ogni mezzo di prova può qui essere assunto.

Essendo irrevocabile l’ordinanza ammissiva del rito speciale, la decisione di merito va presa all’esito del giudizio abbreviato,
sicché il giudice deve esperire ogni tentativo possibile per colmare le proprie lacune conoscitive, come farebbe il giudice
dibattimentale ex art 507.

La principale differenza rispetto al dibattimento sta nel modo di assumere la prova che (nel giudizio abbreviato) segue le
regole dettate per l’udienza preliminare, anziché quelle dell’istruzione dibattimentale (ispirate al contraddittorio della prova
ed inclini a riconoscere con maggior ampiezza i diritti di iniziativa e di intervento delle parti).

Ciò significa che nell’udienza di giudizio abbreviato eventuali testimoni, coimputati, periti o consulenti tecnici sono
interrogati direttamente dal giudice, e solo per il tramite di quest’ultimo, le parti hanno facoltà di partecipare alla
formazione dei relativi mezzi di prova, proponendo le loro domande.

L’imputato può farsi interrogare (art 422 co.4), ma unico soggetto abilitato a porre le domande è il giudice, eventualmente
sollecitato dalle parti.

Inapplicabile, nel giudizio abbreviato, è la norma che ammette l’esame incrociato nel corso dell’udienza preliminare, quando
una parte ne fa richiesta (art 422 co.4); in quanto incompatibile con le modalità di assunzione della prova tipiche del giudizio
abbreviato.

B. Quando il rito speciale scaturisce da una richiesta complessa (la cui efficacia è subordinata all’integrazione probatoria
evocata dall’art 438 co.5),

è da ritenere che la richiesta debba indicare:

 le circostanze di fatto che esigono di esser chiarite


 e i relativi mezzi di prova dei quali l’imputato chiede l’assunzione.

Il giudice è vincolato al contenuto di tale richiesta.

Anche qui vanno escluse le prove vietate e devono essere assunte d’ufficio le prove reputate indispensabili per emettere la
sentenza.

Tuttavia, ammessa la richiesta complessa, il giudice deve assumere tutte le prove indicate dall’imputato, altrimenti verrebbe
meno una condizione d’efficacia della richiesta stessa, col risultato che il processo dovrebbe regredire alla fase introduttiva
del rito speciale, salvo che l’interessato rinunci a far valere la relativa eccezione o preferisca dedurla come motivo di
impugnazione.

Il P.M. ha non solo:

 la possibilità di proseguire la propria attività di indagine suppletiva (diversamente da quanto accade nel giudizio
abbreviato introdotto da una richiesta semplice),
 ma anche la facoltà di chiedere ed ottenere l’ammissione di prove contrarie a quelle indicate dall’imputato nella
richiesta complessa.

Siamo di fronte ad una attuazione particolare e rafforzata del diritto alla prova (art 190) che, per quanto concerne il
dibattimento, trova analoga espressione della regola di “reciprocità” enunciata ex art 495 co.2

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Solo la mancata assunzione di una prova ex art 495 costituisce motivo di annullamento della sentenza di merito.

Un simile error in procedendo può essere portato all’attenzione del giudice di secondo grado, nella misura in cui l’accusatore sia
ammesso ad appellare le sentenze di un giudizio abbreviato.

Sembrerebbe senza conseguenze, invece, l’omessa assunzione di una prova contraria richiesta dal P.M. nella situazione
sopra descritta.

Qualsiasi tipo di integrazione probatoria rende possibile un mutamento dell’imputazione contestata nella richiesta di rinvio a
giudizio.

La riforma del 1999 ha affrontato con superficialità il problema delle nuove contestazioni nel giudizio abbreviato. Il legislatore
ha ravvisato nell’art 423 la disposizione adeguata a regolare i possibili mutamenti della res iudicanda.

Non si è, però, tenuto conto di un rilievo importante:


 che l’udienza preliminare ha per posta in gioco l’alternativa fra “rinvio a giudizio” e “non luogo a procedere”.

Che l’art 423 non assicura all’imputato un termine a difesa, né un diritto alla prova calibrato sul nuovo addebito, è tollerabile
proprio per il carattere processuale dell’udienza preliminare e dei provvedimenti che la concludono.

Quando però, come nel giudizio abbreviato, è in gioco il merito della causa, essendo il giudice chiamato ad assolvere o
condannare, quella limitazione di diritti difensivi appare irragionevole e ingiustificata;

quindi, il rito abbreviato appare affine al dibattimento più che all’udienza preliminare.

Da quanto appena detto, si ricava l’inadeguatezza del semplice richiamo all’art 423 e la necessità di arricchire il corredo di
garanzie dell’imputato che subisce la nuova contestazione.

L’art 441bis (“Provvedimenti del giudice a seguito di nuove contestazioni sul giudizio abbreviato”) rimedia all’infortunio, con
riguardo alla contestazione di fatti diversi, circostanze aggravanti o reati concorrenti ex art 12 lett.b.

La nuova contestazione suppone un’integrazione probatoria, sollecitata dalla parte con richiesta complessa o intrapresa dal
giudice con iniziativa d’ufficio.

Quanto alle garanzie previste per l’imputato, l’art 441bis non si limita a tutelarne le ragioni, assicurandogli il diritto alla prova e
un termine di difesa.

L’imputato può anche togliere effetto alla propria precedente richiesta, provocando così la prosecuzione del processo nelle
forme ordinarie.

Per consentire di meditare sulla scelta da fare, il giudice deve assegnare alla difesa un termine massimo di 10 giorni (art 441bis
co.3).

La concessione del termine dipende da una richiesta dell’interessato.

In attesa della possibile revoca ogni attività processuale resta sospesa, per dar tempo alla difesa di assumere le proprie
determinazioni in ordine al seguito della procedura.

Si apre la possibilità di un duplice svolgimento, dipendente dalla scelta dell’imputato.

 Se il termine assegnato dal giudice scade senza che sia presentata richiesta di procedere per le vie ordinarie, il giudizio
abbreviato continua sulla base della nuova imputazione.

In tal caso, quel termine sarà servito per consentire alla difesa di riorganizzarsi e calibrare la propria strategia sulla mutata res
iudicanda.

L’imputato può chiedere l’assunzione di altri mezzi di prova, oltre i limiti previsti dall’art 438 co.5. E altrettanto può fare il
P.M., il cui diritto alla prova va correlato a quello dell’imputato.

Il giudice è tenuto a valutare l’ammissibilità delle nuove prove richieste in base a criteri analoghi a quelli ex art 190 (non
superfluità e utilizzabilità), e dopo averne stabilito la pertinenza rispetto al fatto descritto nella nuova contestazione.

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Diverso è lo svolgimento procedurale, quando l’imputato faccia espressa richiesta di trasformazione del rito (da abbreviato in
ordinario) entro il termine assegnato dal giudice ex art 444bis co.3.

Questa richiesta è atto personalissimo dell’imputato (il difensore necessita di procura speciale).

Purché presentata in termini, la richiesta di trasformazione del giudizio abbreviato in ordinario provoca un provvedimento
giudiziale di revoca dell’ordinanza ammissiva del rito speciale.

Si determina così una particolare forma di regressione del processo alla fase e allo stato in cui fu presentata la richiesta di
giudizio abbreviato.

La sequenza procedurale refluisce all’indietro e di lì riparte; dunque, a tale scopo, il giudice deve “fissare” l’udienza
preliminare o disporne la “prosecuzione” come stabilisce l’art 441bis co.4.

La conclusione più conforme alle esigenze del sistema è che:

 egli fissi l’udienza, ogni volta che la trasformazione del rito sia stata preceduta da una richiesta di sospensione del
giudizio abbreviato,
 e ne ordini invece la prosecuzione, quando l’imputato abbia chiesto il giudizio ordinario immediatamente dopo la
nuova contestazione.

In tale ultimo caso, l’esordio del giudizio abbreviato è idoneo a surrogare la fase introduttiva dell’udienza preliminare, mentre
nel primo caso, essa dovrebbe ricominciare da capo per i necessari adempimenti.

Altrimenti vanno le cose quando la trasformazione del rito avvenga nei procedimenti sforniti di udienza preliminare.

Al riguardo, è intervenuta la l.144/2000 sulle molteplici fattispecie normative che regolano la trasformazione di un
procedimento speciale (privo di udienza preliminare) in giudizio abbreviato, stabilendo come debba avvenire il passaggio
inverso, nei casi di nuova contestazione ex art 423 co.1.

Anche qui l’imputato può accettare la prosecuzione del rito abbreviato con imputazione modificata e può profittare, se lo
chiede, di un termine massimo di 10 giorni;

oppure può abbandonare il giudizio abbreviato in conseguenza della nuova contestazione, col che egli provoca una
regressione della sequenza procedurale allo stato del rito speciale a suo tempo trasformato in rito abbreviato.

La legge prevede le situazioni processuali suscettibili di prodursi in corrispondenza di queste diverse ipotesi di
“controtrasformazione” del rito.

I. Se il rito abbreviato scaturisce da un giudizio direttissimo  il processo refluisce alla fase pre-dibattimentale e il giudice è
tenuto a fissare l’udienza di giudizio direttissimo;

II. Fissando l’udienza per il giudizio  occorre provvedere quando il rito abbreviato è chiesto per uno dei reati a citazione
diretta elencati nell’art 550;

III. Il giudice deve, invece, fissare l’udienza di giudizio immediato, dopo aver revocato il rito abbreviato chiesto a norma
dell’art 458;

IV. Infine, quando è revocata l’ordinanza ammissiva del rito abbreviato che era stato chiesto nell’ambito del procedimento
monitorio  il processo prosegue con la fissazione dell’udienza normalmente provocata dall’imputato che si sia opposto al
decreto di condanna.

Diversa è la procedura quando si tratta di contestare un fatto nuovo, a norma dell’art 423 co.2.

Qui, la nuova contestazione è subordinata ad un provvedimento autorizzativo del giudice e a un esplicito consenso
dell’imputato.

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Questi due atti devono adeguarsi al particolare contesto del giudizio abbreviato:
 Da un lato, il consenso dell’imputato va formulato come richiesta (semplice o complessa) di definizione anticipata del
processo, anche in ordine al fatto nuovo;

 Dall’altro, l’autorizzazione del giudice ha per oggetto non solo la valutazione circa l’opportunità di cumulare la
trattazione del fatto nuovo con quello già contestato, ma anche l’ammissibilità della richiesta di giudizio abbreviato,
secondo i criteri illustrati nel paragrafo precedente.

Se reputasse inammissibile l’atto di consenso-richiesta, il giudice si vedrebbe costretto a non autorizzare la contestazione
suppletiva, salvo che l’interessato non proponga una nuova richiesta di giudizio abbreviato, tale da soddisfare le finalità
economiche proprie del rito speciale.

Il giudizio abbreviato è suscettibile di articolarsi in una pluralità di udienze, onde consentire le attività di integrazione
probatoria necessarie ai fini della decisione, ma anche per garantire adeguatamente il diritto delle parti a contraddire sui
contenuti del materiale probatorio e il diritto alla prova, soprattutto in occasione delle nuove contestazioni.

L’udienza di giudizio abbreviato si chiude con le conclusioni delle parti:

 Occorre intendere cum grano salis il generale rinvio che le norme dedicate alla disciplina di questo rito speciale fanno
alle disposizioni sull’udienza preliminare.

Per stabilire l’ordine di intervento, bisogna far riferimento alla disciplina dibattimentale (art 523 co.1), per cui l’esordio è
riservato al P.M., il seguito al difensore della parte civile (in quanto abbia accettato il rito speciale), mentre l’ultima parola
spetta al difensore dell’imputato e all’imputato stesso, se ne fa richiesta.

Non c’è spazio per un intervento del responsabile civile, che il giudice deve escludere dal processo, anche d’ufficio.

14. Segue: la sentenza.


Terminata la discussione, il giudice (lo stesso che in precedenza ha accolto la richiesta di giudizio abbreviato) si ritira per
decidere il merito della causa.

Il principio di immediatezza (art 525 “Immediatezza della deliberazione”) valeva anche nel giudizio abbreviato.

L’esigenza di assicurare l’immutabilità dell’organo che ammette il rito speciale e quello che prende la relativa decisione di
merito è avvertita anche con l’attuale normativa, soprattutto quando venga accolta una richiesta, condizionata all’assunzione di
prove nuove, a norma dell’art 438 co.5.

La giurisprudenza di legittimità è oggi concorde che il principio di immediatezza tra applicazione nel giudizio abbreviato,
disposto su richiesta subordinata ad un’integrazione probatoria, per la parte relativa all’effettiva trattazione ed alla
deliberazione della sentenza, e non già per il momento della decisione sull’ammissione del rito.

Quanto a struttura e contenuto, la sentenza conclusiva del giudizio abbreviato ha il suo modello nella sentenza dibattimentale.

Valgono le regole di giudizio dettate ex art 529 ss. (richiamate dall’art 442 co.1).

Se al termine della discussione il giudice non fosse certo della colpevolezza dell’imputato, dovrebbe emettere sentenza di
proscioglimento ex art 530 co.2.

Dovrebbe prosciogliere, con sentenza di non doversi procedere, nei casi di:
 dubbio sull’esistenza di una condizione di procedibilità (art 529 co.2)
 o di una causa di estinzione del reato (art 531 co.2).

La condanna presuppone (come in dibattimento) che la responsabilità penale dell’imputato sia positivamente dimostrata, al di
là di ogni ragionevole dubbio (art 533 co.1), sia pur sulla scorta del materiale raccolto nella fase preliminare e di quello
eventualmente formato durante l’udienza di giudizio abbreviato:

 materiale inidoneo (nel dibattimento) a provare la colpevolezza, se non nelle eccezioni ex lege processuale.

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A tal ultimo proposito, l’art 442 co.1bis (“Decisione”) elenca le fonti del convincimento giudiziale, individuandole:
- negli atti di indagine preliminare,
- negli eventuali esiti dell’indagine suppletiva del P.M. e difensore,
- nei verbali dell’attività di integrazione probatoria promessa dal giudice o richiesta dall’imputato,
- nonché (dopo l’aggiunta del 2000), negli eventuali atti di indagine difensiva presentati contestualmente alla
richiesta di giudizio abbreviato o contenuti nel fascicolo previsto ex art 391octies (“Fascicolo del difensore”).

Nel condannare, il giudice

 diminuisce la pena di 1/3 quando procede per un delitto,


 o della metà quando condanna per un reato contravvenzionale (art 442 co.2 dopo la riforma Orlando).

Lo sconto va applicato sulla pena in concreto considerata, cioè dopo averne determinato il quantum.

Criterio, però, inadeguato, quando la pena è l’ergastolo, per cui si applica una eccezione:
 l’ergastolo con isolamento diurno  si converte in ergastolo semplice;
 mentre l’ergastolo semplice  viene convertito in 30 anni di reclusione

La sentenza n questione potrebbe contenere dei capi civili riguardando il risarcimento del danno da reato.

Se la parte civile ha accettato il giudizio abbreviato, il giudice ha il potere di soddisfare la sua pretesa risarcitoria.

La sentenza penale, divenuta definitiva, è destinata a spiegare effetti vincolanti nel separato giudizio civile di risarcimento del
danno, sempre a condizione che la parte civile abbia accettato il giudizio abbreviato.

In un caso, però, la mancata accettazione del rito speciale non basta, da sola, ad impedire che la sentenza del giudizio
abbreviato faccia stato nel giudizio civile:
 quando il giudicato è di condanna (dunque, favorevole al danneggiato), la legge ne sancisce l’effetto vincolante per il
giudice civile, salvo che non vi si opponga l’interessato che, a suo tempo, non aveva accettato il giudizio abbreviato.

Diversamente dalla sentenza di patteggiamento, quella emessa al termine del giudizio abbreviato, è appellabile.

Le sentenze di proscioglimento sono appellabili dal P.M., ma non dall’imputato, per il quale opera ancora la preclusione
imposta dalla l.46/2006.

Unica eccezione è la sentenza di proscioglimento per vizio totale di mente (appellabile dalla difesa).

È stato rimosso il duplice limite all’appellabilità delle sentenze in origine stabilito ex art 443 co.2 nei confronti dell’imputato che
subiva una condanna a sanzione pecuniaria o a pena che non doveva essere eseguita.

Queste ultime sono divenute appellabili per effetto di una pronuncia della Corte Costituzione. Successivamente, la
l.479/1999 completava l’opera rendendo appellabili dall’imputato anche le sentenze di condanna a sanzioni sostitutive.

Restano i limiti imposti al P.M., il quale non può proporre appello contro le sentenze di condanna, salvo che il titolo di reato
ritenuto in sentenza risulti diverso da quello a suo tempo specificato nell’imputazione.

Nella primitiva configurazione dell’istituto, tale limite era compensato dal potere del P.M. di favorire l’accesso al giudizio
abbreviato con una propria manifestazione di volontà.

Caduta la necessità del consenso (nel 1999), il limite è sopravvissuto.

Non più controbilanciato da quel consenso, ma giustificato dall’esigenza di garantire la rapida conclusione di processi
definiti, codesta limitazione soggettiva all’appellabilità della sentenza ritrova oggi un senso nell’esigenza di scoraggiare
imputazioni azzardate e indagini incomplete.

Dubbia appariva l’appellabilità della sentenza conclusiva del giudizio abbreviato ad opera della parte civile.

Con riguardo ai mezzi di impugnazione esperibili, l’art 576 (novellato nel 2006) ha inteso separare il destino del danneggiato
(fattosi parte nel processo penale), dalla posizione del P.M.

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Ciò, nell’intento di svincolare il danneggiato dai limiti imposti al P.M. circa l’appellabilità delle sentenze di proscioglimento.

In assenza di disposizione legislativa espressa, parrebbe che la parte civile non abbia alcun diritto di appellare tali sentenze;
e ciò è confermato nel principio di tassatività delle impugnazioni, il quale impone che la legge indichi sia i provvedimenti
impugnabili, sia i mezzi esperibili contro di essi (art 568 co.1).

Ma a tale lettura si può opporre l’argomento che l’accennata modifica dell’art 576 è avvenuta per ampliare i diritti di
impugnativa della parte civile rispetto a quelli del P.M.

Bisogna ammettere, però, che, privata della facoltà di appellare, la parte civile subisce un’irragionevole compressione del
suo diritto di difendersi nel processo penale.

Insomma, tal diritto va affermato, anche per evitare collisioni con i principi costituzionali e con la ragionevole attuazione del
diritto di difesa che va riconosciuto al danneggiato da reato, il quale, costituendosi parte civile, ha scelto il giudizio abbreviato
quale sede per l’accertamento del danno risarcibile.

Sarebbe, dunque, opportuno un intervento legislativo sull’art 443 (oltre che sul 593) che attribuisse alla parte civile il diritto
di appellare le sentenze di proscioglimento emesse ex art 442.

Ma già oggi, sul piano interpretativo appare lecito giungere alla conclusione che la parte civile ha facoltà di appellare le
sentenze emesse ex art 442 (grazie all’intervento nel 2007 delle Sezioni Unite che hanno avallato tale opportuna forzatura
interpretativa).

Quanto è appellata una sentenza emessa a seguito del rito abbreviato, il relativo giudizio di impugnazione si svolgerà sempre in
camera di consiglio, senza intervento del pubblico, anche se si fosse svolto coram populo quello di primo grado.

Lo impone l’art 443 co.4, la cui eventuale inosservanza, costituirebbe semplice irregolarità, inidonea a pregiudicare la validità
degli atti compiuti.

Nel corso dell’udienza di appello possono essere assunte nuove prove, entro i limiti ammessi dall’art 603.

L’applicazione di tale norma dovrebbe essere condizionata dal tipo di richiesta (semplice/complessa) all’origine del giudizio
abbreviato.

Le Sezioni Unite nel 2017 hanno stabilito che l’imputato assolto in primo grado, all’esito di un giudizio abbreviato, può
essere condannato nel giudizio di appello solo a condizione che si sia proceduto all’esame delle persone che avevano reso
dichiarazioni ritenute decisive in prime cure. Ciò a prescindere dal tipo di richiesta introduttiva del rito.

Alla luce di quanto detto, dovrebbe applicarsi nel giudizio abbreviato il nuovo co.3bis art 603.

La differenza tra la richiesta semplice/complessa sopravvive quando il giudizio abbreviato sfocia in una condanna.

L’imputato che intende condizionare l’ammissione del rito speciale, ad una determinata integrazione probatoria (richiesta
complessa) mantiene, anche in appello, il diritto alla riassunzione del mezzo di prova già acquisito in primo grado, purché ciò
sia necessario per la decisione.

Infatti, il giudizio di appello rappresenterebbe, qui, lo strumento per rimediare all’error in procedendo da cui risulterebbe
affetta la sentenza appellata (poiché l’ammissione di una prova, indicata nella richiesta di giudizio abbreviato, non è stata
assunta dal giudice di primo grado) e l’occasione per attuare il diritto alla prova dell’imputato (entro i limiti dell’originaria
richiesta complessa).

Diversamente, va risolto il caso dell’imputato che abbia proposto una richiesta semplice.

Avendo egli rinunciato integralmente al diritto alla prova, non può pretendere che tale diritto risorga nel giudizio di appello, se
non quando sia appellata dal P.M. la sentenza che lo ha prosciolto.

Appellata invece la condanna, l’integrazione probatoria sarebbe affidata in via esclusiva al giudice, il quale può assumere tutti i
mezzi di prova che ritiene “necessari” ai fini della decisione.

Dunque, a fronte di una richiesta semplice (o incondizionata) di un giudizio abbreviato concluso con una condanna, l’unica
possibilità di rinnovare l’istruzione dibattimentale in appello è quella contemplata ex art 603 co.3.

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Le parti hanno facoltà di sollecitare l’assunzione delle prove a loro avviso necessarie per la decisione, ma un informale
impulso in tal senso varrebbe come semplice segnalazione circa l’opportunità di un’integrazione probatoria:
 non costringerebbe il giudice ad un provvedimento formale sull’ammissione delle relative istanze (art 190 co.1).

15. Sospensione del processo con messa alla prova. TITOLO V-BIS (Art 464bis-464novies)
L’imputato può chiedere già nel corso del procedimento penale l’affidamento in prova ai servizi sociali come modalità per
conseguire l’estinzione del reato.

Si tratta di un rito di tipo consensualistico regolato nel Titolo V-bis (art 464bis-nonies) aggiunto nel 2014.

La sua esperibilità è soggetta a limiti oggettivi e soggettivi.

A. Sul piano oggettivo il rito speciale non può essere instaurato per reati di gravità medio-bassa (cioè quelli punibili, in
astratto, con la sola sanzione pecuniaria/detentiva non superiore nel massimo a 4 anni, ai quali si aggiungono i reati ex
co.2 art 550).

Si tratta dei reati appartenenti alla passata competenza pretorile; ma vi sono anche reati di competenza del giudice collegiale,
pur se puniti con sanzione detentiva inferiore a 4 anni.

B. Sul piano soggettivo, l’accesso a tale rito è precluso agli imputati che, avendo subito precedenti condanne, siano stati
dichiarati delinquenti abituali, professionali o per tendenza. Inoltre, può essere chiesto solo una volta.

Questa sorta di probation processuale sembra finalizzato ad alleviare il problema del sovraffollamento carcerario, rientrando i
quell’ampio movimento di “fuga dalla sanzione detentiva”.

In realtà, ci si rende conto che l’effetto “decarcerizzante” è pressoché nullo.

I reati che vi rientrano (art 550) prevedono, già in via edittale, pene difficilmente destinate ad essere eseguite con detenzione
carceraria.

È sufficiente, al riguardo, leggere l’art 656 co.5 (“Esecuzione delle pene detentive”), che fissa ora in 4 anni di pena detentiva il
limite entro il quale il condannato può ambire all’affidamento in prova al servizio sociale.

Gli anni salgono a 6 con riguardo alle persone affidate in prova ai servizi sociali, per condanne subite in base alla normativa
sugli stupefacenti.

La sospensione del procedimento con messa alla prova ha avuto lunga sperimentazione dell’ambito della giustizia minorile.

La l.67/2014, ispirandosi a quella esperienza positiva, ha caratteristiche proprie, in considerazione degli effetti gravi e
pregiudizievoli che la vicenda giudiziaria può avere sulla formazione e sulla crescita del minore-imputato (non a caso il probation
processuale può essere disposto anche d’ufficio dal giudice senza limitazioni alcuna).

Chiedendo la messa alla prova anticipata, l’imputato adulto persegue un duplice interesse:

 Bloccare il processo e guadagnare l’estinzione del reato.

A fronte di tale interesse privato sta l’interesse pubblico alla deflazione processuale ed alla chiusura del processo, senza
passare per il dibattimento.

C’è dunque una ragione di economia processuale alla base del nuovo rito speciale, di tipo consensuale e alternativo al
dibattimento  è questa la ratio giustificativa di tale istituto.

Stando così le cose, affiora subito un dubbio di costituzionalità.

È lecito (alla luce del principio d’innocenza) che l’imputato si sottoponga volontariamente all’esecuzione della pena, prima di
essere dichiarato colpevole di un reato, destinato ad estinguersi?

La risposta si ritrova nell’esperienza del giudizio minorile. Lì la sospensione del processo con messa alla prova è
sistematicamente applicata, senza scrupoli di costituzionalità.

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Per entrambi (adulto e minore), l’esperienza del processo ha conseguente traumatiche, ma solo per il minore quelle
conseguenze rischiano seriamente di compromettere il suo sviluppo.

Un allentamento della presunzione di innocenza si giustifica nel quadro di un opportuno bilanciamento con l’esigenza di
proteggere la personalità del giovane in formazione, come raccomanda l’art 31 Cost co.2 (“La Repubblica protegge l’infanzia e
la gioventù, favorendo gli istituti necessari a tale scopo”).

Esigenza fondata sulla necessità di tutelare la dignità umana.

Non a caso la sospensione del processo in favore del minore può essere applicata dal giudice anche d’ufficio e senza limite né
soggettivo né oggettivo.

La sospensione del processo, dunque, persegue lo scopo di salvaguardare la dignità del giovane, evitando che il processo
penale interferisca con l’evolversi della sua personalità, ancora in formazione.

Il probation processuale previsto per gli adulti, caratterizzato in senso sanzionatorio, persegue un semplice calcolo di economia
processuale, che ha rilievo costituzionale ma su quale sarebbe scorretto far leva per derogare alla presunzione di innocenza.

La stessa giustificazione adottata per il minore non vale, qui, per gli adulti.

Ulteriori obiezioni alla censura di costituzionalità si reggono sull’esistenza di altre modalità di definizione anticipata del
procedimento penale, applicabili agli adulti, che sembrano derogare alla presunzione di innocenza.

Il probation processuale rileva qualche affinità con altre procedure speciali che si reggono su un volontario assoggettamento
dell’imputato alla sanzione.

Basti pensare all’oblazione o a casi recenti, dove l’estinzione del reato è collegata alla circostanza che l’imputato abbia
adempiuto prescrizioni impostegli dalla pubblica autorità, attivandosi per rimuovere situazioni di pericolo generate dal reato
o per riparare il danno con esso cagionato attraverso le restituzioni o il risarcimento.

Però, in tali situazioni appena sudescritte, gli adempimenti dell’asserito autore dell’illecito penale non hanno il contenuto di
vere e proprie sanzioni penali; ma si tratta di prestazioni risarcitorie o di condotte virtuose idonee a degradare l’illecito da
penale ad amministrativo o civile: una sorta di depenalizzazione per via processuale.

Con il probation processuale, invece, l’imputato si assoggetta a una applicazione anticipata della pena, sia pur con
l’affidamento in prova ai servizi sociali (che è una sanzione penale alternativa, non alternativa alla sanzione).

La finalità è la stessa della pena  puntare alla rieducazione del reo e, se del caso, alla sua riconciliazione con l’eventuale
offeso, prima che una decisione definitiva lo consideri meritevole di rimprovero.

Nemmeno le affinità col patteggiamento vanno sopravvalutate.

La richiesta di pena concordata non è un volontario assoggettamento dell’imputato alla sanzione penale; infatti nel
patteggiamento è il giudice che impone la pena, non l’imputato che se la attribuisce, sottoponendovisi volontariamente.

Nella sospensione con messa alla prova, invece, assistiamo a un’applicazione immediata di pena, senza previa condanna.

Di conseguenza, si desume una difficoltà di conciliare questo rito speciale, fondato essenzialmente su ragioni di economia
processuale, con l’art 27 co.2 Cost, che vieta di trattare come colpevole chi ancora non è stato condannato con sentenza
definitiva.

16. Segue: fase introduttiva.


La fase introduttiva è ricalcata sulla disciplina dettata per il patteggiamento.

È un rito consensuale, che suppone una manifestazione di volontà dell’imputato condivisa dall’autorità pubblica.

La richiesta di sospensione è atto personalissimo che l’imputato può compiere per il tramite del difensore munito di procura ad
hoc.

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Si distinguono due modalità introduttive, secondo che l’imputato si attivi prima o dopo il promovimento dell’accusa.

A. Nel primo caso, la richiesta può essere presentata durante le indagini preliminari, e può essere accolta solo se v’è il
consenso del P.M., tenuto a motivare l’eventuale dissenso.

Per agevolare la scelta del rito, il titolare dell’azione può avvertire l’imputato della facoltà di essere ammesso alla prova per
beneficiare dell’effetto estintivo.

Il coinvolgimento del P.M. è necessario per permettere l’approdo al processo attraverso l’esercizio dell’azione penale e la
formulazione dell’imputazione.

B. Nel secondo caso (azione penale già esercitata), la richiesta va presentata, senza bisogno di previo consenso del P.M.

Si rende necessaria un’intesa con l’ufficio locale per l’esecuzione penale esterna (UEPE), al quale spetta elaborare un
programma di trattamento, esplicitando le modalità di reinserimento sociale dell’imputato, il decalogo da seguire nel periodo
di prova, le eventuali prescrizioni attinenti al lavoro di pubblica utilità o all’attività di volontariato e le possibili condotte
riparatorie in vista di una riappacificazione con l’eventuale persona offesa.

Al processo iniziato, la sospensione va chiesta in tempo utile per evitare il dibattimento (secondo le regole per le richieste di
giudizio abbreviato e patteggiamento), cioè:

 prima che il difensore formuli le proprie conclusioni nell’udienza preliminare;


 oppure prima che sia dichiarato aperto il dibattimento, nei casi di citazione diretta/direttissima,
 o entro 15 giorni successivi alla notifica del decreto che dispone il giudizio immediato;
 o, infine, con l’opposizione all’eventuale decreto penale di condanna.

Sulla richiesta di sospensione il giudice decide in camera di consiglio (art 127), sentite le parti e, se c’è, la persona offesa dal
reato.

Richiesta che va rigettata:


 se la volontà dell’imputato risulta coartata;
 se la relativa presentazione avviene fuori termine;
 se proviene da persona non legittimata a presentarla o non ammessa al probation in ragione del suo curriculum
criminale (abitualità, professionalità, tendenza a delinquere).

Va rigettata, anche v’è dissenso del P.M. (ove il suo consenso sia previsto), ma l’imputato può rinnovarla in limine al
dibattimento, nella speranza che un diverso giudice la accolga.

La richiesta può, inoltre, essere rigettata sulla base di ragioni sostanziali.

È tale quella che impedisce il probation processuale, quando il giudice ritiene il programma di trattamento inidoneo al
reinserimento sociale in base ai parametri di cui all’art 133 c.p. (art 464quater co.3),

ma anche quella che impedisce al giudice di accogliere la richiesta, quando il fatto ipotizzato nell’imputazione cade fuori
dell’ambito di applicabilità dell’art 168bis c.p.

Al riguardo, si pone un problema di corretta qualificazione giuridica del fatto, del quale è arbitro il giudice primo destinatario
della richiesta:
 ad esempio, l’imputazione di favoreggiamento potrebbe apparire come concorso di persone in un reato punibile
con reclusione molto più elevata di 4 anni.

Il tema della diversa qualifica giuridica potrebbe influire al contrario, ripristinando la fase introduttiva del rito nell’ipotesi
inversa a quella appena illustrata, cioè quando si passasse dal reato più grave a quello meno grave.

Ulteriore ragione d’ostacolo all’accoglimento della richiesta di probaion processuale è la seguente:

 se in atti vi fossero prove sufficienti per prosciogliere l’imputato, il giudice dovrebbe chiudere il processo con una delle
formule elencate nell’art 129 (art 464quater co.1).

Qui, l’immediata declaratoria delle cause di non punibilità ricorda quanto prescrive l’art 444 riguardo all’analogo obbligo che
incombe sul giudice destinatario di una richiesta di patteggiamento.
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Il richiamo all’art 129 fissa la soglia minima di accertamento della responsabilità penale, oltre la quale risulta applicabile la
messa alla prova in corso di processo.

Tale richiamo vale ad escludere l’in dubio pro reo dalle situazioni qui considerate.

In caso di incerta colpevolezza dell’imputato, l’art 444 impone di applicare la pena concordata fra le parti.

In maniera analoga, l’art 464quater, in caso di incertezza, impone al giudice di accogliere la richiesta di sospensione del
processo, applicando in anticipo la sanzione alternativa.

Il rigetto della richiesta non impedisce all’imputato di ripresentare la stessa davanti al giudice del dibattimento, prima della
dichiarazione di apertura ex art 492 (art 464quater co.9).

Riproposta impensabile, se primo destinatario della richiesta fosse lo stesso giudice del dibattimento; eventualità comunque
molto frequente, considerando che tale forma di probation processuale è ammessa principalmente per i reati a citazione
diretta.

Resta aperta, per tali casi, la via del ricorso per cassazione contro il provvedimento negativo della richiesta.

Con ricorso per cassazione è impugnabile dal P.M. il provvedimento che accoglie la richiesta.

Anche la persona offesa è legittimata al ricorso per cassazione, quando dovesse lamentare di non essere stata coinvolta
nell’udienza convocata per discutere circa l’ammissibilità della richiesta di sospensione processuale.

L’impugnativa di legittimità è consentita solo per i motivi ex art 606 e preclude censure su questioni di fatto, di esclusiva
competenza del giudice di merito.

In caso di annullamento con rinvio, gli atti dovranno essere restituiti al giudice del provvedimento impugnato, il quale si
pronuncerà di nuovo sulla richiesta, uniformandosi alla sentenza della Cassazione.

Il probation processuale è precluso a chi abbia già optato per altro rito alternativo al dibattimento (giudizio abbreviato;
patteggiamento; oblazione). La scelta dell’una esclude l’altra, in quando modalità alternative al dibattimento.

Affiora una diversità di disciplina rispetto al probation in favore del minore, ammissibile anche quando l’imputato abbia
chiesto il giudizio abbreviato.

Nella giustizia minorile, l’eccezione è giustificata dalla finalità dell’istituto:


 quella di evitare il contatto traumatico del minore col processo penale.

Nulla impedisce, invece, che l’imputato adulto possa chiedere il giudizio abbreviato, il patteggiamento o l’oblazione, se la
messa alla prova dovesse sortire in negativo, con conseguente reflusso nell’alveo dell’iter processuale ordinario.

In altre parole:

 un rito consensuale non si può, di regola, trasformare in altro rito consensuale.

La procedura ordinaria, invece, può sempre trasformarsi in un rito alternativo consensuale, se solo sono rispettati i termini e
i requisiti previsti dalla legge processuale per relativa richiesta.

17. Segue: durata e vicende della sospensione del processo con messa alla prova.
Il periodo di probation ha:

 una durata minima  di 10 giorni, quando il programma di trattamento prevede il lavoro di pubblica utilità;
 e una durata massima  massimo 2 anni, quando si procede per reati punibili con pena detentiva (sola, congiunta o
alternativa alla pena pecuniaria); 1 anno, quando la pena è solo pecuniaria.

In tale arco temporale, che decorre dal giorno in cui è sottoscritto il verbale di messa alla prova, l’imputato deve adempiere
le prescrizioni e gli obblighi fissati dal giudice nell’ordinanza di sospensione.

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Prescrizioni ed obblighi sono suscettibili di modifica anche “in corso d’opera” da parte del giudice, sentite le parti, come
dispone l’art 464quinques co.3: quindi anche contro la volontà dell’imputato.

Sulla loro osservanza vigilia l’ufficio locale per l’esecuzione penale esterna (UEPE), al quale spetta:

 l’ulteriore compito di proporre eventuali modifiche al programma di trattamento inizialmente concordato


 e quello di redigere la relazione sul decorso e sull’esito del periodo di prova.

La sospensione blocca il corso del processo ordinario e produce un effetto sospensivo sulla prescrizione del reato.

Durante l’affidamento in prova sono precluse attività di carattere istruttorio volte a rintracciare fonti di prova o ad acquisire
elementi conoscitivi utili per l’accertamento della responsabilità penale.

Il fine è cambiato, dovendosi ora concentrare sulla condotta che l’imputato tiene durante l’affidamento ai servizi sociali.

Dato che il probation processuale potrebbe fallire, permettendo la ripresa ordinaria del processo penale, la legge ammette la
possibilità di assumere prove:
 dalle quali potrebbe scaturire un proscioglimento dell’imputato;
 o prove (anche a carico) che rischierebbero di andare disperse

con le modalità stabilite per il dibattimento (art 464sexies).

A tale speciale assunzione incidentale della prova procede, in camera di consiglio, il giudice che ha emesso l’ordinanza di
sospensione.

Il danneggiato, costituito parte civile, è costretto ad uscire dal processo sospeso.

Quand’anche l’esito della prova fosse negativo e il processo di cognizione riprendesse il suo corso ordinario, l’attività decisoria
del giudice di merito sarebbe destinata a rimaner paralizzata per un lungo periodo.

L’art 464quater co.8 introduce una nuova eccezione alla regola che paralizza l’azione civile finché è in corso il giudizio penale,
ogniqualvolta il danneggiato costituitosi a parte civile abbandona la sede inizialmente scelta per soddisfare la propria pretesa
risarcitoria (art 75 co.3):
 qui, il danneggiato è costretto ad abbandonare quella sede, a causa della svolta impressa alla vicenda processuale sul
cui andamento egli non ha potuto interloquire.

18. Segue: decisioni conclusive.


Trascorso il periodo di sospensione, il giudice deve valutare se l’affidamento in prova ha avuto esito positivo o negativo.

Il materiale su cui fondare la decisione è fornito dall’ufficio per l’esecuzione penale esterna.

A. In caso di esito positivo, il processo si chiude con una sentenza che dichiara estinto il reato al termine di un’udienza (in
camera di consiglio) alla quale sono invitate le parti e la persona offesa.

Si tratta di una sentenza assolutoria che segue l’esecuzione di una pena, pur non escludendo l’applicazione di sanzioni
amministrative accessorie.

È una sentenza impugnabile?? Il silenzio serbato sul punto dalla legge, fa apparire scontata l’appellabilità di questa particolare
declaratoria di estinzione del reato.

La relativa sentenza cade sotto la previsione dell’art 593 co.2 (oggetto di numerose riforme, ultima quella col d.lgs. 11/2018):
 Appellabile sia dal P.M., sia dall’imputato, salvo si tratti di reati contravvenzionali puniti con la sola pena
dell’ammenda/pena alternativa.

Il P.M. potrebbe avvalersi di tale mezzo per mettere in discussione l’esito positivo della messa alla prova. L’imputato
potrebbe aver interesse a un proscioglimento nel merito, rivendicando l’applicazione dell’art 129 co.2.

In entrambi i casi, la soluzione è quella imposta ex art 604 co.6:


 Il giudice di appello annulla l’estinzione del reato e decide sul merito dopo aver rinnovato, se serve, il dibattimento.

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Il dibattimento di secondo grado seguirebbe un promo grado chiuso con sentenza in camera di consiglio, senza un previo
giudizio dibattimentale e senza possibilità per l’imputato di chiedere un rito alternativo al dibattimento.

La sentenza in questione è ricorribile per cassazione (art 111 co.7 Cost).

Interessati ad un possibile annullamento potrebbero essere sia le parti sia la persona offesa dal reato.

Gli spazi per censure in sede di legittimità sono molto angusti, dato che la sentenza in questione ha il suo fulcro nel giudizio
riguardante l’esito del periodo di prova, certamente insindacabile in cassazione.

Ma residuano possibili doglianze circa l’errores in procedendo (omesso avviso alle parti/persona offesa per l’udienza
decisoria) e l’errores in iudicando (errata qualifica giuridica del fatto) o l’illogicità della motivazione.

B. In caso di esito negativo, il giudice ordina che il processo riprenda il suo corso:
 Ciò che implica una tacita revoca dell’ordinanza di sospensione.

Revoca, esplicita, atta ad interrompere l’esperimento del probation è possibile in presenza di condotte riprovevoli del
sottoposto.

La relativa decisione (ricorribile per cassazione) va presa dallo stesso giudice che ha disposto la sospensione, dopo un’udienza in
camera di consiglio, alla quale sono invitate a partecipare le parti e la persona offesa.

Essa produce effetti dal momento in cui diviene definitiva, i quali consistono in ciò:

 L’istanza di messa alla prova non può più essere riproposta (art 464novies) e il processo riprende il corso ordinario,
verso il dibattimento, con possibilità per l’imputato di optare per uno dei restanti riti alternativi (giudizio abbreviato,
patteggiamento, oblazione), presentando richiesta prima della dichiarazione di apertura.

Si intravede l’insorgere di possibili incompatibilità funzionali.

Se a certificare l’esito negativo della messa alla prova o a disporre la revoca dell’ordinanza di sospensione sia stato il G.I.P. o il
G.U.P., l’eventuale successivo dibattimento sarebbe condotto da giudice diverso e funzionalmente compatibile.

Ma si supponga che il fallimento del probation processuale sia accertato dal giudice del dibattimento, e che lo stesso debba
poi occuparsi ancora del caso in vista della decisione di merito.

Viene da chiedersi se possa davvero dare adeguate garanzie di imparzialità, nell’imminente giudizio, quello stesso giudice che
ha valutato negativamente l’esito del periodo di prova.

A tal riguardo non soccorrono le incompatibilità stabilite nell’art 34, tutte calibrate su funzioni giurisdizionali collocate in
diverse fasi o in diversi gradi del procedimento penale. Nel nostro caso, invece, saremmo in presenza di funzioni esercitate in
una medesima fase del processo, quella del giudizio di primo grado.

Per risolvere il problema, si rende necessario un intervento legislativo o una declaratoria di illegittimità costituzionale che
colpisca nuovamente l’art 34, nella parte in cui contempla questa inedita situazione di incompatibilità.

Il giudizio seguente il fallito tentativo di probation processuale può chiudersi con una definitiva sentenza di condanna a pena
detentiva.

La pena andrà determinata tenendo conto dell’eventuale periodo di affidamento in prova già trascorso:
 3 giornate di probation  valgono 1 giorno di detenzione o 250 euro di pena pecuniaria.

Nessuna corrispondenza viene stabilita, invece, riguardo alla nuova tipologia di pene detentive (reclusione domiciliare, arresto
domiciliare) che (stando alla l.67/2014) completeranno l’apparato sanzionatorio, quando saranno entrati in vigore i
provvedimenti delegati che l’art 1 l-67/2014 autorizza.

Ultimo rilievo. La legge vieta nuove richieste di messa alla prova, in caso di esito negativo del probation o di revoca della
relativa ordinanza.

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Nessun divieto, invece, per il condannato, reduce del fallito tentativo di messa alla prova, di chiedere al P.M. (ex art 656 co.5
e 6) uno dei benefici penitenziari volti a schivare la carcerazione (detenzione domiciliare/semilibertà/affidamento in prova).

È molto improbabile che l’affidamento in prova, non riuscito durante il processo di cognizione, sia ammesso in sede
esecutiva. Restano, dunque, le altre 2 sanzioni alternative, entrambe suscettibili di applicazione anche in assenza dei
presupposti previsti per l’affidamento in prova ai servizi sociali.

19. Giudizio immediato richiesto dall’imputato.


Fra i procedimenti speciali, espressione di “giustizia consensuale”, il giudizio immediato richiesto dall’imputato occupa un
posto a parte.

Infatti, la relativa disciplina è collocata nell’art 419 co.5 del Libro V (e non VI, comprendente i riti speciali), dedicato alla fase
preliminare del processo.

Diversamente da quanto accade nei procedimenti esaminati prima, nel giudizio immediato richiesto dall’imputato, così come
in ogni giudizio immediato, la semplificazione procedurale riguarda l’udienza preliminare (e non il dibattimento).

Infine, la rinuncia esplicitata dall’imputato nella richiesta di codesto rito sortisce solo un effetto processuale, giacché la legge
non vi collega diminuzioni di pena, né altri vantaggi.

Per tale ragioni, il rito in questione è classificato fra quelli che anticipano la fase dibattimentale (cioè, il giudizio direttissimo e il
giudizio immediato richiesto dal P.M.), finendo con l’essere considerato una singola versione “atipica” del giudizio immediato
regolato ex art 453 ss.

Il suo tratto caratterizzante risiede nella facoltà che la legge attribuisce alla parte (in particolare all’imputato) di rinunciare
alla chance difensiva rappresentata dall’udienza preliminare (per tal motivo rientra nei riti consensuali).

Presupposto del rito è la dichiarazione con la quale l’imputato rinuncia all’udienza preliminare;

la rinuncia è un atto personalissimo (perché è in gioco il diritto individuale di difendersi) dell’imputato, il quale può far agire in
propria vece un procuratore ad hoc.

Ulteriore requisito di ammissibilità è il rispetto del termine per la presentazione della richiesta:

 Almeno 3 giorni prima della data in cui dovrebbe tenersi l’udienza preliminare.

La legge non delinea altri presupposti, ma non è difficile immaginare quale sia lo scopo che l’imputato si prefigge attraverso
questo calcolo sacrificato.

Se dispone di prove decisive della sua innocenza, egli può, così facendo, accelerare i tempi del suo proscioglimento
dibattimentale, di gran lunga preferibile al proscioglimento di natura provvisoria e revocabile (meglio noto come “non luogo
a procedere”) col quale pur potrebbe concludersi l’udienza preliminare.

Si consideri che fino al 2000, solo nel dibattimento l’imputato era assistito da un vero e proprio diritto alla prova (art 190 co.1,
art 468 e 495), mentre nell’udienza preliminare la legge non gli riconosceva il diritto di far assumere prove utili ai fini del
proscioglimento.

Questo ulteriore e possibile incentivo (il riferimento è al diritto alla prova), è venuto meno con il nuovo art 422 che (pur non
aprendo spazi al diritto alla prova), permette al difensore di esibire gli esiti di proprie indagini ed estende considerevolmente
i poteri del giudice, giustificandone l’esercizio proprio nella prospettiva del “non luogo a procedere”.

Ad ogni modo, di fronte alla dichiarazione di rinuncia all’udienza preliminare, il giudice non deve operare alcun vaglio di
ammissibilità, che non sia quello riguardante la legittimazione del richiedente e l’osservanza dell’accennato limite temporale,
entro il quale la richiesta di giudizio immediato va presentata.

Appurati questi semplici presupposti, il relativo decreto di citazione a giudizio dev’essere emesso (art 419 co.6).

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Si ritiene che, per ragioni di economia processuale, il giudice possa astenersi dal disporre il rinvio a giudizio e possa imporre la
prosecuzione del processo con le forme ordinarie, quando sia in gioco una riunione di procedimenti che la richiesta ex art
419 co.5, se accolta, farebbe cessare, provocando una separazione delle res iudicandae:
 Evidentemente, le esigenze efficientistiche, di sistema, prevalgono sulla volontà dell’imputato.

Optato per il giudizio immediato, l’imputato si preclude:

 la possibilità di chiedere il giudizio abbreviato,


 ma anche l’applicazione di pena ex art 444, dopo che la riforma del 1999 ha modificato i termini per richiedere il
patteggiamento, uniformandoli a quelli imposti per lo stesso giudizio abbreviato;
 inoltre, anche la facoltà di chiedere la sospensione del processo con messa alla prova, secondo i novellati art 464bis ss.

La legge non ammette che, a distanza di breve tempo, l’imputato revochi la scelta di anticipare il dibattimento, sostituendola
con una scelta di segno opposto, volta alla chiusura del processo prima del dibattimento.

20. Procedimenti speciali espressione di giustizia “autoritativa”.


I procedimenti speciali che si fondano su un atto imperativo del magistrato penale appartengono alla tradizione processuale
penale italiana.

Elemento comune, è l’imposizione alle parti private e, in particolare, all’imputato, di una semplificazione procedurale che
coincide con l’amputazione autoritativa di uno o più segmenti della fase preliminare del procedimento di primo grado.

Molteplici le ragioni che possono giustificare tale semplificazione, rendendola ragionevole e accettabile alla luce del principio
di eguaglianza di tutti gli imputati davanti alla legge processuale.

Rilevano fattori quali:


 l’evidente fondatezza dell’accusa,
 l’esigenza di pervenire a una decisione dibattimentale con esemplare celerità in ordine a reati percepiti come
allarmanti,
 la scarsa gravità dei reati da perseguire,
 e l’opportunità di accorciare i tempi di definizione del rito penale, ammettendo nuove contestazioni nell’udienza
preliminare o nel dibattimento.

Talvolta, la legge combina scelte imperative e consenso dell’imputato, dando vita a procedure speciali di carattere misto.

In questi casi, la legge introduce deroghe al canone di eguaglianza.

Anche un certo modo di intendere la presunzione di non colpevolezza trova un suo significativo temperamento.

Costituisce uno dei corollari di tal principio che il cittadino sia assoggettabile a procedimento penale, se sussistono indizi di
reato a suo carico.

Sopprimere in tutto o in parte la fase preliminare del processo significa discriminare i cittadini sotto il profilo di una loro
“probabile” responsabilità penale, sia pur coltivata in termini ipotetici.

Discriminazione ragionevole, quando risulti basata su stati di fatto (ad esempio, la sorpresa in flagranza di reato o la
confessione).

Discriminazione più discutibile quando:


 si fondi sull’esigenza di mostrare celerità nel perseguire reati allarmanti
 o sul rilievo che reati reputati di scarsa gravità esigono minor rispetto delle garanzie procedurali.

21. Giudizio immediato richiesto dal P.M. TITOLO IV (Art 453-458)


La disciplina del giudizio immediato richiesto dal P.M. è contenuta nel Titolo IV (art 453-458).

Presupposto fondante è l’evidenza della prova, come statuisce l’art 453 co.1 (“Casi e modi di giudizio immediato”).

La situazione di evidenza probatoria, prodottasi a seguito dell’indagine preliminare, riguarda la possibile colpevolezza
dell’imputato, giacché, se l’evidenza fosse di segno contrario, il P.M. avrebbe dovuto procedere per l’archiviazione.
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A fronte di una simile evidenza di colpevolezza, sarebbe un eccesso di scrupolo spendere tempo e risorse per verificare la
fondatezza dell’accusa:
 Dunque, la legge ritiene ragionevole sopprimere l’udienza preliminare, che è la fase dedicata a quella verifica.

Nel tentativo di rendere più frequente questo procedimento, l’art 453 co.1 (modificato nel 2008) obbliga ora il P.M. ad attivarsi
“salvo che ciò pregiudichi gravemente le indagini”.

La novella del 2008 a poco è servita; questo perché, la primitiva espressione “il P.M. può chiedere…” sembrava lasciare un
certo margine di libertà al P.M. nella scelta del rito.

Ma è una espressione fallace, perché quando la legge processuale subordina l’esercizio di un “potere” al verificarsi di certe
condizioni, l’avverarsi di dette condizioni trasforma il potere  in dovere.

Dunque, già prima della novella, la constata evidenza della prova impone al P.M. di intraprendere il giudizio immediato.

L’apprezzamento discrezionale dipendeva dal requisito della “prova evidente”; e siccome tal requisito continua a fungere da
fulcro per l’applicazione dell’art 453, bisogna ammettere che la temuta discrezionalità del P.M. nella scelta del rito è rimasta
inalterata.

Anzi, ha forse subito un ampliamento, grazie all’aggiunta della clausola di riserva (“salvo che ciò pregiudichi gravemente le
indagini”)  condizione, a sua volta, soggetta all’apprezzamento soggettivo del P.M.

Il P.M., in base all’attuale art 453 co.1, è autorizzato a seguire la via ordinaria, se la scelta del giudizio immediato risultasse a suo
avviso gravemente pregiudizievole per la buona riuscita dell’indagine (ciò, nonostante l’evidenza delle prove d’accusa).

Non basta, però, che la prova sia evidente per il P.M. per passare direttamente al giudizio; tale deve essere anche al giudice, al
quale il P.M. si rivolge per ottenere la citazione a giudizio immediato.

La legge, inoltre, pone condizioni ostative all’accoglimento della richiesta del P.M., e ciò per scongiurare il rischio:
 Che la scelta del rito speciale diventi un’ingiusta sperequazione ai danni dell’imputato;
 O che si risolva in una scelta nociva e perciò sconsigliabile sul piano dell’economia e dell’efficienza processuale.

Sotto il primo profilo, la soppressione dell’udienza preliminare (quando voluta dal P.M.), priva forzatamente la difesa di
un’occasione per contrastare l’accusa.

Ecco perché il giudizio immediato non può essere disposto, se non dopo che la persona sottoposta alle indagini sia stata
messa in condizione di interloquire, coi magistrati penali “sui fatti dai quali emerge l’evidenza della prova”.

Non è necessario che la persona sia effettivamente interrogata su quei fatti; è sufficiente un invito a comparire per
l’interrogatorio, con un atto nel quale siano descritti i fatti che rendono evidenti i termini dell’accusa:
 Solo l’irreperibilità dell’imputato o un suo legittimo impedimento sarebbero di ostacolo all’instaurazione del
giudizio immediato.

Inoltre, la procedura in questione non prevede alcun avviso di chiusura delle indagini (art 415bis), sicché (se non fosse per
quell’invito a comparire) l’imputato rischierebbe di trovarsi rinviato a giudizio senza nemmeno aver saputo del processo a suo
carico.

Sotto il secondo profilo (dell’economia processuale ed efficienza), la scelta di tale rito potrebbe risultare controproducente in
caso di connessione, quando si procede cumulativamente anche per reati la cui prova “non appare evidente”.

Favorevole alla separazione dei processi, il codice impone che il giudizio immediato segua il suo iter scindendosi dalle vicende
connesse.

Se, poi, ritenesse “indispensabile” mantenere il cumulo processuale, il giudice dovrebbe rigettare la richiesta del P.M.,
imponendo che si proceda con rito ordinario per tutte le res iudicandea (art 453 co.2).

Infine, la legge condiziona l’ammissibilità della richiesta proveniente dal P.M. all’osservanza di un limite temporale, fissato in 90
giorni dalla registrazione della notizia di reato (art 454 co.1).

Non basta l’evidenza dei fatti, ma si esige che la situazione di evidenza affiori nei primi 3 mesi dell’indagine.
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Sicché, l’imputato che si confessasse colpevole oltre tale termine, provocherebbe sì una situazione di evidenza probatoria,
ma inidonea per giustificare la scelta del rito, perché scaduti i termini.

Passando allo svolgimento procedurale, l’instaurazione di tale giudizio immediato coincide sempre con l’esercizio dell’azione
penale (art 405 “Inizio dell’azione penale”):

 Il P.M. formula l’imputazione con un atto (richiesta) che chiama in causa il G.I.P; a tal punto va contestualmente
trasmesso il fascicolo dell’indagine, con la corrispondente notizia di reato (art 454 co.2).

L’iniziativa del P.M. fa scattare l’obbligo del giudice di pronunciarsi sull’ammissibilità del rito entro 5 giorni dalla richiesta.

Il giudice rigetta la richiesta con decreto non motivato (art 455) quando:

 la prova non appare evidente,


 o se manca una delle altre condizioni cui la legge subordina l’ammissibilità del rito (esempio, l’interrogatorio persona
indagata; contestazione del fatto nell’invito a comparire; inosservanza termine 90 giorni).

In tal caso, gli atti ritornano al P.M., il quale promuoverà l’ulteriore corso del procedimento per le vie ordinarie.

Il decreto col quale il giudice accoglie la richiesta di giudizio immediato è egualmente privo di motivazione.

L’assenza di motivazione rende insindacabili, nel merito, entrambi i decreti.

Infatti, la situazione di “evidenza probatoria” è apprezzata dal G.I.P. e non può essere oggetto di discussione alcuna.

Non è esclusa, invece, una critica del decreto che accoglie la richiesta del P.M., quando questo sia stato emesso senza il
previo interrogatorio (o l’invito a comparire) della persona indagata.

In tale ultimo errore procedurale, la giurisprudenza è incline a ravvisare una lesione del diritto di difesa, riconducibile a
nullità a regime intermedio (art 178 lett.c.), idonea a contaminare la validità del decreto di giudizio immediato; per cui, il
giudice del dibattimento dovrebbe constatare e dichiarare l’invalidità, restituendo poi gli atti al P.M. per l’ulteriore corso
della procedura.

Il decreto che accoglie la richiesta del P.M. introduce al contempo il giudizio immediato. Ha gli stessi effetti e contenuto del
decreto che, in via ordinaria, disporrebbe il giudizio (l’art 456 co.1 rinvia all’art 429).

Dunque, l’assenza di motivazione nel decreto rende insindacabile l’atto e preserva l’imparzialità del giudice dibattimentale,
come accade per il decreto emesso ex art 429 (“Decreto che dispone il giudizio”).

Si entra così nella fase degli atti preliminari al dibattimento (art 456 ss.).

Il salto dell’udienza preliminare rende indispensabile qualche adattamento per garantire adeguatamente i diritti della difesa.

Disposto il giudizio immediato, l’imputato può richiedere:


 il giudizio abbreviato,
 il patteggiamento
 o la sospensione del processo con messa alla prova, ai quali va ora aggiunta l’offerta di riparazione del danno in
vista della declaratoria di estinzione del reato ex art 162ter c.p.

In relazione a tali altri riti, la richiesta deve essere presentata al G.I.P., a pena di decadenza, nei 15 giorni successivi alla
notificazione del decreto di giudizio immediato.

L’eventuale inammissibilità di una delle dette richieste non ostacola l’instaurazione di altro rito alternativo.

A. Per il giudizio abbreviato  il termine decorre dall’ultima notificazione all’imputato/difensore del decreto che dispone il
giudizio o dell’avviso della data fissata per il dibattimento; la richiesta (semplice/complessa) è sufficiente a mettere il
giudice in condizione di doverne vagliare la fondatezza.

B. Per il patteggiamento  la richiesta di una parte non è presa in considerazione dal giudice se manca il consenso
dell’altra.
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272

Il problema è che le norme da ultimo indicate non prevedono il termine entro il quale tale consenso dev’essere prestato per il
patteggiamento.

Nell’intento di uniformare i termini per la richiesta dei riti alternativi, è stata estesa al patteggiamento la norma che regola il
passaggio dal giudizio immediato  al giudizio abbreviato:
 è stato, dunque, inserito nell’art 446 co.1 un semplice richiamo all’art 458 co.1.

Nella versione originaria, l’art 458 co.1 indicava:


 sia il termine imposto all’imputato per chiedere il giudizio abbreviato (7 giorni dalla notifica del decreto di giudizio
immediato),
 sia quello all’epoca imposto al P.M. per prestare il proprio consenso (5 giorni dalla notificazione della suddetta
richiesta).

Caduta con la riforma del 1999 la parte della norma che riguarda il consenso del P.M. alla richiesta di giudizio abbreviato, è
caduto anche il riferimento al termine che l’art 458 istituiva per la presentazione di tale consenso.

Oggi, l’art 458 vale anche per il patteggiamento, ma non fornisce alcuna indicazione circa il termine entro il quale dovrebbe
essere prestato il consenso per il patteggiamento.

Il problema si pone per entrambe le parti, poiché la richiesta ex art 444 può provenire tanto dall’imputato, quanto dal P.M.

Dunque, di fronte al silenzio di legge, spetta al giudice assegnare un termine alla parte (come accade nell’analoga situazione in
cui il patteggiamento è chiedo da chi si oppone al decreto penale di condanna ex art 464 co.1).

C. Quanto detto per il patteggiamento, vale anche per la richiesta di sospensione con messa alla prova, considerato che
l’art 464bis co.2 cade nello stesso errore di indicare il termine entro il quale la richiesta dell’imputato a presentata con un
semplice rinvio all’art 458 co.1

Nemmeno qui si capisce quale sia il termine per l’eventuale consenso del P.M., sicché conviene applicare in via analogica il
citato art 464 co.3, a meno di non voler riesumare quel termine di 5 giorni che è stato cancellato dall’art 458 co.1.

D. Quanto appena detto vale anche per la riparazione del danno prevista dall’art 162ter c.p.

Competente a pronunciarsi sulla trasformazione del rito è il G.I.P., il quale:

 Se accoglie la relativa richiesta o l’offerta riparatoria, fissa l’udienza per uno dei riti alternativi al dibattimento che
l’imputato ha voluto scegliere.

 Se rigetta la richiesta, invece, comporterà la prosecuzione ordinaria del processo; in tal caso il G.I.P. è tenuto a formare il
fascicolo del dibattimento che (assieme col decreto di citazione) va subito trasmesso al giudice competente per il giudizio
(art 457 co.1).

Dopo di che, la procedura speciale refluisce in quella ordinaria e trova negli art 465 ss. il suo referente normativo.

Tanto la richiesta di patteggiamento, quanto la richiesta complessa di giudizio abbreviato, così come la richiesta di sospensione
del processo con messa alla prova, possono essere rinnovate davanti al giudice del dibattimento di primo grado, prima della
dichiarazione di apertura del dibattimento ex art 492.

22. Segue: il giudizio immediato “custodiale” (art 453 co.1bis).


Un nuovo caso di giudizio immediato è stato aggiunto con gli interventi del 2008.

Va instaurato quando la persona sottoposta alle indagini “si trova in stato di custodia cautelare” e a condizione che la scelta
del rito non “pregiudichi gravemente le indagini” (art 453 co.1bis).

La richiesta va presentata dopo che la valutazione dei “gravi indizi di colpevolezza” ha acquisito una certa solidità:
 Cioè, quando il tribunale del riesame abbia confermato la misura o quando sia inutilmente decorso il termine per
impugnare il provvedimento che la dispone (art 453 co.1ter).

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Se, poi, i gravi indizi di colpevolezza venissero meno prima che il G.I.P. decidesse sulla richiesta di giudizio immediato, il
provvedimento cautelare andrebbe revocato o annullato e la richiesta di rito speciale rigettata.

Il rigetto si impone ogniqualvolta il giudice ritenga l’instaurazione del giudizio immediato pregiudizievole per l’indagine, in
ragione, per esempio, della sua incompletezza.

Il termine per la richiesta è fissato in 180 giorni, che decorrono dalla data di esecuzione della misura custodiale (art 453
co.1bis), non dalla registrazione della notizia di reato.

Dunque, tale particolare rito può essere chiesto anche al termine di un’indagine protrattasi a lungo.

Tutto dipende dal momento in cui la custodia cautelare viene eseguita. La mancata esecuzione della misura cautelare rende
impraticabile questo specialissimo rito, sicché il latitante viene “gratificato” di un’udienza preliminare che, se si costituisse,
non gli spetterebbe.

E qui si coglie il paradosso di tale disciplina.

L’intento è (con la modifica del 2008) di incoraggiare il ricorso al giudizio immediato, rendendo automatica la scelta del P.M.

Lo status di persona soggetta a custodia cautelare è un dato oggettivo, che non lascia spazio ad apprezzamenti discrezionali.

L’unica discrezionalità possibile riguarda l’accertamento dell’accennata condizione ostativa all’instaurazione del rito.

La novella del 2008, da una parte aumenta considerevolmente l’applicazione di tale rito, ma solleva anche svariati dubbi
sotto il profilo polito e giuridico.

I. Sotto il profilo politico, discutibile è la scelta di assumere a presupposto del giudizio immediato lo status di persona in
custodia.

È discutibile perché la novella realizza l’effetto di privare tali soggetti delle chances difensive esercitabili a seguito dell’avviso
di chiusura delle indagini e nell’udienza preliminare.

Ad ogni modo, quand’anche la scelta del rito fosse pensata in favore dell’imputato, tale scelta non andrebbe imposta
autoritativamente, senza il consenso della persona destinata a subire il sacrificio di quei diritti.

È altrettanto vero che l’incidente cautelare ha uno svolgimento autonomo rispetto a quello principale, sicché il far dipendere
la sorte del secondo dall’andamento del primo riserva inevitabili imprevisti, complica lo svolgimento procedurale ed espone
gli indagati/imputati a censurabili sperequazioni.

Già un intervento del 2006 aveva operato un intreccio tra i due procedimenti, obbligando il P.M. a chiedere l’archiviazione
quando fossero risultati insussistenti i “gravi indizi di colpevolezza” inizialmente posti a fondamento di una misura cautelare;
qui il P.M. è tenuto ad esercitare l’azione penale chiedendo il giudizio immediato quando i gravi indizi di colpevolezza
risultino sussistenti.

II. La novella adottata, appare censurabile anche sotto il profilo giuridico.

Posto che il giudizio immediato comporta un sensibile sacrificio del diritto di difesa, una sua instaurazione troppa disinvolta,
può risolversi nella violazione dell’art 24 co.2 Cost; qui, gli imputati sono esposti ad irragionevoli sperequazioni.

La scelta del giudizio immediato non può essere revocata, quando l’insussistenza di quei gravi indizi affiora dopo
l’accoglimento della richiesta stessa.

Qui, l’udienza preliminare viene negata/garantita in base ad un evento del tutto causale:
 L’eclissarsi in un momento, piuttosto che in un altro, dei suddetti gravi indizi.

Quanto detto non basta, perché se il giudizio immediato (col sacrificio difensivo implicito) si giustifica in presenza di una misura
custodiale erroneamente disposta, la sua instaurazione è sia irrituale, ma anche lesiva di un diritto fondamentale.

Ad esempio,
scaduto il termine per il ricorso al tribunale del riesame e instaurato il giudizio immediato, l’ordinanza custodiale è
revocata/sostituita con altro provvedimento coercitivo (non custodiale), per esser venuti meno i gravi indizi di colpevolezza o
per essere insussistenti/sussistenti in grado le esigenze cautelari.
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Ma, se nel frattempo, la richiesta ex art 453 co.1bis fosse stata accolta, non si potrebbe tornare indietro. Il giudizio
immediato si imporrebbe.

Avviso di chiusura dell’indagine e udienza preliminare resterebbero precluse all’imputato.

È palese, dunque, l’irragionevole disparità di trattamento cui sono esposti gli indagati ed appare palese l’inconciliabilità del
giudizio immediato “custodiale” con gli art 3 e 24 Cost.

23. Segue: giudizio immediato “obbligatorio” (art 464 co.1).


Il giudizio immediato può essere disposto (obbligatoriamente) ex lege quando:

 vi sia stata opposizione al decreto penale di condanna.

Qui, il presupposto non è l’evidenza della prova.

Infatti, l’udienza preliminare è ritenuta superflua:


 sia perché l’accusa appare saldamente ancorata a fatti incontestabili (tanto che il G.I.P. li aveva ritenuti sufficienti a
giustificare un provvedimento di condanna);
 sia perché l’accusa ha per oggetto reati di scarsa gravità, i quali non sempre sono agevoli da provare.

Un criterio politico, basato sulla tenuità del trattamento sanzionatorio, sta al fondo di questa speciale ipotesi di giudizio.

Il legislatore ha ritenuto che le chances offerte dall’udienza preliminare possano essere sacrificate, quando la posta in gioco è
una semplice pena pecuniaria.

La maggior parte di questi reati rientra in quel settore di cognizione del giudice monocratico soggetto alle regole della
“citazione diretta” (art 550), affidato a un iiter procedurale privo dell’udienza preliminare.

Ne segue che il giudizio immediato obbligatorio (art 464 co.1) impone il sacrificio di questa fase di garanzia ai procedimenti
riguardanti una cerchia di reati assai ristretta.

Le caratteristiche procedurali del giudizio immediato “obbligatorio” sono identiche a quelle descritte con riferimento al giudizio
immediato ordinario.

L’unica differenza di rilievo sta nell’atto introduttivo del rito:

 non una richiesta del P.M., ma un decreto di citazione che il G.I.P. emette d’ufficio, quando abbia constatato che ogni
altra via a una soluzione anticipata del processo è ormai preclusa.

Dunque, l’instaurazione di tale specie di giudizio immediato non coincide mai con il promovimento dell’azione penale, ed è
incompatibile con qualsiasi altra soluzione anticipata del giudizio (patteggiamento, giudizio abbreviato, sospensione del
processo con messa alla prova), eccezion fatta per l’oblazione che può sempre essere chiesta prima della dichiarazione
d’apertura del dibattimento (art 162, 162bis c.p.).

24. Giudizio direttissimo. TITOLO III (Art 449-452)


La disciplina del giudizio direttissimo è contenuta nel Titolo III (art 449-452), ed è caratterizzata dalla soppressione totale
dell’intera fase preliminare ed una semplificazione della fase predibattimentale.

Ad esso si ricorre (per atto imperativo del giudice) quando il fondamento dell’accusa è talmente evidente da rendere superflua,
la verifica dell’udienza preliminare e la ricerca di fonti e mezzi di prova solitamente attuata nell’indagine preliminare.

Il giudizio direttissimo presuppone una evidenza “qualificata” degli stessi fatti e di quella responsabilità.

Rilevano due situazioni processuali in cui l’accusa nasce fondata:

 La situazione di flagranza che legittima l’arresto (art 380 e 381) o l’allontanamento d’urgenza dalla casa familiare,
 E la confessione resa a breve distanza dall’inizio dell’indagine.

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Nel tentativo di intensificare il ricorso a tale rito, il d.l. 92/2008 ne ha parzialmente riformulato i presupposti.

La modifica ha riguardato i casi di giudizio direttissimo preceduti da confessione (art 449 co.5) o da arresto in flagranza
convalidato dal G.I.P.

Essi hanno in comune un lasso di tempo (prima 15, adesso 30 giorni), intercorrente fra il verificarsi del presupposto-
celebrazione del dibattimento, in cui può insinuarsi una breve attività di indagine.

Con riguardo, invece, al giudizio direttissimo instaurabile nei confronti di persone allontanate d’urgenza dalla casa familiare,
spetta alla P.G. (su disposizione del P.M.) citare per l’udienza di convalida e per il dibattimento la persona soggetta a questa
particolare misura pre-cautelare.

Anche in tal caso, il provvedimento del P.M. è da intendere come dovuto, sempre che l’indagine sul fatto e sulla
responsabilità dell’imputato non ne risulti gravemente pregiudicata.

Arresto e confessione sono facili da accertare, e lasciano poco spazio alle scelte del magistrato penale.

L’attribuzione di un “potere” al magistrato penale si risolve sempre nella previsione di un “dovere”, quando il suo esercizio è
subordinato al verificarsi di condizioni esplicitate dalla legge processuale.

In passato, la scelta del giudizio immediato era doverosa se ne sussistevano i presupposti (confessione, arresto convalidato) e
sempre che non si rendesse necessario un supplemento di indagine incompatibile con i tempi stretti del giudizio direttissimo.

Ora, il decreto legge 92/2008 ha enfatizzato questa situazione di doverosità, sostituendo l’espressione “può…procedere” con
la perentoria “procede”.

Si è provveduto anche ad esplicitare l’eccezione alla regola:


 Il rito speciale va sempre scelto “salvo che ciò pregiudichi gravemente le indagini” (riferibile solo alla necessità di
salvaguardare le indagini del procedimento suscettibile di sfociare nel giudizio direttissimo)

A guidare il P.M. nella scelta di questo rito speciale è l’esigenza di assicurare la completezza dell’indagine.

Una importante modifica ha riguardato il limite temporale di instaurazione del rito. Infatti, è stato elevato a 30 giorni (prima
15) il termine entro il quale presentare o citare a giudizio l’imputato.

Si hanno 2 modalità di svolgimento, leggermente diverse, secondo lo status processuale dell’imputato:

1) La persona in stato di custodia cautelare/arrestata è presentata direttamente dal P.M. al giudice dibattimentale (art 450
co.1).

In tal caso, l’imputazione va contestata oralmente in udienza di convalida dell’arresto, prima che il dibattimento sia aperto.

Con la contestazione del fatto, il P.M. provvede a formare il fascicolo del dibattimento a norma dell’art 431 e a consegnarlo
al giudice.

Il predibattimento non esiste o è compresso entro limiti esigui, sicché quel minimo di attività preparatoria necessaria al giudizio
trova spazio fra le pieghe dell’introduzione dibattimentale.

I testimoni possono essere presentati direttamente nell’udienza, senza bisogno di previa citazione.

L’imputato può chiedere un termine (massimo 10 giorni) per meglio organizzare la propria strategia difensiva.

Durante tale lasso di tempo, il dibattimento resta sospeso e il difensore può prendere visione degli atti di indagine e degli atti
inseriti nel fascicolo del dibattimento.

2) L’imputato libero (cioè rimesso in libertà dopo l’udienza di convalida, o colui che non si trova in stato di custodia cautelare)
è invece citato a comparire all’udienza in giudizio direttissimo, convocata dal P.M. nel rispetto di un termine dilatorio di 3
giorni (art 450 co.2).

In questi casi, l’imputazione è contestata per iscritto, nel decreto di citazione a giudizio.

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C’è il tempo per una breve indagine preliminare, che il P.M. può condurre con la consueta ampiezza di mezzi, fino al decreto
di giudizio direttissimo.

In attesa del dibattimento, c’è spazio anche per qualche essenziale adempimento predibattimentale:
 Il fascicolo del dibattimento è formato dal P.M., subito dopo l’emissione del decreto di giudizio direttissimo;

 Il difensore ha diritto di essere avvertito della data fissata per il giudizio, ed ha facoltà di vedere ed acquisire, in
copia, gli atti di indagine esistenti presso la segreteria del P.M. e gli atti confluiti nel fascicolo del dibattimento.

In ogni caso, costituisce un diritto dell’imputato, protetto da sanzione di nullità, quello di essere avvertito della facoltà di
chiedere il giudizio abbreviato, il patteggiamento o la sospensione del processo con messa alla prova, prima che sia dichiarato
aperto il dibattimento.

Se vi fossero richieste, il giudice del dibattimento dovrebbe esaminarne l’ammissibilità.

Anche la richiesta di giudizio direttissimo subisce un vaglio di ammissibilità.

La scelta di tale rito si regge su presupposti che postulano un’accusa seriamente fondata.

Inoltre, nei casi di arresto in flagranza, il giudizio direttissimo è subordinato all’ulteriore condizione che l’imputato permanga
in stato di limitazione della libertà personale, talché il rito speciale resta precluso in assenza di un esplicito atto di consenso
dell’imputato a piede libero.

Con riguardo alla compressione delle garanzie difensive ordinariamente associate al predibattimento, è necessario un controllo
giurisdizionale sull’instaurazione del rito speciale.

L’art 449 ha reso doverosa la citazione direttissima dell’arrestato in flagranza (entro 30 giorni dalla limitazione di libertà) o
dell’imputato che abbia reso confessione entro 30 giorni dalla registrazione della notizia di reato.

Presentata richiesta dal P.M., se il giudice ritiene insussistente alcuna delle situazioni assunte come presupposto di
ammissibilità del rito, quest’ultimo non può aver luogo.

La legge impone la restituzione degli atti al P.M., quando il giudice rileva che il rito speciale è stato promosso fuori dei casi
consentiti (art 452 co.1).

È chiaro che l’ordine (motivato, ma insindacabile) di restituire gli atti al P.M. contiene, implicitamente, una statuizione di
inammissibilità.

Ricevuti gli atti, il P.M. eserciterà in altro modo l’azione penale, magari chiedendo il giudizio immediato che ha il suo
fondamentale presupposto in una generica evidenza del fatto descritto nell’imputazione.

Ulteriore limite al promovimento del rito in questione può discendere dall’opportunità di mantenere riuniti diversi
procedimenti penali, quando fra questi ve ne sia alcuno che il P.M. intende definire “per direttissima”.

Tale scelta comporta la separazione del procedimento speciale rispetto alle altre vicende connesse.

Se, però, ragioni di convenienza legate al complessivo buon esito delle indagini o ad esigenze di economia processuale
sconsigliano la separazione, il giudice ordina che si proceda cumulativamente e nei modi ordinari in relazione a tutte le
regiudicande (art 449 co.6).

25. Segue: giudizio direttissimo davanti al giudice monocratico. (Art 558)


Tale giudizio direttissimo davanti al tribunale in composizione monocratica ha caratteristiche peculiari rispetto a quanto detto.

In origine, l’art 566 (ora 558) ammetteva il giudizio direttissimo.

Era esclusa la possibilità del giudizio speciale a seguito di arresto in flagranza intervenuto nei precedenti 15 (oggi 30) giorni, o a
seguito della confessione del reato avvenuta nei primi 15 (oggi 30) giorni dell’avvio dell’indagine preliminare (art 449 co.5).

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Entrambi questi limiti sono stati rimossi, perché ritenuti dalla Corte Costituzionale irragionevoli.

La legge 479/99 si è adeguata a tali pronunce, col novellato art 558 co.9, sicché ora il giudizio direttissimo può essere
promosso davanti al giudice monocratico per gli stessi casi per i quali risulta ammissibile davanti a quello collegiale.

L’art 558 co.9 (sopravvissuto alla novella del 2008) stabilisce che il P.M. “può altresì procedere a giudizio direttissimo nei casi
previsti dall’art 449 co.4 e 5”. Quel “può” vale come un “deve”.

Restano alcune differenze:

 Nel giudizio direttissimo davanti al giudice monocratico, l’eventuale udienza di condanna dell’arresto si svolge davanti
al giudice del dibattimento, se il P.M. è in grado di presentare l’arrestato all’udienza entro 48 ore dall’atto coercitivo
(art 558 co.4).

Negli altri casi, l’udienza stessa è destinata a svolgersi davanti al G.I.P., con conseguente presentazione dell’imputato al
giudice dibattimentale.

Ex art 558 co.7, l’imputato:

 ha facoltà di chiedere un termine a difesa più breve (fino a 5 giorni) di quello assicurato davanti al giudice collegiale (10
giorni),
 ma non ha diritto ad essere avvertito dal giudice della possibilità di avvalersi di tale facoltà, come invece prevede l’art
451 co.6.

Nulla viene detto circa gli adempimenti preparatori del dibattimento, né del modo in cui va esercitata l’azione penale in
questa speciale versione di giudizio direttissimo; ma troverebbero applicazione le norme ex art 450 e 451 e vale quanto già
detto precedentemente negli altri paragrafi.

26. Segue: giudizi direttissimi atipici.


In alcuni casi eccezionali, il giudizio direttissimo può essere promosso senza che ricorrano i presupposti ex art 449 e 558, e sulla
base di altra causa giustificativa.

Il fondamento di questi giudizi direttissimi atipici risiede nell’esigenza politica di giudicare con celerità reati percepiti come
gravi e allarmanti.

L’urgenza repressiva intacca il principio di eguaglianza dei cittadini di fronte alla legge processuale.

Previsti da leggi speciali, tali giudizi atipici si sono diffusi tra gli anni 1974 e 1979, con la legislazione d’emergenza.

La riforma del 1989 aveva soppresso la maggior parte di questi giudizi, lasciando sopravvivere solo quei reati concernenti
armi ed esplosivi, nonché quei reati connessi col mezzo della stampa.

La norma di coordinamento fu dichiarata illegittima dalla Corte Costituzionale, per un contrasto con la direttiva della legge
delega, del tutto esplicita nell’escludere qualsiasi ipotesi “atipica” di giudizio direttissimo.

Ciò non ha impedito al legislatore di ripristinare tale rito speciale per reati concernenti armi ed esplosivi e di introdurre una
serie di altri esemplari, quali:

 Per i reati di discriminazione etnica, razziale e religiosa;


 Per taluni reati commessi in occasione di manifestazioni sportive;
 Per reati collegati all’illegale reingresso e permanenza degli stranieri nel territorio dello Stato (imposta la
presentazione immediata dell’imputato davanti al giudice di pace).

In relazione a tutti questi reati, il giudizio direttissimo costituisce il modo ordinario di procedere, derogabile solo in quanto
siano necessarie “speciali indagini”, nel qual caso si reputa ragionevole far regredire il procedimento alla fase preliminare.

Una simile deroga non è prevista per i reati relativi al reingresso dello straniero espulso, considerati di facile e rapido
accertamento; per cui non vi è alternativa al giudizio direttissimo.

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In tutti gli altri casi, la necessità di “speciali indagini” legittima il P.M. a scegliere il normale iter processuale, con atti che la
giurisprudenza ritiene insindacabile.

Il giudice non può imporre al P.M. di promuovere il giudizio direttissimo, sull’asserito presupposto che non sarebbero
necessarie speciali indagini.

Può, però, imporgli di procedere in altra maniera, tutte le volte che l’instaurazione del giudizio direttissimo appaia ostacolata
dalla necessità di speciali indagini.

Quest’ultima sussiste quando le investigazioni da compiere si rivelino incompatibili, per complessità e durata, con la
completezza che deve pur contrassegnare anche l’indagine che precede l’udienza del giudizio direttissimo “atipico”.

Dunque, tale rito speciale può comportare una preliminare fase investigativa, destinata a protrarsi per un periodo ben
superiore a 30 giorni consentito in relazione all’ordinario giudizio direttissimo.

L’indagine del P.M. potrebbe durare anche alcuni mesi, prima di approdare al dibattimento; ciò nonostante, la sequenza
procedurale resta priva della fase predibattimentale, giacché lo svolgimento del rito deve seguire le scansioni previste dalla
normativa che regola il giudizio direttissimo “tipico”.

A tali indeterminatezze temporali, una giurisprudenza minoritaria di legittimità cerca di far valere per i giudizi direttissimi
atipici gli stessi termini prescritti per l’instaurazione dei direttissimi tipici: cioè, 30 giorni dall’arresto o dall’inizio di indagine.

Le leggi sopra citate non disciplinano, però, le modalità di svolgimento di tale giudizio atipico, per cui valgono le disposizioni ex
art 450 e 451.

Anche il rito direttissimo atipico può subire la trasformazione in giudizio abbreviato, patteggiamento o sospensione del
processo con messa alla prova.

La relativa richiesta va presentata prima che sia dichiarato aperto il dibattimento, secondo quanto stabilito dall’art 452 co.2
per il giudizio direttissimo tipico.

27. Contestazione suppletiva del reato concorrente e del reato continuato. (Art 423 co.1 e 516)
Tale disciplina non è presente nel Libro VI, ma presenta tutte le caratteristiche del giudizio speciale promosso ex auctoritate,
rientrando nel 2°gruppo dei riti fondati su presupposti obiettivi.

Quando la contestazione suppletiva del reato avviene nell’udienza preliminare, essa realizza un singolare caso di esercizio
dell’azione penale, senza previa indagine preliminare (manca l’indagine preliminare).

Quando, invece, avviene nel dibattimento, essa comporta addirittura l’amputazione dell’intera fase preliminare del processo,
oltre che di quella predibattimentale (manca, dunque, l’intera fase preliminare al giudizio).

L’istituto trova la sua ragion d’essere nell’opportunità di giudicare insieme, cumulativamente, le regiudicande connesse a
norma dell’art 12 lett.b.

L’affiorare, nell’udienza preliminare o nel dibattimento, di un fatto appaia in rapporto di continuazione o di concorso formale
con quello già contestato pone un problema di applicazione della legge penale che esige una risposta adeguata sul piano
processuale.

Se per tutti questi fatti fosse riconosciuta la responsabilità dell’imputato, la relativa pena dovrebbe essere quantificata nel
rispetto della proporzione stabilita dall’art 81 c.p.

Uno svolgimento separato delle vicende processuali riguardanti le regiudicande in questione renderebbe addirittura
impossibile questo calcolo.

La legge offre un rimedio esperibile in sede esecutiva contro l’errore di commisurazione della pena nel quale fossero incorsi
diversi giudici occupatisi separatamente di fatti connessi ex art 12 lett.b. Ma, sicuramente, è preferibile prevenire l’errore,
piuttosto che porvi rimedio quando magari ha già cagionato dei guasti in pregiudizio del condannato.

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Orbene, le disposizioni che impongono la contestazione suppletiva del reato concorrente o del reato continuato permettono di
prevenire quel possibile errore.

Esse sono volte a rendere più agevole l’applicazione dell’art 81 c.p.

Per tal motivo la legge impone una nuova contestazione, senza esigere né il consenso dell’imputato, né l’autorizzazione del
giudice, che sono richiesti, invece, per la contestazione di nuovi fatti nell’udienza preliminare o nel dibattimento.

L’atto, imperativo ed insindacabile, col quale il P.M. contesta un reato concorrente o un reato continuato comporta:

 la soppressione dell’indagine preliminare, se la nuova contestazione avviene nell’udienza preliminare (art 423 co.1);
 la soppressione dell’intera fase preliminare del processo e del predibattimento, se essa avviene del dibattimento (517).

Rischiano di essere lesi quei diritti dell’imputato che la legge associa alle fasi soppresse.

Il problema riguarda la contestazione effettuata in dibattimento, rispetto alla quale l’imputato non può avvalersi né della
facoltà di intervento e assistenza esercitabili nell’udienza preliminare, né di quelle usufruibili nella fase degli atti preliminari al
dibattimento.

A compensare questa perdita di garanzie, la normativa processuale riconosce alle parti il diritto di ottenere una soppressione
dell’udienza per preparare la difesa in ordine al nuovo addebito, in maniera analoga a quanto accade nel giudizio direttissimo, il
quale a sua volta si caratterizza per l’assenza della fase predibattimentale (art 451 co.6).

Pure il diritto alla prova è salvaguardato, col riconoscere a tutte le parti il diritto all’assunzione di nuove prove in ragione
della mutata regiudicanda.

È fatto salvo, infine, il diritto dell’imputato di essere ammesso all’oblazione per il reato concorrente contestato in dibattimento;

così come il diritto di accedere sia al patteggiamento sia al giudizio abbreviato per il reato concorrente, come indicato in una
serie di sentenze fino ad oggi richiamate.

28. Procedure speciali di carattere misto.


Quelle di carattere misto, sono situazioni ibride, nelle quali la semplificazione procedurale scaturisce da un atto imperativo del
magistrato penale, combinato con il consenso dell’imputato o con l’accordo delle parti principali del processo.

È sempre l’A.G., e segnatamente, il P.M., ad assumere l’iniziativa ufficiale volta a semplificare il rito; me è sempre necessaria, in
tali situazioni ibride, un’accettazione del rito speciale da parte dell’imputato.

Così funziona per:

 Il procedimento per decreto (art 459-464);


 Giudizio direttissimo esperibile previo consenso delle parti (art 449 co.2 e 558 co.5);
 Contestazione suppletiva del fatto nuovo (art 423 co.2 e 518).

29. Procedimento per decreto. TITOLO V (Art 459-464)


Quando l’accertamento riguarda reati di lievissima entità, la legge consente che il provvedimento di condanna possa essere
emesso al termine dell’indagine preliminare, senza previo contraddittorio.

