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Generalità:
La risoluzione, è un rimedio volto a privare di effetti il contratto, a fronte
dell’inadempimento di una parte, accompagnato da alcune circostanze
concomitanti; a tale rimedio sono dedicate una serie di disposizioni
dettagliate (1453- 1462).
La risoluzione è rimedio previsto nell’interesse privato dei contraenti,
pertanto, prima facie si potrebbe ritenere che sia disponibile ad opera delle
parti in via convenzionale mediante una clausola di irresolubilità; tuttavia, a
ben vedere, il fatto che una parte rinunci a chiedere la risoluzione a fronte
dell’inadempimento della controparte, rende di fatto la promessa di una
parte potenzialmente astratta e gratuita (ci si mette nella logica del gioco o
della scommessa ove si ritenga che gioco e scommessa inizino non quando
si promette a prescindere da una repromissione incondizionata ma quando
si promette senza avere certezza della controprestazione) e bisogna
pertanto vedere se una tale attribuzione patrimoniale gratuita, sia lecita e
dotata di causa idonea. Qui ci limitiamo a dire che la validità di una clausola
di irresolubilità è quantomeno dubbia (si veda nota 4)
La possibilità per le parti di ottenere una risoluzione di diritto mediante
apposizione di una clausola risolutiva espressa (cfr.1456), nonché gli effetti
ricondotti alla diffida ad adempiere (1454) consentono alle parti di superare
le strettoie del 1453, sottraendosi alla valutazione del giudice circa
l’importanza dell’inadempimento (1455), decisiva per la pronuncia giudiziale
sulla risoluzione
Il 1458, nella parte in cui dispone relativamente ai contratti a prestazioni
continuate o periodiche, ed il 1459 sulla risoluzione nel contratto
plurilaterale, prevedono due casi in cui la risoluzione può essere solo
parziale; l’interprete ne ha ricavato una regola generale per cui ogniqualvolta
l’inadempimento è soltanto parziale, si può avere una risoluzione parziale al
fine di ristabilire l’equilibrio tra le prestazioni.
Campo di applicazione della risoluzione:
l’art.1453 utilizza due espressioni, che farebbero propendere per limitare la
risolubilità ai soli contratti con effetti obbligatori: i) parla di ‘contratti a
prestazioni corrispettive’: come visto parlando delle categorie contrattuali,
per ‘prestazione’ si fa riferimento non solo all’obbligazione ma a qualsivoglia
sacrificio patrimoniale, pertanto tale locuzione non esclude la risolubilità di
contratti ad effetti reali. ii) parla di ‘contraente che non adempie le sue
obbligazioni’: tale locuzione pare invece rendere la risoluzione esercitabile
solo contro chi abbia assunto un’obbligazione o comunque abbia garantito
un risultato. La questione è particolarmente problematica, nella prassi,
quando le parti abbiano concordato una servitù od altra limitazione della
proprietà (es.obbligo di non edificare), quindi un contratto ad effetti reali, ma
poi il titolare abbia violato uno dei doveri nascenti dalla servitù o dalla
limitazione stessa ovvero un obbligazione propter rem accessoria alla
servitù; infatti se un inadempimento di tali doveri desse luogo a risoluzione,
la possibilità di esercitarla sarebbe illimitata nel tempo; bisogna adottare un
approccio pragmatico: se pago il titolare del fondo confinante affinché si
impegni a non edificare sul proprio fondo e questi poco dopo tira su un
grattacielo e mi conviene per il pagamento, io potrò eccepire
l’inadempimento ed ottenere la risoluzione; il discorso cambia se si fa valere
una violazione un secolo dopo la convenzione costitutiva di servitù.
Appare problematico anche il riferimento al contratto stesso: se le parti
hanno stipulato più contratti per regolare lo stesso rapporto, a fronte della
risoluzione di uno di essi, quale sorte per gli altri? Si deve adottare una
soluzione che guardi alla sostanza economica delle cose più che alla forma
giuridica: si veda l’esempio a pg.628: adottando un approccio strettamente
formale, verrebbe da dire che anche il contratto ‘modificato’ è da intendersi
risolto, adottando un approccio più pragmatico, si può dire che residua
l’obbligo di pagare un corrispettivo per la vendita, a prescindere che esso
sia in obbligazioni o in euro.
Il contratto associativo è risolubile al pari degli altri; anche i contratti
risolutori e modificativi sono risolubili in quanto implicano prestazioni
corrispettive (restituzioni e liberazioni)
Al contratto è equiparata anche la sentenza emessa ex 2932 per
l’esecuzione coattiva di un obbligo di contrarre (v.preliminare e contratto
imposto).