La forma del decreto assunta qui dal provvedimento di condanna è il riflesso dell’assenza di contraddittorio.

Tratto essenziale del rito è l’eliminazione della fase dibattimentale, attuata in via autoritativa dal giudice (su richiesta del
P.M.), alla stregua di un parametro oggettivo, identificato nella applicabilità di una pena pecuniaria.

Il condannato ha facoltà di opporsi alla condanna, provocando una prosecuzione dell’attività processuale.

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Grazie a tal potere di interdizione, l’imputato può dunque influire, con la sua volontà, sul corso del processo:
 accettandone la chiusura anticipata,
 o determinandone l’ulteriore avanzamento.

Il principio costituzionale del contraddittorio trova qui attuazione differita ed eventuale, subordinata alla scelta dell’imputato di
opporsi al provvedimento che lo condanna.

Di qui la natura mista del procedimento per decreto:


 instaurato d’autorità, sulla base di un parametro obiettivo (punibilità del reato con pena pecuniaria), esso ha
bisogno di una manifestazione di volontà dell’imputato per concludersi.

Evidente è l’analogia con i provvedimenti monitori tipici della giurisdizione civile, dei quali il procedimento per decreto
rappresenta una sorta di trasposizione in campo penale.

Il decreto penale permette la deflazione processuale, che la legge tende a potenziare. Anche gli illeciti imputabili alle persone
giuridiche, in quanto sanzionabili con pena pecuniaria, possono essere definiti con questa sommaria procedura.

Ex art 459 co.2, è presente un incentivo “premiale” (cioè una riduzione della pena sino alla metà, rispetto al minimo
edittale), per indurre l’imputato ad accettare la condanna per decreto, astenendosi dal proporre opposizione.

Nel 1999 sono stati, poi, accresciuti i vantaggi per l’imputato disposto ad accettare la condanna. Sono stati ampliati, inoltre, i
casi di reati assoggettabili a decreto penale, che ora ricomprendono anche quelli perseguibili a querela della persona offesa
(non più solo quelli procedibili d’ufficio).

Ulteriore incentivo per l’imputato viene infine dalla l.103/2017, che ha abbassato notevolmente la pena pecuniaria da
applicare in sostituzione della pena detentiva, riducendo da 250 a 75 euro il valore giornaliero minimo per convertire in
danaro la pena detentiva (ad esempio, 90 giorni di detenzione possono tradursi in una sanzione pecuniaria di 6750 euro).

30. Segue: fase introduttiva e svolgimento procedurale


La disciplina è regolata nel Titolo V (art 459-464).

Introduce il rito una richiesta che il P.M. presenta al G.I.P., entro 6 mesi dalla registrazione della notizia di reato, allegandovi il
fascicolo e con gli esiti delle sue investigazioni.

La richiesta è atto di esercizio dell’azione penale; deve dunque contenere:


 tutti i dati idonei a identificare l’imputato e la correlativa imputazione (art 459 co.1);
 l’indicazione della pena da applicare (che il P.M. può quantificare con generosa diminuzione, in virtù della
“premialità”).

Il G.I.P., ricevuta la richiesta, ne deve vagliare preliminarmente l’ammissibilità, alla luce dei criteri che ora indichiamo.

La richiesta va, innanzitutto, rigettata:

 se dagli atti presenti nel fascicolo dell’indagine risulta che l’imputato dev’essere prosciolto con una delle formule ex art
129 co.1.

In tal caso il giudice emette una sentenza, idonea chiudere definitivamente il processo.

Sentenza impugnabile con il solo ricorso per cassazione, dato che il giudice di appello sarebbe funzionalmente incompetente
ad adottare il decreto di condanna in caso di riforma del proscioglimento.

In tutti gli altri casi, il rigetto della richiesta comporta la restituzione degli atti al P.M., con atto insindacabile del giudice.

Il rito speciale non è ammesso, per ragioni procedurali:


 quando la relativa richiesta è stata presentata fuori termine (cioè oltre i 6 mesi);
 o quando essa riguarda reati puniti solo con pena detentiva.

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L’inammissibilità può dipendere:

 dall’esigenza di assicurare l’esatta applicazione della legge penale sostanziale,


 quando il giudice ritiene applicabile una misura di sicurezza personale, che non può essere disposta con decreto
penale (art 459 co.4),
 o quando reputa incongrua la pena proposta nella richiesta del P.M.

A tale ultimo riguardo, il giudice non può modificare l’entità della pena quantificata nella proposta di condanna. Trovandosi
di fronte ad una alternativa, il giudice se non concorda con quel calcolo, deve restituire gli atti al P.M. per l’ulteriore corso del
procedimento.

Se, invece, la richiesta del P.M. merita di essere accolta, il giudice emette decreto di condanna, secondo l’art 460.

Il decreto è idoneo a divenire irrevocabile e a costituire titolo per eseguire la pena inflitta, a meno che la parte non vi si
opponga entro 15 giorni dalla relativa notifica.

A tale scopo, il giudice inserisce nel decreto (a pena di nullità) un avviso agli interessati (imputato, difensore, civilmente
obbligato per la pena pecuniaria), per ricordar loro il diritto di opporsi al provvedimento di condanna, optando per uno dei
riti speciali indicativi, e per avvertirli che la mancata opposizione nel termine suddetto renderebbe esecutiva la condanna.

A pena di nullità, l’imputato va avverti della facoltà di nominare un difensore (si ricava che il decreto penale è analogo alla
funzione svolta dall’informazione di garanzia).

L’imputato, infatti, potrebbe essere del tutto ignaro del procedimento a suo carico, culminato del decreto di condanna.

Per far fronte al problema di notificazione del decreto, il legislatore ha dettato regole tali da elevare il grado di effettività della
procedura di notifica, al fine di scongiurare il rischio che l’imputato scopra di essere condannato quando sono ormai scaduti i
termini per presentare opposizione.

A tal fine, la legge allestisce un rimedio preventivo, vietando la notificazione del decreto secondo la procedura normalmente
seguita per l’imputato irreperibile (art 159):

 dunque, di fronte all’impossibilità di rintracciare chi non si riesce a trovare, il giudice deve revocare il decreto di
condanna e restituire gli atti al P.M., per l’ulteriore prosecuzione del processo nelle forme ordinarie o con altro rito
speciale (art 460 co.4).

Lo stesso accade quando la notificazione del decreto risulti impossibile, per essere inidonea o insufficiente la dichiarazione di
domicilio ex art 161.

Ad ulteriore completamente di siffatte garanzie, la legge appresta un rimedio esperibile successivamente all’emissione del
decreto penale e consistente nel prevedere la restituzione in termini per proporre impugnazione, tutte le volte che l’interessato
dimostri di non aver avuto tempestivamente conoscenza effettiva del decreto stesso, per ragioni non imputabili a sua colpa,
sempre che non abbia volontariamente rinunciato a opporsi.

Effettuata la notifica, la mancata opposizione al decreto equivale ad accettazione della condanna.

31. Segue: il decreto penale.


Scaduto il termine per opporsi, il decreto penale diventa definitivo e costituisce titolo per eseguire la condanna, salvo che
l’opposizione proposta da altri coimputati, condannati con decreto per il medesimo reato, produca effetto estintivo previsto
dall’art 463 co.1, che può sfociare in una revoca del provvedimento di condanna.

Sotto il profilo del ne bis in idem (art 649 “Divieto di un secondo giudizio”) e ai fini del giudizio di revisione, il decreto penale è
equiparato a una normale sentenza di condanna.

Ma sotto altri profili, affiorano marcate analogie con quell’ibrido indefinibile rappresentato dalla sentenza che applica la pena
ex art 444; la l.479/99 ha reso affini questi due singolari provvedimenti di condanna.

L’accertamento contenuto nel decreto penale è idoneo a sortire effetti vincolanti, a norma degli artt 651-654, nei giudizi civili e
amministrativi.
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Inoltre, il procedimento per decreto non può culminare nell’applicazione di una misura di sicurezza personale.

La riforma del 1999 ha modificato e completato la configurazione normativa del decreto penale, accentuandone gli attributi
premiali.

Secondo la configurazione normativa attuale, il condannato per decreto non subisce più l’obbligo di pagare le spese processuali,
né gli possono essere applicate le sanzioni accessorie previste dalla legge penale.

Inoltre, il reato oggetto del decreto di condanna è destinato ad estinguersi, se nei 5 anni successivi (ridotti a 2 per gli illeciti
contravvenzionali), l’imputato non ne commette un altro della medesima indole (art 460 co.5).

Ancora, l’art 460 co.5 stabilisce che, in tali ipotesi, il decreto di condanna non ostacola una successiva sospensione condizionale
della pena, mentre può giustificare una revoca della sospensione stessa.

Infine, la condanna inflitta con decreto, pur iscritta nel casellario giudiziale, non è menzionata nei corrispondenti certificati
richiesti dai privati.

Insomma, l’imputato-condannato ha un forte incentivo ad accettare la decisione fissata nel decreto:

 Egli deve avere ragioni davvero solito per opporvisi, rinunciando a tutti quei vantaggi e col rischio di subire una
condanna più grave.

32. Segue: opposizione a decreto penale.


Opponendosi al decreto penale, l’imputato (o il civilmente obbliato per la pena pecuniaria/persona giuridica per il tramite del
suo rappresentante) consegue un duplice risultato:

 Da un lato, risolve l’efficacia del provvedimento sospendendo così l’esecuzione della condanna;
 Dall’altro, impone che l’accertamento del fatto avvenga in forme diverse da quelle del procedimento per decreto.

L’atto di opposizione ha dunque un duplice contenuto:

 Vale come dissenso dell’interessato rispetto al rito speciale,


 E vale anche come impugnazione rispetto alla condanna inflitta.

L’opposizione è prerogativa dell’imputato oltre che degli altri soggetti prima citati, i quali possono tutti agire anche per
mezzo del difensore.

In quanto atto di impugnazione, in senso lato, riconducibile al modello del gravame, l’opposizione presenta tratti peculiari che
meritano di essere passati in rassegna:

1) È priva dell’effetto devolutivo.

Una volta proposta, il processo è destinato a proseguire davanti al giudice di primo grado e non di grado superiore.

2) L’opponente non deve necessariamente indicare i motivi della sua doglianza.

Per vedere ammesso il gravame, basta che nella dichiarazione siano indicati gli estremi del provvedimento di condanna, la data
dello stesso e il giudice competente.

Benché corredata di motivi, l’opposizione sarebbe comunque idonea ad attribuire all’organo giurisdizionale piena cognizione
su tutti i punti della decisione impugnata e non solo su quelli toccati dai suddetti motivi.

3) Il giudice non è qui assoggettato nemmeno al divieto di reformatio in peius, sicché l’opponente deve sapere che corre il
rischio di una condanna più grave di quella fissata nel decreto impugnato.

4) Infine, l’opposizione sortisce un effetto estensivo, nei casi in cui il decreto di condanna sia stato pronunciato contro una
pluralità di imputati per il medesimo fatto; presentata da uno/alcuni fra costoro, essa vale anche per gli altri, sicché
l’esecuzione del decreto resta sospesa per tutti, finché il processo non si concluda “con pronuncia irrevocabile”.

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A maggior ragione, l’opposizione proposta dall’imputato giova alla persona civilmente obbligata per la pena pecuniaria che
non sia stata opposta;
così come l’opposizione presentata da quest’ultima gioverebbe all’imputato, se questi si fosse astenuto dall’impugnare il
decreto penale.

Alla stessa conclusione parrebbe approdare per i procedimenti a carico di persone giuridiche.

Ad ogni modo, l’effetto estensivo (al n.4) non si risolve in una automatica estensione, al non opponente, degli effetti
scaturenti dalla decisione successiva al giudizio di opposizione.

Solo se tale giudizio si conclude con un proscioglimento del merito (“il fatto non sussiste”, “il fatto non è previsto dalla legge
come reato”, “il fatto non costituisce reato per la presenza di una causa di giustificazione”) l’imputato non opponente può
lucrare il buon esito dell’iniziativa altrui.

In tali casi il decreto di condanna è revocabile dal giudice.

Con la sua opposizione, l’imputato ripristina l’ordinaria situazione processuale subito successiva all’esercizio dell’azione penale,
nella quale è ancora possibile effettuare la scelta di altro rito speciale.

In particolare, egli può presentare richiesta:

 di giudizio immediato, di giudizio abbreviato, di patteggiamento, di sospensione del procedimento con messa alla
prova, di oblazione o di offerta riparatoria

allo stesso giudice (delle indagini preliminari) che ha emesso il decreto penale (art 461 co.3).

Per rendere concreta la scelta del rito, l’imputato va avvertito della chance difensiva che l’ordinamento gli riconosce.

Il preavviso deve essergli comunicato (a pena di nullità) con lo stesso decreto di condanna.

L’eventuale richiesta d’oblazione va indirizzata al giudice procedente, da individuare nel G.I.P., finché il fascicolo non sia
trasmesso al giudice dibattimentale.

La scelta di una fra queste procedure alternative, va fatta con l’atto d’opposizione.

Nel corso del giudizio successivo a tale atto, la richiesta non può essere presentata, ma un’eccezione è ragionevole farla se si
verificassero quelle modifiche dell’imputazione per le quali l’imputato può normalmente contare su una rimessione in
termini, almeno per chiedere il patteggiamento, l’oblazione o il giudizio abbreviato.

Fra le opzioni enumerate ex art 461 co.3 figura anche la richiesta di giudizio immediato; ma si tratta di soluzione obbligata,
per l’imputato che non intenda scegliere la via di uno dei riti alternativi al dibattimento.

Il giudice che riceve la dichiarazione di opposizione è tenuto a vagliarne l’ammissibilità, alla luce dei pochi requisiti:

 legittimazione dell’opponente, osservanza del termine, estremi e data del decreto di condanna, identificazione del
giudice che lo adottò.

Il difetto di uno di questi requisiti comporta l’inammissibilità dell’atto di parte, con la conseguenza che il decreto penale
diventa esecutivo:

 non prima che l’ordinanza d’inammissibilità diventi, a sua volta, definitiva.

Se non c’è consenso o accordo fra le parti per una definizione anticipata del processo, si procede con citazione a giudizio
immediato.

Nel giudizio conseguente all’opposizione, il decreto penale deve essere revocato; ma anche se il giudice non provvedesse con
atto formale, l’effetto di revoca si produrrebbe ex lege, a seguito del semplice accoglimento dell’opposizione.

Il dibattimento si svolge secondo le regole ordinarie, con le dovute variazioni secondo che la cognizione del reato sia attribuita
al giudice collegiale o monocratico.

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Dubbio è circa il ruolo del querelante nel giudizio conseguente ad opposizione.

La legge impone che gli sia data comunicazione del decreto penale; ma poi tace sulle sue facoltà di intervenire nell’ulteriore
corso della procedura.

La persona offesa vanta un diritto di essere citata in giudizio, per esercitare in quella sede le facoltà che la legge le
attribuisce.

Inoltre, se intendesse esser presente con maggior peso nel giudizio penale, essa avrebbe il diritto di costituirsi parte civile,
potendosi avvalere delle facoltà di intervento e delle maggiori garanzie che la legge processuale attribuisce a questo soggetto.

33. Giudizio direttissimo su accordo delle parti.


Un caso eccezionale di giudizio direttissimo è costituito da quello previsto ex art 449 co.2, nonché quello ex art 558 co.5 (per il
procedimento davanti al giudice monocratico).

Ma mancata convalida dell’arresto, di regola, è d’ostacolo all’instaurazione del giudizio direttissimo.

In tal caso, il giudice deve restituire gli atti al P.M., affinché proceda in altra maniera.

Tuttavia, il giudizio direttissimo può ancora essere ammesso, se “l’imputato e il P.M. vi consentono”.

Quanto a modalità di svolgimento, tale giudizio non differisce da quello ordinario già esaminato.

Quel che cambia è il presupposto, non più limitato all’ordinario requisito oggettivo (arresto in flagranza) che legittima il
ricorso al rito speciale, ma tale da comprendere anche un requisito soggettivo (il consenso delle parti).

In merito a tale requisito soggettivo, la legge processuale istituisce una sorta di rapporto pregiudiziale fra giudizio di convalida e
instaurazione del giudizio direttissimo.

L’esito positivo della prima (tutte le volte che vi sia stata presentazione dell’arrestato in dibattimento) impone di procede
“immediatamente al giudizio” secondo l’art 449 co.3.

L’esito negativo della stessa impedisce, di regola, un giudizio direttissimo promosso ex auctoritate.

Questa duplice relazione non si spiega tanto in base al rilievo che il rito in questione presuppone un arrestato in stati di
detenzione legittima; perché la convalida di arresto è si condizione necessaria, ma non sufficiente, giacché potrebbe darsi il
caso che l’arresto sia stato legittimamente operato e che l’imputato vada restituito alla sua libertà, perché, ad esempio,
difettano le esigenze cautelari ex art 272 indispensabili per una misura coercitiva di maggior durata.

La convalida di un arresto in flagranza acquista qui il senso di un’ulteriore conferma del quadro indiziario:

 È superfluo muovere alla ricerca di elementi idonei a sostenere un’accusa che, anche dopo il giudizio di convalida,
appare seriamente fondata.

Reciprocamente, la mancata convalida pone il problema dell’inopportunità del giudizio direttissimo, per ragioni legate, stavolta
in negativo, alla situazione di evidenza probatoria.

Vari i motivi che possono opporsi alla convalida d’arresto e non tutti tali da smentire l’intrinseca “gravità degli indizi di
colpevolezza”.

La normativa processuale non scende nel dettaglio a distinguere i motivi della mancata convalida.

La legge si mantiene su un piano di maggior astrattezza e generalità:


 In quel diniego di convalida scorge il sintomo di un dubbio circa la pronosticabile responsabilità penale
dell’imputato; un dubbio che finisce col contaminare anche il fondamento dell’accusa e dal quale si traggono le
dovute conseguenze, imponendo al giudice di restituire gli atti al P.M.

Tuttavia, poiché l’esito negativo del giudizio di convalida non esclude l’evidenza dell’accusa, il giudizio direttissimo può
ancora essere promosso, purché lo vogliano entrambe le parti principali del processo.

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Non sono previste forme particolari per la prestazione del consenso.

Il P.M. potrà manifestarlo citando l’imputato a comparire (art 450 co.2), ogni volta ritenga di non dover chiedere l’archiviazione
per il fatto che gli è attribuito o di non dover condurre, nei suoi confronti, approfondimenti che esigono lo svolgimento di
un’indagine preliminare.

Il consenso dell’imputato può essere presentato in qualsiasi forma, anche dal difensore pur privo di procura ad hoc; può
anche essere dedotto dal comportamento dell’imputato che accetti l’iniziativa del P.M., volta a instaurare il giudizio
direttissimo.

34. Contestazione suppletiva del “fatto nuovo”. (Art 423 co.2 e 516ss)
Il consenso dell’imputato gioca un ruolo centrale anche in quel procedimento speciale che si realizza quando il P.M. contesta
all’imputato un nuovo fatto, mentre è in corso il processo per altra imputazione a carico del medesimo imputato.

Deve ovviamente trattarsi di un fatto non connesso con quello già contestato, ché, altrimenti il consenso dell’imputato
sarebbe superfluo.

Il tipo di “nuove contestazioni” è orientato ad esigenze di economia processuale; e siccome tali esigenze non possono essere
soddisfatte a scapito dei diritti dell’imputato, il consenso di quest’ultimo diventa condizione essenziale per tale rito.

Occorre distinguere secondo che il nuovo capo di imputazione sia contestato:


1) nell’udienza preliminare (art 423 co.2)
2) o nel dibattimento (art 518).

1) Nel primo caso, la sequenza procedurale risulta priva della fase dell’indagine preliminare.

Col prestare il proprio consenso, l’imputato rinuncia a quelle poche facoltà di intervento e di assistenza che la legge gli
assicura in detta fase, come (ad esempio), il diritto di essere interrogato sul fatto addebitato prima della richiesta di rinvio a
giudizio e il diritto di difendersi di fronte a certe iniziative del P.M.

L’atto di consenso alla nuova contestazione può provenire anche dal difensore, anche se privo di procura ad hoc.

2) Nel secondo caso, la contestazione di un fatto nuovo comporta la soppressione dell’intera fase preliminare del processo,
oltre che della fase predibattimentale, dimostrandosi strutturalmente affine al giudizio direttissimo.

il diritto di difesa è tutelato come quanto disposto negli art 516 e 517:
 Sospensione del processo (da 20 a 40 giorni) e ammissione di prove in ordine al nuovo addebito sono assicurate
all’imputato che ne fa richiesta (art 519).

L’imputato, invece, rinuncia (quando viene contestato un “fatto nuovo”):


- A contrastare l’accusa nell’udienza preliminare,
- A quella variegata gamma di scelte che la legge impone di fare fra l’udienza preliminare e apertura del dibattimento
(giudizio abbreviato, patteggiamento, oblazione, offerta riparatoria ex art 162ter c.p., sospensione del processo
con messa alla prova), che quindi non possono essere richiesti in relazione al reato contestato.

Inoltre, la legge esige che il consenso provenga direttamente dall’imputato presente nel dibattimento; infatti, la
contestazione del “fatto nuovo” non è ammessa nei confronti dell’assente.

La contestazione suppletiva in parola dev’essere accompagnata da un atto autorizzato del giudice;

il quale compare come riferimento nell’art 423 co.2, ma il giudice lo emetterà una volta appurata la sussistenza di un effettivo
consenso dell’imputato o del suo difensore.

Diversamente, l’art 518 co.2 attribuisce al giudice del dibattimento il potere di autorizzare la contestazione suppletiva,
subordinandone l’esercizio alla constata manifestazione di personale consenso dell’imputato ed alla verifica che essa non
nuoccia alla speditezza del procedimento.

L’aggiunta di un nuovo capo di imputazione a quello già contestato si risolve in un cumulo di regiudicande, soggetto al vaglio di
opportunità del giudice procedente.

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CAPITOLO VII
Giudizio
1. La fase del giudizio.
Con il giudizio si apre una nuova fase del processo, il quale:

 Inizia dal momento della domanda del P.M. al giudice di pronunciarsi sull’imputazione (c.d. esercizio azione penale).

Il giudizio viene instaurato in base:


 al decreto che il giudice emette al termine dell’udienza preliminare (art 429),
 o a un decreto di giudizio immediato (art 456).

L’imputato:
 può anche essere citato a giudizio con atto del P.M., come accade ex art 550 davanti al tribunale in composizione
monocratica,
 nonché, se si trova in stato di libertà, quando si procede con giudizio direttissimo;
 o addirittura può essere presentato dal P.M. direttamente all’udienza dibattimentale (art 450 co.1).

Le disposizioni del Libro VII (art 465-548), dedicato al Giudizio, sono dettate per il tribunale in composizione collegiale e per la
corte di assise (per cui vale la stessa disciplina, tranne ciò che riguarda la diversa competenza e composizione del collegio).

Ex 549, queste si applicano anche nel procedimento davanti al tribunale in composizione monocratica.

La rubrica del Libro VII sta ad indicare il giudizio ordinario di primo grado, che culmina nel dibattimento pubblico, dove le parti
si affrontano per porre le basi probatorie della decisione finale.

Ai sensi del codice vigente, è il giudizio il momento centrale del processo;

si vuole che sia il dibattimento la sede prioritaria per l’elaborazione della prova (es. esame testimoni e parti) con
inutilizzabilità ai fini della decisione degli elementi acquisiti altrove, salvo eccezioni tassative.

Ad avallare l’affermazione della centralità del dibattimento, vi è stato l’intervento della Corte costituzionale che ha ribadito il
principio del contraddittorio nella formazione della prova (art 111 co.4).

2. Caratteristiche del giudizio nel sistema accusatorio.


Nel dibattimento è richiesta la puntuale attuazione dei “caratteri del sistema accusatorio” cui fa riferimento la legge delega
1987.

Tuttavia, l’affermazione di principio contenuta nella legge delega rimane utile strumento interpretativo, come criterio
unificatore delle direttive particolari dalle quali i singoli caratteri del sistema sono definiti.

Anche la modifica dell’art 111 Cost non ha enunciato un’opzione a favore del sistema accusatorio.

Tuttavia, tale articolo ribadisce alcuni punti fermi con lo stabilire che:

o “ogni processo si svolge nel contraddittorio delle parti, in condizioni di parità, davanti a un giudice terzo ed
imparziale” ed il processo è “regolato dal principio del contraddittorio nella formazione della prova”.

La Costituzione, insomma, dà riconoscimento ad alcuni fra i principi cardine di quello che viene definito sistema accusatorio.

Infatti, il giudizio si può considerare di tipo accusatorio quando la formazione delle prove avviene pubblicamente nel
contraddittorio delle parti, sul tema posto dall’accusatore, davanti al giudice che ha il compito di decidere il merito.

Nel processo inquisitorio, invece, le prove vengono formate unilateralmente (fuori dall’udienza pubblica) dallo stesso
organo investito della funzione di svolgere le indagini e di formulare l’accusa, con la partecipazione solo eventuale della
difesa.

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Sennonché, è facile desumere una serie di importanti corollari, come regole normative di attuazione del modello accusatorio:

I. In primis, la parità delle parti sancita attraverso la prevista “partecipazione dell’accusa e della difesa su basi di parità in
ogni stato e grado del procedimento”.

Il contraddittorio presuppone la parità delle parti (art 111 co.2 Cost)

II. Non meno essenziale, l’oralità, come oralità-immediatezza.

La legge delega, infatti, prescrive la “adozione del metodo orale”, da intendere (l’oralità) come rapporto diretto tra il
giudice e le prove (immediatezza)  colui che ascolta, che assume le prove, deve decidere.

L’oralità in senso stretto può esistere anche senza l’immediatezza.

Nel caso dell’incidente probatorio, ad esempio, è presente il contraddittorio, è presente l’oralità, ma viene meno
l’immediatezza;
infatti il giudice del dibattimento, cui spetta la decisione, è diverso dal giudice che ha acquisito la prova.

Senza immediatezza, l’oralità perde quasi completamente significato. Infatti, anche la Cost, nell’art 111 co.4 richiede che la
prova sia acquisita, salvo eccezioni, direttamente dal giudice del giudizio.

III. All’immediatezza si accompagna il principio della concentrazione, indicato come fondamentale carattere distintivo della
fase.

Per concentrazione, si intende la tendenziale unità di tempo nella quale va celebrato il giudizio, destinato a svolgersi in una
sola udienza o in udienze contigue, in modo che la decisione sia il più possibile vicina alla rappresentazione dei fatti da
ricostruire.

Tuttavia, tal principio, rimane spesso sulla carta, in quanto il dibattimento può durare anche diversi mesi.

IV. Ulteriore corollario del modello accusatorio è la distinzione delle funzioni del giudice da quelle dell’organo dell’accusa e
dell’investigazione  solo così è assicurata la sua equidistanza dalle parti.

Modulo processuale tipicamente inquisitorio, infatti, è quello che vede il giudice cumulare in sé anche le funzioni del P.M.,
ponendo il tema della decisione, assumendo le prove d’ufficio e decidendo poi sul merito.

Quanto prefigurato dalla delega e realizzato dal codice non è un autentico processo di parti, se non altro perché vige il principio
costituzionale di obbligatorietà dell’azione penale (art 112 Cost), la cui attuazione viene assicurata mediante il costante
controllo del giudice sull’operato del P.M.

Inoltre, il giudice, pur non avendo compiti di indagine, ha alcuni poteri di iniziativa (esempio, l’indicazione di temi di prova
nuovi od incompleti e l’assunzione diretta di mezzi di prova ex art 506 e 507);

ma i casi di intervento d’ufficio del giudice sono assai numerosi, configurandosi sempre come eccezione rispetto al diritto alla
prova che l’art 190 attribuisce, di regola, alle parti.

3. Indagini preliminari e dibattimento.


Il nodo centrale è rappresentato dai rapporti tra le indagini preliminari e il dibattimento.

Non basta che i principi dell’oralità e del contraddittorio siano riconosciuti della fase del dibattimento perché il processo possa
essere definito di tipo accusatorio.

L’immediatezza, intesa come contatto diretto con la prova, viene pregiudicata ogni volta che il giudice può servirsi, per la
decisione finale, delle prove costituite fuori del dibattimento, assegnando loro un valore non diverso da quelle escusse
direttamente, in sua presenza.

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Ciò era quanto accadeva nel sistema adottato dai codici previgenti, secondo il quale i verbali delle prove raccolte senza
contraddittorio nell’istruttoria erano utilizzabili nel dibattimento.

Del resto, essendo l’istruttoria finalizzata ad un accertamento tendenzialmente completo ed esauriente, era logico che i suoi
risultati si riversassero integralmente nel giudizio.

Ad ogni modo, il giudice del dibattimento prendeva visione preventivamente del fascicolo istruttorio; ma il giudice che
conosce già il contenuto delle prove da assumere vede diminuita la sua equidistanza, poiché tende ad accettare i risultati
dell’istruttoria.

Il dibattimento diventa una ricapitolazione del contenuto del fascicolo.

Non ha nemmeno importanza chi compia le indagini preliminari (polizia, P.M., giudice istruttore), bensì il valore assunto in
giudizio dagli atti compiuti.

Senza dubbio è più coerente con la struttura accusatoria che titolare delle indagini sia il P.M., e sotto questo aspetto la scelta
del nuovo codice appare giusta.

Una cosa è certa:

 Riservare ad una parte l’esclusiva nella raccolta degli elementi di prova, si giustifica in quanto gli stessi non abbiano valore,
come tali, davanti al giudice del dibattimento.

Se viene meno la separazione tra la fase delle indagini e quella del giudizio e l’accusatore è posto in grado di precostituire per
proprio conto le prove utilizzabili per la decisione finale, continuare a considerare l’attività di indagine come meramente
preparatoria per l’esercizio dell’azione penale rischi di perpetuare un pericoloso equivoco sul ruolo del P.M.;

l’attribuzione al P.M. di maggiori poteri per l’esercizio della funzione investigativa deve essere bilanciata dalla inefficacia a fini
probatori degli atti dallo stesso compiuti.

La legge delega aveva disciplinato l’utilizzabilità in giudizio degli elementi raccolti nel corso delle indagini preliminari, creando
un sistema che rappresentava una soluzione di compromesso (a cui si sarebbe dovuto arrivare inevitabilmente).

L’inchiesta preliminare sarebbe dovuta servire solo a raccogliere fonti di informazione che il P.M. potesse utilizzare solo per le
proprie determinazioni interne e per individuare le prove da introdurre successivamente in dibattimento.

Ma tale impostazione sarebbe risultata troppo drastica, perché bisognava tener conto delle esigenze pratiche determinate dai
tempi delle indagini preliminari:
 Per quanto la si possa accelerare, la fase delle indagini preliminari può avere una durata anche cospicua, dato che si va
da un termine ordinario di 6 mesi ad un termine massimo di 18 mesi, o in casi particolari 2 anni (art 405,406 e 407).

Diveniva, dunque, indispensabile consentire il recupero in giudizio di prove appositamente precostituite, perché suscettibili
di non essere più utilmente acquisite in dibattimento, ed inoltre degli atti per propria natura irripetibili.

Oggi, l’art 111 Cost ribadisce che nel processo penale la prova deve essere formata in contraddittorio (co.4), indica
tassativamente le possibili eccezioni alla regola (co.5):

 consenso dell’imputato, impossibilità oggettiva di realizzare il contraddittorio, provata condotta illecita.

In conclusione, il tema dell’utilizzazione degli atti di indagine preliminare ai fini del giudizio è sempre stato un tema cruciale.

Per quanto riguarda le prove che nel giudizio possono essere poste alla base della decisione finale, nel codice esistono 2 chiavi
interpretative generali, destinate ad assicurare la conformità al modello accusatorio.

I. Una di queste è l’art 187 che fa parte delle disposizioni generali sulle prove, delimitandone l’oggetto:
 sono oggetto di prova i fatti che si riferiscono all’imputazione, alla punibilità e alla determinazione della pena o
della misura di sicurezza.

Il thema decidendum è quindi delineato dal P.M. nel momento in cui esercita l’azione penale.

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II. Un’altra chiave di lettura fondamentale è l’art 526 co.1 (“Prove utilizzabili per la deliberazione”), secondo il quale:
 Il giudice non può utilizzare ai fini della deliberazione prove diverse da quelle legittimamente acquisite nel
dibattimento (incluse le letture dei verbali di indagine).

Tale norma codifica un principio di legalità della prova, che consente di tener conto nella decisione conclusiva, solo di ciò che
è stato acquisito nelle forme previste dalla legge.

Vien a realizzarsi, dunque, una sorta di filtro che permette ad alcune informazioni, e non ad altre, di passare nel dibattimento;
per quelle per le quali non è prevista espressamente l’acquisizione scatta il divieto di utilizzazione.

III. L’art 526 va collegato con l’art 191 (“Prove illegittimamente acquisite”), per cui le prove acquisite in violazione dei divieti ex
lege non possono essere utilizzate.

E l’inutilizzabilità è rilevabile d’ufficio, in ogni stato e grado del procedimento, oltre a trovare riscontro in uno specifico
motivo di ricorso per cassazione (art 606 co.1 lett.c).

4. Dal “principio di non dispersione della prova” alla modifica dell’art 111 Cost.
Dopo pochi anni dall’entrata in vigore del codice, la centralità del dibattimento era stata smentita da una serie di interventi
della Corte Costituzionale e dalle conseguenti modifiche legislative del 1992, che ne avevano snaturato l’aspetto principale, cioè
quello di sede privilegiata per l’acquisizione delle prove.

La Corte aveva cancellato alcune fra le disposizioni chiave che miravano ad assicurare la prevalenza, ai fini della decisione, dei
risultati probatori effettivamente acquisiti nel dibattimento.

Fu sufficiente modificare un numero esiguo di articoli per ribaltare alcuni fra i contenuti principali della riforma; e ciò in nome
di un asserito “principio di non dispersione dei mezzi di prova”, secondo cui nessuna dichiarazione a contenuto probatorio
di testimoni/imputati deve sfuggire alla valutazione del giudice incaricato di pronunciare la sentenza, essendo irrilevante il
momento in cui le dichiarazioni sono raccolte.

Con tali interventi, dunque, il baricentro del processo si era allontanato dalla fase del dibattimento, a vantaggio della fase delle
indagini preliminari, nella quale le garanzie tipiche del giudizio restano assenti.

Il recupero dell’effettiva centralità del dibattimento si è presentato lungo e travagliato, e si è concluso con esiti non proprio
soddisfacenti.

Dopo un primo intervento del 1997, il parlamento è intervenuto con la l. cost. 2/99 che ha inserito nell’art 111 Cost i principi del
cosiddetto “giusto processo” e, in particolare, il principio del contraddittorio nella formazione della prova.

Le previsioni costituzionali inserite nell’art 111 Cost rendono espliciti e più vincolanti principi già contenuti negli artt 24 co.2 e
27 co.2 Cost, traducendo in canoni oggettivi di legittimità del processo quei diritti fino ad allora concepiti in chiave di
garanzia individuale.

Trova riconoscimento a livello costituzionale quella nozione di giusto processo che era stata introdotta nel nostro
ordinamento solo per il tramite delle convenzioni internazionali.

Sono, dunque, ribaditi per ogni tipo di processo:


 il principio del contraddittorio, della parità delle parti, della terzietà e imparzialità del giudice, nonché della durata
ragionevole (co.2).

Con riferimento al processo penale vengono elevate a rango costituzionale le disposizioni contenute nell’art 6 c.e.d.u., cioè:

 diritto di conoscere l’accusa, diritto di preparare la difesa, diritto al controesame, diritto alla prova, diritto all’interprete.

L’intervento forse più significativo è rappresentato dall’affermazione, per il processo penale, del principio del contraddittorio
nella formazione della prova (art 111 co.4 Cost); superando così, l’orientamento consolidato del 1998 che riteneva
illegittimo il divieto di utilizzare come prova in dibattimento le dichiarazioni rese nel corso delle indagini preliminari.

Va considerata prova utilizzabile per la decisione solo quella assunta davanti al giudice (in dibattimento) con l’intervento delle
parti (seppur tal condizione possa realizzarsi anche in momenti diversi, come l’incidente probatorio o udienza preliminare).
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La Costituzione stessa prefigura 3 eccezioni, infatti l’art 111 co.5 Cost, consente che si possa derogare al contraddittorio:

 “per consenso dell’imputato”

Fa riferimento ai procedimenti speciali “consensuali”, che altrimenti sarebbero da ritenere illegittimi perché implicano una
rinuncia al contraddittorio e l’utilizzazione probatoria degli atti di indagine preliminare.

 o “per accertare l’impossibilità di natura oggettiva”

Tale eccezione legittima l’acquisizione come prova degli atti non ripetibili nel contraddittorio dibattimentale (es. art 512)

 o “per effetto di provata condotta illecita”.

Di dubbia omogeneità con i principi costituzionali, la previsione dettagliata dell’inutilizzabilità, come prova della colpevolezza,
delle dichiarazioni di chi rifiuta di sottoporsi all’esame dell’imputato o del suo difensore (co.4 seconda parte).

Nel dare attuazione all’art 111 Cost, il legislatore ordinario ha trascritto la previsione in discorso nel co.1bis art 526, creando
inutili complicazioni interpretative.

5. La legge di attuazione del “giusto processo” e l’attuale ruolo del dibattimento.


La riformulazione dell’art 111 Cost ha imposto di rivedere l’intera disciplina concernente l’utilizzazione dibattimentale degli atti
di indagine e, più in generale, il valore probatorio degli elementi acquisiti al di fuori del giudizio.

La già citata legge 63/2001, sul “giusto processo” ha riformulato una serie di articoli ulteriori, quali l’art 500 sulle contestazioni
nell’esame testimoniale da sempre al centro delle tensioni concernenti le prove utilizzabili.

L’obiettivo primario perseguito, cioè ripristinare la centralità del dibattimento come luogo privilegiato per la realizzazione
del contraddittorio voluto dalla Costituzione, non è stato esente da costi né privo di ambiguità.

Il ritorno all’inutilizzabilità delle precedenti dichiarazioni ha indotti il legislatore a limitare il diritto al silenzio dell’imputato
che abbia riferito fatti concernenti la responsabilità altrui.

Viene, così, imposto all’imputato un dovere di collaborazione col P.M., dovere del quale pare lecito discutere la coerenza con
l’inviolabilità del diritto di difesa.

Nell’intento di ristabilire la parità delle parti si è portato a compimento un disegno di dislocazione dei poteri di vera e propria
formazione della prova, in capo al P.M. e ai difensori, i quali possono consensualmente sottrarre al contraddittorio elementi
raccolti, dall’una e dall’altra parte, fuori dall’udienza, unilateralmente e senza la presenza del giudice.

Facoltà che si manifesta:


 Sia mediante l’acquisizione concordata al fascicolo per il dibattimento degli atti del P.M. e di investigazione difensiva,

 Sia con l’accordo sulla acquisizione, in sede di esame, delle precedenti dichiarazioni del testimone contenute nel fascicolo
del P.M., fascicolo nel quale confluisce anche la documentazione delle investigazioni del difensore.

Tali previsioni non sono in contrasto con l’art 111 co.5 Cost, il quale autorizza la legge ad ammettere che l’imputato rinunci al
contraddittorio, ma sicuramente non contribuiscono a valorizzare la formazione della prova in dibattimento.

Che il contraddittorio dibattimentale rischi di assumere un ruolo residuale, è confermato dalle modifiche al giudizio abbreviato,
il quale è stato praticamente trasformato (da giudizio consensuale allo stato degli atti), in un vero e proprio giudizio ordinario di
primo grado, con possibile acquisizione di prove e controprove, ferma restando la piena utilizzazione degli atti di indagine.

L’impressione è confermata dal maggior peso che è venuta assumendo progressivamente l’udienza preliminare, oggi sede di
un accertamento sul merito.

La valutazione del giudice dell’udienza preliminare, se si giunge a rinvio a giudizio, può condizionare la stessa decisione
dibattimentale.

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Dunque, l’auspicata centralità del dibattimento sembra almeno parzialmente smentita dagli interventi strutturali che hanno
accompagnato la riforma del giusto processo.

Inoltre, nonostante le riforme, il legislatore non è stato in grado di delineare un nuovo quadro dei rapporti tra le prove
acquisite in dibattimento e gli elementi precedentemente raccolti.

6. Atti preliminari al dibattimento: estensione e contenuti della fase. TITOLO I (Art 465-469)
Nel giudizio si distinguono:

1) gli atti preliminari  Titolo I (art 465-469)


2) il dibattimento vero e proprio  Titolo II (art 470-524)
3) e gli atti successivi al dibattimento  Titolo III (art 525-548)

Il codice ha organizzato i 3 momenti nei titoli del Libro VII, il secondo dei quali è quello che più caratterizza la nuova struttura
accusatoria (assume un ruolo specifico l’”istruzione dibattimentale” che si riferisce ai modi di assunzione delle prove).

1) La fase degli atti preliminari al dibattimento si estende dalla conclusione dell’udienza preliminare agli atti introduttivi
del dibattimento.

Momento iniziale di tale fase  la ricezione del decreto che dispone il giudizio (art 465).

Momento finale  la costituzione delle parti (art 484).

Ha competenza funzionale per la medesima il presidente del collegio giudicante.

Il compito di fissare l’udienza dibattimentale è, invece, assegnato allo stesso giudice che dispone il giudizio, nell’intento di
favorire l’eliminazione dei tempi morti e una più rapida instaurazione del dibattimento.

Il decreto va notificato all’imputato contro il quale si sia proceduto in assenza nell’udienza preliminare, nonché all’imputato e
alla persona offesa comunque non presenti alla lettura del provvedimento, come pure alle altre parti private che non erano
presenti.

Il decreto deve contenere l’indicazione del luogo, del giorno e dell’ora della comparizione (art 429 co.1).

In vista di prevedibili problemi di coordinamento sul piano operativo, oggi il G.U.P. richiede il giorno e l’ora della
comparizione al presidente del tribunale, il quale li individua sulla base dei criteri determinati dal C.S.M., comunicandoli
anche “con mezzi telematici” (art 132 disp.att.).

Inoltre, il presidente, ricevuto il decreto che dispone il giudizio, potrebbe anticipare o differire l’udienza per giustificati motivi,
con decreto da notificare tempestivamente alle parti. (Art 465 co.1)

L’art 132 disp.att. indica le categorie dei processi a cui va assicurata la “priorità assoluta” nella formazione dei ruoli di udienza e
nella trattazione.

Fra essi si segnalano, oltre ai processi per reati più gravi o di particolare allarme sociale, quelli a carico di imputati detenuti e
quelli da celebrare con giudizio direttissimo o immediato.

Ex art 467 (“Atti urgenti”), spetta al presidente l’assunzione di prove non rinviabili, negli stessi casi che consentirebbero un
incidente probatorio. Si osservano le forme previste per il dibattimento.

È, invece, di competenza del collegio l’eventuale sentenza anticipata di proscioglimento

 se l’azione penale è improcedibile o il reato è estinto (art 469 co.1),


 o se l’imputato non è punibile per particolare tenuità del fatto ex art 131bis c.p.

La sentenza di proscioglimento predibattimentale, pronunciata in camera di consiglio, risponde ad una logica di economia
processuale; è inutile passare al dibattimento quando la conclusione è già scontata e risulta dalle carte.

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Viene confermata la prevalenza del proscioglimento nel merito su quello per estinzione del reato, essendo fatta salva la
previsione dell’art 129 co.2, stando al quale, quando risulta evidente che

 il fatto non sussiste


 o che l’imputato non lo ha commesso
 o che il fatto non costituisce reato
 o non è previsto dalla legge come reato,

il giudice deve pronunciare la sentenza corrispondente.

Siccome nel procedimento non è contemplato il proscioglimento nel merito, in tale ipotesi, la sentenza non può essere
anticipata, ma occorre procedere al dibattimento.

È questo il significato del rinvio all’art 129 co.2, il quale ribadisce che:
 la prescritta formula di merito va adottata con sentenza di assoluzione, che viene pronunciata solo in esito di
dibattimento (o con sentenza di non luogo a procedere, propria dell’udienza preliminare),

 mentre la sentenza ex art 469 è una sentenza di non doversi procedere, equivalenti a quelle previste ex art 529 e 531
sulla tipologia delle sentenze di proscioglimento.

In conclusione, se ci sono gli estremi per il proscioglimento nel merito, la sentenza deve essere pronunciata in dibattimento.

Il proscioglimento anticipato, comunque, non è mai possibile se il P.M/imputato, che devono essere sentiti, si oppongono.

Viene riconosciuto, così, all’imputato un vero e proprio diritto al giudizio di merito.

È sufficiente una semplice manifestazione di volontà affinché la sentenza non possa venir pronunciata in sede
predibattimentale, ma debba necessariamente farsi luogo al dibattimento, in seguito al quale, sarà possibile ottenere, se del
caso, una decisione più favorevole.

Se il proscioglimento è per particolare tenuità del fatto, deve essere un’assoluzione piena.

Il P.M., l’imputato e la persona offesa devono essere avvertiti della data dell’udienza (in mancanza, sarebbe configurabile una
nullità di ordine generale); ma qualora non compaiano, il giudice può procedere ugualmente a pronunciare sentenza.

La sentenza è inappellabile (fermo restando il ricorso per cassazione ex art 568 co.2), essendo intervenuta col consenso delle
parti (meglio dire, senza il loro dissenso).

Durante il termine per comparire, il fascicolo per il dibattimento rimane depositato nella cancelleria del giudice competente
per il giudizio e le parti hanno facoltà di prenderne visione e di estrarne copia.

Quanto al fascicolo del P.M., esso è visibile nella segreteria dello stesso.

Almeno 7 giorni prima della data fissata per il dibattimento (termine libero dove non si computa né il dies a quo né il dies ad
quem) le parti presentano le liste dei testimoni, periti e consulenti tecnici, nonché delle persone indicate dall’art 210, con
l’indicazione delle circostanze su cui deve vertere l’esame (art 468).

Ciò a pena di ammissibilità, poiché non sono consentite prove a sorpresa, e ciascuna parte deve conoscere i fatti che le altre
intendono provare.

Il decreto del presidente (richiesto espressamente dalla parte) ha il solo scopo di autorizzare la citazione delle persone
indicate (art 468 co.2), rendendone obbligatoria la comparizione.

La citazione può essere negata solo per le testimonianze vietate dalla legge e per quelle manifestatamente sovrabbondanti.

L’art 468 non menziona l’esame delle parti; dunque, le prove di quest’ultimo tipo sono ammissibili senza bisogno di
preavviso, non potendo costituire una sorpresa, dato che le parti sono immanenti al processo.

Ciò, comunque, non vale per l’esame dell’imputato in un procedimento connesso o collegato nei cui confronti si proceda
separatamente (non essendo questi una parte) quando se ne intenda richiedere l’esame ex art 210.

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Il co.4bis art 468 (aggiunto nel 92), prescrive che insieme alle liste sia depositata la richiesta di acquisizione dei verbali di prova
provenienti da altri procedimenti ex art 238.

Lo scopo principale nella norma è quello di rimandare l’eventuale citazione delle persone delle cui dichiarazioni si tratta al
momento dell’ammissione della prova.

Evidente è il collegamento con l’art 190bis, per cui l’ammissione della prova orale deve seguire l’acquisizione del documento
ex art 238, e può anche essere rifiutata dal giudice, nei procedimenti per i più gravi delitti di mafia e di criminalità organizzata
o se non ricorrono le condizioni previste dal 190bis, e cioè che l’esame riguardi fatti o circostanze diverse o sia ritenuto
necessario sulla base di specifiche esigenze.

La ratio di tale disciplina dipende dall’intento di evitare la cosiddetta “usura” dei testimoni, cioè l’eccessiva esposizione degli
stessi agli inconvenienti e ai rischi di una ripetuta presentazione nelle aule di giustizia, quando le medesime dichiarazioni siano
rilevanti in più processi separati.

Tale esigenza rappresenta un limite al diritto alla prova, il quale si esplica anche mediante l’esame diretto o il controesame di
testimoni.

Il diritto delle parti di ottenere l’esame dei dichiaranti non è escluso, ma l’ammissione dell’esame viene subordinata alla
previa acquisizione dei verbali dei diversi procedimenti e fatta dipendere da una valutazione discrezionale, suggerendo la
superfluità della prova orale quando è acquisito il documento scritto.

Consente di derogare alla regola sul deposito delle liste testimoniali l’esercizio del diritto alla prova contraria, in virtù del quale
ciascuna parte può ottenere la citazione e l’ammissione di testimoni, periti e consulenti sulle circostanze introdotte dalla
controparte anche senza averli precedentemente indicati nelle liste (art 468 co.4).

La facoltà suddetta può essere esercitata solo dopo la conoscenza delle liste presentate dalle altre parti, e non è soggetta a
specifici limiti preclusivi.

È invece disposta d’ufficio dal presidente la citazione del perito nominato nell’incidente probatorio.

In dibattimento il perito dovrà essere esaminato oralmente, prima dell’eventuale lettura della sua relazione.

7. Pubblicità e disciplina dell’udienza dibattimentale. TITOLO II Capo I (Art 470-483)


Le disposizioni generali sul dibattimento, contenute nel Titolo II, Capo I (art 470-483) riguardano le modalità di svolgimento
dell’udienza, che si conformano ai principi della pubblicità e della concentrazione, ed hanno lo scopo, anche, di realizzare il
diritto dell’imputato di partecipare e a difendersi.

Il potere ordinatorio è ripartito tra il presidente e l’intero collegio.

La disciplina dell’udienza e la direzione del dibattimento spettano al presidente, il quale può avvalersi della forza pubblica
(art 470).

Se la legge non dispone diversamente, i provvedimenti sono dati oralmente e senza formalità né motivazione.

La discrezionalità del presidente risulta vincolata quando si tratta di disciplinare l’accesso all’aula, poiché entra in gioco il
principio di pubblicità dell’udienza.

Divieti/limitazioni possono essere imposti nei solo casi ex art 471, il quale non consente la presenza ad alcune categorie di
persone, e impone l’espulsione di coloro che turbano il regolare svolgimento dell’udienza.

Per la decisione di procedere a porte chiuse è competente il collegio, il quale decide con ordinanza revocabile, sentite le parti
(art 473).

Attenzione è stata dedicata alla tutela della riservatezza delle parti private e dei testimoni, limitatamente all’assunzione di
specifici mezzi di prova, nonché alla tutela dei minori.

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A presidio della riservatezza in tema di intercettazioni, nel 2017 è stato aggiunto all’art 472 co.1 un periodo finale, secondo
cui il giudice dispone che si proceda a porte chiuse alle operazioni previste ex art 268ter, quando le parti rinnovano richieste
non accolte o richiedano acquisizioni se le ragioni della rilevanza a fini di prova emergono nel corso dell’istruzione
dibattimentale.

Vengono enunciati i tradizionali parametri del buon costume e del segreto nell’interesse dello Stato;
mentre la tutela dell’ordine pubblico non trova spazio come tale, ma solo in quanto si traduca in tutela della pubblica igiene o
del regolare svolgimento delle udienze.

Da salvaguardare è anche la sicurezza di testimoni o di imputati.

È doveroso procedere a porte chiuse alla ricognizione delle persone che abbiano cambiato le generalità a scopo di
protezione.

Solo se la persona offesa lo richiede, il dibattimento si svolge a porte chiuse quando si procede per i delitti di pedofilia, di
violenza sessuale e per i delitti concernenti la tratta delle persone.

Se la persona offesa è minorenne, per gli stessi delitti si procede sempre a porte chiuse.

Il presidente ha il potere di ammonire l’imputato che, col suo comportamento, impedisca il regolare svolgimento, e di
allontanarlo (con ordinanza) qualora persista (art 475).

Dalla legge delega discende il divieto di arresto del testimone in udienza, di cui all’art 476 co.2.

Una forma peculiare di pubblicità è quella rappresentata dalle riprese audiovisive del dibattimento per fini di divulgazione.

L’art 147 disp.att. prevede che il giudice, con ordinanza, autorizzi la ripresa fotografica, fonografica o audiovisiva, o la
trasmissione radiofonica o televisiva.

Il giudice ha il potere di consentire solo la ripresa, ma non la trasmissione in diretta (ma non si esclude una trasmissione
differita).

La regola cardine è che l’accesso dei mezzi audiovisivi ha bisogno del consenso delle parti in vista della protezione dei diritti
della personalità di ciascuna di esse, in primis dell’imputato.

Spetta al giudice, vietare le riprese o trasmissioni quando ne derivi pregiudizio al sereno e regolare svolgimento dell’udienza
o alla decisione.

La consapevolezza di essere oggetto di ripresa è suscettibile di provocare nei partecipati al dibattimento sensibili alterazioni
del loro comportamento, rischiando di pregiudicare la genuinità della testimonianza

In ogni caso, il consenso delle parti non è necessario quando “sussiste un interesse sociale particolarmente rilevante alla
conoscenza del dibattimento”.

Si configuri o meno un simile interesse, l’ordinamento si preoccupa di tutelare quel profilo del diritto alla riservatezza che può
dirsi il diritto all’immagine.

Così, il presidente del collegio interdice la ripresa “delle immagini di parti, testimoni, periti, e di ogni altro soggetto che deve
essere presente, se i medesimi non vi consentono o la legge ne fa divieto”.

Tale garanzia non si estende al pubblico, che è presente volontariamente in aula.

È inoltre vietata la trasmissione ogni volta che il dibattimento debba svolgersi a porte chiuse.

Il principio di concentrazione del dibattimento è un carattere fondamentale del sistema accusatorio.

In realtà, la concentrazione diventa un obiettivo solo tendenziale, poiché il dibattimento tenderà a svolgersi in più udienze.

L’art 477 co.1 afferma implicitamente tale principio, prescrivendo che quando non è possibile esaurire il dibattimento in una
sola udienza, il presidente ne disponga la prosecuzione nel giorno seguente; ma è una conclusione molto improbabile per
l’alto numero di processi da trattare quotidianamente.

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È dunque prevista, nel co.2 la possibilità di sospendere il dibattimento, per ragioni di necessità, ma per un termine massimo
di 10 giorni

Ma anche tale termine è raramente rispettato, portando a tempistiche che si pongono in contrasto con la garanzia della
“ragionevole durata” sancita nell’art 111 co.2 Cost.

Fra le ipotesi di sospensione del dibattimento riconosciute ex lege, va menzionata quella prevista dall’art 479 per la soluzione di
una questione pregiudiziale da parte del giudice civile o amministrativo.

In tal caso la sospensione è a tempo indeterminato, ma può essere revocata se il giudizio civile/amministrativo non si
conclude in 1 anno.

L’art 477 (“Durata e prosecuzione del dibattimento”) non menziona il rinvio “a nuovo ruolo”, che si distingue dalla sospensione
perché non implica la prosecuzione del dibattimento dal punto in cui è stato interrotto, ma determina la necessità di rinnovare
la citazione e ricominciare dall’inizio.

Casi di rinvio dell’udienza sono quelli previsti ex art 420 bis co.4 (“Assenza dell’imputato”) e art 420ter (“Impedimento a
comparire dell’imputato o del difensore”), in quanto applicabili al dibattimento.

8. Partecipazione al dibattimento a distanza.


Con la l.11/98 è stata introdotta la disciplina della partecipazione al procedimento penale a distanza dell’imputato detenuto,
quando sia opportuno evitare la sua traduzione nel luogo dell’udienza.

L’obiettivo è quello di ridurre i rischi connessi con i frequenti spostamenti dei detenuti, evitando il c.d. “turismo giudiziario”
di chi risulta imputato in numerosi procedimenti pendenti in sedi diverse.

Istituto che si affianca all’esame a distanza delle persone che collaborano con la giustizia.

Qui si intende garantire la sicurezza del dichiarante (testimone/imputato) che può rendere l’esame da un luogo protetto e
segreto.

La presenza all’udienza dibattimentale è sostituita da un collegamento audiovisivo, che assicuri la “contestuale visibilità” delle
persone che si trovano nel luogo collegato con l’aula di udienza.

Si tratta sempre di una presenza virtuale, ben diversa dalla partecipazione personale all’udienza.

La videoconferenza consente una visione solo parziale e a volte frammentaria di ciò che accade in aula di udienza, e
comunque la partecipazione al contraddittorio dibattimentale risulta sempre mediata dallo strumento tecnico.

9. Verbale di udienza.
La verbalizzazione dell’udienza dibattimentale è attività di grande rilievo in un processo dove la decisione deve intervenire solo
sulle prove legittimamente acquisite nel dibattimento, secondi i principi di oralità e del contraddittorio.

I verbali delle indagini preliminari non entrano automaticamente a far parte del materiale valutabile, come supporto delle
risultanze dibattimentali, queste devono essere riprodotte con la massima fedeltà e completezza.

La funzione del verbale del dibattimento è quella di promemoria a conforto del giudice che deve decidere, da accludere al
fascicolo del dibattimento, ai fini della consultazione in camera di consiglio.

L’art 510 co.2 (“Verbale di assunzione dei mezzi di prova”) prescrive che nel verbale si assunzione dei mezzi di prova siano
riprodotte integralmente in forma diretta le domande e le risposte.

Una verbalizzazione integrale può aver luogo soltanto con appositi strumenti tecnici.

Le norme generali sulla documentazione prevedono, ex art 134-142, come mezzo ordinario, la stenotipia, e solo in subordine
la scrittura manuale.

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In tale ultima eventualità, se il verbale viene redatto in forma riassuntiva, deve essere effettuata la riproduzione fonografica.

La verbalizzazione manuale, se eseguita in modo integrale, finirebbe col ripercuotersi negativamente sul corretto andamento
del processo, pregiudicando l’efficacia dell’esame diretto, che le parti sarebbero costrette a svolgere secondo tempi e
cadenze della penna dell’ausiliare del giudice, o con continue interruzioni che vanificherebbero la celerità del dibattimento.

Sembra applicabile anche al dibattimento la previsione di chiusura ex art 140 (“Modalità di documentazione in casi particolari”),
secondo la quale è consentita la verbalizzazione solo in forma riassuntiva non solo nel caso in cui gli atti abbiano contenuto
semplice o limitata rilevanza, ma pure quando si verifichi una contingente indisponibilità degli strumenti di riproduzione.

Nella pratica, la stenotipia è quasi sempre sostituita dalla verbalizzazione riassuntiva con registrazione fonografica che
risulta più efficiente e meno costosa.

La registrazione fonografica e la sua trascrizione sono affidate all’ausiliario che assiste il giudice (non dotato di poteri di
certificazione).

In alcuni casi si procede alla videoregistrazione automatica integrale, che consente una più completa rappresentazione di
quanto è avvenuto in udienza.

Le parti hanno poteri di controllo sulla correttezza della documentazione.

A tal fine possono chiedere (art 482 co.2) che sia data lettura di singoli brani, e proporre domande di rettificazione o
cancellazione, sulle quali il presidente decide con ordinanza (immediatamente, trattandosi di questione incidentale).

Sono, inoltre, allegate al verbale le memorie scritte presentate a sostegno delle richieste e delle conclusioni delle parti.

10. Costituzione delle parti e assenza dell’imputato. Capo II (Art 484-495)


Ex art 484 (“Costituzione delle parti”), il presidente, prima di dare inizio al dibattimento, controlla la regolare costituzione delle
parti.

Per l’imputato risulta fondamentale la possibilità di essere presente al dibattimento, dato che in questa fase ha luogo la
formazione della prova.

La presenza dell’imputato può diventare indispensabile per l’assunzione di determinate prove (ad esempio, ricognizione o
ispezione personale); a tal fine l’art 490 consente che sia sempre disposto l’accompagnamento coattivo dell’imputato (anche
se assente).

Quanto appena detto non vale per l’esame, poiché non può aver luogo senza il consenso dell’imputato.

Fa eccezione l’esame su fatti concernenti la responsabilità di altri, al quale l’imputato non può sottrarsi.

Per garantire il diritto dell’imputato a partecipare al dibattimento, il legislatore ha eliminato la tradizionale figura del processo
in contumacia (con la l.67/2014), nell’intento di garantire l’effettività del diritto di difesa e il rispetto del fair hearing (processo
equo) richiesto dalle carte internazionali.

In passato, infatti, l’Italia è stata più volte condannata dalla Corte europea dei diritti dell’uomo per violazione dell’art 6
c.e.d.u.

Di recente, la Corte ha dovuto censurare la mancanza nell’ordinamento italiano di un adeguato rimedio che consentisse di
riaprire il processo nei confronti di imputati condannati in contumacia con sentenza irrevocabile, senza che fosse provata la
loro effettiva conoscenza del procedimento.

In seguito al 2005 sono stati adottati alcuni rimedi per far fronte alle pretese europee, ma si sono rilevati tutt’altro che
perfetti per la salvaguardia integrale del diritto di difesa.

Il legislatore, dunque, ha dovuto dar vita ad una riforma epocale:


 La contumacia è scomparsa dal nostro processo penale (in conformità con la gran parte degli altri ordinamenti).

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Va segnalato che la contumacia è un istituto estraneo al processo accusatorio (che di regola non può svolgersi senza
l’imputato), trovando il suo terreno nelle procedure inquisitorie.

Il processo, dunque, può celebrarsi solo ove l’imputato sia presente o, in caso di assenza, sia rimasto volontariamente assente,
perché comunque a conoscenza dell’esistenza del procedimento.

Ove non vi sia la ragionevole certezza che l’imputato abbia avuto effettivamente conoscenza del procedimento a suo carico, il
processo deve essere sospeso.

Le norme in materia sono collocate nella parte riguardante l’udienza preliminare, ove già figurava l’istituto della contumacia;
dunque, nel dibattimento, sono richiamati ex art 484 cp.2bis, in quanto compatibili, gli artt 420bis, ter, quater e quinques.

Se l’imputato non compare e non risulta essere a conoscenza del procedimento, il giudice rinvia l’udienza e dispone che l’avviso
sia notificato personalmente a mezzo della P.G.

Se l’imputato rimane, comunque, irreperibile, il processo va sospeso.

Se, invece, esistono i presupposti per procedere ugualmente, ex art 420bis, il dibattimento si celebra in assenza
dell’imputato.

L’ordinanza che abbia disposto di procedere in assenza è revocata anche d’ufficio ove l’imputato compaia prima della
decisione.

E se l’imputato prova che l’assenza è stata dovuta:


 ad una sua incolpevole mancata conoscenza della celebrazione del processo,
 o dimostra che versava nell’assoluta impossibilità di comparire per caso fortuito, forza maggiore o altro legittimo
impedimento, ha diritto di formulare richieste ex art 493.

Il riconoscimento del diritto alla prova comporta anche la possibilità di chiedere la rinnovazione delle prove già assunte,
ferma la validità degli atti regolarmente compiuti in precedenza.

A norma dell’art 489, l’imputato contro il quale si sia proceduto in assenza nell’udienza preliminare può rendere in dibattimento
dichiarazioni spontanee.

Gli è, inoltre, riconosciuto un vero e proprio diritto di essere restituito nel termine per chiedere il giudizio abbreviato o
l’applicazione della pena su richiesta delle parti; e ciò dove dimostri che l’assenza in udienza preliminare sia stata dovuta ad
una incolpevole mancata conoscenza della celebrazione del processo o ad una assoluta impossibilità di comparire.

Ricapitolando, l’imputato che compaia per la prima volta a dibattimento già iniziato e che provi di non aver avuto, senza sua
colpa, conoscenza del processo o di essersi trovato nell’impossibilità assoluta di parteciparvi, ha 2 opzioni:

 rimanere in dibattimento, avvalendosi del conseguente riconoscimento dell’ordinario diritto alla prova,
 o chiedere i riti premiali come il giudizio abbreviato ed il patteggiamento.

Il dibattimento, invece, prosegue ordinariamente ove la sussistenza dei presupposti per procedere in assenza dell’imputato non
sia smentita:

 la legge, qui, non riconosce all’imputato, in caso di successiva presentazione in dibattimento, nessun diritto alla prova,
né la facoltà di optare per i riti speciali, quanto la sola possibilità di rendere dichiarazioni spontanee.

Da tenere a mente che l’assenza prevista dalla nuova normativa, come pure l’irreperibilità, non vanno confuse con la
latitanza, che si realizza su un piano differente anche se parzialmente sovrapponibile, essendo la situazione di chi si sottrae a
determinate misure coercitive o ad un ordine di carcerazione (art 296).

11. Questioni preliminari, esposizione introduttiva e richieste di prove. (Art 491-495)


Dopo l’accertamento della costituzione delle parti e prima della formale apertura del dibattimento (ex art 492), si colloca il
momento delle questioni preliminari.

Queste controversie procedurali vanno risolte in via preventiva, trattandosi di questioni che coinvolgono la regolare
instaurazione del dibattimento o la sua organizzazione.
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Le questioni preliminari devono essere proposte subito dopo il compimento “per la prima volta” delle formalità ex art 484,
altrimenti sono precluse (art 491 co.1).

Ciò significa che il termine predetto è stabilito a pena di decadenza e non viene ripristinato in nessun caso.

A. Un primo gruppo di questioni riguarda:


 la competenza per territorio o per connessione (a cui aggiungere quella per materia, se per eccesso);
 le nullità relative degli atti delle fasi anteriori non ancora sanate, o eccepite nell’udienza preliminare e non dichiarate
dal giudice;
 la costituzione e l’intervento delle parti private diverse dall’imputato, nonché degli enti rappresentativi degli interessi
lesi dal reato.

Entro il medesimo termine:

 deve essere rilevata/eccepita l’inosservanza delle disposizioni sulla composizione monocratica/collegiale quando non
si sia tenuta l’udienza preliminare o, in quella sede, l’eccezione sia stata respinta;

B. un secondo gruppo riguarda il contenuto del fascicolo per il dibattimento e la riunione/separazione dei giudizi.

La discussione delle questioni preliminari è sintetica, e il giudice decide immediatamente con ordinanza (art 491 co.3 e 5).

Momento fondamentale del dibattimento è l’esposizione introduttiva; la sua importanza si comprende facilmente, ove si
consideri che il giudice non conosce nulla delle indagini preliminari, ad eccezione dell’imputazione e di quel numero limitato di
atti che sono contenuti del fascicolo per il dibattimento.

Le parti non possono dare nulla per scontato; il rinvio a giudizio non è neppure motivato, e contiene solo la nuda indicazione
delle fonti di prova e dei fatti cui esse si riferiscono (art 429).

Il giudice non è in grado di svolgere un ruolo attivo, né di stabilire le modalità di assunzione delle prove; almeno in questa
fase, interviene solo come destinatario delle iniziative del P.M. e dei difensori.

Prima il P.M., poi i difensori delle parti private e dell’imputato, indicano i fatti che intendono provare e le prove di cui chiedono
l’assunzione.

Non è da escludere che le parti, ex art 121, possano accompagnare l’esposizione introduttiva con memorie scritte.

Ma le memorie, devono considerarsi consentite solo in funzione argomentativa/esplicativa, e non possono riprodurre il
contenuto dei verbali di indagine o di documenti non acquisibili.

L’ammissione delle prove ha luogo al termine dell’esposizione introduttiva, con ordinanza del giudice, in seguito alla richiesta
formulata dalle parti.

Le regole generali sono dettate dall’art 190 (“Diritto alla prova”):

 le prove sono ammesse a richiesta di parte e solo eccezionalmente d’ufficio;


 il giudice deve provvedere sulla richiesta immediatamente ed espressamente, senza ricorrere o decidere con
motivazioni implicite.

I provvedimenti sull’ammissione della prova possono essere revocati solo in contraddittorio (art 495 co.4).

Il co.4bis art 495 dispone la rinuncia di una parte alle prove già ammesse solo se le altre parti vi acconsentono.

È questo, anche il momento in cui le parti interessate possono richiedere la trascrizione (integrale) delle registrazioni delle
comunicazioni intercettate, acquisite in quanto rilevanti a fini di prova.

Dopo il 2017, la trascrizione è disposta dal giudice con le forme della perizia, per assicurare il contraddittorio e la conformità
all’originale. Le parti possono estrarre copia delle trascrizioni.

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Il giudizio di ammissibilità si basa su criteri predeterminati, che limitano la discrezionalità del giudice rafforzando i poteri delle
parti.

Le prove possono essere escluse solo se vietate dalla legge o “manifestamente” superflue o irrilevanti.

Il parametro della rilevanza è rappresentato dall’oggetto della prova ex art 187, che si conferma qui come perno
dell’accertamento dibattimentale.

L’art 190bis co.1 limita il diritto alla prova nei processi per gravi delitti di mafia e criminalità organizzata.

L’esame dei testimoni o imputati indicati ex art 210 è ammesso solo se riguarda fatti o circostanze diversi o se è ritenuto
necessario sulla base di specifiche esigenze.

È un criterio trasparentemente dettato per evitare la comparizione della persona in giudizio.

Se la parte dimostra di non averle potute indicare tempestivamente, possono essere ammesse le prove non incluse nelle liste
depositate prima del dibattimento (art 493 co.2).

L’omissione incolpevole non produce la decadenza dal diritto all’ammissione della prova;

infatti, ex art 507 nuove prove possono essere assunte anche nel termine dell’istruzione dibattimentale, e persino dopo
l’inizio della discussione, ma la portata del diritto in queste ipotesi si restringe, poiché l’ammissione è subordinata
all’assoluta necessità.

Il co.3 art 493 prevede che le parti possano concordare l’acquisizione al fascicolo per il dibattimento di atti contenuti nel
fascicolo del P.M., come pure della documentazione delle indagini difensive.

L’inserzione nel fascicolo per il dibattimento comporta l’acquisizione dell’atto come prova, previa lettura o indicazione ex art
511, e la diretta utilizzabilità ai fini della decisione.

La legge nulla specifica rispetto alle modalità del controllo, da parte del giudice, sull’ammissibilità probatoria di tali atti,
controllo che non sarebbe ragionevole escludere nemmeno quando le parti siano d’accordo (basti pensare alle prove vietate
dalla legge che sono comunque inutilizzabili).

L’accertamento dell’ammissibilità va effettuato d’ufficio ad opera del giudice del dibattimento; al termine dell’istruzione
dibattimentale, il giudice possa disporre d’ufficio l’effettiva assunzione dei mezzi di prova, indipendentemente dalle scelte delle
parti (art 507 co.1bis).

A norma dell’art 495 co.2, debbono essere ammesse le prove a discarico sui fatti costituenti oggetto delle prove a carico.

La prova contraria non è soggetta ai termini stabiliti per le liste dei testimoni; il diritto alla sua assunzione trova riscontro in
uno specifico motivo di ricorso per cassazione, in quanto si tratti di prova “decisiva” (art 606 co.1 lett.d).

L’ammissione coincide con l’acquisizione quando si tratti di prove reali, fra le quali una menzione spetta ai documenti.

Per i documenti, l’art 495 co.3 prevede che le parti possano esaminarli prima del provvedimento del giudice sulla domanda di
ammissione; dopo di ciò:
 se non vengono esclusi, restano acquisiti al processo e a norma dell’art 515, vanno inseriti nel fascicolo per il
dibattimento.

I documenti, così ammessi, non sono assoggettati al regime delle letture ex art 511. È invece prevista la lettura per i verbali di
prove di altri procedimenti, che l’art 238 consente di acquisire.

Bisogna ricordare che fra le questioni preliminari di cui all’art 491, destinate ad essere trattate e decise prima della
dichiarazione di apertura del dibattimento e della stessa esposizione introduttiva, sono incluse quelle concernenti il contenuto
del fascicolo per il dibattimento e il trasferimento nello stesso di atti inclusi nel fascicolo del P.M. o, viceversa:

 questioni decisive ai fini della possibilità di lettura e conseguente utilizzazione.

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L’eventuale inutilizzabilità di un atto che non doveva essere inserito nel fascicolo per il dibattimento, può essere sempre fatta
valere, in forza dell’art 191 co.2, indipendentemente dalla sua collocazione.

Eccezioni in ordine alla ammissibilità delle prove possono essere collocate anche nel corso dell’istruzione dibattimentale ed,
in ipotesi del genere, il giudice deve provvedere immediatamente (art 495 co.4).

12. il fascicolo per il dibattimento: lettura-acquisizione dei verbali. (Art 431 e 511)
La disciplina dei rapporti tra indagini preliminari e dibattimento rappresenta il punto cruciale del nuovo processo, e infatti su di
essa si sono concentrati i più importanti cambiamenti a partire dal 1992.

Una delle novità più significative introdotte con il codice del 1988, consiste nella previsione del doppio fascicolo:

 quello del P.M., a disposizione delle parti;


 e quello per il dibattimento, conosciuto anche dal giudice competente per il giudizio.

Il fascicolo per il dibattimento, ex art 431, viene formato in contraddittorio, dal giudice dell’udienza preliminare, salvo
eccezioni.

Degli atti appartenenti alla fase delle indagini preliminari, contiene solo quelli relativi:
 alla procedibilità e all’esercizio dell’azione civile;
 i verbali degli atti non ripetibili compiuti dalla P.G e dal P.M. nonché dal difensore;
 i verbali degli atti assunti dell’incidente probatorio,
 il certificato penale
 e i documenti relativi al giudizio sulla personalità,
 le cose pertinenti al reato.

Vanno inoltre menzionati i documenti acquisiti e i verbali degli atti assunti all’estero mediante rogatoria internazionale
(inclusi solo se si tratta di atti non ripetibili o compiuti nel rispetto delle garanzie difensive previste ex lege).

Tutti gli altri atti sono dirottati nel fascicolo del P.M. (art 433), ma già in questa fase le parti possono preventivamente
concordare l’acquisizione degli stessi, come pure della documentazione delle indagini difensive, al fascicolo per il dibattimento.

Infine, nel fascicolo per il dibattimento sono inseriti i verbali delle prove urgenti assunte dal presidente del tribunale o della
corte di assise nella fase degli atti preliminari ex art 467.

Gli atti “non ripetibili” non sono individuati tassativamente dal codice; ma non è difficile immaginare quali siano
(perquisizioni, sequestri, intercettazioni).

Si tratta di una irripetibilità intrinseca, dipendente dalla natura stessa dell’atto, e non da accertare in concreto a posteriori,
poiché l’irripetibilità sopravvenuta degli atti intrinsecamente ripetibili ha un regime diverso.

Sul punto decide il G.U.P., ma la relativa questione può essere sollevata davanti al giudice del dibattimento, come questione
preliminare (art 491 co.4).

Quanto ai documenti diversi da quelli indicati nelle lett.d,g art 431, essi non andrebbero inseriti nel fascicolo per il dibattimento,
perché vanno sottoposti al giudizio di ammissibilità che si colloca al termine dell’esposizione introduttiva.

Le parti saranno tenute a chiederne l’acquisizione secondo la procedura già descritta.

La prassi tende ad includere fin dall’inizio tali documenti nel fascicolo per il dibattimento, in qualità di “cose pertinenti al
reato”.

Nel fascicolo per il dibattimento sono destinati a confluire anche i verbali degli atti compiuti in sede dibattimentale dal
giudice astenutosi o ricusato, che a seguito dell’accoglimento della relativa istanza conservino efficacia.

Gli atti contenuti nel fascicolo per il dibattimento, non sono utilizzabili ai fini della decisione, finché non vengano acquisiti
mediante lettura.

La lettura può essere disposta d’ufficio o su richiesta di parte, ex art 511.

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Il co.5 art 511 prevede che gli atti da utilizzare, anziché essere effettivamente letti, possano essere semplicemente “indicati” dal
giudice.

L’indicazione ha valore di provvedimento acquisitivo, ma esistono alcuni correttivi:


 se c’è richiesta di parte, debbono essere letti i verbali di dichiarazioni,
 mentre per gli altri atti la lettura viene disposta solo quando ci sia disaccordo sul loro contenuto.

La lettura degli atti contenenti dichiarazioni non può precedere l’esame della persona che le ha rese; lo stesso vale per la
relazione peritale, che può essere letta solo dopo l’esame del perito (art 511 co.2 e 3; art 511bis).

La norma sottolinea la preferenza per l’escussione diretta, orale, in dibattimento.

La lettura delle dichiarazioni di querela o di istanza vale solo ad accertare la condizione di procedibilità (art 511 co.4).

Di tali atti, dunque, non può essere utilizzato ai fini della decisione il contenuto narrativo, nemmeno se avesse luogo l’esame del
suo autore.

La lettura è indispensabile affinché gli atti contenuti nel fascicolo del dibattimento abbiano valore per il giudizio.

Al riguardo si applica l’art 526 co.1 (“Prove utilizzabili ai fini della deliberazione”):
 il giudice non può utilizzare ai fini della deliberazione prove diverse da quelle legittimamente acquisite nel
dibattimento.

Cioè, se l’acquisizione delle prove non è avvenuta secondo le regole, non se ne può tener conto nella motivazione della
sentenza.

13. Il fascicolo del P.M. e le contestazioni. (Art 433)


Diversa è la funzione del fascicolo del P.M., nel quale vengono raccolti gli atti delle indagini preliminari non inseriti nel fascicolo
per il dibattimento.

Nel fascicolo del P.M. confluisce anche il fascicolo del difensore, contenente gli “elementi difensivi” presentati direttamente
al giudice nel corso delle indagini preliminari (art 391octies).

Questo fascicolo è noto alle parti, ma non al giudice del dibattimento, poiché resta depositato nella segreteria del P.M. con
facoltà per i difensori di prenderne visione ed estrarne copia (art 433).

Il contenuto del fascicolo del P.M. è dunque un patrimonio di conoscenze comune al P.M. e alle parti private, mentre il giudice
non vi ha accesso se non indirettamente.

In un primo momento le parti se ne serviranno per formulare la propria ricostruzione dei fatti e per mettere a punto la
strategia processuale:
 I risultati delle indagini preliminari e delle eventuali investigazioni difensive documentati nel fascicolo costituiranno
la traccia sulla quale verrà condotta l’istruttoria dibattimentale.

Gli atti contenuti nel fascicolo del P.M. non possono essere acquisiti come prova nel dibattimento.

Sono, però, utilizzabili per le contestazioni:

 Se una parte o un testimone rendono una dichiarazione che si discosta da quella risultante dalla documentazione
redatta nelle fasi precedenti, il P.M. e i difensori hanno la facoltà di far rilevare il contrasto e chiedere spiegazioni,
anche dando lettura dell’atto.

Ex art 499 co.6, il giudice, per assicurare la correttezza delle contestazioni, può ordinare l’esibizione del verbale nella parte in
cui le dichiarazioni sono state utilizzate.

La contestazione va intesa in senso stretto.

Per mezzo di essa possono farsi rilevare variazioni o contraddizioni rispetto alle “dichiarazioni precedentemente rese” dalla
persona sottoposta ad esame;
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302

ma non è consentito il riferimento ad altri atti, o a dichiarazioni di persone diverse, contenuti nel fascicolo del P.M.

In caso contrario, si rischierebbe di far rifluire nel dibattimento tutti i risultati degli atti compiuti nelle indagini preliminari.

Ciò non esclude che nel corso dell’esame possano essere utilizzati i risultati delle prove precedentemente acquisite nel
dibattimento, anche mediante domande dirette, le quali non costituiscono una “contestazione”.

Per le prove già acquisite, è previsto anche un potere d’ufficio del presidente di far rilevare al testimone l’eventuale contrasto
con le stesse, quando le sue dichiarazioni siano sospettate di falsità/reticenza (art 207).

La disciplina delle contestazioni è contenuta nell’art 500 (“Contestazione nell’esame testimoniale”) con riferimento all’esame
dei testimoni, e nell’art 503 (“Esame delle parti private”) con riferimento all’esame delle parti.

Requisito fondamentale è che si tratti di dichiarazioni, e quindi gli altri atti di indagine compiuti dal P.M. non possono per
tale via essere portati a conoscenza del giudice.

Essi restano atti a rilevanza meramente interna, cioè “scienza privata” delle parti. Infatti, le dichiarazioni usate per le
contestazioni non sono utilizzabili come prova, ma solo per determinare la credibilità del dichiarante, a meno che non si
tratti di dichiarazioni a cui il difensore aveva diritto di assistere (es. interrogatorio ex art 294).

Per la contestazione possono essere impiegate solo le dichiarazioni in precedenza rese dalla stessa persona che depone:

 Ad esempio, non è consentito usare le dichiarazioni di Caio, contenute nel fascicolo del P.M., per mettere in discussione
ciò che Tizio sta dicendo.

Si può sottoporre a verifica solo la coerenza interna e la costanza della deposizione, non anche la sua attendibilità rispetto al
quadro probatorio già noto alle parti.

La contestazione può aver luogo solo sui fatti e sulle circostanze in ordine alle quali il testimone o la parte abbia già deposto.

Si vuole evitare che la lettura possa essere strumentalizzata al fine di suggerire o condizionare le risposte, dandosi la
precedenza all’escussione orale, secondo quello che va considerato un principio generale del dibattimento.

In tale ipotesi non serve attendere che l’esame sia concluso:


 Si può. Infatti, sottoporre a contestazione qualsiasi affermazione, anche durante l’esame.

Il contraddittorio diretto favorisce eventuali ritrattazioni, correzioni o chiarimenti nel corso della deposizione stessa, e può
contribuire alla veridicità delle risposte (o almeno, al giudizio sulla loro credibilità)

14. Contestazioni nell’esame testimoniale. (Art 500)


Nella sua versione originaria, l’art 500 co.3 dettava la regola fondamentale sul valore delle contestazioni, secondo cui:

 La precedente dichiarazione del testimone “non può costituire prova dei fatti in essa affermati”, mentre “può essere
valutata dal giudice per stabilire la credibilità della persona esaminata”.

Ciò significa che il giudice, anche se a messo a conoscenza dell’atto tramite contestazione, non è autorizzato a tenerne conto
direttamente a fini decisori, con la conseguenza che la motivazione non può fondarsi su di esso se non come strumento di
valutazione della dichiarazione dibattimentale.

Di norma, la lettura degli atti a scopo di contestazione (eseguita dalle parti) non corrisponde all’acquisizione come prova degli
stessi, diversamente da quanto avviene con la lettura degli atti del fascicolo per il dibattimento, ma ha una funzione di verifica e
di controllo:

 la prova è solo quella formata in contraddittorio (assicurando la prevalenza delle prove assunte oralmente in
dibattimento), evitando che gli elementi raccolti nella fase delle indagini preliminari finiscano con l’avere il sopravvento
nella valutazione del giudice.

Era intervenuta, nel 1992, la Corte costituzionale, definendo più volte irragionevoli (e quindi illegittime con riferimento
all’art 3 Cost) le regole di esclusione riguardanti le precedenti dichiarazioni a contenuto testimoniale, tra cui il co.3 art 500.

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Il conseguente intervento del legislatore (d.l.306/1992), aveva abrogato il divieto di valutare le dichiarazioni utilizzate per le
contestazioni come prova dei fatti in esse affermate, ammettendone l’allegazione al fascicolo del dibattimento, e in taluni
casi, a l’idoneità a fondare la decisione del giudice nonostante la mancanza del contraddittorio.

Il nuovo art 111 Cost, circoscrive tassativamente (co.5) la possibilità di formare la prova senza contraddittorio ai casi:

 di consenso dell’imputato,
 di impossibilità oggettiva
 o di condotta illecita

rendendo illegittima un’utilizzazione degli atti del fascicolo del P.M. così estesa come quella prevista dall’art 500 dopo il 1992.

La legge 63/2001 sul “giusto processo” ha riscritto l’art 500, limitando l’uso probatorio delle precedenti dichiarazioni
contestate ai casi espressamente eccettuati.

L’attuale co.2 (vecchio co.3 abrogato) ribadisce che le dichiarazioni “lette” per le contestazioni possono essere valutate ai fini
della credibilità del teste, mentre non è stato più riprodotto l’espresso divieto di tenerne conto come prova dei fatti in esse
affermati.

Il co.3 non riguarda le contestazioni.

L’ipotesi è quella del testimone che, dopo aver risposto alle domande di una parte, rifiuti di sottoporsi all’esame di un’altra.

Non può dirsi nemmeno acquisiti una prova, poiché manca un elemento fondamentale per la realizzazione del
contraddittorio; è logico che anche le dichiarazioni fino a quel momento rese siano considerate inutilizzabili, salvo il
consenso della parte medesima.

La norma, però, non è formulata in maniera perfetta. Essendo nominate le parti in genere piuttosto che le persone cui le
dichiarazioni si riferiscono, si deve ritenere che l’inutilizzabilità operi anche nel caso di rifiuto di rispondere all’esame del P.M.

Cosa accade se la sottrazione all’esame o al controesame non derivi da un rifiuto, ma sia involontaria?

Trattandosi di un caso di impossibilità sopravvenuta, sarebbe applicabile l’art 512, che si riferisce (però) alla lettura delle
dichiarazioni precedenti (contenute nel fascicolo del P.M.).

Tuttavia, anche la parziale testimonianza dibattimentale resa fino a quel momento dovrebbe restare utilizzabile, non
operando lo specifico divieto, che riguarda una fattispecie diversa (il rifiuto).

Poiché resta ugualmente incompiuta l’acquisizione della prova, il contraddittorio risulta pregiudicato in misura certamente
non inferiore che nel caso indicato dalla norma, ma la deroga rientrerebbe nell’area della “impossibilità di natura oggettiva”
ex art 111 co.5 Cost.

Le eccezioni previste all’utilizzabilità delle dichiarazioni di chi rifiuta l’esame/controesame sono ricollegabili all’art 111 co.5 Cost;
rileva (oltre al consenso della parte interessata), inoltre, l’intimidazione/subornazione del testimone, ex art 500 co.4, in quanto
“provata condotta illecita”.

Nell’ultima ipotesi, si prevede che le dichiarazioni possono essere utilizzate perché altrimenti il testimone, se sottoposto a
pressioni esterne, potrebbe essere indotto a rifiutare di sottoporsi all’esame di una delle parti allo scopo di rendere
inutilizzabile la testimonianza nei confronti della stessa.

Le restanti disposizioni dell’art 500 elencano le ipotesi in cui, sempre come eccezione, le dichiarazioni contenute nel fascicolo
del P.M. sono acquisite al fascicolo per il dibattimento.

Il co.4 art 500, contiene una previsione di carattere generale, con la quale si stabilisce:

 che la violenza, la minaccia e le altre interferenze illecite sulla libertà morale del testimone consentano di acquisire al
fascicolo per il dibattimento le dichiarazioni precedentemente rese dal testimone (oltre che di utilizzare le dichiarazioni
“rese ad altra parte” nel caso ex co.3).

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Quanto detto nel co.4 evidenzia la scelta di configurare tale ipotesi come criterio polivalente per legittimare l’uso come
prova di atti che diversamente non sarebbero utilizzabili.

Il criterio non è nuovo, essendo già previsto ex art 392 co.1 lett.b per l’acquisizione anticipata della testimonianza mediante
incidente probatorio.

La differenza è che:

 con l’incidente probatorio si vuole prevenire un rischio (quando cioè la persona sia “esposta” alle pressioni indicate);

 nell’art 500 co.5, si assume che la condotta illecita nei confronti del testimone si sia già verificata, e su di essa il giudice
svolge “gli accertamenti che ritiene necessari “.

La disciplina ex co.5, riguarda le dichiarazioni utilizzate per le contestazioni.

Tuttavia, alla lettura del co.4, per l’acquisizione al fascicolo per il dibattimento non è richiesto che la dichiarazione sia stata
previamente utilizzata a tale scopo, né che ne derivi una difformità rispetto al contenuto della disposizione.

In ogni caso, il solo fatto che il testimone sia stato indebitamente condizionato è sufficiente per rendere acquisibili le
precedenti dichiarazioni contenuto nel fascicolo del P.M. (senza nemmeno una lettura preventiva).

A prescindere dalla contestazione, ex art 500 co.7 le precedenti dichiarazioni del testimone contenute nel fascicolo del P.M.
possono essere acquisite al fascicolo per il dibattimento su accordo delle parti.

La situazione è analoga a quella ex art 431 co.2 (“Fascicolo per il dibattimento”) e art 493 co.3 (“Richieste di prove”), che
consentono l’acquisizione consensuale degli atti del P.M. e del difensore.

La differenza sta nel fatto che il co.7 art 500 è riferito all’assunzione dell’esame testimoniale:
 l’accordo potrà avvenire nel corso dell’esame, e riguarda solo le precedenti dichiarazioni del testimone, non altri
atti.

Fra le dichiarazioni che possono essere utilizzate ex art 500 e acquisite al fascicolo per il dibattimento, sono incluse:

 quelle ricevute nel corso delle investigazioni difensive e contenute nel fascicolo del difensore (che confluisce in quello
del P.M. dopo la chiusura delle indagini preliminari, e quindi ne segue il regime).

Regime particolare è previsto per le dichiarazioni assunte dal G.U.P.

L’art 500 co.6 presuppone che le stesse possano essere acquisite solo in quanto siano state utilizzate per le contestazioni:
 l’acquisizione al fascicolo per il dibattimento ne consente la valutazione a fini probatori solo nei confronti delle parti
che hanno partecipato alla loro assunzione.

15. I limiti di utilizzabilità delle precedenti dichiarazioni.


L’art 500 non stabilisce esplicitamente quale sia il valore probatorio delle precedenti dichiarazioni.

È da interpretare sistematicamente che:

 le dichiarazioni acquisite al fascicolo per il dibattimento valgono come prova,


 mentre quelle usate per le contestazioni, ma non acquisite possono essere valutate solo per stabilire la credibilità del
testimone.

Tuttavia, nel nuovo testo, manca sia una previsione espressa nel senso dell’utilizzabilità probatoria (come quella del vecchio
art 500) e, sia un divieto probatorio simile a quello che compariva nel testo abrogato nel 1992.

Si può, però, constatare come, con l’ultima riforma, si sia voluto ripristinare un criterio caratterizzante la struttura iniziale dei
rapporti fra indagini preliminari e dibattimento (criterio che era venuto meno con le precedenti modifiche), vale a dire:

 la corrispondenza esclusiva tra acquisizione al fascicolo per il dibattimento e utilizzazione probatoria.

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Con la conseguenza che:


 gli atti di cui è consentita l’acquisizione sono utilizzabili come prova,
 mentre gli atti che non possono essere acquisiti sono utilizzabili solo in quanto ciò sia stabilito da un’espressa
disposizione, e cioè solo “ai fini della credibilità del teste” (art 500 co.2).

L’impostazione è coerente con l’art 526 (“Prove utilizzabili ai fini della deliberazione”), che subordina l’utilizzabilità delle prove
ai fini della deliberazione della sentenza alla loro legittima acquisizione nel dibattimento.

La linearità della ricostruzione è però complicata dall’introduzione nello stesso art 526 di un co.1bis che riproduce la seconda
parte dell’art 111 co.4 Cost, vietando l’utilizzazione come prova della colpevolezza delle dichiarazioni di chi si è sempre
volontariamente sottratto all’esame dell’imputato.

L’art 526 co.1bis, a parte l’ambiguità implicita nel riferimento ad un esame “da parte dell’imputato” (anziché del difensore),
sconosciuto al nostro codice, funge semplicemente da norma di chiusura.

A tal proposito, l’effetto ulteriore derivante dall’art 526 co.1bis è quello di rendere inutilizzabili (solo per la prova della
colpevolezza) le dichiarazioni di chi si è voluto sottrarre al contraddittorio, anche quando le stesse potrebbero essere
acquisite; come nel caso di accordo delle parti o nel caso di irripetibilità sopravvenuta ex art 512.

16. Contestazioni e letture nell’esame delle parti e dell’imputato in procedimento separato. (Art 503 e
513)
La disciplina delle contestazioni nell’esame delle parti, a differenza dell’esame dei testimoni, è rimasta invariata rispetto alla
previsione originaria.

È, invece, complessa e tormentata la vicenda relativa alla possibilità di acquisire direttamente, mediante lettura, le precedenti
dichiarazioni dell’imputato, contenute nel fascicolo del P.M.

L’art 503 co.3, sulle modalità della contestazione, riproduce quasi alla lettera il co.1 art 500.

Resta fermo il co.2, che consente l’uso delle dichiarazioni contestate per stabilire la credibilità della persona esaminata;

ma manca una precisa enunciazione dei limiti all’utilizzazione probatoria.

Si desumerebbe, che l’utilizzazione risulta consentita solo per le dichiarazioni di cui è prevista l’acquisizione nel fascicolo per
il dibattimento, acquisizione che implicitamente conferisce alle stesse valore di prova piena.

Ex co.5 art 503 (che riguarda solo l’esame dell’imputato e non delle altre parti private), sono acquisite al fascicolo per il
dibattimento:

 le dichiarazioni assunte dal P.M. cui il difensore aveva diritto di assistere,


 e le dichiarazioni assunte dalla P.G su delega del P.M.,

mentre restano escluse le informazioni raccolte dalla P.G. di propria iniziativa.

La stessa disciplina si applica, ex co.6, alle dichiarazioni rese al giudice nel corso del procedimento cautelare, o in sede di
integrazione probatoria nell’udienza preliminare ex art 422.

Situazione diversa si realizza se l’imputato è assente o rifiuti di sottoporsi all’esame (che può aver luogo solo dietro sua richiesta
o col suo consenso).

L’art 513 prevede che si possa dare lettura, con conseguente valore di prova, delle precedenti dichiarazioni (co.1) rese al P.M. o
al giudice nel corso delle indagini preliminari o nell’udienza preliminare; previsione estesa anche a quelle assunte dalla P.G. su
delega del P.M., ma non a quelle rese in sede di sommarie informazioni alla polizia che agisca di propria iniziativa.

Tale disciplina non è sempre applicabile a tutti gli imputati, perché può accadere che il coimputato/imputato in un
procedimento connesso o collegato debba essere esaminato come testimone sui fatti concernenti la responsabilità di altri
quando viene meno ‘incompatibilità a testimoniare ex art 197.

Dunque, nelle contestazioni si dovrà applicare la disciplina prevista per le contestazioni nell’esame testimoniale ex art 500.

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Occorre, poi distinguere a seconda che si tratti:

 di coimputato del medesimo reato,


 o di imputato di un reato connesso o collegato  solo in tal caso, l’imputato che abbia precedentemente reso
dichiarazioni concernenti la responsabilità di altri, assumerà la veste formale di testimone.

Non si esclude che lo stesso soggetto debba essere esaminato sia in qualità di imputato, sul fatto proprio, sia in qualità di
testimone, sul fatto altrui.

Nel caso di connessione ex art 12 lett.a, o quando, negli altri casi, l’incompatibilità a testimoniare non viene meno, il
dichiarante mantiene la veste di imputato anche rispetto all’esame su fatto altrui.

Per quanto riguarda la lettura delle precedenti dichiarazioni ex art 513, le cose si complicano ulteriormente.

Originariamente la lettura delle dichiarazioni dell’imputato che non volesse o potesse essere esaminato nel procedimento a suo
carico era consentita ex art 513 co.1 indipendentemente dal loro oggetto.

Per l’imputato in un procedimento separato, l’art 513 co.2 consentiva la lettura delle precedenti dichiarazioni solo nell’ipotesi
che, disposto l’accompagnamento coattivo o esperiti gli altri mezzi per procedere all’esame, fosse impossibile svolgerlo.

Pur non potendo l’esame essere rifiutato, restava fermo il diritto di non rispondere alle domande, con la conseguenza che in
tal caso non era prevista la lettura delle precedenti dichiarazioni.

La Corte costituzionale, in una sentenza del 1992 aveva riscontrato una irragionevole disparità di trattamento (dunque una
violazione del principio di eguaglianza) nella diversa disciplina concernente l’imputato contro cui si procede separatamente
rispetto all’imputato del medesimo procedimento.

 Il primo (imputato contro cui si procede), esercitando la facoltà di non rispondere, avrebbe impedito la lettura delle
precedenti dichiarazioni;
 mentre, se a rendere dichiarazioni nei confronti di altri fosse stato l’imputato nel medesimo procedimento, il rifiuto di
sottoporsi all’esame avrebbe consentito la lettura.

Allora anche nel primo caso, secondo la Corte, la lettura doveva essere consentita:
 da qui l’incostituzionalità dell’art 513 co.2.

Dopo tale posizione della Corte, era divenuto sufficiente che l’imputato in un procedimento separato rifiutasse di rispondere
nell’esame dibattimentale perché anche le sue precedenti dichiarazioni facessero piena prova:

 ma ciò significa che, in entrambi i casi, alla persona accusata non era di fatto permesso sottoporre a verifica
l’attendibilità del suo accusatore mediante l’esame orale.

Il tema comune tra le sue situazioni, è rappresentato dall’uso probatorio nei confronti di altri imputati delle dichiarazioni
verbalizzate fuori del dibattimento e non acquisite in contraddittorio.

Per tal motivo, la legge 267/97, nel ristabilire la priorità dell’esame dibattimentale, rispetto all’esigenza di assicurare al
giudizio le informazioni raccolte nel corso delle indagini, era intervenuta a modificare l’intero regime di utilizzabilità delle
precedenti dichiarazioni dell’imputato, nello stesso o in altro procedimento.

Nella corrispondente versione dell’art 513 la lettura delle dichiarazioni dell’imputato non poteva più costituire prova nei
confronti di altri senza il loro consenso (co.1), mentre la lettura di quelle dell’imputato in procedimento separato era
subordinata all’accordo delle parti, salvi i casi di impossibilità, sopravvenuta e imprevedibile, dell’esame (co.2).

La Corte, di fronte alle numerose eccezioni di legittimità, si era pronunciata nel senso dell’irragionevolezza e incoerenza del
sistema, argomentando dall’assimilabilità tra la posizione dell’imputato che renda dichiarazioni su fatti concernenti la
responsabilità di altri e quella del testimone.

La soluzione indicata dalla Corte consisteva nell’estendere all’esame dell’imputato che riguardasse altre persone, anche nel
caso di rifiuto di rispondere, la disciplina delle contestazioni nell’esame testimoniale, contenuta nell’allora testo vigente art
500.

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Inoltre, per assicurare la parità di trattamento tra l’imputato in un procedimento separato e il coimputato nel medesimo
procedimento, la Corte aveva dichiarato illegittimo l’art 210 in quanto non applicabile anche all’esame dell’imputato che
avesse reso in precedenza dichiarazioni sulla responsabilità di altri, al quale andava esteso l’obbligo di presentarsi al giudice,
con la possibilità di accompagnamento coattivo.

Dunque, la facoltà di non sottoporsi ad esame restava riservata solo all’imputato che dovesse essere sentito sul fatto proprio e
non sul fatto altrui.

La riforma dell’art 111 Cost, aveva tra i suoi obiettivi quello di superare la sentenza del 1998, e in particolare l’orientamento
secondo cui sarebbe sufficiente a realizzare il contraddittorio dibattimentale la contestazione, nel corso dell’esame, delle
precedenti dichiarazioni, suscettibili di essere utilizzate per l’accertamento del fatto.

Il precetto costituzionale secondo cui il principio del contraddittorio riguarda il momento della formazione della prova, e il
divieto espresso di provare la colpevolezza dell’imputato sulla base delle dichiarazioni di chi si sia sottratto all’esame, hanno
reso incompatibile con l’art 111 co.4 Cost, l’interpretazione dettata dalla Corte Costituzionale, imponendo una diversa
ricostruzione del sistema.

L’attuale disciplina dell’esame dell’imputato (ovviamente fuori dai casi in cui debba assumere la qualità di testimone su fatto
altrui, quando si applica l’art 197bis), va ricostruita nel modo seguente:

a) l’esame dell’imputato su fatto proprio resta facoltativo, ex art 208.

L’imputato può rifiutarsi di sottoporvisi o restare assente, e non può esserne disposto l’accompagnamento coattivo.

In applicazione dell’art 513 co.1, può essere data lettura del verbale delle precedenti dichiarazioni, mentre se l’imputato
accetta l’esame si applica la disciplina delle contestazioni ex art 503.

Se l’imputato nel corso dell’esame rifiuta di rispondere a singole domande, l’art 513 co.1 non pare applicabile e non è
nemmeno possibile la contestazione; si può solo far menzione nel verbale ex art 209 co.2.

b) il coimputato nel medesimo procedimento, il cui esame venga richiesto sul fatto altrui, ha l’obbligo di sottoporsi ad esame
e può essere accompagnato coattivamente.

In tal caso all’esame si estende la disciplina ex art 210; l’ipotesi in questione va trattata allo stesso modo di quella
concernente l’imputato in un procedimento separato.

Ove, invece l’esame non venga richiesto sul fatto altrui, l’imputato ha facoltà di rifiutarlo o di restare assente, e ciò permette la
lettura del verbale delle dichiarazioni rese in precedenza, incluse quelle concernenti la responsabilità degli altri imputati, ma le
stesse possono essere utilizzate solo nei suoi confronti, e non nei confronti degli altri senza il loro consenso.

La l.63/2001 ha aggiunto una deroga a tal divieto, facendo salva l’ipotesi di sussistenza dei “presupposti di cui all’art 500
co.4”:
 dunque, le precedenti dichiarazioni possono essere utilizzate senza limiti, se l’imputato sia stato sottoposto a
intimidazione/subordinazione perché si sottragga all’esame.

c) Quanto all’imputato in un procedimento separato, non c’è motivo di distinguere fra esame sul fatto proprio e sul fatto
altrui:
 il dichiarante interviene nel processo esclusivamente per essere sentito sulla responsabilità di altri, e ha sempre
l’obbligo di presentarsi al giudice (art 210 co.2).

L’art 513 co.2 indica gli strumenti idonei a consentire lo svolgimento dell’esame, includendo fra le opzioni del giudice, accanto
ad accompagnamento coattivo, l’esame a domicilio e rogatoria internazionale, anche “qualunque altro modo previsto dalla
legge con le garanzie del contraddittorio”, con allusione all’esame a distanza ex art 147bis disp.att.

L’esame si svolge secondo le modalità ex art 210 co.5, che richiama per la disciplina delle contestazioni, l’art 500 in materia di
testimonianza.

Se l’esame non può aver luogo, la lettura delle precedenti dichiarazioni è permessa solo in caso di impossibilità
sopravvenuta e imprevedibile ex art 512,

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se l’esame ha luogo, ma la persona esaminata esercita la facoltà di non rispondere, può essere disposta la lettura, ma solo
con l’accordo delle parti.

Dal momento che all’esame ex art 210 si applica l’art 500, è prevista l’acquisizione al fascicolo per il dibattimento delle
dichiarazioni di chi risulti essere stato sottoposto a violenza, minaccia, offerta o promessa di denaro o di altra utilità ex co.4.

17. Le altre letture consentite e le letture vietate. (Art 511-514)


Oltre alla lettura degli atti contenuti nel fascicolo per il dibattimento e all’acquisizione degli atti utilizzati per le contestazioni,
sono previste ulteriori ipotesi di lettura.

1) La prima riguarda gli atti di cui sia sopravvenuta l’impossibilità di ripetizione in dibattimento.

Risulterebbe opportuno che la fattispecie fosse disciplinata secondo criteri tassativi.

L’art 512, invece, offre una soluzione “debole”.

La lettura è consentita ogni volta che la ripetizione sia divenuta impossibile “per fatti o circostanze imprevedibili”.

Si tratta di atti ben diversi da quelli che sono raccolti fin dall’inizio nel fascicolo per il dibattimento, irripetibili per loro natura.

La previsione dell’art 512 riguarda verbali di prove che in condizioni normali sarebbero acquisite oralmente secondo le regole
generali, ma che accidentalmente sono venute meno.

L’acquisizione mediante lettura risulta legittimata dal riferimento alla “impossibilità di natura oggettiva” contenuto nell’art
111 co.5 Cost, che consente di derogare al principio del contraddittorio nella formazione della prova affermato nel co.4 art
111 cost.

L’ammissibilità della lettura dipende da una valutazione a posteriori delle condizioni esistenti nel momento in cui l’atto è stato
compiuto.

L’irripetibilità sopravvenuta non ricorre tutte le volte in cui, essendo prevedibile, il P.M. avrebbe potuto utilmente richiedere
l’incidente probatorio.

Con i successivi interventi legislativi, all’art 512 è stato aggiunto (in riferimento ai soli atti assunti dal P.M. o dal giudice nel
corso dell’udienza preliminare) anche il riferimento a quelli assunti dalla P.G, in precedenza esclusi, nonché agli atti assunti
dai difensori delle parti private.

Un’ipotesi di irripetibilità sopravvenuta è configurata dall’accertata irreperibilità del testimone che abbia reso dichiarazioni in
sede di indagini, sempre che tale irreperibilità non potesse essere pronosticata in anticipo e quindi sia da considerare
imprevedibile.

Ove si dimostri che il testimone abbia deliberatamente evitato di comparire per sottrarsi all’esame, le precedenti
dichiarazioni non possono essere utilizzate come prova della colpevolezza ex art 526 co.1bis.

Inoltre, secondo la Corte europea dei diritti dell’uomo, il processo non è da considerarsi equo ex art 6 c.e.d.u. se l’accusato non
ha avuto almeno “un’occasione adeguata e sufficiente” di interrogare o far interrogare le persone che abbiano reso dichiarazioni
a suo carico.

È stata riscontrata la violazione dell’art 6 c.e.d.u. nel caso di condanna fondata esclusivamente su dichiarazioni rese alla P.G. da
un testimone successivamente divenuto irreperibile.

Dunque, l’art 512 va interpretato in maniera tale per cui le dichiarazioni predibattimentali rese in assenza di contraddittorio
non possono fondare in modo esclusivo/determinante, e quindi senza elementi di riscontro estrinseco, l’affermazione della
responsabilità penale.

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Nel 2006 è stato introdotto nell’art 512 un co.1bis, che consente la lettura del verbale di distruzione dei documenti formati
mediante intercettazioni illegali o raccolta illegale di informazioni, di cui all’art 240.

Si tratta, quest’ultima, di un’ipotesi atipica di irripetibilità sopravvenuta, non determinata da evento imprevedibile ma
nemmeno dipendente dalla natura intrinseca dell’elemento di prova che è consentito acquisire tramite lettura.

Dunque, si vuole surrogare il suddetto verbale ai documenti distrutti, affinché le informazioni riportate nel verbale siano
utilizzabili come prova, anche se i documenti in questione non possono più essere acquisiti nel contraddittorio dibattimentale.

2) Sono, inoltre, acquisiti mediante lettura i verbali di prove di altri procedimenti, nei casi consentiti dall’art 238, ferma
restando la precedenza dell’esame orale (art 511bis).

Da ricordare, è che l’art 238 subordina l’acquisizione dei verbali di dichiarazioni alla realizzazione del contraddittorio nel
procedimento a quo, o al consenso dell’imputato.

3) Infine, l’art 512bis consente la lettura dei verbali di dichiarazioni rese da persona residente all’estero, che sia stata citata e
non sia comparsa, ma solo nel caso in cui l’esame dibattimentale sia assolutamente impossibile.

L’ammissibilità della lettura è subordinata alla valutazione “degli altri elementi di prova acquisiti”; si richiede, cioè, che
esistano già riscontri estrinseci.

Le Sezioni Unite hanno precisato che, ai fini dell’acquisizione delle dichiarazioni ex art 512bis, è necessario preliminarmente
l’effettiva e valida citazione del teste residente all’estero non comparso, verificandone l’eventuale irreperibilità mediante tutti
gli accertamenti opportuni.

Norma di chiusura è l’art 514 (“Letture vietate”), che ribadisce la tassatività delle letture consentite ai fini di acquisizione
probatoria.

Fra le eccezioni al divieto di lettura, viene indicato (accanto agli art 511,512,513) anche l’art 512bis;

è assente un rimando all’art 511bis, riguardante i verbali di altri procedimenti, perché l’art 514 viene considerato riferito solo
alle indagini preliminari e all’udienza preliminare del medesimo procedimento.

Inoltre, il divieto di lettura riguarda anche le dichiarazioni rese dalle persone ex art 210, non solo quelle dell’imputato e dei
testimoni.

Più interessante è la modifica che ha introdotto la possibilità di dare lettura delle dichiarazioni che siano state rese nell’udienza
preliminare secondo le forme del dibattimento, alla presenza dell’imputato o del suo difensore.

Nelle intenzioni, la norma vuole ribadire il collegamento tra esame incrociato e utilizzabilità della prova con riferimento ad
una fase nella quale, essendo presenti il giudice e le parti, essendo complete e conoscibili le indagini preliminari, possono
venire riprodotte le garanzie del dibattimento.

La sua portata, però, è assai limitata.

Come è noto, nell’udienza preliminare, l’interrogatorio degli imputati che lo chiedano e l’audizione di testimoni e consulenti, se
è disposta, sono condotti dal giudice e non dalle parti.

Per realizzare la condizione prevista ex art 514 co.1 sono stati modificati gli artt 421 co.2 e 422 co.4, consentendo, a richiesta
di parte, l’applicazione delle forme previste ex art 498 e 499 (esame diretto e controesame).

Tali previsioni riguardano solo l’interrogatorio dell’imputato, mentre restano fuori le altre prove dichiarative che, ex art 422,
possono essere acquisite dal giudice (oltre alle testimoniante, anche le dichiarazioni delle persone di cui all’art 210).

Il riferimento contenuto nell’art 514 co1. è comunque ampio.

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Ma anche limitandola all’interrogatorio, la norma non sembra ricomprendere le dichiarazioni dell’imputato su fatto proprio:

 Il requisito della presenza dell’imputato/difensore sarebbe privo di senso, essendo imputato colui che rende
dichiarazioni.

Deve, dunque, trattarsi di fatti concernenti la responsabilità di altri imputati.

Questi ultimi, però, possono essere solo i coimputati nello stesso procedimento, perché altrimenti non avrebbero diritto di
partecipare all’udienza personalmente o per mezzo del difensore.

In conclusione, l’operatività della norma si riduce ad ipotesi molto marginali, già coperte dalla possibilità di ricorrere
all’incidente probatori “agevolato” ex art 392 co.1 lett.c, con conseguente lettura in dibattimento ex art 511.

18. L’escussione della prova. (Art 496-499)


Nell’escussione delle prove in dibattimento, un ruolo determinante spetta alle parti.

Art 496  Ordine nell’assunzione delle prove.


“L’istruzione dibattimentale inizia con l’assunzione delle prove richieste dal P.M. e prosegue con l’assunzione di quelle
richieste da altre parti, nell’ordine previsto ex art 493 co.2” (co.1)

“Le parti possono concordare un diverso ordine di assunzione delle prove” (co.2)

Le prove vengono raggruppate e distinte in funzione di chi ha volute che fossero assunte:

 Dunque, la difesa giocherà le sue carte solo dopo che l’accusa ha esaurito l’escussione delle prove a carico.

Ciò sarebbe fondamentale anche ai fini dell’esame incrociato, permettendo di tener separato l’esame diretto (condotto dalla
parte che ne abbia fatta richiesta) dal controesame, condotto dalle altre parti.

Prima dell’inizio dell’esame, il testimone viene avvertito dell’obbligo di dire la verità (art 198), e viene invitato a rendere la
solenne dichiarazione di assunzione di responsabilità ex art 497 co.2.

Viene invitato a fornire le proprie generalità, in virtù del principio che vieta le testimonianze anonime.

L’esame incrociato dei testimoni rappresenta uno degli aspetti più caratteristici del dibattimento di tipo accusatorio.

La legge prevede che l’esame sia condotto in prima persona dal P.M. e dai difensori, riservando al presidente solo poteri
suppletivi (perché il giudice, a differenza delle parti, non conosce le precedenti dichiarazioni della persona da esaminare).

Ex art 498 (“Esame diretto e controesame dei testimoni”) l’esame diretto viene condotto dalla parte che ha chiesto l’esame del
testimone, alla quale spetta di porre le domande per prima.

Successivamente, le altre parti effettueranno il controesame, al termine del quale chi ha chiesto l’esame può porre altre
domande (che potrebbero, nei limiti, sfociare in un nuovo controesame).

Sono inutilizzabili le dichiarazioni del testimone che si rifiuti di sottoporsi all’esame o al controesame di una delle parti.

L’art 499, nel dettare le regole per l’esame testimoniale, prevede che questo si svolga mediante domande pertinenti su fatti
specifici (“a domanda e risposta”), senza consentire al testimone di raccontare liberamente la sua esperienza (l’esame deve
avvenire su fatti che costituiscono oggetto di prova).

Sarà il presidente ad assicurare la pertinenza delle domande, avendo, infatti il potere di escluderle.

Dev’essere garantita la genuinità delle risposte, la lealtà dell’esame, la correttezza delle contestazioni.

Il presidente può intervenire anche d’ufficio; altrimenti, sulle opposizioni formulate dalle parti, decide immediatamente e senza
formalità (art 504).

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Domande vietate sono anche quelle che possono nuocere alla sincerità delle risposte (art 499 co.2).

Fra le domande nocive, particolari sono:


 le domande suggestive (cioè quelle che “tendono a suggerire la risposta”)  vietate solo nell’esame diretto.

Nel controesame non sono vietate, poiché questo può essere condotto in maniera più libera, proprio perché è un mezzo per
saggiare l’attendibilità del testimone.

Prevalentemente, nel controesame si farà uso della facoltà di estendere l’interrogazione alle circostanze il cui accertamento è
necessario per valutare la credibilità del testimone.

Resta sancito un limite invalicabile, quale il rispetto della persona.

Particolari tutele sono previste anche quando il testimone è un minorenne, in tal caso:
 l’esame viene condotto dal presidente, il quale può avvalersi dell’ausilio di un familiare del minore o di un esperto in
psicologia infantile.

Anche nel caso di maggiorenne infermo di mente saranno adottate le medesime accortezze.

Inoltre, quando si procede per i delitti di pedofilia e di violenza sessuale, o concernenti la tratta delle persone nonché per il
delitto di atti prosecutori o maltrattamenti contro familiari e conviventi, il minore vittima del reato, o il maggiorenne
infermo di mente, vengono esaminati mediante l’uso di un vetro specchio con impianto citofonico.

Sempre nei procedimenti relativi a delitti a sfondo sessuale risultano vietate le domande sulla vita privata o sulla sessualità della
persona offesa, le quali non sono ammesse nemmeno allo scopo di definirne la personalità nei limiti ex art 194 co.2.

Dopo l’esame dei testimoni, periti e consulenti tecnici, vengono esaminate le parti che ne abbiano fatto richiesta o che vi
abbiano consentito (art 503).

Anche l’imputato può liberamente scegliere se sottoporti ad esame (e al successivo controesame).

Da tener presente, è che dopo il 1998, l’imputato non può sottrarsi all’esame se citato a rendere dichiarazioni su fatti
concernenti la responsabilità di altre persone, tanto che a tal scopo, se non presente può essere sottoposto ad
accompagnamento coattivo.

Mantiene, sempre, la facoltà di non rispondere.

L’esame dell’imputato su fatto proprio resta, invece, solo eventuale.

Dal momento che l’esame può essere richiesto anche dalle altre parti, l’imputato è tenuto ad opporre un rifiuto, se non vuole
esservi assoggettato.

In tal caso diventano leggibili, e dunque utilizzabili nei suoi confronti per la decisione, i verbali delle dichiarazioni rese in
precedenza al P.M. o alla P-G- da questi delegata o al G.I.P. o al G.U.P.

Gli stessi verbali possono essere utilizzati per le contestazioni e allegati al fascicolo per il dibattimento, se l’imputato accetta
l’esame ex art 503 co.5 e 6;

così facendo, il contributo dell’imputato diventa pressoché obbligatorio, restando sempre ferma la facoltà di non rispondere
alle singole domande (non è un motivo per la lettura dei verbali).

Della mancata risposta alle domande, deve farsene menzione nel verbale, come dispone l’art 209 co.2, per cui il giudice può
tener conto del silenzio come argomento utile per la decisione.

L’imputato che non volesse collaborare, perciò, non avrebbe scelta migliore che restare in silenzio fin dal momento delle
indagini preliminari.

In alternativa all’esame, l’imputato può limitarsi a rendere dichiarazioni spontanee, consentitegli ex art 494 in ogni stato del
dibattimento.

Queste non sono contemplate tra i mezzi di prova, e dovrebbero esser considerate solo per la loro funzione argomentativa.
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Secondo l’art 150 disp.att., l’esame delle parti (a cui applicare le regole concernenti l’esame dei testimoni), ha luogo appena
terminata l’assunzione delle prove a carico.

Poteri di iniziativa probatoria sono attribuiti anche al giudice, senza che si sovrappongano al normale impulso delle parti (art
506 e 507).

In primis il presidente può indicare temi di prova nuovi o più ampi, sui quali spetta alle parti condurre l’esame.

Tal potere è da esercitare solo al termine dell’istruzione dibattimentale, in base ai risultati delle prove assunte o a seguito
delle letture disposte.
Ovviamente, tal funzione suppletiva può essere svolta solo se al giudice gli sono già noti i fatti e le prove, poiché le sue
conoscenze dipendono esclusivamente da quanto messo in scena dalle parti nel dibattimento.

Ancora, il presidente può rivolgere domande alle persone già esaminate, salvo il diritto delle parti di concludere l’esame
(anche questa è una funzione suppletiva, integrativa dell’attività delle parti).

Infine, in via eccezionale, è consentita l’acquisizione d’ufficio di nuovi mezzi di prova (art 507).

Il potere spetta al collegio (non più al presidente), e nei soli casi in cui ciò risulti assolutamente necessario.

L’assunzione può pure essere richiesta dalle parti, ed in tal caso il giudice deve provvedere espressamente sulla domanda,
secondo le regole generali.

Il co.1 bis art 507 prevede che possa essere disposta d’ufficio anche l’assunzione di mezzi di prova relativi agli atti acquisiti al
fascicolo per il dibattimento su accordo delle parti:
 cioè, nel caso in cui il giudice ritenga di dover verificare direttamente le prove risultanti dai verbali del P.M. o dalla
documentazione del difensore.

Il potere di assumere le prove d’ufficio dovrebbe considerarsi integrativo, ad evitare che il giudice si sostituisca totalmente alle
parti nell’iniziativa probatoria.

L’art 507 andrebbe inteso nel senso che l’intervento del giudice trovi il suo fondamento nei risultati dell’istruzione
dibattimentale.

Di conseguenza, le nuove prove non sarebbero ammissibili qualora l’assoluta necessità di acquisirle non sia evidenziata
dall’escussione di quelle già esistenti.

Tale conclusione, destinata a penalizzare prevalentemente il P.M. negligente/ritardatario non ha trovato il consenso delle
Sezioni Unite, le quali hanno affermato che il potere di assunzione ex officio di nuove prove riconosciuto al giudice
dibattimentale (art 507) sussiste anche nel caso in cui non vi sia stata in precedenza alcuna acquisizione delle prove.

L’inerzia delle parti consente al giudice di procedere autonomamente, svolgendo una funzione non solo integrativa, ma anche
suppletiva.

Tuttavia, gli resta precluso andare alla ricerca degli elementi a sostegno di una propria ipotesi ricostruttiva non verificata,
dovendo emergere con evidenza dagli altri atti del processo il valore dimostrativo della prova da assumere.

Se la prova, ex art 507, non è stata richiesta dalle parti, resta da determinare chi deve condurre l’esame diretto.

L’art 151 disp.att. dispone che sia il presidente ad iniziare l’esame, allo scopo di verificare se la prova debba essere attribuita
all’accusa o alla difesa, e di stabilire, di conseguenza, a chi spetti l’esame diretto e a chi il controesame.

19. Divieti di utilizzazione. (Art 526 e 191)


Ex art 191, le prove ammesse dal giudice in violazione dei divieti stabiliti dalla legge non possono essere utilizzate.

Il co.2 parla di rilevabilità in ogni stato e grado del procedimento.

Quello in esame, non è un vero e proprio vizio dell’atto, al pari di una nullità, ma è una regola di condotta per il giudice che, se
non osservata, vizia se mai la decisione.

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313

Nella sostanza, le prove inutilizzabili non possono essere considerate nella motivazione della sentenza, che in caso contrario,
sarà soggetta ad annullamento da parte della Corte di Cassazione.

La violazione delle norme sulla prova consente il ricorso per cassazione.

In una logica analoga, si inserisce il caso di ricorso previsto per la mancata assunzione della prova contraria, in virtù di una
specifica attenzione per i problemi di diritto probatorio.

Infatti, in sede di legittimità è richiesto, accanto al controllo sulla motivazione della sentenza, un controllo sul rispetto del
contraddittorio e delle regole probatorie, in coerenza con l’originaria scelta accusatoria.

L’art 191 risulta applicabile alla violazione delle norme concernenti l’acquisizione della prova in giudizio per il tramite dell’art
526 co.1, che vieta di utilizzare ai fini della deliberazione prove diverse da quelle legittimamente acquisite (escludendo gli
elementi raccolti fuori del dibattimento).

Tale previsione di carattere generale assicura l’operatività dei divieti connessi col principio di oralità, come tutela del
contraddittorio dibattimentale.

Per la decisione, il giudice potrà utilizzare:

 Le prove escusse nell’istruzione dibattimentale,


 Gli atti contenuti nel fascicolo per il dibattimento,
 I verbali delle dichiarazioni impiegate per le contestazioni,
 E le altre letture consentite dalla legge,
 I documenti ammessi, inclusi verbali di prove di altri procedimenti, le sentenze irrevocabili e le prove reali.

20. Modificazioni dell’accusa. Capo IV (Art 516-522) e Caso Drassich


Il principio della correlazione tra accusa e sentenza è da sempre una condizione indispensabile per l’effettivo esercizio della
difesa.

Il giudice non può pronunciarsi su un fatto che non sia stato preventivamente portato a conoscenza dell’imputato nei modi
stabiliti dalla legge;

e l’imputato ha diritto di essere giudicato solo per il fatto che gli è stato formalmente addebitato.

Se l’accertamento conclusivo non coincide con i termini dell’accusa, il giudice deve esimersi dal decidere, trasmettendo gli
atti al P.M. affinché provveda a formulare una nuova imputazione.

E in tal caso il processo ricomincia dall’inizio.

Nel corso dell’istruzione dibattimentale è consentito al P.M. di modificare e integrare l’accusa enunciata, ex art 429, nel
decreto che dispone il giudizio.

La contestazione dell’accusa, rimane perfettibile, senza impedire la prosecuzione del dibattimento, anche perché sarebbe di
scarsa utilità un eventuale ritorno alla fase delle indagini preliminari.

La retrocessione del procedimento si ridurrebbe ad una formalità per riproporre l’accusa debitamente corretta, restando
irretrattabile l’azione penale esercitata.

Se le indagini preliminari si considerano non idonee a formare la prova in senso proprio, il mutamento della descrizione del fatto
in dibattimento potrebbe verificarsi con una certa frequenza, poiché solo dopo l’escussione delle prove lo stesso P.M. sarebbe in
grado di “precisare” l’accusa originaria.

Ciò vale a condizione che il fatto storico, sebbene diversamente configurato, rimanda sostanzialmente lo stesso, o che la
contestazione sia “inerente ai fatti oggetto di giudizio”.

La modifica della contestazione è un potere esclusivo del P.M., ex art 516 (“Modifica delle imputazioni”).

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La modifica è da effettuare personalmente all’imputato; se questo è assente, deve essergli portata a conoscenza mediante la
notifica per estratto del verbale del dibattimento.

Sulla contestazione effettuata dal P.M. il giudice non esercita un controllo preventivo, ma potrà pronunciarsi solo al momento
della decisione.

Infatti, la nuova contestazione non può mai consentire al giudice di eccedere dai limiti della propria competenza;
se si configura un reato di competenza superiore, va pronunciata sentenza ex art 23, con trasmissione degli atti al P.M.
presso il giudice competente

Una disciplina analoga vale per l’istituto della contestazione suppletiva, che si caratterizza per introdurre un ampliamento
dell’oggetto del giudizio.

L’art 517 la limita ai casi in cui emerga un reato connesso con quello per cui si procede (perché in concorso formale o in
rapporto di continuazione) o emerga una circostanza aggravante.

Anche in mancanza della contestazione nel corso del dibattimento, qualora per i reati concorrenti si dovesse pervenire
all’emanazione di più sentenze irrevocabili di condanna, la disciplina sostanziale del concorso formale e della continuazione
sarebbe applicabile nella fase dell’esecuzione.

Ciò non vale per le circostanze aggravanti, che se non contestate non possono più essere prese in considerazione.

Nel caso di modifica dell’imputazione o di contestazione suppletiva l’imputato potrebbe avere interesse ad ottenere il giudizio
abbreviato o il patteggiamento, essendo cambiato il quadro di riferimento in base al quale egli aveva in precedenza ritenuto
preferibile il giudizio dibattimentale.

Al momento delle nuove contestazioni, però, con l’istruzione dibattimentale già in corso, il potere di formulare le relative
richieste risulterebbe venuto meno, essendo il termine ultimo fissato in coincidenza con le conclusioni formulate all’udienza
preliminare o, in casi particolari, prima della dichiarazione di apertura del dibattimento.

In linea di principio l’opzione legislativa nel senso di escludere l’accesso ai giudizi premiali potrebbe essere considerata una
soluzione ragionevole:
 Infatti, tra le valutazioni che l’imputato deve compiere ai fini della scelta del rito, rientra anche la possibilità di una
modifica dell’imputazione in dibattimento, e di tale evenienza l’imputato si assumerebbe il rischio qualora non
ritenga di chiedere la definizione anticipata del processo.

Quando la valutazione è stata condizionata dall’erroneità della imputazione o dalla sua incompletezza, addebitabile al P.M.
perché il fatto risultava già dagli atti di indagine al momento dell’esercizio dell’azione penale, non può parlarsi di libera
assunzione del rischio del dibattimento da parte dell’imputato, indotto ad una scelta non consapevole.

Nulla si può rimproverare all’imputato, il quale abbia tempestivamente formulato una richiesta di patteggiamento che sia stato
ingiustificatamente negato, ove la congruità della pena a suo tempo richiesta fosse venuta meno in conseguenza della
contestazione dibattimentale, rendendone impossibile l’applicazione da parte del giudice del dibattimento ex art 448 co.1.

Con riferimento all’applicazione della pena ex art 444, la Corte costituzionale ha dichiarato illegittimi gli art 516 e 517,
affermando che il giudice, accertati i presupposti citati, deve pronunciarsi sulla eventuale richiesta di applicazione della pena che
l’imputato abbia avanzato relativamente alla nuova contestazione.

Successivamente la Corte ha esteso il medesimo principio alla richiesta di giudizio abbreviato, nel caso di contestazione
“tardiva”, di un reato concorrente o di profili di “diversità” del fatto, o di contestazione di una circostanza aggravante che il
P.M. erroneamente non avesse contestato prima del rinvio a giudizio:
 In tal caso il giudizio abbreviato va innestato nel dibattimento.

Più di recente, la Corte costituzionale ha rimeditato la propria precedente giurisprudenza in nome di una tutela più avanzata del
diritto di difesa, di cui la scelta dei riti speciali è espressione:

 Si è affermato che, ogniqualvolta muti il tema d’accusa, l’imputato deve poter rivedere le proprie opzioni riguardo al
rito da seguire, ammettendolo a richiedere il giudizio abbreviato anche relativamente al reato concorrente e al fatto
diverso emersi nel corso dell’istruzione dibattimentale.

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Il nuovo corso della giurisprudenza costituzionale ha trovato attuazione pure per l’applicazione della pena su richiesta; con la
conclusione che in tutti i casi di modifica dell’imputazione va riconosciuta all’imputato la possibilità di accedere tanto al
giudizio abbreviato che al patteggiamento.

Infine, sotto diverso profilo, l’incostituzionalità degli artt 516 e 517 era stata dichiarata anche con riferimento all’omessa
previsione della facoltà dell’imputato di proporre domanda di oblazione per il reato concorrente o per il fatto diverso risultante
dalla modifica dell’imputazione, poiché tale facoltà non può che sorgere nel momento stesso in cui il reato viene contestato.

La disciplina cambia quando risulta dal dibattimento un fatto totalmente diverso, per cui sarebbe possibile instaurare un
procedimento separato.

Il codice usa i termini di “fatto nuovo” e “fatto diverso” per distinguere i due casi;

ma su un piano logico, tale distinzione non sempre è possibile dato che modifiche parziali possono trasformare completamente
il fatto originariamente contestato (è da analizzare, dunque, caso per caso).

Un utile criterio si può rinvenire nella constatazione che il fatto nuovo può coesistere con quello per cui si procede, laddove il
fatto soltanto diverso risulta incompatibile con la ricostruzione iniziale.

La distinzione trova il suo principale significato quando il fatto nuovo non si aggiunge a quello originariamente contestato, ma in
base alle risultanze dibattimentali lo sostituisce integralmente:

 allora è necessaria una formale assoluzione dell’imputazione originaria.

Infatti, l’accusa non potrebbe essere semplicemente modificata, poiché verrebbe a configurarsi una ritrattazione, non
consentita, dell’azione penale già esercitata in quanto la stessa risulterebbe astrattamente compatibile con la formulazione
dell’altra imputazione.

Ex art 518 co.2 (“Fatto nuovo risultante dal dibattimento”), il fatto nuovo può essere contestato in dibattimento dal P.M. solo
col consenso dell’imputato, e sempre che non ne derivi pregiudizio per la speditezza dei procedimenti.

Dunque, la contestazione dev’essere autorizzata dal presidente, e non può essere effettuata se l’imputato non è presente.

Se la contestazione non ha luogo, si procede separatamente, nelle forme ordinarie ex co.1, e tale soluzione risulterebbe più
gradita alle parti, anche in vista della possibilità di accordarsi per un rito premiale.

Va qui ritenuto inapplicabile il principio enunciato dalla Corte costituzionale circa la possibilità di chiedere il patteggiamento o
il giudizio abbreviato in caso di fatto diverso o di contestazione suppletiva.

Quando è avvenuta una contestazione dibattimentale, l’imputato ha diritto, se lo richiede, ad un termine a difesa non inferiore
a quello per comparire in giudizio (art 519).

È possibile l’ammissione di nuove prove.

L’art 519 co.2 riserva l’iniziativa al solo imputato, rinviando all’art 507, il quale riguarda le prove che possono essere
eccezionalmente assunte al termine dell’istruzione dibattimentale, secondo un criterio di ammissibilità particolarmente
restrittivo (“se risulta assolutamente necessario”).

La Corte ha dichiarato illegittima la norma là dove non consentiva anche alle altre parti (P.M. e parti private diverse
dall’imputato) di chiedere l’ammissione delle prove.

Così, le prove sono sempre ammissibili secondo le regole generali; mentre il potere di formulare la relativa richiesta spetta a
tutte le parti.

Ex art 522 (“Nullità della sentenza per difetto di contestazione”), la violazione delle norme sulle nuove contestazioni è causa di
nullità della sentenza.

La nullità è parziale quando sia pronunciata una condanna in relazione ad un fatto nuovo, ad un reato concorrente o ad una
circostanza aggravante.

Il giudice non può controllare preventivamente la correttezza della contestazione, sulla quale ha comunque il dovere di
decidere.
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Se, però, questa è avvenuta fuori dei casi consentiti (art 521 co.3), il giudice dispone con ordinanza la restituzione degli atti
al P.M., il quale sarà tenuto a conformarsi alla pronuncia, riformulando l’imputazione.

La stessa disposizione si applica al menzionato principio della correlazione tra accusa e sentenza, qualora il giudice ritenga il
fatto diverso da come descritto nel decreto che dispone il giudizio:

 senza che il P.M. abbia provveduto a modificare l’accusa;


 o quando l’accusa sia stata erroneamente modificata, riformulando l’imputazione.

Tale potere di ufficio, che introduce una connotazione inquisitoria nel sistema, non sarebbe ammissibile in un processo di
parti in senso proprio.

Al giudice è anche riconosciuta la possibilità di dare al fatto una qualificazione giuridica diversa da quella enunciata
nell’imputazione (art 521 co.1).

La Corte europea dei diritti dell’uomo ha constatato la violazione dell’art 6 c.e.d.u. in un caso in cui la Corte di cassazione aveva
con la propria sentenza modificato la qualificazione giuridica del fatto attribuito all’imputato.

L’art 6 risultava violato sotto il profilo del diritto dell’imputato ad essere informato della natura e dei motivi dell’accusa
formulata a proprio carico, nonché del diritto del medesimo di disporre del tempo e delle facilitazioni necessarie a preparare
la difesa.

Secondo la C.E.D.U. deve comunque essere assicurata agli imputati l’opportunità di esercitare il proprio diritto di difesa in
modo concreto ed effettivo;
ciò implica che gli imputati siano informati, in tempo utile, non solo dei motivi dell’accusa, ma anche in modo dettagliato
della qualificazione giuridica data ad essi.

A tal merito, la Corte di cassazione ha riaperto il processo per consentire all’imputato di difendersi con riferimento alla nuova
fattispecie di reato.

Se ne può dedurre che la nuova qualificazione giuridica debba sempre essere portata a conoscenza dell’imputato prima che la
sentenza di condanna divenga irrevocabile, consentendogli di far valere le proprie ragioni quanto meno nel giudizio di
impugnazione.

21. Deliberazione e pubblicazione della sentenza. TITOLO III (Art 525-548)


L’art 523 (“Svolgimento della discussione”) è dedicato alla discussione finale.

Le parti intervengono nell’ordine stabilito per l’esposizione introduttiva e per l’assunzione delle prove;

il presidente dirige e modera la discussione.

Subito dopo la chiusura del dibattimento è deliberata la sentenza.

L’art 525 enuncia il principio della immediatezza della deliberazione e quello dell’immutabilità del giudice.

L’art 526 indica le prove utilizzabili ai fini della deliberazione.

Una volta conclusasi la deliberazione, si dovrebbe, di regola, procedere subito dopo a redigere una concisa esposizione dei
motivi di fatto e di diritto su cui la sentenza è fondata (art 544 co.1), in modo che possano essere letti o esposti
riassuntivamente in udienza assieme al dispositivo.

La motivazione contestuale dovrebbe assicurare la massima sinteticità e un guadagno di tempo nelle formalità successive alla
pubblicazione della sentenza.

La redazione immediata dei motivi in camera di consiglio è semplicemente facoltativa.

Il giudice, infatti, “qualora non sia possibile”, può provvedere alla redazione dei motivi non oltre il 15°giorno da quello della
pronuncia, depositando la sentenza in cancelleria ex art 548.

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In casi di particolar complessità, il medesimo giudice può anche indicare un termine più lungo, massimo di 90 giorni (art
544).

I termini per la stesura della motivazione e per il deposito della sentenza non sono perentori, dunque non deriva alcuna
conseguenza processuale in casi di inosservanza.

Fra i requisiti della sentenza elencati ex art 546 co.1, special rilievo assumono:

 L’indicazione delle conclusioni delle parti;


 La concisa esposizione dei motivi di fatto e di diritto su cui la decisione è fondata,
 L’indicazione dei risultati acquisiti e dei criteri di valutazione della prova adottati;
 L’enunciazione delle ragioni per le quali il giudice ritine non attendibili le prove contrarie.

La sentenza deve dar conto anche: degli argomenti delle parti;

la critica delle prove contrarie è necessaria per dare un contenuto concreto al diritto alla controprova.

L’art 546 co.1 enumera i punti specifici sui quali deve articolarsi la motivazione, riguardanti:
 L’accertamento dei fatti e delle circostanze che si riferiscono all’imputazione e la loro qualificazione giuridica;
 La punibilità e la determinazione della pena e della misura di sicurezza;
 La responsabilità civile;
 L’accertamento dei fatti processuali.

Si definisce, così, un modello che l’art 581 (“Forma dell’impugnazione”) nell’enunciare i requisiti dell’impugnazione, richiama
come parametro della specificità dei motivi e dei limiti della devoluzione.

La mancanza della motivazione è causa di nullità della sentenza, e costituisce un autonomo motivo di ricorso per
cassazione.

22. Contenuto della decisione.


La legge delega imponeva:

 la previsione di diverse formule di assoluzione o di proscioglimento


 e aboliva l’assoluzione per insufficienza di prove,

prescrivendo che la prova insufficiente o contraddittoria sia equiparata alla mancanza (totale) di prova.

Su tali premesse, il codice, per quanto riguarda la sentenza dibattimentale, disciplina:


 il proscioglimento nel merito, che comporta una sentenza di assoluzione (art 530),
 separatamente dal proscioglimento per improcedibilità o per estinzione del reato, che comporta una sentenza di
non doversi procedere (art 529 e 531).

Elenca, poi, le formule di assoluzione tradizionali, delle quali è richiesta la specificazione nel dispositivo.

Le formule “il fatto non sussiste” e “l’imputato non ha commesso il fatto” configurano l’assoluzione più ampia, poiché negano il
presupposto storico dell’accusa.

Invece, si assolve perché il fatto “non costituisce reato” quando il fatto stesso sussiste ed è stato commesso dall’imputato, ma
manca uno degli elementi della fattispecie, o risulta presente una causa di giustificazione.

Solo se è accertato un fatto costituente reato, poi, si può assolvere “perché il reato è stato commesso da persona non
imputabile o non punibile per un’altra ragione” (è compresa anche la causa di non punibilità per particolare tenuità del fatto
ex art 131bis c.p.).

Tra le formule di assoluzione ex art 530 è inclusa quella relativa al fatto non “previsto dalla legge come reato”, stabilita per il
caso in cui l’accusa non corrisponde ad alcuna fattispecie legale e, precede l’assoluzione perché “il fatto non costituisce reato”.

Quanto alla decisione sul fatto incerto, è prescritta l’assoluzione qualora:

 la prova manchi, sia insufficiente o contraddittoria (art 530 co.2).


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L’insufficienza di prove non è differente dalla mancanza di prove, dalla quale si distingue solo per l’atteggiamento soggettivo del
giudicante in ordine alla gravità della lacuna probatoria;

la contraddittorietà, invece, va riferita all’ipotesi in cui sussistano sufficienti prove a carico dell’imputato, alle quali però si
contrappongono prove a discarico di uguale valore, senza consentire la formulazione di un giudizio certo.

La scelta dichiarata in favore della assoluzione, anche nel caso di dubbio concernente l’esistenza di una causa di
giustificazione o di una causa personale di non punibilità (art 530 co.3), risolve un problema su cui la giurisprudenza era
orientata in senso contrario.

Non spetta al P.M. provare l’inesistenza di tutte le possibili cause di giustificazione; tuttavia, all’imputato è sufficiente far
sorgere il dubbio sulla presenza di una di esse, fornendone una prova incompleta, per aver diritto all’assoluzione.

Analoga disciplina è riservata al dubbio sull’esistenza di una condizione di procedibilità o sull’esistenza di una causa di
estinzione del reato.

Il dubbio è riferito ai presupposti di fatto (non alle questioni di diritto), rilevanti ai fini dell’accertamento della fattispecie
procedimentale o della vicenda estintiva.

L’estinzione del reato non può essere dichiarata quando risulta evidente una causa di assoluzione nel merito secondo quanto
dispone l’art 129 co.2.

Infine, l’art 533 si occupa della sentenza di condanna, e contiene l’indicazione in positivo del suo presupposto (cioè, che
l’imputato risulti “colpevole” del reato contestatogli).

La l.46/2006 ha introdotto, tra i presupposti della sentenza di condanna, la necessità che l’imputato risulti colpevole “al di là
di ogni ragionevole dubbio”.

Con la sentenza di condanna, il giudice decide sull’azione civile esercitata nel processo penale.

Quando condanna l’imputato al risarcimento dei danni, è tenuto a provvedere alla liquidazione, ma se le prove acquisite non lo
consentono può pronunciare condanna generica.

In quest’ultimo caso (condanna generica), è autorizzato a rimettere le parti davanti al giudice civile:

 la parte civile può allora ottenere la condanna al pagamento di una provvisionale, che per la legge è immediatamente
esecutiva.

Il co.2bis art 539 (inserito nel 2018) in favore degli orfani per crimini domestici, prevede che in caso di condanna per
omicidio del coniuge, la provvisionale debba essere assegnata, anche d’ufficio, ai figli della vittima, in misura minima del
50% del presumibile danno da liquidare in sede civile.

La condanna alle restituzioni e al risarcimento del danno può essere, viceversa, dichiarata provvisoriamente esecutiva, a
richiesta della parte civile, quando ricorrono “giustificati motivi”, valutati discrezionalmente.

Da ultimo, l’art 537bis (introdotto nel 2018) prevede che in caso di condanna per uno dei delitti ex art 463 c.c., il giudice
debba anche dichiarare l’indegnità dell’imputato a succedere.

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CAPITOLO VIII
Procedimento davanti al tribunale in composizione monocratica
1. Premessa. Il procedimento davanti all’organo giurisdizionale monocratico. Evoluzione.
Nell’attuale codice il Libro VIII, all’origine rubricato “Procedimento davanti al pretore”, è oggi intitolato “Procedimento davanti
al tribunale in composizione monocratica” (art 549-567, ma gli articoli da 560 a 567 sono stati abrogati).

Tal procedimento, sino al 2/01/2000 risultava caratterizzato dall’assenza dell’udienza preliminare;

pertanto, poteva sicuramente essere ricondotto tra i procedimenti speciali (tuttavia, se è stato disposto in un Libro
indipendente dal VI, un motivo ci sarà).

In passato, la legge delega potenziò la competenza pretorile, imponendo anche una disciplina del rito (pretorile) che fosse
basata sui “principi generali” anche se “secondo criteri di massima semplificazione, con esclusione dell’udienza preliminare e
con possibilità di incidenti probatori solo in casi eccezionali”.

Si prevedeva, però, la necessità di una “distinzione delle funzioni di P.M. e di giudice”, da attuarsi attraverso una “modifica
dell’ordinamento giudiziario”

Si poneva così fine alla figura del pretore-inquisitore. La ricerca di una “massima semplificazione” aveva condotto
l’ordinamento a prevedere l’”esclusione dell’udienza preliminare” e la “possibilità di incidenti probatori solo in casi eccezionali”.

Non si erano applicate particolari estensioni dei riti differenziati, né si era prevista una maggiore appetibilità degli stessi.

Si era riconosciuto al P.M. il potere di emettere il decreto di citazione a giudizio, senza alcuna verifica giurisdizionale; tale
potere avrebbe dovuto consentirgli “un’incisiva attività di smistamento in vista dei vari sbocchi del procedimento”.

Del resto, in un rito nel quale mancava l’udienza preliminare, era apparso “del tutto congruo attribuire direttamente al P.M. i
poteri di impulso processuale e di scelta del rito”, da esercitarsi anche mediante un consenso anticipato al giudizio abbreviato
o al patteggiamento nello stesso decreto di citazione.

La logica che sosteneva queste deroghe al modello ordinario poggiava sull’equivoco, secondo cui i fatti di minore rilievo sul
piano penale consentirebbero una trattazione processuale più agile e meno garantita in considerazione delle ridotte difficoltà di
reperimento e di valutazione della prova.

Si rilevava come l’udienza preliminare, che “introduce un momento di controllo e di contraddittorio necessario per i reati di
maggiore gravità e di competenza del tribunale, per i quali le indagini preliminari possono protrarsi a lungo, costituirebbe un
inutile appesantimento ai reati di competenza del pretore (cioè, tutti i reati contravvenzionali ed i delitti punibili con la pena
della multa o con quella della reclusione non superiore nel massimo a 4 anni)”.

Con l’approvazione della l.254/1997, si è delegato il Governo a ristrutturare gli uffici giudiziari di primo grado secondo il modello
del giudice unico, giungendo a sopprimere:

 Sia l’ufficio della procura della Repubblica presso il tribunale,


 Sia l’ufficio del pretore, trasferendone le competenze al tribunale.

Il tribunale, a sua volta, avrebbe giudicato:


 in composizione collegiale per una percentuale di casi più ridotta rispetto a quella spettantegli al momento
dell’entrata in vigore del codice,
 mentre, nella larghissima maggioranza delle ipotesi, avrebbe giudicato in composizione monocratica.

In particolare, il tribunale avrebbe trattato in composizione collegiale:

 “ogni delitto punito con la pena della reclusione superiore nel massimo almeno a 20 anni”.

Davanti al tribunale in composizione monocratica, si prescriveva l’osservanza delle “norme processuali vigenti per il
procedimento innanzi al pretore”.

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Sennonché, si diffuse la concezione dell’inadeguatezza del nuovo procedimento; infatti, il considerevole trasferimento del carico
degli affari penali verso l’organo monocratico avrebbe comportato “un impatto non trascurabile sulla struttura e sulla
funzionalità del processo dinanzi al pretore, tale da far emergere l’opportunità di ridisegnare il rito pretorile, che sembra
inidoneo ad assicurare sufficienti garanzie in rapporto a tipi di reato di rilevante gravità”.

Il legislatore aveva provveduto ad emanare disposizioni di mero coordinamento, sostituendo la parola “pretore” con
“giudice” negli art 549-567.

Con l’approvazione della l.479/1999, sarebbero state introdotte le modifiche suggerite dall’operatività delle regole sul giudice
unico.

La crescita dei casi attribuiti al tribunale in composizione monocratica ha spinto il legislatore ad effettuare una rivisitazione
integrale delle disposizioni previste nel Libro VIII, arrivando ad abrogare gli art 560-567.

Era avvenuta anche la riduzione a 10 anni di reclusione come limite massimo entro cui i delitti potranno essere oggetto di
cognizione davanti al giudice monocratico.

Fu predisposta anche una innovazione in senso opposto;


infatti, nel testo originario si stabiliva che il tribunale giudicava in composizione monocratica in tutti i casi in cui non fosse
diversamente stabilito;

adesso, è stata introdotta una deroga, che consente l’attribuzione al giudice singolo dei reati in materia di stupefacenti.

Questa cognizione del tribunale in composizione monocratica era riferita anche:


 ai fatti di reato aggravati a causa delle ingenti quantità di sostanza stupefacente/psicotropa,
 fatti di reato che possono essere punti con 30 anni di reclusione (la massima pena detentiva temporanea).

Ben presto, però, si ritenne di dover recuperare la garanzia della collegialità in considerazione della pesantezza delle sanzioni
irrogabili.

Sul piano di regolamentazione del procedimento, si segnala:

 la previsione dell’udienza preliminare a fronte di tutte le ipotesi di reato che non possono essere oggetto della citazione
diretta a giudizio da parte del P.M.

risultano predisposti 2 moduli processuali:

1) il primo, tendenzialmente omogeneo a quello ordinario stabilito per il tribunale collegiale;


2) il secondo, speciale, determinato dall’assenza dell’udienza preliminare e dalla possibilità per il P.M. di mandare
direttamente l’imputato a giudizio senza alcuna verifica giurisdizionale.

Anche per il processo innescato con citazione diretta si registrano alcune modifiche rispetto al passato:
 non compare più la possibilità di ricorrere ai riti negoziali davanti al G.I.P. entro 15 giorni dalla notificazione del
decreto di citazione a giudizio.

2. Le norme applicabili al procedimento davanti al tribunale in composizione monocratica.


L’ulteriore avvicinamento del rito monocratico a quello collegiale, giustifica la previsione di una disposizione generale in
apertura del Libro VIII, dove si stabilisce che:

o “nel procedimento davanti al tribunale in composizione monocratica, per tutto ciò che non è previsto nel libro o in altre
disposizioni, si osservano le norme stabilite nei libri che precedono, in quanto applicabili” (art 549).

Dunque, la disciplina del procedimento ordinario (cioè per i reati attribuiti al tribunale in composizione collegiale) potrà essere
richiamata solo se risulteranno soddisfatte 2 condizioni:

1) È necessario che la materia non sia regolata negli art 550-559 od altrove.

Altrimenti si applicheranno:
 le disposizioni di attuazione relative al procedimento davanti al tribunale in composizione monocratica,
 o le disposizioni in tema di organizzazione giudiziaria riguardanti il giudice onorario di pace, magistrati ononari a cui
possono essere assegnate funzioni di giudice o di P.M (intervento del 2017)
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321

Nell’interpretazione giurisprudenziale, si era escluso che l’attribuzione della funzione di giudice o di P.M. al giudice onorario o al
vice procuratore onorario al di fuori dei casi previsti comportasse nullità, trattandosi della violazione di un mero criterio
organizzativo.

Oggi, il legislatore, elenca tassativamente le attività che possono essere assegnate ai magistrati onorari (nessuna allusione ai
precedenti criteri da seguire per l’individuazione delle attività).

Quanto, invece, alle sezioni distaccate di tribunale, nel 2012 sono state soppresse tutte le sezioni distaccate di tribunale,
nonostante le richieste di mantenimento in vita di alcune di esse.

Tuttavia, esigenze logistiche, hanno portato al temporaneo ripristino delle sezioni distaccate insulari di Ischia, Lipari,
Portofino, che potranno operare sino al 31/12/2018.

2) Si deve verificare la compatibilità delle previsioni con la struttura del procedimento davanti al tribunale in
composizione monocratica.

È evidente, ad esempio, che non potrà essere ipotizzata l’applicazione delle previsioni in tema di udienza preliminare per tutti
i procedimenti per i quali si procede nelle forme della citazione diretta a giudizio.

Nonostante l’assenza di accenni all’operatività del giudizio immediato nelle disposizioni riservate all’adozione dei procedimenti
speciali nel rito monocratico (art 556-558), dove si fa riferimento espresso al giudizio abbreviato, al patteggiamento, al
procedimento per decreto ed al giudizio direttissimo, si deve ritenere che l’istituto possa applicarsi a fronte di imputazioni per
le quali l’azione penale davanti al giudice singolo dovrà essere esercitata con la richiesta di rinvio a giudizio.

Nella precedente redazione delle disposizioni contenute nel Libro VIII, il legislatore, invece di indicare le previsioni da non
applicare per risolvere possibili incertezze interpretative, in più occasioni aveva segnalato quelle da applicare, generando non
poca confusione.

Fu dunque, accolta, in sede di riforma, la scelta di non dover effettuare alcun esplicito richiamo alle disposizioni ordinarie,
con l’unica eccezione:
 dell’indicazione dell’applicabilità dell’art 415bis (“Avviso all’indagato della conclusione delle indagini preliminari”)
per i procedimenti nei quali il P.M. esercita l’azione penale con la citazione diretta (art 550 co.1).

3. La fase delle indagini preliminari.


Non essendo previste nel Libro VIII norme per la regolamentazione delle indagini preliminari, si richiameranno le disposizioni
generali di rinvio.

Dunque, rispetto alla fase delle indagini preliminari, non vi sono differenze tra i procedimenti attribuiti al tribunale in
composizione collegiale e monocratica, dato che non sembra delinearsi alcun caso di inapplicabilità delle disposizioni dettate
dall’art 326 all’art 415bis.

Nei procedimenti per i reati delineati nell’art 550 co.1, il vice procuratore onorario delegato dal procuratore della Repubblica
può redigere e avanzare richieste di archiviazione, nonché svolgere compiti ed attività di indagine, compresa l’assunzione di
informazioni dalle persone informate dei fatti e l’interrogatorio della persona sottoposta alle indagini.

In passato, nell’originaria ripartizione della materia compariva un TITOLO II concernente la disciplina delle indagini preliminari
stabilita per i procedimenti davanti al pretore (presentando notevoli differenza rispetto a quella stabilita nel Libro V).

Previsioni autonome erano stabilite in tema di incidente probatorio, di durata e di chiusura delle indagini preliminari.

Solo quelle riguardanti l’assunzione anticipata della prova trovavano legittimazione nella legge delega, dove l’esigenza di
orinare il rito pretorile comportava oltre all’”esclusione dell’udienza preliminare”, anche una delimitazione della “possibilità”
di ricorrere all’incidente probatorio, istituto che poteva essere adottato “solo in casi eccezionali”.

Oggi, anche davanti al tribunale in composizione monocratica si deve osservare il termine ordinario di durata delle indagini,
fissato in 6 mesi nell’art 405 co.2,3 e 4, dove si determina anche la decorrenza del termine in presenza di fattispecie perseguibili
a querela, ad istanza od a richiesta di procedimento e la sospensione dello stesso termine in caso di necessità
dell’autorizzazione a procedere, dal momento della richiesta a quello in cui questa perviene al P.M.
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Non trova applicazione davanti al giudice monocratico la seconda parte dell’art 405 co.2, che determina in 1 anno il termine
di durata delle indagini se si procede per taluno dei delitti indicati nell’art 407 co.2 lett.a, delitti tutti rientranti nelle
attribuzioni del tribunale in composizione collegiale.

Quanto alla proroga, in assenza di espresse deroghe, potrà trovare piena applicazione la previsione dell’art 406 co.5 anche nei
procedimenti monocratici.

Il termine massimo di durata delle indagini preliminari, anche a seguito delle proroghe, è di 18 mesi.

In forza dell’art 407 co.2, la durata potrà arrivare anche a 2 anni, se le indagini preliminari riguardano procedimenti che sono
connotati:
 dalla particolare complessità delle investigazioni,
 dalla necessità del compimento di atti all’estero,
 O dall’indispensabilità del collegamento tra più uffici del P.M.

Nonostante, anche, l’omologazione dei contenuti del modello archiviativo (dinanzi al giudice unico) a quelli del modello
ordinario, la Corte di cassazione aveva escluso che fosse consentito ricorrere alla disposizione generale di rinvio (art 549) per
assicurare anche nei procedimenti monocratici il contraddittorio camerale disciplinato ex art 409 e 410, nel caso in cui il giudice
avesse reputato di non accogliere la richiesta di archiviazione o la persona offesa avesse proposto opposizione.

D’altronde, proprio la scelta recepita con la l.479/1999 e, cioè, quella di prevedere anche per i procedimenti attribuiti al giudice
singolo la garanzia dell’udienza camerale in caso di mancato accoglimento della richiesta di archiviazione o di opposizione della
persona offesa a tal richiesta, potrebbe favorire, con il coinvolgimento del P.M. e della persona sottoposta alle indagini,
l’eventualità della pronuncia di un provvedimento archiviativo, con vantaggi sul piano di accelerazione del nostro sistema
processuale penale.

A fronte dei reati per i quali è prevista la citazione diretta a giudizio, nel caso in cui il giudice respinga la richiesta di
archiviazione ed ordini di formulare l’imputazione, il P.M. conserva il potere di emettere direttamente il decreto senza dover
chiedere la fissazione dell’udienza preliminare.

4. Le forme di esercizio dell’azione penale.


Una volta completatasi la fase delle indagini preliminari, il P.M., laddove abbia escluso di dover chiedere l’archiviazione (non
ricorrendo le ipotesi ex art 408, 411 e 415), dovrà decidere in quali forme esercitare l’azione penale.

Da subito, bisogna fare una distinzione:

 Procedimento per i quali è prevista la garanzia dell’udienza preliminare;


 Procedimenti in cui manca la garanzia  il P.M. potrà esercitare l’azione penale con la citazione diretta a giudizio.

Nei procedimenti in cui manca la suddetta garanzia, trova applicazione integrale l’art 405 co.1, per cui:
 Il P.M. esercita l’azione penale con la formulazione dell’imputazione nei casi dell’applicazione di patteggiamento,
giudizio direttissimo, giudizio immediato, procedimento con decreto e richiesta di rinvio a giudizio.

Nonostante manchi un riferimento espresso all’operatività delle disposizioni sul giudizio immediato davanti al giudice
monocratico, non emergono profili di incompatibilità tra detto procedimento speciale e le disposizioni del Libro VIII, se non si
tratta dei reati indicati ex art 550.

A fronte di queste ultime imputazioni, non è possibile il richiamo all’art 405 co.1, in relazione sia alla richiesta di giudizio
immediato, sia alla richiesta di rinvio a giudizio, poiché presuppongono entrambe l’eventualità della celebrazione
dell’udienza preliminare, qui invece esclusa.

Il legislatore ha mantenuto fermo il potere del P.M. di disporre direttamente la citazione a giudizio dell’imputato per buona
parte delle fattispecie attribuite al tribunale in composizione monocratica (potere che aveva suscitato non poche perplessità).

Per apprezzare il significato del mantenimento di tal potere è da considerare la prospettiva di indubbia valorizzazione
dell’udienza preliminare.

Ex art 421bis (“Ordinanza per l’integrazione delle indagini”) il giudice assume un ruolo di controllo sulla completezza delle
indagini analogo a quello spettante al G.I.P. a fronte della richiesta di archiviazione del P.M.
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Nel caso di integrazione probatoria da parte del giudice disposta ex art 422, anche d’ufficio, questa è adesso consentita solo
per le prove delle quali appare evidente la decisività ai fini dell’emissione della sentenza di non luogo a procedere;

non più pure per le prove per le quali risulti manifesta la decisività ai fini dell’accoglimento della richiesta di rinvio a giudizio.

Relativamente ai casi di citazione diretta, il legislatore si è preoccupato di stabilire espressamente l’applicabilità delle
disposizioni di cui all’art 415bis, ove si prevede:

 l’obbligo di dare avviso alla persona sottoposta alle indagini preliminari della conclusione delle stesse
 e la facoltà per tale soggetto:
- di prendere visione della documentazione relativa alle indagini espletate,
- di presentare memorie,
- di produrre documenti,
- di chiedere il compimento di ulteriori atti
- o di essere interrogato.

In effetti, si sarebbe potuto pervenire alla medesima conclusione anche senza un esplicito richiamo all’istituto, in virtù della
disposizione generale di rinvio alla disciplina “ordinaria” contenuta nell’art 549.

Tuttavia, per certi versi, la precisazione operata nell’art 550 co.1, forse, non si rileva superflua.

Si sarebbe potuto far leva sul dato letterale costituito dal fatto che l’avviso della conclusione delle indagini preliminari deve
essere notificato prima della scadenza del termine per la richiesta di rinvio a giudizio, cioè per una forma di esercizio
dell’azione penale ben diversa dalla citazione diretta a giudizio, così da imporre una verifica circa l’incidenza di questa
diversità sulla possibilità di richiamare utilmente l’art 415bis nei procedimenti nei quali non è prevista l’udienza preliminare.

Riconosciuta l’operatività dell’art 415bis nei casi di citazione diretta, pertanto, la mancanza dell’udienza preliminare finisce per
sottolineare l’importanza degli spazi di intervento riconosciuti alla persona sottoposta alle indagini, proprio perché non vi sarà in
un momento successivo il controllo giurisdizionale sulle indagini del P.M.

Prima di emettere il decreto di citazione a giudizio, il P.M. dovrà effettuare la richiesta al presidente del tribunale di
determinazione della data di udienza dibattimentale.

Finché tale data non è inserita nel decreto, questo non può dirsi completo e dunque, non potrà determinare l’interruzione
della prescrizione.

A tal proposito, la Corte di cassazione ha precisato che l’effetto interruttivo è prodotto dalla semplice emissione del decreto
(e non dalla notificazione), purché questo, completo di tutti gli elementi costitutivi prescritti ex art 522, sia stato sottoscritto
dal P.M. e dall’ausiliario che lo assiste, in quanto tale sottoscrizione assicura l’autenticità del decreto pure con riguardo alla
data.

Non sono previsti termini acceleratori per l’emissione del decreto, eccezion fatta per l’ipotesi in cui si proceda per i reati di
lesione personale colposa grave o gravissima di cui all’art 590 co.3 c.p. e 590bis c.p.

Con la l.102/2006, dopo il co.1 dell’art 552, sono stati inseriti il co.1bis e 1ter (entrambi modificati a seguito dell’introduzione
del delitto di lesioni personali stradali gravi o gravissime nel 2016), in forza dei quali:

 il P.M. deve emettere il decreto di citazione a giudizio entro 30 giorni dalla chiusura delle indagini preliminari, fissando
anche la data di comparizione entro 90 giorni dall’emissione del decreto.

5. I casi di citazione diretta a giudizio. TITOLO II (Art 550-555)


L’art 550 co.1 disciplina i casi in cui potrà aversi la citazione diretta a giudizio dellìimputato.

Il P.M. eserciterà in tale forma l’azione penale “quando si tratta di contravvenzioni o di delitti punti:

 con la pena della reclusione non superiore a 4 anni,


 o con la multa, sola o congiunta alla predetta pena detentiva”.

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La citazione diretta interesserà anche una serie di fattispecie elencate nel co.2 art 550, per le quali è prevista, invece, una pena
edittale più severa:

a) la violenza o la minaccia ad un P.M.;


b) la resistenza ad un pubblico ufficiale;
c) l’oltraggio ad un magistrato in udienza aggravato;
d) la violazione dei sigilli aggravata;
e) la rissa aggravata, con esclusione delle ipotesi in cui nella rissa taluno sia rimasto ucciso o abbia riportato lesioni gravi o
gravissime;
f) il furto aggravato;
g) la ricettazione.

A tale elenco, nel 2016 è stata inserita un’ulteriore ipotesi riguardante il delitto di lesioni personali stradali, anche se
aggravate, per il quale è prevista una pena detentiva che potrà arrivare sino a 7 anni di reclusione.

Il carattere tassativo dell’elencazione non lascia spazio a fattispecie non richiamate.

In larga misura si tratta delle ipotesi di reato che rientravano nella competenza pretorile, per i cui procedimenti già non era
prevista l’udienza preliminare.

Nell’abrogata disciplina il giudice monocratico era competente anche per altri delitti (omicidio colposo, favoreggiamento
reale, maltrattamenti in famiglia o verso fanciulli, truffa aggravata), per i quali il P.M. dovrà esercitare l’azione penale con la
richiesta di rinvio a giudizio, sempre che non sia ricorso ad un procedimento speciale.

Probabilmente, per questa seconda serie di delitti si è avvertita l’esigenza di un meccanismo processale più articolato in virtù di
particolari difficoltà di accertamento sul piano probatorio, presumibilmente maggiori rispetto a quelle della prima elencazione.

Circa l’inosservanza delle disposizioni sull’individuazione delle fattispecie di reato che possono essere trattate ex art 550 ss.,
questa può essere apprezzata nelle 2 opposte situazioni:

1) della fissazione di un’udienza preliminare per un reato per il quale si deve procedere con citazione diretta a giudizio,

2) e della fissazione di un dibattimento a seguito dell’esercizio dell’azione penale con citazione diretta per n reato per il
quale è prevista l’udienza preliminare.

La prima situazione è disciplinata nell’art 33sexies:

 il giudice dell’udienza preliminare pronuncia, d’ufficio o su eccezione di parte, l’ordinanza di trasmissione degli atti al
P.M. per l’emissione del decreto di citazione a giudizio ex art 552.

la seconda situazione è disciplinata nell’art 550 co.3:

 il giudice del dibattimento dispone con ordinanza la trasmissione degli atti al P.M., perché richieda il rinvio a giudizio,
sempre che la relativa eccezione sia stata proposta entro il termine (a pena di decadenza) ex art 491 co.1.

Solo nell’ipotesi in cui l’irregolare esercizio dell’azione penale abbia comportato una perdita di garanzie per l’imputato, il
giudice non è messo in condizioni di intervenire sua sponte, risultando subordinata l’emissione del provvedimento col quale si
restituisce l’udienza preliminare a chi ne aveva diritto, ad una tempestiva eccezione dell’interessato.

Invece, l’eventuale eccesso di garanzie legittima l’intervento del giudice a prescindere dall’iniziativa delle parti.

Ciò perché la tutela assicurata all’imputato dal sistema processuale, nel caso in esame, sarebbe risultata decisamente più ampia.

La mancata celebrazione dell’udienza preliminare avrebbe integrato un’inosservanza di disposizioni concernenti la difesa
dell’imputato (non sarebbe apparso azzardato ritener sussistente un’ipotesi di nullità assoluta per omessa citazione
dell’imputato, insanabile e rilevabile in ogni stato e grado del procedimento).

Le funzioni del giudice dibattimentale potranno essere svolte nei procedimenti ex art 550 da giudici onorari di pace.

Saranno da rispettare condizioni e criteri ex d.lgs. 116/2017, per cui il numero dei procedimenti assegnati a ciascun giudice
onorario di pace non potrà essere superiore ad 1/3 della media nazionale dei procedimenti pendenti per ciascun giudice
professionale del tribunale.
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6. Procedimenti connessi e citazione diretta a giudizio. (Art 551)


In una prospettiva di valorizzazione si colloca l’art 551 (“Procedimenti connessi”), in forza del quale:

o “Nel caso di procedimenti connessi, se la citazione diretta a giudizio è ammessa solo per alcuni di essi, il P.M. presenta
per tutti la richiesta di rinvio a giudizio ex art 416”.

La scelta così compiuta è in linea con le scelte che si individuano a proposito degli effetti della connessione tra procedimenti
appartenenti a competenze o ad attribuzioni distinte.

Nel caso considerato nell’art, si deve ritenere che i procedimenti connessi non solo appartengono alla competenza del
tribunale, ma siano anche attribuiti a tale giudice nella composizione monocratica;

l’esigenza di trattazione unitaria emerge solo perché vi sono 2 moduli distinti di gestione processuale davanti a detto orano
giurisdizionale:

 Un rito a citazione diretta,


 Ed un rito che preveda la richiesta di rinvio a giudizio e la fissazione dell’udienza preliminare.

L’eventuale violazione della regola esposta nell’art 551, dovrà essere considerata alla stregua dell’art 550 co.3, dove si
prevede che la parte interessata possa eccepire entro il termine di cui all’art 491 co.1 l’avvenuto esercizio dell’azione penale
nelle forme della citazione diretta per un reato per il quale è prevista l’udienza preliminare, e ciò vale anche per i casi in cui
tale udienza è doverosa in conseguenza degli effetti della connessione tra più procedimenti.

7. I contenuti del decreto di citazione a giudizio. (Art 552)


Nell’individuazione dei requisiti del decreto di citazione a giudizio, l’art 552 co.1 riproduce in parte il contenuto dell’art 429,
dove viene disciplinato il decreto col quale il giudice dispone il giudizio all’esito dell’udienza preliminare.

Uguali, sono le previsioni in tema di:

- Indicazione delle parti private e della persona offesa,


- enunciazione del fatto in forma chiara e precisa,
- individuazione del giudice competente per il giudizio,
- del luogo, giorno e ora della comparizione
- data e sottoscrizione del decreto.

Manca il riferimento all’indicazione sommaria delle fonti di prova e dei fatti cui esse si riferiscono (art 429 co1 lett.d);

infatti, il decreto proveniente dal G.U.P. è diverso, in quanto emesso a seguito di un’udienza nel contraddittorio tra le parti e
con la possibilità di acquisizione probatoria;

ciò perché il decreto di rinvio a giudizio assume i connotati di una decisione con relativo dispositivo, la cui motivazione è
surrogata dalla semplice indicazione delle fonti di prova solo per evitare che il giudice del dibattimento possa essere
successivamente condizionato da quanto è avvenuto in precedenza davanti ad atro organo giurisdizionale.

Non compaiono, invece, nell’art 429 gli avvisi relativi alla facoltà dell’imputato di nominare un difensore di fiducia, ed alla
possibilità di prender visione ed estrarre copia del fascicolo delle indagini preliminari (art 552);

ciò perché il decreto che dispone il giudizio è preceduto dalla celebrazione dell’udienza preliminare, dove l’imputato è già stato
obbligatoriamente assistito, mentre la discovery si realizza al momento della notifica dell’avviso di fissazione dell’udienza
preliminare.

È, invece, un contenuto specifico del decreto di citazione a giudizio l’avviso che l’imputato, qualora ne ricorrano i
presupposti, possa avanzare, prima della dichiarazione di apertura del dibattimento di primo grado, la richiesta di giudizio
abbreviato o di applicazione della pena, o la domanda di oblazione.

Nessun cenno, invece, è stato fatto nell’art 552 al nuovo rito speciale della sospensione del procedimento con messa alla
prova ex art 464bis (inserito nel 2014), e che potrà trovar applicazione quasi sempre con riguardo a reati attribuiti al tribunale in
composizione monocratica.

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Nel decreto di citazione a giudizio, il P.M. dovrà far riferimento solo ai procedimenti speciali che possono trovare applicazione
nel caso concreto.

Viene individuata un’ulteriore valenza del decreto di citazione a giudizio, atto col quale l’imputato, oltre ad essere citato a
giudizio per il dibattimento, viene anche stimolato a chiudere un epilogo non dibattimentale del processo.

“Il decreto di citazione è dunque un atto complesso, che produce diversi effetti, a seconda di quello che sarà l’atteggiamento
dell’imputato nei confronti delle possibilità che gli sono offerte di definizione anticipata del procedimento”.

Da considerare, è che nella larghissima maggioranza dei procedimenti attribuiti al tribunale in composizione monocratica si
infliggono pene gestibili con il ricorso al rito del patteggiamento, la cui appetibilità risulta superiore a quella del giudizio
abbreviato.

Quanto alla possibilità di una modifica o di una revoca del consenso prestato, non essendo stato fissato un termine all’imputato
per manifestare la propria volontà, se non quello dell’anteriorità alla declaratoria di apertura del dibattimento, non può
prospettarsi un’applicazione analoga a quella ex art 447 co.3, essendo una norma che prevede un caso eccezionale di
irrevocabilità della richiesta di applicazione della pena.

Dunque, anche per il consenso anticipato del P.M. potranno richiamarsi le considerazioni svolte in più ampia prospettiva, nella
direzione della revocabilità o della modificabilità (cap. VI par.8), almeno fino a quando non sia intervenuto il consenso dell’altra
parte (secondo la giurisprudenza), ma fino alla pronuncia del giudice (secondo la dottrina).

8. La nullità del decreto di citazione a giudizio.


Anche in relazione alla disciplina delle nullità (come per i requisiti) del decreto di citazione a giudizio è utile un confronto con i
contenuti dell’art 429 a proposito della disciplina delle nullità del decreto che dispone il giudizio.

Vi è totale corrispondenza di previsioni per quanto attiene alla nullità:

 provocata dall’incertezza sull’identificazione dell’imputato,


 e derivante dalla mancata/insufficiente indicazione del requisito consistente nella enunciazione in forma chiara e
precisa del fatto (art 552 co.2);
 integrata dalla mancata/insufficiente indicazione del luogo, del giorno e dell’ora della comparizione.

La nullità del decreto di citazione a giudizio è stabilita, anche:


 se manca od è insufficiente l’avviso che l’imputato ha facoltà di nominare un difensore di fiducia, e che in mancanza
sarà assistito dal difensore d’ufficio;
 o quando manchi l’avviso all’imputato della facoltà di chiedere prima dell’apertura del dibattimento il giudizio
abbreviato, il patteggiamento e l’oblazione.

Il decreto è nullo anche:

 se non è preceduto dall’avviso di conclusione delle indagini preliminari ex art 415bis,


 nonché dall’invito a presentarsi per rendere interrogatorio ex art 375.

Tutte le ipotesi di nullità richiamate nel co.2 art 552, anche se non fossero state oggetto di apposita previsione, avrebbero
potuto essere egualmente invocate ai fini della nullità del decreto.

Con l’esclusione della nullità riguardante il mancato avviso di conclusione delle indagini al difensore della persona offesa od
a quest’ultima, si tratta di situazioni inquadrabili nell’ambito delle nullità generali ex art 178 lett.c, dal momento che si
riferiscono a previsioni coinvolgenti l’intervento dell’imputato.

La Corte di cassazione a Sezioni Unite ha ritenuto che l’indeterminatezza dell’accusa dia luogo solo ad una nullità relativa che
deve essere eccepita nel rispetto del termine previsto ex art 491 co.1.

Dunque, l’omessa enunciazione del fatto in relazione alla condotta tipica del reato integra un’ipotesi di nullità assoluta per
inosservanza delle disposizioni che concernono l’iniziativa del P.M. nell’esercizio dell’azione penale.

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Sarebbero, invece, da ricondurre tra le nullità assolute riguardanti l’attività difensiva, quelle che conseguono all’accertato
difetto dei requisiti che incidono sulla funzione essenziale di vocatio in iudicium del provvedimento, come avviene in caso di
mancata/insufficiente indicazione dell’imputato, del giorno, dell’ora o del luogo della comparizione o dell’A.G. davanti alla quale
si deve comparire.

Dichiarata la nullità del decreto di citazione a giudizio, si dovrà provvedere alla rinnovazione dell’atto da parte del P.M.

Nei casi in cui sia stata individuata una nullità che ha impedito un valido passaggio dalla fase delle indagini al giudizio, alla
dichiarazione di nullità consegue la regressione del procedimento allo stato in cui è stato compiuto l’atto nullo, con restituzione
degli atti al P.M.

Le Sezioni Unite hanno precisato che tale regressione non è consentita (e dunque è abnorme il provvedimento con cui viene
disposta) laddove la nullità del decreto di citazione a giudizio non precluda la progressione del procedimento alla fase del
giudizio tra le parti necessarie del rapporto processuale:

 così, ad esempio, l’omessa citazione della persona offesa, pur essendo una causa di nullità del decreto ex art 178 lett.c,
imporrà solo la rinnovazione dell’atto da parte del giudice monocratico del dibattimento.

9. La notificazione del decreto di citazione e la trasmissione degli atti al giudice dell’udienza di


comparizione in dibattimento.
Una volta emesso, il decreto di citazione deve essere notificato all’imputato, al suo difensore ed alla persona offesa almeno 60
giorni prima della data fissata per l’udienza di comparizione (in caso di urgenza, il termine è di 45 giorni).

Nel computo del termine si devono applicare le regole generali, con la conseguente considerazione dell’ultimo giorno

È un termine decisamente molto ampio, se lo si rapporta a quello, di solo 10 giorni, previsto per la notifica dell’avviso di
fissazione dell’udienza preliminare nell’art 419 co.3.

Del resto, solo nel decreto di citazione a giudizio compare l’avvertimento che l’imputato può presentare le richieste ex art
438 e 444 o domanda di oblazione,

mentre il decreto di fissazione dell’udienza preliminare mantiene il più assoluto silenzio al riguardo.

Il decreto di citazione a giudizio deve essere tradotto nella lingua dell’imputato alloglotta.

Anche la posizione della persona offesa, riceve una maggiore tutela nel rito a citazione diretta rispetto a quello ordinario, sia
che si faccia riferimento al termine di 10 giorni, sia che si prenda in considerazione il termine minimo di 20 giorni che deve
intercorrere tra la data del decreto di rinvio a giudizio e la data fissata per il giudizio.

Il decreto di citazione, una volta notificato, viene depositato dal P.M. nella segreteria, unitamente al fascicolo contenente la
documentazione, gli atti e le cose indicati nell’art 416 co.2 (art 552 co.4)

Quindi, si passa alla formazione del fascicolo per il dibattimento, che viene trasmesso al giudice, unitamente al decreto di
citazione, immediatamente dopo la notificazione (art 553).

La distanza tra il rito in esame e quello che postula la celebrazione dell’udienza preliminare è piuttosto sensibile, visto che il
legislatore ha ritenuto di dover assicurare nell’art 431, il contraddittorio delle parti sulla formazione del fascicolo
dibattimentale.

Invece, nei procedimenti a citazione diretta, l’accordo delle parti può essere raggiunto solo nel corso dell’udienza di
comparizione ex art 555 co.4.

Nel periodo intercorrente tra la trasmissione del fascicolo al tribunale e la celebrazione del dibattimento, non è escluso un
epilogo anticipato del processo.

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10. Gli atti urgenti. (Art 554)


Con il successivo art 554 viene affrontato e risolto il problema relativo all’individuazione dell’organo competente ad assumere gli
atti urgenti a norma dell’art 467 ed a provvedere sulle misure cautelari dal momento dell’emissione del decreto di citazione a
giudizio, sino alla relativa trasmissione al giudice del dibattimento stesso.

Nonostante il fatto che l’art 554 e 467 si riferiscano entrambi alla medesima rubrica “atti urgenti”, sarebbe errato configurare la
prima disposizione come adattamento della seconda per tali procedimenti.

La possibilità di ricorrere all’incidente probatoria ex art 392 per i casi di citazione diretta viene a coprire l’intero iter
predibattimentale:
 Nel corso delle indagini preliminari, in forza dell’operatività ex art 392 ss;
 Nel periodo successivo all’emissione del decreto di citazione a giudizio, troverà applicazione, invece, prima l’art 554 e
successivamente (dopo la trasmissione del fascicolo al giudice del dibattimento) l’art 467, sulla scorta del rinvio generale
alle disposizioni sul procedimento ordinario contenuto nell’art 549.

Col richiamo all’art 467, si individuano le tipologie degli atti che possono essere assunti e le forme che devono essere utilizzate.

Si dovrà trattare di quegli atti che nel corso delle indagini preliminari possono consentire il ricorso all’incidente probatorio, per
la cui assunzione devono rispettarsi le forme previste per il dibattimento.

Quanto alla competenza funzionale, riconosciuta al G.I.P. per i provvedimenti sulle misure cautelari, la disposizione in
commento troverebbe spiegazione nel fatto che la fase in essa considerata non era contemplata tra i vari segmenti
procedimentali individuati nell’art 279 (“Giudice competente”), dove si affronta la problematica della determinazione del
giudice competente funzionalmente in ordine alle misure cautelari.

L’art 554, ha lo scopo di disciplinare l’ipotesi in cui, nel periodo intercorrente tra l’emissione del decreto di citazione a giudizio e
la sua trasmissione, unitamente al fascicolo per il dibattimento, al giudice, sia necessario assumere atti urgenti ex art 467, o
provvedere in tema di misura cautelare.

Il rinvio all’art 467, ha la funzione di precisare gli atti assumibili secondo la procedura in esame, nonché la forma della loro
assunzione.

Rinviando, infatti, l’art 467 alla casistica dell’art 392, si deduce che trattasi degli atti non rinviabili al dibattimento che nel
corso delle indagini possono essere assunti con incidente probatorio, con le forme proprie del dibattimento, secondo le
peculiarità disciplinari sancite dal riformulato art 559.

11. L’udienza di comparizione a seguito della citazione diretta. (Art 555)


Il Titolo II, dedicato alla disciplina del procedimento con citazione diretta a giudizio, si conclude con le disposizioni sull’udienza
di comparizione, che è una udienza dibattimentale a tutti gli effetti, come si ricava ex art 555 ultimo comma quando dispone
che per ciò che “non è espressamente previsto si osservano le disposizioni contenute nel Libro VII, in quanto compatibili”.

Le particolarità di questa udienza rispetto a quella dibattimentale riflettono per lo più l’assenza dell’udienza preliminare.

Pertanto, prima di inserire i contenuti specifici dell’udienza di comparizione, il legislatore ha ritenuto di dover riprodurre quasi
integralmente nel co.1 art 555 le previsioni dell’art 468 co.1, a proposito dell’onere che incombe sulle parti che intendono
chiedere l’esame di testimoni, periti o consulenti tecnici nonché delle persone indicate nell’art 210, di depositare le relative
liste, a pena di inammissibilità, almeno 7 giorni prima della data fissata per l’udienza.

Nessun riferimento viene effettuato all’indicazione delle circostanze su cui deve vertere l’esame.

Le conseguenze di tale omissione potrebbero essere di estrema rilevanza non solo perché la lista non potrebbe essere dichiarata
inammissibile a causa della mancata indicazione delle circostanze.

Stante l’identità del termine di 7 giorni entro cui deve essere effettuato il deposito ex art 468, si dovrà concludere che la
previsione introdotta nell’art 555 co.1 è del tutto inutile.

Contenuti specifici dell’udienza di comparizione sono invece quelli relativi alla possibilità riconosciuta all’imputato e al P.M. di
presentare la richiesta ex art 444 ed al solo imputato di chiedere anche il giudizio abbreviato/oblazione prima dell’udienza di
dichiarazione di apertura del dibattimento, non necessariamente per la prima volta (art 552 co.2).
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329

Anche per la richiesta di sospensione del procedimento con messa alla prova, l’imputato personalmente o a mezzo di
procuratore speciale deve attivarsi nel rispetto di tale termine.

L’assenza dell’udienza preliminare fa sì che l’udienza di comparizione diventi la sede in cui viene operata la scelta dei riti
alternativi alla celebrazione del dibattimento.

Nella medesima prospettiva si è introdotto nell’art 555 co.3 un tentativo di conciliazione obbligatorio espletato dal giudice,
quando il reato è perseguibile a querela di parte; si dovrà verificare se il querelante è disposto a rimettere la querela e il
querelato ad accettar la remissione.

La previsione andrà coordinata con la disciplina contenuta dell’art 155 co.1 c.p., per cui la remissione non produce effetto
solo se il querelato l’ha espressamente o tacitamente ricusata.

Quindi, se il querelato non è presente e non si è realizzata detta situazione, a fronte di una remissione della querela, il giudice
potrà dichiarare egualmente l’estinzione del reato, a prescindere dall’accettazione della remissione.

Le Sezioni Unite hanno poi allargato le possibilità di definire il processo a seguito di remissione della querela, affermando che:
 Integra remissione tacita della querela la mancata comparizione all’udienza dibattimentale del querelante
previamente ed espressamente avvertito dal giudice che l’eventuale sua assenza sarà interpretata come fatto
incompatibile con la volontà di persistere nella querela.

Laddove le ipotesi di epilogo anticipato non siano state sfruttate, l’udienza di comparizione prosegue come una normale
udienza dibattimentale.

Ex co.4 art 555, si prevede che le parti, dopo la declaratoria d’apertura del dibattimento, indicano i fatti che intendono
provare e chiedono l’ammissione delle prove.

Inoltre, le stesse potranno concordare l’acquisizione al fascicolo per il dibattimento di atti contenuti nel fascicolo del P.M.,
nonché della documentazione relativa all’attività di investigazione difensiva, analogamente a quanto disposto ex art 493 co.1
e 3.

La disposizione sull’udienza di comparizione non menziona direttamente nessuna altra attività successiva.

Il che potrebbe far pensare che il legislatore abbia inteso dare importanza al modello per cui nella prima udienza non si
procede all’istruzione, ma si verifica solo la necessità dell’istruzione, a seguito di un’udienza definita “di smistamento”.

In tal direzione si era mosso un disegno di legge del 97, nel quale si stabiliva che per procedere oltre nel dibattimento si
sarebbe fissata un’altra udienza, a meno che non fossero state presentate le liste di cui all’art 468.

In assenza di un segnale normativo inequivoco, sarebbe azzardato concludere nel senso che nell’udienza di comparizione
regolata ex art 555 non si posa avere attività di istruzione dibattimentale, anche perché la disposizione si conclude con un
ampio rinvio alle norme contenute nel LIBRO VI per la disciplina di tutto ciò che non è espressamente previsto.

Le eccezioni all’operatività delle previsioni ordinarie non si esauriscono all’interno della disposizione sull’udienza di
comparizione, in quanto altri contenuti specifici si rinvengono nell’art 559, riguardante il dibattimento davanti al tribunale in
composizione monocratica, a prescindere dalla riconducibilità o meno del procedimento tra quelli a citazione diretta.

12. I procedimenti speciali: a) il giudizio abbreviato; b) l’applicazione della pena su richiesta; c) il


procedimento per decreto; d) la convalida dell’arresto ed il giudizio direttissimo. TITOLO III (Art 556-
558)
La disciplina dei provvedimenti speciali è trattata nel Titolo III (art 556-558).

La disciplina del procedimento speciale inserito nel 2014, pur non trovando espressa regolamentazione nel suddetto Titolo,
rimane invariata davanti alle due diverse composizioni del tribunale (vale, dunque, anche in composizione monocratica).

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a) Nel caso del giudizio abbreviato, trovano applicazione le disposizioni contenute negli artt 438-443.

L’unitarietà di disciplina delle indagini preliminari ha spinto verso l’eliminazione dell’anomalia costituita dalla possibilità di
presentare la richiesta di giudizio abbreviato nel corso delle indagini preliminari prima che fosse delineata l’ipotesi accusatoria
di un’imputazione formalizzata.

È venuta meno la possibilità di chiedere che il G.I.P. decida sulla richiesta di giudizio abbreviato avanzata entro 15 giorni dalla
notificazione del decreto di citazione a giudizio.

Ove l’azione penale sia stata esercitata senza l’udienza preliminare, e quindi, nel caso di citazione diretta a giudizio, troveranno
applicazione gli art 555 co.2, 557 e 558 co.8, nel senso che:

 L’imputato potrà formulare la richiesta prima della dichiarazione di apertura del dibattimento con l’atto di opposizione
o subito dopo l’udienza di convalida dell’arresto in flagranza.

Dal 2000, è stabilito (in virtù del richiamo all’art 441bis), che in caso di richiesta di “contro-trasformazione” del rito, il giudice
revochi l’ordinanza con cui era stato disposto il giudizio abbreviato e fissi l’udienza per il giudizio.

b) Anche per l’applicazione della pena su richiesta (per le cui determinazione possono essere assunte dal vice
procuratore onorario nei procedimenti relativi ai reati per i quali l’azione penale viene esercitata con decreto di
citazione), la disciplina speciale si è notevolmente semplificata.

Nessuna distinzione, quindi, per i tribunali in composizione collegiale/monocratica.

Anche per il patteggiamento, non è più consentito rivolgersi al G.I.P. entro 15 giorni dalla notificazione del decreto di
citazione a giudizio e, nei casi in cui sia mancata l’udienza preliminare, troveranno applicazione le previsioni sopra riportate
per la richiesta di giudizio abbreviato (art 556 co.2).

c) Nel caso del procedimento per decreto, è da segnalarsi come (dal 2017), il vice procuratore onorario sia legittimato a
presentare la richiesta di emissione, prima di operare un rinvio alle disposizioni del Titolo V Libro VI.

L’art 557 si preoccupa di precisare le richieste che l’imputato potrà effettuare con l’atto di opposizione; l’imputato, infatti, potrà
chiedere al G.I.P. l’emissione del decreto di citazione a giudizio, o il giudizio abbreviato, il patteggiamento o l’oblazione.

Con riferimento alla richiesta di sospensione del procedimento con messa alla prova, questa potrà essere presentata con
l’atto di opposizione (ex art 464bis co.3), anche se la decisione su tale istanza dovrà essere emessa, secondo la
giurisprudenza di legittimità, dal giudice dibattimentale e non dal G.I.P.

Nel caso di opposizione, il potere di rinviare a giudizio è attribuito al giudice, anche se il legislatore allude ad un “decreto di
citazione a giudizio” come avviene nell’art 550, e non da un “decreto che dispone il giudizio” come avviene nell’art 429.

Relativamente al termine per comparire (che deve intercorrere tra la notifica di tale decreto e la data fissata per il
dibattimento), sembra prevalere l’interpretazione per cui deve essere rispettato quello dei 30 giorni ex art 456 per il giudizio
immediato (e non quello di 60 giorni stabilito per il decreto di citazione a giudizio).

Nel giudizio conseguente all’opposizione, l’imputato non può chiedere il giudizio abbreviato, il patteggiamento, né
presentare domanda di oblazione (quest’ultima potrà essere rinnovata sempre che non vi siano mutamenti della richiesta e
della situazione di fatto cui la stessa si riferisce).

d) Diverse particolarità caratterizzano la regolamentazione dello svolgimento procedurale del giudizio direttissimo, che a
seguito di arresto in flagranza, può averso davanti al tribunale in composizione monocratica (art 558).

Il vice procuratore onorario può svolgere funzioni di P.M. nell’udienza di convalida dell’arresto di cui all’art 558, eccezion fatta:

 per i procedimenti per i delitti di cui agli artt 589 e 590, commessi con violazione delle norme per la prevenzione degli
infortuni sul lavoro,
 nonché di cui all’art 590sexies c.p.,
 e così pure per assumere le determinazioni relative al patteggiamento per i reati di cui all’art 550 co.1, anche quando si
proceda a giudizio direttissimo dopo la convalida dell’arresto.

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Quanto alla regolamentazione del procedimento speciale, il legislatore aveva originariamente circoscritto nell’art 556
l’ammissibilità del rito ai soli casi di arresto in flagranza.

La distanza rispetto alla disciplina del giudizio direttissimo prevista ex art 449 doveva ridursi drasticamente, dopo gli
interventi della Corte costituzionale, che hanno determinato la possibilità di instaurare il giudizio direttissimo anche davanti
al giudice monocratico sia nel caso di confessione dell’indagato sia di arresto in flagranza convalidato dal G.I.P.

E nell’attuale disposizione compare l’espressa previsione per il P.M. di procedere al giudizio direttissimo anche in tali ipotesi
(art 558 co.9), nelle quali la richiesta di giudizio abbreviato o di patteggiamento verrà effettuata prima che sia dichiarato
aperto il dibattimento.

Vanno segnalate alcune differenze dell’iter procedimentale.

Nel caso di rito direttissimo in cui si realizza la contestualità tra convalida dell’arresto e giudizio, di regola sono gli
ufficiali/agenti di P.G. che hanno eseguito l’arresto in flagranza o che hanno avuto in consegna l’arrestato a condurre tale
soggetto davanti al giudice del dibattimento.

Laddove il giudice non tenga udienza, questa dovrà essere fissata entro 48 ore dall’arresto, arresto di cui viene data immediata
notizia al giudice da parte degli ufficiali o degli agenti di polizia giudiziaria (art 558 co.2).

Il significativo ruolo della P.G. trova espressione nella previsione di una relazione orale che viene autorizzata dal giudice al fine
di acquisire le premesse necessarie per svolgere il giudizio di convalida (art 558 co.3).

L’iniziativa della presentazione dell’arresto in flagranza ad opera del P.M. è, invece, prevista solo nel caso in cui il magistrato
abbia ordinato che questi sia posto a sua disposizione.

Dopo il 2012 è stato soppresso il secondo periodo dove si consentiva al P.M. di presentare l’arrestato al giudice anche
qualora lo stesso non tenesse udienza, chiedendone la fissazione entro le successive 48 ore.

Così facendo, è stata eliminata la possibilità di differire la convalida, imponendo al P.M., qualora il giudice non tenga udienza, di
procedere nelle forme ordinarie, inoltrando la richiesta di convalida al G.I.P.

Nel co.4 art 558 è poi stata eliminato il rinvio all’art 386, essendo stata esentata la P.G. dall’obbligo di associare gli arrestati
agli istituti carcerari.

Si è cercato di limitare il flusso degli arresti in flagranza verso il carcere nell’ipotesi in cui l’udienza di convalida debba
celebrarsi contestualmente al giudizio direttissimo.

È stato, dunque, previsto il co.4bis art 558, in forza del quale si prevede che il P.M. disponga sempre, in attesa dell’udienza di
convalida, la custodia dell’arrestato nei luoghi indicati nell’art 284 co.1, cioè nei luoghi ove si eseguono gli arresti
domiciliari (o, quando non possibile, il P.M. dispone con decreto motivato che l’arrestato sia condotto in una casa
circondariale).

Diventa, pertanto, necessario sempre l’intervento del P.M., cui è affidato il compito di decidere il luogo della custodia
dell’arresto.

Per i casi in cui l’arresto in flagranza sia stato eseguito per uno dei reati di “furto in abitazione, rapina ed estorsione” (art 380
co.2), è stabilita una regola più severa per la sorte dell’arrestato, che deve essere custodito presso le idonee strutture nella
disponibilità della P.G. (o se non possibile, il P.M. dispone l’incarcerazione).

Si individua una presunzione di inadeguatezza della custodia domiciliare che potrebbe legittimare qualche perplessità sul
piano della piena ragionevolezza costituzionale;

nulla impedisce che proprio all’esito dell’udienza di convalida lo stesso P.M. chieda l’applicazione della misura di cui all’art
284 od anche di una misura meno afflittiva.

Quanto alla regolamentazione restante del direttissimo monocratico, l’unica deroga attiene al termine a difesa più breve (fino
a 5 giorni) di quello assicurato dinanzi al tribunale in composizione collegiale.

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13. Il dibattimento. TITOLO IV (Art 559)


La disciplina della fase dibattimentale trova la sua autonoma collocazione nel Titolo IV (art 559, in passato esteso fino a 567).

Potrebbe apparir logico questo carattere residuale della disciplina della fase dibattimentale (ultimo Titolo del libro), che,
stando alla relazione al progetto preliminare, avrebbe dovuto “assumere questa forma di giudizio, ultima risorsa dopo che
non hanno avuto corso le ipotesi di accordo premiale tra P.M. e imputato”.

Passando alla regolamentazione del dibattimento davanti al tribunale in composizione monocratica, non vi sono differenze tra i
vari procedimenti, come riflesso della presenza o meno dell’udienza preliminare.

L’art 559 (che rinvia alle disposizioni circa la composizione collegiale, in quanto applicabili), si caratterizza per la presenza di una
serie di deroghe.

Con riferimento alle modalità di verbalizzazione, si stabilisce che, se le parti vi consentono e il giudice non reputi necessaria
la redazione in forma integrale, il verbale è redatto solo in forma riassuntiva, anche fuori dei casi indicati ex art 140.

È, questa, una soluzione di compromesso rispetto alla regola assoluta della redazione in forma riassuntiva del verbale che
compariva nel progetto preliminare per il dibattimento pretorile, in attuazione dei criteri di massima semplificazione.

Non solo è necessario il consenso delle parti, ma il giudice non è vincolato all’eventuale accordo, rimanendo libero di
applicare la norma che prevede l’alternativa fra la redazione integrale/riassuntiva.

È innegabile che le esigenze di economia processuale abbiano prevalso sulla intima correlazione esistente tra formazione della
prova nel dibattimento e trascrizione integrale degli apporti probatori orali, sulla base di una sorta di presunzione di semplicità
delle vicende giudiziarie affidate all’organo monocratico.

La possibilità di procedere ad una verbalizzazione riassuntiva appare collegata all’ulteriore deroga apportata col co.3 art 559
alle modalità ordinarie di sviluppo dell’udienza dibattimentale.

Davanti al tribunale in composizione monocratica, sull’accordo delle parti, l’esame dei testimoni, dei periti, dei consulenti
tecnici e delle parti private può essere condotto dal giudice sulla base delle domande e delle contestazioni proposte dal P.M.
e dai difensori.

Il giudice non è comunque obbligato a svolgere direttamente l’esame anche se le parti lo richiedono, per cui, laddove la lettura
di tali atti non gli assicuri una sufficiente comprensione della fattispecie processuale, dovrà “restituire” alle parti il compito di
condurre l’esame.

“questo più celere e semplificato modello di formazione della prova potrà essere attuato solo ove la semplicità del caso lo
consenta”.

Sempre nell’ottica di semplificazione ed accelerazione procedimentale, nella disposizione sul dibattimento pretorile era stata
fissata anche la regola della redazione contestuale del dispositivo e della motivazione, regola che poteva essere derogata solo
nei casi in cui la motivazione fosse risultata particolarmente complessa.

Ma tale previsione fu perlopiù disapplicata; e il legislatore ha deciso di non riprodurre detta previsione nel nuovo codice.

In caso di impedimento del giudice, la sentenza è sottoscritta dal presidente del tribunale, previa indicazione della causa della
sostituzione.

Tra le ipotesi di impedimento andrà ricondotta anche la morte del giudice, nonostante che l’art 559 (a differenza di quanto
avviene per la composizione collegiale, ex art 546 co.2), menzioni l’impedimento, ma non la morte del giudice.

Il potere sostitutivo attribuito al presidente del tribunale non attiene solo alla sottoscrizione, ma si estende anche alla
redazione integrale della motivazione.

Inoltre, pur non emergendo dalla lettura dell’art 559, è da tener conto di una peculiarità del dibattimento:

 Nei procedimenti nei quali il tribunale giudica in composizione monocratica, il procuratore onorario può svolgere le
funzioni di P.M. nell’udienza preliminare.
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Quanto sopra detto vale ad esclusione dei procedimenti relativi ai delitti di cui agli art 589 e 590 c.p. (commessi con
violazione delle norme per la prevenzione degli infortuni sul lavoro), e art 590sexies c.p..

Peraltro, prima della riforma organica della magistratura onoraria del 2017, le funzioni del P.M. nelle udienze dibattimentali che
si svolgevano dinanzi al tribunale in composizione monocratica potevano essere esercitate:

- da uditori giudiziari,
- da vice procuratori onorari addetti all’ufficio,
- da personale in quiescenza da non più di 2 anni che nei 5 anni precedenti avesse svolto le funzioni di ufficiale di P.G.,
- o da laureati di giurisprudenza che frequentavano il 2° anno della scuola biennale di specializzazione per le professioni
legali.

Attualmente, invece, tali funzioni potranno essere delegate solo ad un vice procuratore onorario che è il magistrato onorario
addetto all’ufficio di collaborazione del procuratore della Repubblica (istituito col d.lgs. 116/2017).

Dovrà, dunque, possedere i requisiti indicati nel decreto ed essere risultato idoneo dell’incarico dopo lo svolgimento di un
tirocinio di 6 mesi presso gli uffici giudiziari.

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CAPITOLO IX
Impugnazioni
1. Rilievi introduttivi.
Le impugnazioni penali sono rimedi giuridici a disposizione delle parti volti a rimuovere gli ostacoli derivanti da una decisione
del giudice penale, sul presupposto della sua erroneità.

Le impugnazioni si distinguono in:

 Ordinarie  appello e ricorso per cassazione;


 Straordinarie  revisione, ricorso straordinario per errore di fatto e rescissione del giudicato.

Tale disciplina è contenuta nel Libro IX (art 568-647).

L’appello e il ricorso per cassazione vanno proposti entro determinati termini, pena l’irrevocabilità della sentenza
pronunciata in giudizio e la sua esecutività (art 648 co.2 e 650 co.10).

La revisione delle sentenze di condanna, delle sentenze emesse ex art 444 co.2 o dei decreti penali di condanna, divenuti
irrevocabili, è ammessa sempre (sia nei casi tassativi “classici” di revisione, sia nel nuovo caso di “revisione europea”), anche
se la pena è già stata eseguita o estinta.

Il ricorso straordinario per errore di fatto (art 625bis) ha per oggetto provvedimenti della corte di cassazione ormai
irrevocabili, ma è sottoposto ad un termine perentorio per la sua proposizione.

La rescissione del giudicato (art 629bis) concerne una sentenza di condanna passata in giudicato, ma anch’essa va richiesta in
un termine perentorio (si noti come le ultime due impugnazioni abbiano natura ibrida).

Particolare disciplina è prevista per le sentenze di non luogo a procedere, pronunciate in esito all’udienza preliminare, le quali
acquistano forza esecutiva una volta che non siano più soggette a impugnazione, pur essendo suscettibili di revoca.

In senso lato possono considerarsi impugnazione ordinarie:


- L’opposizione al decreto penale di condanna (art 461 ss);
- L’opposizione al decreto del P.M. che dispone la restituzione delle cose sequestrate/respinge la relativa richiesta;
- Il ricorso per cassazione avverso la sentenza della corte di appello in materia di estradizione o in materia di
riconoscimento di una sentenza penale straniera o in materia di esecuzione all’estero di una sentenza penale
italiana.

In sento lato, possono considerarsi impugnazioni straordinarie:


- La richiesta di revoca della sentenza di non luogo a procedere non più soggetta ad impugnazione.

Di recente, ha fatto ingresso:

 il reclamo  proponibile davanti al tribunale in composizione monocratica, ex art 410bis co.3, nei casi di nullità del
provvedimento di archiviazione previsti dai co. precedenti.

In caso di inammissibilità, la parte privata che lo ha proposto sarà tenuta al pagamento di una somma in favore della cassa
delle ammende (tenendo conto dei limiti ex art 616 co.1 per il ricorso per cassazione).

Per quanto concerne i mezzi di impugnazione ordinari in senso stretto, è prevista la possibilità di proporre immediatamente
ricorso per cassazione contro una sentenza di primo grado appellabile.

Le impugnazioni nei confronti delle sentenze pronunciate dal giudice di pace sono disciplinate dal d.lgs 274/2000,
osservandosi, per “tutto ciò che non è previsto” in tal decreto, le norme del codice “in quanto applicabili”.

La tipologia delle impugnazioni delle ordinanze relative alle misure cautelari personali e dei provvedimenti relativi al sequestro
a fini cautelari o probatori presenta aspetti particolari:

 accanto all’appello e al ricorso per cassazione, va inquadrato un ulteriore mezzo, ossia la richiesta di riesame, che,
trattandosi di misure cautelari personali/reali, ha come alternativa il ricorso immediato per cassazione.
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335

È necessario inquadrare le impugnazioni rispetto ai modelli tipici:

 dell’azione di annullamento (querela nullitatis)  finalizzata alla rescissione totale/parziale della sentenza impugnata,
con vincolo del giudice rispetto ai motivi dedotti;
 e del gravame  finalizzato a devolvere al giudice ad quem l’intera causa, affinché giudichi ex novo, con la medesima
ampiezza di poteri del giudice a quo.

Nella prima tipologia (azione di annullamento), è riconducibile:

 la revisione, posto che l’accoglimento della richiesta comporti la revoca della sentenza o del decreto penale di
condanna, già divenuti irrevocabili
 e la pronuncia di una sentenza di proscioglimento, a sua volta ricorribile per cassazione.

Nella seconda tipologia (gravame) è rapportabile:

 l’opposizione a decreto penale con cui il condannato chiede il giudizio immediato o non formula richiesta alcuna.

Possono essere definibili ibridi:


 sia l’appello  connesso al modello del gravame, ma caratterizzato come parzialmente devolutivo, attribuendo alla
cognizione del giudice di secondo grado solo i punti della decisione ai quali si riferiscono i motivi proposti (art 597);

 sia il ricorso per cassazione  connesso al modello dell’azione di annullamento, con riguardo agli errores in
procedendo o in iudicando emergenti ex art 606, ma in alcuni casi viene praticato un giudizio di merito.

In seguito, sarà opportuno analizzare (con riguardo all’appello ed al ricorso per cassazione) le conseguenze tanto della riforma
con la l.46/2006, quanto delle declaratorie di illegittimità costituzionale che l’avevano interessata, le quali:

 da un lato, ne avevano colpito l’asse portante, eliminando per il P.M. i limiti all’appello contro le sentenze di
proscioglimento,
 e dall’altro, avevano parzialmente riequilibrato il sistema, restituendo all’imputato l’appello avverso le sentenze
dibattimentali di proscioglimento e riconoscendogli l’appello contro le sentenze di assoluzione per difetto di
imputabilità, derivante da vizio totale di mente, emesse in esito al giudizio abbreviato.

Una recente manovra riformatrice (l.103/2017 c.d. riforma Orlando) è intervenuta sulla disciplina delle impugnazioni,
perseguendo l’obiettivo della loro semplificazione.

Tale riforma conteneva anche una delega al Governo in materia di giudizi di impugnazione, attuata col d.lgs.11/2018.

Sennonché, uno dei profili più problematici della disciplina delle impugnazioni è costituito dal loro impiego pretestuoso,
finalizzato a conseguire l’estinzione del reato per intervenuta prescrizione o a differire l’esecuzione della pena.

A tal fenomeno ha posto parziale rimedio la giurisprudenza delle Sezioni Unite, che è giunta a ricollegare alle cause di
inammissibilità delle impugnazioni un effetto preclusivo della declaratoria di estinzione del reato.

La l.103/2017 si è occupata del rapporto fra impugnazioni e prescrizione, e modificando l’art 159 c.p., ha introdotto nuove
cause di sospensione del corso della prescrizione che operano nei giudizi di appello e di cassazione, nell’ipotesi di sentenza di
condanna di primo o di secondo grado.

2. Principio di tassatività delle impugnazioni. TITOLO I (Art 568-592)


In virtù del principio di tassatività (art 568 co.1) delle impugnazioni, la legge stabilisce i casi nei quali i provvedimenti del giudice
sono soggetti a impugnazione e determina il mezzo con cui possono essere impugnati.

In conformità all’art 111 co.7 Cost, si prevede che sono sempre soggetti a ricorso per cassazione, quando non altrimenti
impugnabili, i provvedimenti con i quali il giudice decide sulla libertà personale e le sentenze (salvo quelle sulla competenza,
risolte in modo definitivo ed inoppugnabile dalla stessa corte di cassazione).

Ex art 568 co.1 e 2, emerge che:

 le sentenze (tranne quelle sulla competenza/giurisdizione) sono sempre ricorribili per cassazione,
 mentre, sono appellabili solo se la legge prevede espressamente che avverso di esse è proponibile l’appello.
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Dunque, in sostanza, le sentenze sono tutte impugnabili (eccetto quelle emesse dalla corte di cassazione: per una deroga,
costituita dal ricorso straordinario per errore di fatto), ma il mezzo di impugnazione dipende da vari elementi:

 se si tratta di sentenza di primo grado appellabile  il mezzo è l’appello, o se ne ricorrano i presupposti, dal ricorso
immediato per cassazione omisso medio;
 se si tratta di sentenza di primo grado inappellabile o sentenza emessa dal giudice di appello  il mezzo è il ricorso
per cassazione.

Dopo la riforma del 2006 e le relative declaratorie di illegittimità costituzionale, le sentenze di proscioglimento pronunciate
in sede di giudizio abbreviato sono:
 inappellabili dall’imputato (a meno che si tratti di assoluzione per difetto di imputabilità),
 appellabili, invece, per il P.M.

Dopo il d.lgs.11/2018, le sentenze di proscioglimento emesse al termine del dibattimento di primo grado sono:
 appellabili senza limiti dal P.M.,
 mentre l’imputato può appellarle salvo che si tratti di sentenze di assoluzione perché il fatto non sussiste o perché
l’imputato non l’ha commesso.

Discorso analogo può essere condotto per i provvedimenti con i quali il giudice decide sulla libertà personale:

 Sono ricorribili per cassazione, ex art 568 co.2;


 Sono impugnabili, inoltre, con riesame (riesame delle ordinanze che dispongono una misura coercitiva ex art 390), in
alternativa al ricorso immediato per cassazione e all’appello contro le ordinanze in materia di misure cautelari (art
310).

Per quanto riguarda i provvedimenti diversi dalle sentenze e non concernenti la libertà personale, vige il principio di tassatività
ex art 568 co.1.

Il codice non contiene un’espressa previsione circa l’impugnabilità del provvedimento c.d. abnorme (cioè, che risulti avulso
dall’intero ordinamento processuale per la sua singolarità; e che si esplichi al di fuori dei casi consentiti, al di là di ogni
ragionevole limite).

In base al principio di tassatività, tali provvedimenti non sarebbero impugnabili; ma la giurisprudenza li ritiene ricorribili per
cassazione, perché il principio in discorso non opera per i provvedimenti caratterizzati da “assoluta estraneità ed
incompatibilità” rispetto al sistema processuale, e dalla “imprevedibilità” che non consente di dedurre dal silenzio del
legislatore l’intento di escludere il diritto all’impugnazione nei loro confronti.

Le Sezioni Unite hanno affermato che il termine per proporre ricorso per cassazione avverso un provvedimento abnorme
decorre dal momento in cui l’interessato ne abbia avuto effettiva conoscenza e che, in difetto di prova contraria, tal
momento è quello indicato dal ricorrente.

3. Impugnabilità oggettiva
Per quanto riguarda le sentenze, l’impugnazione può essere:

 Totale  avendo ad oggetto l’intera sentenza:


 Parziale  avendo ad oggetto uno o più capi di essa.

La sentenza può essere impugnata:

 Solo per le disposizioni penali o solo per quelle civili (art 573 co.1);
 o per le une e per le altre, o per quelle penali e per quelle in materia di misure di sicurezza (art 579 co.1).

Se si impugna per le disposizioni in materia di misure di sicurezza, il rimedio è la proposizione dell’impugnazione al tribunale
di sorveglianza.

L’art 573 è dedicato all’impugnazione per i soli interessi civili; l’impugnazione dei solo capi extrapenali “non sospende
l’esecuzione delle disposizioni penali del provvedimento impugnato” (art 573 co.2); i capi penali, se non impugnati, divengono
irrevocabili.

L’impugnazione per i soli interessi civili è trattata e decisa con le forme ordinarie del processo penale.

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Disposizioni specifiche sono dettate nell’art 586 per l’impugnazione delle ordinanze emesse nel corso degli atti preliminari al
dibattimento o nel dibattimento.

La regola generale è che l’impugnazione contro tali ordinanze può essere proposta, a pena di inammissibilità, solo con
l’impugnazione contro la sentenza, quando non è diversamente stabilito dalla legge; tuttavia, l’impugnazione è ammissibile
anche se la sentenza è impugnata solo per connessione con l’ordinanza.

Alla regola dell’impugnazione congiunta fanno eccezione le ipotesi espressamente stabilite dalla legge e le ordinanze in
materia di libertà personale, contro cui è ammessa l’impugnazione immediata, indipendentemente dall’impugnazione contro
la sentenza (art 586 co.3).

Sulla base di quanto detto dall’art 586 circa l’impugnazione congiunta della sentenza e dell’ordinanza, le Sezioni Unite hanno
ritenuto che si debba dare prevalenza all’espressione di volontà della parte di impugnare e alla possibilità di individuare il
provvedimento che si è inteso impugnare:

 dunque, non è motivo d’inammissibilità dell’impugnazione contro una ordinanza dibattimentale, la circostanza che
nell’atto unico di impugnazione contro la sentenza manchi l’espressa dichiarazione d’impugnazione anche
dell’ordinanza, sempre che nell’atto stesso venga denunciata l’illegittimità dell’ordinanza, con esposizione delle
relative ragioni.

4. Titolari del diritto d’impugnazione: a) impugnazione del P.M. (Art 570)


Anche sul versante soggettivo vige il principio di tassatività, infatti, ex art 568 co.3:

 Il diritto di impugnazione spetta solo a colui al quale la legge lo conferisce, fermo restando che, se la legge non
distingue tra le diverse parti, tale diritto spetta a ciascuna di esse.

Per quanto riguarda il P.M., il procuratore della Repubblica presso il tribunale e il procuratore generale presso la corte di
appello possono proporre impugnazione, nei casi stabili dalla legge, quali che siano state le conclusioni del rappresentante del
P.M.

Salvo quanto previsto ex art 593bis co.2, il procuratore generale presso la corte d’appello può proporre impugnazione
nonostante l’impugnazione/acquiescenza del P.M. presso il giudice che ha emesso il provvedimento impugnato (art 570);

la clausola di salvezza opera un coordinamento con l’art 593bis (dedicato all’appello del P.M.), dato che il procuratore può
appellare solo nei casi di avocazione o qualora il procuratore della Repubblica abbia prestato acquiescenza al provvedimento.

L’eventuale concorrenza di impugnazioni proposte dal procuratore della Repubblica presso il tribunale e dal procuratore
generale presso la corte di appello presuppone il riconoscimento di una duplice autonoma titolarità, essendo entrambi
legittimati ad impugnare.

Il legislatore ha poi previsto il meccanismo di rinuncia all’impugnazione.

Il fenomeno delle impugnazioni concorrenti non si verifica più con riguardo all’appello, ma non sembra comportare
conseguenze sul piano della rinuncia.

Ex art 570 co.2 l’impugnazione può essere proposta anche dal rappresentante del P.M. che ha presentato le conclusioni (e nella
prassi è appunto tale organo a proporre l’impugnazione).

L’art 570 co.3 prevede che il rappresentante del P.M. che ha presentato le conclusioni (in primo grado) e che ne fa richiesta
nell’atto di appello può partecipare al successivo grado di giudizio quale sostituto del procuratore generale presso la corte di
appello, sempre che quest’ultimo lo ritenga opportuno.

La previsione è giustificata dall’opportunità di non far disperdere la conoscenza e l’esperienza già acquisite, soprattutto per i
processi più impegnativi, in modo da soddisfare criteri di economicità processuale.

Al P.M. può essere presentata richiesta motivata di proporre impugnazione, a ogni effetto penale, dalla parte civile, dalla
persona offesa anche se non costituita parte civile, e dagli enti e associazioni intervenuti a norma degli art 93 e 94 (art 572 co.1).

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In altre parole, i soggetti non legittimati ad impugnare i capi penali della sentenza possono sollecitare il P.M. che, quando non
propone impugnazione, provvede con decreto motivato da notificare al richiedente (art 572 co.1), chiarendo le ragioni della
propria decisione negativa.

Da sottolineare, è il fatto che la l.46/2006 aveva determinato una corrispondente riduzione dell’oggetto della richiesta motivata
ai sensi dell’art 572 co.1:

 Dopo le declaratorie di illegittimità costituzionale che hanno cancellato per il P.M. i limiti all’appellabilità di tali
sentenze, pronunciate nel giudizio abbreviato o nel dibattimento, l’art 572 co.1 ha visto riespandersi la propria sfera
operativa.

5. Segue: b) impugnazione dell’imputato e del suo difensore. (Art 571)


La regola generale fissata ex art 571 co.1 (“Impugnazione dell’imputato”) conferma che la titolarità dell’impugnazione è
riconosciuta all’imputato, il quale può proporla personalmente o per mezzo di un procuratore speciale, nominato anche prima
della emissione del provvedimento da impugnare.

La l.103/2017 ha inserito all’inizio dell’art 571 co.1 una clausola di salvezza, eccettuando quanto previsto per il ricorso per
cassazione dall’art 613 co.1, per raccordare il disposto all’eliminazione della possibilità per l’imputato di presentare
personalmente ricorso.

Nel caso di imputato incapace di intendere e di volere, la possibilità di proporre impugnazione spettante all’imputato è affidata
al tutore e al curatore speciale (co.2); per l’imputato minore l’impugnazione può essere proposta anche da chi esercita
responsabilità genitoriale.

Il co.3 disciplina l’impugnazione del difensore, stabilendo che può proporre impugnazione il difensore dell’imputato al
momento del deposito del provvedimento o il difensore nominato dall’imputato proprio per la presentazione dell’impugnazione.

Con riguardo alla seconda situazione, le Sezioni Unite hanno ritenuto trattarsi di “regola speciale” rispetto a quella dettata
ex art 24 disp.att.; per cui, la nomina del terzo difensore di fiducia dell’imputato per la proposizione dell’atto d’impugnazione
implica “la revoca di entrambi i due precedenti legali eventualmente nominati”, in mancanza di “un criterio normativo per
stabilire quale dei due debba intendersi revocato”.

È stato poi precisato dalla Corte che la nomina del terzo difensore comporta la revoca dei precedenti solo se egli abbia
effettivamente presentato l’atto di impugnazione.

Prima che la l.67/2014 espungesse dall’ordinamento l’istituto della contumacia, varie vicissitudini hanno riguardato la difesa
dell’imputato contumace.

Ai sensi del testo originario, il difensore poteva proporre impugnazione contro una sentenza contumaciale solo se munito di
specifico mandato.

La l.479/99 aveva poi soppresso la previsione in discorso; dunque il difensore dell’imputato contumace non era più limitato
nel suo potere d’impugnazione e venivano in tal modo risolte alcune situazioni che creavano difficoltà nella prassi.

La riscrittura dell’art 175 co.2 aveva eliminato l’effetto preclusivo dell’impugnazione proposta dal difensore sulla richiesta di
restituzione nel termine a impugnare da parte dell’imputato contumace;
intervenne, però, la Corte costituzionale che, dichiarando parzialmente illegittimo quel testo dell’art 175 co.2, aveva
riconosciuto al contumace, il quale non avesse avuto “cognizione del processo”, il diritto alla restituzione nel termine per
proporre impugnazione, quando quest’ultima fosse già stata proposta dal difensore.

La problematica è ormai superata dalle ulteriori riscritture dell’articolo, oggi riferito alla sola restituzione nel termine per
proporre opposizione avverso il decreto penale di condanna.

L’art 571 co.4 stabilisce che l’imputato, nei modi previsti per la rinuncia, può togliere effetto all’impugnazione proposta dal suo
difensore (o, necessariamente, col consenso del tutore/curatore se si tratta di imputato soggetto a tutela o di imputato incapace
di intendere o di volere).

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Viceversa, il difensore dell’imputato, non munito di procura speciale, non può effettuare una valida rinunciata
all’impugnazione, anche se da lui proposta, a meno che l’imputato sia presente alla dichiarazione di rinuncia fatta in udienza e
non si opponga.

Nel silenzio di legge, la dottrina nega la possibilità di integrare gli atti d’impugnazione dell’imputato e del suo difensore, a fini
di regolarità formale.

L’impugnazione dell’imputato non concerne solo i capi penali, ma anche gli interessi civili.

L’impugnazione per gli interessi civili è proposta col mezzo previsto per le disposizioni penali della sentenza (art 574 co.3).

Quando nei confronti dell’imputato è stata pronunciata condanna alle restituzioni o al risarcimento dei danni cagionati dal
reato, a favore della parte civile, il giudice di appello e la corte di cassazione, nel dichiarare il reato estinto per amnistia o per
precisazione, decidono sull’impugnazione ai soli effetti delle disposizioni e dei capi della sentenza che concernono gli
interessi civili (art 578).

Il riferimento è alla condanna contemplata ex art 538 e 539 co.1, che presuppone la condanna penale dell’imputato in primo
grado;
in sede di impugnazione diretta contro i capi penali, se sopravviene una delle cause estintive del reato previste ex art 578, il
giudice, nel dichiarare estinto il reato, decide sull’impugnazione ai soli effetti civile, il che comporta una decisione vera e
propria, con l’esercizio dei poteri spettanti di regola a quell’organo giudicante.

Se il giudice di appello abbia dichiarato di non doversi procedere per intervenuta prescrizione del reato (o amnistia), senza
motivare in ordine alla responsabilità dell’imputato ai fini civili, l’accoglimento del ricorso proposto dall’imputato stesso
determina, a parere delle Sezioni Unite della Corte di cassazione, l’annullamento della sentenza con rinvio al giudice civile
competente per valore in grado di appello ex art 622, considerato che tra gli “effetti penali” della sentenza che vanno tenuti
fermi, rientrano quelli scaturenti ad una declaratoria di estinzione del reato.

Il d.lgs. 21/2018 ha inserito il nuovo art. 578bis (“Decisione sulla confisca in casi particolari nel caso di estinzione del reato per
amnistia o per prescrizione”);

quando è stata ordinata la confisca in casi particolari prevista dall’art 240bis co.1 c.p. e da altre disposizioni di legge, il giudice
di appello o la corte di cassazione, nel dichiarare il reato estinto per prescrizione o amnistia, decidono sull’impugnazione ai soli
effetti della confisca, previo accertamento della responsabilità dell’imputato.

6. Segue: c) impugnazione del responsabile civile e della persona civilmente obbligata per la pena
pecuniaria. (Art 575)
Il responsabile civile può proporre impugnazione, con il mezzo che la legge attribuisce all’imputato:

 contro le disposizioni della sentenza riguardanti la responsabilità di quest’ultimo


 e contro quelle relative alla condanna, propria e dell’imputato, alle restituzioni, al risarcimento del danno e alla
rifusione delle spese processuali (art 575co.1).

La persona civilmente obbligata per la pena pecuniaria ha diritto a proporre impugnazione, valendosi del mezzo che la legge
attribuisce all’imputato:

 contro le disposizioni della sentenza riguardanti la responsabilità di quest’ultimo,


 e contro quelle relative alla condanna dell’imputato medesimo al pagamento della multa/ammenda (art 575 co.2).

Inoltre, il responsabile civile può proporre impugnazione


 contro le disposizioni della sentenza di assoluzione relative alle domande proposte per il risarcimento del danno e per la
rifusione delle spese processuali (art 575 co.3).

7. Segue: d) impugnazione della parte civile e del querelante. (Art 576)


Ai sensi dell’art 576 co.1 (modificato dalla l.46/2006), la parte civile può proporre impugnazione:

 conto i capi della sentenza di condanna che riguardano l’azione civile


 e contro (ai soli effetti della responsabilità civile) le sentenze di proscioglimento pronunciate nel giudizio.
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Può proporre impugnazione anche contro la sentenza, di condanna o di proscioglimento, pronunciata ex art 442, quando ha
consentito all’abbreviazione del rito.

L’art 576, non dicendo nulla riguardo il mezzo d’impugnazione, ha subito dato luogo a problematiche interpretative.

Un’interpretazione rigida del principio di tassatività (art 568 co.1) conduceva a concludere che la parte civile disponesse del
solo ricorso per cassazione (art 568 co.2), tanto avverso le sentenze di condanna quanto di proscioglimento.

Tuttavia, tale conclusione pareva in contrasto non solo con la volontà legislativa, ma soprattutto col dichiarato intento di
adeguare la disciplina ai richiamati rilievi contenuti nel messaggio presidenziale;
infatti, ad accettare tale interpretazione, la parte civile sarebbe stata posta su un piano sfalsato, ma in peius, rispetto al P.M.,
perdendo in toto il diritto di appellare le sentenze, sia di proscioglimento sia di condanna.

Dunque, si era proposto di aderire nel frattempo ad un’interpretazione meno rigida del principio di tassatività, concludendo
che, in mancanza di uno specifico riferimento al mezzo, la parte civile avesse diritto a entrambi i mezzi ordinari
d’impugnazione; in caso contrario si sarebbe dovuto chiarire quale senso conservasse l’art 600 co.1, dove si prevede
un’ipotesi di appello della parte civile.

Proprio a un’interpretazione “meno rigida e restrittiva” del principio di tassatività sono approdate le Sezioni Unite, offrendo
una lettura “sistematica e costituzionalmente orientata” dell’art 576, che non pone limiti all’impiego degli ordinari mezzi
d’impugnazione per la parte civile.

Le Sezioni unite hanno, inoltre, rilevato che, ad accogliere l’opposta tesi, sarebbe apparso violato il principio della “parità
delle armi”, in quanto l’imputato ed il responsabile civile possono appellare il capo della sentenza di condanna relativo al
risarcimento dei danni, mentre la parte civile potrebbe solo ricorrere per cassazione sia contro la sentenza di proscioglimento
(che la vede in toto soccombente), sia contro la sentenza di condanna (che può vederla parzialmente soccombente), se la sua
domanda di risarcimento sia stata accolta in misura inferiore a quella richiesta.

Nell’ipotesi di sentenza di condanna relativa ad un reato successivamente abrogato e qualificato come illecito civile sottoposto
a sanzione pecuniaria civile, le Sezioni unite hanno affermato che il giudice dell’impugnazione, nel dichiarare che il fatto non è
più previsto dalla legge come reato, deve revocare anche i capi della sentenza che riguardano gli interessi civili.

Per ciò che riguarda la sentenza di proscioglimento, si deve trattare di sentenza pronunciata nel giudizio, o con il rito abbreviato
cui la parte civile abbia consentito.

Se, non avendo il P.M. impugnato, il proscioglimento dell’imputato è ormai divenuto irrevocabile, l’impugnazione della parte
civile può essere finalizzata a eliminare l’effetto extrapenale del giudicato di assoluzione, cioè ad ottenere una formula di
proscioglimento non preclusiva, che le consenta di esercitare senza vincoli l’azione in sede civile.

La giurisprudenza è orientata nel senso che la parte civile possa impugnare anche la sentenza di proscioglimento sfornita di
efficacia preclusiva, in quanto l’art 576 co.1 non distingue tra le formule proscioglitive e rappresenta una deroga all’art 538
co.1, che collega la decisione sul danno all’esistenza di una sentenza di condanna.

Secondo le Sezioni Unite (in virtù della problematica relativa alla possibilità o meno per il giudice di appello di pronunciare
condanna al risarcimento dei danni in favore della parte civile appellante nonostante la dichiarazione di estinzione del reato
per prescrizione e la mancanza di una sentenza di condanna in primo grado), ha precisato che:

 il giudice di appello, nel dichiarare il reato estinto per prescrizione, su impugnazione della sentenza di assoluzione ad
opera della parte civile, può condannare l’imputato al risarcimento dei danni a favore di quest’ultima, dato che l’art 576
conferisce al giudice dell’impugnazione il potere di decidere sulla domanda di risarcimento anche in mancanza di una
precedente statuizione sul punto.

Quanto all’ipotesi in cui la parte civile costituita non impugni la sentenza di assoluzione, le Sezioni unite avevano affermato, in
un primo momento, che essa non ha diritto al risarcimento del danno in caso di condanna dell’imputato su appello del P.M.

Tuttavia, alcune decisioni delle sezioni singole si sono discostate da tale insegnamento, sostenendo che, per il principio di
immanenza della sua costituzione, la parte civile, una volta ammessa, abbia diritto di partecipare al giudizio d’impugnazione e di
vedersi riconosciuto il diritto al risarcimento del danno, sebbene non abbia impugnato la sentenza di proscioglimento di primo
grado, appellata dal solo P.M.;

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e una pronuncia delle Sezioni unite ha aderito a tale orientamento, affermando che, nell’evenienza in discorso, il giudice di
appello deve provvedere anche sulla domanda della parte civile che non abbia proposto impugnazione.

L’art 576 co.2, riferito al querelante, stabilisce che tale soggetto, condannato al pagamento delle spese del procedimento
nonché alla rifusione delle spese e al risarcimento del danno in favore dell’imputato e del responsabile civile, ha lo stesso diritto
di impugnare riconosciuto alla parte civile.

Perciò, il querelante, non più vincolato all’impiego del mezzo di impugnazione previsto per il P.M., può proporre
impugnazione ai soli effetti della propria responsabilità per le spese e i danni contro la sentenza di assoluzione perché il fatto
non sussiste o perché l’imputato non l’ha commesso, del cui deposito gli è notificato avviso (art 542 co.2).

Per riassumere, la parte civile può proporre impugnazione, sia in caso di condanna che di proscioglimento dell’imputato, ma
limitatamente ai capi della sentenza che riguardano l’azione civile; sicché può chiedere una rivalutazione della responsabilità
civile dell’imputato prosciolto, ma non la sua condanna penale.

Il difensore della parte civile può autonomamente proporre impugnazione, sebbene nella procura speciale non si faccia
espresso riferimento a tale potere.

8. Segue: e) impugnazione della persona offesa per i reati di ingiuria e diffamazione: abrogata.
L’art 577 consentiva (come eccezione alla regola generale enunciata ex art 572) alla parte civile, che fosse pure persona offesa
dal reato, di proporre impugnazione, anche agli effetti penali, contro le sentenze di condanna e di proscioglimento per i reati di
ingiuria e diffamazione.

La l.46/2006 ha abrogato l’art 577; la scelta è collegata alla contestuale modifica dell’art 576 co.1, cha ha svincolato
l’impugnazione della parte civile dal mezzo previsto per il P.M.

Tuttavia, diverso era l’ambito operativo delle due disposizioni, dato che l’art 577, si riferiva all’impugnazione “anche agli
effetti penali”.

Da segnalare che l’art 594 c.p., relativo all’ingiuria, è stato abrogato dal d.lgs.7/2016, costituendo ora illecito civile (da 100 a 8k
euro) chi offende l’onore o il decoro di una persona presente.

A fronte della generale previsione contenuta dell’art 572, il testo dell’art 428, come sostituito dalla l.46/2006, stabiliva nel co.2

 non solo che la persona offesa potesse proporre ricorso per cassazione nei soli casi di nullità previsti ex art 419 co.7, con
riguardo all’avviso dell’udienza preliminare,
 ma anche che “la persona offesa costituita parte civile può proporre ricorso per cassazione ex art 606”, contemplando così
un’ipotesi ‘impugnazione agli effetti penali.

Opportunamente, la l.103/2017, nel riscrivere l’art 428, ha soppresso la previsione contenuta nel co.2.

9. L’interesse a impugnare.
Il soggetto legittimato a impugnare deve avervi interesse (art 568 co.4):

 L’impugnazione deve essere volta a eliminare un provvedimento pregiudizievole e a sostituirlo con un altro da cui
consegua un risultato vantaggioso.

L’interesse a impugnare va configurato come concreto e non come interesse astratto alla “sola esattezza teorica della
decisione, senza che alla posizione giuridica del soggetto derivi alcun risultato pratico favorevole”.

Le Sezioni Unite negano l’interesse a impugnare la sola parta motiva della sentenza, senza alcuna ricaduta sul dispositivo,
come nell’ipotesi di impugnazione della sentenza di assoluzione pronunciata ex art 530 co.2 per avere il giudice ritenuto
insufficienti le prove acquisite.

Oltre che concreto, l’interesse va qualificato come attuale; deve, cioè, persistere fino al momento della decisione, verificandosi,
in caso contrario, una carenza di interesse sopraggiunta.

Possono essere avanzate considerazioni diverse a seconda del soggetto impugnante.


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A. P.M.

Si è sempre ritenuto che l’interesse di tale organo potesse, in alcuni casi, coincidere con quello dell’imputato, configurandosi ad
esempio un interesse concreto e attuale quando l’impugnazione miri a non fare ricadere sull’imputato effetti dannosi ascrivibili
a errori del giudice.

Tuttavia, dopo l’inserimento dell’art 568 co.4bis (con riforma impugnazioni ex d.lgs.11/2018), il P.M. “propone
impugnazione diretta a conseguire effetti favorevoli all’imputato solo con ricorso per cassazione”.

La legittimazione ad appellare del P.M. è limitata solo ai casi nei quali egli esprime il ruolo di parte antagonista rispetto
all’imputato.

Dunque, il ricorso per cassazione è diventato l’unico strumento di cui il P.M. può avvalersi anche in funzione diversa da quella di
parte avversaria dell’imputato.

B. Imputato

Anche per lui, l’interesse ad impugnare è disancorato dal concetto di soccombenza, purché l’impugnazione stessa tenda a una
decisione in concreto più vantaggiosa rispetto a quella impugnata.

Attualmente rimangono inappellabili per l’imputato le sentenze di proscioglimento pronunciate in sede di giudizio
abbreviato, salvo che si tratti di assoluzione per difetto di imputabilità, derivante da vizio totale di mente.

Invece, le sentenze di proscioglimento emesse nel dibattimento di primo grado sono appellabili, salvo che si tratti di
sentenze di assoluzione perché il fatto non sussiste o perché l’imputato non l’ha commesso.

Fermo restando la mancanza di interesse, sul piano legale, a impugnare sentenze di proscioglimento, sul piano extrapenale
l’imputato:

 ha interesse a ricorrere per cassazione contro le sentenze di proscioglimento emesse in sede di giudizio abbreviato
(l’appello gli è consentito solo contro sentenze di assoluzione per difetto di imputabilità, derivante da vizio totale di
mente);
 e a impugnare le sentenze dibattimentali di proscioglimento quando è stato assolto con una formula proscioglitiva
che non ha efficacia extrapenale. (perché il fatto non costituisce reato, per ragioni diverse dall’adempimento di un
dovere/esercizio di una facoltà legittima), in modo da ottenere una formula di proscioglimento che riveste tale
efficacia.

Inoltre, è avallata la posizione per cui si ritiene che “l’accertamento” menzionato ex art 652 (“Efficacia della sentenza penale
di assoluzione ne giudizio civile o amministrativo di danno”) debba risultare in termini assertivi della motivazione;

cioè, la formula utilizzata dal giudice penale non è decisiva e il giudice civile deve tener conto della motivazione della
sentenza “per individuare la effettiva ragione dell’assoluzione dell’imputato”.

Di conseguenza, si configura l’interesse dell’imputato ad impugnare la sentenza assolutoria fondata sulla regola di giudizio
stabilita ex art 530 co.2 per ottenere una decisione che, contenendo il suddetto “accertamento”, produca effetti preclusivi sul
piano extrapenale.

Le Sezioni Unite hanno deciso che nel caso di assoluzione perché il fatto non è più previsto dalla legge come reato sussiste
l’interesse dell’imputato a ricorrere per cassazione avverso la statuizione concernente la trasmissione degli atti all’autorità
amministrativa per l’applicazione delle sanzioni relative all’illecito depenalizzato.

Anche l’imputato prosciolto in dibattimento per particolare tenuità del fatto, ex art 131bis c.p., ha interesse a impugnare per
ottenere una formula più favorevole, che non produca effetti negativi sul piano extrapenale ex art 651bis co.1.

Le Sezioni Unite hanno affermato che sussiste interesse dell’imputato a ricorrere per cassazione nell’ipotesi in cui il giudice
di appello abbia omesso di pronunciarsi sulla richiesta di applicazione della disciplina della continuazione formulata con
apposito motivo.

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C. Responsabile civile e civilmente obbligato per la pena pecuniaria

Quanto ai temi penali, non sussiste interesse ad impugnare con riferimento al titolo del reato o all’ammontare della pena, in
quanto aspetti che non si ripercuotono sul diritto al risarcimento,

mentre sussiste interesse a impugnare per negare la responsabilità dell’imputato.

Evidente, è che sussiste interesse a impugnare per ottenere una riduzione della pena pecuniaria inflitta all’imputato,
destinata a ripercuotersi sulla somma che il civilmente obbligato deve pagare in caso di insolvibilità del condannato.

D. Parte civile

L’interesse a impugnare va commisurato al concetto di soccombenza;

cioè, la parte civile ha interesse a impugnare i capi della sentenza di condanna che le neghino il risarcimento richiesto o glielo
accordino in misura inferiore;

ma non può impugnare, se la richiesta è stata completamente accolta, per ottenere un risarcimento maggiore.

Nel caso in cui, non avendo impugnato il P.M., il proscioglimento dell’imputato è ormai divenuto irrevocabile, la parte civile,
ai soli effetti della responsabilità civile, ha sicuramente interesse a impugnare la sentenza di assoluzione cha abbia effetti
preclusivi in sede extrapenale ex art 652.

A tal proposito, le Sezioni Unite hanno chiarito che la parte civile non ha interesse a proporre impugnazione contro la sentenza
di proscioglimento per improcedibilità dell’azione penale dovuta a effetto di querela:

 Si tratta, infatti, di una pronuncia penale meramente processuale, che non comporta effetto preclusivo in sede civile e
non arreca alcun pregiudizio, dato che in mancanza di impugnazione del P.M., la parte civile non potrebbe neppur
ottenere l’affermazione di responsabilità dell’imputato, in riferimento agli effetti civili.

10. Forma e modalità di presentazione dell’impugnazione. (Art 581-584)


L’impugnazione si propone (ex art 581) con atto scritto, nel quale sono indicati il provvedimento impugnato, la data del
medesimo, il giudice che lo ha emesso, con l’enunciazione specifica, a pena d’inammissibilità:

a) Dei capi (che costituiscono altrettante decisioni autonome) o dei punti (costituiscono altrettanti temi affrontati nel suo
ambito) della decisione ai quali si riferisce l’impugnazione;
b) Delle prove delle quali si deduce l’inesistenza, l’omessa assunzione o l’omessa o erronea valutazione;
c) Delle richieste, anche istruttorie;
d) Dei motivi, con l’indicazione delle ragioni di diritto e degli elementi di fatto che sorreggono ogni richiesta.

In virtù delle riforme, la modifica dell’art 546 co.1 lett.e e la nuova versione dell’art 581 sono collegate fra loro, nel senso che,
a fronte dell’innovato modello legale della motivazione “in fatto”, si è voluto rafforzare l’onere della parte di enunciare in
modo specifico i motivi di impugnazione.

Il vero problema consiste nello stabilire il significato del termine “specificità” con riguardo ai motivi di appello.

Nel 2016, le Sezioni unite si erano espresse, per cui l’appello (al pari del ricorso per cassazione) “è inammissibile per difetto di
specificità dei motivi quando non risultano esplicitamente enunciati e argomentati i rilievi critici rispetto alle ragioni di fatto e
di diritto poste a fondamento della sentenza impugnata”; si tratta della specificità estrinseca, differente da quella intrinseca,
la cui mancanza è causa d’inammissibilità dell’appello.

L’unicità dell’atto di impugnazione (che deve sempre contenere i motivi) non esclude la possibile presentazione di nuovi motivi.

Parte della giurisprudenza ritiene che la dichiarazione di impugnazione e i motivi che la sorreggono possono essere contenuti
in 2 atti distinti, purché entrambi depositati nei termini, senza necessità di una formale unificazione in un unico atto
impugnativo.

L’osservanza delle disposizioni ex art 581 (“Forma dell’impugnazione”) è stabilita a pena di inammissibilità.

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Secondo le Sezioni Unite è inammissibile l’impugnazione redatta in lingua straniera proposta da soggetto legittimato che
non conosca la lingua italiana, in quanto quest’ultimo può avvalersi dell’assistenza di un proprio interprete di fiducia, a spese
dello Stato in caso di indigenza.

Tale orientamento potrebbe venir superato col nuovo art 143, il cui co.1 prevede, per l’imputato che non conosce la lingua
italiana, anche il diritto all’assistenza gratuita di un interprete per le comunicazioni col difensore (comprensive pure dell’atto
di impugnazione).

Nonostante il principio di tassatività, è, invece, irrilevante il nomen del mezzo d’impugnazione;

infatti, l’impugnazione è ammissibile indipendentemente dalla qualificazione ad essa data dalla persona che l’ha proposta.

Se l’impugnazione è proposta ad un giudice incompetente questi trasmette gli atti al giudice competente (art 568 co.5)

Alcuni orientamenti giurisprudenziali hanno distinto fra:

 Errore nell’enunciazione formale del mezzo  quale risulta dal contenuto sostanziale dell’atto,
 Ed erronea utilizzazione di un mezzo d’impugnazione escluso dalla legge  per cui inammissibile.

In un primo momento le Sezioni Unite avevano ritenuto applicabile l’art 568 co.5 solo nella prima eventualità, trattandosi di
inesatta qualificazione formale che il giudice ha il potere-dovere di rettificare, privilegiando la volontà della parte di attivare il
rimedio predisposto dalla legge;

nella seconda eventualità, cioè qualora risulti inequivocabile, dal contenuto dell’atto, la volontà di utilizzare un mezzo non
predisposto dall’ordinamento, si tratta di un’infondata pretesa da sanzionare con l’inammissibilità.

Parte della giurisprudenza successiva si è discostata da tale insegnamento e le Sezioni Unite hanno rovesciato la pregressa
impostazione, ritenendo che non sussista più spazio per soluzioni ermeneutiche, impostate in termini di “interno volere” (la
cui prova sarebbe diabolica, se non impossibile), dovendosi aver riguardo solo alla volontà del soggetto di sottoporre a
sindacato la decisione impugnata (ritenuta ingiusta), senza attribuire alcun rilievo all’errore che potrebbe verificarsi nel
momento della manifestazione di volontà o anche alla deliberata scelta di proporre proprio un mezzo di impugnazione
diverso da quello prescritto.

Di conseguenza, il giudice adito deve limitarsi a prendere atto della voluntas impugnationis e trasmettere gli atti al giudice
competente, al quale spetta il potere di procede all’esatta qualificazione del mezzo di impugnazione e di accertare l’esistenza
dei suoi requisiti di validità.

Infine, le Sezioni Unite hanno precisato che l’unico limite all’operatività dell’art 568 co.5 è rappresentato dalla non
impugnabilità del provvedimento, che esclude qualunque possibilità di qualificare diversamente il mezzo di impugnazione
proposto.

Per riassumere meglio, l’art 568 (“Regole generali”) sancisce, oltre al principio di tassatività delle impugnazioni, anche il
principio per il quale la proposizione di un mezzo di impugnazione diverso da quelli consentiti non determina come sua
conseguenza immediata l’inammissibilità dell’impugnazione stessa, bensì, per il favor impugnationis, l’obbligo di esattamente
qualificarla alla stregua dei rimedi consentiti, con emanazione dei provvedimenti consequenziali qualora ricorrano le condizioni
del rimedio ritenuto ammissibile.

Alle regole enunciate nell’art 568 co.5, va ricondotto l’art 621 (“Effetti dell’annullamento senza rinvio”), dove si prevede che la
sentenza impugnata che ha deciso in secondo grado su materia per la quale non è ammesso appello (ex art 620 lett.i), la
Cassazione debba annullare senza rinvio la sentenza e ritenere il giudizio qualificando l’impugnazione come ricorso.

Dato che l’appello contro una sentenza inappellabile dovrebbe valere come ricorso ex art 568 co.5, la corte di cassazione, non
avendo il giudice di appello provveduto a trasmettere gli atti tempestivamente, annullerà la sentenza di secondo grado e si
pronuncerà su quell’appello qualificandolo come ricorso.

Salvo che la legge disponga altrimenti, l’atto di impugnazione è presentato personalmente o a mezzo di incaricato nella
cancelleria del giudice che ha emesso il provvedimento impugnato.

Qualora l’atto di impugnazione di una parte privata sia presentato in cancelleria da un incaricato non occorre l’autenticità della
sottoscrizione della parte, poiché l’art 582 (“Presentazione dell’impugnazione”) non richiede una tale formalità.

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Le parti private e i difensori (dunque, non il P.M.) possono presentare l’atto di impugnazione anche nella cancelleria del
tribunale o del giudice di pace del luogo in cui si trovano, se tale luogo è diverso da quello cui fu emesso il provvedimento, o
davanti a un agente consolare all’estero:

 In tali casi l’atto viene immediatamente trasmesso alla cancelleria del giudice che emise il provvedimento impugnato
(art 582 co.2).

Ex art 583 (“Spedizione dell’atto di impugnazione”) parti e difensori possono proporre l’impugnazione con telegramma o con
atto da trasmettere a mezzo di raccomandata alla cancelleria del giudice che ha emesso il provvedimento impugnato:
 Il pubblico ufficiale allega agli atti la busta contenente l’atto di impugnazione e appone l’indicazione del giorno della
ricezione e la propria sottoscrizione (art 583 co.1);
 L’impugnazione si considera proposta nella data di spedizione del telegramma o della raccomandata (co.2).

L’art 583 contiene una elencazione tassativa dei mezzi di trasmissione, da cui deriva l’inammissibilità dell’impugnazione
trasmessa mediante telefax.

Particolari disposizioni sono dettate ex art 123 co.1 e 2 per la presentazione dell’impugnazione da parte dell’imputato
detenuto/internato in un istituto per l’esecuzione delle misure di sicurezza, in stato di arresto/detenzione domiciliare o
custodito in luogo di cura.

Art 584  Notificazione dell’impugnazione

“A cura della cancelleria del giudice che emesso il provvedimento impugnato, l’atto di impugnazione è comunicato al P.M.
presso il medesimo giudice ed è notificato alle parti private senza ritardo” (co.1).

Il mancato adempimento non configura una causa d’inammissibilità, ma comporta la regressione del procedimento, con
restituzione degli atti alla cancelleria per gli adempimenti dovuti, e impedisce che cominci a decorrere il termine per
proporre appello in via incidentale o ricorso per saltum.

Il d.lgs.11/2018 (Riforma impugnazioni) ha eliminato la possibilità di proporre appello incidentale per il P.M., con la
conseguente soppressione dell’art 166 disp.att. alla cui base, qualora non fosse stata proposta impugnazione da parte del
procuratore generale, l’appello dell’imputato gli veniva comunicato, proprio ai fini dell’appello incidentale.

11. Termini per impugnare e per la presentazione di motivi nuovi. (Art 585)
I termini stabiliti a pena di decadenza (art 585 “Termini per impugnare”), per proporre impugnazione variano di durata a
seconda delle modalità cronologiche adottate per redigere la motivazione.

Ex co.1, il termine è:

a) Di 15 giorni, per i provvedimenti emessi in seguito a procedimento in camera di consiglio e nel caso previsto dall’art
544 co.1 (motivazione redatta subito dopo la stesura del dispositivo).

Le Sezioni unite hanno ritenuto che il termine per impugnare la sentenza di non luogo a procedere è sempre di 15 giorni,
anche qualora la sentenza sia motivata entro il 30° giorno da quello della pronuncia.

b) Di 30 giorni nel caso previsto dall’art 544 co.2 (motivazione redatta non oltre il 15° giorno da quello della pronuncia);

c) Di 45 giorni nel caso previsto ex art 544 co.3 (motivazione redatta in un termine più lungo rispetto a quello previsto nel
co.2, cioè 15 giorni, da indicare nel dispositivo, non eccedente il 90° giorno da quello della pronuncia).

Stando alle Sezioni Unite, se il giudice ritardi il deposito della motivazione della sentenza, senza aver indicato un termine nel
dispositivo, il termine per proporre impugnazione è di 30 giorni.

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I termini ora enunciati decorrono (ex co.2 art 585):

a) Dalla notificazione/comunicazione dell’avviso di deposito del provvedimento emesso in seguito al procedimento in


camera di consiglio.

Per quanto attiene alla sentenza di non luogo a procedere è prevista una redazione immediata dei motivi (ex art 424 co.1 e
4);
qualora, invece, tale sentenza sia motivata entro il 30° giorno dalla pronuncia, secondo le Sezioni Unite alle parti presenti
non deve essere dato avviso del deposito e il termine per impugnare decorre dalla scadenza del termine legale ex art 424
co.4, sempre che entro il medesimo sia depositata la motivazione.

b) Dalla lettura del provvedimento in udienza, quando è redatta anche la motivazione, per tutte le parti che sono state o
che debbano considerarsi presenti nel giudizio, anche se non presenti alla lettura.

c) Dalla scadenza del termine stabilito dalla legge/determinato dal giudice per il deposito della sentenza, o nel caso
stabilito ex art 548 co.2 (sentenza non depositata entro il 30° giorno o entro il diverso termine indicato dal giudice ex
544 co.3), dal giorno in cui è stata eseguita la notificazione/comunicazione dell’avviso di deposito.

d) Dal giorno in cui è stata eseguita la comunicazione dell’avviso di deposito con l’estratto del provvedimento per il
procuratore generale presso la corte di appello rispetto ai provvedimenti emessi in udienza da qualsiasi giudice della
sua circoscrizione diverso dalla corte di appello.

Va segnalato che, a seguito della modifica dell’art 544 co.2 (riduzione a 15 giorni del termine per redigere la motivazione non
contestuale) non accompagnata da consimile modifica dell’art 548 co.2 (che continua a collegare al mancato deposito della
sentenza entro il 30° giorno la comunicazione al P.M. e la notificazione alle parti private dell’avviso di deposito della sentenza
stessa, ai fini del decorso dei termini per impugnare ex art 585 co.2), sussiste una chiara discrasia normativa, con il problema
conseguente della necessità o meno dell’avviso di deposito alle parti in caso di sentenza depositata oltre il 15° giorno, ma
non oltre il 30° dalla pronuncia, allorché il giudice non abbia fissato un termine maggiore di 15 giorni per il deposito della
motivazione.

A tal proposito, la giurisprudenza della cassazione ha risolto ritenendo che, dopo la modifica dell’art 544 co.2 e art 548 co.2 deve
considerarsi “modificato in conformità, nel senso che l’avviso di deposito deve essere effettuato quando la sentenza non è
depositata entro il 15° giorno, invece dell’originario 30°”.

In ogni caso, le Sezioni Unite hanno concluso che quando il giudice, pur non avendo fissato un termine maggiore di quello di
15 giorni a lui normativamente assegnato, depositi la sentenza oltre tale termine ma entro il 30° giorno, la cancelleria deve
obbligatoriamente far luogo a comunicazione e notificazione dell’avviso di deposito.

L’imputato condannato con decreto penale, che non ha avuto tempestivamente effettiva conoscenza del provvedimento, è
restituito, a sua richiesta, nel termine per proporre opposizione, salvo che vi abbia volontariamente rinunciato.

Può accadere che la decorrenza del termine per impugnare sia diversa per l’imputato e per il suo difensore, operando per
entrambi, in tal caso, il termine che scade per ultimo (art 585 co.3).

Anche se l’atto di impugnazione enuncia sempre i motivi, fino a 15 giorni prima dell’udienza possono essere presentati nella
cancelleria del giudice dell’impugnazione motivi nuovi nel numero di copie necessario per tutte le parti (art 585 co.4).

La prevalente giurisprudenza della Cassazione, avallata dalle Sezioni unite, ritiene che i motivi “nuovi” debbano avere ad
oggetto i capi o i punti della decisione impugnata enunciati nell’originario atto d’impugnazione ex art 581 co.1 lett.a.

Più articolate, appaiono le posizioni della dottrina, che ammette nuovi motivi, solo se collegati ad un capo già impugnato,
concernenti, però, non solo punti già oggetto di impugnativa, ma anche punti diversi.

Dunque, per i motivi nuovi, come per quelli originari, devono essere specificati (a norma dell’art 581 co.1 lett.a) i capi e i punti
della decisione cui si riferiscono.

Da ciò, il carattere di novità dei motivi non riguarderebbe capi della sentenza non impugnati in via originaria (perché ormai
divenuti irrevocabili in virtù dell’omessa impugnazione), ma si riferirebbe, invece, a capi impugnati ab origine, investendo sia
punti già impugnati sia quelli non impugnati ai quali si intende allargare l’impugnazione.

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Il termine per presentare i motivi nuovi è stabilito a pena di decadenza (art 585 co.5).

Se l’atto di impugnazione è inammissibile, tale inammissibilità si estende ai motivi nuovi, i quali non rimediano ai vizi
originari, neppur se concernenti proprio i motivi.

12. Pluralità di mezzi d’impugnazione contro la medesima sentenza e conversione del ricorso in appello.
Art 580  Conversione del ricorso in appello
“Quanto contro la stessa sentenza sono proposti mezzi di impugnazione diversi, nel caso in cui sussista la connessione ex art
12, il ricorso per cassazione si converte in appello” (co.1).

Con tale conversione, prevale l’esigenza di completezza della sequela dei gradi di giudizio (1° grado – appello – ricorso per cass.).

La riscrittura dell’articolo, operata nel 2006 limita l’operatività della regola al solo caso in cui “sussista la connessione ex art 12”,
ma si tratta di una limitazione poco comprensibile.

La regola, infatti, fa fronte alla situazione di un processo cumulativo, concernente più imputati o più imputazioni constate a un
unico imputato; dunque, in tal caso, la sentenza è idealmente scindibile in vari capi, ciascuno impugnabile col mezzo consentito
dalla legge, potendo quindi un capo essere appellabile ed un altro ricorribile.

La regola di conversione non vale più nelle situazioni di processo cumulativo per reati collegati ex art 371 co.2 lett.b.

Stando alla lettera della legge, appare escluso dalla sfera d’azione del nuovo art 580 il caso in cui un unico imputato è stato
giudicato per un’unica imputazione e avverso la sentenza solo una parte può appellare, mentre l’altra può solo ricorrere per
cassazione.

Tal situazione si verifica nel giudizio abbreviato quando la sentenza di condanna è appellabile dall’imputato ma non dal P.M.

Dunque, in tali casi, prima della modifica dell’art 580, si riteneva che, qualora una parte avesse appellato e l’altra proposto
ricorso per cassazione, il ricorso si convertisse in appello, a nulla rilevando che la sentenza fosse oggettivamente inappellabile
per la parte che aveva proposto ricorso per cassazione.

In seguito alla modifica dell’art 580, in tali casi si condurrebbe ad una diseconomica proliferazione di procedimenti impugnativi;
infatti, dopo l’intervento della Corte costituzionale relativo alla modifica dell’art 443 co.1 nel 2006, vi si aggiunge l’ipotesi della
sentenza di proscioglimento emessa nel giudizio abbreviato, appellabile dal P.M. ma non dall’imputato, che può solo ricorrere
per cassazione.

Contro determinate sentenze (come quella di condanna pronunciata nel giudizio ordinario, sempre appellabile per
l’imputato, ma con limiti per il P.M.) si tende a forzare la lettera della legge, estendendo la sfera applicativa ex art 580.

La regola enunciata nell’art 580, vale pure nell’eventualità di concorso fra appello e ricorso per saltum.

Ex art 569 co.1, la parte legittimata ad appellare la sentenza di primo grado, può proporre direttamente ricorso per cassazione:

 Se una parte propone ricorso immediato e l’altra appello, si applica l’art 580.

In virtù della richiamata modifica, limitativa dell’operatività dell’art 580, condurrebbe a concludere che la conversione del
ricorso per saltum in appello sia ancorata alla sussistenza della connessione ex art 12, a meno di considerare il rinvio,
operato ex art 569 e 580, come riferito all’istituto della conversione in sé, e non ai presupposti indicati nella seconda
disposizione.

Poiché il ricorso immediato permette di accelerare l’iter del processo, e pervenire alla decisione definitiva in iure, tale ricorso
non è proponibile nei casi ex art 606 co.1:

 lett.d  “mancata assunzione di una prova decisiva, quando la parte ne ha fatto richiesta anche nel corso
dell’istruzione dibattimentale limitatamente ai casi previsti ex art 495 co.2”,

 e lett.e  “mancanza, contraddittorietà o manifesta illogicità della motivazione, quando il vizio risulta dal testo del
provvedimento impugnato o da altri atti del processo specificatamente indicati nei motivi di gravame”.

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Pertanto, nell’eventualità che un ricorso per saltum sia proposto per uno di questi motivi, viene convertito in appello.

Inoltre, trattandosi di concorso fra appello e ricorso per saltum, si può pervenire ad una conclusione opposta rispetto a
quella emergente ex art 580.

Infatti, avendo alcune parti appellato e altre ricorso per saltum, entro 15 giorni dalla notificazione del ricorso, le parti che
hanno proposto appello possono dichiarare tutte di rinunciarvi per proporre ricorso per cassazione in via diretta:
 sarà l’appello a convertirsi in ricorso, e se i motivi non sono conformi al modello ex art 606 (eccetto co.1 lett. d ed
e), le parti devono presentare nuovi motivi entro 15 giorni dalla dichiarazione suddetta.

13. Inammissibilità dell’impugnazione. (Art 590-591)


Competente a controllare l’ammissibilità dell’impugnazione è il giudice ad quem, cioè il giudice cui sono trasmessi senza ritardo:

 il provvedimento impugnato, l’atto di impugnazione e gli atti del procedimento (art 590 “Trasmissione di atti in
seguito all’impugnazione”).

Sennonché, il d.lgs.11/2018 ha inserito (per completare l’art 590) l’art 165bis disp.att., che riguarda gli adempimenti
connessi alla trasmissione degli atti al giudice dell’impugnazione:
 tali atti “devono contenere, in distinti allegati formati subito dopo la presentazione dell’atto di impugnazione, a cura
del giudice o del presidente del collegio che ha emesso il provvedimento impugnato”, i dati seguenti:

a) i nominativi dei difensori, con indicazione della data di nomina;


b) le dichiarazioni/elezioni/determinazioni di domicilio, con indicate le relative date;
c) i termini di prescrizioni riferiti a ciascun reato, indicando atti interruttivi e specifiche cause di sospensione
del relativo corso, o eventuali dichiarazioni di rinuncia alla prescrizione;
d) i termini di scadenza delle misure cautelari in atto, indicandone data di inizio ed eventuali periodi di
sospensione o proroga (co.1).

Ai sensi dell’art 591 co.1 (“Inammissibilità dell’impugnazione”), l’impugnazione è inammissibile:

a) quando è proposta da chi non è legittimato o non ha interesse;


b) quanto il provvedimento non è impugnabile;
c) quando non sono osservate le disposizioni circa la forma, la presentazione, la spedizione e termini;
d) quando vi è rinuncia all’impugnazione.

Ex co.2, il giudice dell’impugnazione, anche d’ufficio, dichiara con ordinanza l’inammissibilità dell’impugnazione e dispone
l’esecuzione del provvedimento impugnato.

L’ordinanza che dichiara l’inammissibilità è, però, ricorribile per cassazione (salvo non sia stata espressa dalla corte di
cassazione stessa).

Se l’inammissibilità non viene dichiarata preliminarmente, può essere dichiarata in ogni stato e grado del procedimento (art 591
co.4) essendo insanabile e rilevabile anche d’ufficio fino all’annullamento con rinvio ad opera della corte di cassazione.

Particolar rilievo riveste la problematica riguardante le ipotesi in cui, accanto alla causa d’inammissibilità dell’impugnazione,
sussista una causa di non punibilità ex art 129:
 in tal caso, essendo prevista anche per tale ultima causa la declaratoria, anche d’ufficio, in ogni stato e grado del
processo, il giudice dell’impugnazione deve decidere a quale declaratoria dare la prevalenza.

Il panorama giurisprudenziale si è ormai assestato, in seguito a plurimi interventi delle Sezioni Unite, che hanno ridotto
l’operatività delle cause di estinzione del rato in presenza di un ricorso inammissibile.

Inizialmente le Sezioni unite hanno riconfermato la tradizionale distinzione fra cause d’inammissibilità:

 originarie  renderebbero l’atto di impugnazione inidoneo a introdurre il nuovo grado di giudizio, impedendo di
rilevare o dichiarare eventuali cause di non punibilità;

 e sopravvenute  costituite dalla rinuncia, dalla manifesta infondatezza dei motivi di ricorso e dall’enunciazione di
motivi non consentiti o non dedotti in appello, invece, non ostacolerebbero l’applicabilità dell’art 129, avendo l’atto di
impugnazione, ab origine ammissibile, introdotto il grado di giudizio.
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Se la genericità dei motivi è causa di inammissibilità originaria dell’impugnazione, non si comprendeva perché situazioni similari
dovessero ricevere un trattamento diverso.

Infatti, la questione è stata nuovamente rimessa alle Sezioni unite, sulla base del rilievo che la distinzione fra cause
d’inammissibilità originarie e sopravvenute, se in passato poteva essere giustificata per l’articolarsi dell’impugnazione nei due
momenti della dichiarazione e dei motivi, non lo è più nel codice vigente, che ha ricondotto a unità l’atto d’impugnazione, con
presentazione contestuale della dichiarazione e dei motivi.

Pertanto, tutte le cause d’inammissibilità dell’impugnazione, salvo la rinuncia, dovrebbero essere considerate come originarie
e dunque tali da impedire la declaratoria delle cause di non punibilità.

Le Sezioni unite hanno ricondotto nell’alveo delle cause d’inammissibilità originarie l’enunciazione di:

 motivi non consentiti  il ricorso è caratterizzato, in tal caso, dal “palese difetto di un requisito base;”

 o non dedotti in appello il ricorso appare “inidoneo a scalfire un giudicato già formatosi”.

Quanto, invece, all’ipotesi di ricorso proposto per motivi manifestamente infondati, le Sezioni unite avevano affermato che,
essendo incerto il confine tra manifesta infondatezza e semplice infondatezza dei motivi, alla declaratoria d’inammissibilità si
potesse pervenire solo “in esito ad una deliberazione sulla fondatezza” del ricorso medesimo, il quale, avendo superato “il
vaglio della irricevibilità”, era risultato idoneo a introdurre il nuovo grado di giudizio, rendendo possibile emettere una delle
sentenze di non punibilità ex art 129.

Con una successiva decisione, le Sezioni unite hanno ritenuto che anche la manifesta infondatezza dei motivi vada annoverata
fra le cause d’inammissibilità “intrinseche al ricorso” e che il metodo per accertarla sia “assolutamente conforme” a quello
“indispensabile per dichiarare le altre cause di inammissibilità”, ex art 606 co.3, tutte accomunate dall’esigenza di possibili
verifiche per constatare l’esistenza di censure “non inscrivibili nel paradigma dell’art 606 co.1”.

Un’altra decisione delle Sezioni unite ha chiarito che è inammissibile il ricorso per cassazione proposto unicamente per far
valere la prescrizione maturata nel periodo di tempo intercorrente fra la pronuncia della sentenza di appello e la decorrenza
del termine per proporre ricorso (quest’ultimo, non contenendo censure contro la decisione, ma solo l’applicazione della
causa estintiva sopravvenuta, si atteggia come “soltanto apparente”, inidoneo a introdurre un valido procedimento
d’impugnazione).

Infine, sulla base dell’ormai consolidato principio che le cause d’inammissibilità dell’impugnazione operano fin dal momento
nel quale l’atto d’impugnazione invalido è stato proposto, le Sezioni Unite hanno deciso che l’inammissibilità del ricorso per
cassazione preclude la possibilità di far valere/rilevare di ufficio l’estinzione del reato per prescrizione maturata in data
anteriore alla pronuncia della sentenza di appello ma non dedotta dalla parte né rilevata dal giudice.

Più di recente, le Sezioni Unite hanno ribadito quest’ultimo principio di diritto, precisando però che è ammissibile il ricorso per
cassazione col quale si deduce l’intervenuta estinzione del reato per prescrizione maturata prima della sentenza impugnata ed
erroneamente non dichiarata dal giudice di merito, integrando tale doglianza un motivo consentito ex art 606 co.1 lett.b,
essendosi il giudice di merito sottratto all’obbligo derivante dall’art 129, che gli impone la declaratoria ex officio.

Trattandosi, poi, di ricorso avverso una sentenza di condanna che riguardi più reati ascritti al medesimo imputato (sentenza
oggettivamente cumulativa), a parere delle Sezioni Unite, l’autonomia dell’azione penale e dei rapporti processuali inerente
ai singoli capi di imputazione, impedisce che l’ammissibilità dell’impugnazione per uno dei reati possa determinare
l’instaurazione di un valido rapporto processuale anche per i reati in rapporto ai quali l’impugnazione sia invece ammissibile;

di conseguenza, per tali reati, su cui si è formato il giudicato parziale, è preclusa la possibilità di rilevare la prescrizione
maturata dopo la sentenza di appello.

La l.103/2017 si è occupata del rapporto fra impugnazioni e prescrizioni, inserendo ulteriori 3 commi dopo il co.1 art 159 c.p.,
che disciplina la sospensione del corso della prescrizione.

Nel co.2 art 159 c.p., si stabilisce che il corso della prescrizione rimane sospeso, anche, nei seguenti casi:

1) dal termine previsto ex art 544 per il deposito della motivazione della sentenza di condanna di primo grado, anche se
emessa in sede di rinvio, sino alla pronuncia del dispositivo della sentenza che definisce il grado successivo di giudizio,
per un tempo massimo di 1 anno e 6 mesi;
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2) dal termine previsto ex art 544 per il deposito della motivazione della sentenza di condanna di secondo grado, anche
se emessa in sede di rinvio, sino alla pronuncia del dispositivo della sentenza definitiva, per un tempo massimo di 1
anno e 6 mesi.

Ex co.3, questi periodi di sospensione verranno computati per determinare il tempo necessario a prescrivere dopo che la
sentenza di condanna nella parte relativa all’affermazione di responsabilità o ne ha dichiarata la nullità ex art 604 co.1,4 e 5bis.

Infine, il co.4 precisa che, se durante i termini di sospensione previsti dal co.2 si verifica una ulteriore causa di sospensione
stabilita nel co.1, tali termini sono prolungati per il periodo corrispondente; dunque il termine massimo ex co.2 (1 anno e 6
mesi) potrà essere superato.

In ogni caso, oltrepassato il termine di 1 anno e 6 mesi, il corso della prescrizione ricomincia a decorrere, anche qualora nel
giudizio di impugnazione non sia stato pronunciato il dispositivo della sentenza (di appello/definitiva).

Proprio perché collegati al deposito della motivazione della sentenza di condanna, per assegnare un ulteriore segmento
temporale finalizzato alla verifica di tale pronuncia, i periodi di sospensione ritornano ad essere computati ai fini della
prescrizione quando nel grado successivo l’imputato non sia condannato.

Nel panorama delle impugnazioni, il giudizio di appello rappresenta, dal punto di vista temporale, una sorta di “collo di
bottiglia”:

si tratterà di verificare se le nuove cause di sospensione del corso della prescrizione produrranno risultati concreti, che
potrebbero essere favoriti dalla reintroduzione del “concordato anche con rinuncia ai motivi di appello”, ex art 599bis,
introdotto dalla l.103/2017.

14. Rinuncia all’impugnazione. (Art 589)


Una delle cause d’inammissibilità dell’impugnazione è costituita:

 dalla rinuncia (art 591 co.1 lett.d)  atto negoziale con cui la parte, che ha posto l’impugnazione, dichiara di non
volersene avvalere.

La rinuncia presuppone che l’impugnazione sia stata proposta (dunque, sarebbe stato più corretto parlare di “revoca”) e sia
ammissibile.

La rinuncia ricopre uno specifico ruolo nel caso di appello incidentale, perché quest’ultimo perde efficacia in caso di rinuncia a
quello principale.

Il codice non prevede la possibilità di revocare la rinuncia all’impugnazione; tuttavia, finché non sia scaduto il termine per
impugnare, si può sempre esercitare il diritto d’impugnazione (anche se vi si era rinunciati).

A. P.M.

L’art 589 co.1 (“Rinuncia all’impugnazione”) stabilisce che:

 il P.M. presso il giudice che ha emesso il provvedimento impugnato può rinunciare all’impugnazione da lui proposta
fino all’apertura del dibattimento,
 mentre successivamente la dichiarazione di rinuncia può essere effettuata prima dell’inizio della discussione dal P.M.
presso il giudice dell’impugnazione, anche se a proporla sia stato un altro P.M.

Vi è una sorta di suddivisione di competenze fra P.M. presso il giudice a quo e P.M. presso il giudice ad quem.

In caso di impugnazione trattata e decisa in camera di consiglio, la dichiarazione di rinuncia può essere effettuata:
 prima dell’udienza, dal P.M. che ha proposto l’impugnazione,
 e successivamente, dal P.M. presso il giudice dell’impugnazione, anche se a proporla sia stato un altro P.M. (co.4).

in ordine all’appello (ex art 593bis co.2) non si verifica più il fenomeno delle impugnazioni concorrenti, dato che il
procuratore generale può appellare (oltre che nei casi di avocazione), solo qualora il procuratore della Repubblica abbia
prestato acquiescenza al provvedimento;
può, inoltre, rinunciare all’appello proposto dal P.M. presso il giudice di primo grado.
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B. Parti private

Le parti private possono rinunciare all’impugnazione personalmente o per mezzo di un procuratore speciale (art 589 co.2).

Le Sezioni unite hanno deciso che il difensore (di fiducia/d’ufficio) dell’imputato non munito di procura speciale, non può
effettuare una valida rinuncia all’impugnazione, a meno che l’imputato sia presente alla dichiarazione di rinuncia fatta in
udienza e non vi si opponga.

Questo perché la rinuncia costituisce “un atto abdicativo di un diritto ormai già automaticamente sorto in capo al soggetto”
che ne è l’unico titolare, anche se l’impugnazione è stata proposta “per suo conto e nel suo esclusivo interesse” dal difensore.

A conforto di ciò, si può avallare il parere delle Sezioni, secondo cui:


 L’espressione “parti private”, che compare nell’art 589 co.2, non ricomprende il difensore per cui il legislatore ha
voluto stabilire che quest’ultimo, se privo di procura speciale, non possa rinunciare all’impugnazione, anche se da
lui stesso proposta.

Quanto alle modalità di presentazione, la dichiarazione di rinuncia è presentata a:

 uno degli organi competenti a ricevere l’impugnazione, nelle forme e modi ex art 581, 582, 583 per la presentazione
dell’impugnazione,
 o in dibattimento, prima dell’inizio della discussione (art 589 co.3), nel qual caso viene effettuata oralmente, con
verbale.

Anche per la presentazione della rinuncia si applica l’art 123 che disciplina “Dichiarazioni e richieste di persone detenute o
internate”.

Il termine finale per la presentazione della rinuncia è l’inizio della discussione (ma né le modalità, né i termini ex art 589 sono
stabiliti a pena di nullità).

Quanto alle modalità, parte della giurisprudenza ritiene sufficiente, per la rinuncia, la sicura provenienza dal soggetto
legittimato e una volontà espressa chiaramente.

15. Estensione dell’impugnazione. (Art 587)


L’art 587 disciplina l’estensione dell’impugnazione  casi in cui l’impugnazione proposta da una parte privata giova anche ad
un’altra parte.

L’estensione riguarda solo processi plurisoggettivi:


 O nel senso che vi sono più imputati,
 O nel senso che, accanto all’imputato, sono presenti il responsabile civile e il civilmente obbligato per la pena
pecuniaria, la cui responsabilità è collegata in modo inscindibile a quella dell’imputato.

L’estensione dell’impugnazione comporta il diritto del non impugnante di partecipare al relativo giudizio.

Indipendentemente dalla partecipazione, il non impugnante si giova della decisione favorevole:

 In tal caso, si parla di estensione della sentenza.

Controversa, invece, è la possibilità per il non impugnante di presentare motivi nuovi propri:
 Si parla, in proposito, di estensione della dichiarazione.

Ex co.1 art 587, in caso di concorso di più persone in uno stesso reato l’impugnazione proposta da uno degli imputati, purché
non fondata su motivi esclusivamente personali, giova anche agli altri.

Motivi esclusivamente personali sono, ad esempio:


- Quelli basati sulla mancanza di dolo/colpa; sulla mancanza di imputabilità; sulla sussistenza della circostanza
attenuante della “minima importanza nella preparazione o nell’esecuzione del reato”.

Motivo non esclusivamente personale, invece, è ad esempio, quello con cui l’impugnante afferma che il fatto non sussiste.

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i. Se i motivi non sono esclusivamente personali, il non impugnante può partecipare al giudizio di impugnazione (viene
ordinata la citazione dell’imputato non appellante) e si giova della decisione favorevole.

Parte della dottrina ritiene che il non impugnante possa anche presentare motivi nuovi propri (si tratterebbe di estensione
della dichiarazione), fino a 15 giorni prima dell’udienza (ex art 585 co.4), e impugnare la decisione finale;

la giurisprudenza, invece, nega tale possibilità, osservando che l’estensione dell’impugnazione non può risolversi in una sorta
di restituzione in termini, ma ammette che l’imputato non appellante possa ricorrere contro la sentenza di secondo grado se
con quest’ultima vengono accolti i motivi del coimputato che siano a lui estendibili senza che sia stata pronunciata
l’estensione della sentenza nei suoi confronti.

ii. Se, invece, i motivi addotti dall’impugnante sono esclusivamente personali, il non impugnante non partecipa al giudizio
d’impugnazione.

Ma parte della dottrina, ritiene che il non impugnante possa giovarsi di un eventuale proscioglimento ex art 129 co.1, in
caso, ad esempio, di estinzione del reato o irregolare costituzione del collegio giudicante.

Entro tali limiti, il non impugnante godrebbe di un autonomo diritto d’impugnazione.

Il co.2 art 587, contempla l’ipotesi in cui vi sia una riunione di procedimenti per reati diversi (ex art 17);

in tal caso, l’impugnazione proposta da un impugnante giova a tutti gli altri imputati solo se i motivi concernono violazioni della
legge processuale e non sono esclusivamente personali.

Esempi di motivo processuale non esclusivamente personale sono costituiti:


- Dall’irregolare costituzione del collegio giudicante,
- O dallo svolgersi del dibattimento a porte chiuse al di fuori dei casi tassativamente previsti dalla legge.

Invece, è motivo esclusivamente personale quello concernente la violazione del diritto di difesa del singolo imputato
impugnante.

Il co.3 art 587, prevede che l’impugnazione proposta dall’imputato giovi anche al responsabile civile e alla persona civilmente
obbligata per la pena pecuniaria.

Parte della dottrina ritiene che la previsione operi:


- sia nel caso in cui l’imputato miri al proscioglimento;
- sia qualora i soggetti in discorso se ne avvalgono per presentare motivi nuovi propri ex art 585 co.4.

Il co.4 art 587, regola l’ipotesi simmetrica alla precedente, per cui l’impugnazione del responsabile civile o del civilmente
obbligato per la pena pecuniaria giova all’imputato anche agli affetti penali, purché non sia fondata su motivi esclusivamente
personali.

Non sono esclusivamente personali tutti i motivi che coinvolgono temi penali, come la responsabilità dell’imputato o
l’ammontare della pena pecuniaria inflitta a quest’ultimo.

Con riguardo alle impugnazioni delle sentenze relative alla responsabilità amministrativa dell’ente, il d.lgs.231/2001, per
evitare un contrasto di giudicati, ha stabilito che:

 le impugnazioni proposte dall’imputato del reato da cui dipende l’illecito amministrativo e dall’ente giovano,
rispettivamente, all’ente e all’imputato, purché non fondate su motivi esclusivamente personali.

16. Sospensione dell’esecuzione del provvedimento impugnato. (Art 588)


L’art 588 disciplina la “Sospensione della esecuzione”, stabilendo al co.1 che:

 L’esecuzione del provvedimento impugnato è sospesa, dal momento della pronuncia, durante i termini per impugnare
e fino all’esito del giudizio d’impugnazione. (co.1)

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In principio, solo le sentenze, i decreti penali irrevocabili e le sentenze di non luogo a procedere non più soggette a
impugnazione hanno forza esecutiva (art 650 co.1 e 2), durante i termini per impugnare e finché il giudizio d’impugnazione
non pervenga alla pronuncia definitiva il provvedimento impugnato è ineseguibile.

Alla regola enunciata fanno eccezione numerose ipotesi nelle quali i provvedimenti sono immediatamente esecutivi, ad
esempio:

- Il ricorso per cassazione contro l’ordinanza con cui il giudice provvede nel procedimento in camera di consiglio non ne
sospende l’esecuzione, a meno che il giudice che l’ha emessa disponga diversamente con decreto motivato;

- L’appello contro le ordinanze in materia di sequestro preventivo e contro il decreto di revoca del sequestro emesso dal
P.M. non sospende l’esecuzione del provvedimento;

- Il ricorso per cassazione avverso l’ordinanza che ha deciso in sede di appello ex art 322bis o sulla richiesta di esame del
provvedimento di sequestro non sospende l’esecuzione dell’ordinanza.

Il co.2 art 588, enuncia che le impugnazioni contro i provvedimenti in materia di libertà personale non hanno in alcun caso
effetto sospensivo;

ad esempio, l’impugnazione del P.M. contro la sentenza di proscioglimento o di condanna a pena condizionalmente sospesa non
ne sospende l’esecuzione.

Va ricordato, però, che l’esecuzione della decisione con la quale il tribunale della libertà, accogliendo l’appello del P.M.
dispone una misura cautelare, è sospesa finché la decisione non sia divenuta definitiva (art 310 co.3):

la previsione mira ad evitare che, in caso di accoglimento dell’appello del P.M. avverso il provvedimento di rigetto della
richiesta di una misura coercitiva, venga eseguita la pronuncia del giudice di appello anche in pendenza del ricorso per
cassazione proposto dall’imputato ex art 311.

Profili di particolare complessità nascono dall’intersecarsi della sospensione dell’esecuzione del provvedimento impugnato e
dei casi di estensione dell’impugnazione, trattandosi di stabilire se la (possibile) estensione possa fungere o meno da condizione
che sospende l’irrevocabilità della sentenza nei confronti dell’imputato non impugnante.

Si sono espresse, per la soluzione negativa le Sezioni unite.

L’impostazione venne criticata richiamando l’art 648 (“Irrevocabilità delle sentenze e dei decreti penali”), che ricollega
l’irrevocabilità alla sentenza nel suo complesso e non ai singoli capi di essa, e osservando che il codice di rito definisce il non
impugnante come “imputato”, e dunque come soggetto non destinatario di una decisione irrevocabile.

Sennonché, le Sezioni Unite hanno riconfermato il loro assunto, applicandolo alla tematica dell’effetto estensivo della
declaratoria di estinzione del reato per prescrizione; tale effetto:
 Non opera in favore del coimputato concorrente nello stesso reato e non impugnante se la predetta causa estintiva
è maturata dopo la irrevocabilità della sentenza emessa nei suoi confronti.

L’irrevocabilità sancisce, infatti, per il coimputato non impugnante la fine del tempo del processo e priva di qualsiasi
giustificazione logica e giuridica ogni ulteriore computo nei suoi riguardi del termine di prescrizione del reato.

Dunque, la norma (art 588) costituisce applicazione del precetto costituzionale (art 27 co.2) per il quale l’imputato non è
ritenuto colpevole sino alla sua condanna definitiva.

17. Condanna alle spese. (Art 592)


L’art 592 disciplina la “Condanna alle spese nei giudizi di impugnazione”, prevedendo al co.1, che:

 In caso di rigetto o di declaratoria d’inammissibilità dell’impugnazione, la parte privata che l’ha proposta è condannata
alle spese del procedimento.

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Al riguardo, le Sezioni Unite hanno deciso che l’obbligo del giudice di condannare la parte civile alle spese del procedimento,
nel caso di rigetto dell’impugnazione da essa proposta contro la sentenza di assoluzione dell’imputato, sussiste anche
quando analoga impugnazione sia stata proposta dal P.M.

In solido con l’imputato che ha proposto l’impugnazione sono condannati alle spese, ex co.2, i coimputati che hanno
partecipato al giudizio avvalendosi dell’effetto estensivo ex art 587.

In caso in cui l’imputato sia condannato nel giudizio di impugnazione, è anche condannato alle spese dei giudizi precedenti,
anche se in essi era stato prosciolto (co.3).

Infine, se l’impugnazione è proposta per i soli interessi civili, la parte privata soccombente è condannata alle spese (co.4).

La disposizione costituisce fattispecie applicativa del generale principio della soccombenza, in base al quale i costi del
processo sono sopportati dalla parte la cui domanda è stata rigettata.

18. L’appello: premessa. TITOLO II (Art 593-605)


La disciplina dell’appello è contenuta nel Titolo II (art 593-605).

L’appello è il mezzo d’impugnazione ordinario col quale le parti che vi abbiano interesse e ritengano viziata, per motivi di fatto o
di diritto, la decisione del giudice di primo grado, chiedono una decisione del giudice di secondo grado, detto giudice di appello.

L’appello ha una struttura ibrida:

 pur riconnettendosi al modello del gravame, si caratterizza in senso parzialmente devolutivo, attribuendo alla
cognizione del giudice di secondo grado solo i punti della decisione ai quali si riferiscono i motivi proposti (art 597 co.1).

L’appello ha inglobato:
 sia la funzione di gravame  il giudice di appello, nei limiti segnati dai motivi proposti dalle parti, conferma/riforma
la decisione impugnata (art 605 co.1), salvi i casi in cui gli è riconosciuto il potere di decidere ex officio ulra petita.

 Sia la funzione di querela nullitatis  annulla la sentenza invalida e gli atti vengono restituiti al giudice a quo.

Il giudizio di appello è stato, comunque, configurato dal legislatore come strumento di controllo.

Le risultanze probatorie del giudice di primo grado entrano a far parte del patrimonio di conoscenza del giudice di appello,
mentre la rinnovazione del dibattimento ha caratteri di eccezionalità;

la cognizione del giudice di appello è limitata dalla domanda delle parti, nonché dall’ampia operatività del divieto di reformatio
in peius, se l’appellante è il solo imputato.

In alcuni casi, l’appello registra situazioni assimilabili a un nuovo giudizio (qualora, ad esempio, vengano per la prima volta
introdotti in secondo grado elementi non conosciuti dal giudice di primo grado), ma in via generale si ritiene prevalente
esclusivamente la sua funzione di controllo.

Tale conclusione rimane valida anche dopo che la l.103/2017 ha inserito nell’art 603 il nuovo co.3bis:
 rendendo doverosa la rinnovazione dell’istruzione dibattimentale nel caso di appello del P.M. contro una sentenza di
proscioglimento per motivi attinenti alla valutazione della prova dichiarata.

La riforma Orlando ha reintrodotto, a fini deflativi, il concordato “anche con rinuncia ai motivi di appello”.

Il d.lgs.11/2018 è intervenuto, invece, perseguendo i medesimi scopi di deflazione e di efficienza, sia sul piano dell’appellabilità
oggettiva e soggettiva, sia sull’istituto dell’appello incidentale.

19. Appellabilità oggettiva. (Art 593)


L’art 593 disciplina i “Casi di appello”, ed è stato oggetto di vari interventi legislativi, volti a determinare i casi di inappellabilità
delle sentenze di condanna e di proscioglimento;

ciò è ben spiegabile in quanto l’appello non vanta, come il ricorso per cassazione, di alcuna tutela costituzionale (art 111 co.7).
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Gli ultimi 2 incisivi interventi sono stati attuati dalla legge 46/2006 e dal d.lgs.11/2018.

Il primo di essi (del 2006) ha sostituito l’intero art.593, connotando un forte ridimensionamento dell’appello avverso le
sentenze proscioglitive, che la Corte costituzionale ha cancellato sia con riguardo al P.M. sia (con alcuni limiti) in rapporto
all’imputato.

Il testo dell’art 593 co.2, introdotto nel 2006, stabiliva che l’imputato e il P.M. (viceversa, rispetto al passato) potessero
appellare contro le sentenze di proscioglimento nelle ipotesi di cui all’art 603 co.2 (“rinnovazione dell’istruzione
dibattimentale nell’evenienza di nuove prove sopravvenute o scoperte dopo il giudizio di primo grado”), se la nuova prova
fosse decisiva.

Da un punto di vista procedurale, qualora il giudice in via preliminare non disponesse la rinnovazione dell’istruzione
dibattimentale dichiarava con ordinanza l’inammissibilità dell’appello e le parti, entro 45 giorni dalla notifica del
provvedimento, potevano proporre ricorso per cassazione anche contro la sentenza di primo grado.

Il legislatore, escludendo tout court l’appello del P.M. avverso tale categoria di sentenze, creava una “condizione di disparità”
superiore a “quella compatibile con la diversità delle funzioni svolte dalle parti” nel processo. e la modifica appariva di facciata,
date le condizioni restrittive cui era subordinato l’appello, posto che la nuova prova decisiva avrebbe dovuto sopravvenire o
essere scoperta nel limitato arco temporale previsto per proporlo.

Con riguardo alle sentenze di proscioglimento, pronunciate in esito al giudizio abbreviato, la l.46/2006, sopprimendo l’inciso
finale dell’art 443 co.1 (“quando l’appello tende ad ottenere una diversa formula”), rendeva le suddette sentenze inappellabili,
senza deroga alcuna, per l’imputato e il P.M.

Quanto alla ratio sottesa alla drastica riduzione dell’appellabilità delle sentenze di proscioglimento, il legislatore intendeva
far fronte al verificarsi della situazione in cui l’imputato, prosciolto in primo grado, venisse condannato in secondo grado su
appello del P.M., senza diritto a un ulteriore grado di giudizio nel merito, potendo solo ricorrere per cassazione avverso la
sentenza di appello.

Tale soluzione, però, presentando carattere disorganico, appariva illogica sotto un profilo:
 Il P.M. poteva appellare le sentenze di condanna di primo grado, che in sostanza hanno accolto le sue richieste, ma
incontrava dei limiti nell’appellare le sentenze di proscioglimento, che viceversa, hanno negato in toto la fondatezza
dell’ipotesi accusatoria.

Altri motivi di perplessità si aggiungevano quando la sentenza di proscioglimento fosse stata emessa in primo grado da un
giudice monocratico, poiché si riduceva anche la garanzia di un giudizio collegiale.

Su tale tessuto normativo, sono poi intervenute nel 2007 due declaratorie di illegittimità costituzionale:

1) La sentenza 26/2007, con la quale la Corte costituzionale ha eliminato i limiti all’appello del P.M. avverso le sentenze di
proscioglimento pronunciate in dibattimento, per contrasto con il principio di parità delle parti (art 111 co.2 Cost),
ritenendo che “la menomazione” dei poteri della parte pubblica fosse connotata da una “dissimmetria radicale”, poiché,
mentre l’imputato poteva impugnare la sentenza di condanna, il P.M. veniva privato del potere di avanzare doglianze di
merito contro la sentenza di proscioglimento, che lo vede “totalmente soccombente”, configurandosi la previsione
derogatoria (593 co.2) del tutto marginale.

Sotto altro profilo, l’eliminazione del potere di appello del P.M. si presentava “generalizzata e unilaterale”, riferendosi ad
ogni categoria di reato e senza rinvenire una “specifica contropartita in particolari modalità di svolgimento del processo”,
essendo prevista per il giudizio ordinario, caratterizzato dall’accertamento compiuto nel contraddittorio fra le parti.

Infine, per effetto del suo carattere settoriale, la riforma determinava una “intrinseca incoerenza del sistema”, dato che il P.M.,
totalmente soccombente in primo grado rimaneva privo del potere di appello, conservandolo nel caso di soccombenza solo
parziale, sotto il profilo qualitativo o meramente quantitativo.

2) La sentenza 320/2007, con cui la Corte costituzionale ha eliminato, per il P.M., l’inappellabilità delle sentenze di
proscioglimento pronunciate in sede di giudizio abbreviato, sempre per contrasto col principio di parità delle parti (art
111 co.2).

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Ripristinato l’appello del P.M. nei riguardi delle sentenze dibattimentali di proscioglimento, il testo dell’art 593 co.2 (come
sostituito dal 2006) rimaneva in vigore per l’imputato;

conseguiva che l’imputato non poteva proporre appello (se non nell’ipotesi marginale prevista) nei riguardi di sentenze di
proscioglimento che presuppongono un accertamento di responsabilità, o che sono state pronunciate con formula assolutoria
non preclusiva dell’azione in sede civile ex art 652 co1.

3) con la sentenza 85/2008, la Corte costituzionale ha restituito all’imputato il potere di appellare le sentenze dibattimentali
di proscioglimento, osservando che tal categoria di sentenze non costituisce un “genus unitario”, ma comprende “ipotesi
eterogenee, quanto all’attitudine lesiva degli interessi morali e giuridici del prosciolto”.

L’assetto asimmetrico si era acuito dopo la sent.26/2007, per effetto della quale il P.M poteva “appellare
incondizionatamente la sentenza di primo grado -diversamente dall’imputato- in rapporto ad entrambi gli esiti
(condanna/proscioglimento)”.

Una volta riconosciuto dalle Sezioni unite il persistente potere di appello della parte civile, si riscontrava un’analoga
sperequazione, potendo la parte civile appellare tanto la pronuncia assolutoria, quanto quella di condanna.

Un tale assetto è stato ritenuto lesivo del principio di parità delle parti; dei principini di eguaglianza e ragionevolezza; e del
diritto di difesa.

Dalla declaratoria di illegittimità costituzionale la Core ha escluso le sentenze di proscioglimento relative a contravvenzioni
punite con la sola pena dell’ammenda o con pena alternativa; infatti, ammettere l’imputato ad appellar simili sentenze sarebbe
stato “palesemente irrazionale”, visto che era già previsto ex art 593 co.3 che gli fosse precluso l’appello contro la sentenza di
condanna che avesse irrogato la sola pena dell’ammenda.

Si era, però, ricreata una dissimmetria, per cui la Corte aveva segnalato al legislatore, con la sent.85/2008 “l’opportunità” di
eliminare l’incongruenza, escludendo l’appellabilità di questa categoria di sentenze pure per il P.M.

Sempre sul versante del potere di appello dell’imputato, gli è stato riconosciuto la possibilità di appellare le sentenze di
assoluzione per difetto di imputabilità, derivante da vizio totale di mente, emesse in esito al giudizio abbreviato.

I vari responsi costituzionali avrebbero reso necessaria una urgente riscrittura dell’art 593, finalmente giunta circa 10 anni dopo,
con il d.lgs 11/2018, che ha sostituito i primi due commi art 593 e modificato il co.3.

Ex co.1 art 593 (dopo il 2018), salvo quanto previsto ex art 443 co.3, 448 co.2, 579 e 680,
 l’imputato può appellare contro le sentenze di condanna,

 mentre il P.M. le può appellare “solo quando:


- modificano il titolo del reato
- o escludono la sussistenza di una circostanza aggravante ad effetto speciale
- o stabiliscono una pena di specie diversa da quella ordinaria del reato”

Quanto alla clausola eccettuativa, il riferimento:

 all’art 443 co.3  stabilisce limiti all’appello del P.M. avverso le sentenze di condanna emesse nel giudizio abbreviato
(appellabili solo se modificano il titolo del reato),

 all’art 448 co.2  prevede come regola l’inappellabilità delle sentenze di applicazione della pena su richiesta delle
parti, facendo salvo l’appello del P.M. in caso di dissenso.

Gli art 579 e 680 concernono, invece, l’impugnazione non solo contro le sentenze di condanna ma anche contro le sentenze di
proscioglimento per quanto concerne le misure di sicurezza:

in ordine a tali sentenze, il co.1 art 579, richiede il contestuale appello di un capo penale; altrimenti il richiamo va riferito al co.2
art 579 e co.2 art 680, che per l’impugnazione contro le sole disposizioni della sentenza (anche di proscioglimento) riguardanti
le misure di sicurezza stabiliscono l’appello al tribunale di sorveglianza.

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Quanto ai limiti introdotti all’appello del P.M. avverso la sentenza di condanna, l’idea di fondo è che la pubblica accusa non
possa appellare tout court le sentenze di condanna perché esse riconoscono la fondatezza dell’azione penale.

Per l’imputato non è fissato, viceversa, alcun limite, essendo la sentenza di condanna in re ipsa a lui sfavorevole.

Ex co.2 art 593 (che tiene conto delle pronunce costituzionali n.26/2007 e 85/2008),

 il P.M. può appellare contro le sentenze di proscioglimento,


 mentre l’imputato può appellare avverso le sentenze di proscioglimento emesse al termine del dibattimento, salvo che
si tratti di sentenze di assoluzione perché il fatto non sussiste o perché l’imputato non l’ha commesso.

In particolare, il P.M. non incontra limiti ad appellare perché le sentenze di proscioglimento sconfessano l’ipotesi accusatoria
da lui prospettata con l’esercizio dell’azione penale.

A tal proposito, va ricordato che la l.103/2017 ha inserito nell’art 603 il nuovo co.3bis, ove si prevede che:
o nel caso di “appello del P.M. contro una sentenza di proscioglimento per motivi attinenti alla valutazione della prova
dichiarativa, il giudice dispone la rinnovazione dell’istruzione dibattimentale”.

Infine, nel co.3 art 593, alla previsione dell’inappellabilità delle sentenze di condanna per le quali è stata applicata la sola pena
dell’ammenda si è aggiunta quella dell’inappellabilità delle sentenze di proscioglimento relative a contravvenzioni punite con
la sola pena dell’ammenda/pena alternativa:

 il carattere generale della disposizione ha rimediato alla dissimmetria creata dalla sent. Cost. 85/2008, ponendo
l’imputato in posizione di perfetta simmetria rispetto al P.M.

Va poi osservato che, nella versione definitiva del d.lgs.11/2018 è stata inserita, all’esordio del co.3 art 593, la locuzione “in ogni
casi”, per fugare ogni dubbio sulla portata applicativa della disposizione, riferita a tutte le sentenze, comprese quelle emesse nel
giudizio abbreviato.

Va poi rammentato che la legge 46/2006 aveva previsto l’inappellabilità delle sentenze di non luogo a procedere e delle
sentenze di proscioglimento pronunciate dal giudice di pace, ritenuta in entrambi i casi costituzionalmente legittima dai
giudici delle leggi.

La l.103/2017 ha ripristinato l’appello avverso la sentenza di non luogo a procedere;

mentre il d.lgs 11/2018 ha stabilito l’inappellabilità delle sentenze di non luogo a procedere relative a contravvenzioni
punite con la sola pena dell’ammenda o con pena alternativa, e ha esteso le limitazioni all’appello contemplate per il
procuratore generale dal nuovo art 593bis co.2.

invariata è rimasta la disciplina vigente per le sentenze di proscioglimento emesse dal giudice di pace:

è stato soppresso, nel 2006, l’appello del P.M. contro le sentenze di proscioglimento per reati puniti con pena alternativa.

20. Appellabilità soggettiva e giudice di appello. (Art 593-593bis)


Come abbiamo visto, l’art 593 co.1 e 2 identifica come soggetti legittimati ad appellare, in ipotesi di oggettiva appellabilità, il
P.M. e l’imputato.

L’art 575 co.1 e 2 riconosce al responsabile civile e alla persona civilmente obbligata per la pena pecuniaria il diritto di
proporre impugnazione, nei casi consentiti, col mezzo che la legge attribuisce all’imputato.

Dopo la modifica del 2006, l’art 576 co.1 e 2 riconosce alla parte civile e al querelante condannato alle spese e ai danni ex art
542 il diritto di proporre impugnazione svincolandoli dal mezzo previsto per il P.M.

Il d.lgs.11/2018 ha inserito l’art 593bis, rubricato “Appello del P.M.”, stabilendo che:

o “Nei casi consentiti, contro le sentenze del G.I.P., della Corte d’assise e del tribunale può appellare il procuratore della
Repubblica presso il tribunale” (co.1)
“Il Procuratore generale presso la corte d’appello può appellare solo nei casi di avocazione o qualora il procuratore
della Repubblica abbia prestato acquiescenza al provvedimento” (co.2).

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Le limitazioni introdotte nel co.2 mirano a razionalizzare l’esercizio del potere di appello del procuratore generale, poiché,
costui, di regola, non risulta coinvolto nella fase delle indagini e nel dibattimento di primo grado.

Il d.lgs.11/2018 ha inserito anche l’art 166 disp.att. riferito all’ipotesi di acquiescenza del procuratore della Repubblica;

si stabilisce che, al fine di acquisire “tempestiva notizia” circa le determinazioni relative all’impugnazione delle sentenze di primo
grado, il procuratore generale “promuove intese o altre forme di coordinamento con i procuratori della Repubblica del distretto”.

Deve poi ritenersi che, le limitazioni al potere d’impugnazione del procuratore generale valgono non solo in ordine all’appello
ma anche con riguardo al ricorso immediato per cassazione, proponibile solo da chi è legittimato ad appellare la sentenza di
primo grado.

Se il procuratore della Repubblica non appella o non ricorre per saltum, il procuratore generale può appellare o ricorrere per
saltum;
viceversa, se il primo appella o ricorre per saltum, al secondo è preclusa la possibilità di proporre né l’uno nè l’atro mezzo di
impugnazione

Sull’appello proposto avverso le sentenze pronunciate dal tribunale e dalla corte di assise decidono, rispettivamente, la corte di
appello e la corte d’assise d’appello (art 596 co.1 e 2);

sull’appello contro le sentenze pronunciate dal giudice in sede di giudizio abbreviato decidono, rispettivamente, la corte di
appello e la corte di assise di appello, a seconda che si tratti di reato di competenza del tribunale o della corte d’assise (co.3),

Quanto alle forme e termini per proporre appello, valgono le regole generali, salvo quanto stabilito per l’appello incidentale.

21. L’appello incidentale. (Art 595)


La disciplina dell’appello incidentale è regolata nell’art 595.

Con il d.lgs.11/2018 tale disciplina è stata incisivamente rivisitata, per “prevedere la titolarità dell’appello incidentale in capo
all’imputato e limiti di proponibilità”.

L’obiettivo era di attribuire a tale appello una specifica funzione difensiva, riconoscendolo al solo imputato e limitandone
l’estensione, in particolare ai casi in cui egli non fosse legittimato ad appellare in via principale.

Il legislatore ha sostituito il co.1 e 3 dell’art 595;

ex co.1  l’imputato, ”che non ha proposto impugnazione può proporre appello incidentale entro 15 giorni da quello in cui
ha ricevuto la notificazione prevista” dall’art 584.

Ex co.3  “entro 15 giorni dalla notificazione dell’impugnazione presentata dalle altre parti, l’imputato può presentare al
giudice, mediante deposito in cancelleria, memorie o richieste scritte”.

Per comprendere le ragioni della modifica, nel testo previgente,

 il co.1 riconosceva a qualunque parte (tra cui il P.M.) che non avesse proposto impugnazione, la possibilità di proporre
appello incidentale,
 mentre il co.3 stabiliva che l’’appello incidentale proposto dal P.M. produceva gli effetti previsti ex art 597 co.2, cioè gli
stessi effetti dell’appello principale, neutralizzando il divieto della reformatio in peius operante per l’appello del solo
imputato ex art 597 co.3.

Entrambi tali profili si connotavano come disincentivi all’appello dell’imputato, rispondendo allo scopo di impedire la
proliferazione degli appelli a fini dilatori.

In rapporto all’odierna versione dell’art 595 co.1, l’eliminazione della possibilità di proporre appello incidentale da parte del
P.M. risponde all’esigenza di voler evitare che egli impugni solo in conseguenza dell’appello principale dell’imputato.

Il co.3 art 595 si rivolge all’imputato non legittimato ad appellare o che non vi abbia interesse, ma intende portare a conoscenza
del giudice di appello “l’esistenza in atti di dati probatori favorevoli”, non presi in considerazione dal giudice di primo grado,
pervenuto “alla pronuncia favorevole valorizzando altro materiale di prova”.
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L’imputato non legittimato ad appellare, non potendo proporre neppur appello incidentale, utilizzava l’art 121, che gli
consente alle parti di presentare al giudice memorie o richieste scritte in ogni stato e grado del procedimento, senza vincoli
di ordine temporale.

Tuttavia, la nuova disposizione contenuta nel co.3 non intende derogare all’art 121, bensì responsabilizzare l’imputato non
appellante, imponendogli un termine per depositare in cancelleria memorie o richieste scritte;

decorso tale termine, dunque, l’imputato potrà continuare ad avvalersi dell’art 121.

L’eliminazione del potere di appellare in via incidentale per il P.M. ha reso necessaria l’abrogazione, ex d.lgs.11/2018
dell’art 166 disp.att., che prevedeva la comunicazione al procuratore generale dell’appello dell’imputato (ai fini dell’appello
incidentale), quando il procuratore generale non avesse proposto impugnazione.

Passando ad analizzare le modalità procedurali, l’art 595 co.2 (rimasto immutato) stabilisce che:

o “l’appello incidentale è proposto, presentato e notificato a norma degli art 581, 582, 583 e 584”, cioè in base alla
normativa generale sulle impugnazioni.

L’appello incidentale riveste carattere accessorio rispetto a quello principale; dunque l’appello incidentale perde efficacia in
caso di inammissibilità di quello principale o di rinuncia di quest’ultimo ex co.4 art 595

Due problematiche meritano un approfondimento (riferiti al solo imputato):

1) La prima concerne la legittimazione a proporre appello incidentale per la parte non legittimata a proporre appello
principale;
2) La seconda riguarda l’oggetto dell’appello incidentale.

Quanto al primo profilo, la questione si era posta in passato con riguardo alla legittimazione del P.M. a proporre appello
incidentale contro una sentenza di condanna emessa in sede di giudizio abbreviato, nel caso in cui gli fosse precluso l’appello
principale (art 443 co.3).

Le Sezioni unite, con il successivo avallo della Corte costituzionale avevano ritenuto che il potere di proporre appello
incidentale non spettasse a chi fosse privo del potere di proporre quello principale, individuando i presupposti (per l’appello
incidentale):
- nel fatto che non avesse impugnato il provvedimento
- e nella sua legittimazione ad appellare.

Dunque, chi non era legittimato all’appello in via principale, non potendo neppure proporre appello incidentale, poteva solo
ricorrere per cassazione, determinando in tal caso l’operatività dell’art 580 quanto alla conversione del ricorso in appello.

Tale conversione, però, non comportava “la modificazione dei contenuti possibili dell’impugnazione, che anche nel caso di
conversione” restavano “quelli del ricorso”, cioè motivi di legittimità.

Discorso analogo valeva nel patteggiamento; e nel caso di sentenza di proscioglimento emessa nel giudizio abbreviato,
appellabile dal P.M. ma non dall’imputato (eccetto la sentenza di assoluzione per difetto di imputabilità, derivante da vizio
totale di mente), il quale poteva solo ricorrere per cassazione.

Da verificare, è se, dalla riscrittura dell’art 595 emergano aspetti problematici dovuti alla non chiara lettera della legge.

Nel co.1 la locuzione “che non ha proposto impugnazione ” (invariata rispetto al testo originario dell’art) richiamerebbe i casi in
cui l’imputato, sebbene legittimato ad appellare o a ricorrere per saltum, non abbia esercitato il suo diritto in via principale, e
con la conseguente operatività di quanto detto sopra dalle Sezioni Unite.

Nel co.3, che coprirebbe anche le situazioni nelle quali l’imputato non è legittimato ad appellare, si potrebbe ritenere che la
locuzione in discorso rivesta un significato più ampio, conglobando i casi nei quali l’imputato non ha appellato in via principale
appunto perché privo di legittimazione.

La seconda problematica di rilievo concerne l’oggetto dell’appello incidentale; in proposito si erano formati 3 indirizzi
giurisprudenziali, dando luogo ad un contrasto poi risolto dalle Sezioni Unite sotto il vigore della pregressa disciplina.

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Secondo l’orientamento prevalente e più restrittivo, l’appello incidentale avrebbe riguardato solo i punti della decisione
investiti dai motivi dell’appello principale, in modo da rispettare la natura accessoria del primo rispetto al secondo e da
salvaguardare il trattamento paritario dei soggetti legittimati;

secondo l’orientamento intermedio, l’ambito oggetto dell’appello incidentale sarebbe stato limitato ai capi della decisione
investiti dall’appello principale, con possibilità di estendersi a punti diversi di tali capi;

in base all’orientamento più ampio, l’appello incidentale non avrebbe incontrato alcun limite oggettivo, mancando qualsiasi
indicazione al riguardo nella lettera della legge.

Le Sezioni Unite hanno affermato che oggetto dell’appello incidentale sono i punti della decisione investiti dall’appello
principale nonché i punti ad essi legati da connessione essenziale.

22. La cognizione del giudice di appello: a) il principio del tantum devolutum quantum appellatum. (Art
597 co.1 e 5)
L’appello, abbiamo visto, ha una natura ibrida, riconnettendosi al modello del gravame e caratterizzandosi come parzialmente
devolutivo;

L’art 597 (“Cognizione del giudice di appello”) al co.1 stabilisce che:

o “l’appello attribuisce al giudice di secondo grado la cognizione del procedimento limitatamente ai punti della decisione
ai quali si riferiscono i motivi proposti” (principio del tantum devolutum quantum appellatum).

Da distinguere è il concetto di:

 Punto della decisione  “statuizione della sentenza che può essere considerata in modo autonomo” inerente, dunque
alla singola decisione (cioè, al singolo capo della sentenza).
 Questione  ricompresa nei vari punti.

Il giudice di appello decide su tutte le questioni astrattamente ipotizzabili in ordine al punto impugnato, proprio perché
oggetto del giudizio di appello non sono i motivi (come avviene nel giudizio di cassazione), ma i punti della decisione cui i
motivi di riferiscono.

Qui l’appello mostra di riconnettersi al modello del gravame.

Si reputerebbe violato il principio del tantum devolutum quantum appellatum quando il giudice di appello, pur modificando un
particolare di fatto ritenuto dal primo giudice e non contestato dall’impugnante, ecceda, nel decidere, dai confini dei punti della
decisione gravata e devoluta al suo esame con i motivi di appello.

Si può considerare applicabile il criterio della connessione essenziale, in base al quale il giudice di appello ha il potere-dovere di
decidere anche in ordine ai punti della sentenza che, pur non impugnati, siano legati a quelli impugnati da un rapporto di
pregiudizialità, di interdipendenza o di connessione essenziale.

Dunque, tal criterio (della connessione essenziale) attiene al solo potere di decisione del giudice, cioè opera solo quando la
riforma del punto impugnato si riverbera su punti non investiti dai motivi.

Il principio del tantum devolutum quantum appelatum è soggetto a varie eccezioni.

In primis, alcune questioni sono devolute al giudice di appello, indipendentemente dai punti impugnati, perché rilevabili ex
officio in ogni stato e grado del processo:

- La dichiarazione del difetto di giurisdizione;


- Dichiarazione d’incompetenza per materia;
- Declaratoria immediata delle cause di non punibilità ex art 129;
- Declaratoria delle nullità assolute ex art 179.

Con riguardo all’art 129, le Sezioni Unite sono state chiamate a decidere se possa essere dichiarata la prescrizione del reato
quando i motivi di appello (o di ricorso) non investano la statuizione relativa all’accertamento della responsabilità
dell’imputato, ma riguardino soltanto la pena.

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Nel risolvere in senso positivo la questione, le Sezioni unite hanno affermato che, sulla base del distinguo fra capi e punti della
sentenza, la cosa giudicata si forma sul capo, cioè la decisione diventa irrevocabile “solo quando sono divenute irretrattabili
tutte le questioni necessarie per il proscioglimento o per la condanna dell’imputato rispetto ad uno dei reati attribuitigli”;

i punti della decisione, invece, possono essere unicamente oggetto della preclusione correlata all’effetto devolutivo delle
impugnazioni e al principio della disponibilità del processo in tale fase.

Pertanto, in caso di condanna, la mancata impugnazione della ritenuta colpevolezza dell’imputato fa sorgere una
preclusione sul punto, ma non fa acquistare alla relativa statuizione l’autorità di cosa giudicata quando, per quello stesso
capo, l’imputato abbia devoluto l’indagine riguardante la sussistenza di circostanze e la quantificazione della pena;

di conseguenza, l’eventuale causa di estinzione del reato deve essere rilevata fino al momento in cui diventi completa la
pronuncia relativa al capo.

Ulteriore deroga all’effetto parzialmente devolutivo è stata introdotta dall’art 597 co.5, in base al quale con la sentenza
possono essere applicate anche di ufficio la sospensione condizionale della pena, la non menzione della condanna del
certificato del casellario giudiziale e una o più circostanze attenuanti;

può essere pure effettuato, all’occorrenza, il giudizio di comparazione ex art 69 c.p., ma in tal caso si attribuisce al giudice di
appello solo il compito di effettuare, nuovamente o per la prima volta, tale giudizio.

Le Sezioni unite hanno affermato, che nell’art 597 co.5, non può includersi nella sua sfera operativa l’applicazione ex officio
delle sanzioni sostitutive delle pene detentive brevi, potendo il giudice di secondo grado provvedere solo se nell’atto di
appello sia stata formulata specifica richiesta sul punto.

Sull’applicazione analogica dell’art 597 co.5 si è fatto leva in dottrina per sostenere che il giudice di appello potrebbe applicare
ex officio la nuova causa di estinzione della punibilità per particolare tenuità del fatto ex art 131bis c.p.;

la soluzione, però, non convince dato il carattere derogatorio dell’art 597 co.5, insuscettibile, d’interpretazione analogica:

in conclusione, il giudice di appello sarà vincolato ai limiti del tantum devolutum quantum appellatum.

23. Segue: b) rapporti fra cognizione del giudice di appello e contenuto della decisione; il divieto della
reformatio in peius. (Art 597 co.2,3 e 4)
Ex art 597 (“Cognizione del giudice di appello”):

 Il co. 1  determina l’ambito del potere di cognizione del giudice di appello, cioè l’oggetto della relativa decisione,
 i co.2,3 e 4  si occupano dei poteri di decisione del giudice, delineando in altri termini il contenuto della sentenza di
conferma o di riforma.

La distinzione basilare è fra le ipotesi in cui l’appellante sia (anche) il P.M. e le ipotesi in cui appellante sia il solo imputato.

Qualora si il P.M. ad appellare, il contenuto della pronuncia del giudice di secondo grado non incontra limiti.

Il co.2 art 597 distingue a seconda che il giudice, su appello del P.M., riformi o confermi la decisione di primo grado:

 in caso di riforma  se l’appello riguarda una sentenza di condanna il giudice di appello può, entro i limiti della
competenza del giudice di primo grado:
- dare al fatto una definizione giuridica più grave,
- mutare la specie o aumentare la pena,
- revocare benefici, etc.

 in caso di conferma  il giudice di appello può applicare, modificare o escludere le pene accessorie e le misure di
sicurezza.

Dal co.2 emerge che, quando appellante è il P.M., si può pervenire ad un peggioramento della posizione dell’imputato.

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Il co.3 art 597 regola l’ipotesi in cui appelli il solo imputato e individua il divieto di reformatio in peius.

Infatti, il giudice di appello non può:

- irrogare una pena più grave,


- applicare una misura di sicurezza nuova o più grave,
- prosciogliere l’imputato per una causa meno favorevole di quella enunciata nella sentenza applicata, etc.

È da evidenziare che il divieto di reformatio in peius va riferito al solo dispositivo e non alla motivazione della sentenza.

Inoltre, non concerne le disposizioni civili, che possono essere rivalutate dal giudice:

pertanto, come hanno ritenuto le Sezioni Unite, non viola il divieto la sentenza di appello che accolga la richiesta di una
provvisionale proposta per la prima volta in quel giudizio dalla parte civile non appellante.

Quanto alle pene accessorie si ritiene non operante il divieto di reformatio in peius in caso di pene accessorie
predeterminate dalla legge in ogni loro elemento e quindi non rimesse alla valutazione discrezionale del giudice.

Passando a considerare alcuni profili del divieto di reformatio in peius, con riferimento al concetto di “ipena più grave per
specie o quantità”, l’art 597 co.4 stabilisce che:

o “in ogni caso, se è accolto l’appello dell’imputato relativo a circostanze o a reati concorrenti, anche se unificati per la
continuazione, la pena complessiva irrogata è corrispondentemente diminuita”.

La locuzione “in ogni caso” va interpretata nel senso che il giudice di appello, oltre ad essere vincolato dal divieto di
reformatio in peius, ha sempre il dovere di diminuire la pena complessivamente irrogata anche quando, oltre all’imputato,
sia appellante il P.M.;

il giudice di appello, nell’operare la diminuzione della pena, deve tener conto anche dell’effetto devolutivo.

Le Sezioni Unite hanno poi affermato che il divieto di reformatio in peius riguarda non solo il risultato finale, ma anche tutti gli
elementi del calcolo della pena;

poiché l’art 597 co.4 individua come “elementi autonomi” tanto gli aumenti o le diminuzioni apportati alla pena base per le
circostanze, quanto l’aumento conseguente al riconoscimento della continuazione, ne consegue pure l’impossibilità di elevare
la pena irrogata per tali singoli elementi, sebbene risulti diminuita quella complessiva.

Inoltre, al giudice di appello, anche se impugnante sia il solo imputato, è riconosciuta la facoltà di dare al fatto una
definizione giuridica più grave.

Essa va esercitata “entro i limiti indicati nel co.1”, cioè nei limiti dell’effetto devolutivo, e “purché non venga superata la
competenza del giudice di primo grado”;
altrimenti il giudice di appello dovrebbe annullare la sentenza di primo grado per incompetenza per materia e trasmettere gli
atti al P.M. presso il giudice di primo grado competente.

Per comprendere meglio, conseguita dall’imputato una determinata posizione a lui favorevole, non può, in difetto
d’impugnazione del P.M., emettersi una qualsivoglia pronuncia che modifichi in senso peggiorativo tale posizione: è questo il
significato del divieto di reformatio in peius.

È, invece, da ritenersi sempre consentita, anche a fronte di un appello del solo P.M., la reformatio in melius.

24. Giudizio di appello in camera di consiglio e concordato anche con rinuncia ai motivi di appello. (Art
599-601)
L’art 599 disciplina la “Decisione in camera di consiglio”, cioè le ipotesi in cui il giudizio di secondo grado (a fini acceleratori), si
svolge col rito camerale, senza dover pervenire all’udienza dibattimentale.

Il co.1 contempla l’ipotesi in cui l’appello “ha per oggetto la specie/misura della pena, anche con riferimento al giudizio di
comparazione fra circostanze, o l’applicabilità delle circostanze attenuanti generiche, di sanzioni sostitutive, della sospensione
condizionale della pena, o della non menzione della condanna nel certificato del casellario giudiziale”.
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In tali situazioni, descritte nel co.1, “la corte provvede in camera di consiglio con le forme ex art 127”, ma il giudizio camerale in
discorso si discosta per vari profili dal suo archetipo.

I. In primis, dall’art 601 co.2 (“Atti preliminari al giudizio”) emerge che per il rito in camera di consiglio è prevista l’emissione
del decreto di citazione e non il semplice avviso della data dell’udienza.

La giurisprudenza si divide in ordine alla durata del termine per comparire:


 Per la maggior parte delle pronunce è quello di 20 giorni fissato ex art 601 co.3, perché tale norma disciplina la fase
introduttiva del giudizio di appello con disposizioni che prevalgono su quelle dettate ex art 127,

 Mentre per altre pronunce è quello di 10 giorni dettato ex art 127 co.1, perché vanno osservate le forme previste in
via generale dall’art 127.

II. In secundis, l’udienza è rinviata in ogni caso se sussiste un legittimo impedimento dell’imputato che ha manifestato la
volontà di comparire.
Le Sez. unite hanno affermato che l’imputato detenuto, il quale abbia manifestato in qualche modo e tempestivamente la
volontà di comparire, ha diritti di presenziare al giudizio camerale di appello avverso la sentenza pronunciata nel giudizio
abbreviato, anche qualora sia ristretto in luogo posto fuori dalla circoscrizione del giudice procedente.

La volontà di comparire, pur non dovendo venir espressa entro il termine di 5 giorni come disposto ex art 127 co.2, deve
essere tempestiva, cioè manifestata con modalità tali da consentire la traduzione dell’imputato per l’udienza.

In altra occasione le Sezioni unite hanno precisato che la richiesta di partecipazione può essere tratta anche da facta
concludentia, dai quali possa desumersi l’inequivoca manifestazione della volontà dell’imputato di comparire all’udienza
camerale.

III. In terzo luogo, mentre di regola (ex art 127 co.3), P.M. e difensori sono sentiti solo se compaiono, in caso di rinnovazione
dell’istruzione dibattimentale il giudice assume le prove in camera di consiglio ex art 603, con la necessaria partecipazione
di tali soggetti; se essi non sono presenti quando è disposta la rinnovazione, il giudice fissa una nuova udienza, facendo
comunicare al P.M. e notificare ai difensori copia del provvedimento (art 599 co.3).

Per lungo tempo, il legittimo impedimento del difensore a comparire non ha costituito motivo di rinvio dell’udienza
camerale, in quanto la relativa disciplina non era applicabile ai procedimenti in camera di consiglio che si svolgevano nelle
forme ex art 127, ove la presenza del difensore ha carattere meramente virtuale.

Dopo la l.479/99, varie pronunce hanno ribadito l’inapplicabilità dell’art 420ter co.5 nei procedimenti camerali diversi
dall’udienza preliminare, persino se la presenza del difensore vi sia prescritta come necessaria.

Lo scenario si è evoluto dopo alcune pronunce delle sezioni singole, secondo cui la regola stabilita ex art 420ter co.5 trova
applicazione pure con riguardo al procedimento camerale di appello disciplinato ex art 599, a seguito di appello avverso
sentenza pronunciata nel giudizio abbreviato.

Anche l’art 6 c.e.d.u. impone di garantire il diritto di difesa in ogni stato e grado del procedimento, e specialmente nella fase
del giudizio dove si decide sulla fondatezza dell’imputazione: il giudizio abbreviato attribuisce al giudice la piena cognizione
del merito.

Aderendo a tale indirizzo, le Sezioni Unite hanno mutato il proprio pregresso orientamento, reputando rilevante nel giudizio
camerale di appello il legittimo impedimento del difensore determinato da non prevedibili ragioni di salute.

Un aspetto particolare riguarda poi l’adesione del difensore all’astensione dalle udienze proclamata dagli organismi di
categoria (c.d. sciopero dei difensori);

trattandosi di un esercizio del diritto costituzionale di libertà di associazione da parte del difensore, alcune pronunce delle
sezioni singole hanno riconosciuto il diritto al rinvio dell’udienza camerale nel giudizio abbreviato di appello, purché il
difensore comunichi tempestivamente la sua volontà di astensione.

In ogni caso, al giudice spetta il compito di accertare se l’adesione all’astensione sia avvenuta nel rispetto delle regole fissate
dalle competenti disposizioni primarie e secondarie, previa loro corretta interpretazione, mentre la possibilità di un
bilanciamento giudiziale degli interessi in gioco potrebbe verificarsi solo in casi eccezionali, non essendo sufficiente il richiamo
a generiche “esigenze di giustizia”.

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Ad ogni modo, nelle udienze penali in cui la partecipazione del difensore non è obbligatoria, l’astensione del difensore della
persona offesa o della parte civile “non dà diritto al rinvio qualora il difensore dell’imputato/indagato non abbia espressamente
o implicitamente manifestato analoga dichiarazione di astensione, così mostrando un proprio interesse ad una celere definizione
del procedimento”.

Infine, il provvedimento conclusivo del giudizio di appello in camera di consiglio non è una ordinanza (art 127 co.7), ma una
sentenza, poiché il riferimento all’art 127 si riferisce solo alle formalità del procedimento e non alla natura e forma del
provvedimento che, in mancanza di deroga, sono stabilite ex art 605 (“Sentenza”).

Le Sezioni unite hanno ritenuto che anche nel giudizio abbreviato di appello (come in quello di primo grado), il dispositivo
deve essere letto in udienza dopo la deliberazione della sentenza e che la mancata lettura impedisce il decorso dei termini
per l’impugnazione;

in una precedente pronuncia le Sezioni unite hanno precisato che la sentenza emessa a conclusione del giudizio di appello
camerale deve essere notificata all’imputato non comparso ex art 127 co.7 e 128.

Particolarmente travagliate si presentavano le vicissitudini normative che hanno interessato il concordato sui motivi di appello.

I co.4 e 5 art 599 che lo prevedevano, erano stati ripristinati nel 1999 e in seguito abrogati dal d.l.92/2008. Ora, con la
l.103/2017 si è reintrodotto l’istituto, disciplinando nel nuovo art.599bis il “concordato anche con rinuncia ai motivi di
appello”.

Nel testo originario del codice, ex art 599 co.4, la corte di appello provvedeva in camera di consiglio anche quando le parti, nelle
forme ex art 589 per la rinuncia all’impugnazione, ne facessero richiesta dichiarando di concordare sull’accoglimento dei motivi
di appello, con rinuncia agli altri eventuali motivi.

Nel 1999 si era ripristinata la portata originaria dell’istituto inserendo nel nuovo testo art 599 co.4 un inciso al fine di chiarire in
modo espresso l’ampliamento del concordato a qualsiasi motivo di appello, pur se riguardante la responsabilità dell’imputato.

Il concordato sui motivi aveva, dunque, riacquisito la sua iniziale funzione di economia processuale

Il decreto sicurezza del 2008 ha soppresso il patteggiamento in appello che si celebrava col rito camerale.

Attraverso tale strumento, il Procuratore generale e l’imputato potevano concordare la pena, reciprocamente rinunciando agli
altri motivi di appello.

L’istituto aveva una grande efficacia deflattiva; la sua abrogazione è stata dettata dalla finalità di evitare eccessivi abbassamenti
di pena in appello anche a fronte di condanne in primo grado per gravi reati.

Come anticipato, il legislatore con la l.103/2017 ha reintrodotto l’istituto, rivisitandolo sotto due profili, connessi alle ragioni
che ne avevano fondato l’abrogazione.

In primis (art 599bis co.2) sono esclusi dall’applicazione del concordato i procedimenti per alcuni gravi delitti, nonché quelli
contro coloro che siano stati dichiarati delinquenti abituali, professionali o per tendenza.

Tali esclusioni soggettive e oggettive coincidono con quelle previste per il c.d.patteggiamento allargato ex art 444 co.1bis;

così facendo si apparentano i due istituti (patteggiamento e concordato) e si perpetua la sovrapposizione che aveva condotto
ad abrogare il concordato, cui si imputava di depotenziare il patteggiamento in primo grado.

In secundis, l’art 599bis co.4 prevede che, ferma restando la piena autonomia del P.M. in udienza ex art 53 co.1, “il
procuratore generale presso la corte di appello, sentiti i magistrati dell’ufficio e i procuratori della Repubblica del distretto,
indica i criteri idonei a orientare la valutazione dei magistrati del P.M. nell’udienza, tenuto conto della tipologia dei reati e
della complessità dei procedimenti”;

andrebbero stabilite delle linee-guida chiare e condivise, idonee ad evitare una eccessiva riduzione della pena.

La previsione ha un sapore compromissorio; infatti se il P.M. in udienza non seguisse i criteri, le prassi lassiste potrebbero
riproporsi.

Magari, la soluzione migliore sarebbe definire legislativamente i limiti massimi della riduzione di pena praticabile grazie al
concordato sui motivi.

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25. Provvedimenti in camera di consiglio in ordine alle esecuzioni delle condanne civili.
L’art 540 (“Condanna alle spese relative all’azione civile”) delinea due decisioni provvisoriamente esecutive:

 L’una riguarda la condanna alle restituzioni e al risarcimento del danno, dichiarata provvisoriamente esecutiva, su
richiesta della parte civile, quando ricorrono giustificati motivi (co.1);
 L’altra concerne la condanna al pagamento della provvisionale, che è ope legis immediatamente esecutiva (co.2).

L’art 600 (“Provvedimenti in ordine all’esecuzione delle condanne civili”) disciplina le decisioni del giudice di appello in queste
materie:
 Se il giudice di primo grado ha omesso di provvedere sulla richiesta di provvisoria esecuzione proposta ex art 540 co.1 o
l’ha rigettata, la parte civile può riproporla al giudice di appello che, a richiesta della parte, provvede con ordinanza in
camera di consiglio (co.1);
 Se il giudice di primo grado ha dichiarato provvisoriamente esecutiva la condanna alle restituzioni e al risarcimento dei
danni, il responsabile civile e l’imputato possono chiedere la revoca/sospensione della provvisoria esecuzione (co.2).

Ex co.3 art 600, l’imputato e il responsabile civile possono chiedere al giudice di appello che sia sospesa l’esecuzione della
condanna al pagamento della provvisionale “quando ricorrono gravi motivi”.

Nel testo originario il comma contemplata un diverso presupposto (“quando possa derivarne grave e irreparabile danno”),
dichiarato illegittimo dalla Corte costituzionale e sostituito con quello odierno.

26. Atti preliminari al giudizio di appello. (Art 601 co.1)


Se non si versa in ipotesi d’inammissibilità dell’appello, il presidente ordina senza ritardo la citazione dell’imputato appellante,
nonché quella dell’imputato non appellante:

 se vi è appello del P.M.


 o se ricorrono le condizioni per il verificarsi dell’estensione dell’impugnazione ex art 587
 o se l’appello è proposto per i soli interessi civili.

In ogni caso, è ordinata la citazione delle parti eventuali;

la parte civile, è citata anche quando ha appellato il solo imputato contro una sentenza di proscioglimento (art 601 co.4).

In tale ultima ipotesi, la parte civile ha comunque interesse a una formula di proscioglimento non preclusiva dell’azione in
sede civile;
ma in alcuni casi, la citazione di una parte eventuale apparirebbe inutile (come nel caso, ad esempio, per cui, quando appelli il
solo prosciolto al fine di ottenere una formula più favorevole, è infruttuosa la presenza della persona civilmente obbligata per
la pena pecuniaria).

Quando si procede in camera di consiglio ex art 599, ne è fatta menzione nel decreto di citazione, che contiene i requisiti
prescritti dall’art 429 co.1 lett.a,f,g oltre all’indicazione del giudice competente.

Il decreto di citazione va notificato almeno 20 giorni prima della data fissata per il giudizio di appello, termine che vale anche
per la notificazione dell’avviso ai difensori, ed è nullo nei casi indicati dall’art 601 co.6.

Per consolidato orientamento giurisprudenziale, in appello non è consentito pronunciare sentenza predibattimentale di
proscioglimento ex art 469, perché il combinato disposto degli art 598,599 e 601 non effettua alcun rinvio a tal disposizione,
da ritenersi dettata specificamente per il giudizio di primo grado.

27. Dibattimento in appello: a) linee generali. (Art 602-605)


La disciplina del dibattimento in appello, oltre ad essere regolata dagli art 601-605, tiene conto, in quanto applicabili, delle
disposizioni relative al giudizio di primo grado (art 598) e le collegate disposizioni di attuazione (art 168 disp.att.).

Il dibattimento inizia con la relazione della causa effettuata dal presidente o da un consigliere da lui delegato.

Quanto all’ipotesi (contemplata in origine dall’art 602 co.2) di un concordato dibattimentale sui motivi di appello, le
vicissitudini normative, consequenziali a quelle descritte ex art 599 co.4 e 5, avevano condotto alla sua abrogazione.

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Una volta reintrodotto il concordato camerale, la l.103/2017 ha inserito nell’art 602 il co.2bis, che consente alle parti di
richiedere concordemente l’accoglimento dei motivi di appello ex art 599bis:
 Il giudice provvede immediatamente, se ritiene di dover accogliere la richiesta;
 In caso contrario dispone che il dibattimento prosegua.

La richiesta e la rinuncia ai motivi non hanno effetto se il giudice decide in modo difforme dall’accordo.

Nel dibattimento può essere data lettura, anche di ufficio (art 602 co.3):

 di atti del giudizio di primo grado  ricomprende gli atti compiuti direttamente nel dibattimento di primo grado;

 nonché di atti compiuti nelle fasi antecedenti  ricompresi quelli compiuti nelle fasi precedenti e inseriti già nel
fascicolo per il dibattimento e poi acquisiti mediante lettura ex art 511 o inseriti nel fascicolo del P.M., che una volta
letti, confluiscono nel fascicolo per il dibattimento del giudizio di primo grado.

In sostanza, nel dibattimento di appello non può entrare, attraverso il meccanismo delle letture, materiale probatorio che già
non sia stato utilizzato per la decisione di primo grado;

l’acquisizione di prove non utilizzate in primo grado può avvenire, ricorrendo determinati presupposti, solo con la
rinnovazione dell’istruzione dibattimentale.

28. Segue: b) la rinnovazione dell’istruzione dibattimentale. (Art 603) e Caso Dan Moldavia
L’art 603 è la norma cardine per la disciplina della “Rinnovazione dell’istruzione dibattimentale” in appello, meccanismo
attivabile a richiesta di parte o di ufficio.

Nel primo caso, quando una parte, nell’atto di appello o nei motivi nuovi presentati ex art 585 co.4, ha chiesto:

 la riassunzione di prove già acquisite nel dibattimento di primo grado


 o l’assunzione di nuove prove,

il giudice, se ritiene di non essere in grado di decidere allo stato degli atti, dispone la rinnovazione (art 603 co.1).

Con la richiesta di riassunzione di prove già acquisite nel dibattimento di primo grado, la parte mira ad evidenziare, in sede di
appello, la portata di un certo contributo probatorio
 ad esempio, richiedendo la riescussione di un testimone, le cui dichiarazioni fossero in qualche modo infirmate da altri
elementi.

Con la richiesta di assunzione di nuove prove, la parte tende ad ammettere nel dibattimento di appello materiale probatorio
nuovo.

Va precisato, che, argomentando a contrario dall’art 603 co.2 (ove si parla di nuove prove “sopravvenute o scoperte dopo il
giudizio di primo grado”), la categoria delle nuove prove di cui al co.1 viene riferita alle prove preesistenti ma non acquisite nel
dibattimento di primo grado, e dunque non utilizzate per la decisione, fra cui rientrano pure gli atti non valutati (perché non
acquisiti tramite le predette lettura nel dibattimento di primo grado).

Sempre ex co.1 art 603, il giudice, di fronte alla richiesta di parte, dispone la rinnovazione se ritiene di non essere in grado di
decidere allo stato degli atti.

Nel ribadire il carattere eccezionale della rinnovazione, la presunzione di completezza dell’indagine dibattimentale di primo
grado cede solo di fronte alla constatazione dell’impossibilità di decidere allo stato degli atti.

Sennonché, dopo la riforma dell’art 111 Cost, ci si è domandati se la garanzia costituita dal diritto a confrontarsi con la fonte
dell’accusa (art 111 co.3 Cost) non debba condurre la giurisprudenza a un impiego più elastico della nozione di decidibilità
allo stato degli atti, privilegiando la rinnovazione.

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L’art 603 co.2 disciplina l’ipotesi in cui le nuove prove sono sopravvenute o scoperte dopo il giudizio di primo grado;

 in tale eventualità il giudice dispone la rinnovazione dell’istruzione dibattimentale nei limiti previsti ex art 495 co.1
(“Provvedimenti del giudice in ordine alla prova”) per il giudizio di primo grado, con operatività degli art 190 e 190bis.

Si prescinde dal criterio della non decidibilità allo stato degli atti espresso nel co.1, configurando un’ipotesi di rinnovazione
obbligatoria, a tutela del diritto delle parti alla prova nei limiti in cui è riconosciuto nel giudizio di primo grado.

Quanto alla rinnovazione ex officio, è contemplata dall’art 603 co.3 se il giudice la ritiene assolutamente necessaria.

Caso Dan Moldavia e il nuovo co.3bis

Il giudice di appello individua erroneamente la “assoluta necessità” di disporre nuove perizie quando ritenga, “al di là di ogni
comprensibile e ragionevole eccesso di scrupolo e di completezza dell’indagine istruttoria di primo grado” di non essere in grado
di decidere in base alle prove già acquisite.

La l.103/2017 ha inserito nell’art 603 il nuovo co.3bis, secondo cui, nell’eventualità di appello “del P.M. contro una sentenza di
proscioglimento per motivi attinenti alla valutazione della prova dichiarativa, il giudice dispone la rinnovazione dell’istruzione
dibattimentale”.

Pur ispirandosi all’art 6 c.e.d.u., la nuova disciplina si distacca da due pronunce con cui le Sezioni Unite avevano fornito una
interpretazione convenzionalmente orientata dell’art 603, affermando che:

 il giudice di secondo grado, quando (su appella del P.M/parte civile) ritenga di riformare nel senso dell’affermazione di
responsabilità dell’imputato la sentenza di proscioglimento di prime cure, sulla base di una diversa valutazione della
prova dichiarativa ritenuta decisiva dal primo giudice, deve disporre la rinnovazione dell’istruzione dibattimentale,
mediante l’esame dei soggetti che hanno reso le dichiarazioni.

L’art 603 co.3bis non si riferisce alla prova dichiarativa ritenuta decisiva dal giudice di primo grado, bensì a qualunque prova
dichiarativa e sembra non ammettere eccezioni al dovere del giudice di appello di rinnovare l’istruzione dibattimentale.

Va rimarcato che l’iniziale pronuncia delle Sezioni unite prima richiamata si era fatta carico di considerare i casi ove la fonte di
prova dichiarativa:
 non sia più esaminabile in appello (per morte, infermità o irreperibilità)
 o sia persona vulnerabile, magari vittima del reato.

Nel primo caso, non vi sarebbero ragioni per consentire un ribaltamento della sentenza assolutoria, fermo restando il dovere
del giudice di “accertare sia l’effettiva sussistenza della causa preclusiva della nuova audizione, sia che la sottrazione
all’esame non dipenda dalla volontà di favorire l’imputato o da condotte illecite poste in essere da terzi, essendo il giudice in
tal caso legittimato a fondare il proprio convincimento sulle precedenti dichiarazioni”.

Anche nel secondo caso, non è consentito il suddetto ribaltamento, ma è rimessa al giudice “la valutazione circa l’indefettibile
necessità di sottoporre il soggetto debole a un ulteriore stress al fine di saggiare la fondatezza dell’impugnazione proposta
avverso la sentenza assolutoria”.

Nonostante la dizione generica utilizzata nell’art 603 co.3bis (“il giudice dispone la rinnovazione dell’istruzione dibattimentale”),
la norma può venire interpretata nel senso che:

 la doverosa rinnovazione vada riferita solo alla prova dichiarativa la cui valutazione da parte del giudice di prime
cure viene attaccata dal P.M., in armonia con le concrete situazioni esaminate dalla Corte Europea;

in tale ottica, non risulta modificata la funzione dell’appello come mezzo di controllo.

Va, poi, sottolineato che nell’art 603 co.3bis non si prevede alcuna sanzione per la sua inosservanza;

in caso di condanna pronunciata per la prima volta in appello sulla base di una rivalutazione della prova dichiarativa, potrebbe
adottarsi la soluzione per cui una simile sentenza sarebbe ricorribile per cassazione, sotto il profilo del vizio di motivazione ex
art 606 co.1 lett.e, e la Corte di cassazione, qualora accogliesse il ricorso, dovrebbe annullare con rinvio.

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Nell’ipotesi speculare di condanna in prime cure e di proscioglimento in appello, le Sezioni Unite hanno affermato che il
giudice di appello non ha l’obbligo di rinnovare l’istruzione dibattimentale attraverso l’esame dei soggetti che hanno reso
dichiarazioni ritenute decisive ai fini della condanna in primo grado;

tuttavia, tale giudice “è tenuto a offrire una motivazione puntuale e adeguata della sentenza assolutoria, dando una
giustificazione razionale della difforme conclusione adottata”.

Secondo le Sezioni Unite, nell’evenienza di totale reformatio in melius non viene in gioco il canone “al di là di ogni
ragionevole dubbio”, riferito alla sentenza di condanna, mentre dall’art 530, che disciplina l’epilogo assolutorio, si enuclea
un canone opposto, in quanto il giudice debba assolvere quando un dubbio sussiste e non può essere superato.

In conclusione, presunzione di innocenza e ragionevole dubbio “impongono soglie probatorie asimmetriche”, cioè:
 la “certezza della colpevolezza”  per condannare;
 “il dubbio processualmente plausibile”  per assolvere.

Il co.3bis non estende la portata alla rinnovazione funzionale al proscioglimento in appello, situazione nella quale trovano
applicazione i commi precedenti.

La legge 67/2014 che ha rimosso l’istituto della contumacia, ha provveduto ad abrogare il co.4 ex art 603, che prevedeva:

 una ipotesi di rinnovazione obbligatoria quando l’imputato, contumace in primo grado, ne facesse richiesta o provasse
di non essere potuto comparire per caso fortuito o forza maggiore o per non avere avuto conoscenza del decreto di
citazione, sempre che in tal caso il fatto non fosse dovuto a sua colpa.

La previsione veniva criticata dalla dottrina, avanzando perplessità sul piano costituzionale (in rapporto agli artt 3 e 24 Cost),
perché la rinnovazione dell’istruzione dibattimentale nel solo grado di appello si risolveva nella perdita di un grado di
giurisdizione di merito.

Qualche profilo d’interesse attiene alla rinnovazione nei procedimenti camerali (dato il richiamo all’art 603 ad opera dell’art
599 co.3), quando si tratta di giudizio abbreviato di secondo grado, che si svolge con le forme dell’art 599.

Prima del 1999, la giurisprudenza, si era espressa a Sezioni unite, riconoscendo un potere di rinnovazione ex officio del giudice
(sollecitabile anche dalle parti interessate), da esercitare solo nei casi di assoluta necessità (art 603 co.3), ed escludendo
l’esistenza di un diritto alla prova che potesse essere fatto valere dalle parti medesime.

Non mancano, però, opinioni favorevoli alla generale applicabilità dell’art 603 co.1 e 2, indipendentemente dalla tipologia della
richiesta di giudizio abbreviato.

Alla luce, però, delle Sezioni Unite, dovrebbe adesso applicarsi il co.3bis art 603;

una conferma in proposito è giunta dall’ultima decisione delle Sezioni unite, ad avviso delle quali il legislatore avrebbe operato
un ragionevole bilanciamento tra:

 le esigenze connesse al potere dispositivo delle parti in materia probatoria, con la rinuncia al contraddittorio nella
formazione della prova
 e quello correlato al rischio di una condanna ingiusta nel giudizio di appello sotto il profilo della violazione dei canoni di
accertamento della verità dopo una sentenza di proscioglimento in prime cure.

La decisione sulla rinnovazione è assunta dal giudice, nel contraddittorio delle parti, con ordinanza (art 603 co.5):
 di regola, si procede immediatamente alla rinnovazione;
 in caso di impossibilità, il dibattimento è sospeso per un periodo massimo di 10 giorni (co.6).

quando la rinnovazione avviene in camera di consiglio, pare prevalere la disciplina particolare dettata dall’art 599 co.3.

A parere della dottrina, il provvedimento che dispone la rinnovazione è revocabile, operando pure in tale evenienza gli artt 190
co.3 e 495 co.4.

Per completezza va, infine, rammentato che alla rinnovazione si riferiscono anche l’art 603 co.5 e 6 e l’art 627 co.2, relativo al
giudizio di rinvio in seguito all’annullamento di una sentenza di appello da parte della corte di cassazione.

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29. Sentenze conclusive del giudizio di appello. (Art 605)


Il giudizio di appello può concludersi con sentenza:

- Di inammissibilità, di conferma, di riforma,


- Di annullamento con:
- trasmissione degli atti al giudice di primo grado,
- o con informativa al P.M.
- o con rinvio degli atti al giudice che procedeva al momento del verificarsi di determinate nullità.

Specifica disciplina è riservata ai provvedimenti del giudice di appello sulla giurisdizione e sulla competenza (art 20 co.2 e art
24) e sull’inosservanza delle disposizioni relative all’attribuzione dei reati alla cognizione del tribunale in composizione
collegiale/monocratica (art 33octies).

I. Il giudice di appello dichiara inammissibile l’appello con sentenza (art 591 co.4 “Inammissibilità dell’impugnazione”)
quando accerta una causa d’inammissibilità non rilevata prima del dibattimento o insorta dopo la sua stesura (es. rinuncia
all’appello).

II. Pronuncia sentenza di conferma (art 605 co.1 “Sentenza”) quando, ritenendo non fondati i motivi di appello, lo rigetta e
mantiene ferma la decisione di primo grado.

III. Pronuncia sentenza di riforma (art 605 co.1), quando, accogliendo i motivi proposti, modifica la decisione di primo grado,
salvo il divieto della reformatio in peius in caso di appello del solo imputato.

In caso di riforma, per sopravvenuta amnistia/prescrizione, di una sentenza di condanna, il giudice di appello, nel dichiarare
estinto il reato, decide sull’impugnazione ai soli effetti delle disposizioni e capi della sentenza che concernono gli interessi
civili, qualora sussistano i presupposti ex art 578.

L’art 605 co.1 enuclea le due categorie delle sentenze di conferma e di riforma situandole al di “fuori dei casi previsti dall’art
604”, ma in tali casi sono ricomprese situazioni inquadrabili proprio fra le pronunce di conferma o di riforma.

L’art 604 disciplina le “questioni di nullità”, coniugando il principio di conservazione degli atti e il principio di economia
processuale, infatti:
 Per un verso, la nullità che colpisce una parte della sentenza non travolge le altre parti che non dipendano da essa,
 Per altro verso, il giudice di appello si sostituisce a quello di primo grado, correggendone e integrandone la
decisione.

I primi tre commi dell’art 604 sono dedicati alle ipotesi di nullità della sentenza per difetto di contestazione (art 522).

Nel co.1 è disciplinata la nullità della sentenza che abbia condannato per un fatto diverso da quello contestato.

In tal caso, il giudice di appello dichiara la nullità in toto della sentenza appellata e dispone la trasmissione degli atti al
giudice di primo grado individuato dal co.8 art 604.

Lo sbocco è analogo qualora la sentenza di primo grado abbia applicato:


 una circostanza aggravante per la quale la legge stabilisce una pena di specie diversa da quella ordinaria del reato
 o una circostanza aggravante a effetto speciale.

Anche qui, il giudice dichiara la nullità della sentenza nella parte relativa alla circostanza aggravante non contestata,
disponendo la trasmissione degli atti al giudice di primo grado, sempre che non vengano ritenute prevalenti o equivalenti
circostanze attenuanti.

In quest’ultima eventualità o quando sono state applicate, senza preventiva contestazione, circostanze aggravanti diverse da
quelle previste ex art 604 co.1, il giudice di appello esclude le circostanze aggravanti non contestate, effettua se occorre, un
nuovo giudizio di comparazione e ridetermina la pena (art 604 co.2).

Invece, quando il difetto di contestazione riguarda un reato concorrente (connesso a norma dell’art 12 co.1 lett.b) o un fatto
nuovo, il giudice di appello:
 dichiara nullo il relativo capo della sentenza ed elimina la pena corrispondente, disponendo che del provvedimento sia
data notizia al P.M. per le sue determinazioni (art 604 co.3).
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Sennonché, la dottrina ritiene che l’informativa al P.M. non sia una soluzione idonea per i casi di concorso formale
eterogeneo, qualora l’unica condotta configuri più reati formali;

 ad esempio, se un soggetto è stato condannato per falsa testimonianza e calunnia, ma solo uno di tali delitti è stato
contestato, l’art 604 co.3 non è applicabile, perché il giudizio separato per calunnia configura un bis in idem, vietato ex
art 649, allorché diventi irrevocabile la condanna per falsa testimonianza;

la via da seguire dovrebbe essere quella ex art 604 co.1.

I co. 4 e 5 art 604 riguardano le ipotesi in cui il giudice di appello rilevi una nullità.

Se accerta una nullità assoluta (art 179), o una di tipo intermedio (art 180) non sanata, dalle quali sia derivata la nullità del
provvedimento che dispone il giudizio o della sentenza di primo grado, il giudice di appello dichiara con sentenza di nullità e
rinvia gli atti al giudice che procedeva quando si è verificata la nullità (co.4), producendo una regressione del processo.

In caso di annullamento ex co.4, pure se determinato da appello del solo imputato, le Sezioni Unite hanno stabilito che:
 nel giudizio di rinvio dinanzi al giudice di primo grado non trova applicazione il divieto di reformatio in peius, poiché
tal divieto implica “necessariamente un termine di paragone rappresentato da una precedente sentenza”;

mentre, un simile presupposto manca quando questa sia stata cancellata “in quanto atto finale di un giudizio nullo, e perciò
privo di effetti”.

Invece (ex co.5 art 604), trattandosi di altre nullità che non sono state sanate, il giudice di appello può:

 ordinare la rinnovazione degli atti nulli,


 oppure, una volta dichiarata la nullità, decidere nel merito, qualora riconosca che l’atto non fornisce elementi necessari per
il giudizio.

La disciplina emergente ex co.5 dovrebbe operare con riguardo alle nullità che afferiscono agli atti probatori, in armonia con
l’art 185 co.2 e 4 (“Effetti della dichiarazione di nullità”), dove si prevede:
 da un lato, la rinnovazione dell’atto nullo, qualora sia necessaria e possibile,
 dall’altro, che la regressione del procedimento non si applica alle nullità concernenti le prove.

Parte della dottrina, ritiene che l’art 604 concreterebbe (riguardo pure la nullità di atti privi di valore probatorio non rientranti
nella categoria degli atti c.d. propulsivi), la clausola di salvezza prevista dall’art 185 co.3 (“salvo che sia diversamente stabilito”),
che consente di derogare al principio di regressione conseguente alla dichiarazione di nullità.

La l.67/2014 ha inserito nell’art 604 il co.5bis, il quale si occupa dei casi in cui si sia proceduto in assenza dell’imputato e vi è la
prova che si sarebbe dovuto provvedere ex art 420ter (“impedimento a comparire”) o 420quater (“Sospensione del processo per
assenza dell’imputato”):

 in tali evenienze patologiche, il giudice di appello dichiara la nullità della sentenza e dispone il rinvio degli atti al
giudice di primo grado.

Provvede nello stesso modo qualora l’imputato provi che l’assenza è stata dovuta a una incolpevole mancata conoscenza
della celebrazione del processo di primo grado.

Nel nuovo giudizio si applica l’art 489 co.2 (“Dichiarazioni dell’imputato contro il quale si è proceduto in assenza dell’udienza
preliminare”), che rimette l’imputato nel termine per formulare le richieste di giudizio abbreviato/patteggiamento.

L’imputato si vede riconosciuto il diritto alla nuova celebrazione del giudizio di primo grado, a patto che riesca a provare il
carattere incolpevole della sua assenza.

Quanto contenuto nei co.6 e 7 ex art 604 appare dissonante rispetto a quanto esaminato nel paradigma “questioni di nullità”.

Il co.6 contempla l’ipotesi in cui il giudice di primo grado abbia dichiarato erroneamente:

 che il reato è estinto


 o che l’azione penale non poteva essere iniziata o proseguita;

il giudice di appello decide nel merito, rinnovando, se occorre, il dibattimento.


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Non vi è una questione di nullità; la rinnovazione è solo eventuale e la decisione nel merito del giudice di appello va
inquadrata nella categoria delle sentenze di riforma.

Nell categoria delle sentenze di riforma va ricompresa anche l’ipotesi ex co.7 art 604, che si verifica quando il giudice di appello
riconosce erronea la decisione del giudice di primo grado che ha respinto la domanda di oblazione.

Ne consegue l’accoglimento della domanda e la sospensione del dibattimento (per max 10 giorni), per il pagamento delle
somme dovute (in virtù dell’oblazione accolta).;

avvenuto il pagamento, il giudice pronuncia sentenza di proscioglimento.

Se non viene proposto ricorso per cassazione, copia della sentenza di conferma o di riforma in relazione alla pena, alle misure
di sicurezza o alle disposizioni civili, insieme agli atti del procedimento, è trasmessa senza ritardo al giudice di primo grado
competente per l’esecuzione;

altrimenti, (cioè se la sentenza è di riforma in relazione a punti diversi), è competente per l’esecuzione il giudice di appello.

L’art 605 co.2 stabilisce che le pronunce del giudice di appello sull’azione civile sono immediatamente esecutive (per la
sospensione dell’esecuzione in pendenza del ricorso per cassazione).

30. Il ricorso per cassazione. Premessa. TITOLO III (Art 606-628)


La disciplina del ricorso per cassazione è contenuta nel Titolo III (art 606-628).

Si tratta di un mezzo di impugnazione ordinario, col quale le parti che ne hanno interesse chiedono alla corte di cassazione:

 l’annullamento per motivi di diritto della decisione pronunciata, inappellabilmente o in grado di appello, da un giudice
di merito.

In determinati casi, la parte che ha diritto di appellare la sentenza di primo grado può proporre direttamente ricorso per
cassazione.

I motivi di diritto, tassativamente indicati ex lege (art 606) concernono:

- errores in iudicando  errori commessi dal giudice di merito nell’applicazione delle norme di diritto sostanziale;
- errores in procedendo  commessi nell’applicazione delle norme di diritto processuale.

Il ricorso per cassazione ha una struttura ibrida, perché, pur riconnettendosi al modello dell’azione di annullamento, la
decisione della corte, in alcuni casi, interviene nel merito, al di là dei motivi.

La corte di cassazione ha un ruolo di giudice di legittimità e svolge una funzione nomofilattica, avendo il compito di assicurare
“l’esatta osservanza e l’uniforme interpretazione della legge” e “l’unità del diritto oggettivo nazionale”.

Sul versante del ruolo di giudice di legittimità, il riconoscimento di un eventuale intervento nel merito avrebbe sottratto
poteri al giudice di rinvio, impedendo alla corte di esercitare la sua funzione nomofilattica.

Miravano a ricondurre la corte al suo ruolo di giudice di legittimità la disciplina:


 dei motivi di ricorso  che introduceva limiti alla deduzione delle parti,
 e quella dell’applicazione delle disposizioni più favorevoli  che limitava i poteri decisori della corte.

In ordine ai motivi, veniva in rilievo l’art 606 co.1 lett.e, dedicato al vizio di motivazione, secondo la cui versione originaria:

 la mancanza o la manifesta illogicità della motivazione medesima doveva risultare dal testo del provvedimento impugnato,

mentre l’art 619 co.3 (“Rettificazione di errori non determinanti l’annullamento”):

 escludeva (e ancora oggi esclude), poteri di merito nell’applicazione della legge più favorevole, anche sopravvenuta dopo
la proposizione del ricorso, praticabile dalla corte solo “quando non siano necessari nuovi accertamenti di fatto”.

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Sennonché, nel 2006 è stato modificato il testo dell’art 606 co.1 lett.d ed e; riguardo alla lett.e, la nuova formulazione
prevede:
o “mancanza, contraddittorietà o manifesta illogicità della motivazione, quando il vizio risulta dal testo del
provvedimento impugnato o da altri atti del processo specificamente indicati nei motivi di gravame”.

La delimitazione dei motivi di ricorso produceva anche un effetto deflativo. Allo stesso fine tendono alcuni meccanismi di
selezione dei ricorsi inammissibili (art 606 co.3) e la istituzione nel 2001 di una apposita sezione-filtro per l’esame
dell’inammissibilità (art 610 co.1).

Quanto ai meccanismi acceleratori, vanno menzionati:


- il procedimento in camera di consiglio,
- e il ricorso per saltum.

La manovra riformatrice attuata con la l.103/2017, nell’intento di semplificare le impugnazioni, ha ritoccato molteplici profilo
del ricorso per cassazione:

I. In primis, per arginare l’eccessivo numero di ricorsi, sono stati limitati i motivi per i quali il procuratore generale presso la
corte di appello può ricorrere per cassazione nel caso di conferma in secondo grado della sentenza di proscioglimento (c.d.
doppia conforme di proscioglimento);

II. è stata eliminata la possibilità per l’imputato di proporre personalmente ricorso;

III. sono stati stabiliti i motivi di ricorso per cassazione contro la sentenza di patteggiamento (tenuto conto che tali ricorsi sono
una minima parte e che vengono per lo più dichiarati inammissibili);

IV. è stata prevista una modalità semplificata per la declaratoria d’inammissibilità del ricorso in determinate ipotesi;

V. è stato introdotto un possibile aumento della somma da pagare a favore della cassa delle ammende, se il ricorso è
dichiarato inammissibile o rigettato.

Su un ulteriore versante, a fini acceleratori, si è allargato l’ambito dell’annullamento senza rinvio;

e per scongiurare il ricorso straordinario per errore di fatto, si è riconosciuto alla corte di cassazione il potere di rilevare tale
errore, di ufficio, entro 90 giorni dalla deliberazione.

Infine, con lo scopo di rafforzare l’uniformità e la stabilità nomofilattica dei principi di diritto enunciati dalle Sezioni Unite, è
stato interpolato l’art 618 (“Decisioni delle Sezioni Unite”).

Dal canto suo, il d.lgs. 11/2018, inserendo il nuovo co.2bis nell’art 606 ha limitato alla sola violazione di legge i motivi di ricorso
per cassazione contro le sentenze di appello pronunciate per reati di competenza del giudice di pace.

31. Ricorribilità oggettiva e soggetti legittimati. (Art 606-608)


L’art 606 co.2 (“Casi di ricorso”) stabilisce, quanto alla ricorribilità oggettiva che il ricorso per cassazione può essere proposto:

 Contro le sentenze pronunciate in grado di appello,


 O contro le sentenze inappellabili.

Va ricordato che, ex art 569 co.1, la parte legittimata ad appellare la sentenza di primo grado può proporre direttamente
ricorso per cassazione (c.d. ricorso immediato per cassazione o ricorso per saltum); dunque:

 Le sentenze inappellabili sono ricorribili per cassazione,


 le sentenze appellabili sono soggette al ricorso per saltum, nei modi e per motivi ex art 569 co.3, o possono essere
esperiti entrambi i due mezzi di impugnazione, cioè prima l’appello e poi il ricorso per cassazione contro la sentenza
emessa dal giudice di appello.

Quanto al ricorso per cassazione avverso le sentenze pronunciate dal giudice di pace, va considerato il d.lgs.274/2000.
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La l.103/2017 aveva delegato il Governo a “prevedere la ricorribilità per cassazione solo per violazione di legge delle sentenze
emesse in grado di appello nei procedimenti per i reati di competenza del giudice di pace”;

è stato inserito nel d.lgs.274/200 il nuovo art. 39bis e nel 2018 (d.lgs.11/2018) è stato immesso nell’art 606 il nuovo co.2bis,
ove si stabilisce che:

 contro le sentenze di appello pronunciate per i reati di competenza del giudice di pace il ricorso per cassazione, può
essere proposto solo per i motivi contemplati dal co.1 lett.a,b,c.

il criterio direttivo della delega non si riferiva alle sentenze emesse dal giudice di pace, bensì a quelle emesse nei procedimenti
per i reati di competenza di quest’ultimo.

Originariamente, si era inserito nel co.2bis anche le sentenze inappellabili non menzionate nel suddetto criterio direttivo;

da qui, un eccesso di delega, per cui solamente nel giudizio ordinario le sentenze inappellabili in questione avrebbero
incontrato limiti al ricorso, proponibile per tutti i motivi ex art 606 co.1, se le medesime sentenze fossero emesse nel giudizio
davanti al giudice di pace, posto che l’art 39bis ex d.lgs.274/2000 prevede la limitazione al ricorso solo per le sentenze
pronunciate in camera di appello.

Passando alla ricorribilità soggettiva, gli art 607 e 608 si riferiscono, rispettivamente, al “ricorso dell’imputato” e “del P.M.”

 Responsabile civile e persona civilmente obbligata per la pena pecuniaria impugnano col mezzo che la legge
attribuisce all’imputato;
 mentre parte civile e querelante condannato alle spese e ai danni impugnano senza essere vincolati al mezzo
attribuito al P.M.

Quanto alle sentenze di non luogo a procedere, oggi nuovamente appellabili, la persona offesa può proporre ricorso per
cassazione nei soli casi di nullità ex art 419 co.7 (“Atti introduttivi”).

Ex art 607 co.1, l’imputato può ricorrere per cassazione avverso la sentenza di condanna o di proscioglimento o contro la
sentenza di non luogo a procedere.

Sono ricomprese, nella dizione riferita alle sentenze di condanna/proscioglimento sia quelle appellabili che inappellabili.

Quanto alle sentenze inappellabili di non luogo a procedere, si tratta di quelle con cui è stato dichiarato che il fatto non
sussiste o che l’imputato non l’ha commesso;

l’imputato può ricorrere per cassazione anche contro la sentenza di non luogo a procedere pronunciata in grado di appello
(c.d. doppia conforme di non luogo a procedere), ma solo per i motivi ex art 606 co.1 lett.a,b,c, cioè per violazione di legge.

Infine, l’imputato può ricorrere contro le sole disposizioni della sentenza che riguardano le spese processuali; ma non si
comprende il motivo per cui non venga menzionato il ricorso relativo ai soli interessi civili.

Per quando attiene al P.M., il procuratore generale presso la corte di appello può ricorrere per cassazione contro ogni sentenza
di condanna o di proscioglimento pronunciata in grado di appello o inappellabile (art 608 co.1).

Tuttavia, se il giudice di appello pronuncia sentenza di conferma di quella di proscioglimento (c.d. doppia conforme di
proscioglimento), il ricorso può essere proposto solo per i motivi elencati nell’art 606 co.1 lett.a,b,c, cioè per violazione di
legge.

Il procuratore della Repubblica presso il tribunale può ricorrere contro ogni sentenza inappellabile, di condanna o di
proscioglimento, pronunciata dalla corte d’assise, dal tribunale o dal G.I.P. (art 608 co.2).

Con riguardo alle sentenze di non luogo a procedere, oggi di nuovo appellabili, il procuratore generale presso la corte
d’appello può ricorrere contro la sentenza di non luogo a procedere pronunciata in secondo grado (c.d. doppia conforme di
non luogo a procedere) solo per i motivi ex art 606 co.1 lett.a,b,c.

Ex art 570 co.2 (“Impugnazione del P.M.”) emerge che può proporre ricorso per cassazione anche il rappresentante del P.M. che
ha presentato le conclusioni in secondo grado, o trattandosi di sentenza inappellabile o di ricorso per saltum contro una
sentenza appellabile, in primo grado.
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Il co.3 art 570 prevede solo per il rappresentante del P.M. che ha presentato le conclusioni in primo grado, e ne faccia richiesta
nel grado di appello, la possibilità di partecipare al successivo grado di giudizio quale sostituto del procuratore generale presso
la corte di appello:

- dunque, davanti alla corte di cassazione le funzioni del P.M. saranno svolte solo dal procuratore generale presso la
corte medesima.

La giurisprudenza ha escluso che, nell’ipotesi ex art 570 co.3, il rappresentante del P.M. possa proporre ricorso per
cassazione, perché la partecipazione del P.M. appellante al giudizio di appello ha carattere eccezionale e non implica il potere
di impugnare la sentenza di secondo grado.

Sebbene gli art 607 e 608 facciano riferimento alle sole sentenze di condanna e di proscioglimento, le Sezioni Unite hanno
ritenuto ammissibile il ricorso per cassazione anche avverso la sentenza con la quale il giudice di appello abbia dichiarato la
nullità di quella di primo grado ex art 604 co.4, sempre che la parte proponente abbia un interesse concreto e attuale.

Sul versante costituzionale, il ricorso per cassazione è previsto per assicurare la realizzazione del “giusto processo”, e dunque
sarebbe arbitrario distinguere, ai fini della ricorribilità delle sentenze, tra violazioni della legge sostanziale e violazioni della
legge processuale.

32. Motivi di ricorso e cognizione della corte di cassazione. (Art 606 co.1)
Il ricorso per cassazione può essere proposto per i seguenti motivi, tassativamente indicati nell’art 606 co.1:

a) Esercizio da parte del giudice di una potestà riservata dalla legge a organi legislativi o amministrativi o non consentita
ai pubblici poteri.

Ricondotta all’”eccesso” o allo “straripamento” di potere, la situazione si verifica quando il giudice, ad esempio:
- crea per analogia una norma penale incriminatrice, condannando per un fatto non previsto dalla legge come reato,
- revoca una licenza comunale,
- annulla un provvedimento del prefetto,
- condanna un soggetto immune o emette un provvedimento di competenza di un giudice straniero.

b) Inosservanza o erronea applicazione della legge penale o di altre norme giuridiche, di cui si deve tener conto
nell’applicazione della legge penale.

Le situazioni ipotizzate di errores in iudicando si verificano nei casi di mancata o inesatta applicazione della legge penale
sostanziale o di altre norme giuridiche extrapenali cui fa riferimento la norma penale medesima e che, quindi, valgono ad
integrare il precetto.

 Ad esempio, è esperibile ricorso avverso una sentenza di condanna per falso in atto pubblico o per falso in testamento, al
fine di denunciare l’erronea applicazione delle norme civili che definiscono l’atto pubblico o il testamento.

c) Inosservanza delle norme processuali penali stabilite a pena di nullità, di inutilizzabilità, di inammissibilità o di
decadenza.

Dunque, non si può ricorrere per cassazione deducendo l’inosservanza di norme processuali penali che diano luogo a una
semplice irregolarità.

La sussistenza di un errores in procedendo configura il presupposto per l’impugnazione, senza che sia necessario verificare se
abbia dato luogo a un error in iudicando, cioè a un difetto di motivazione.

d) Mancata assunzione di una prova decisiva, quando la parte ne ha fatto richiesta anche nel corso dell’istruzione
dibattimentale limitatamente ai casi previsti dall’art 495 co.2.

Il testo della lett.d è stato così sostituito nel 2006, garantendo un ampliamento della possibilità di ricorrere per cassazione,
rispetto alla versione previgente, che limitava il ricorso per mancata assunzione di una prova decisiva alla sola ipotesi in cui la
parte ne avesse fatto richiesta ex art 495 co.2.

La richiesta di controprova legittimante il ricorso si colloca non solo al momento delle richieste di prova ma anche nel corso
dell’istruzione dibattimentale.
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Rimanendo la doglianza ancorata alla dimostrazione della decisività della prova non assunta, mantengono valore le
indicazioni ricavabili dalla Relazione al progetto preliminare e dalle elaborazioni di giurisprudenza e dottrina riferite alla
versione precedente della lett.d.

Si precisava, che la mancata assunzione costituisce autonomo error in procedendo, rilevante solo quando la prova,
“confrontata con le ragioni addotte a sostegno della sentenza”, risulti decisiva, nel senso che avrebbe potuto determinare
una decisione diversa;

dunque, la valutazione di decisività deve essere compiuta accertando se i fatti indicati dalla parte nella richiesta di prova
siano tali da inficiare le argomentazioni poste a base della decisione di merito.

Secondo la giurisprudenza, orientata in tal senso, ma di un altro indirizzo, il motivo di ricorso in oggetto imporrebbe alla corte
di cassazione di riferirsi all’imputazione confrontando l’ipotesi ricostruttiva del fatto in essa contenuta e il tema di prova per
la cui mancata assunzione ricorre, al fine di valutare se la prova fosse o no decisiva con riguardo al citato parametro.

e) Mancanza, contraddittorietà o manifesta illogicità della motivazione, quando il vizio risulta dal testo del
provvedimento impugnato o da altri atti del processo specificamente indicati nei motivi di gravame.

Tale testo è la versione sostituita nel 2006 dell’originale lett.e, attraverso cui il legislatore aveva inteso disciplinare il controllo
sui vizi di motivazione in modo da evitare intromissioni della corte di cassazione nella sfera di giudizio appartenente al
giudice di merito.

Art 606 co.1 lett.e (in origine):


o “la mancanza o manifesta illogicità della motivazione medesima doveva risultare dal testo del provvedimento
impugnato”

Pur mantenendo il sindacato della corte di cassazione sul vizio di motivazione, si ritenne opportuno contenerlo, per evitare
che il controllo si esercitasse sul contenuto della decisione.

La prevista possibilità di indicare gli atti del processo da cui risulti il vizio di motivazione aveva subito suscitato giustificate
preoccupazioni di un insostenibile aumento del carico di lavoro della Suprema Corte.

Tuttavia, l’appellabilità delle sentenze di proscioglimento è stata ripristinata dalla Corte costituzionale e nella giurisprudenza
di legittimità si è ormai consolidato un orientamento interpretativo, attraverso l’individuazione di talune condizioni relative
agli “altri atti del processo”.

Venendo ai concetti di motivazione mancante o manifestatamente illogica, valgono ancora le elaborazioni relative alla versione
previgente dell’art 606 co.1 lett.e.

Così, per la motivazione mancante, si ha riguardo ad un’effettiva omissione, da ravvisare non solo nella totale mancanza della
parte espositiva della decisione, ma anche nella mancanza di singoli momenti esplicativi.

Alla motivazione materialmente mancante, la giurisprudenza assimila la c.d. motivazione apparente, individuabile, ad
esempio, nel mero utilizzo di un modulo a stampa, privo delle opportune integrazioni.

Profili delineati connotano la c.d. motivazione per relationem: la giurisprudenza l’ammette purché il provvedimento a cui si
rinvia sia conosciuto/conoscibile dalle parti e la motivazione per relationem non si riduca ad un’accettazione acritica della
valutazione là contenuta.

Circa la motivazione manifestamente illogica, si distingue fra illogicità della decisione di merito:

 Della giustificazione interna  incompatibilità fra premesse e conclusioni;


 E della giustificazione esterna  impiego di massime di esperienza razionalmente non plausibili.

Le Sezioni Unite si sono espresse nel senso che compito del giudice di legittimità non è sovrapporre la propria valutazione a
quella compiuta dai giudici di merito, bensì stabilire se questi ultimi abbiano esaminato tutti gli elementi a loro disposizione, ne
abbiano fornito una corretta interpretazione e abbiano esattamente applicato le regole della logica, le massime di comune
esperienza e i criteri legali di valutazione delle prove, in modo da fornire la giustificazione razionale della scelta di determinate
conclusioni a preferenza di altre.

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Circa il carattere manifesto della illogicità, hanno precisato che quest’ultima deve essere evidente, dovendo il sindacato di
legittimità essere limitato a rilievi di carattere macroscopico;

la corte pronuncerà annullamento della decisione che abbia applicato una massima di esperienza contraria al “senso
comune” e a “ogni plausibile opinabilità di apprezzamento”.

Quanto alla contraddittorietà (inserita ex novo), va rapportata al contrasto fra il discorso giustificativo condotto dal giudice di
merito nella motivazione e le risultanze probatorie acquisite legittimamente al processo.

I motivi di ricorso per cassazione enunciati nella lett.d. e nella lett.e ex art 606 non valgono come motivi di ricorso immediato
per cassazione e il ricorso eventualmente proposto si converte in appello (art 569 co.3).

Ciò si spiega, perché, qualora fosse ammesso un ricorso per saltum per i suddetti motivi, la corte di cassazione,
nell’accoglierlo, dovrebbe annullare con rinvio, e il giudice di rinvio è il giudice competente per l’appello, fuori dei casi in cui
nel giudizio di appello si sarebbe dovuta annullare la sentenza di primo grado:

il “normale” rinvio al giudice di appello svuoterebbe le ragioni di economia processuale che informano l’istituto del ricorso per
saltum.

Nel caso di doppia conforme di proscioglimento il procuratore generale presso la corte di appello può ricorrere solo per i motivi
ex art 606 co.1 lett.a,b,c.

A sua volta, il nuovo co.2bis art 606 (inserito nel 2018), stabilisce che il ricorso contro le sentenze di appello pronunciate per i
reati di competenza del giudice di pace può essere proposto solo per i motivi ex art 606 co.1 lett.a,b,c.

La l.103/2017 ha poi tipizzato i motivi per i quali il P.M. e l’imputato possono proporre ricorso per cassazione contro la
sentenza di patteggiamento, cioè quelli “attinenti all’espressione della volontà dell’imputato, al difetto di correlazione tra la
richiesta e la sentenza, all’erronea qualificazione giuridica del fatto e all’illegalità della pena e della misura di sicurezza”;

il legislatore ha deciso di inibire il ricorso per alcuni casi di violazione di legge (come la violazione di norme processuali che
abbiano causato una nullità assoluta o una inutilizzabilità patologica) o per vizio di motivazione, con problemi di compatibilità
rispetto all’art 111 co.7 Cost, subito evidenziati in dottrina.

Il ricorso attribuisce alla corte di cassazione la cognizione del procedimento limitatamente ai motivi proposti (art 609 co.1).

Si coglie, dunque, una notevole differenza rispetto all’appello, dove il giudice decide su tutte le questioni astrattamente
ipotizzabili in ordine al punto impugnato.

In altre parole:
 Nell’appello  oggetto di giudizio sono i punti della decisione i cui motivi si riferiscono;
 Nella cassazione  oggetto del giudizio sono proprio i motivi prospettati, che potranno essere accolti o no dalla
corte medesima.

Ex art 609 co.2 (“Cognizione della corte di cassazione”), la corte decide anche:

 le questioni rilevabili d’ufficio in ogni stato e grado del processo


 e quelle che non sarebbe stato possibile dedurre in grado di appello.

Circa la prima categoria, si tratta delle stesse questioni di cui parlammo, esaminando le eccezioni al principio del tantum
devolutum quantum appellatum.

La corte di cassazione potrebbe rilevare l’errore di diritto relativo alla tenuità del fatto.

Circa la seconda categoria, viene in rilievo la deduzione per la prima volta, come motivo di ricorso, della continuazione rispetto a
un fatto già oggetto di giudicato, quando tale giudicato si sia formato dopo la decisione di secondo grado.

Vanno considerati, al di là di tale questione, i vizi verificatesi nel giudizio di appello nonché le situazioni nuove, intervenute
dopo la conclusione del giudizio di appello.

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Va, infine, rammentato che il ricorso è inammissibile (art 606 co.3) se è proposto per motivi:

- diversi da quelli consentiti per legge


- o manifestamente infondati
- o per violazione di legge non dedotte con i motivi di appello, fuori dei casi di ricorso per saltum e dei casi ex art 609
co.2.

33. Problematiche relative all’art 606 co.1 lett.e.


La disciplina dei vizi di motivazione risultante dalla versione originaria dell’art 606 co.1 lett.e aveva suscitato vari ordini di
perplessità.

Art 606 co.1 lett.e (in origine)


“la mancanza o manifesta illogicità della motivazione medesima doveva risultare dal testo del provvedimento impugnato”

I rilievi critici erano stati formulati circa la scelta di subordinare il sindacato sulla motivazione alla regola che il vizio risultasse dal
testo del provvedimento impugnato.

Il punto nodale consiste nello stabilire se la critica del provvedimento vada condotta:

 isolando dalla vicenda processuale di cui ha costituito la conclusione


 o, viceversa, ad essa ricollegandolo, sia pure nell’ambito dei vizi lamentati dal ricorrente.

Poiché la corte non poteva operare un raffronto con gli atti processuali, dovendo il vizio di motivazione risultare dal testo del
provvedimento impugnato, si era posto in luce che sarebbero rimaste prive di rimedio alcune situazioni:

a) la situazione in cui il giudice nella sentenza di condanna tenga conto di una prova che non risulta dagli atti del
processo (travisamento degli atti per invenzione);

b) la situazione in cui il giudice nella sentenza di condanna abbia travisato una prova, sostenendo che vada intesa, ad
esempio, in un senso, mentre dagli atti risulta che va in senso opposto (travisamento delle risultanze probatorie);

c) la situazione in cui il giudice nella sentenza di condanna ignori una prova orientata in senso decisivo a favore della
difesa (travisamento degli atti per omissione).

a) Nella prima situazione, si sarebbe potuto rimediare all’impossibilità di ricorrere ex lett.e esperendo il ricorso ex art 606
co.1 lett.c, per inosservanza di una norma processuale stabilita a pena di inutilizzabilità;

soccorreva l’art 526 co.1 secondo cui “il giudice non può utilizzare ai fini della deliberazione prove diverse da quelle
legittimamente acquisite nel dibattimento”, disposizione violata quando il giudice utilizza una prova che non risulta dagli atti
processuali

b) Nella seconda ipotesi, di travisamento delle risultanze probatorie, solo a prezzo di una forzatura si sarebbe potuto ricorrere
ai sensi della lett.c, per inosservanza di una norma processuale stabilita a pena di inutilizzabilità, sostenendo che la prova
travisata è diversa da quella legittimamente acquisita nel dibattimento, con violazione della regola ex art 526 co.1.

c) Priva di rimedio, invece, sarebbe rimasta la terza situazione, nella quale il giudice non avesse valutato una prova decisiva a
favore dell’imputato, non potendo servire allo scopo il motivo di ricorso per cassazione previsto ex art 606 co.1 lett.d,
riferito alla “mancata assunzione” di una controprova decisiva e non alla mancata valutazione.

In conclusione, chi fosse stato condannato ingiustamente a causa dell’omessa valutazione di una prova decisiva a suo favore,
avrebbe potuto avvalersi delle chances offerte dalla revisione, sulla base di un’interpretazione estensiva del concetto di
“nuova” prova, scoperta o sopravvenuta dopo la condanna, emergente dall’art 630 lett.c.

Le conseguenze apparivano particolarmente gravi nelle ipotesi di sentenza inappellabile o di sentenza di condanna emessa
per la prima volta in appello su impugnazione del P.M. avverso la sentenza di assoluzione pronunciata in primo grado nonché
quando la prova non valutata fosse stata assunta nel giudizio di appello in sede di rinnovazione dell’istruzione
dibattimentale;

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infatti, nelle predette ipotesi non si sarebbe avuto un riesame nel merito e i limiti al sindacato cassazionale avrebbero fatto
sorgere problemi di legittimità costituzionale sotto il profilo dell’art 24 co.2 e art 111 co.7 Cost.

Con riguardo al travisamento degli atti per omissione, le Sezioni Unite avevano sottolineato che il ricorrente doveva dimostrare
l’avvenuta “rappresentazione, al giudice della precedente fase di impugnazione, degli elementi dai quali quest’ultimo avrebbe
dovuto ravvisare il detto travisamento”, in modo che la corte di cassazione potesse verificare dal testo del provvedimento
impugnato, se e come quegli elementi fossero stati valutati;

in altre parole, la corte, attraverso l’esame dei motivi di appello, avrebbe potuto stabilire se la decisione impugnata avesse
preso in esame o no il travisamento.

Una tale interpretazione, però, non risolveva tutte le varie situazioni plausibili.

Con riguardo all’evenienza di sentenza di condanna emessa per la prima volta in appello, le Sezioni unite avevano affrontato la
questione se, e in quali limiti, l’imputato, assolto in primo grado e condannato in appello, potesse dedurre mediante ricorso per
cassazione la mancanza o la manifesta illogicità della motivazione della sentenza di condanna, sull’assunto che entrambe le
sentenze avrebbero omesso di valutare decisive risultanze probatorie;

secondo le Sezioni, la corte doveva e poteva “fare riferimento, come tertium comparationis per lo scrutinio di fedeltà al processo
del testo del provvedimento impugnato, non solo alla sentenza assolutoria di primo grado, ma anche alle memorie e agli atti”
con i quali la difesa avesse prospettato al giudice di appello l’avvenuta acquisizione dibattimentale di altre e diverse prove,
favorevoli e decisive, ignorate dal giudice di primo grado.

Dunque, la mancata risposta del giudice di appello alle prospettazioni della difesa circa la portata di decisive risultanze
probatorie avrebbe inficiato “la completezza e la coerenza logica” della sentenza di condanna, rendendola suscettibile di
annullamento.

Il tentativo delle Sezioni unite era apparso non del tutto convincente:

 Sia perché nel sistema non è previsto alcun obbligo per la difesa di contestare il gravame del P.M. con memorie scritte,

 Sia perché neppure l’inerzia della difesa varrebbe a sanare il vizio di motivazione insito in una sentenza di appello che
avesse omesso di valutare una prova decisiva a favore dell’imputato,

 Sia perché si considerava insufficiente il mero raffronto fra sentenza di appello e istanze della difesa, senza cognizione
degli atti processuali.

In questo complesso quadro è venuta ad innestare la riforma del 2006, che:


 da un lato, riduceva l’ambito di appellabilità delle sentenze di proscioglimento,
 e dall’altro, rivisitava l’art 606 co.1 lett.e.

Dopo le sentenze costituzionali n.26 e 320 del 2007, che avevano ripristinato l’appello del P.M. avverso le sentenze di
proscioglimento pronunciate in sede dibattimentale o nel giudizio abbreviato, il ribaltamento in secondo grado della
pronuncia proscioglitiva emessa in primo grado poteva di nuovo verificarsi;

da tal visuale, l’imputato si trovava in una posizione più tutelata di quella anteriore al 2006, potendo usufruire
dell’allargamento dell’ambito operativo dell’art 606 co.1 lett.e (allargamento non toccato dalle riforme del 2017 e 2018).

Inoltre, al fine di non pregiudicare l’organizzazione del carico di lavoro della corte di cassazione, l’orientamento
giurisprudenziale prevalente ha in un primo momento delineato talune condizioni relative agli “altri atti del processo”.

In primis, come onore ulteriore rispetto a quello previsto ex art 581 lett.c (“Forma dell’impugnazione”), il ricorrente deve
individuare in moto “inequivoco e specifico” gli atti stessi in maniera da non costringere la corte a una “lettura totale”;

infatti, dopo il 2015, tale onere è soddisfatto mediante l’indicazione specifica degli atti insieme agli elementi utili alla loro
reperibilità nel fascicolo, in modo da renderli più facilmente consultabili, evitando la loro completa trascrizione nel ricorso
stesso.

Oggi va considerato il nuovo art 165bis disp.att. che al co.2, nel prevedere gli adempimenti della cancelleria del giudice che
ha emesso il provvedimento impugnato in caso di ricorso per cassazione, contempla un eventuale separato fascicolo, allegato
al ricorso, ove è inserita copia degli atti specificamente indicati dal ricorrente ex art 606 co.1 lett.e.
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Inoltre, il ricorrente deve indicare il dato di fatto che emerge dal relativo atto e che appare incompatibile con la ricostruzione
effettuata dalla sentenza;

Segue, poi, il fatto che sia tenuto a chiarire le ragioni per cui l’atto compromette l’intero ragionamento svolto dal giudice,
introducendo al suo interno profili di “radicale incompatibilità”, tali da vanificare o da rendere incongrua o contraddittoria la
motivazione.

La giurisprudenza ritiene censurabile mediante ricorso per cassazione il travisamento degli atti per invenzione o per omissione,
mentre continua a negare che ci si possa dolere del travisamento delle risultanze probatorie, essendo precluso alla corte di
cassazione di sovrapporre la propria valutazione di dette risultanze a quella compiuta nei precedenti gradi di merito.

34. Modalità di presentazione del ricorso e profili del diritto di difesa. (Art 613)
L’atto di ricorso, le memorie e i motivi nuovi (che possono essere presentati fino a 15 giorni prima dell’udienza) devono essere
sottoscritti, a pena d’inammissibilità, da difensori iscritti nell’albo speciale delle corte di cassazione.

La regola vale anche per il difensore di ufficio.

Il difensore è nominato per la proposizione del ricorso o successivamente:


in mancanza di nomina, è quello che ha assistito la parte nell’ultimo giudizio, purché iscritto nell’albo speciale della corte di
cassazione.

Secondo le Sezioni Unite, è ammissibile il ricorso proposto da un avvocato iscritto nell’albo speciale, nominato quale sostituto
dal difensore dell’imputato non cassazionista; la figura del sostituto si è trasformata, negli anni, in una sorta di collaboratore del
difensore sostituito.

In base al decreto del Ministro della giustizia 14/09/2017, essendo stata accertata la funzionalità dei servizi di comunicazione
presso la Suprema Corte, nel processo penale di legittimità trovano applicazione le notificazioni telematiche ai difensori.

Il co.1 art 613 (“Difensori”) è stato modificato dalla l.103/2017, la quale ha soppresso la clausola di salvezza iniziale (“Salvo che
la parte non vi provveda personalmente”), riferibile, secondo le Sezioni unite, solo all’imputato, perché:

 alla persona offesa non è attribuibile la qualità di parte, e le parti diverse dall’imputato non possono stare in giudizio
se non con il ministero di un difensore munito di procura speciale (art 100).

Tale soppressione del 2017 non viola l’art 6 c.e.d.u. co.3, là dove statuisce che ogni persona accusata ha diritto di “difendersi
personalmente o di avere un difensore di sua scelta”, in quanto la previsione concerne la mera possibilità per l’imputato di
autodifendersi, ma non gli attribuisce il diritto di pretendere di difendersi da solo.

Infatti, nel nostro ordinamento, dove la difesa tecnica è obbligatoria, pare legittimo riservare la proposizione del ricorso solo al
difensore cassazionista sia per l’elevato tecnicismo tipico di tale mezzo d’impugnazione sia considerando che nel giudizio davanti
alla Suprema Corte l’imputato è rappresentato dal difensore e può comparire solo per suo mezzo senza potere di esercitare la
propria autodifesa.

Viceversa, l’innovazione produce ricadute positive sulla mole di lavoro della corte, dato che i ricorsi proposti personalmente
dall’imputato non erano pochi, e venivano, puntualmente dichiarati inammissibili o rigettati;

dunque, per assicurare in sede di legittimità una difesa tecnica effettiva, sono necessari avvocati cassazionisti altamente
preparati.

Nell’art 571 co.1 (“Impugnazione dell’imputato”) presenta una clausola di salvezza (“Salvo quanto previsto per il ricorso di
cassazione dall’art 613 co.1”) che richiamata all’art su descritto, per cui è opportuno determinare:

 se il combinato disposto degli art 571 co.1 e 613 co.1 sia applicabile a tutti i casi di ricorso per cassazione già
consentiti in forma personale e previsti dal codice o da leggi speciali.

Si tratta di chiarire se le disposizioni particolari in cui ancora si stabilisce che l’imputato possa ricorrere personalmente siano
attratte nella regola generale d’inammissibilità o se vadano considerate deroghe.

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Tra le sezioni singole si è verificato un contrasto interpretativo, la cui risoluzione è stata rimessa alle Sezioni Unite;

I. Per un primo indirizzo, le disposizioni che fanno riferimento alla proposizione personale del ricorso da parte
dell’imputato sarebbero state tacitamente abrogate;

infatti, l’art 613 co.1 si configurerebbe come “norma di esclusione, espressa e generalizzata, della sottoscrizione personale
del ricorso per cassazione per l’imputato e i soggetti al medesimo legislativamente equiparati”.

I. Per un secondo indirizzo, con riguardo al ricorso per cassazione in materia di libertà personale ex art 311 sarebbe
ammissibile la presentazione personale da parte dell’imputato.

La sopravvivenza della ricorribilità personale si spiegherebbe con le peculiarità del procedimento cautelare, che ha cadenze
temporali rapide, con la conseguenza che imporre all’imputato di dotarsi di un difensore iscritto all’albo, vietandogli la
possibilità di presentare personalmente ricorso, comprometterebbe il suo diritto di difesa.
Le Sezioni Unite hanno affermato che il ricorso per cassazione avverso qualsiasi tipo di provvedimento non può essere
proposto personalmente dalla parte (imputato, indagato e figure assimilate), ma deve essere sottoscritto, a pena
d’inammissibilità, da difensori iscritti nell’albo speciale.

Ne deriva che, a parere delle S.U., non si può parlare di abrogazione tacita delle norme che continuano a riferirsi alla
possibilità di ricorrere per l’imputato;

infatti, egli mantiene la titolarità del diritto di ricorrere per cassazione in via autonoma rispetto al proprio difensore,
sebbene solo quest’ultimo (ex art 613 co.1), possa proporre il ricorso, purché iscritto nell’albo speciale.

Inoltre, le Sezioni Unite hanno negato che la nuova disciplina limiti il pieno esercizio del diritto d’impugnazione in materia
cautelare, sottolineando che, ferma la titolarità del diritto al controllo di legittimità in capo all’imputato, tale diritto può venire
esercitato “in tempi rapidi, ma ragionevolmente compatibili con l’esercizio del diritto di difesa”, tramite l’ausilio di un difensore
cassazionista.

Nell’ipotesi di ricorso immediato per cassazione ad opera di una delle parti, si ha conversione del ricorso in appello se la
sentenza è appellata da una delle parti, a meno che, entro 15 giorni dalla notificazione del ricorso, le parti che hanno
proposto appello dichiarino tutte di rinunciarvi per proporre direttamente ricorso, nel qual caso è l’appello a convertirsi in
ricorso.

Davanti alla corte di cassazione le parti sono rappresentate dai difensori (art 613 co.1).

Per tutti gli atti che si compiono nel procedimento, il domicilio delle parti è presso i rispettivi difensori (co.2), ma gli avvisi che
devono essere inviati a questi ultimi sono notificati anche all’imputato che non sia assistito da difensore di fiducia (co.4),
ipotesi in cui il presidente del collegio provvede ex art 97 alla designazione di un difensore di ufficio (co.3);

mancando il rapporto fiduciario col difensore, l’imputato è così posto in grado di conoscere l’evolversi della vicenda processuale.

Se l’imputato non conosce la lingua italiana dovrebbe venir fornita la traduzione scritta di tali avvisi.

Quando il ricorso concerne gli interessi civili, il presidente, su richiesta, nomina un difensore secondo le norme sul patrocinio dei
non abbienti (co.5): ma tal previsione va ora coordinata con la normativa specifica in base alla quale la nomina del difensore
viene effettuata da chi è stato ammesso al gratuito patrocinio.

35. Atti preliminari al giudizio. (Art 610)


Una novità rilevante è dovuta alla l.128/2001 che ha introdotto una sezione-filtro per l’esame dell’inammissibilità dei ricorsi.

È stata istituita la settima sezione penale. Ex art 610 co.1 (“Atti preliminari”) il presidente della corte, se rileva una causa
d’inammissibilità dei ricorsi, li assegna a tale “apposita sezione”, il cui presidente fissa la data per la decisione in camera di
consiglio.

La cancelleria dà comunicazione del deposito degli atti e della data dell’udienza al procuratore generale e ai difensori nel
termine di cui al co.5, cioè almeno 30 giorni prima di tale data.

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L’avviso contiene “l’enunciazione della causa di inammissibilità con riferimento al contenuto dei motivi di ricorso”;

l’inciso finale dell’art 610 co.1 (aggiunto nel 2017) rafforza il contraddittorio cartolare, in quanto i ricorrenti, usufruendo di una
più compita informazione, potranno predisporre una memoria adeguata.

A tal procedimento si applica l’art 611 co.1 e, ove l’ammissibilità non venga dichiarata, gli atti sono rimessi al presidente della
corte, anche se la settima sezione potrebbe emettere sentenze di estinzione del reato per morte del reo, per remissione di
querela e per prescrizione del reato nel caso in cui manchi la costituzione di parte civile.

Per esigenze di coordinamento con l’istituzione della settima sezione, il legislatore del 2001 è ulteriormente intervenuto sull’art
610, abrogando il co.4 e sopprimendo il secondo periodo co.5, entrambi relativi alla eventuale richiesta della dichiarazione
d’inammissibilità del ricorso da parte del procuratore generale prevista dalla precedente disciplina.

Alla regola di potenziamento del contraddittorio cartolare, funge da contrappeso, in base al nuovo co.5bis art 610 (inserito
nel 2017), la declaratoria d’inammissibilità “senza formalità di procedura”, nei casi previsti ex art 591 co.1 lett:
a) limitatamente al difetto di legittimazione,
b) provvedimento non impugnabile,
c) esclusa l’inosservanza delle disposizioni dell’art 581 (dunque, inosservanza delle disposizioni degli art 582,583,585 e 586)
d) rinuncia all’impugnazione.

La corte dichiara l’inammissibilità, allo stesso modo, contro la sentenza di patteggiamento e contro la sentenza relativa al
concordato anche con rinuncia ai motivi di appello ex art 599bis.

Il provvedimento d’inammissibilità è ricorribile in via straordinaria attraverso lo strumento ex art 625bis (“Ricorso straordinario
per errore materiale o di fatto”).

La declaratoria semplificata delle inammissibilità formali era da tempo negli auspici della corte di cassazione, preoccupata
dell’alto numero di declaratorie d’inammissibilità ad opera della sezione-filtro e dal conseguente aumento della durata media
della definizione del ricorso.

Ciò vale anche per i ricorsi avverso le sentenze di patteggiamento e concordato ex art 599bis, in quanto tali ricorsi sono
destinati a sfociare quasi sempre nell’esito dell’inammissibilità.

Come emerge dalle Linee guida elaborate dalla corte di cassazione, il provvedimento dichiarativo dell’inammissibilità de plano
verrà adottato “da appositi collegi delle sezioni ordinarie, con le forme e le modalità organizzative da stabilire con specifiche
disposizioni tabellari”; dunque la sezione-filtro verrà alleggerita del carico di lavoro.

L’introduzione della sezione-filtro mirava a centralizzare un’attività fino ad allora svolta dalle singole sezioni, recuperando in
celerità ed evitando sperequazioni dovute a orientamenti difformi tra le sezioni stesse;

anche il c.d. “spoglio” preliminare dei fascicoli avrebbe dovuto essere centralizzato presso il presidente della corte.

Nella prassi, tale “spoglio” viene effettua su delega del presidente della corte, presso le singole sezioni:

 qualora sia rilevata una causa d’inammissibilità, il ricorso è trasmesso alla sezione-filtro, la quale:
- o dichiara l’inammissibilità
- o restituisce il ricorso al presidente della sezione di provenienza.

La l.128/2001 ha inserito nell’art 610 il co.1bis, ove si stabilisce che “il presidente della corte di cassazione provvede
all’assegnazione dei ricorsi alle singole sezioni secondo i criteri stabiliti dalla legge di ordinamento giudiziario”.

Su richiesta del procuratore generale, dei difensori delle parti o anche d’ufficio, il presidente assegna il ricorso alle sezioni unite
quando le questioni proposte sono di speciale importanza o quando occorre dirimere contrasti insorti tra le decisioni delle
singole sezioni (art 610 co.2).

Le Sezioni Unite sono composte da magistrati di tutte le sezioni penali e il collegio è presieduto dal presidente della corte o, su
sua delega, dal presidente aggiunto o da un presidente di sezione.

Il provvedimento di assegnazione produce conseguenze di notevole rilievo nel caso di richiesta di rimessione del process:

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 da un lato, l’art 48 co.3 stabilisce che “l’avvenuta assegnazione della richiesta di rimessione alle sezioni unite o a sezione
diversa dall’apposita” sezione-filtro di cui all’art 610 co.1 “è immediatamente comunicata al giudice che procede”;

 dall’altro, l’art 47 prevede al co.2, che il giudice, ricevuta la suddetta comunicazione “deve comunque sospendere il
processo prima dello svolgimento delle conclusioni e della discussione” e che “non possono essere pronunciati il decreto
che dispone il giudizio o la sentenza”.

Il presidente della corte (o un suo delegato), se si tratta delle S.U., o il presidente della sezione fissa la data per la trattazione del
ricorso in udienza pubblica o in camera di consiglio e designa il relatore, disponendo anche la riunione dei giudizi nei casi
previsti dall’art 17 e la separazione dei medesimi quando giovi alla speditezza della decisione (art 610 co.3).

Almeno 30 giorni prima dell’udienza (co.5 art 610), la cancelleria ne dà avviso al procuratore generale ed ai difensori, indicando
se il ricorso sarà deciso a seguito di udienza pubblica o in camera di consiglio.

Nei casi di urgenza, le parti possono chiedere la riduzione dei termini stabiliti per il giudizio di cassazione:

 se accoglie la richiesta, il presidente dispone con decreto la riduzione dei termini in misura non superiore ad 1/3.

Del provvedimento è fatta menzione negli avvisi, ai quali le parti possono rinunciare con l’atto di ricorso o anche in seguito.

Il ricorso può essere deciso dalle sezioni unite anche su iniziativa della singola sezione cui il ricorso è stato assegnato dal
presidente della corte;
ex art 618 co.1 (“Decisioni delle sezioni unite”) se una sezione rileva che la questione di diritto sottoposta al suo esame ha
dato luogo, o può dar luogo, a un contrasto giurisprudenziale, su richiesta, può con ordinanza rimettere la questione alle
sezioni unite.

In nessun caso può essere restituito il ricorso che, dopo una decisione delle S.U., è stato rimesso da una sezione della corte
con l’enunciazione delle ragioni che possono dar luogo a un nuovo contrasto giurisprudenziale.

La l.103/2017, per potenziare l’uniformità e la stabilità nomofilattica dei principi di diritto enunciati dalle sezioni unite, ha
aggiunto nell’art 618 i co. 1bis e 1ter.

Il co.1bis stabilisce che “se una sezione della corte ritiene di non condividere il principio di diritto enunciate dalle S.U., rimette a
queste ultime, con ordinanza, la decisione del ricorso”.

L’ordinanza della sezione singola, è evidente, deve esser motivata; dovrà dunque spiegare le ragioni per le quali reputa
superato il principio di diritto espresso dalle S.U., dando così modo alla singola sezione di fornire il suo contributo
nomofilattico.

Il co.1ter prevede che “il principio di diritto può essere enunciato dalle S.U., anche d’ufficio, quando il ricorso è dichiarato
inammissibile per una causa sopravvenuta”.

Tale comma non fa riferimento a qualsiasi inammissibilità ma sol a quella derivante da una causa sopravvenuta;

dunque, nei non numerosi casi in cui le S.U. si pronunciano per l’inammissibilità, bisogna ritagliare quelli dove quest’ultima è
sopravvenuta.

Le Sezioni Unite hanno precisato che il ricorso, una volta loro assegnato, deve essere definito interamente, non essendo
configurabile una decisione limitata ad alcune questioni dedotte, con la contestuale riserva di definizione di quelle residue ad
opera della sezione semplice.

Infatti, ex art 610 co.2, una volta assegnato il ricorso alle S.U., non è prevista la possibilità di separata definizione dei motivi
enunciati.

L’assegnazione del ricorso comporta la decisione su di esso e non su una/più questioni tra quelle dedotte.

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36. Il procedimento in camera di consiglio. (Art 611)


Il ricorso per cassazione può essere giudicato in camera di consiglio, invece che in pubblica udienza, ed è regolato dall’art 611.

ex art 611 co.1, la corte procedei in camera di consiglio, oltre che ne casi previsti dalla legge, quando deve decidere su ogni
ricorso contro provvedimenti non emessi nel dibattimento, eccezion fatta per le sentenze pronunciate a norma dell’art 442 in
seguito a giudizio abbreviato.

 Ad esempio, la corte decide in camera di consiglio i ricorsi:


- avverso le sentenze inappellabili di non doversi procedere emesse nel predibattimento (art 469)
- o avverso le sentenze di appello pronunciate in camera di consiglio (art 599 e 599bis), salvo che il giudizio di
appello si sia svolto in ordine a giudizio abbreviato.

Secondo le S.U., il giudizio abbreviato, in quanto destinato a concludersi con una pronuncia che può concernere anche
gravissimi reati, esige il controllo dibattimentale in sede di legittimità.

Con riguardo all’applicazione della pena su richiesta delle parti, il ricorso va deciso col procedimento:

 in camera di consiglio quando si tratti di sentenze non emesse in dibattimento


 e, viceversa, in pubblica udienza nel caso di sentenze emesse dopo la chiusura del dibattimento di primo grado o nel
giudizio d’impugnazione, nelle ipotesi in cui il giudice abbia ritenuto ingiustificato il dissenso del P.M. (art 448 co.1).

Quanto alle modalità procedimentali, la corte di cassazione (in deroga all’art 127), giudica sui motivi, sulle richieste del
procuratore generale e sulle memorie delle altre parti senza intervento dei difensori, a meno che sia diversamente stabilito.

Fino a 15 giorni prima dell’udienza, tutte le parti possono presentare motivi nuovi e memorie, e fino a 5 giorni prima,
memorie di replica.

In sostanza si devia dalla regola generale ex art 127 co.3 (per cui il P.M., gli altri destinatari dell’avviso e i difensori sono
sentiti se compaiono), per ragioni di celerità processuale, ma si tutela ugualmente il contraddittorio, sebbene in forma solo
cartolare.

Il co.2 art 611 (che prevedeva il procedimento in camera di consiglio anche quando fosse stata richiesta la dichiarazione
d’inammissibilità del ricorso da parte del procuratore generale), è stato abrogato dalla l.128/2001, che ha previsto un’apposita
sezione-filtro per l’esame dell’inammissibilità dei ricorsi.

Infine, a richiesta dell’imputato o del responsabile civile, la corte di cassazione può sospendere, in pendenza del ricorso,
l’esecuzione della condanna civile, quando può derivarne grave e irreparabile danno;

anche la decisione sulla richiesta di sospensione è adottata con ordinanza in camera di consiglio (art 612).

37. Il dibattimento. (Art 614)


Quando si procede in camera di consiglio ex art 611 co.1, il ricorso viene deciso in udienza pubblica;

circa gli atti preliminari al giudizio, valgono le ricordate disposizioni per il procedimento in camera di consiglio; inoltre, il co.1
terzo periodo art 611, pur dettando il procedimento in camera di consiglio, viene ritenuto applicabile dalla giurisprudenza anche
al procedimento in udienza pubblica.

Ex art 614 co.1 (“Dibattimento”) nel dibattimento si osservano le norme circa la pubblicità, polizia e la disciplina delle udienze,
la direzione della discussione nei giudizi di primo e secondo grado, ma le parti private possono comparire solo per mezzo dei
loro difensori (art 614 co.2).

Quest’ultimo profilo diversifica il giudizio di cassazione dai giudizi dei gradi precedenti, ma non è l’unico:
 Neppure l’intervento dei difensori è necessario;
 Non è consentita alcuna istruzione dibattimentale e
 Non è permessa l’esibizione di nuovi documenti quando questi potevano essere prodotti in sede di merito.

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Infine, perlomeno di regola, nella discussione non sono ammesse repliche (art 614 co.4), anche se, quando una questione “è
dedotta per la prima volta nel corso della discussione, il presidente può concedere nuovamente la parola alle parti già
intervenute” (art 171 disp.att.).

Nell’udienza stabilita, il presidente procede alla verifica della costituzione delle parti e della regolarità degli avvisi, dandone
atto a verbale; e si svolge la relazione della causa (co.3)

Quanto alla discussione, dopo la requisitoria del P.M. espongono nell’ordine le loro difese i difensori della parte civile, del
responsabile civile, della persona civilmente obbligata per la pena pecuniaria e dell’imputato (co.4);

non sono ammesse repliche, salva la situazione vista con l’art 177 disp.att.

Riguardo alla modifica in peius della qualificazione giuridica del fatto viene in gioco la sentenza della Corte europea dei diritti
dell’uomo, allorché la corte di cassazione intenda provvedervi per la prima volta in via officiosa;

in simile contesto, la qualificazione più grave va resa nota all’imputato prima della pronuncia della decisione, in modo da
garantirgli l’esercizio concreto ed effettivo del diritto di difesa.

Di fronte alla richiesta di ammissione di nuove prove, la dottrina ha prospettato varie soluzioni:

 De iure condito (secondo diritto esistente), quelle classiche  annullamento con rinvio o annullamento senza rinvio
con trasmissione degli atti al P.M. per l’eventuale rinnovato esercizio dell’azione penale;

 De iure condendo (secondo quanto non ancora codificato)  una integrazione probatoria affidata eccezionalmente ad
un giudice di merito individuato ad hoc o l’equiparazione della disciplina della riqualificazione del fatto a quella della
contestazione del fatto diverso, interpolando allo scopo gli art 604 e 620.

38. Sentenze conclusive del giudizio di cassazione: a) deliberazione e tipologia. Capo III (Art 615-628)
Nel caso in cui il giudizio di cassazione si sia svolto in dibattimento, la sentenza è deliberata in camera di consiglio, per esigenze
di maggior funzionalità, subito dopo il termine della pubblica udienza (cioè, dopo aver completato la discussione di tutti i ricorsi
iscritti nel ruolo dell’udienza), salvo che il presidente ritenga indispensabile differire la deliberazione ad altra udienza prossima
(art 615 co.1 “Deliberazione e pubblicazione”).

Per la deliberazione della sentenza si osservano, in quanto applicabili, le disposizioni ex art 527 (“Deliberazione collegiale”) per
la deliberazione della sentenza in primo grado.

Subito dopo la deliberazione, la sentenza viene pubblicata mediante lettura del dispositivo fatta dal presidente o da un
consigliere da lui delegato, previa sottoscrizione dello stesso dispositivo da parte del presidente (art 615 co.3 e 4).

La motivazione della sentenza, conclusasi la deliberazione, viene redatta dal presidente o da un suo delegato, osservando le
disposizioni circa la redazione della sentenza di primo grado (art 617 co.1 “Motivazione e deposito”).

Per il ricorso, vi sono alcune regole specifiche;

 Nella sentenza i motivi del ricorso sono enunciati nei limiti strettamente necessari per la motivazione.

Qualora il presidente lo disponga, la corte si riunisce in camera di consiglio, per la lettura e l’approvazione del testo della
motivazione.

La sentenza, sottoscritta dal presidente e dall’estensore, è depositata in cancelleria entro il 30° giorno dalla deliberazione
(art 617 co.2).

Quanto alla tipologia delle sentenze, il giudizio di cassazione si può concludere con sentenza:

a) d’inammissibilità; b) di rigetto; c) di rettificazione; d) di nullità.

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a) La corte di cassazione dichiara inammissibile il ricorso quando la causa d’inammissibilità:


 non è stata preliminarmente dichiarata con ordinanza in camera di consiglio
 o senza formalità di procedura ex art 610 co.5bis

Con il provvedimento che dichiara inammissibile il ricorso, la parte privata che l’ha proposto è condannata al pagamento
delle spese del procedimento e al pagamento a favore della cassa delle ammende di una somma da 258 a 2065 euro
(aumentabile fino al triplo in base alla causa d’inammissibilità del ricorso).

Dopo la parziale declaratoria di illegittimità costituzionale dell’art 616 (“Spese e sanzioni pecuniarie in caso di
rigetto/inammissibilità del ricorso”), le Sezioni Unite della Corte di cassazione hanno deciso che alla dichiarazione
d’inammissibilità del ricorso non segue la condanna al pagamento di una somma a favore della cassa delle ammende
qualora la questione con essa dedotta sia oggetto di contrasto al momento della sua proposizione, esulando ogni profilo di
colpa in capo al ricorrente.

b) La corte pronuncia sentenza di rigetto quando il ricorso è infondato, non essendo stato accolto alcuno dei motivi proposti
(art 615 co.2);

anche in tal caso, la parte che ha proposto il ricorso è condannata al pagamento delle spese del procedimento, mentre solo
eventualmente può essere condannata pure al pagamento della somma indicata a favore della cassa delle ammende.

Tanto in caso di rigetto, che d’inammissibilità del ricorso, gli atti e la copia del dispositivo sono trasmessi (dalla cancelleria
della corte) al giudice che ha emesso la decisione impugnata (art 625 co.2 “Provvedimenti conseguenti alla sentenza”).

c) La corte pronuncia sentenza di rettificazione nelle ipotesi contemplate dall’art 619 (“Rettificazione di errori non
determinanti l’annullamento”).

La prima ipotesi concerne gli errori di diritto nella motivazione e le erronee indicazioni di testi di legge:

 Se tali errori non hanno avuto influenza sul dispositivo, la corte non annulla la sentenza, ma specifica le censure e le
rettificazioni occorrenti (co.1).

La seconda ipotesi concerne gli errori nella denominazione o nel computo della pena:

 Qui la corte non annulla la sentenza, ma si limita a rettificare la specie o la quantità della pena (co.2).

Quanto al giudizio abbreviato, dove il giudice di merito è tenuto a ridurre la pena determinata in concreto nella misura fissa
di 1/3, la giurisprudenza ha deciso che, qualora la pena sia stata ridotta in misura inferiore, si verifica un errore di computo
che la corte di cassazione può rettificare ex art 619 co.2, senza dover pronunciare annullamento.

Quanto all’applicazione della pena su richiesta delle parti, se il calcolo della pena applicata dal giudice di merito su richiesta
delle parti risulta viziato da errori, poiché nel procedimento ex art 444 non è consentita l’irrogazione di pena diversa da
quella concordata, la corte di cassazione non può procedere alla correzione dell’errore, ma deve limitarsi ad annullare la
sentenza.

In caso di errore di denominazione, la corte può rettificare l’erronea denominazione.

Oggi, il co.1bis art 130 (inserito nel 2017), consente al giudice che ha pronunciato la sentenza di patteggiamento, di
disporre, anche d’ufficio, la correzione quando si devono rettificare solo la specie o la quantità della pena per errore di
denominazione/computo (alleggerendo il lavoro alla Corte);

se il provvedimento è impugnato, alla rettificazione provvede la corte di cassazione ex art 619 co.2.

La terza ipotesi di rettificazione è prevista nei casi di legge più favorevole all’imputato, anche se sopravvenuta dopo la
proposizione del ricorso, qualora non siano necessari nuovi accertamenti di fatto (co.3).

Nell’eventualità in esame, una modifica del 1974, aveva riconosciuto alla corte di cassazione il potere di decidere in ogni caso
nel merito, quando occorresse applicare disposizioni di legge più favorevoli all’imputato, anche se sopravvenute dopo la
dichiarazione del ricorso, e non fosse necessario assumere nuove prove, diverse dall’esibizione di documenti.

Chiaro è l’intento di restituire alla corte il suo ruolo di giudice di legittimità.

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Quanto all’individuazione della legge più favorevole, sembra da privilegiare l’assunto che essa vada operata non in astratto,
ma in concreto, cioè paragonando i risultati che deriverebbero dall’applicazione delle norme alla fattispecie che si presenta
all’esame del giudice.

d) La corte di cassazione pronuncia sentenza di annullamento quando accoglie uno o più motivi di ricorso, o ex officio deve
dichiarare l’annullamento stesso.

A loro volta, le sentenze di annullamento si distinguono in sentenze di annullamento:


 Senza rinvio  per cui la corte stessa può definire il processo;
 Con rinvio  per ci il giudizio di merito è demandato al giudice di rinvio.

39. Segue: b) annullamento senza rinvio. (Art 620-622)


I casi in cui la Corte di cassazione annulla senza rinvio sono elencati nell’art 620 (che ne disciplina la materia);

dunque, si riconosce la possibilità che la Corte decida senza intervento di un giudice di merito.

L’annullamento senza rinvio è adottato dalla corte nei seguenti casi:

a) Se il fatto non è previsto dalla legge come reato, se il reato è estinto o se l’azione penale non doveva iniziare/proseguire.

Pur se non espressamente menzionata, rientra in tal categoria anche la formula di assoluzione piena in facto, dunque:

 Tutte le volte in cui dalla motivazione della sentenza impugnata risulta l’insussistenza del fatto o la non commissione
del medesimo da parte dell’imputato, la corte è tenuta a dichiarare la non punibilità ex art 129 co.1.

Qualora sussistano contestualmente una causa estintiva del reato e una nullità assoluta:
 le Sezioni unite della Corte hanno più volte affermato la prevalenza della prima,

salvo che l’operatività della causa estintiva presupponga specifici accertamenti e valutazioni riservati al giudice di merito,
con riguardo ai quali assume rilievo pregiudiziale la nullità, in quanto funzionale alla rinnovazione del relativo giudizio.

Di recente le S.U. hanno ritenuto che nell’ipotesi di sentenza predibattimentale di appello, pronunciata in violazione del
contraddittorio, con la quale, riformando la sentenza di condanna, è stata dichiarata l’estinzione del reato per prescrizione,
la causa estintiva prevale sulla nullità assoluta e insanabile della sentenza, a meno che risulti evidente la prova
dell’innocenza dell’imputato, dovendo in tal caso la corte di cassazione adottare la formula ex art 129 co.2.

b) se il reato non appartiene alla giurisdizione del giudice ordinario.

Si ricollega alla previsione per cui, in caso di difetto di giurisdizione, gli atti sono trasmessi all’autorità competente, designata
dalla corte stessa (art 621 “Effetti dell’annullamento senza rinvio”).

c) Se il provvedimento impugnato contiene disposizioni che eccedono i poteri della giurisdizione, limitatamente alle
medesime; l’annullamento consiste nell’espungere le disposizioni che concretano eccesso di potere;

d) Se la decisione impugnata consiste in un provvedimento non consentito dalla legge (vi rientrano i provvedimenti abnormi);

e) Se la sentenza è nulla a norma e nei limiti ex art 522 (“Nullità della sentenza per difetto di contestazione”) in relazione ad
un reato concorrente;

f) Se la sentenza è nulla a norma e nei limiti ex art 522 in relazione ad un fatto nuovo;

come per il punto e), anche qui la mancata contestazione comporta la nullità della sentenza di condanna nella parte ad esso
relativa, provocando l’annullamento senza rinvio con notizia al P.M.

g) Se la condanna è stata pronunciata per errore di persona;

il giudice, se risulta l’errore di persona, pronuncia sentenza ex art 129; rinvio da intendersi limitato alla sentenza di non
doversi procedere per improseguibilità dell’azione penale.
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Qualora sia stata processata la persona “vera”, ma erroneamente indicata con le generalità di altro soggetto e non sia stato
sperimentato l’istituto della correzione di errore materiale (art 66 co.3), la situazione può essere risolta solo con
l’annullamento senza rinvio della sentenza impugnata e la trasmissione degli atti al procuratore della Repubblica
competente, affinché proceda ritualmente nei confronti dell’imputato con esatte generalità;

la sentenza, infatti, diverrebbe irrevocabile a nome dell’altro soggetto e non dell’imputato in effetti giudicato, né potrebbe
esplicare efficacia nei confronti di quest’ultimo che non figura nel testo del titolo esecutivo.

h) Se vi è contraddizione fra sentenza o l’ordinanza impugnata e un’altra anteriore concernente la stessa persona e il
medesimo oggetto, pronunciata dallo steso o da un altro giudice penale.

In tal caso, la corte ordina l’esecuzione della prima sentenza od ordinanza, ma, trattandosi di una sentenza di condanna,
ordina l’esecuzione della sentenza che ha inflitto la condanna meno grave determinata ex art 669.

La regola generale comporta l’esecuzione della prima sentenza (o ordinanza) e l’annullamento senza rinvio della seconda,
oggetto del ricorso, pronunciata in violazione del ne bis in idem, ma viene meno nel caso in cui si tratti di due sentenze di
condanna (la prima ormai irrevocabile e la seconda, oggetto del ricorso).
In tal caso viene eseguita la condanna meno grave, indipendentemente dalla sequenza cronologica;

quindi, pur di fronte a una violazione del ne bis in idem, se la sentenza impugnata è più favorevole non si applica la regola
generale (che ne comporterebbe l’annullamento senza rinvio) ma, sulla base del favor rei, si annulla la prima sentenza, ormai
irrevocabile e non oggetto di ricorso per cassazione.

i) La sentenza impugnata ha deciso in secondo grado su materia per la quale non è ammesso l’appello.

Il giudice di secondo grado ha erroneamente deciso di trasmettere gli atti alla corte di cassazione applicando la regola per cui
l’appello contro una sentenza inappellabile vale come ricorso (art 568 co.5), sempre che ne abbia i requisiti;

dunque, ex art 621, la corte di cassazione ritiene il giudizio, qualificando l’impugnazione come ricorso e annullando senza
rinvio la sentenza di secondo grado.

l) Se la corte “ritiene di poter decidere, non essendo necessari ulteriori accertamenti di fatto, o di rideterminare la pena sulla
base delle statuizioni del giudice di merito o di adottare i provvedimenti necessari, e in ogni altro casi in cui ritiene
superfluo il rinvio”.

La lett.l è stata sostituita dalla l.103/2017;

il legislatore ha allargato la possibilità di annullamento senza rinvio, con ovvie ricadute deflative sul numero dei giudizi di
rinvio, pur avendo cura di specificare che, se la corte di cassazione ritiene di poter decidere la causa, non devono risultare
“necessari ulteriori accertamenti di fatto”

La lett.l funge da norma di chiusura, enunciando il discrimen fra i casi di annullamento senza rinvio e quelli con rinvio;

la corte non rinvia tutte le volte in cui gli elementi che emergono dagli atti processuali rendono superfluo un ulteriore giudizio di
merito.

Non essendo ricompreso, fra i casi di annullamento senza rinvio, quello riferito al difetto di contestazione di una circostanza
aggravante (art 522), vanno recepite nel giudizio di cassazione le disposizioni dettate per il giudizio di appello ex art 604 co.2,
con possibilità di effettuare un nuovo giudizio di comparazione fra circostanze, per rideterminare la pena.

Nel “rideterminare la pena” sulla base delle “statuizioni del giudice di merito”, si opera una valutazione discrezionale che si
esercita ex art 133 c.p..

Alla corte è riconosciuto anche il potere si provvedere ex art 610 co.3, alla riunione dei giudizi nel caso di continuazione;

dato che a tale scopo la corte deve determinare la sussistenza dell’unicità del disegno criminoso, a tal determinazione può
procedere pure se sia stata dedotta per la prima volta, come motivo di ricorso, la continuazione rispetto a un fatto oggetto di
giudicato formatosi dopo la decisione di secondo grado, e dunque non deducibile in appello.

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Quanto all’annullamento se la corte ritiene di adottare i provvedimenti necessari e in ogni altro caso in cui ritiene superfluo il
rinvio, si pensi alla possibilità di dichiarare che il fatto non sussiste o che l’imputato non l’ha commesso o alla possibilità di
annullare la sentenza di appello che abbia violato il divieto di reformatio in peius.

Sempre in considerazione della lett.l, da ultimo, le S.U. hanno acceduto ad un’interpretazione ampia, che potenzia l’effetto
deflativo della lett.l, affermando che:

 la corte pronuncia sentenza di annullamento senza rinvio “se ritiene superfluo il rinvio e se, anche all’esito di
valutazioni discrezionali, può decidere la causa alla stregua degli elementi di fatto già accertati o sulla base delle
statuizioni adottate dal giudice di merito, non risultando perciò necessari ulteriori accertamenti di fatto”.

Inoltre, le S.U., si sono interrogate sul “significato complessivo” del nuovo testo;

con riguardo alle “statuizioni del giudice di merito” quale parametro per le valutazioni della corte di cassazione, le S.U. hanno
ritenuto che tale parametro vada riferito non solo all’ipotesi di rideterminazione della pena, ma anche alla fattispecie della
decisione senza rinvio nel suo complesso, affidando al giudice di legittimità una deliberazione che costituisce il risultato di una
valutazione discrezionale.

Si tratta di una discrezionalità vincolata alle predette statuizioni, il cui significato va esteso sino a comprendere i passaggi
argomentativi che sostengono le decisioni dei giudici di merito e gli accertamenti in fatto che li giustificano.

In tutti i casi di annullamento senza rinvio, la cancelleria della corte di cassazione trasmette gli atti e la copia della sentenza al
giudice che ha emesso la decisione impugnata (art 625 co.3).

Se, in seguito alla pronuncia, deve cessare una misura di sicurezza, una misura cautelare o una pena accessoria, la cancelleria
comunica immediatamente il dispositivo, per l’adozione dei necessari provvedimenti, al procuratore generale presso la corte
stessa (art 626 “Effetti della sentenza sui provvedimenti di natura personale”).

40. Segue: c) annullamento con rinvio. (Art 623)


Quando la corte di cassazione non può concludere l’esame del ricorso col solo giudizio rescindente (perché necessario un
giudizio di merito), deve annullare con rinvio ad un giudice di merito, che si occuperà della fase rescissoria (che si concluderà
con l’emissione di una nuova pronuncia, che sostituirà quella annullata dalla corte).

L’art 623 (“Annullamento con rinvio”) detta le regole per l’individuazione del giudice di rinvio, nel rispetto dei criteri per la
scelta del giudice.

Si distinguono le seguenti ipotesi di annullamento con rinvio:

a) Se è annullata un’ordinanza, la corte di cassazione dispone che gli atti siano trasmessi al giudice che l’ha pronunciata, il
quale provvede ad uniformarsi alla sentenza di annullamento.

La lett. a) ha carattere derogatorio rispetto al principio ispiratore della disciplina, in virtù del fatto che il giudice di rinvio deve
essere diverso da quello che ha pronunciato il provvedimento impugnato.

Dunque, in tal caso, il giudice del rinvio può essere la stessa persona fisica (o le stesse, se trattasi di organo collegiale) che ha
pronunciato l’ordinanza annullata dalla corte di cassazione.

Nell’eventualità che nei confronti di un’ordinanza sia stato proposto ricorso immediato per cassazione, secondo la
giurisprudenza si applica sempre la lett.a, la cui tassativa indicazione non può essere derogata dall’art 569 co.4 (che prevede il
rinvio al giudice di appello, in quanto tale disposizione concerne solo l’ipotesi in cui il provvedimento impugnato consista in una
sentenza).

b) Se è annullata una sentenza di condanna ex art 604 co.1,4 e 5bis, la corte di cassazione dispone che gli atti siano trasmessi
al giudice di primo grado.

La lett.b) è stata riformulata nel 2014, aggiungendo il riferimento ai co.4 e 5bis dell’art 604 (“Questioni di nullità”).

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Se la nullità della sentenza di condanna di primo grado ex art 604 co.1 non sia stata rilevata dal giudice di appello, la corte di
cassazione provvede all’annullamento, trasmettendo gli atti al giudice di primo grado, come sarebbe dovuto avvenire in
grado di appello.

Ex co.2 art 604, la corte di cassazione, invece, provvede all’annullamento senza rinvio ex art 620 lett.l, che riconosce il potere
di “rideterminare la pena”.

La regola della trasmissione degli atti al giudice di primo grado vale anche col co.4 e 5bis (in tema di procedimento in assenza
dell’imputato) art 604;

il richiamo al co.4 e 5bis, limitato all’annullamento di una sentenza di condanna, evidenza una discrasia; i suddetti commi si
riferiscono alla “sentenza” in generale (in cui vi rientra anche quella di proscioglimento).

Con riguardo al colo co.4 art 604, il richiamo alla sola sentenza di condanna esclude dalla previsione le ipotesi di nullità in via
derivata del provvedimento che dispone il giudizio, nelle quali dovrebbe valere la regola generale del rinvio degli atti al giudice
che procedeva quando si è verificata la nullità.

Per la concreta individuazione del giudice di primo grado, si devono applicare le regole dettate nelle lett. c, d art 623,
tenendo conto che nel caso di annullamento di una sentenza per ragioni di ordine procedurale, il magistrato che ha
partecipato alla pronuncia della sentenza annullata non può partecipare al giudizio di rinvio dopo l’annullamento.

c) Se è annullata la sentenza di una corte di assise di appello o di una corte di appello o di una corte di assise o di un tribunale
in composizione collegiale, il giudizio è rinviato rispettivamente ad un’altra sezione della stessa corte o tribunale o, in
mancanza, alla corte o tribunale più vicini (criterio basato sulla distanza ferroviaria o marittima);

d) Se è annullata la sentenza pronunciata da un tribunale monocratico, o da un G.I.P., la corte di cassazione dispone che gli
atti siano trasmessi al medesimo tribunale, ma il giudice deve essere diverso da quello che ha pronunciato la sentenza
annullata.

Con le lett.c e d, il legislatore ha inteso uniformarsi all’ incompatibilità a partecipare al giudizio di rinvio dopo
l’annullamento, stabilita ex art 34 co.1.

La violazione della regola non comporta nullità, ma può essere fatta valere come motivo di ricusazione del giudice
incompatibile.

L’incompatibilità non sarebbe ravvisabile qualora il giudizio di rinvio fosse espletato dalla medesima sezione (invece che da
una diversa) composta da magistrati tutti diversi da quelli che avevano concorso a pronunciare la sentenza annullata.

I casi elencati ex art 623 non comprendono tutte le ipotesi di annullamento con rinvio.

In tema di ricorso immediato per cassazione, l’art 569 co.4 (in deroga alla regola per cui il giudice di rinvio è un giudice di grado
pari a quello che ha emesso la sentenza annullata) stabilisce che:

 Fuori dei casi in cui nel giudizio di appello si sarebbe dovuta annullare la sentenza di primo grado, la corte di cassazione,
quando pronuncia l’annullamento con rinvio della sentenza impugnata per saltum, dispone che gli atti siano trasmessi
al giudice competente per l’appello.

Ipotesi particolare è poi prevista ex art 622 per l’annullamento della sentenza ai soli effetti civili.

In tutti i casi di annullamento con rinvio, la cancelleria della corte di cassazione trasmette senza ritardo gli atti del processo
con la copia della sentenza al giudice che deve procedere al nuovo giudizio (art 625 co.1 “Provvedimenti conseguenti alla
sentenza”).

41. Segue: d) annullamento della sentenza di appello e cessazione delle misure cautelari. (Art 624bis)
Problematico è stato l’inserimento ex l.128/2001 dell’art 624bis rubricato “Cessazione delle misure cautelari”.

Art 624bis  Cessazione delle misure cautelari


“La corte di cassazione, nel caso di annullamento della sentenza di appello, dispone la cessazione delle misure cautelari”
(co.1).

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Nella sua genericità, la previsione potrebbe condurre a conseguenze assurde, se applicata alla lettera:

 Infatti, la corte di cassazione dovrebbe disporre la cessazione delle misure cautelari anche in caso di annullamento con
rinvio sfavorevole all’imputato,
 Mentre, d’altro canto, non si capirebbe perché dovrebbe produrre effetti diversi l’annullamento della sentenza di primo
grado.

Inoltre, la previsione si porrebbe in contrasto con l’art 303 co.2 (“Termini di durata massima della custodia cautelare”), laddove
disciplina la nuova decorrenza dei termini di custodia cautelare quando, in caso di annullamento con rinvio, “il procedimento
regredisca a una fase o a un grado di giudizio diversi o sia rinviato ad altro giudice”.

Si sono proposte 2 opzioni interpretative:


1) La prima ritiene che l’art 624bis funga da semplice corollario dell’art 300 co.1 (“Estinzione delle misure per effetto
della pronuncia di determinate sentenze”), in caso di annullamento senza rinvio e di annullamento con rinvio che
preluda a una decisione favorevole, e dunque incompatibile con la restrizione cautelare.

Inoltre, mira a chiarire che la competenza a disporre la cessazione delle misure cautelari spetta alla corte di cassazione e non
(come stabilisce l’art 626) al procuratore generale presso la corte medesima.

2) La seconda opziona collega l’art 624bis all’art 275 co.2ter (“Criteri di scelta delle misure”), ove si prevede che le
misure cautelari personali sono sempre disposte, contestualmente alla sentenza nei “casi di condanna di appello”
In quest’ottica, l’annullamento della sentenza di appello giustificherebbe la cessazione delle misure cautelari disposte sulla
base di una disciplina specifica, tutte le volte in cui l’annullamento abbia “travolto” l’affermazione della responsabilità.

Ed è quest’ultima la tesi accolta dalla giurisprudenza di legittimità, orientata nel senso che la cessazione della misura
cautelare personale ex art 624bis vada disposta:
 solo quando sia stata applicata contestualmente alla sentenza di condanna in appello a norma dell’art 275 co.2ter
 e non anche nelle ipotesi di emissione del provvedimento cautelare nella fase delle indagini preliminari o nel giudizio
di primo grado.

42. Il ricorso straordinario per errore materiale o di fatto. (Art 625bis)


La Corte Costituzionale ha affermato che il principio della “irrevocabilità ed incensurabilità delle decisioni della corte di
cassazione” oltre a rispondere al fine di “evitare la perpetuazione dei giudizi e di conseguire un accertamento definitivo” è anche
“pienamente conforme alla funzione di giudice ultimo della legittimità”, affidata alla corte.

Il suddetto principio appare, ora, derogato dall’art 625bis (“Ricorso straordinario per errore materiale o di fatto”), introdotto nel
2001, il cui co.1 stabilisce che:

o “è ammessa, a favore del condannato, la richiesta per la correzione dell’errore materiale o di fatto contenuto nei
provvedimenti pronunciati dalla corte di cassazione”.

Tale richiesta è proposta dal procuratore generale o dal condannato (o suo difensore dotato di procura speciale):

 Con ricorso presentato alla corte di cassazione entro 180 giorni dal deposito del provvedimento, e non ne sospende gli
effetti;

tuttavia, nei casi di eccezionale gravità, la corte provvede, con ordinanza, alla sospensione (co.2).

Ex co.3 (come modificato nel 2017) “l’errore materiale può essere rilevato dalla corte di cassazione, d’ufficio, in ogni momento e
senza formalità. L’errore di fatto può essere rilevato dalla corte di cassazione, d’ufficio, entro 90 giorni dalla deliberazione”.

Quando la richiesta:
- è proposta fuori dall’ipotesi prevista ex co.1
- o, riguardando la correzione di un errore di fatti, fuori dal termine di 180 giorni,
- o risulti manifestamente infondata,

la corte, anche d’ufficio, ne dichiara con ordinanza l’inammissibilità (co.4 art 625bis);

altrimenti procede in camera di consiglio ex art 127 e, se accoglie la richiesta, adotta i provvedimenti necessari per
correggere l’errore (co.4).

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Anche il ricorso straordinario deve essere sottoposto all’esame preliminare di ammissibilità ad opera dell’apposita sezione-
filtro, ma, dato che il co.4 si riferisce ad un provvedimento de plano, emesso anche di ufficio, la giurisprudenza ha concluso che
in tal caso non debba essere data comunicazione alle parti dell’avviso del deposito degli atti e della data dell’udienza.

Per quanto riguarda la legittimazione del condannato, secondo le S.U., può proporre ricorso straordinario anche chi,
condannato al solo risarcimento dei danni in favore della parte civile, prospetti un errore di fatto nella decisione della corte
di cassazione relativa al capo concernente le statuizioni civili.

Se il danneggiato esercita l’azione in sede propria, l’errore di fatto è emendabile dal convenuto attraverso i rimedi previsti dal
codice di rito civile.

Inoltre, le S.U. hanno ritenuto che la legittimazione spetta pure alla persona condannata nei confronti della quale sia stata
pronunciata sentenza di annullamento con rinvio limitatamente a profili attinenti alla determinazione del trattamento
sanzionatorio (ad esempio, la sussistenza di una circostanza aggravante).

In base al concetto di formazione progressiva, si considera passato in giudicato il punto relativo all’affermazione di
responsabilità in ordine a una specifica ipotesi di reato, conseguendone che la posizione dell’imputato si trasforma in quella di
condannato, anche se a pena ancora da determinare in via definitiva.

Con una più recente decisione, le S.U. hanno reputato ammissibile il ricorso straordinario a favore del condannato per la
correzione dell’errore di fatto contenuto nella sentenza con cui la corte abbia rigettato o dichiarato inammissibile il suo
ricorso contro la decisione negativa della corte di appello pronunciata in sede di revisione.

Nel caso della revisione, la pronuncia della corte che dichiari inammissibile o rigetti il ricorso contro la decisione negativa della
corte di appello conferma il giudicato di condanna.

Da ultimo, le S.U. hanno ritenuto che il ricorso straordinario vada ricompreso nell’ambito di operatività del nuovo requisito di
legittimazione imposto, in via generale, dall’art 613 co.1;

ciò è dovuto alla natura eccezionale del mezzo di impugnazione che comporta particolari difficoltà, per una persona sprovvista di
specifiche competenze tecniche, a comprendere i confini che delimitano l’oggetto dei motivi proponibili.

La necessità di definire l’errore di fatto negli elementi che lo contraddistinguono da quello materiale è stata avvertita anche
dalla giurisprudenza (oltre che subito posta in luce dalla dottrina), che si è espressa attraverso le S.U.

Queste (le S.U.) hanno condiviso l’opinione della dottrina laddove osservano che la previsione del ricorso straordinario
accomuna due situazioni radicalmente diverse alle quali corrispondono “rimedi nettamente differenti per struttura e
finalità”.

Infatti, la figura dell’errore materiale coincide con quella oggetto della disciplina dettata nell’art 130 (“Correzione di errori
materiali”), ritenuta applicabile ai provvedimenti della corte di cassazione già prima dell’ingresso dell’art 625bis.

L’applicazione dell’art 130 era stata considerata compatibile con il principio di inoppugnabilità delle decisioni della corte
perché circoscritta “alla categoria degli errori materiali che non determinano nullità e sono eliminabili senza una modifica
essenziale del provvedimento”.

Va osservato che, prima dell’introduzione dell’art 625bis, le decisioni delle sezioni singole avevano spesso applicato in senso
ampio la correzione degli errori materiali, fino a estenderla a veri e propri errori di fatto, nel tentativo di rimediare in qualche
modo a situazioni di “ingiustizia” non emendabili per l’inoppugnabilità dei provvedimenti della corte di cassazione.

Quanto all’errore di fatto, il legislatore avrebbe avuto riguardo all’ “errore di fatto (materiale e meramente percettivo) nella
lettura di atti interni” al giudizio di cassazione, di cui si è occupata la Corte costituzionale nella sent.395/2000.

L’assunto è stato avallato dalle S.U. che hanno affermato trattarsi di “un’errore percettivo causato da una svista o da un
equivoco, nel quale la corte di cassazione è incorsa nella lettura degli atti del giudizio di legittimità” connotato dall’influenza
esercitata “sul processo formativo della volontà, viziato dalla inesatta percezione delle risultanze processuali”.

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L’errore di fatto deve essere:


 decisivo  cioè determinante nella scelta della soluzione adottata

 e di “oggettiva ed immediata rilevabilità”  cioè, dal controllo degli atti processuali deve emergere che la
decisione è stata “condizionata dall’inesatta percezione e non dall’errata valutazione o dal non corretto
apprezzamento degli atti”.

Premesso ciò, le S.U. hanno chiarito che l’errore di fatto deve essere inteso in senso stretto nella sua dimensione percettiva.

Dunque, non rientrano nell’operatività dell’art 625bis:

- l’errore di giudizio  la cui causa presenta un qualsiasi contenuto valutativo;

- errori di interpretazione di norme o la supposta esistenza di esse;

- errore percettivo  in cui sia incorso il giudice di merito, perché in tal caso l’errore può esser denunciato solo nelle
forme e limiti delle impugnazioni ordinarie.

Da altra angolatura, l’omesso esame di un motivo di ricorso è riconducibile alla nozione di errore di fatto quando sia dipeso
da una svista materiale che abbia determinato l’erronea supposizione dell’inesistenza della censura.

Tuttavia, per l’accoglimento del ricorso straordinario si deve poter accertare “un rapporto di derivazione causale necessaria
della decisione adottata dall’omesso esame del motivo di ricorso”, posto che l’errore di fatto deve essere decisivo.

La distinzione fra le due categorie dell’errore materiale e dell’errore di fatto ha permesso alle S.U. di concludere che:

 solo il ricorso straordinario per errore di fatto riveste la funzione tipica di impugnazione in senso tecnico,
 mentre il ricorso relativo all’errore materiale è uno strumento di correzione speciale “con funzione di semplice rettifica
della forma espressiva della volontà del giudice”.

Oggetto del ricorso per errore di fatto possono essere solo sentenze di condanna e non decisioni emesse all’esito di
procedimenti incidentali ante iudicium.

La funzione tipica di impugnazione in senso tecnico attribuibile al ricorso straordinario per errore di fatto (rilevabile in senso
autonomo dalla corte, senza dover attendere la sollecitazione delle parti) emerge pure dall’art 625bis co.4, laddove stabilisce
che:
 la corte di cassazione, se accoglie la richiesta “adotta i provvedimenti necessari per correggere l’errore”.

Così facendo, il legislatore consente “rimedi flessibili ed adattabili alle diverse situazioni”, potendo la corte:
 sia pronunciare la nuova decisione (in luogo di quella viziata),

 sia provvedere alla caducazione di quest’ultima (viziata) e alla celebrazione del nuovo giudizio nelle forme
dell’udienza pubblica o camera di consiglio.

Ad ogni modo, sebbene l’art 625bis parli di “correzione dell’errore”, l’accoglimento del ricorso si traduce in una nuova
decisione, sostitutiva della precedente.

In particolare, nell’ipotesi di annullamento con rinvio limitatamente a profili attinenti alla determinazione del trattamento
sanzionatorio, la proposizione del ricorso straordinario può condurre (nel caso):
 all’adozione di un’ordinanza che determini:
 non solo la sospensione degli effetti del provvedimento (co.2),
 ma anche la sospensione del giudizio di rinvio,

per evitare la prosecuzione di un giudizio che, teoricamente, potrebbe venire in toto caducato dalla decisione sul ricorso
straordinario,
 o all’adozione dei provvedimenti necessari a correggere l’errore, senza compromettere l’ulteriore corso del giudizio di
rinvio.

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43. Il giudizio di rinvio: a) poteri del giudice di rinvio e loro limiti. (Art 624 e 627)
Il giudice di rinvio, individuato ex art 623, decide con gli stessi poteri che aveva il giudice la cui sentenza è stata annullata, salve
le limitazioni ex lege (art 627 co.2).

Alcune limitazioni sono previste dall’art 627 (“Giudizio di rinvio dopo l’annullamento”):

 Il co.1 statuisce che nel giudizio di rinvio non è ammessa discussione sulla competenza attribuita con la sentenza di
annullamento, salvo quanto previsto ex art 25 (“Effetti delle decisioni della corte di cassazione sulla giurisdizione e
competenza”).

La sentenza di annullamento è attributiva di competenza e comporta l’irretrattabilità del foro commissorio, precludendo al
giudice di rinvio la possibilità di declinare la competenza, a meno che emergano fatti nuovi che comportino una diversa
definizione giuridica da cui derivi la competenza di un giudice superiore.

 Il co.4 pone un’altra limitazione, per cui “non possono rilevarsi nel giudizio di rinvio nullità, anche assolute, o
inammissibilità, verificatesi nei precedenti giudizi o nel corso delle indagini preliminari”.

Rileva che, la pronuncia di annullamento con rinvio costituisce un “atto di valore definitivo”, con struttura di sanatoria per
tutte le nullità, anche assolute, verificatesi fino a quel momento.

Ulteriore limite ai poteri del giudice di rinvio può derivare dall’operatività del divieto di reformatio in peius; due sono le
situazioni verificabili.

1) La prima concerne l’ipotesi in cui la sentenza annullata fosse una sentenza emessa in grado di appello da un giudice
vincolato dal divieto di reformatio in peius (avendo appellato il solo imputato).

In tal caso, il giudice di appello di rinvio è vincolato dal medesimo divieto, avendo gli stessi poteri del giudice che ha emanato
la sentenza annullata.

2) La seconda situazione concerne l’ipotesi in cui la sentenza annullata fosse una sentenza emessa in grado di appello da un
giudice non vincolato dal divieto in questione, avendo appellato pure il P.M. (o una sentenza inappellabile), e ricorrente
fosse, invece, il solo imputato.

Anche a tali situazioni si applicherebbe il divieto di reformatio in peius, dato che opererebbe anche nel giudizio di rinvio.

A parere delle Sezioni Unite, il suddetto divieto non opera nel giudizio di rinvio (primo o di secondo grado) a seguito di
annullamento pronunciato per nullità dell’atto introduttivo o per altra nullità assoluta o di carattere intermedio non sanata,
che si sia propagata all’atto conclusivo del giudizio.

Inoltre, le S.U. hanno deciso che non viola il divieto il giudice di rinvio che, individuata la sanzione più grave ex art 81 co.2 c.p.
apporti per uno dei reati in continuazione un aumento maggiore rispetto a quello applicato dal primo giudice, pur non irrogando
una pena complessivamente maggiore.

Esistono, infine, dei limiti ai poteri del giudice di rinvio che provengono dalla pronuncia di annullamento.

II. Il primo limite deriva dalla risoluzione delle questioni di diritto da parte della corte di cassazione (art 627 co.3);
III. il secondo limite è collegato all’eventualità di un annullamento parziale (art 624).

L’art 627 co.3 stabilisce che il giudice di rinvio si uniforma alla sentenza della corte di cassazione per ciò che concerne ogni
questione di diritto con essa decisa;

infatti, l’art 173 co.2 disp.att. prescrive che, nel caso di annullamento con rinvio, la sentenza della corte enuncia specificamente
il principio di diritto al quale il giudice di rinvio deve uniformarsi.

Con riguardo agli effetti del dictum della corte, in caso di annullamento totale è utile distinguere i casi in cui la sentenza sia
stata annullata:
 Per vizio di motivazione
 o per errores in procedendo,
 o per errores in iudicando.

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Quando la sentenza è stata totalmente annullata per vizio di motivazione, il giudice di rinvio può procedere ad un completo
riesame del materiale probatorio (per la possibile rinnovazione dell’istruzione dibattimentale), ma non può ripetere i vizi di
motivazione adottando lo schema strutturale della motivazione annullata.

Nell’ipotesi di annullamento per errores in procedendo, il giudice di rinvio ha il potere di riesaminare il materiale probatorio, ma
non può ribadire l’errore che ha condotto all’annullamento.

Nell’ipotesi di annullamento per errores in iudicando, di regola, il giudice di rinvio è vincolato dalla valutazione dei fatti accertati
nella sentenza annullata, ma conserva il potere di risolvere in modo diverso la questione di diritto, allorché muta l’accertamento
del fatto che la corte di cassazione ha considerato in via d’ipotesi come premessa per risolvere la questione di diritto medesima.

Ulteriore aspetto da evidenziare (con riguardo all’annullamento totale), concerne l’operatività nel giudizio di rinvio dell’art
129 co.1, che impone la declaratoria ex officio di determinate cause di non punibilità.

Dovendo la corte di cassazione esaminare d’ufficio la relativa questione, la mancata pronuncia costituirebbe un dictum
implicito che vincolerebbe il giudice di rinvio, impedendo l’applicabilità dell’art 129.

Tale art 129 co.1 sarebbe applicabile nel giudizio di rinvio:


 sia quando la declaratoria di non punibilità è subordinata alla risoluzione di una questione di fatto,
 sia quando la risoluzione di una questione di diritto implica indagini non esperibili dalla corte.
Mentre, non sarebbe applicabile quando la corte di cassazione non abbia operato tale declaratoria.

Entro tali limiti il giudice di rinvio è vincolato al dictum della corte di cassazione.

Si ritiene, però, che tale vincolo possa venire meno:

 qualora, dopo l’emanazione della decisione di annullamento, sopravvenga un provvedimento legislativo che dia alla
legge una interpretazione autentica diversa rispetto a quella accolta dalla corte di cassazione,

 o qualora intervenga un’abrogazione legislativa,

 o una declaratoria d’illegittimità costituzionale.

In quest’ultima evenienza, la dottrina reputa che lo stesso giudice di rinvio possa sollevare la questione di legittimità
costituzionale sul punto di diritto deciso dalla corte di cassazione, perché il difetto di dubbio della corte stessa circa la
legittimità costituzionale della norma non avrebbe un’efficacia positiva sull’accertamento di tale legittimità e non
vincolerebbe implicitamente il giudice di rinvio.

I. il secondo limite che può scaturire dalla sentenza di annullamento si verifica nell’ipotesi di annullamento parziale;

l’art 624 co.1 stabilisce, infatti, che se l’annullamento non è pronunciato per tutte le disposizioni della sentenza, questa ha
autorità di cosa giudicata nelle parti che non hanno connessione essenziale con la parte annullata.

I principali profili problematici sono legati al significato da attribuire alle espressioni “parti della sentenza”, “autorità di cosa
giudicata” e “connessione essenziale”.

In ordine al primo profilo, si tratta di stabilire se il legislatore, parlando di “parti” della sentenza, si sia riferito solo ai capi o
anche ai punti della decisione

Molti reputano che il legislatore abbia avuto riguardo non solo ai capi ma pure ai singoli punti.

Dunque, appare opportuno chiarire il significato della locuzione “autorità di cosa giudicata”.

La dottrina appare divisa fra:

 chi ritiene che anche con riguardo al punto dell’unico capo o di più capi della sentenza si possa parlare di cosa giudicata
 e chi, invece, che solo con riguardo al capo si possa parlare di giudicato come accertamento di una situazione giuridica
che ha condotto a una condanna o a un’assoluzione, mentre con riguardo ai punti si possono avere solo delle
preclusioni processuali, nel senso che al giudice di rinvio è precluso esaminare le parti non annullate.

Da tal punto di vista, il giudicato vero e proprio si formerebbe solo nel momento della chiusura definitiva del processo.

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La suddetta distinzione presenta notevoli risvolti pratici, perché solo escludendo che sui punti non annullati si formi il
giudicato è possibile ritenere che, sebbene l’annullamento parziale riguardi punti diversi dalla sussistenza del fatto o
dall’affermazione della responsabilità penale, il giudice di rinvio possa applicare eventuali cause estintive del reato
sopravvenute alla sentenza di dibattimento.

Se, invece, si reputa che il giudicato si formi anche sui punti, la declaratoria ex art 129 sarebbe impedita dalla formazione,
appunto, del giudicato.

Le S.U. si sono più volte espresse sul tema della formazione progressiva del giudicato, sempre in adesione alla tesi secondo cui il
giudicato si forma anche sui punti della decisione.

Dunque, le S.U. hanno concluso che pure con riguardo ai punti (e non solo ai capi) la decisione adottata, “benché non ancora
eseguibile, acquista autorità di cosa giudicata”.

Il giudice di rinvio può conoscere anche le parti che hanno connessione essenziale con le parti annullate;

una situazione del genere si prospetta quando la parte annullata costituisca una premessa indispensabile rispetto a un’altra
parte o statuizione, cosicché la parte non annullata si pone in tale concatenazione logica rispetto a quella annullata da
esserne necessariamente dipendente per rapporto di causalità.
È opportuna la previsione dell’art 624 co.2, secondo cui:

o “la corte di cassazione, quando occorre, dichiara nel dispositivo quali parti della sentenza diventano irrevocabili”.

Se la corte non provvede in tal senso contestualmente all’annullamento, può riparare all’omissione con ordinanza,
pronunciata in camera di consiglio, che deve essere trascritta in margine o in fine della sentenza e di ogni copia di essa.

L’ordinanza può essere pronunciata di ufficio o su domanda del giudice competente per il rinvio, del P.M. presso tale giudice
o della parte privata interessata:
 La domanda si propone senza formalità, cioè viene direttamente inviata al presidente della sezione della corte di
cassazione che ha pronunciato la sentenza di annullamento.

La corte provvede in camera di consiglio, senza osservare le forme ex art 127;

in altri termini, tenuto conto della natura semplicemente ricognitiva del procedimento, il legislatore non ha reputato
necessario il contraddittorio fra le parti.

44. Segue: b) svolgimento del giudizio di rinvio e impugnazione della decisione conclusiva. (Art 627-628)
Dopo l’annullamento con rinvio, il processo riprende dal grado e dalla fase in cui versava prima che intervenisse il vizio che ha
dato origine all’annullamento, e dunque, il giudizio di rinvio si svolge secondo le norme tipiche di tale grado e fase.

Ricevuti gli atti del processo con la copia della sentenza, il giudice di rinvio deve procedere alle attività di sua competenza;

si ritiene ammissibile la riunione dei giudizi ex art 17, sebbene l’art 627 appaia silente al riguardo.

Quanto alle citazioni, l’annullamento pronunciato rispetto al ricorrente giova anche al non ricorrente; dunque, per concretizzare
tale effetto estensivo, il giudice di rinvio deve citare l’imputato non ricorrente che può beneficiarne.

Spetta alla corte di cassazione, accogliendo il ricorso, dichiarare l’estensione dell’annullamento agli imputati non ricorrenti,
ma in caso di omessa declaratoria, può provvedere il giudice di rinvio, attivando la procedura ex art 624 co.2.

Quanto agli obblighi in capo al giudice di rinvio, l’omessa citazione dell’imputato non ricorrente determina una nullità assoluta
ex art 179 co.1, salva la sanatoria ex art 184.

In assenza di regole specifiche, l’imputato non ricorrente può intervenire finché non siano compiuti gli adempimenti descritti
nell’art 484, applicabile anche al giudizio di appello di rinvio in virtù dell’art 598.

Dal punto di vista probatorio, è innovativa la disciplina dell’art 627 co.2, sulla cui base, se è annullata una sentenza di appello
e le parti ne fanno richiesta, il giudice dispone la rinnovazione dell’istruzione dibattimentale per l’assunzione di prove
rilevanti per la decisione.

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Così facendo:
 Nel giudizio di appello il diritto alla prova è limitato, dato che (salvo prove sopravvenute o scoperte dopo il
giudizio di primo grado), il giudice procede alla rinnovazione solo se non ritiene di poter decidere allo stato degli
atti;
 Nel giudizio di appello di rinvio il giudice non può negare la rinnovazione adducendo di essere in grado di
decidere allo stato degli atti.

In altre parole, si è voluto evitare che il giudizio di rinvio si risolvesse in un giudizio esclusivamente cartolare.

Il diritto delle parti alla rinnovazione stabilito ex art 627 co.2 funge da riequilibrio alla scelta limitativa operata dal legislatore
con riguardo alla possibilità per la corte di cassazione di applicare disposizioni più favorevoli, qualora non siano necessari nuovi
accertamenti di fatto.

Una volta annullata con rinvio la sentenza di condanna emessa per la prima volta in appello, perché non è stata riassunta la
prova dichiarativa diversamente valutata, appare evidente consentire nel giudizio di appello di rinvio, a richiesta di parte,
l’assunzione di altre prove ritenute rilevanti per la decisione.

Nella pronuncia di annullamento saranno da stabilirsi le coordinate probatorie entro cui deve muoversi il giudice di rinvio, il
quale, decidendo con gli stessi poteri che aveva il giudice la cui sentenza è stata annullata, è vincolato all’applicazione dell’art
603 co.3bis e solo i un secondo momento potrà applicare l’art 627 co.2 ampliando la rinnovazione istruttoria.

In ordine all’impugnazione della sentenza emessa dal giudice di rinvio, l’art 628 co.1 stabilisce che essa può essere
impugnata:
 con ricorso per cassazione, se pronunciata in grado di appello,
 e con il mezzo previsto dalla legge (appello o ricorso a seconda che la sentenza sia appellabile/inappellabile) se
pronunciata in primo grado.

In sostanza, il legislatore ha scelto come criterio per determinare il regime d’impugnazione il grado in cui la sentenza
medesima è stata emanata.

Ex art 628 co.2 (“Impugnabilità della sentenza del giudice di rinvio”), la sentenza del giudice di rinvio può essere impugnata solo:

 per motivi non riguardanti i punti già decisi dalla corte di cassazione
 o per inosservanza della disposizione dell’art 627 co.3, che stabilisce il dovere per il giudice di rinvio di uniformarsi alla
sentenza della corte di cassazione per ciò che concerne ogni questione di diritto con essa decisa.

In altri termini, i motivi d’impugnazione consentiti sono quelli previsti ex lege per il mezzo nel caso proponibile (appello o
ricorso per cassazione) nonché quello volto a lamentare l’inosservanza del dictum della corte di cassazione.

45. Annullamento della sentenza ai soli effetti civili. (Art 622)


L’art 622 regola l’annullamento della sentenza ai soli effetti civili, e contempla 2 ipotesi:

1) La prima presuppone che la corte di cassazione abbia annullato solo le disposizioni o i capi che riguardano l’azione civile,

2) La seconda presuppone che sia stato accolto il ricorso della parte civile contro la sentenza di proscioglimento
dell’imputato.

In entrambe le ipotesi, la cassazione rinvia, quando occorre, al giudice civile competente per valore in grado di appello, anche
se l’annullamento ha per oggetto una sentenza inappellabile.

Nella prima ipotesi si ritiene che l’annullamento presupponga una sentenza di merito impugnata o per i soli interessi civili o
anche per i capi penali e che il ricorso venga accolto solo per le disposizioni o i capi che riguardano l’azione civile.

L’art 622, riferendosi alle disposizioni/capi che “riguardano l’azione civile”, legittima l’interpretazione che l’operatività della
norma sia limitata ai provvedimenti strettamente collegati all’esercizio dell’azione civile nel processo penale e vada esclusa
nell’ipotesi di annullamento delle disposizioni relative al pagamento delle spese processuali dovute dall’imputato alla parte
civile per il caso di condanna, posta l’indefettibile competenza del giudice penale al riguardo.

Analoga esclusione vale anche nel caso di annullamento delle disposizioni relative alla domanda di rifusione delle spese
proposta dall’imputato prosciolto o dal responsabile civile avverso la parte civile e il querelante.
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Anche se non compare nel codice una norma che riservi la competenza esclusiva a statuire sulle domande civili dell’imputato
prosciolto al giudice penale, si afferma che tali pronunce non si collegano in via diretta all’azione civile esercitata dal
danneggiato nel processo penale.

Di conseguenza, in tali casi, non rientranti nella sfera operativa ex art 622, la corte di cassazione, se annulla con rinvio, rinvia al
giudice penale competente ex art 623,

L’annullamento con rinvio a norma ex art 622 è disposto dalla corte di cassazione “quando occorre”;

dunque, il rinvio è superfluo quando la corte può provvedere in via diretta, annullando senza rinvio ex art 620 lett.l, perché
sussistono elementi che permettono di escludere qualsiasi obbligo di risarcimento dei danni in capo all’imputato o al
responsabile civile.

La seconda ipotesi ha come presupposto l’accoglimento del ricorso della parte civile contro la sentenza di proscioglimento
dell’imputato;

infatti, ex art 576 co.1, essa può proporre l’impugnazione, svincolata dal mezzo previsto per il P.M., ai soli effetti della
responsabilità civile, contro la sentenza di proscioglimento pronunciata nel giudizio o con rito abbreviato cui abbia acconsentito.

Tale impugnazione è finalizzata a eliminare l’effetto extrapenale del giudicato stabilito ex art 652 co.1 e 2, ma può concernere
pure una sentenza di proscioglimento sfornita di efficacia preclusiva.

La lettera dell’art 622 implica sempre il rinvio al giudice civile competente per valore in grado di appello, anche qualora
l’accoglimento del ricorso della parte civile dipenda dall’accertamento della violazione di norme processuali penali,
eventualmente relative al rapporto processuale civile.

Tuttavia, poiché la locuzione “quando occorre” è riferibile anche alla suddetta seconda ipotesi di annullamento, parte della
dottrina conclude che la corte di cassazione potrebbe annullare senza rinvio ex art 620 lett.l:

 Ad esempio, nel caso in cui la formula di proscioglimento adottata non sia esatta e vada sostituita con un’altra, non
preclusiva dell’azione civile.

46. La revisione: premessa. TITOLO IV (Art 629-647)


La revisione è un mezzo straordinario d’impugnazione, esperibile in ogni tempo, e sempre a favore dei condannati contro:

- Le sentenze di condanna,
- O le sentenze emesse ex art 444 co.2,
- O i decreti penali di condanna,

divenuti irrevocabili, anche se la pena è stata già eseguita/estinta (art 629 “Condanne soggette a revisione”).

La revisione non può essere esperita nei confronti di:

- Sentenze di proscioglimento,
- Sentenze di non luogo a procedere emesse in esito all’udienza preliminare,
- Ordinanze, anche se emesse in sede di esecuzione.

Tale istituto è disciplinato nel Titolo IV (art 629-647).

La giurisprudenza ha adottato soluzioni restrittive, improntate all’operare del principio di tassatività (art 568) anche nell’ambito
delle impugnazioni straordinarie.

Con riguardo alla possibilità di sottoporre a revisione provvedimenti applicativi di misure di prevenzione si era verificato un
contrasto, risolto dalle Sezioni Unite che avevano concluso per l’inapplicabilità della revisione (essendo possibile, contro tal
misure l’istituto della revoca).

Sulla materia è intervenuto il d.lgs. 159/2011 (Codice delle leggi antimafia) che ha abrogato la legge che prevedeva l’istituto
della revoca:
 riproducendone il contenuto della revoca (contenuta nell’art 11 co.2 d.lgs.159/2011),
 e disciplinando in modo innovativo la revocazione della decisione definita sulla confisca di prevenzione (con modiche
nel 2017).
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La revocazione può essere richiesta (nelle forme previste ex art 630 ss “Casi di revisione” in quanto compatibili) alla corte di
appello, in caso di:
- scoperta di nuove prove decisive, sopravvenute alla conclusione del procedimento;

- quando i fatti accertati con sentenze penali definitive, sopravvenute o conosciute in epoca successiva alla
conclusione del procedimento, escludano in modo assoluto l’esistenza dei presupposti di applicazione della confisca;

- quando la decisione sulla confisca sia stata motivata, unicamente o in modo determinante, sulla base di atti
riconosciuti falsi, di falsità nel giudizio o di un fatto previsto dalla legge come reato.

Un contrasto si era delineato anche in ordine alla revisione delle sentenze di patteggiamento;

il legislatore ha risolto per tabulas questo profilo, menzionando pure le sentenze emesse ex art 444 co.2 fra i provvedimenti
suscettibili di revisione.

Il contrasto era stato risolto dalle S.U., le quali, discostandosi dall’orientamento prevalente, avevano affermato
l’inammissibilità in ogni caso della revisione della sentenza di patteggiamento, reputando che tale sentenza non fosse
equiparabile a una sentenza di condanna se non nel punto relativo all’applicazione della pena;

di diverso avviso si è mostrato il legislatore, che ha modificato l’art 629 co.1, affiancando alle sentenze di condanna e ai
decreti penali di condanna, divenuti irrevocabili, “le sentenze emesse ex art 444 co.2”.

la lettura della modifica, riferita alle sole sentenze di patteggiamento emesse ex art 444 co.2, implica, alla luce del principio
di tassatività delle impugnazioni, che il rimedio straordinario non sia praticabile nei confronti delle sentenze di
patteggiamento pronunciate ex art 448 co.1 ultimo periodo, salvo assimilarle alle sentenze di condanna dibattimentali (a
meno di ritenere che tutte le sentenze di applicazione della pena, in qualunque fase pronunciate, producono assoluta
identità di effetti, argomentabile ex art 445 co.1bis).

da altra angolatura, suscita riserve l’esperibilità della revisione in tutti i casi contemplati ex art 630.

La giurisprudenza ha affermato che l’area della revisione della sentenza di patteggiamento è più circoscritta rispetto a quella
della revisione della sentenza emessa all’esito di un giudizio ordinario, potendosi fondare solo:
- u prove sopravvenute alla sentenza definitiva
- o scoperte successivamente ad essa.

E non potendosi fondare, invece, su prove “non acquisite nel precedente giudizio o acquisite ma non valutate neanche
implicitamente”;

infatti, nella struttura della revisione “non vi è spazio per l’acquisizione di prove in senso tecnico”.

Circa l’applicabilità alla revisione degli effetti in genere ricollegabili alle impugnazioni, si può osservare che la revisione non
devolve la causa a un giudice di competenza superiore, perché sulla relativa richiesta:

 decide la corte di appello  individuata secondo i criteri ex art 11.

Di regola, la revisione:

 è un mezzo di impugnazione non sospensivo  poiché la sospensione della pena/misura di sicurezza non consegue alla
richiesta di revisione, ma ad una valutazione discrezionale della corte di appello;

 produce un effetto estensivo  in quanto il presidente della corte di appello emette il decreto di citazione a norma
dell’art 601 (art 636 co.1), ove si prevede anche la citazione del non impugnante quando ricorrono i casi di estensione
dell’impugnazione contemplata ex art 587.

47. Soggetti legittimati, casi “classici” di revisione e relativi limiti. (Art 630-632)
L’art 632 co.1 disciplina i “Soggetti legittimati alla richiesta” di revisione, e questi sono:

a) Il condannato o un suo prossimo congiunto o la persona che ha sul condannato l’autorità tutoria e, se il condannato è
morto, l’erede o un prossimo congiunto;
b) Il procuratore generale presso la corte di appello nel cui distretto fu pronunciata la sentenza di condanna.

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Ex art 633 co.1 (“Forma della richiesta”) le persone indicate nella lett.a art 632 co.1 possono unire la loro richiesta a quella
del procuratore generale, proponendola sempre personalmente o per mezzo di un procuratore speciale.

I casi “classici” di revisione sono tassativamente elencati dall’art 630 (“Casi di revisione”), ma a quelli se ne è aggiunto un altro,
che potremmo definire come “revisione europea”.

Ex art 630 co.1, la revisione “classica” può essere richiesta nei seguenti casi:

a) Se i fatti stabiliti a fondamento della sentenza/decreto penale di condanna non possono conciliarsi con quelli stabiliti in
un’altra sentenza penale irrevocabile del giudice ordinario o di un giudice speciale.

In questi casi si parla di conflitto teorico di giudicati, per indicare decisioni le cui premesse storiche sono incompatibili da un
punto di vista logico, essendo le decisioni stesse entrambe eseguibili perché riguardanti fatti diversi.

La lett.a menziona, quale provvedimento inconciliabile con la sentenza di condanna, solo sentenze penali irrevocabili di un
giudice ordinario o speciale, escludendo i decreti penali, che non presuppongono un accertamento pieno del fatto e quindi
non forniscono un “indiscutibile punto fermo in tema di responsabilità” tale da “condurre a rivedere altra sentenza di opposto
contenuto”.

Parte della dottrina esclude, come termine di comparazione ai fini dell’inconciliabilità, le sentenze di non luogo a procedere
emanate in esito all’udienza preliminare e quelle pronunciate a conclusione del giudizio abbreviato o dell’applicazione della
pena su richiesta delle parti.

Lecito, ancora oggi, è avanzare dubbi sull’idoneità delle sentenze di patteggiamento emesse ex art 444 co.2, data la loro
struttura di decisioni ad accertamento contratto, a fungere da termine di raffronto per verificare l’inconciliabilità dei fatti.

Nel caso in discorso, alla richiesta di revisione devono essere unite le copie autentiche delle sentenze o dei decreti penali di
condanna indicati nella lett.a (art 633 co.2).

b) Se la sentenza o il decreto penale di condanna hanno ritenuto la sussistenza del reato a carico del condannato in
conseguenza di una sentenza del giudice civile o amministrativo, successivamente revocata che abbia deciso una delle
questioni pregiudiziali previste ex art 3 o una delle questioni previste ex art 479.

Anche nel caso in discorso, alla richiesta di revisione devono essere unite le copie autentiche delle sentenze o dei decreti penali
di condanna indicati nella lett.b (art 633 co.2).

c) Se dopo la condanna sono sopravvenute o si scoprono nuove prove che, sole o unite a quelle già valutate, dimostrano che il
condannato deve essere prosciolto con le formule previste dall’art 631 (“Limiti della revisione”).

Quanto alle prove preesistenti, invece, dottrina e giurisprudenza affermano più genericamente che possono sostenere la
richiesta di revisione quando non sono state acquisite al processo per le ragioni più svariate:
- Perché sconosciute alla parte,
- O perché conosciute ma non dedotte, magari per dolo o colpa grave,
- O perché conoscibili, ma non conosciute per negligenza.

Considerare nuove le prove per qualsiasi ragione non conosciute e valutate dal giudice non si trasforma in un’inammissibile
rivalutazione delle acquisizioni probatorie.

Ciò che è inammissibile è la esclusiva diversa valutazione delle prove assunte nel precedente giudizio, mentre ne è ammessa
la rivalutazione insieme a quelle nuove proprio dall’art 630 lett.c

Più delicati problemi suscita il ricomprendere nel concetto di nuove prove le prove acquisite al processo ma non valutate dal
giudice;

inizialmente, la giurisprudenza era arrivata ad affermare che devono considerarsi nuovi:


o “quegli elementi di prova che, quand’anche già risultanti dagli atti, non furono conosciuti e valutati dal giudice per
omessa deduzione delle parti o per mancato uso dei poteri di ufficio”.

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In un primo momento, però, la S.U. si sono espresse in senso contrario, muovendo dalla premessa per cui per prove nuove,
dovessero intendersi elementi di indagine diversi da quelli compresi nel processo conclusosi con il giudizio precedente e
ritenendo, dunque, non ammissibile la richiesta di revisione fondata su elementi già esistenti negli atti processuali e che non
fossero stati da lui conosciuti o valutati.

Nonostante tale intervento, il panorama giurisprudenziale risultava a favore dell’interpretazione estensiva e le S.U.,
ribaltando la precedente impostazione, sono pervenute ad affermare che possono assumere rilievo nel giudizio di revisione
quelle prove, acquisite o non acquisite, le quali non essendo state valutate “entrano a comporre il novum”.

In sostanza, secondo le S.U., il concetto di prova nuova va ricostruito sotto il duplice profilo strutturale e teleologico:
 Da un lato, il richiamo alla valutazione della prova instaura un raccordo col procedimento gnoseologico esternato
nella motivazione della sentenza di cui si chiede la revisione, cosicché, se la prova non è stata valutata dal giudice,
deve essere qualificata come nuova;

 Dall’altro, l’attuale ampliamento degli epiloghi della revisione implica l’utilizzo di tutti gli strumenti volti a
“infrangere la capacità di resistenza del giudicato”.

Non rileva, infine, che la mancata valutazione della prova sia ricollegabile al comportamento della parte, poiché
quest’ultimo produce conseguenze solo sul piano del diritto alla riparazione.

Esemplificando, la giurisprudenza esclude che possa considerarsi nuova prova:

- La trattazione o la modifica di dichiarazioni rese da un testimone nel precedente giudizio,

- O la dichiarazione liberatoria di un coimputato che non è suscettibile di valutazione autonoma,

- O la diversa valutazione tecnico-scientifica di dati già noti al perito o al giudice, perché essa si risolva in apprezzamenti
critici di elementi previamente conosciuti e valutati dal giudice, come tali inammissibili.

Si è, però, ritenuto ammissibile una richiesta di revisione basata non sulla rinnovazione di un accertamento tecnico già
espletato, ma su una perizia nuova:

 Si è reputata nuova la prova desumibile da una perizia sul DNA di capelli, considerata come accertamento del tutto
diverso rispetto a quello tricologico sulla morfologia dei capelli effettuato in precedenza.

Sono, dunque, state ampliate le maglie della revisione qualora mediante la prova nuova sia possibile raggiungere risultati non
conseguibili con le pregresse metodiche.

Le S.U. hanno poi affermato che, in caso di richiesta basata sulla sopravvenienza/scoperta di nuove prove, l’inammissibilità di
alcune di esse per l’assenza del requisito della novità non compromette necessariamente il giudizio di ammissibilità della
revisione, a meno che la prova contrassegnata dal requisito della novità condizioni l’intera domanda di revisione.

Va ricordato che, nel caso di abrogazione o di dichiarazione di illegittimità costituzionale della norma incriminatrice, il
sistema ha approntato il rimedio in fase esecutiva:
 È il giudice dell’esecuzione a revocare la sentenza di condanna o il decreto penale, dichiarando che il fatto non è
previsto dalla legge come reato, e ad adottare i provvedimenti conseguenti.

d) Se è dimostrato che la condanna venne pronunciata in conseguenza di falsità in atti o in giudizio o di un altro fatto
preveduto dalla legge come reato.

Le ipotesi di “falsità in atti o in giudizio” possono essere costituite:


- Dalla falsità di documenti, calunnia, falsa testimonianza, falsa perizia o interpretazione, etc.

Mentre, l’“altro fatto preveduto dalla legge come reato” dovrà essere costituito da un fatto al quale possa essere rapportata
la pronuncia della sentenza di condanna, come, ad esempio:
- La subordinazione di testimoni, la corruzione del giudice, l’abuso di ufficio.

L’art 633 co.3, richiede che alla richiesta di revisione debba essere unita copia autentica della sentenza irrevocabile di condanna
per il reato indicato nella lett.d co.1 art 630.
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Venendo ai limiti della revisione la disciplina è regolata ex art 631, il cui co.1 stabilisce che:

o “Gli elementi in base ai quali si chiede la revisione devono, a pena d’inammissibilità della domanda, essere tali da
dimostrare, se accertati, che il condannato deve essere prosciolto a norma degli art 529,530 o 531”.

Tali articoli (529,530 e 531) concernono, rispettivamente:

 Le sentenze di non doversi procedere per mancanza di una condizione di procedibilità (529);
 Sentenze di assoluzione (530);
 Sentenze di non doversi procedere per estinzione del reato, pronunciate in esito alla fase dibattimentale (531).

Ne deriva che la valutazione di ammissibilità della richiesta di revisione spazia in un ambito esteso, grazie alle regole di
giudizio esplicitate negli art 529,530 e 531.

Tuttavia, con riguardo alla sentenza di patteggiamento, la giurisprudenza, muovendo dal rilievo che in tale sede il giudice è
chiamato “esclusivamente a valutare se sussistono cause di non punibilità che potrebbero condurre ad un proscioglimento ex
art 129”, ha ritenuto che la revisione della sentenza emessa ex art 444 co.2 vada effettuata facendo riferimento “alla stessa
regola di giudizio e agli stessi parametri”;

in altri termini, gli elementi in base ai quali si chiede la revisione devono dimostrare che il soggetto cui è stata applicata la
pena concordata deve essere prosciolto per la presenza di una delle cause elencate nell’art 129.

In dottrina si obietta che, nel caso di prove sopravvenute o scoperte successivamente alla pronuncia della suddetta sentenza
patteggiata, la richiesta di revisione concreta una revoca del precedente accordo fra le parti, rendendo applicabili le ordinarie
regole di giudizio stabilite per la fase dibattimentale.

48. “Revisione europea” e regole peculiari.


Una pronuncia della Corte Costituzionale ha introdotto nell’art 630 un “ulteriore caso di revisione della sentenza o del decreto
penale di condanna al fine conseguire la riapertura del processo, quando è necessario” ex art 46 co.1 c.e.d.u. “per conformarsi
ad una sentenza definitiva della Corte europea dei diritti dell’uomo”.

Stiamo parlando della revisione europea, per cui sono indispensabili alcune premesse.

Manca una disciplina interna volta ad attuare l’art 46 c.e.d.u. che impegna gli Stati contraenti “a conformarsi alle sentenze
definitive” della Corte europea “per le controversie di cui sono parte”.

Conformarsi alle sentenze definitive della Corte di Strasburgo implicherebbe rimettere in discussione il giudicato interno già
formatosi.

Quanto la Corte Europea constata una violazione, lo Stato convenuto ha non solo l’obbligo giuridico di versare all’interessato
le somme attribuite a titolo di equa soddisfazione, ma anche quello di adottare le misure generali e/o individuali necessarie;

finalità ravvisata nella restitutio in integrum a favore dell’interessato, che deve cioè venire posto in una situazione
equivalente a quella nella quale si troverebbe se la violazione non si fosse verificata.

Il meccanismo più idoneo a realizzare la restitutio in integrum è costituito da un nuovo processo o dalla riapertura del
procedimento su domanda dell’interessato.

La giurisprudenza, esclusa la possibilità di ricondurre la problematica in esame ai casi “classici” di revisione ha percorso vari
itinerari interpretativi; ma si trattava di soluzioni insoddisfacenti, il che spiega la chiamata in causa della Corte Costituzionale.

La giurisprudenza della Corte costituzionale, a partire dalle sentenze 348 e 349/2007, ritiene che le norme della c.e.d.u.
integrino, quali “norme interposte”, il parametro costituzionale espresso dall’art 117 co.1 Cost, nella parte in cui impone che la
legislazione interna si conformi agli “obblighi internazionali”.

Qualora il giudice comune ravvisi un contrasto fra una norma interna e la c.e.d.u. deve verificare se sia adottabile una
interpretazione della prima in senso conforme alla seconda;

la sentenza costituzionale 49/2015 ha precisato che il giudice è tenuto a uniformarsi alla giurisprudenza europea solo se
espressione di un “diritto consolidato”.

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Se il contrasto non è superabile attraverso l’impiego degli strumenti ermeneutici, il giudice non può disapplicare la norma
interna, ma deve sollevare questione di legittimità costituzionale.

La Corte costituzionale ha affermato che l’interpretazione della Corte di Strasburgo, secondo cui l’obbligo scaturente dall’art
46 c.e.d.u. comporta anche l’’impegno degli Stati contraenti a consentire la riapertura dei processi, su richiesta
dell’interessato, quando appaia necessaria ai fini della restitutio in integrum, “non può ritenersi contrastante con le
conferenti tutele offerte dalla Costituzione”.

Ciò premesso, la Corte si è trovata d’accordo con il giudice a quo nell’individuare nell’art 630 “la sede dell’intervento additivo
richiesto”;
pur consapevole della eterogeneità del nuovo caso di revisione rispetto agli altri contemplati da tale norma, la Corte ha
ritenuto che essa sia quella “maggiormente pertinente alla fattispecie in discussione”.

La Corte avendo ben chiara la disomogeneità fra i casi “classici” di revisione e quello introdotto dalla propria pronuncia, si è
impegnata, nella motivazione, a indicare alcune regole applicabili al caso di nuovo conio.

La Corte ha chiarito che la “riapertura del processo” va intesa come “concetto di genere, funzionale anche alla rinnovazione di
attività già espletate, e, se del caso, di quella integrale del giudizio”;

ha poi prefigurato il dovere per il giudice di “procedere a un vaglio di compatibilità delle singole disposizioni relative al
giudizio di revisione”.
Dunque, saranno inapplicabili le disposizioni che “appaiano inconciliabili, sul piano logico-giuridico, con l’obiettivo
perseguito”, cioè la restitutio in integrum dell’interessato:

 “rimarrà inoperante la condizione di ammissibilità, basata sulla prognosi assolutoria, indicata nell’art 631”;
 Inapplicabili, saranno anche le previsioni dell’art 637 co.2 e 3 (“Sentenza”), in base alle quali l’accoglimento della
richiesta di revisione comporta il proscioglimento dell’interessato, che il giudice non può pronunciare esclusivamente
sulla base di una diversa valutazione delle prove assunte nel precedente giudizio.

La Corte ha anche osservato che la nuova ipotesi di revisione, comportando una deroga al principio secondo cui i vizi
processuali restano coperti dal giudicato, impone al giudice di valutare come le “cause della non equità del processo rilevate
dalla Corte europea si debbano tradurre, appunto, in vizi degli atti processuali alla stregua del diritto interno, adottando nel
nuovo giudizio tutti i conseguenti provvedimenti per eliminarli”.

Ad ogni modo, la vicenda non è di facile conclusione. La stessa Corte costituzionale non ha mancato di rilevare che spetterà:

 Da un lato, “ai giudici comuni trarre dalla decisione i necessari corollari sul pano applicativo, avvalendosi degli
strumenti a loro disposizione”,
 E dall’altro, al legislatore “provvedere eventualmente a disciplinare nel modo più opportuno gli aspetti che apparissero
bisognosi di apposita regolamentazione”.

Ad ogni modo, la Corte ha sottolineato che l’incidenza della declaratoria d’illegittimità sull’art 630 “non implica una
pregiudiziale opzione” a favore dell’istituto della revisione, restando dunque il legislatore libero di regolare “con una diversa
disciplina il meccanismo di adeguamento” alle pronunce definitive della Corte europea.

49. Competenza e verifica preliminare di ammissibilità di revisione. (Art 633-634)


La richiesta di revisione deve contenere l’indicazione specifica delle ragioni e delle prove che la giustificano e deve essere
presentata, unitamente ad eventuali atti e documenti, nella cancelleria della corte di appello “individuata secondo i criteri di
cui all’art 11” (art 633 co.1 “Forma della richiesta”).

Il co.1 è stato così sostituito dalla l.405/1998 in maniera da superare o attenuare il (vecchio) pericolo che la vicinanza o la
contiguità, anche territoriale, del giudice della revisione rispetto al giudice che ha giudicato nel merito possa in qualche modo
inquinare il principio d’imparzialità quanto al giudizio sull’istanza proposta dal condannato o, in ogni caso, generare un
sospetto di parzialità.

Dunque, la corte di appello competente per il giudizio di revisione deve essere individuata sulla base del meccanismo tabellare
predisposto in modo da creare competenze a catena fra giudici di distretti vicini e connotato da profili di accentuata terzietà.

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403

Posto che l’art 633 co.1 parla di “eventuali atti e documenti” allegabili alla richiesta, se ne può evincere che, nel caso di cui
all’art 630 lett.c, il richiedente possa limitarsi ad indicare “le ragioni” e “le prove”, senza dover sottostare a un onere di
allegabilità.

Le S.U. hanno precisato che la richiesta di revisione ex art 630 lett.c va suffragata non da prove ma da elementi di prova:

 Sia perché la nuova prova dovrà essere accertata nella fase dibattimentale,
 Sia perché la facoltà del difensore di svolgere investigazioni per ricercare e individuare elementi di prova a favore del
proprio assistito può essere attribuita “per promuovere il giudizio di revisione”.

Con riguardo alle investigazioni difensive, dopo le innovazioni introdotte dalla l.397/2000 si è consolidato un orientamento
giurisprudenziale secondo cui le dichiarazioni ricevute e le informazioni assunte dal difensore devono essere state raccolte
rispettando le forme e le modalità stabilite a pena di inutilizzabilità, funzionali a garantire l’autenticità e l’attendibilità dei
risultati investigativi.

Alla corte di appello è demandata una preliminare valutazione di ammissibilità, prescrivendo l’art 634 co.1 (“Declaratoria
d’inammissibilità”) che, anche d’ufficio, dichiari con ordinanza l’inammissibilità della richiesta quando essa sia proposta:

 fuori delle ipotesi previste ex art 629 e 630


 o senza l’osservanza delle disposizioni previste dagli art 631, 632, 633, 641
 o risulti manifestamente infondata.

La verifica si svolge in camera di consiglio, senza la presenza delle parti, e può, in caso di decisione d’inammissibilità,
concludersi con la condanna del privato che ha proposto la richiesta al pagamento a favore della cassa delle ammende di una
somma da 258 a 2065 euro.

Le S.U. hanno affermato che, nel caso in cui venga irritualmente acquisito dalla corte di appello il parere del procuratore
generale, esso “deve essere comunicato a pena di nullità al richiedente, ai fini di una corretta instaurazione del contraddittorio”.

Quanto alle cause di inammissibilità, ci si può domandare se sia applicabile, in sede di revisione, l’art591 (“Inammissibilità
dell’impugnazione”).

Per una parte delle disposizioni dettate da tale articolo la risposta appare negativa, perché esse sono superate da cause
d’inammissibilità proprie del rimedio straordinario.

Secondo le S.U., il regime dei motivi nuovi, contemplato ex art 584 co.4, è compatibile con la fase di merito davanti alla corte
di appello, così come l’art 586, relativo all’impugnazione di ordinanze dibattimentali, è da ritenersi applicabile una volta
introdotta la fase del dibattimento.

In conclusone, fra i casi d’inammissibilità elencati ex art 591 sembrano poter operare in sede di revisione:
 da un lato, l’inosservanza delle disposizioni dettate ex art 582 e 583, ove si ritenga che la proposizione della richiesta
di revisione possa avvenire a mezzo di incaricato nella cancelleria del giudice competente o mediante spedizione con
telegramma/raccomandata;
 dall’altro, la rinuncia alla richiesta di revisione, valevole pure per il rimedio straordinario.

Quanto alla natura della valutazione in discorso, la giurisprudenza prevalente ritiene che la corte di appello, sotto il profilo
dell’eventuale manifesta infondatezza della richiesta, debba limitarsi a una sommaria deliberazione dei nuovi elementi di prova
addotti, così da stabilire se appaiano in astratto idonei ad incidere, in senso favorevole, sulla valutazione delle prove a suo
tempo raccolte e se giustifichino la ragionevole previsione che essi, da soli o congiunti a quelli già esaminati nel corso del
procedimento conclusosi con la condanna dell’istante, possano condurre al suo proscioglimento.

Tuttavia, per altre pronunce, va evitata un’anticipazione del giudizio di merito, che finirebbe per risultare inevitabilmente
superficiale e illogica, in quanto avulsa dal contraddittorio tra le parti, e fondata su una prova non ancora compiutamente
acquisiti, ma si può compiere una valutazione approfondita delle prove già acquisite e ancora da acquisire.

Le S.U. hanno affermato che la manifesta infondatezza designa “l’evidente inidoneità della domanda ad accedere al giudizio di
revisione”;

in altri termini, l’attributo “manifesta” si ricollega alla “capacità delle ragioni”, poste alla base della richiesta di revisione, di
consentire “una verifica circa l’esito del giudizio”, trattandosi di un requisito “intrinseco alla domanda”.

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404

L’ordinanza d’inammissibilità, che è pronunciata de plano, è notificata al condannato e a colui che ha proposto la richiesta, i
quali possono ricorrere per cassazione, esplicando il proprio diritto al contraddittorio.

Se il ricorso è accolto, la corte di cassazione rinvia il giudizio di revisione ad altra corte di appello individuata secondo i
criteri ex art 11 (art 634 co.2).
L’ultimo periodo del co.2 art 634 è stato così sostituito dalla l.405/98, con lo scopo di escludere qualsiasi margine di
discrezionalità (rispetto al passato) nell’individuazione del giudice di rinvio in un’ipotesi che è caratteristica del giudizio di
revisione, trattandosi qui di annullamento dell’ordinanza d’inammissibilità della richiesta e non di annullamento della
sentenza che decide nel merito la richiesta di revisione, nel qual caso rimangono fermi i criteri d’individuazione del giudice
fissati in genere per l’annullamento con rinvio da parte della corte di cassazione.

Dunque, per individuare un’altra corte di appello territorialmente competente si impiega un meccanismo automatico, in
grado di evitare che divenga competente la corte di appello nel cui distretto si trova il giudice che ha pronunciato la sentenza
di primo grado o il decreto penale di condanna, ritenuta inidonea dal legislatore del 1998 a pronunciarsi sulla richiesta di
revisione.

50. Il giudizio di merito. (Art 635-636)


Se la richiesta di revisione non è stata dichiarata inammissibile nella fase preliminare, si passa alla fase di merito, con emissione
del decreto di citazione, da parte del presidente della corte di appello (art 636 co.1 “Giudizio di revisione”), a norma dell’art 601
e, quindi, con applicazione anche delle regole sull’estensione dell’impugnazione.

Il decreto viene notificato al condannato (che riacquista, così, la qualità d’imputato), ai coimputati dello stesso reato (qualora
operi la suddetta estensione), al responsabile civile e alla parte civile che nel precedente giudizio avesse ottenuto il risarcimento
dei danni.

La prevalente giurisprudenza ritiene che l’inammissibilità della richiesta di revisione possa essere dichiarata anche
successivamente all’instaurazione del giudizio, nel qual caso la decisione avrà la forma della sentenza.

La corte può, anche d’ufficio dichiarare l’inammissibilità.

Inoltre, viene in rilievo l’applicabilità dell’art 586; infatti la parte civile può far valere l’inammissibilità della richiesta di
revisione solo quando sia stata introdotta la fase dibattimentale;

a parere delle S.U., potrà dunque, al pari del P.M., sindacare tale introduzione e, qualora ritenga illegittima l’ordinanza
reiettiva dell’eccezioni d’inammissibilità, potrà impugnarla con la decisione di merito, ex art 586.

La corte di appello può disporre in qualunque momento la sospensione dell’esecuzione della pena o della misura di sicurezza,
applicando una delle misure coercitive previste dagli art 281. 282, 283, 284, con ordinanza passibile di revoca per inosservanza
della misura adottata:

nel qual caso riprende l’esecuzione della pena o della misura di sicurezza.

Le ordinanze in materia sono ricorribile per cassazione dal P.M. e dal condannato.

L’art 636 co.2 stabilisce, poi, che si osservano le disposizioni relative agli atti preliminari al giudizio e al dibattimento di primo
grado, in quanto applicabili e nei limiti delle ragioni indicate nella richiesta di revisione.

Prima che la l.67/2014 espungesse dall’ordinamento l’istituto della contumacia, l’art 489 co.3 prevedeva che, nel corso del
giudizio di revisione, il condannato già contumace potesse chiedere di rendere le dichiarazioni spontanee prevista dall’art
494, assunte dal magistrato di sorveglianza del luogo in cui egli si trovava.

Nell’odierno testo dell’art 489, la previsione non compare; ora, infatti, il condannato in assenza può chiedere la rescissione
del giudicato ex art 629bis.

Una particolarità procedimentale concerne la nomina di un curatore chiamato ad esercitare i diritti che sarebbero spettati al
condannato, qualora questi sia deceduto dopo la presentazione della richiesta di revisione (art 638).

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51. La sentenza di rigetto o di accoglimento. (Art 637-642)


La disciplina relativa al giudizio di primo grado si applica anche per la deliberazione della sentenza, valendo gli artt 525-528 (art
637 co.1).

L’epilogo può essere di rigetto o di accompagnamento, salva l’ipotesi di sentenza dichiarativa dell’inammissibilità.

A. In caso di rigetto della richiesta il giudice condanna la parte privata che l’ha proposta al pagamento delle spese processuali,
e se era stata disposta la sospensione della pena o della misura di sicurezza, dispone che tale esecuzione venga ripresa (co.4
art 637).

B. In caso di accoglimento della richiesta, il giudice revoca la sentenza di condanna e pronuncia il proscioglimento,
indicandone la causa nel dispositivo (co.2).

Anche se l’art 637 co.3 enuncia come generale la regola per cui il giudice non può pronunciare il proscioglimento
esclusivamente sulla base di una diversa valutazione delle prove assunte nel precedente giudizio, secondo la dottrina, essa
esaurirebbe la propria operatività con riguardo al caso di revisione contemplato dall’art 630 lett.c.

Infatti, nel caso di cui:


 Alla lett.a art 630 (conflitto teorico di giudicati)  l’incompatibilità storica delle decisioni comporta un nuovo
giudizio, con possibili pronunce assolutorie fondate sullo stesso materiale;

 Alla lett.b art 630 (revoca della decisione civile pregiudiziale)  caduta la pregiudiziale sfavorevole, il
proscioglimento si fonda sul materiale pregresso;

 Alla lett.d art 630 (condanna penalmente inquinata)  la soluzione proscioglitiva può essere fondata sul materiale
antecedente

L’accoglimento della richiesta di revisione comporta, anche nel caso in cui il condannato sia morto dopo la presentazione della
richiesta:

- la restituzione delle somme pagate in esecuzione della condanna per le pene pecuniarie, per le misure di sicurezza
patrimoniali, per le spese processuali e di mantenimento in carcere e per il risarcimento dei danni a favore della parte
civile, a condizione che sia stata citata per il giudizio di revisione,
- nonché la restituzione delle cose confiscate, eccetto quelle ex art 240 co.2 n.2 c.p. (art 639).

A tutela del proprio onore, il prosciolto può chiedere che la sentenza sia affissa per estratto nel comune in cui era stata
pronunciata la sentenza di condanna e che l’estratto della sentenza sia pubblicato su un giornale.

All’accoglimento della richiesta di revisione, vanno ricollegate le disposizioni che disciplinano la riparazione dell’errore
giudiziario.

Le sentenze conclusive del giudizio di revisione sono impugnabili mediante ricorso per cassazione (art 640);

legittimati al ricorso sono gli stessi soggetti che abbiano in concreto proposto la richiesta medesima e le parti presenti nel
giudizio di revisione.

Le Sezioni Unite hanno precisato che, in sede di ricorso avverso una sentenza pronunciata all’esito del giudizio di revisione,
la corte di cassazione può accedere agli atti processuali al fine di operare “una verifica dei presupposti d’ammissibilità del
giudizio di revisione”, senza che un tale accesso comporti “una verifica ab intrinseco”, restando il controllo di legittimità
sempre e comunque circoscritto negli ambiti indicati dall’art 606 co.1 lett.e.

Indispensabile è comparare la pronuncia emessa nel giudizio di revisione con le sentenze di merito pronunciate in sede di
cognizione.

Dopo la riformulazione della lett.e art 606, il ricorso per cassazione avverso le sentenze conclusive del giudizio di revisione
potrà essere proposto anche quando il vizio di motivazione risulti da “altri atti del processo specificamente indicati nei motivi”
di ricorso.

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Di recente, le S.U. hanno reputato ammissibile il ricorso straordinario (art 625bis) a favore del condannato per la correzione
dell’errore di fatto contenuto nella sentenza con cui la corte di cassazione abbia rigettato o dichiarato inammissibile il suo
ricorso contro la decisione negativa della corte di appello pronunciata in sede di revisione.

L’ordinanza che dichiara inammissibile la richiesta di revisione o la sentenza che la rigetta non pregiudicano il diritto di
presentare una nuova richiesta fondata su elementi diversi (art 641).

Qualora, poi la prima richiesta di revisione sia stata dichiarata inammissibile per vizi di forma, si considera ammissibile una
nuova richiesta, fondata sugli stessi elementi, ma non più viziata dal lato formale.

52. La riparazione dell’errore giudiziario. (Art 643-647)


Il diritto alla riparazione dell’errore giudiziario è riconosciuto a favore di chi sia stato prosciolto in sede di revisione di una
condanna divenuta irrevocabile (art 643 co.1).

Circa la revisione delle sentenze relative alla responsabilità amministrativa dell’ente, il d.lgs.231/2001 stabilisce che alle
sentenze pronunciate nei confronti dell’ente si applicano, in quanto compatibili, le disposizioni del Titolo IV Libro IX, eccetto
gli art 643-647 concernenti la riparazione dell’errore giudiziale.

La riparazione, da commisurare:

 Sia alla durata dell’eventuale espiazione della pena o dell’eventuale internamento,


 Sia alle conseguenze personali e familiari derivanti dalla condanna

si attua (art 643 co.2) in più modi:

- Mediante pagamento di una somma di denaro,


- O mediante la costituzione di una rendita vitalizia, tenuto conto dell’avente diritto e della natura del danno,
- O mediante accoglienza, su domanda dell’interessato, di un istituto a spese dello Stato.

Per fruire della riparazione dell’errore giudiziario occorre che:

 il prosciolto non abbia dato causa all’errore per dolo o colpa grave (art 643 co.1) ad esempio con una confessione o
fornendo un alibi falso,
 e che la domanda sia proposta entro 2 anni dal passaggio in giudicato della sentenza di revisione, presentandola per
iscritto, insieme ai documenti ritenuti utili personalmente o per mezzo di procuratore speciale, nella cancelleria della
corte di appello che ha pronunciato il proscioglimento.

Qualora, anche prima del procedimento di revisione, il condannato muoia, il diritto alla riparazione spetta al coniuge, ai
discendenti e ascendenti, ai fratelli e sorelle, agli affini entro il primo grado e alle persone legate da vincolo di adozione con
quella deceduta, eccezion fatta per chi si trovi in situazioni di indegnità ex art 463 c.c. (art 644 co.1 e 3 “Riparazione in caso di
morte”).

Le persone indicate nell’art 644 possono:


- presentare domanda nel termine perentorio previsto dall’art 645 co.1
- o giovarsi della domanda già presentata da altri

Sulla domanda di riparazione è chiamata a decidere, con procedimento in camera di consiglio ex art 127, la corte di appello che
aveva pronunciato la sentenza di proscioglimento, dopo che tale domanda, unitamente al provvedimento che fissa l’udienza, è
stata comunicata al P.M. e notificata al Ministero del tesoro e a tutti gli interessati, compresi gli aventi diritto che non hanno
proposto la domanda;

i quali ultimi, se non formulano le proprie richieste almeno 5 giorni prima dell’udienza, decadono dal diritto di presentare la
domanda di riparazione successivamente alla chiusura del procedimento stesso (art 646 co.1,2 e 4).

La decisione sulla domanda ha la forma di ordinanza, da comunicare al P.M. e notificare a tutti gli interessati, anche al fine di un
eventuale ricorso per cassazione.

Qualora ne ricorrano le condizioni, il giudice assegna all’interessato una provvisionale a titolo di alimenti (art 646 co.3 e 5).

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Lo Stato, tenuto a corrispondere la riparazione in seguito al definitivo accoglimento della domanda, si surroga, fino alla
concorrenza della somma pagata, nel diritto al risarcimento dei danni contro il responsabile qualora la condanna sia stata
revocata perché emessa, ex art 630 lett.d, in conseguenza di un fatto previsto dalla legge come reato.

53. La revisione in peius.


Le disposizioni in materia di revisione si applicano anche nei confronti di chi abbia rilasciato dichiarazioni rivelatesi poi false o
reticenti;

poiché in questi casi la revisione è finalizzata alla revoca dei vantaggi indebitamente conseguiti, si parla di revisione in peius.

La prima previsione del genere risale all’esperienza degli anni 80 relativa al periodo emergenziale di matrice terroristica:

 Si contemplava la possibilità di revisione, finalizzata ad ottenere una pena più grave per specie e quantità e la revoca
dei benefici, quando le cause di non punibilità o le attenuanti riconosciute ai responsabili di reati commessi con finalità
di terrorismo o di eversione dell’ordinamento costituzionale fossero state applicate “per effetto di false o reticenti
dichiarazioni”.

Negli anni 90 è stata ripercorsa la stessa via in rapporto al fenomeno mafioso, attribuendo così alla revisione contra reum un
ruolo specifico di deterrente da utilizzare quale contrappeso rispetto ai benefici che scaturiscono da norme premiali.

La legge 45/2001 ha inserito nel d.l.8/1991 un capo II-ter, nel quale è ricompreso l’art 16septies che ha ridisegnato la
materia.

Nuova, rispetto al passato, appare la scelta di consentire la revisione contra reum anche quando chi ha beneficiato delle
circostanze attenuanti abbia commesso, entro 10 anni dal passaggio in giudicato della sentenza, un delitto, per il quale è
obbligatorio l’arresto in flagranza, indicativo della permanenza nel circuito criminale;

non i può negare come un tale comportamento si ponga su un piano diverso completamente rispetto alla prestata
collaborazione e alla conseguente applicazione delle circostanze attenuanti, dovendosi dunque constatare una forzatura del
legislatore nell’impiego dello strumento della revisione in peius.

54. La rescissione del giudicato. (Art 625bis)


La nuova disciplina del processo in assenza, dovuta alla l.67/2014, era stata completata dall’art 625ter (“Rescissione del
giudicato”), inserito dalla suddetta legge.

Si trattava di un rimedio restitutorio, inquadrabile fra le impugnazioni straordinarie.

La l.103/2017 ha abrogato l’art 625ter, trasferendo la disciplina della rescissione del giudicato nel nuovo art 629bis, dedicato
alla revisione.

L’art 625ter attribuiva la competenza funzionale a decidere alla corte di cassazione, producendo un aggravio di lavoro per la
Suprema Corte; scelta che si poneva in controtendenza rispetto alle prospettive riformatrici, miranti, viceversa, a ridurre il
numero già esorbitante dei ricorsi.

Accogliendo la critica, il legislatore del 2017 ha spostato la suddetta competenza in capo alla corte di appello.

Il co.1 art 629bis prevede che il condannato o il sottoposto a misura di sicurezza con sentenza passata in giudicato, nei cui
confronti si sia proceduto in assenza per tutta la durata del processo, possa ottenere la rescissione del giudicato, qualora provi
che l’assenza è stata dovuta a una incolpevole mancata conoscenza della celebrazione del processo (non rileva, dunque, che il
condannato a suo tempo, abbia avuto conoscenza del procedimento).

Ex co.2 art 629bis, la richiesta è presentata alla corte di appello nel cui distretto ha sede il giudice che ha emesso il
provvedimento, a pena d’inammissibilità, personalmente dall’interessato o da un difensore munito di procura speciale,
autenticata nelle forme previste dall’art 583 co.3, entro 30 giorni dal momento dell’avvenuta conoscenza del procedimento.

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Da registrare qualche imprecisione:


 in primis, la richiesta non andrà presentata alla corte di appello, ma nella relativa cancelleria;
 in secundis, sarebbe stato più opportuno riferirsi al giudice il cui provvedimento (irrevocabile) è stato posto in
esecuzione
 si è scelto di non replicare, per la rescissione, l’individuazione della corte di appello secondo i criteri ex art 11,
sebbene la ratio ispiratrice della sostituzione dell’art 633 co.1, quanto alla revisione, valga anche per il rimedio
rescissorio.

la Corte di appello provvede ex art 127, cioè in udienza camerale partecipata.

La previsione è apprezzabile perché tutela il contraddittorio e persegue esigenze di efficienza.

Se accoglie la richiesta, la corte revoca la sentenza e dispone la trasmissione degli atti al giudice di primo grado:

 in quest’ultimo giudizio si applica l’art 489 co.2 e quindi l’imputato è rimesso nel termine per formulare la richiesta di
giudizio abbreviato o di patteggiamento.

Anche in tale eventualità, il condannato o il sottoposto a misura di sicurezza si vede riconosciuto il diritto alla nuova
celebrazione del giudizio di primo grado, a patto che si riesca a provare il carattere incolpevole della sua assenza per tutta la
durata del processo;

valgono in proposito le considerazioni già espresse con riguardo al nuovo art 604 co.5bis.

Infine, ex art 629bis co.4, al procedimento per la rescissione del giudicato si applicano li artt 635 e 640, dettati per la revisione:

 da una parte la corte di appello può in qualunque momento disporre, con ordinanza, la sospensione della pena o della
misura di sicurezza, stabilendo (se del caso) una delle misure coercitive previste ex art 281,282,283 e 284.;

 dall’altra, la sentenza è ricorribile per cassazione.

Non è stata considerata l’evenienza in cui la corte di appello pronunci ordinanza d’inammissibilità della richiesta di
rescissione, mentre, nella corrispondente ipotesi di revisione, provvede l’art 634 co.2, stabilendo la possibilità di ricorso.

La lacuna potrebbe venir colmata reputando applicabile l’art 127 co.7 e 9 o la disposizione generale contenuta nell’art 591
co.3 primo periodo (secondo cui l’ordinanza d’inammissibilità è soggetta a ricorso per cassazione).

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Capitolo X
Esecuzione
1. Premessa.
Il Libro X disciplina l’esecuzione penale, ossia le attività successive alla formazione del giudicato.

Si tratta di quelle attività che servono a dare concreta attuazione al comando contenuto nel dispositivo della decisione penale
divenuta definitiva.

La fase esecutiva è la sede d’eccellenza per l’attuazione dei principi costituzionali dell’umanizzazione della pena e
dell’adeguatezza della stessa con riferimento al fine della possibile rieducazione del condannato.

Di questo si occupa la l.354/1975, normativa dedicata all’ordinamento penitenziario e all’esecuzione delle misure privative e
limitative della libertà. Grazie ad essa viene garantito il rispetto della dignità personale del detenuto, vengono tutelati i suoi
diritti e assicurate le condizioni per il suo reinserimento sociale.

Circa la disciplina esecutiva in senso stretto, il legislatore delegato ha predisposto un articolato quadro di norme che:

 Da un lato, affidano al P.M. il compito di promuovere e curare l’esecuzione della decisione, svolgendo tutte le attività
d’ordine operativo necessarie ad attuare il dictumi del giudice della cognizione (procedimento esecutivo in senso stretto);

 Dall’altro, assicurano la presenza continua di un organo giurisdizionale, il giudice dell’esecuzione, cui vengono affidate le
decisioni ad adottarsi nella fase.

I poteri decisori sono affidati ad un giudice, ma in ragione del riconoscimento del diritto di difesa dell’interessato, del diritto al
contraddittorio, dell’obbligo di motivazione del provvedimento conclusivo e del diritto all’impugnazione.

Da tener conto è che, nonostante dubbi passati circa i poterei attribuiti al giudice e al P.M.:

 L’esecuzione penale non può essere qualificata come un segmento di quel processo cui si riferisce la norma
costituzionale sulla giurisdizione (art 111 Cost), essendo proprio e solo la definitiva, irrevocabile chiusura della fase
processuale il presupposto per l’avvio di quella esecutiva:

Né, i poteri de libertate qui attribuiti al P.M. sembrano dissonanti con il disposto dell’art 13 co.2 Cost, che riserva al
provvedimento motivato dell’autorità giudiziaria qualsiasi restrizione della libertà personale;

questo perché, è dalla decisione penale divenuta definitiva, e non dall’ordine esecutivo adottato a valle della sentenza, che trae
giustificazione, in caso di condanna a pena detentiva, la privazione della libertà del condannato.

2. La chiusura della fase cognitiva e l’”irrevocabilità” del provvedimento.


La decisione del giudice penale è l’atto col quale l’organo della giurisdizione esercita la funzione assegnatagli dall’ordinamento:

 Dare applicazione nel caso concreto alla previsione generale ed astratta della norma incriminatrice, attraverso un
giudizio di corrispondenza tra il fatto storico (l’enunciazione fattuale contenuta nell’imputazione) ed il fatto tipico
(l’enunciazione normativa contenuta nella legge penale).

Tale giudizio di corrispondenza è il risultato della fase cognitiva, che può svilupparsi in più gradi o esaurirsi in un unico
passaggio, a seconda che siano o meno attivati i mezzi di verifica della prima decisione previsti dalla legge.

L’individuazione del momento in cui la sentenza del giudice penale acquista stabilità è il frutto di una valutazione politico
legislativa volta a contemperare due contrapposti interessi:

 Quello alla giustizia sostanziale della decisione  cercando di ridurre al minimo possibile il rischio dell’errore
giudiziario (condanna innocente o assoluzione del colpevole);
 E quello alla certezza del diritto  impone di chiudere in tempi accettabili il processo, per far cessare la situazione di
conflitto generata dalla commissione del reato.

A tale ultimo obiettivo mira anche l’art 111 co.2 Cost (assicurare la ragionevole durata del processo).
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410

Con la conclusione della fase cognitiva, dunque, il provvedimento del giudice diviene definitivo: res iudicanda est.

Solo allora potrà essere eseguito il comando del giudice, che diviene titolo esecutivo; fino a quel momento l’esecuzione del
provvedimento è sospesa (art 588 co.1).

L’effetto sospensivo si verifica anche durante la pendenza del termine per proporre impugnazione.

Ciò che comunemente viene definito come un effetto del mezzo d’impugnazione, è a ben vedere una caratteristica intrinseca
della decisione penale.

In realtà, ciò vale per le sentenze di condanna, per le quali la definitività (o irrevocabilità) ed esecutività necessariamente
coincidono:
 È a tal proposito che l’art 27 co.2 Cost detta la fondamentale regola di “trattamento” dell’imputato, che preclude al
legislatore ordinario la possibilità di concepire una decisione penale provvisoriamente esecutiva.

Con la presunzione di non colpevolezza dell’imputato (o meglio, il divieto di presumere colpevole l’imputato) sino a che sia
divenuta definitiva la sentenza di condanna, la norma costituzionale impedisce di anticipare la punizione rispetto alla
conclusione del processo, perché questo significherebbe trattare da reo un imputato la cui colpevolezza, per quanto magari
già riconosciuta al termine di un grado di giudizio, non è stata dichiarata in termini conclusivi e potrebbe dunque ancora
essere negata.

Viceversa, le sentenze di proscioglimento non devono attendere la conclusione dell’intero iter processuale per esplicare i loro
effetti;

così come le decisioni sull’azione civile esercitata nel processo penale ben possono essere dotate di provvisoria esecutività, al
pari di quelle che applicano le misure di sicurezza, non essendo queste ultime assimilabili alle pene sul piano delle garanzie
costituzionali (non per nulla la misura di sicurezza può essere imposta anche al prosciolto).

È per questo motivo che il disposto dell’art 588 (“Sospensione dell’esecuzione”) non prescrive la sospensione dell’esecuzione
per tutti i provvedimenti giurisdizionali, ma fa salvi i casi in cui la legge dispone altrimenti.

Il codice non parla di provvedimenti giurisdizionali “definitivi”, ma fa discendere la “forza esecutiva” della decisione dalla sua
“irrevocabilità”, precisando che nel caso delle sentenze di non luogo a procedere l’esecuzione sorge con l’inoppugnabilità del
provvedimento.

La distinzione tra le sentenze pronunciate in giudizio (irrevocabili), e sentenze di non luogo a procedere (revocabili) non
sembra aver molto pregio.

Intanto, anche le prime sono decisioni revocabili a determinate condizioni:


- Se di condanna  in seguito all’esperimento del rimedio straordinario della revisione o in caso di bis in idem ex art
669 co.1;
- Se di proscioglimento  nell’ipotesi contemplata ex art 669 co.7.

Ad ogni modo, non muta il parametro di riferimento, in quanto la forza esecutiva nasce dalla chiusura della fase di
cognizione, che si realizza nel momento in cui non è più possibile impugnare (in via ordinaria) il provvedimento.

La sentenza emessa in giudizio (come il decreto penale di condanna) diviene irrevocabile (art 648) e dunque eseguibile quando:

- non sono previsti mezzi di impugnazione (diversi dalla revisione),


- o sono spirati i termini per attivare i reclami ammessi (compresa l’opposizione al decreto penale),
- o non è impugnata l’ordinanza che dichiara inammissibile il reclamo proposto.

Allo stesso modo:

 “le sentenze di non luogo a procedere hanno forza esecutiva quando non sono più soggette a impugnazione”

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3. Effetto preclusivo del giudicato: il divieto di un secondo giudizio. (Art 649)


L’effetto tipico della res iudicanda penale è quello di precludere la possibilità che nei confronti del soggetto giudicato possa
nuovamente instaurarsi un procedimento penale per lo stesso fatto  ne bis in idem.

Art 649  Divieto di un secondo giudizio.


“L’imputato prosciolto o condannato con sentenza o decreto penale divenuti irrevocabili non può essere di nuovo sottoposto
a procedimento penale per il medesimo fatto, neppure se questo viene diversamente considerato per il titolo, per il grado o
per le circostanze, salvo quanto disposto ex art 69 co.2 e 345.” (co.1).

“Se ciò nonostante viene di nuovo iniziato procedimento penale, il giudice di ogni stato e grado del processo pronuncia
sentenza di proscioglimento o di non luogo a procedere, enunciandone la causa nel dispositivo.” (co.2).

La norma opera sul piano processuale ed ha una portata diversa rispetto a quella dell’art 15 c.p., per cui nessuno può essere
punito più volte per uno stesso fatto regolato da più norme penali.

Inoltre, l’art 649, nel vietare la ripetizione del giudizio, non prescrive al giudice di uniformarsi all’accertamento contenuto nella
decisione irrevocabile; la norma si limita a precludere una nuova persecuzione penale della stessa persona per lo stesso fatto.

Si tratta di una garanzia ad personam, che assicura la certezza del diritto in senso meramente soggettivo:
 Nulla vieta al giudice penale di riconsiderare l’idem factum, magari ai fini della prova di un diverso reato, od in relazione
alla posizione di altri imputati-

È la decisione divenuta irrevocabile (sentenza di proscioglimento o di condanna e decreto penale di condanna) a determinare il
divieto di un secondo giudizio.

Appartengono a tale ambito, sicuramente, la sentenza di applicazione della pena su richiesta delle parti, quella pronunciata in
esito al giudizio abbreviato e quella predibattimentale di proscioglimento ex art 469.

È, invece, estraneo all’ambito di applicazione dell’art 649 il provvedimento di archiviazione, la cui adozione non costituisce
affatto una decisione sull’azione penale, e non impedisce che nei confronti della stessa persona possano in seguito essere svolte
per lo stesso fatto nuove indagini e venga formulata l’imputazione.

Diversa considerazione meriterebbe la pronuncia di archiviazione per particolare tenuità del fatto ex art 411; in tal caso, la
declaratoria di non punibilità ha carattere definitivo e preclude una nuova iniziativa del P.M. per il medesimo fatto,
dovendosi ritenere perfezionata la scelta punitiva dello Stato.

Meno immediata è la risposta a proposito della sentenza di non luogo a procedere;

si tratta di una decisione priva della caratteristica della irrevocabilità, ma è innegabile che la sentenza di proscioglimento
emessa nell’udienza preliminare risulta idonea a dispiegare un’efficacia preclusiva, quantomeno finché non ne sia disposta la
revoca;

l’eventuale nuovo procedimento iniziato in mancanza dell’ordinanza ex art 436, dovrebbe chiudersi a norma dell’art 649 co.2,
ossia con sentenza dichiarativa dell’improcedibilità dell’azione.

In alcuni casi, però, la sentenza di non luogo a procedere ha carattere definitivo:


 Si pensi al riconoscimento dell’intervenuto estinzione del reato, di fronte al quale spesso non risulta neppure ipotizzabile
la sopravvenienza dei presupposti per la revoca.

Resta comunque il fatto che, di fronte al contrasto tra una sentenza di non luogo a procedere ed una sentenza di condanna, il
codice prescrive la revoca della prima, dando prova di ritenerla una decisione congenitamente “più debole”.

L’effetto preclusivo a favore del prosciolto o condannato, opera con riferimento al medesimo fatto;

il mutamento del titolo, infatti, non fa venire meno lo sbarramento ad un secondo giudizio.

Il ne bis idem non cade col variare del grado o la considerazione di circostanze, aggravanti o attenuanti, prima non ritenute
ricorrenti.

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Ciò che rileva, in definitiva, è il “nucleo storico” del fatto, ossia l’identità tra le fattispecie prese in considerazione nei diversi
giudizi dal punto di vista della condotta e dell’oggetto fisico su cui la condotta è caduta;

 Non occorre, dunque, la corrispondenza di tutti gli elementi costitutivi del reato per poter considerare un fatto, dal punto
di vista che qui rileva, “medesimo” rispetto ad un altro già oggetto di giudizio.

Da segnalare, è che la giurisprudenza prevalente ritiene (discostandosi dalla dottrina) coperto dal divieto di bis in idem solo il
fatto sovrapponibile in tutti i suoi elementi (condotta, evento, nesso di causalità, circostanze di tempo, luogo e persona) a
quello oggetto della successiva contestazione, considerando ancora procedibile il fatto che risulti parzialmente diverso.

Tuttavia, a seguire questa opzione interpretativa, si finisce per contraddire il chiaro tenore letterale dell’art 649 co.1.

 Paradigmatico il caso del delitto tentato; per cui, se valesse l’interpretazione appena descritta, dovrebbe ritenersi
perseguibile per il reato consumato chi è già stato giudicato nella forma del tentativo, perché, mutando l’evento, non si
tratterebbe dello stesso fatto;

fortunatamente, la norma del codice è chiarissima nel senso contrario, parlando di “medesimo fatto”, diversamente
“considerato…per il grado”.

Un intervento della Corte costituzionale ha censurato la regola che escludeva l’operare del principio del ne bis in idem nel
caso di concorso formale di reati, ammettendo che uno stesso fatto già giudicato con riguardo ad una delle fattispecie
rilevanti, potesse essere oggetto di ulteriore contestazione riferita ad altra fattispecie legale.

Nessuna preclusione, invece, ad un nuovo giudizio per lo stesso fatto nei confronti della medesima persona nei due casi
espressamente indicati nell’ultima parte dell’art 649 co.1, rispettivamente previsti ex art 69 co.2 (“Morte dell’imputato”) e
art 345 (“Difetto di una condizione di procedibilità. Riproponibilità dell’azione penale”).

La prima disposizione (art 69) disciplina l’ipotesi della sentenza ex art 129 adottata sul presupposto della morte
dell’imputato;
 sentenza che “non impedisce l’esercizio dell’azione penale per il medesimo fatto e contro la medesima persona, qualora
successivamente si accerti che la morte dell’imputato è stata erroneamente dichiarata”.

La seconda norma dispone analogamente a proposito della sopravvenienza di una condizione di procedibilità la cui
mancanza aveva in precedenza giustificato il proscioglimento.

4. Segue: i rimedi alla violazione del divieto di un secondo giudizio.


Cosa accade se, nonostante il divieto di bis in idem, venisse di nuovo iniziato un procedimento penale nei confronti del
soggetto già giudicato?

L’art 649 co.2 stabilisce che “il giudice in ogni stato e grado del processo pronuncia sentenza di proscioglimento o di non luogo
a procedere, enunciandone la causa nel dispositivo”.

È una decisione adottabile solo in fase processuale, che il giudice può adottare anche d’ufficio, senza che sia necessaria una
exceptio rei iudicatae della parte.

La sussistenza della situazione impeditiva (cioè il precedente provvedimento giurisdizionale definitivo), andrà accertata e
valutata secondo i consueti canoni di giudizio valevoli nel processo penale.

Quanto al tipo di provvedimento adottabile, sembra rilevare il momento in cui si dichiara l’esistenza del fattore preclusivo:

 Non luogo a procedere  nell’udienza preliminare;


 Proscioglimento con la formula del non doversi procedere  in dibattimento.

In ogni casi, si tratterà di una dichiarazione di improcedibilità della nuova azione intrapresa in violazione del divieto.

Tale regola subisce un’eccezione nel giudizio in cassazione;


l’art 621, con riferimento alla situazione ex art 620 co.1 lett.h (“se vi è contraddizione tra la sentenza impugnata e un’altra
anteriore concernente la stessa persona e il medesimo oggetto, pronunciata dallo stesso o da un altro giudice penale”),
stabilisce che:

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o La corte “ordina l’esecuzione della prima sentenza o ordinanza, ma, se si tratta di una sentenza di condanna, ordina
l’esecuzione della sentenza che ha inflitto la condanna meno grave determinata a norma dell’art 669”, annullando
senza rinvio il provvedimento più sfavorevole e lasciando in vita l’altro, foss’anche quello adottato in violazione del
divieto di bis in idem.

Analogo rimedio improntato al favor rei è previsto, in fase esecutiva, per risolvere il conflitto pratico di giudicati:

 l’inosservanza della prescrizione ex art 649 (“Pluralità di sentenze per il medesimo fatto contro la stessa persona”) porta alla
coesistenza di una pluralità di decisioni definitive pronunciate sul medesimo fatto nei confronti della stessa persona.

Di fronte a questa evenienza patologica, la rigorosa applicazione del ne bis in idem imporrebbe di dare esecuzione al primo
provvedimento divenuto irrevocabile, e di revocare tutti quelli adottati successivamente, in violazione del divieto.

La scelta del legislatore è stata diversa:


 l’art 669 prevede che il giudice disponga la revoca della res iudicata meno favorevole.

Tra più sentenze di condanna divenute irrevocabili, viene ordinata l’esecuzione di quella che ha irrogato la pena meno grave,
seguendo i criteri dettati nei co.3 e 4 per l’individuazione della sentenza più favorevole;

solo a parità di trattamento sanzionatorio viene eseguita la sentenza di condanna divenuta irrevocabile per prima.

Analogamente per il caso di concorrenza tra più sentenze di non luogo a procedere o di proscioglimento il giudice ordina
l’esecuzione:

 di quella più favorevole (secondo il noto ordine delle formule: il fatto non sussiste, l’imputato non lo ha commesso, il fatto
non è previsto dalla legge come reato o non costituisce reato, l’autore non è punibile, il reato è estinto, l’autore non è
imputabile),
 o di quella eventualmente indicata dall’interessato.

Ove il conflitto si ponga tra provvedimenti disomogenei, vale il medesimo principio di favore, quando si tratti di decisioni
irrevocabili;
 tra proscioglimento e condanna prevale il primo (salvo alcuni casi).

La sentenza di non luogo a procedere, invece, benché divenuta definitiva per prima, viene revocata di fronte alla sentenza di
condanna pronunciata in giudizio ed al decreto penale.

La decisione che risolve il conflitto è emessa dal giudice al termine del procedimento incidentale ex art 666 (“Procedimento di
esecuzione”).

5. Effetti extrapenali del giudicato.


Nell’abrogato codice dominava l’idea che il giudizio penale dovesse produrre risultati valevoli in qualsiasi altra sede, nella
convinzione dell’indiscutibilità della verità ricostruita nel processo ed in ossequio al principio dell’unità della funzione
giurisdizionale.

Negli anni 70, la Corte costituzionale aveva più volte ridimensionato l’effetto erga omnes del giudicato penale sul fatto
materiale accertato dalla sentenza, dichiarando il contrasto con l’art 24 Cost delle diposizioni che consentivano di opporre la res
iudicata penale anche nei confronti di chi non avesse avuto la possibilità di partecipare al processo.

Col varo del codice del 1988, si è disegnato uno scenario nel cui ambito l’autorità extrapenale del giudicato è riconosciuta solo in
applicazione delle espresse prescrizioni dettate dalla legge, rappresentando una deroga al principio di autonomia e separazione
fra i giudizi.

E dunque, la sentenza penale irrevocabile di condanna (art 651):


o “ha efficacia di giudicato, quanto all’accertamento della sussistenza del fatto, della sua illiceità penale e
all’affermazione che l’imputato lo ha commesso, nel giudizio civile o amministrativo per le restituzioni e il
risarcimento del danno promosso nei confronti del condannato e del responsabile civile, se quest’ultimo sia stato
citato o sia intervenuto nel processo penale”.

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Analogamente dispone l’art 651bis (introdotto nel 2015) per la sentenza penale irrevocabile di proscioglimento pronunciata
per particolare tenuità del fatto.

Per converso, la sentenza irrevocabile di assoluzione (art 652): “ha efficacia di giudicato, quanto all’accertamento che il fatto
non sussiste o che l’imputato non o ha commesso o che il fatto è stato compiuto nell’adempimento di un dovere o nell’esercizio di
una facoltà legittima, nel giudizio civile o amministrativo per le restituzioni e il risarcimento del danno promosso dal
danneggiato o nell’interesse dello stesso”, a due condizioni:

 L’una, “che il danneggiato si sia costituito o sia stato posto in condizione di costituirsi parte civile”, in ossequio al
principio per cui ci si può opporre un risultato sfavorevole solo a chi ha potuto partecipare al relativo giudizio;
 L’altra, che lo stesso danneggiato non abbia “esercitato l’azione in sede civile a norma dell’art 75 co.2”, introdotta dal
legislatore in funzione apertamente disincentivante dell’azione civile nel processo penale.

Assoluzione e condanna irrevocabili pesano, anche, “nel giudizio per responsabilità disciplinare davanti alle pubbliche
autorità” (art 653):
 L’assoluzione  “quanto all’accertamento che il fatto non sussiste o non costituisce illecito penale o che l’imputato
non lo ha commesso”;
 La condanna  “quanto all’accertamento della sussistenza del fatto, della sua illiceità penale e all’affermazione che
l’imputato lo ha commesso”.

A seguito dell’intervento del 2001, le sentenze irrevocabili di patteggiamento, normalmente prive di efficacia extrapenale,
fanno stato nel giudizio disciplinare.

Nei giudizi civili o amministrativi ove si controverte non delle restituzioni o del risarcimento del danno da reato, ma “intorno a
un diritto o a un interesse legittimo il cui riconoscimento dipende dall’accertamento degli stessi fatti materiali che furono
oggetto del giudizio penale” (art 654), la decisione penale ha un’efficacia ancora più limitata.

Intanto, per valere in sede extrapenale come giudicato nei confronti dell’imputato, della parte civile e del responsabile civile,
deve trattarsi di sentenza irrevocabile di condanna o di assoluzione pronunciata in seguito a dibattimento.

Inoltre, occorre che “i fatti accertati siano stati ritenuti rilevanti ai fini della decisione penale”.

Infine, il vincolo nel giudizio civile o amministrativo opera solo se “la legge civile non ponga limitazioni alla prova della posizione
soggettiva controversa”:

 Il legislatore ha inteso far salve, qui, le regole stabilite sul piano probatorio dal diritto privato (che ammette o meno, a
seconda dei casi, presunzioni legali, esclude la prova orale, disciplina la forza probatoria all’atto pubblico e della
scrittura privata), che non possono così essere superate dall’accertamento raggiunto nel processo penale.

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Capitolo XIII
Procedimento penale davanti al giudice di pace
(d.lgs. 28 agosto 2000, n.274)

1. Considerazioni introduttive.
Nella l.374/1991, istitutiva del giudice di pace, era già contenuta una delega al Governo in tema di competenza e procedimento
penale, delega che doveva essere attuata entro il 30 settembre ’94.

Il termine sarebbe spirato inutilmente, e a distanza di 6 anni, miglior sore sarebbe spettata alla successiva delega conferita con
la l.468/99, concernente non solo la competenza in materia penale del giudice di pace, ma anche il relativo procedimento e
l’apparato sanzionatorio dei reati ad esso devoluti.

Così, emanato il d.lgs. 274/2000, dalla sua entrata in vigore ha incominciato ad operare nelle aule giudiziarie un nuovo
giudice:
 il giudice di pace  organo che poteva conoscere solo reati commessi successivamente all’entrata in vigore del
decreto legislativo, con l’unica eccezione di quelli commessi dopo la pubblicazione del medesimo decreto, sempre
che alla data di entrata in vigore non si fosse ancora avuta l’iscrizione della notizia di reato.

Sennonché, avvicinandosi la data per l’entrata in vigore della riforma (4 aprile 2001), si dovette imporre un differimento;

solo 2500 giudici di pace risultavano in servizio rispetto ad un organico stabilito in 4700 unità; non poche difficoltà si avvertivano
sul piano dell’individuazione del personale amministrativo e delle forze di P.G.

Si decise, quindi, che il provvedimento sul giudice di pace entrasse in vigore il 2 gennaio 2002; ma prima di tal data venne
emanato il d.m. 204/2001, contenente il regolamento di esecuzione del d.l.274/2000, composto da 24 articoli che spaziano
su varie tematiche, colmando alcune lacune lasciate dalle disposizioni “principali”.

Per quanto riguarda ai profili sanzionatori, restava ferma l’applicazione delle disposizioni più favorevoli al reo relativamente ai
reati che, pur destinati a rientrare nella competenza del giudice di pace, venivano ancora giudicati dal tribunale.

È solo dopo l’entrata in vigore del decreto che hanno trovato applicazione anche le disposizioni sulle modalità di pronuncia della
sentenza di condanna alla permanenza domiciliare, sull’improcedibilità per la particolare tenuità del fatto e sull’estinzione del
reato conseguente a condotte riparatorie, oltre che le previsioni di maggior favore dettate in tema di iscrizione nel casellario
giudiziale.

La novella non è stata inserita nel corpo del codice di procedura penale.

Pur non formulando uno specifico iter procedimentale, si dovevano tener conto delle norme del Libro VIII c.p.p. riguardanti il
procedimento davanti al tribunale in composizione monocratica, con le massime semplificazioni rese necessarie dalla
competenza del giudice di pace.

Si ricava, dunque, un modello di giustizia penale, affatto diverso da quello tradizionale.

In particolare, la competenza penale del giudice di pace è stata stabilita:

 a fronte di fattispecie di reato per le quali non è prevista la pena detentiva, essendosi fatto ricorso a diversi e nuovi
protocolli sanzionatori che utilizzano come pene principali non solo quella pecuniaria, ma anche le sanzioni della
permanenza domiciliare e del lavoro di pubblica utilità.

La valorizzazione delle funzioni conciliative del giudice di pace consente di sperimentare gli schemi della mediazione penale,
all’interno dei quali possono ricevere adeguata attenzione la posizione e gli interessi della vittima del reato (come è logico
che avvenga in un micro-sistema penale che prevede il normale ricorso a meccanismi di tipi risarcitorio/riparatorio, estranei
allo schema classico del diritto penale).

Su queste considerazioni, si comprende come la scelta di collocare l’intero contenuto della novella nel codice di rito non si
sarebbe potuto giustificare.

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2. Gli organi giudiziari ed i principi generali del procedimento penale davanti al giudice di pace.
Gli organi che svolgono funzioni giudiziarie nel procedimento penale davanti al giudice di pace sono:

a) Il procuratore della Repubblica presso il tribunale nel cui circondario ha sede il giudice di pace;
b) Il giudice di pace.

Nei procedimenti davanti al giudice di pace, sulla base di quanto stabilito col d.lgs. 116/2017, le funzioni del P.M. possono
essere svolte per delega del Procuratore della Repubblica:

- Nell’udienza dibattimentale;
- Nei procedimenti in camera di consiglio ex art 127 c.p.p.;
- Nei procedimenti di esecuzione ai fini dell’intervento ex art 655 co.2 c.p.p.;
- Nonché per il compimento degli atti previsti ex art 15, 17 e 25 d.lgs. 274/2000, riguardanti l’attività conseguente al
ricevimento della relazione delle P.G., la richiesta di archiviazione e le richieste successive alla comunicazione del ricorso
della persona offesa.

Quanto ai soggetti delegabili, pur non essendo stato formalmente abrogato l’art 50 (“Delegati del procuratore della Repubblica
nel procedimento penale davanti al giudice di pace”), si deve ritenere che con la riforma organica della magistratura onoraria
attuata nel 2017 tale disposizione sia stata comunque abrogata in forza dell’art 15 preleggi c.c., per cui:

 L’unica figura rimasta è quella del vice procuratore onorario (figura quantificata, nel 2018, in 2000 unità).

L’ufficio del giudice di pace è ricoperto da un giudice onorario di pace, ossia il magistrato onorario addetto a tale ufficio

La decisione di riconoscere una competenza penale al giudice di pace ha pesato sulle modifiche apportate con la l.468/99 ai
meccanismi di selezione e di nomina nella carica.

Veniva indicato come condizione essenziale il superamento dell’esame di abilitazione alla professione forense (a meno che non
si trattasse di candidati che avevano esercitato funzioni giudiziarie, notarili, etc).

Questa previsione è tuttavia venuta meno con l’entrata in vigore del d.lgs.116/2017, col quale il Governo ha dato attuazione
alla l.57/2016, che prevedeva (entro un anno dalla sua entrata in vigore), l’emanazione di decreti legislativi nei quali doveva
essere prevista un’unica figura di giudice onorario, il giudice onorario di pace, in sostituzione del giudice onorario di tribunale e
del giudice di pace.

Nell’art 4 d.lgs.116/2017, dove sono individuati i requisiti per il conferimento dell’incarico di magistrato onorario, quindi tanto
di giudice onorario di pace quanto di vice procuratore onorario, si richiede esclusivamente:

 il possesso della laurea in giurisprudenza a seguito di un corso universitario di durata non inferiore a 4 anni, mentre
l’esercizio pregresso della professione di avvocato costituisce solo un titolo di preferenza.

Quanto alla procedura di nomina da parte del Ministro della giustizia, questa presuppone, sempre, per tutti i magistrati
onorari, requirenti o giudicanti:
 una deliberazione del Consiglio Superiore della Magistratura, subordinata ad un giudizio di idoneità, da effettuarsi
sulla base degli esiti di un tirocinio della durata di 6 mesi svolto sotto la direzione di un magistrato collaboratore, il
quale si avvale di magistrati professionali affidatari designati per la pratica giudiziaria dei tirocinanti

In origine, l’ufficio del giudice di pace aveva sede in tutti i capoluoghi dei mandamenti esistenti fino al 1991 (in origine, 836
uffici).

Nel 2012 si è deciso di accorpare gli uffici del giudice di pace dislocati in sede diversa da quella circondariale.

A regime, dovevano restare in funzione solo 178 uffici di giudice di pace; ma era facile prevedere una significativa crescita del
numero di tali uffici, dato che, nel 2012, è stata riconosciuta la possibilità agli enti locali di chiedere ed ottenere il mantenimento
degli uffici del giudice di pace con competenza sui rispettivi territori, anche tramite eventualmente accorpamento, facendosi
integralmente carico delle spese di funzionamento e di erogazione del servizio giustizia.

Con il d.m. 7 marzo 2014 il Ministro della Giustizia, ha individuato le 285 sedi degli uffici del giudice di pace mantenute (numero
abbassatosi poi a 200).

Con il d.m. 27 maggio 2016 il Guardasigilli ha disposto che, a partire dal 2 gennaio 2017, sia ripristinato il funzionamento di 51
uffici del giudice di pace prima soppressi.
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Non è stato previsto un ufficio del G.I.P. presso il giudice di pace.

D’altronde, nel procedimento in esame il ruolo svolto dal giudice nella fase investigativa non sembra assumere “quegli
aspetti di delicatezza che investono i poteri del G.I.P. nel procedimento ordinario, in quanto manca lo snodo dell’udienza
preliminare, con i suoi possibili epiloghi alternativi al giudizio e non vi sono misure cautelari da disporre, ed allo stesso modo,
non trova applicazione l’istituto dell’incidente probatorio”.

L’esigenza di assicurare una garanzia giurisdizionale nella fase delle indagini è stata risolta con l’individuazione di una
competenza attribuita al giudice di pace del luogo in cui ha sede il tribunale del circondario in cui è compreso il giudice di pace
territorialmente competente.

Per il rito del giudice di pace si effettua un rinvio alle altre disposizioni codicistiche nei limiti della loro applicabilità, stabilendo
che dovranno osservarsi, in quanto applicabili, le norme contenute nel codice, nonché le relative norme di attuazione e di
coordinamento.

Si è ritenuto opportuno specificare anche l’inapplicabilità di una serie di istituti:

- incidente probatorio; arresto in flagranza; fermo di indiziato di delitto; misure cautelari personali; proroga del termine
delle indagini preliminari; udienza preliminare; tutti i procedimenti speciali previsti ex art 438-464 Libro VI c.p.p.

L’inapplicabilità di alcuni di questi istituti era facilmente intuibile, dato che nella competenza del giudice di pace non possono
rientrare procedimenti nei quali è ipotizzabile l’adozione di provvedimenti limitativi della libertà della persona.

Probabilmente, qualcuno avrebbe potuto asserire l’operatività dei procedimenti speciali.

Al riguardo, nella relazione governativa si osserva come la modestia gravità dei reati devoluti al giudice di pace deponga nel
senso di non giustificare la previsione di riti alternativi al giudizio al di fuori dei meccanismi di oblazione, di conciliazione, di
improcedibilità per tenuità del fatto e di estinzione del reato conseguente a condotte riparatorie.

La finalità conciliativa e riparatoria del procedimento, può anche prevalere rispetto all’esigenza di una celere chiusura dello
stesso.

Nell’art 2 co.2, si è stabilito il principio per cui il giudice di pace “deve favorire, per quanto possibile, la conciliazione tra le
parti”.

Nella prospettiva della ricerca di un epilogo in linea con le caratteristiche del procedimento in esame si colloca l’istituto della
sospensione con messa alla prova introdotto nel 2014, che non presenta alcuna indicazione circa l’applicabilità davanti al
giudice di pace.

Tuttavia, la causa estintiva conseguente a condotte riparatorie prevista nell’art 35 d.lgs.274/2000 parrebbe presentare non
poche analogie con la causa estintiva disciplinata a livello procedimentale negli art 464bis ss c.p.p., così che risulta non priva
di fondamento la tesi per la quale se ne dovrebbe negare l’operatività in forza del rinvio alle norme codicistiche ex art 2 co.1.

Sempre a tal proposito, si può notare come l’affidamento dell’imputato al servizio sociale nel caso della messa alla prova
possa comportare l’osservanza di prescrizioni che incidono anche sulla scelta della dimora, sulla libertà di movimento o sulla
frequentazione di determinati locali, determinandosi una compressione della persona talora più pesante di quella che
potrebbe discendere dall’esecuzione delle sanzioni irrogabili dal giudice di pace.

3. Competenza per materia e per territorio del giudice di pace.


Le funzioni conciliative del nuovo procedimento si riflettono nella scelta delle fattispecie penali attribuite al giudice di pace ed
elencate nell’art 4 (“Competenza per materia”).

Nel co.1 art 4 compaiono alcuni delitti del codice penale che costituiscono l’espressione tipica di una microconflittualità
interindividuale; si allude:

- Alle percosse, alle lesioni personali punibili a querela di parte (sempre se non commesse contro uno dei soggetti ex art 577
co.2 c.p. o contro il convivente), alle diffamazioni non commesse con il mezzo della stampa, alle minacce, ai furti punibili a
querela di parte, all’uccisione o al danneggiamento di animali altrui.

A seguito dell’entrata in vigore del d.lgs. 7/2016 sono state eliminate alcune imputazioni da detta elencazione.

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Assumendo tempestivamente la cognizione di tali reati e fornendo percorsi idonei a favorire la composizione sociale del
conflitto, il giudice di pace può svolgere un ruolo non secondario in una prospettiva di complessivo miglioramento dei rapporti
tra collettività ed amministrazione della giustizia.

Tuttavia, non sempre la scelta effettuata nell’art 4 è apparsa condivisibile in considerazione di possibili attenuazioni della
risposta penale che potevano interessare fattispecie di lesioni colpose gravi o gravissime provocate dalla violazione delle
norme sulla circolazione stradale, meritevole di ben altra severità sanzionatoria.

A tal proposito, nel 2008 era stata esclusa la competenza del giudice di pace per le lesioni personali di cui all’art 590 co.3 c.p.,
per il fatto commesso da soggetto in stato di ebrezza alcoolica, o da un soggetto sotto l’effetto di sostanze stupefacenti o
psicotrope.

Ma con l’approvazione della l.41/2016, che ha determinato l’introduzione del nuovo delitto di lesioni personali stradali gravi
o gravissime (disciplinato ex nuovo art 590bis c.p.), la competenza del giudice di pace è venuta meno per tutte le lesioni
personali colpose gravi o gravissime conseguenti a violazioni delle norme sulla circolazione stradale.

Anche per le contravvenzioni codicistiche sembrerebbe individuabile un ruolo del giudice come compositore di controversie.

Nella legge delega, la competenza del giudice di pace doveva ricomprendere anche i reati previsti da leggi speciali da
individuare nel rispetto di tutti i seguenti criteri:

- Reati puniti con pena detentiva non superiore nel massimo a 4 mesi,
- O con pena pecuniaria sola o congiunta alla predetta pena (detentiva), ad eccezione di quelli che nelle ipotesi aggravate
sono puniti con una pena detentiva superiore a quella suindicata;
- Reati per i quali non sussistono particolari difficoltà interpretative o non ricorre la necessità di procedere ad indagini o
valutazioni complesse e per i quali è possibile l’eliminazione delle conseguenze dannose del reato anche attraverso le
restituzioni o il risarcimento del danno;
- Reati che rientrano nell’ambito delle violazioni finanziarie.

Nell’attuazione di questa parte della delega sono state selezionate alcune fattispecie, rispetto alle quali non sempre appare
possibile una restitutio in pristinum, sia pure nella forma di un risarcimento del danno, trattandosi talora di reati di pericolo
astratto in relazione ai quali non è ravvisabile alcuna conseguenza dannosa.

Sono stati, così, ricondotti nella competenza del giudice di pace reati previsti nel T.U. in materia di sicurezza, nel codice della
navigazione, nel T.U. delle leggi per l’elezione della Camera dei deputati, nel codice della strada, etc.

Solo le fattispecie contenute nel codice della strada, riguardanti la guida in stato di ebbrezza o sotto l’influenza di sostanze
stupefacenti ricorrono in percentuali importanti davanti ai giudici penali.

Prima nel 2003 e poi nel 2007, il legislatore, intendendo rendere più severo il trattamento sanzionatorio per tali reati, ha
stabilito che fosse il tribunale in composizione monocratica a giudicare per le fattispecie predette, compresa quella integrata
dal rifiuto di sottoporsi agli accertamenti per l’ebbrezza alcoolica o per l’alterazione psico-fisica derivante da alcool
(fattispecie ridotta ad illecito amministrativo nel 2007, ma poi ricondotta nell’area penale nel 2008).

La competenza per i reati elencati nei primi due commi art 4 è del tribunale:

 Se sussiste una o più delle circostanze aggravanti ad effetto speciale previste in materia di terrorismo, mafia e
discriminazione razziale (co.3 art 4).

Ance in caso di reati commessi da minorenni viene meno la competenza del giudice di pace, il quale lascia posto al giudice
specializzato, il tribunale per i minorenni (art 4 co.4).

Ad ogni modo, eccezion fatta per tali ultimi casi, il rispetto della competenza per materia del giudice di pace viene assicurato
in termini rigorosi.

Nell’art 48 (“Competenza del giudice di pace dichiarata da altro giudice”) si stabilisce che:
o “in ogni stato e grado del processo, se il giudice ritiene che il reato appartiene alla competenza del giudice di pace, lo
dichiara con sentenza e ordina la trasmissione degli atti al P.M.”

Mentre, come è noto ex art 23 co.2 c.p.p. (“Incompetenza dichiarata nel dibattimento di primo grado”), il giudice superiore
trattiene il giudizio, se l’incompetenza non è stata fatta valere entro il termine ex art 491 co.1 (“da proporre subito dopo
compiuto per la prima volta l’accertamento della costituzione delle parti”).
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Peraltro, a fronte di una così forte tutela degli spazi operativi del giudice di pace, si è fatta salva l’utilizzabilità di tutte le
prove formate davanti al giudice incompetente, comprese quelle dichiarative, per le quali sono individuati alcuni limiti.

Quanto alla competenza per territorio, l’art 5 co.1, si limita a stabilire che competente per il giudizio è il giudice di pace del
luogo in cui il reato è stato consumato, luogo da determinare sulla base delle disposizioni ex art 8 c.p.p (“Regole generali”), ma
anche suppletive (se non bastano le regole generali).

Una deroga alla competenza territoriale potrà discendere:


 dall’astensione  decisa dal presidente del tribunale
 o dalla ricusazione del giudice di pace  decisa dalla corte di appello

Nel co.2 art 5, sembra si prenda in considerazione una competenza funzionale, quella stabilita per gli atti da compiere nella fase
delle indagini preliminari, riservati al giudice di pace del luogo ove ha sede il tribunale del circondario in cui è compreso il
giudice territorialmente competente;

ciò, al fine di ridurre i rischi d’incompatibilità che potrebbero essere diversamente provocati dal coinvolgimento del giudice del
giudizio nell’attività predibattimentale.

A seguito della riforma che ha interessato l’organizzazione degli uffici del giudice di pace, la disposizione ha perso di
significato dal momento che tanto il giudice di pace competente per gli atti da compiere nella fase delle indagini preliminari
quanto il giudice del giudizio finiranno per afferire al medesimo ufficio, ma la presenza di un maggior numero di giudici di
pace in ciascun ufficio (a seguito dell’accorpamento tra vari uffici), dovrebbe ridurre, se non eliminare, il pericolo che si
realizzino ipotesi di incompatibilità.

4. L’attribuzione al giudice di pace della competenza per il reato di ingresso e soggiorno illegale nel
territorio dello Stato e per altri reati in materia di espulsione dello straniero.
La modifica apportata all’art 4 co.2, dalla l.94/2009, ha aggiunto la lett. s-bis, che ha determinato l’inclusione della competenza
penale del giudice di pace del nuovo reato di ingresso e di soggiorno illegale nel territorio dello Stato.

Successive modifiche del 2011 hanno aggiunto la lett. s-ter, che prende in considerazione le fattispecie previste in materia di
espulsione dello straniero nella l. 286/1998 (reati anch’essi introdotti dalla novella del 2011).

La prima di queste due integrazioni ha suscitato non poche perplessità;

ciò in considerazione delle critiche mosse alla previsione di una contravvenzione penale difficilmente giustificabile alla luce
dei principi di materialità e di necessaria offensività del reato, per la quale era stata prevista la trasformazione in illecito
amministrativo, nell’ambito della delega al Governo per la riforma della disciplina sanzionatoria (con l.67/2014), delega poi
non attuata.

A fronte di questa ipotesi contravvenzionale, che punisce con l’ammenda da 5k a 10k euro, lo straniero che fa ingresso o si
trattiene nel territorio dello Stato in violazione delle disposizioni ex t.u. immigrazione, appare impraticabile una ricostruzione
della voluntaslegis nella quale possa assumere rilievo la funzione conciliativa dell’organo giudicante.

La scelta fatta nel 2009 sembra ricollegarsi alla discutibile scelta di attribuire al giudice di pace la competenza in tema di:
- convalida dell’esecuzione dell’espulsione amministrativa
- e del trattamento dello straniero irregolare presso i centri di identificazione e di espulsione.

Tale ampliamento di competenze penali del giudice di pace ha portato ad ulteriori novità, essendo stato disciplinato negli artt
20bis, 20ter e 32bis un rito speciale che appariva concepito per il procedimento avente ad oggetto il reato di ingresso e
soggiorno illegale nel territorio dello Stato dello straniero (si prevede la sanzione sostitutiva dell’espulsione).

La scelta di ricondurre nella competenza del giudice di pace fattispecie attinenti alla disciplina dell’immigrazione ha trovato
ulteriori traduzioni con la novella del 2011 (d.l. 89/2011).

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5. Il regime della connessione, della riunione e della separazione dei processi.


Notevoli differenze, rispetto al regime ordinario, caratterizzano la disciplina della connessione, in particolare:

A. quella “eterogenea”  che concerne procedimenti attribuiti alla competenza per materia di giudici diversi.

In uno schema iniziale del decreto legislativo, i redattori del testo normativo avevano escluso radicalmente ogni connessione
tra i procedimenti di competenza del giudice di pace e quelli attribuiti alla competenza di altri giudici.

Si è, poi, finito per adottare una disciplina della connessione nella quale rileva esclusivamente nei casi in cui l’unicità
dell’azione o dell’omissione evidenzia l’opportunità del simultaneus processus per evitare il rischio della duplicazione dei
processi e del possibile contrasto tra giudicati (art 6 co.1).

In tal ipotesi, competente è il giudice superiore (co.2), davanti al quale troveranno applicazione le disposizioni sulle sanzioni
irrogabili dal giudice di pace, nonché le previsioni in tema di:
- sentenza di condanna alla pena della permanenza domiciliare,
- di esclusione della procedibilità nei casi di particolare tenuità del fatto,
- di estinzione del reato conseguente a condotte riparatorie
- e di iscrizione nel casellario giudiziale (art 63 co.1 e 2).

Anche in questi limiti la connessione non opera se non è possibile la riunione dei processi.

Generalmente, la giurisprudenza tende già ad escludere l’operatività della connessione se i procedimenti non si trovano nella
medesima fase processuale.

La previsione ex co.3 art 6, potrebbe alludere non solo ad una impossibilità ontologica di riunione, ma anche ad
un’impossibilità apprezzata discrezionalmente dal giudice, sulla base dei poteri riconosciutigli ex art 17 c.p.p.;

il che potrebbe rendere, per certi aspetti, problematico il rapporto tra detta disposizione e l’art 25 co.1 Cost, che contiene il
principio del giudice naturale precostituito per legge.

Nessun rilievo assume la connessione tra procedimenti di competenza del giudice di pace e di un giudice speciale, come pure
rispetto ai procedimenti per i reati commessi da minori, per i quali la competenza del giudice specializzato non è derogabile.

B. Ance per la connessione “omogenea” è stata predisposta una disciplina derogatoria a quella codicistica (art 7 “Casi di
connessione davanti al giudice di pace”):

Gli effetti sono ristretti alle ipotesi in cui il fatto da giudicare si presenta storicamente unico, per cui rilevano solo:

- il concorso o la cooperazione di più persone nel medesimo reato


- e il concorso formale di reati,

mentre il reato continuato non legittima modifiche alla competenza per territorio tra più giudici di pace.

La disciplina della connessione rinviene la propria ratio nell’intento di valorizzare le peculiarità della giurisdizione penale del
giudice di pace, che si connota per le occasioni conciliative offerte attraverso strumenti processuali volti a favorire la
riparazione del danno e la conciliazione tra autore e vittima del reato.

Giudice territorialmente competente nel caso di connessione è:

 il giudice del luogo in cui è stato commesso il primo reato


 o, se non fosse possibile utilizzar tale criterio, il giudice del luogo in cui è iniziato il primo dei procedimenti connessi.

In effetti, il criterio della maggiore gravità del reato è praticamente irriproducibile nella normativa riguardante il giudice di
pace, solo che si consideri come i reati attribuiti a tale organo siano puniti quasi tutti con le stesse pene.

La riunione dei processi potrà aversi nei casi di connessione omogenea, prima di procedere all’udienza di comparizione, se non
pregiudica la rapida definizione degli stessi, come pure ogni volta in cui ciò giovi alla celerità ed alla completezza
dell’accertamento.

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Anche per l’ipotesi della separazione sono stabilite regole piuttosto elastiche:

 il giudice di pace, prima dell’udienza e prima dell’apertura del dibattimento, dovrà ordinare la separazione dei processi,
se la riunione può pregiudicare il tentativo di conciliazione o la rapida definizione di uno dei processi riuniti (art 9).

Qualora più procedimenti trattabili congiuntamente siano stati assegnati a giudici diversi, sarà il coordinatore dell’ufficio del
giudice di pace, quindi, il presidente del tribunale ex l.57/2016, a provvedere alla designazione del giudice per l’eventuale
riunione, nel rispetto dei criteri di cui all’art 2 disp. att. c.p.p.

6. Le indagini preliminari: a) l’attività della P.G.; b) l’attività del P.M.


Il Capo II, Titolo I del decreto legislativo è dedicato alle indagini preliminari e prevede dei contenuti diversi rispetto a quelli
dettati per il procedimento ordinario;

infatti, si stabiliva nella direttiva della legge delega, che per i reati attribuiti al giudice di pace l’attività di indagine deve essere
“di regola affidata esclusivamente alla P.G.”.

Nella medesima direttiva si ricordava la necessità di disciplinare i poteri della P.G. nel rispetto degli art 109 e 112 Cost, dove
vengono affermate la diretta disponibilità della P.G. all’A.G. e l’obbligatorietà dell’azione penale in capo al P.M.

L’individuazione della P.G., come protagonista principale della fase investigativa riveste un considerevole significato deflativo nei
confronti del carico di lavoro delle procure della Repubblica.

In tal prospettiva di deflazione si apprezza la previsione di un’iniziativa riconosciuta alla persona offesa per instaurare il giudizio:

 Nel procedimento davanti al giudice di pace la fase preliminare delle indagini non costituisce un passaggio necessario
per arrivare al giudizio, dal momento che è prevista una forma di vocatio in iudicium in forza della quale la persona
offesa ha la facoltà, limitatamente ai reati perseguibili a querela di parte, di ricorrere direttamente al giudice, anche se
rimane in capo al P.M. la possibilità di formulare l’imputazione e di esercitare l’azione penale.

a) Attività della Polizia Giudiziaria.

Il legislatore delegato, nella disciplina delle indagini preliminari, prevede una distinzione:

1) Casi in cui la notizia di reato viene acquisita dalla P.G.;


2) Casi in cui, invece, è il P.M. a prendere direttamente la notizia od a riceverla da privati, pubblici ufficiali o incaricati di
pubblico servizio.

Nella prima ipotesi, si prevede che la P.G. compia di propria iniziativa tutti gli atti di indagine necessari per la ricostruzione del
fatto e l’individuazione del colpevole, per poi riferirne al P.M. entro 4 mesi con relazione scritta, dove verranno indicati anche
giorno ed ora di acquisizione della notizia di reato.

Se questa risulta fondata, la P.G. enuncia il fatto in forma precisa e chiara, indicando le norme di cui si ipotizza la violazione, e
secondo la lettera della disposizione, chiede di essere autorizzata a disporre la comparizione dell’indagato davanti al giudice
di pace (art 11).

Tale inciso ha perso ogni valore normativo dopo gli interventi del 2005, attribuendo al P.M. il compito di operare la citazione
a giudizio, prima disposta dalla P.G. su autorizzazione del P.M.

Rispetto a quanto stabilito ex art 347 c.p.p., dove si impone alla P.G. di riferire senza ritardo gli elementi essenziali del fatto e gli
altri elementi di prova raccolti, con indicazione delle fonti di prova e delle attività compiute, la differenza è data dalla circostanza
che qui:

 è espressamente attribuito alla P.G. il compito di svolgere un’attività investigativa completa, che almeno
tendenzialmente, deve mettere in condizione il P.M. di operare subito la scelta tra la richiesta di archiviazione e
l’esercizio dell’azione penale, come si ricava dal termine di 4 mesi entro cui la relazione deve essere trasmessa.

Il ruolo centrale della P.G., si traduce nella sua autonomia nella determinazione degli atti da compiere, senza alcuna direttiva
da parte del P.M.

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Per il compimento di accertamenti tecnici irripetibili, riservati nel procedimento davanti al tribunale al solo P.M., o di
interrogatori o di confronti cui partecipi l’indagato, invece delegabili ex art 370 c.p.p., la polizia dovrà chiedere
l’autorizzazione al P.M., il quale potrà accordarla o decidere di svolgere personalmente le indagini o singoli atti delle stesse.

Una volta investito del procedimento attraverso la richiesta di autorizzazione, il P.M. potrà avvertire l’esigenza di esaminare gli
atti compiuti dalla P.G. prima di ricevere la relazione finale.

Per quanto non previsto nel decreto in ordina alla attività della P.G., potrà rinviarsi alle statuizioni contenute nel Titolo IV
Libro V c.p.p., trovando applicazione le norme sull’identificazione indagato, sulla documentazione degli atti e trasmissione
dei verbali al P.M. nei casi di perquisizione e sequestro operati direttamente dall’autorità di polizia.

b) Attività del P.M.

Laddove, invece, la notizia di reato sia ricevuta dal P.M., questi, se non ritiene necessari atti di indagine, potrà tout court:

 chiedere l’archiviazione, in caso di infondatezza immediatamente percepibile della notizia,


 o formulare l’imputazione e procedere alla citazione a giudizio dell’imputato, in caso di notizia completa in ogni suo
aspetto ed idonea a legittimare il passaggio alla fase processuale.

Qualora, invece, non si possa fare a meno degli atti di indagine, il P.M. non vi provvede personalmente, ma si limita ad attivare
la P.G. perché proceda ex art 11, impartendo a quest’ultima le direttive, solo se ciò risulta necessario (art 12).

Anche nei procedimenti davanti al giudice di pace è compito del P.M. iscrivere la notizia di reato nell’apposito registro.

Tuttavia:
 mentre l’obbligo dell’iscrizione ex art 335 c.p.p. segue immediatamente alla conoscenza della notizia da parte del P.M.,
 nell’art 14 si dovrà attendere la trasmissione della relazione della P.G. ex art 11, perché l’eventuale precedente
conoscenza del fatto di reato da parte del P.M. rileva ai fini dell’iscrizione solo se questi ha svolto personalmente un atto
di indagine, sulla base dei poteri riconosciutigli ex art 13.

Qualora, invece, il procedimento sia attivato dalla persona offesa con presentazione del ricorso immediato al giudice, la
mancanza di una fase preliminare di indagine rende priva di ragioni l’esistenza di un obbligo di iscrizione della notitia criminis.

7. Chiusura delle indagini preliminari ed archiviazione.


Una volta ricevuta la relazione, il P.M. deciderà se:

 avanzare una richiesta di archiviazione


 od esercitare l’azione penale formulando l’imputazione ed autorizzando la citazione dell’imputato.

Se il materiale probatorio fornitogli non appare completo, il P.M. potrà disporre ulteriori indagini, personalmente o
avvalendosi della P.G., cui potrà impartire direttive o delegare il compimento di specifici atti (art 15).

In relazione a questa attività di indagine, è previsto un termine massimo di 4 mesi che decorre dal giorno dell’iscrizione della
notizia di reato, termine che il P.M. (in caso di necessità) potrà motivatamente prolungare per altri 2 mesi.

Qui, il sindacato del giudice sulla fondatezza delle ragioni che legittimano il prosieguo delle indagini è successivo all’emissione
dell’atto con cui se ne dispose la prosecuzione; il giudice di pace circondariale, se non ritiene sussistenti i motivi rappresentati
dal P.M., dichiara entro 5 giorni la chiusura delle indagini o riduce il termine indicato.

Per gli atti compiuti dopo la scadenza dei termini stabiliti per la prosecuzione delle indagini, è stabilita nell’art 16 co.3 la
sanzione dell’inutilizzabilità, in maniera analoga a quanto disposto ex art 407 co.3 c.p.p.

Dalla diversa organizzazione dei termini di durata delle indagini preliminari, potrebbe ricavarsi un ostacolo al riconoscimento
dell’applicabilità dell’art 415bis c.p.p. nel procedimento davanti al giudice di pace.

Se il P.M. non riterrà di dover integrare le indagini della P.G., l’avviso della conclusione delle indagini seguirà alla trasmissione
della relazione di cui all’art 11, mentre in caso di ulteriori attività investigative si dovrà far riferimento alla scadenza del
termine di 4 mesi o di quello prolungato.

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Esaurita la fase delle indagini preliminari, il P.M. presenterà al giudice di pace circondariale una richiesta di archiviazione non
solo nelle ipotesi stabilite nel c.p.p., ma anche nei casi previsti ex art 34 co.1 e 2, dove si disciplina l’esclusione della procedibilità
nei casi di particolare tenuità del fatto.

Potrà osservarsi che nell’art 17, accanto all’infondatezza della notizia di reato ed alle situazioni considerate negli art 411 e 415
c.p.p., è stata richiamata la disposizione di cui all’art 125 disp.att. cp.p., che consente l’archiviazione quando gli elementi
acquisiti nelle indagini preliminari non sono idonei a sostenere l’accusa in giudizio, come se fosse così individuato uno specifico
caso di archiviazione, mentre tal previsione esplicita il criterio che il P.M. deve seguire per valutare l’infondatezza della notizia di
reato.

Una differenza importante rispetto alle scelte codicistiche emerge a proposito del procedimento di archiviazione.

Nell’art 17 si prevede solo un contraddittorio cartolare, in quanto, se viene presentata opposizione dalla persona offesa o se
il giudice non ritiene di dover accogliere la richiesta, non viene fissata l’udienza camerale ed il giudice, senza sentire le parti,
dispone con decreto l’archiviazione o restituisce con ordinanza gli atti al P.M., indicando le ulteriori indagini necessarie ed il
termine entro cui vanno compiute o disponendo che entro 10 giorni il P.M. formuli l’imputazione.

Qui, l’ammissibilità dell’opposizione della persona offesa non è (a differenza dell’art 410 co.1) subordinata all’indicazione
dell’oggetto dell’investigazione suppletiva e dei relativi elementi di prova, ma all’individuazione degli elementi di prova che
giustificano il rigetto della richiesta o delle ulteriori indagini necessarie.

Parrebbe desumersi una doppia natura dell’opposizione, che pur essendo individuata nell’art 17 co.2, come “richiesta
motivata di prosecuzione delle indagini preliminari”, nel primo caso sembra configurarsi come richiesta di formulazione
coatta dell’imputazione.

8. L’assunzione di prove non rinviabili ed altri provvedimenti del giudice di pace nel corso delle indagini.
Le disposizioni dedicate alle indagini preliminari si chiudono con due previsioni che interessano anche segmenti processuali
successivi alla chiusura di tale fase.

Con la prima disposizione, è stato affrontato il problema dei rapporti tra l’istituto dell’incidente probatorio e le peculiarità del
nuovo procedimento.

Il criterio della massima semplificazione imposto dalla legge delega ha indotto il Governo a restringere gli spazi applicativi
delle ragioni che giustificano la previsione dell’incidente probatorio.

Infatti, nel corso delle indagini preliminari e fino all’udienza di comparizione, il giudice di pace potrà disporre, su richiesta
delle parti, l’assunzione delle prove non rinviabili, osservando le forme previste per il dibattimento, per cui, le varie ipotesi
considerate nell’art 392 c.p.p. potranno dar luogo all’anticipata formazione della prova solo nei limiti in cui sarà dimostrata la
non rinviabilità delle stesse al dibattimento.

A decidere sarà:
 il giudice di pace circondariale, prima della chiusura delle indagini preliminari,
 il giudice del dibattimento, nei momenti successivi.

Del resto, il novellato art 34 co.2quater c.p.p. esclude l’incompatibilità per il giudice del giudizio che abbia provveduto
all’assunzione dell’incidente probatorio nella fase delle indagini preliminari.

Nell’art 19, invece, si stabilisce che nel corso delle indagini e fino al deposito dell’atto di citazione (ex art 29 co.1), che deve
avvenire almeno 7 giorni prima della data fissata per l’udienza di comparizione, il giudice di pace circondariale è competente ad
emettere tutta una serie di provvedimenti:

 adozione del sequestro preventivo e conservativo; decisione sulla richiesta di archiviazione; provvedimenti in tema di
intercettazioni di conversazioni o di comunicazioni telefoniche.

Si era già individuato in tale giudice il giudice competente per gli atti da compiere nella fase delle indagini preliminari;

con tal disposizione non si fa altro che estendere detta competenza a movimenti ulteriori dell’iter procedimentale.

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9. Formulazione dell’imputazione ed assunzione della qualità di imputato


Nel caso in cui la notizia di reato risulti, invece, fondata, spetta al P.M. esercitare l’azione penale con la formulazione
dell’imputazione, anche se, nei casi in cui la citazione a giudizio segue alla presentazione del ricorso della persona offesa, tale
attività non parrebbe costituire prerogativa esclusiva di questo soggetto processuale.

A differenza di quanto avviene nel procedimento ordinario, l’esistenza dell’imputazione non comporta di per sé l’assunzione
della qualità di imputato;

infatti, nell’art 3 si precisa che tale status segue all’attribuzione del reato nella citazione a giudizio disposta dalla P.G. o nel
decreto di convocazione emesso dal giudice di pace a seguito del ricorso della persona offesa.

Insomma, affinché si possa parlare di imputato, è necessario che sia stato emesso un provvedimento di vocatio in iudicium,
che nel procedimento qui considerato presenta una struttura a fattispecie complessa nell’ipotesi in ci la formulazione
dell’imputazione si inserisca in un atto del giudice di pace (art 27), così che non si può escludere che intercorra un arco
temporale anche apprezzabile tra il momento in cui si esercita l’azione penale e quello in cui vi è un imputato.

Tale sfasatura poteva ben essere evitata, in quanto non appare in alcun modo imposta dalla logica sistematica ricavabile dall’art
60 c.p.p., dove non si presuppone un’assoluta corrispondenza tra le modalità di formulazione dell’imputazione e le ipotesi di
vocatio in iudicium.

E quanto tale corrispondenza si realizza (ad esempio, per la citazione diretta nel procedimento davanti al tribunale in
composizione monocratica), vi è contemporaneità tra esercizio dell’azione penale ed assunzione della qualità di imputato.

10. La citazione a giudizio


Sulla base dell’imputazione formulata dal P.M., la P.G., previamente autorizzata dal P.M., disponeva la citazione a giudizio
dell’imputato (art 20).

Nel 2005, per alleggerire il carico di lavoro dei magistrati del P.M., si è attribuito all’organo dell’accusa il potere di citare in
giudizio l’imputato;

a tal proposito, il P.M. richiede al giudice di pace di indicare il giorno e l’ora della comparizione.

La citazione contiene le generalità dell’imputato, l’indicazione della persona offesa (identificata), l’imputazione,
l’individuazione del giudice competente per il dibattimento e gli avvisi all’imputato circa le sue facoltà difensive.

Con l’atto, il P.M. deve anche attivarsi sul piano delle iniziative probatorie; dovranno, dunque, essere anche elencate le fonti
di prova di cui si chiede l’ammissione e, se viene chiesto l’esame di testimoni o consulenti tecnici, devono essere indicate a
pena d’inammissibilità le circostanze su cui deve vertere l’esame.

Ex art 29, le parti devono depositare, a pena d’inammissibilità, le liste con l’indicazione delle circostanze su cui deve vertere
l’esame non solo dei testimoni e dei consulenti tecnici, ma anche dei periti e delle persone indicate ex art 210.

La citazione deve essere notificata a cura dell’ufficiale giudiziario all’imputato, al suo difensore e alla parte offesa almeno 30
giorni prima dell’udienza; viene, poi, depositata nella segreteria del P.M., assieme al fascicolo contenente la documentazione
relativa alle indagini espletate, il corpo del reato e le cose pertinenti al reato, qualora non debbano essere custoditi altrove.

Solo in parte la disciplina della nullità della citazione a giudizio davanti al giudice di pace riprende quella stabilita per la nullità
del decreto di citazione a giudizio davanti al tribunale in composizione monocratica.

Costituiscono ipotesi comuni quelle secondo cui l’atto è nullo:


- se l’imputato non è identificato in modo certo,
- se manca o è insufficiente l’indicazione dell’imputazione, del giudice competente per il giudizio, del luogo, del
giorno e dell’ora della comparizione, o dell’avviso che l’imputato ha facoltà di nominare un difensore di fiducia e
che, in mancanza, sarà assistito da un difensore d’ufficio.

 Nell’art 20 ci si limita a richiedere la formulazione dell’imputazione,


 mentre per il decreto di citazione a giudizio (e per quello che dispone il giudizio), l’imputazione deve risultare da
un’enunciazione del fatto “in forma chiara e precisa” e “con l’indicazione dei relativi articoli di legge”.

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Nonostante il legislatore non abbia indicato le modalità con le quali deve essere formulata l’imputazione, anche in tal caso
saranno applicate, quindi, le modalità stabilite dal codice di procedura penale, come stabilito ex art 2 co.1.

Non vi sono corrispondenze nella disciplina della vocatio in iudicium davanti al tribunale:
 per la nullità della citazione a giudizio provocata dalla mancata sottoscrizione da parte del P.M. o dell’assistente
giudiziario
 e, per la nullità conseguente alla mancata od insufficiente indicazione delle fonti di prova di cui si chiede l’ammissione.

L’indicazione delle fonti di prova non potrà peraltro esaurirsi nella semplice elencazione dei soggetti e degli oggetti da cui può
derivare un elemento di prova.

Infatti, non sarebbe possibile valutare la sufficienza o meno di tale indicazione, perché una valutazione del genere diviene
possibile solo se si esplicita un collegamento tra fonte di prova e fatti cui la stessa si riferisce.

A tal punto, il giudice potrà verificare l’adeguatezza delle indicazioni effettuate dal P.M. rispetto ai temi di prova rilevanti per
l’accertamento del fatto contestato.

11. La citazione a giudizio su istanza della persona offesa: a) il ricorso immediato al giudice; b) le richieste
del P.M.; c) i provvedimenti del giudice di pace.
L’altra forma di vocatio in ius disciplinata, postula l’iniziativa della persona offesa, la quale, in caso di reato procedibile a querela
di parte, può citare a giudizio, presentando un ricorso nella cancelleria del giudice di pace competente per territorio entro 3
mesi dalla notizia del fatto che costituisce reato, dopo averlo comunicato al P.M. mediante deposito di copia presso la sua
segreteria (art 22 co.1 “Presentazione del ricorso”).

Con tale istituto non si è riconosciuta alla persona offesa la facoltà di esercitare una vera e propria azione penale privata.

Con la presentazione del ricorso, produttiva anche degli stessi effetti della querela, viene solo avviato un iter
procedimentalmente accelerato rispetto a quello che sfocia nella citazione a giudizio ex art 20, sui cui sviluppi il P.M. può
incidere considerevolmente, perché gli è rimasto in capo il potere-dovere di esercitare l’azione penale con la formulazione
dell’imputazione (art 25 “Richieste del P.M.”).

a) Il ricorso immediato al giudice.

Per la predisposizione di un atto introduttivo, si rende necessario il ricorso ad un giurisperito;

l’atto deve essere sottoscritto anche dal difensore della persona offesa o del suo legale rappresentante, che ne autentichi la
sottoscrizione dell’assistito (art 21 co.3).

non basta procedere all’individuazione del giudice davanti al quale si chiede la fissazione dell’udienza, nonché del ricorrente e
del difensore.

È necessario che l’offesa descriva “in forma chiara e precisa” il fatto che si addebita alla persona citata in giudizio,
indicando gli articoli di legge che si assumono violati, anche se nel ricorso non è contenuta un’imputazione.

D’altronde, l’ipotesi accusatoria costituisce la base dell’intervento del P.M. che deve essere messo in condizione di limitarsi a
confermare l’addebito così come prospettato nel ricorso.

Il ricorso della persona offesa, deve poi contenere l’indicazione delle fonti di prova a sostegno della richiesta di giudizio, nonché
delle circostanze su cui deve vertere l’esame dei testimoni e dei consulenti tecnici.

Al ricorso vanno anche allegati i documenti di cui si chiede l’acquisizione. Infine, dovranno essere indicate le altre persone
offese dal medesimo reato, di cui il ricorrente conosca l’identità, in modo da favorirne l’intervento nel processo ex art 28.

Lo schema procedimentale conseguente alla presentazione del ricorso, si differenzia da quello del procedimento ordinario
che, potrebbe essere stato innescato per lo stesso fatto con una querela.

In tal caso, la persona offesa deve far menzione nel ricorso della precedente iniziativa, la quale non potrà legittimare alcuna
ulteriore attività di indagine.

“quando si procede in seguito a ricorso sono inapplicabili le disposizioni che regolano la procedura ordinaria” (co.4 art 22)
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Se la persona offesa decide di procedere nelle forme del ricorso immediato, la costituzione di parte civile non potrà essere
effettuata finché non siano compiuti gli accertamenti sulla regolare costituzione delle parti (art 79 c.p.p.), ma dovrà avvenire con
la presentazione stessa del ricorso che contiene già tutti gli elementi richiesti per una calida costituzione di parte civile, tranne
l’espressa domanda introduttiva dell’azione civile.

Si comprende, dunque, perché la richiesta motivata di restituzione o di risarcimento del danno contenuta nel ricorso sia stata
equiparata a tutti gli effetti alla costituzione di parte civile (art 23 “Costituzione di parte civile”).

La disciplina del ricorso immediato della persona offesa si conclude con la regolamentazione dei casi di inammissibilità
dell’atto, inammissibilità che viene ricondotta:
 non solo alla mancanza dei requisiti prescritti nell’art 21 co.2 ed al difetto di sottoscrizione,
 ma anche alla presentazione oltre il termine di 3 mesi dalla conoscenza del fatto costituente reato.

Inoltre, sarà inammissibile il ricorso presentato fuori dei casi previsti, quindi:
 se il reato per cui si procede non è al tempo stesso di competenza del giudice di pace e perseguibile a querela di parte o
se chi si è attivato non è la persona offesa dal reato.

L’esigenza di assicurare al P.M. una tempestiva conoscenza del ricorso, fornisce la ratio dell’inammissibilità conseguente alla
mancanza della prova dell’avvenuta comunicazione al P.M.

Infine, con riferimento all’insufficiente descrizione del fatto ed all’insufficiente indicazione delle fonti di prova, si conclude
l’elencazione delle ipotesi di inammissibilità considerate nell’art 24. (“Inammissibilità del ricorso”).

Non compare, invece, tra le cause di inammissibilità del ricorso la mancata menzione dell’avvenuta presentazione della
querela.

b) Le richieste del P.M.

Entro 10 giorni dalla comunicazione del ricorso il P.M. presenta le sue richieste nella cancelleria del giudice di pace ed esercita
così il controllo sull’iniziativa della persona offesa, per stabilire se è giustificata la prosecuzione del provvedimento con la
citazione a giudizio così come ipotizzato nell’atto introduttivo.

Questa eventualità si realizza se il ricorso non risulta:

 Inammissibile, manifestamente infondato o presentato davanti ad un giudice di pace territorialmente incompetente;

ed in tal caos, il P.M. formula l’imputazione.

Nell’art 25 (“Richieste del P.M.”) si allude ad un sindacato non sull’infondatezza, ma solo sulla manifesta infondatezza della
notizia di reato, il che sembra legittimare una verifica della semplice verosimiglianza della narrativa offerta nel ricorso,
eventualmente arricchita dall’esame dei documenti allegati.

Se è vero che l’iniziativa della persona offesa non si traduce nell’esercizio dell’azione penale privata, è anche vero che la
configurazione dell’esercizio dell’azione penale da parte del P.M. risulta alterata, per il fatto di accedere a tale iniziativa:
 non si può parlare di un’azione penale “concreta”, ma di una mera richiesta di decisione del giudice.

Nei casi in cui il P.M. ritenga di dover formulare l’imputazione, potrà limitarsi a far proprio l’addebito contenuto nel ricorso, o
effettuare, se occorre, delle modifiche (consentite solo se non determinano una diversità del fatto rilevante ex art 516 c.p.p.).

c) I provvedimenti del giudice di pace.

Ex art 25 co.1, il termine di 10 giorni perché il P.M. presenti le sue richieste è un termine ordinatorio.

L’organo dell’accusa potrà presentarla anche successivamente; tuttavia, una volta decorso tale termine, il giudice di pace
circondariale è legittimato a decidere sull’inammissibilità e sulla manifesta infondatezza del ricorso (art 26 “Provvedimenti del
giudice di pace”).

In tali ipotesi verrà disposta la trasmissione degli atti al P.M. per l’ulteriore corso del procedimento, nelle norme ex art 11 ss.
quindi, quale che sia la motivazione di tale trasmissione, si prevede l’inserzione del procedimento nel solco ordinario.

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Non è facile, tuttavia, capire perché si dovrebbe recuperare la fase delle indagini preliminari quando il ricorso è
inammissibile.

Un’attività di indagine potrà immediatamente giustificarsi per le ipotesi di inammissibilità del ricorso provocate dalla carenza
di idonei elementi probatori.

Una diversa disciplina è stabilita per l’inammissibilità del ricorso derivante dall’incompetenza per materia del giudice di
pace, inammissibilità riconducibile alla presentazione dell’atto introduttivo fuori dei casi consentiti.

Se l’incompetenza individuata è territoriale, il giudice di pace la dichiara con ordinanza e restituisce gli atti al ricorrente che, nel
termine di 20 giorni, a pena di inammissibilità, ha facoltà di reiterare il ricorso davanti al giudice competente.

L’unica alternativa prevista all’adozione dei provvedimenti appena considerati è costituita dall’emissione del decreto di
convocazione delle parti;

l’art 27 (“Decreto di convocazione delle parti”) esordisce stabilendo che “se non deve provvedere ex art 26, il giudice di pace,
entro 20 giorni dal deposito del ricorso, convoca le parti in udienza con decreto”.

Anche in questa prospettiva su descritta non poteva ritenersi esercitata un’azione penale provata; era il giudice a sostituirsi
al P.M.

Al giudice di pace gli si chiedeva solo un sindacato sulla verosimiglianza, non sulla fondatezza, della notizia di reato.

Per la giurisprudenza della Corte di cassazione, in caso d’inerzia o di parere contrario del P.M., il giudice dovrebbe limitarsi a
restituire gli atti a tale organo, affinché proceda nelle forme ordinarie.

I giudici costituzionali hanno anche chiarito come la portata preclusiva del parere sfavorevole derivi quale conseguenza
necessitata dalla configurazione del nuovo istituto del ricorso immediato della persona offesa come atto meramente
propositivo, con riferimento al quale è rimesso al P.M. di aderire, o meno, nell’esercizio delle funzioni d’accusa.

Nel rispetto di queste premesse, quindi, il giudice, entro 20 giorni dal deposito del ricorso, convoca le parti in udienza con
decreto, per una data che non deve oltrepassare di più di 90 giorni quella del predetto deposito (art 27).

Il decreto deve contenere l’indicazione del giudice che procede, nonché del luogo, del giorno e dell’ora della comparizione,
le generalità dell’imputato, con l’invito a comparire e l’avvertimento che, non comparendo, sarà giudicato in contumacia,
l’avviso che ha facoltà di nominare un difensore, la trascrizione dell’imputazione e la data e la sottoscrizione del giudice e
dell’ausiliario che procede.

Da osservare, è che, il legislatore in analogia con quanto avvenuto negli art 429 e 552, si è dimenticato di adeguare la lettera
della disposizione a quanto stabilito con la l.67/2014, che ha soppresso lo status di contumace, ed ha modificato il contenuto
dell’avvertimento all’imputato, al quale, oggi, si comunica che “qualora non compaia, si applicheranno le disposizioni ex art
420bis, ter, quater e quinques.”

Questa nuova versione potrà essere applicata anche nel giudizio davanti al giudice di pace, una volta riconosciuto l’effetto
abrogativo generale della novella su tutte le previsioni normative ove si allude alla contumacia.

La nullità della vocatio in iudicium si avrà se l’imputato non è identificato in modo certo o se manca o è insufficiente uno dei
requisiti appena ricordati.

Sarà onere del ricorrente notificare il decreto, unitamente al ricorso, al P.M., alla persona citata in giudizio ed al suo difensore,
almeno 20 giorni prima dell’udienza, termine entro il quale il decreto dovrà essere notificato anche alle altre persone offese di
cui il ricorrente conosce l’identità.

Queste ultime potranno intervenire nel processo con l’assistenza di un difensore e gli stessi diritti che spettano al ricorrente
principale;

la mancata comparizione è considerata equivalente:

 alla rinuncia al diritto di querela, se non ancora presentata,


 od alla remissione della querela, se già presentata.

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12. La presentazione immediata a giudizio dell’imputato e la citazione contestuale dello stesso in udienza.
Si è già rilevato come il legislatore del 2000 abbia ritenuto che la finalità conciliativa e riparatoria del procedimento davanti al
giudice di pace potesse ben prevalere sull’esigenza di una celere chiusura dello stesso, così da escludere:

 non solo l’operatività dei procedimenti speciali codicistici,


 ma anche la previsione di moduli studiati per le imputazioni destinate alla cognizione dell’organo giurisdizionale
onorario.

Non mancano gli strumenti che possono favorire un epilogo anticipato della vicenda procedimentale.

Quindi, non appare facile giustificare l’introduzione negli art 20bis e 20ter (con la l.94/2009), di un procedimento speciale che si
affianca a quelli della citazione a giudizio e del ricorso immediato della persona offesa, volto a consentire la presentazione
immediata a giudizio dell’imputato per i reati procedibili d’ufficio, in caso di flagranza o quando la prova è evidente.

Il nuovo modello processuale assume due versioni:

 quella ordinaria  regolata nell’art 20bis;


 quella speciale  con una più accentuata rapidità di accesso alla fase dibattimentale, disciplinata nell’art 20ter.

L’ambito applicativo del rito è piuttosto circoscritto a poche casistiche.

Invero, non si rinvengono fattispecie delittuose nell’art 4 che siano procedibili d’ufficio, per cui l’eventualità di un’azione
penale esercitata nelle nuove forme potrà riguardare solo le ipotesi contravvenzionali elencate nel co.2 art 4.

Quanto alle situazioni che debbono essere accertate per procedere ex art 20bis e 20ter, per la nozione di flagranza si potrà far
rinvio all’art 382, in base al quale è stato di flagranza:

o “chi viene colto nell’atto di commettere il reato o chi, subito dopo il reato, è inseguito dalla P.G., dalla persona offesa o
da altra persona o è sorpreso con tracce dalle quali appaia che egli abbia commesso il reato immediatamente prima”.

Il richiamo alla evidenza della prova, invece, parrebbe evocare le problematiche interpretative che hanno interessato
l’analoga locuzione riguardo all’instaurazione del giudizio immediato (cap.VI par 21).

Una volta accertata la presenza dei presupposti probatori esaminati, la P.G. chiede al P.M. l’autorizzazione a presentare
immediatamente l’imputato a giudizio dinanzi al giudice di pace, previa fissazione dell’udienza dibattimentale.

Tale richiesta dovrà contenere le generalità dell’imputato (che a ben vedere è ancora indagato) e del suo difensore, ove
nominato; l’indicazione delle persone offese dal reato; la descrizione del fatto che si addebita all’imputato, indicando gli articoli
di legge che si assumono violati; l’indicazione delle fonti di prova a sostegno della richiesta, nonché le generalità dei testimoni e
dei consulenti tecnici.

La P.G. dovrà, poi, fornire anche le ragioni della ritenuta sussistenza della flagranza o dell’evidenza della prova, nel momento in
cui è chiamata ad indicare le fonti di prova che supportano l’iniziativa.

A fronte della richiesta della P.G., il P.M. (se non debba richiedere l’archiviazione), esercita l’azione penale, autorizzando la
presentazione immediata nei 15 giorni successivi ed indicando data e ora del giudizio dinanzi al giudice di pace, con la nomina
di un difensore d’ufficio all’imputato che ne sia privo.

Laddove, poi, non sussistano i presupposti per la presentazione immediata o sia stato indicato un giudice di pace
territorialmente incompetente, l’organo dell’’accusa emetterà parere contrario ex art 25 co.2.

Di conseguenza, il P.M.:

 O svolgerà in prima persona le indagini ex art 11,


 O darà incarico alla P.G. di procedere ex art 12,
 Mentre, per l’ipotesi dell’incompetenza, trasmetterà gli atti al P.M. presso il giudice ritenuto competente, sulla base
dell’art 54 c.p.p.

In caso di autorizzazione alla presentazione immediata, l’ufficiale giudiziario notificherà senza ritardo all’imputato ed al suo
difensore copia della richiesta della P.G. e dell’autorizzazione del P.M.
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Tale autorizzazione deve contenere l’avviso all’imputato che se non comparirà sarà giudicato in contumacia, che ha diritto di
nominare un difensore di fiducia e che in mancanza sarà assistito da un difensore d’ufficio, ed inoltre che il fascicolo relativo
alle indagini è depositato presso la segreteria del P.M., con facoltà per i difensori di prenderne visione ed estrarne copia.

Si richiama quanto detto precedentemente circa la presenza, ancora, della disciplina della contumacia, dopo la l.67/2014.

La sequenza così riassunta, può essere ulteriormente velocizzata, se ricorrono gravi e comprovate ragioni d’urgenza che non
consentono di attendere la fissazione dell’udienza nei 15 giorni successivi alla richiesta della P.G. o se l’imputato si trova
sottoposto a misure di limitazione/privazione della libertà personale.

In tali casi la P.G. formula richiesta di citazione contestuale per l’udienza ed il P.M., ove ritenga sussistere i presupposti in
oggetto, rinvia direttamente l’imputato dinanzi al giudice di pace per l’udienza.

Qualora, invece, non ricorrano le condizioni che giustificano una tale soluzione, ex art 20ter co.2 (“Citazione contestuale
dell’imputato in udienza in casi particolari”) il P.M. dovrebbe emettere sempre parere contrario in forza dell’art 25 co.2.

Ma, se il P.M. ha riconosciuto la sussistenza dei presupposti probatori che legittimano la presentazione immediata a giudizio,
pare logico ritenere che il procedimento si potrà sviluppare nelle forme stabilite nell’art 20bis (“Presentazione immediata a
giudizio dell’imputato in casi particolari”).

Una volta disposta la citazione per l’udienza contestuale alla richiesta di autorizzazione, invece, la P.G. conduce l’imputato in
vinculis direttamente dinanzi al giudice di pace per la trattazione del procedimento, salvo che questi rinunzi espressamente a
partecipare all’udienza.

Se l’imputato è libero, la P.G. si limiterà a notificare immediatamente allo stesso la richiesta di cui al co.1 art 20ter ed il
provvedimento del P.M. (art 20ter co.3).

13. L’udienza di comparizione.


Nel Capo IV del decreto legislativo viene disciplinato il giudizio davanti al giudice di pace secondo moduli che riprendono
ampliamenti quelli del rito monocratico.

Nella formazione del ruolo per le udienze non viene preso in alcuna considerazione il criterio temporale; vengono indicate come
priorità:

- la gravita e la concreta offensività del reato,


- nonché l’interesse della persona offesa
- e la possibilità di conciliazione tra le parti.

Anche nel procedimento in questione si avrà l’udienza di comparizione. Almeno 7 giorni prima da tal udienza:
 il P.M., in caso di citazione a giudizio della P.G.,
 o la persona offesa, in caso di decreto di convocazione delle parti

devono depositare l’atto di vocatio in iudicium con le relative notifiche (art 29 co.1 “Udienza di comparizione”), così da
mettere in condizione il giudice di verificare eventuali vizi e di conoscere l’oggetto del processo, anche al fine di attivare i
propri poteri in ordine alla riunione dei processi.

Il mancato rispetto dei termini non è sancito a pena di inammissibilità;

se all’udienza non sarà stato effettuato il deposito, il giudice non potrà celebrare l’udienza, in quanto tutti i poteri che gli sono
riconosciuti presuppongono la conoscenza degli atti introduttivi, così che sarà costretto a fissare un’altra udienza di
comparizione.

Nello stesso termine (almeno 7 giorni), ma stavolta stabilito a pena d’inammissibilità, le parti che intendono chiedere l’esame
dei testimoni, periti o consulenti tecnici o delle persone indicate ex art 210, devono depositare in cancelleria le liste con
l’indicazione delle circostanze su cui deve vertere l’esame (art 29 co.2).

Questa previsione non riguarda il P.M. e la persona offesa ricorrente, in quanto a carico di tali soggetti sussiste detto onere,
ma anticipato al momento dell’emissione della citazione a giudizio o della presentazione del ricorso immediato al giudice.

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Nella regolamentazione di tali atti è anche prevista l’indicazione delle altre fonti di prova poste a sostegno della vocatio in
iudicium;

tuttavia, non sembra desumibile un generale obbligo di discovery, da cui dovrebbe discendere l’inammissibilità di eventuali
ulteriori richieste di prova.

Non bisogna confondere la valutazione sulla nullità od inammissibilità degli atti introduttivi, con la valutazione sull’ammissibilità
delle iniziative probatorie, che è regolata nell’ambito della disciplina dell’udienza di comparizione;

e l’unica ipotesi d’inammissibilità espressa è quella formulata nell’art 29 co.2, rispetto alla quale il richiamo agli art 20 e 21
serve solo per una diversa determinazione del momento in cui il P.M. o persona offesa devono attivarsi.

La funzione conciliativa (di cui l’udienza di comparizione ne diventa lo scenario) è stata valorizzata nell’art 29 co.4, in forza del
quale l’organo giurisdizionale, prima di aprire il dibattimento, non si limita a verificare se il querelante è disposto a rimettere la
querela ed il querelato ad accettare la remissione:

 il giudice di pace ha il compito di promuovere la conciliazione tra le parti, nel senso che gli viene riconosciuta una
funzione di stimolo e di ricerca della soluzione composita dei contrastanti interessi.

A tal fine, può rinviare l’udienza per un periodo massimo di 2 mesi e, se occorre, può avvalersi dell’attività di mediazione di
centri e strutture pubbliche o private presenti sul territorio.

L’attività svolta in sede di tentativo di conciliazione non si fonda sulla conoscenza degli eventuali atti di indagine e si sviluppa in
una prospettiva processuale del tutto estranea a quella delineata una volta dichiarata l’apertura del dibattimento.

Le dichiarazioni rese dalle parti non possono essere utilizzate ai fini della deliberazione.

Prima della dichiarazione di apertura del dibattimento, potrà, inoltre, essere presentata la domanda di oblazione, che è
ammissibile per tutte le contravvenzioni rientranti nella competenza penale del giudice di pace.

L’unica eccezione è costituita dal reato di ingresso e soggiorno illegale dello straniero nel territorio dello Stato.

Ove non si sia addivenuti ad una definizione anticipata del procedimento, l’udienza di comparizione prosegue con i
provvedimenti sull’ammissione delle prove, al pari di quanto stabilito nell’art 555, ma solo se è possibile procedere al giudizio.

Inoltre, il giudice di pace potrà negare l’ingresso a prove vietate dalla legge ed a prove che risultino superflue od irrilevanti, si
pure in modo non manifesto, essendosi ritenuto che un potere di intervento più incisivo si giustifica anche al fine della
semplificazione della procedura.

Peculiari, invece, sono le sequenze attraverso le quali si addiviene alla formazione del fascicolo del dibattimento.

Davanti al tribunale in composizione monocratica, nei casi di citazione diretta, manca il contraddittorio tra le parti;
davanti al giudice di pace, le parti sono invitate ad indicare gli atti da raccogliere ex art 431 subito dopo la dichiarazione di
apertura del dibattimento, ed in tal occasione possono anche concordare l’acquisizione a detto fascicolo di atti contenuti nel
fascicolo del P.M., della documentazione relativa all’attività di investigazione difensiva, nonché della documentazione allegata
al ricorso ex art 21.

Profili originali emergono anche in relazione alla citazione dei testi o consulenti tecnici.

Si può ritenere che, ex art 468 co.2, il tribunale in composizione monocratica debba provvedere nella fase degli atti preliminari
al dibattimento:

 sia sull’esclusione delle testimonianze vietate dalla legge o manifestamente sovrabbondanti,


 sia sulla citazione dei soggetti indicati nelle liste.

Per contro, è lecito concludere che per la prima udienza il giudice non potrà pronunciarsi al riguardo, perché non avrebbe
significato una seconda decisione sul punto.

Ovviamente, in casi del genere, i provvedimenti sull’ammissione della prova saranno presi in questa seconda udienza.

L’omessa citazione dei testimoni e dei consulenti tecnici determina la decadenza dalla prova per la pare che, pur attivatasi
per l’ammissione, abbia dimostrato la carenza di interesse all’acquisizione del mezzo di prova.
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Nei giudizi di presentazione immediata (art 20bis e ter), sono stabilite, invece, regole particolari per l’introduzione della prova
testimoniale.

Infatti, analogamente a quanto previsto per il giudizio direttissimo, la persona offesa ed i testimoni possono essere citati
anche oralmente dall’ufficiale giudiziario nonché, in caso di giudizio a citazione contestuale, dalla P.G.

Inoltre, il P.M., l’imputato e la parte civile possono presentare direttamente all’udienza i propri testimoni e consulenti tecnici
(art 32bis co.3 “Opposizione”).

Per quanto non regolato, troveranno applicazione le norme del Libro VII, come quelle per la disciplina e la pubblicità
dell’udienza.

Il bisogno di una regolamentazione specifica si è avvertito per l’ipotesi in cui l’udienza di comparazione abbia fatto seguito al
ricorso al giudice da parte della persona offesa.

In primis, si è stabilito che l’ingiustificata assenza all’udienza del ricorrente o di un suo procuratore speciale comporta
l’improcedibilità del ricorso, salvo che l’imputato o la persona offesa intervenuta che abbia presentato querela chieda che si
proceda egualmente al giudizio.

Ex art 30, con l’ordinanza con cui si dichiara tale improcedibilità, il giudice di pace potrà condannare il ricorrente anche alla
rifusione delle spese processuali, nonché al risarcimento dei danni a favore dell’imputato che ne abbia fatto domanda.

In un procedimento che risulta fortemente condizionato nel suo sviluppo dall’impulso del ricorrente, l’ingiustificata mancata
comparizione di questo soggetto evidenzia una carenza di interesse alla prosecuzione del giudizio, rispetto alla quale la
previsione dell’improcedibilità del ricorso appare più che ragionevole.

Al ricorrente non è stato messo a disposizione alcuno strumento per impugnare la pronuncia relativa alle spese ed ai danni,
laddove non abbia ragioni per contestare la declaratoria di improcedibilità.

In caso di emissione dell’ordinanza prevista ex art 30, il ricorrente potrà, invece, presentare davanti al giudice di pace istanza di
fissazione di una nuova udienza, provando che la mancata comparizione era dovuta a caso fortuito o forza maggiore.

Analogamente a quanto previsto per la disciplina della restituzione in termini, la persona offesa dovrà attivarsi, a pena di
decadenza, entro un termine perentorio, quello di 10 giorni dalla cessazione del fatto impeditivo della comparizione.

Se l’istanza viene accolta, il giudice convocherà le parti per una nuova udienza;

in caso contrario, il ricorrente potrà proporre ricorso al tribunale in composizione monocratica, che deciderà con ordinanza
inoppugnabile (art 31 “Fissazione di una nuova udienza a seguito di impossibilità a comparire”).

14. Il dibattimento e la sentenza di condanna alla pena della permanenza domiciliare.


Le previsioni sul dibattimento contenute nell’art 32 (oltre a richiamare i contenuti dell’art 507), si limitano ad introdurre solo
profili di semplificazione rispetto alla disciplina dettata per il tribunale monocratico.

Si è, così, stabilito che, sull’accordo delle parti, l’esame di testimoni, periti e consulenti tecnici possa essere condotto dal
giudice sulla base delle domande e delle contestazioni proposte dal P.M. e dai difensori, mentre nell’art 559 co.3 tale
eventualità, oltre ad essere collocata in una prospettiva derogatoria rispetto alla regola dello svolgimento dell’esame ad opera
delle parti, è subordinata ad una concorde richiesta delle parti.

La facilità di accertamento che dovrebbe connotare i processi davanti al giudice di pace viene posta a giustificazione della regola
della redazione solo in forma riassuntiva del verbale, regola che non presuppone il consenso delle parti come avviene ex art
559 co.2.

Sarà il giudice a stabilire se e quando la complessità della vicenda processuale renda opportuna la verbalizzazione integrale.

La semplicità del processo che sarà celebrato davanti al giudice di pace fornisce anche spiegazioni alle nuove regole sulle
modalità di redazione della sentenza.

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Si prevede, al riguardo, che la motivazione della sentenza sia redatta in forma abbreviata, e, se non dettata direttamente a
verbale, depositata nel termine di 15 giorni dalla lettura de dispositivo.

Con la formula della motivazione abbreviata, si sarebbe inteso far riferimento ad una tecnica di redazione “ispirata a criteri di
brevità e di chiarezza”, nella quale dovranno evitarsi “sovrabbondanti esposizioni dello svolgimento del processo e digressioni
non necessarie in punto di diritto, inappropriate in relazione alla natura e competenza penale del giudice di pace”.

In forza dell’art 32bis co.1 (“Svolgimento del giudizio a presentazione immediata”), le disposizioni dell’art 32, si osservano anche
nel corso del giudizio a presentazione immediata di cui agli art 20bis e 20ter:

 Giudizio nel quale, dopo la lettura dell’imputazione da parte del P.M., l’imputato è avvisato della facoltà di chiedere un
termine a difesa massimo di 7 giorni.

In tal caso, il dibattimento è sospeso fino all’udienza immediatamente successiva alla scadenza del termine che non può essere
superiore a 48 ore (art 32bis co.5).

Per quanto non previste nell’art 32, si potrà rinviare alla disciplina codicistica.

Particolarità interessa la fase successiva alla pronuncia della sentenza di condanna; infatti, l’esecuzione continuativa della
permanenza domiciliare e la pena del lavoro di pubblica utilità trovano applicazione solo se l’imputato lo richiede.

Quindi, si è stabilito che se il giudice si è determinato per l’applicazione della permanenza domiciliare, l’imputato od il suo
difensore, munito di procura speciale, possono chiedere l’esecuzione continuativa della sanzione.

Il giudice può integrare il dispositivo della sentenza immediatamente o, se sussistono giustificati motivi, in una successiva
udienza, a distanza di non più di 10 giorni.

Analoga procedura è prevista se il giudice ritiene di poter affiancare alla pena della permanenza domiciliare quella del
lavoro di pubblica utilità, indicando nella sentenza il tipo e la durata del lavoro.

15. Definizioni alternative del procedimento: a) l’esclusione della procedibilità nei casi di particolare
tenuità del fatto; b) l’estinzione del reato conseguente a condotte riparatorie.
Come accennato, l’inapplicabilità dei riti alternativi disciplinati nel Libro VI c.p.p. (inapplicabilità estesasi anche al nuovo istituto
della sospensione del procedimento con messa alla prova), si giustifica alla luce della previsione di appositi meccanismi di
definizione del procedimento introdotti con gli art 34 (“Esclusione della procedibilità nei casi di particolare tenuità del fatto”) e
art 35 (“Estinzione del reato conseguente a condotte riparatorie”).

Si tratta di previsioni che coinvolgono problematiche penali di estrema rilevanza.

Analizziamo, adesso, le caratteristiche procedimentali degli istituti, che consentono al giudice di pace di escludere la
procedibilità nei casi di particolare tenuità del fatto e di dichiarare l’estinzione del reato a fronte di condotte riparatorie.

a) Esclusione della procedibilità nei casi di particolare tenuità del fatto.

La prima ipotesi considerata trova un precedente nel d.P.R. 448/1988, in forza del quale nel corso delle indagini preliminari, a
richiesta del P.M., o d’ufficio nell’udienza preliminare, nel giudizio direttissimo e nel giudizio immediato, il giudice può
pronunciare sentenza di non luogo a procedere per irrilevanza del fatto, se risulta la tenuità dello stesso e l’occasionalità del
comportamento e l’ulteriore corso del procedimento pregiudica le esigenze educative del minorenne.

Nell’art 34 il legislatore si è preoccupato in primis, di individuare le condizioni che consentono di ritenere il fatto di particolare
tenuità;

 Ciò si raggiunge solo quando, rispetto all’interesse tutelato, l’esiguità del danno o del pericolo che ne è derivato nonché
la sua occasionalità e il grado della colpevolezza non giustificano l’esercizio dell’azione penale, tenuto anche conto del
pregiudizio che l’ulteriore corso del procedimento può recare alle esigenze di lavoro, studio, famiglia, salute della
persona sottoposta alle indagini o dell’imputato.

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Si è escluso, quindi, che potesse così integrarsi una violazione dell’art 112 Cost, stante la sufficiente determinatezza della
fattispecie che legittima la declaratoria di improcedibilità; inoltre, tali preoccupazioni avevano spinto i redattori delle
disposizioni sul procedimento minorile ad escludere la possibilità di archiviare nei casi di irrilevanza del fatto.

Ad ogni modo, per accertare la sussistenza degli elementi legittimanti questo epilogo procedimentale, le indagini preliminari
dovranno consentire di fornire risposte a questioni che di solito fuoriescono dagli accertamenti richiesti per decidere se
esercitare o meno l’azione penale.

Dunque, anche se si allude ad una causa di improcedibilità ex art 34, appare improbabile ipotizzare una reale efficacia
deflativa nella fase preprocessuale.

Importante supporto, è rappresentato dall’individuazione di un ulteriore presupposto dell’istituto, rappresentato dalla carenza
di interesse della persona offesa all’accertamento processuale.

Difatti, nel corso delle indagini preliminari il giudice dichiara l’archiviazione ex art 34 “solo se non risulta un interesse della
persona offesa alla prosecuzione del procedimento”.

In mancanza di tal riscontro, v’è da chiedersi se il P.M. o la P.G. siano tenuti ad interpellare la persona offesa per verificarne
gli intendimenti (in caso di opposizione alla richiesta di archiviazione, o di dichiarazioni rilasciate nel corso delle indagini).

La risposta potrebbe essere negativa, in quanto nella disposizione non si richiede la sussistenza della prova in positivo che
l’interesse non risulti, ma ci si accontenta della mancanza di prove circa l’esistenza dell’interesse.

D’altra parte, per stabilire effettivamente se vi è o meno un interesse alla prosecuzione del procedimento, pare doveroso
operare la verifica in un momento successivo a quello in cui si è delineata la situazione che potrebbe porre fine al
procedimento;

dunque, laddove il P.M. ritenga di avanzare richiesta di archiviazione per la particolare tenuità del fatto, sarà tenuto a sentire
la persona offesa, che potrà anche implicitamente dimostrare l’assenza di interesse nei confronti del procedimento in corso.

Dopo l’esercizio dell’azione penale, la particolare tenuità del fatto potrà essere dichiarata con sentenza solo se l’imputato o la
persona offesa non si oppongono.

È stato ritenuto doveroso mettere l’imputato in condizione di ottenere una più favorevole conclusione, atteso che il non
luogo a procedere per la particolare tenuità del fatto può comunque incidere negativamente su una futura valutazione
dell’occasionalità del fatto (uno degli elementi costitutivi della condizione di procedibilità).

Invece, non si è avvertita l’esigenza di prevedere un meccanismo di opposizione della persona sottoposta alle indagini, dato che
la pronuncia di archiviazione non produrrebbe alcun effetto negativo nei suoi confronti.

Quanto alla persona offesa, le S.U. nel 2015 hanno chiarito che:

 La mancata comparizione di tale soggetto processuale validamente citato per l’udienza non può essere apprezzata alla
stregua di un’opposizione, dovendo tal scelta essere necessariamente espressa e, quindi, non potendo essere desunta
da atti o comportamenti che non abbiano il carattere di una formale ed univoca manifestazione di volontà.

I giudici di legittimità a S.U. hanno, anche, escluso che, a fronte della previsione ex art 34, possa ipotizzarsi nel procedimento
penale davanti al giudice di pace l’applicabilità della causa di esclusione della punibilità per particolare tenuità del fatto
introdotta nell’art 131bis c.p. nel 2015;

infatti, la diversa prospettiva nella quale le due si pongono (processuale per l’istituto del 2000; sostanziale per quello
codicistico), si deve ritenere che la tematica della tenuità del fatto abbia ricevuto autonoma ed organica regolamentazione
nel procedimento dinanzi al giudice di pace nell’art 34, dove emerge un ruolo della persona offesa che si ricollega alle logiche
conciliative e non semplicemente deflative coltivate nella disposizione.

b) Estinzione del reato conseguente a condotte riparatorie.

L’ipotesi di estinzione del reato ex art 35 è collegata a finalità conciliative e riparatorie del procedimento davanti al giudice di
pace.

Qui, la richiesta di punizione avanzata dalla persona offesa può essere superata dalla decisione del giudice.
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Il giudice, sentite le parti e l’eventuale persona offesa, quindi anche contro il relativo parere, dichiara con sentenza estinto il
reato, quando l’imputato dimostra di aver proceduto, prima dell’udienza di comparizione, alla riparazione del danno
cagionato dal reato, mediante restituzioni/risarcimento, e di aver eliminato le conseguenze dannose o pericolose del reato.

La causa estintiva può operare per qualsiasi fattispecie attribuita al giudice di pace.

La declaratoria di estinzione potrà pronunciarsi solo se le condotte riparatorie sono idonee a soddisfare le esigenze di
riprovazione del reato e quelle di prevenzione, escludendo così qualsiasi rischio di inopportuna “monetizzazione” della
responsabilità penale.

In altre parole, è necessario che il risarcimento del danno e l’eliminazione delle conseguenze del reato integrino un presidio
sanzionatorio adeguato, a fronte del disvalore complessivo espresso dalla condotta contestata all’imputato.

Come precisato dalla S.U. nel 2015, il decisum del giudice di pace non vincola in alcuna misura il giudice civile dinanzi al quale la
persona offesa intenda coltivare le pretese risarcitorie derivanti dal reato.

Il giudice di pace può:

 Disporre la sospensione del processo, per un periodo massimo di 3 mesi,

 Ed imporre specifiche prescrizioni, se l’imputato chiede nell’udienza di comparizione di poter provvedere alla
riparazione del danno ed all’eliminazione delle conseguenze dannose o pericolose del reato e dimostra di non averlo
potuto fare in precedenza.

La richiesta dell’imputato potrà anche essere motivata dalla pregressa inconsapevolezza dell’effetto estintivo delle condotte
riparatorie.

Con l’ordinanza di sospensione, il giudice incarica un ufficiale di P.G. od un operatore di servizio sociale di verificare l’effettivo
svolgimento delle attività risarcitorie/riparatorie.

Nella successiva udienza, laddove venga accertato che le dette attività abbiano avuto esecuzione, il giudice, sentite le parti e
l’eventuale persona offesa, dichiara con sentenza estinto il reato.

16. La disciplina delle impugnazioni.


Nell’art 17 lett.n della l. delega sulla competenza penale del giudice di pace si prevedeva l’appellabilità generale delle
sentenze, “ad eccezione:

 di quelle che applicano la sola pena pecuniaria


 e di quelle di proscioglimento relative a reati punti con la sola pena pecuniaria”.

Si ipotizzava un regime di più ampia appellabilità delle sentenze di proscioglimento rispetto a quanto stabilito ex art 593
co.3, dove si escludeva l’appello per le sentenze di non luogo a procedere o di proscioglimento anche per i reati punti con
pena alternativa.

Con la l.128/2001 si doveva ritornare alla originaria disciplina dell’inappellabilità riguardante:

 solo le sentenze di condanna alla pena dell’ammenda,


 o le sentenze di proscioglimento e di non luogo a procedere relative a contravvenzioni punite con la pena
dell’ammenda o con la pena alternativa.

Ma tal modifica non sembrava coinvolgere la regolamentazione speciale prevista per le sentenze del giudice di pace.

Il diverso regime dell’appello introdotto con la novella del 2006 ha, infine, comportato una ulteriore modifica della disciplina.

Così, l’art 36 (“Impugnazione del P.M.”) riconosce sempre al P.M. il potere di appellare le sentenze di condanna del giudice di
pace che hanno applicato una pena diversa da quella pecuniaria.

Per effetto della l.46/2006 è stata abrogata la previsione contenuta nell’art 36, per cui ora è sancita l’inappellabilità delle
sentenze di proscioglimento relative a reati punti con pena alternativa (prima del 2006, consentita).
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Relativamente all’imputato, nell’art 37 si riconosce solo l’appellabilità:


 delle sentenze di condanna che applicano una pena diversa da quella pecuniaria,
 nonché delle sentenze che applicano quest’ultima pena, se viene impugnato il capo relativo alla condanna, anche
generica, al risarcimento del danno.

Qui, l’inappellabilità si giustifica solo per la modesta afflittività della sanzione, mentre in presenza di una condanna, anche
generica, al risarcimento del danno, si impone una soluzione più garantistica per il legislatore delegato, che ha ritenuto di
poter interpretare restrittivamente la delega, riferendo la previsione che sottrae la garanzia dell’appello alle pronunce che
rechino solo condanna alla pena pecuniaria.

Tanto l’imputato che il P.M. possono ricorrere in cassazione avverso le sentenze non appellabili.

In forza del rinvio generale alle disposizioni del codice, potrà aversi anche il ricorso immediato per cassazione in capo alla
parte che ha diritto di appellare la sentenza di primo grado.

Il particolar ruolo riconosciuto al ricorrente per l’instaurazione del procedimento penale attraverso la richiesta di citazione a
giudizio ex art 21 si traduce nella legittimazione ad impugnare anche agli effetti penali la sentenza di proscioglimento, negli
stessi casi in cui è ammessa l’impugnazione del P.M. (art 38).

Si ricordi, poi, che la l.46/2006 ha abrogato l’art 577, che attribuiva analoga facoltà alla persona offesa costituita parte civile,
ma solo per le sentenze emesse per i reati di ingiuria e di diffamazione.

Se l’impugnazione viene rigettata o dichiarata inammissibile, il ricorrente viene condannato:

 alla rifusione delle spese


 o, in caso di colpa grave, al risarcimento dei danni in favore dell’imputato o del responsabile civile.

Mancando ogni accenno alle impugnazioni della parte civile, troverà piena attuazione l’art 576.

In conseguenza delle sentenze della Corte cost. che hanno determinato il ritorno ad un’appellabilità (quasi) generale delle
sentenze emesse all’esito del dibattimento e del giudizio abbreviato, era lecito domandarsi quale sorte potesse avere la
disciplina appena richiamata in tema di appello delle sentenze emesse dal giudice di pace.

Al riguardo è intervenuta la Corte di cassazione, che ha sollevato una questione di legittimità costituzionale dell’art 36,
relativamente all’esclusione dell’appello del P.M. nei casi di proscioglimento dell’imputato.

Tale previsione denunciata non si contrappone ad una che riconosce una completa appellabilità delle sentenze di condanna
da parte dell’imputato, così che appare meno apprezzabile quella asimmetria a svantaggio della parte pubblica, su cui si è
fondata la declaratoria di illegittimità contenuta nella sentenza 26/2007.

E con argomentazioni analoghe, si è poi pronunciata la Corte Costituzionale, la quale ha escluso la sussistenza di un vulnus
all’art 111 co.2 Cost, ritenendo che nel suddetto art 36 non si configurasse una disparità di trattamento tra le parti
eccedente i limiti della ragionevolezza.

Quanto alla pronuncia costituzionale (sent.85/2008), che ha restituito all’imputato il diritto di appellare le sentenze di
proscioglimento, questa:

 ha escluso tale impugnazione nei casi di contravvenzioni per le quali potrebbe essere inflitta la sola pena dell’ammenda;

e ciò perché all’imputato è precluso l’appello ex art 593 contro la sentenza di condanna che abbia irrogato la pena.

Dall’art 37 sembra enucleabile un dato rilevante per negare l’appellabilità, da parte dell’imputato, di tutte le sentenze di
proscioglimento emesse dal giudice di pace, dato che per i reati attribuiti alla sua competenza è sempre ipotizzabile
l’applicazione della pena pecuniaria.

Competente per il giudizio di appello  è il tribunale in composizione monocratica del circondario in cui ha sede il giudice di
pace che ha pronunciato la sentenza impugnata.

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Quanto alla disciplina dell’appello, non vi sono specifiche statuizioni, eccezion fatta per la previsione che assicura all’imputato
rimasto contumace in primo grado, non la semplice rinnovazione del dibattimento, ma l’annullamento della sentenza appellata
e la restituzione degli atti al giudice di pace perché proceda ad un nuovo giudizio (art 39 co.2 “Giudizio di appello”).

Si è ritenuto che l’imputato sia posto nella condizione di utilizzare gli strumenti conciliativi e di definizione alternativa del
procedimento, ai quali non ha potuto far ricorso, non essendo comparso, senza colpa, al giudizio di primo grado.

Questa soluzione è stata poi recepita nell’art 604 co.5bis, così come innovato dalla l.67/2014.

Il riferimento all’imputato contumace deve essere oggi inteso come riferimento all’imputato assente ex novellato art. 420bis.

Nessuna previsione espressa era contenuta nel d.lgs.274/2000 in ordine alla ricorribilità per cassazione delle sentenze
pronunciate in appello dal tribunale in composizione monocratica.

Poteva, dunque, ritenersi operante la disciplina codicistica, per cui tanto il P.M., quanto le parti private erano legittimate a
presentare ricorso nei confronti delle decisioni di secondo grado per tutti i motivi elencati nell’art 606.

Nella direttiva di delega riferita all’impugnazione di legittimità (l.103/2017), si era stabilito che le sentenze emesse in grado di
appello nei procedimenti per i reati di competenza del giudice di pace dovevano risultare ricorribili per cassazione solo per
violazione di legge.

Ed in sede di attuazione della delega (d.lgs.11/2018), è stato introdotto l’art 39bis (“Ricorso per cassazione”) in forza del
quale le sentenze pronunciate in grado di appello nei procedimenti dinanzi al giudice di pace potranno essere oggetto di
ricorso esclusivamente per i motivi ex lett.a,b,c art 606, così essendo stato interpretato il riferimento alla sola violazione di
legge.

Analoga limitazione è stata imposta nel corpo dell’art 606 al ricorso per cassazione quando è proposto contro una decisione
d’appello, pronunciata per reati di competenza del giudice di pace, ma da un giudice diverso a causa dei vincoli connettivi
previsti nell’art 6 (“Competenza per materia determinata dalla connessione”).

17. Le disposizioni sull’esecuzione e le sanzioni applicabili dal giudice di pace.


Alcune deroghe alla disciplina ordinaria si rinvengono anche nel settore dell’esecuzione dei provvedimenti emessi dal giudice di
pace.

Il giudice dell’esecuzione, sappiamo:

 è il giudice che ha emesso il provvedimento


 o, in caso di pluralità di provvedimenti adottati da più giudici di pace, il giudice del provvedimento divenuto irrevocabile
per ultimo.

Nell’art 40 (“Giudice dell’esecuzione”) si stabilisce che se i provvedimenti sono stati emessi dal giudice di pace e da altro
giudice ordinario, la competenza per l’esecuzione spetta sempre a quest’ultimo.

Del resto, nella legge delega si era esclusa la possibilità che il giudice di pace potesse applicare sanzioni detentive.

Ragioni analoghe sono a fondamento della soluzione circa il concorso tra provvedimenti del giudice di pace e del giudice
speciale:

 competente è il giudice ordinario, ma non il giudice di pace, bensì il tribunale in formazione collegiale nel cui
circondario ha sede l’organo giurisdizionale onorario.

Diversamente da quanto stabilito ex art 665 co.2 e 3, in caso di riforma del provvedimento, è competente il giudice
dell’esecuzione individuato sulla base delle previsioni prima descritte.

Le disposizioni sul procedimento di esecuzione troveranno integrale applicazione davanti al giudice di pace, con l’unica
eccezione relativa al regime di impugnazione del decreto col quale viene dichiarata l’inammissibilità della richiesta e
dell’ordinanza che decide su tale richiesta:

 per rendere più celere l’iter, l’interessato non deve proporre ricorso in cassazione, ma ricorso al tribunale in
composizione monocratica del circondario, sempre per motivi di legittimità.
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Relativamente all’esecuzione delle pene, l’art 40 valorizzava il ruolo del giudice di pace competente, al quale spettavano tutta
una serie di poteri altrove attribuiti al magistrato di sorveglianza; poteri che non sembrano ricollegarsi strettamente alle
caratteristiche del giudice specializzato.

Infatti, nell’art 42 (“Esecuzione delle pene pecuniarie”), oggi abrogato, il rinvio all’art 660 era accompagnato dalla previsione
per cui l’accertamento della effettiva insolvibilità del condannato doveva essere svolto dal giudice di pace che adottava
anche i provvedimenti in ordine alla rateizzazione, o alla conversione della sanzione.

L’abrogazione nel 2015 di tale articolo, sembra aver determinato l’attribuzione al magistrato di sorveglianza delle attività che
erano di spettanza del giudice di pace.

Per l’esecuzione delle pene della permanenza domiciliare e del lavoro di pubblica utilità, è stato strutturato un procedimento
ad hoc, nel quale si prevede la trasmissione al P.M. competente per l’esecuzione dell’estratto della sentenza penale irrevocabile,
dove sono stabilite le modalità di esecuzione della sanzione.

A sua volta, il P.M., emesso l’ordine di esecuzione, lo trasmette, unitamente all’estratto della sentenza, all’organo di polizia.

Spetta all’organo di polizia il compito di consegnare tale provvedimento al condannato, ingiungendogli di attenersi alle
prescrizioni in esso contenute (art 43).

L’assoluta autonomia dell’iter così descritto rispetto al procedimento di esecuzione delle pene detentive rende improbabile
l’applicazione delle regole sulla sospensione dell’ordine di esecuzione ex art 656.

Per le modifiche delle modalità di esecuzione di tali pene, è prevista una disciplina che riprende quella concernente l’analoga
problematica per le sanzioni sostitutive della semidetenzione e della libertà controllata nella l.689/1981.

Tuttavia, non sarà il magistrato di sorveglianza, bensì il giudice di pace competente per l’esecuzione a provvedere alle
modifiche imposte da motivi di assoluta necessità, come pure ad adottare un provvedimento de plano, revocabile nel corso
del procedimento.

Ex art 45, oggi abrogato, si stabiliva che le sentenze emesse da tale organo non dovevano essere riportate nei certificati del
casellario richiesti dall’interessato.

In occasione della riforma della normativa sul casellario giudiziale (del 2002), sono stati abrogati l’art 45 e 46, ma i relativi
contenuti sono stati riprodotti integralmente.

L’intera disciplina del procedimento sin qui esaminato è intimamente connessa ai profili penali; non a caso il momento
centrale della riforma, nella legge delega, è rappresentato dalla modifica dell’apparato sanzionatorio dei reati rientranti nella
competenza del giudice di pace.

In attuazione della l.468/1999, il legislatore delegato ha stabilito che:

 mentre per i reati per i quali è prevista la sola pena della multa o dell’ammenda continuano ad applicarsi le pene
pecuniarie vigenti;
 quanto il reato è punto con la pena della reclusione o dell’arresto alternativa a quella della multa o dell’ammenda, si
applica la pena pecuniaria della specie corrispondente da 258 a 2582 euro.;
 e se la pena detentiva è superiore 6 mesi, si applica la predetta pena pecuniaria o la pena della permanenza
domiciliare (da 6 a 30 giorni) o la pena del lavoro di pubblica utilità (da 10 giorni a 3 mesi).

Anche per i reati punti con la sola pena detentiva o con la pena detentiva congiunta a quella pecuniaria viene assicurata una
significativa attenuazione delle conseguenze sanzionatorie:

 nel primo caso si applica la pena pecuniaria da 516 a 2582 euro, o la pena della permanenza domiciliare da 15 a 45
giorni, o la pena del lavoro di pubblica utilità da 20 giorni a 6 mesi;
 nel secondo caso, si applicheranno le stesse pene, ma con un minimo edittale più elevato.

La possibilità per il giudice di scegliere tra pena pecuniaria e pena non pecuniaria viene meno solo nei casi di recidiva
infraquinquennale per reati puniti con la pena detentiva, anche se alternativa a quella pecuniaria, superiore nel massimo a 6
mesi.

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Anche in queste ipotesi si recupera la regola generale, se sussistono circostanze attenuanti ritenute prevalenti o equivalenti
rispetto alla recidiva contestata (art 52 “Sanzioni”).

Gli stessi redattori del decreto legislativo riconoscono che, a seguito delle modifiche sanzionatorie effettuate, vi sono oggi reati
non attribuiti al giudice di pace per i quali sono stabilite sanzioni più incisive di quelle concernenti fattispecie di pari o maggiore
gravità, invece rientranti nella competenza del giudice onorario.

Quanto ai contenuti delle nuove pene principali, dell’obbligo della permanenza domiciliare e del lavoro di pubblica utilità, pare
consentito rinviare agli art 53 e 54:

 la prima sanzione (art 53), comporta l’obbligo di rimanere presso la propria abitazione o in un altro luogo di dimora o
in un luogo di cura, assistenza o accoglienza nei giorni di sabato e di domenica.

In caso di esigenze familiari, di salute, di lavoro, di studio, il giudice potrà disporre che la pena sia eseguita in giorni diversi, e
su richiesta del condannato, continuativamente (art 53).

 La seconda sanzione (art 54) può essere applicata solo su richiesta del condannato, per cui il lavoro di pubblica utilità,
svolto nell’ambito della provincia di residenza del condannato (a anche fuori se lo richiede), comporta la prestazione di
non più di 6 ore di lavoro settimanale, da svolgersi senza pregiudizio per le esigenze di lavoro, di studio, di famiglia e di
salute dello stesso.

Sempre solo su richiesta del condannato, si può arrivare ad un impegno superiore, che comunque, non potrà superare le 8
ore giornaliere (art 54).

Ex art 55 (“Conversione delle pene pecuniarie”), per la pena pecuniaria non eseguita per insolvibilità del condannato, è prevista
la conversione dell’obbligo della permanenza domiciliare o, a richiesta del condannato, in lavoro di pubblica utilità, secondo i
criteri fissati dall’articolo.

La violazione degli obblighi imposti con le pene paradetentive configura una fattispecie delittuosa punita con la pena della
reclusione fino ad 1 anno, pena non sostituibile.

L’efficacia deterrente di una pena, potenzialmente convertibile in un trattamento simile a quello proprio della sanzione
paradetentiva inflitta ab initio, sarebbe minima, con la conseguenza di rendere scarsamente effettivo il sistema delle pene
irrogabili dal giudice di pace, ispirato a particolare mitezza, sul presupposto della fiducia che l’ordinamento evidentemente
accorda al reo.

Per i reati di competenza del giudice di pace viene esclusa la sostituibilità della pena, e la pena irrogata dal giudice di pace
non è sospendibile, non trovando applicazione gli artt 163 ss c.p. (art 60).

La prima peculiarità trova un’immediata ragione nelle caratteristiche nelle sanzioni paradetentive che, in buona parte,
coincidono con le sanzioni sostitutive.

In una riforma che si fonda sulla rinuncia alla pena detentiva e sulla valorizzazione delle possibilità di conciliazione, si è ritenuto
che il ricorso alla sospensione condizionale della pena avrebbe pregiudicato la funzione dissuasiva delle sanzioni applicate dal
giudice di pace.

In un sistema caratterizzato dalla non sostituibilità delle pene, nel 1998 è stata introdotta la possibilità di disporre ex lege la
misura sostitutiva dell’espulsione (nuovo art 62bis);

è l’unico caso “stabilito dalla legge” rappresentato dall’eventualità della condanna per il reato di soggiorno o di ingresso
illegale nel territorio dello Stato.

È ragionevole ritenere che, in luogo della condanna all’ammenda od alla multa, il responsabile del reato si vedrà “inflitta”
l’espulsione per un periodo minimo di 5 anni, sempre che non ricorrano le cause ostative indicate nell’art 14 d.lgs286/1998, le
quali impediscono l’esecuzione immediata dell’espulsione con accompagnamento in frontiera a mezzo della forza pubblica.

L’espulsione in questione deve essere eseguita anche se la sentenza non è definitiva, sul presupposto, davvero discutibile, della
natura non penale, ma meramente amministrativa della misura.

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In sostanza, viene a realizzarsi un’ulteriore compromissione della logica conciliativa e riparatoria della giurisdizione penale del
giudice di pace, al quale viene consegnato il potere di applicare uno strumento repressivo, incidente sulla libertà personale,
immediatamente operativo.

Quanto ai termini di prescrizione, per i reati punti con la sola pena pecuniaria troverà applicazione la previsione dell’art 157
co.1 c.p., che individua i termini in 4 o 6 anni, a seconda che si tratti di contravvenzioni o delitti.

Per i reati puniti diversamente, taluno aveva ipotizzato il riferimento ai contenuti dell’art 157 co.5 c.p., che prevede un
termine di soli 3 anni per i reati per i quali “la legge stabilisce pene diverse da quella detentiva e da quella pecuniaria”.

Orbene, le pene paradetentive costituiscono per il giudice di pace l’effetto di un’opzione, mentre il legislatore penale pare
alludere a reati per i quali dette pene siano previste in via diretta ed esclusiva, reati ad oggi non presenti nel nostro
ordinamento.

Ma soprattutto le pene dell’obbligo di permanenza domiciliare e del lavoro socialmente utile vanno considerate detentive “per
ogni effetto giuridico” (art 58).

Ne deriva che il regime prescrizionale dei reati di competenza del giudice di pace va ricondotto nell’ambito applicativo della
previsione generale dell’art 157 co.1 c.p.

E la Corte costituzionale ha affermato la correttezza di questo orientamento.

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