Il legittimato: è la parte che ha subito gli effetti dell’inadempimento; altro discorso è
quello circa l’invocabilità degli effetti della risoluzione che, una volta che questa è
pronunciata, possono essere opposti da chiunque; si presentano due problemi:
contratto a favore di terzo (vedere anche in civile I) in tal caso ad essere
interessato alla risoluzione è lo stipulante, ma si ritiene che questi non possa
agire in tal senso senza il consenso del beneficiario.
parte soggettivamente complessa: è lo stesso problema che si presenta in
caso di annullabilità. Sono state prospettate diverse soluzioni /autonomia dei
vari creditori, necessario consenso di tutti, distinzione in base alla divisibilità
degli effetti), l’unica plausibile è quella che distingue a seconda della
divisibilità o meno degli effetti del contratto: se non ha effetti divisibili, la
risoluzione non può essere chiesta da un solo soggetto di una parte
complessa, in quanto ognuno di quelli che la compongono ha un proprio
diritto all’adempimento e le altre parti non hanno il potere di sostituirlo con
una liberazione o un diritto alla restituzione.
Inadempimento e onere della prova: secondo una certa impostazione dottrinale,
l’inadempimento sarebbe elemento costitutivo della fattispecie che porta alla
risoluzione, ma non di quella che porta all’adempimento, e dovrebbe pertanto
essere provato dall’attore; la distinzione tra le due azioni non pare fondata:
entrambe presuppongono un adempimento, inoltre il 1453.2 consente di convertire
la domanda di adempimento in domanda di risoluzione, senza accollare ulteriori
oneri probatori all’attore. Se tale tesi fosse accolta si determinerebbero peraltro
risultati paradossali: il giudice cui sia presentata una domanda di risoluzione e, in
subordine, una domanda di adempimento, ove non sia provato l’inadempimento
del convenuto, dovrebbe da un lato rigettare la domanda di risoluzione perché
l’inadempimento non è provato, dall’altra accogliere quella di adempimento perché
non risulta che il convenuto abbia adempiuto. Si deve più correttamente ritenere
che la fattispecie sia unica, e che, a seconda della domanda di parte, possa
condurre alla risoluzione o all’inadempimento; ciò in quanto entrambe le azioni
conducono, in sostanza, alla dichiarazione che il debitore non ha adempiuto. La
giurisprudenza, dal suo canto, pare accogliere la soluzione qui criticata, dando
rilievo all’inadempienza come fatto costitutivi ma, ad un’analisi più attenta, essa
intende che tale fatto costitutivo consista nella prova dell’obbligo che si assume
inadempiuto, fintantoché il convenuto non ne provi l’adempimento (quindi
confermerebbe la tesi di Sacco). In ogni caso non è a carico dell’attore la prova
dell’imputabilità o della colpa nell’inadempimento: al contrario la prova liberatoria è
a carico del convenuto.
Effetti della risoluzione: l’art.1458 disciplina gli effetti della risoluzione, distinguendo
tra:
contratto a prestazioni istantanee: la risoluzione in tal caso determina la
caducazione del rapporto con efficacia retroattiva e, laddove siano già state
eseguite prestazioni, si possono configurare ipotesi di indebito o di
arricchimento giustificato, con conseguente applicazione degli artt.2033 ss
e, in part., dell’art.2033 sulla percezione dei frutti, che distingue tra buona e
mala fede, l’art.2037 che disciplina il rischio per il perimento della cosa, le
regole in tema di prescrizione ed opponibilità a terzi. Gli interpreti non hanno
una posizione univoca: alcuni sottraggono l’ipotesi delle restituzioni
conseguenti alla caducazione del contratto alla fattispecie ex 2033 ss,
ritenendo che debba essere disciplinata da regole proprie. La
giurisprudenza, dal suo canto, adotta diversi criteri, tra loro opposti: talora
esalta la retroattività della risoluzione, talaltra la nega e non applica le norme
in tema di ripetizione di prestazioni sine causa (giustizia del caso
concreto?). Nelle corti si rigetta l’idea per cui la risoluzione sarebbe un
contratto risolutorio sinallagmatico, da cui si desume che le prestazioni
restitutiorie delle parti sarebbero in rapporto di corrispettività, e che,
pertanto, colui che si trovi nell’impossibilità di restituire la prestazione, non
potrebbe chiedere la risoluzione: la restituzioni sono conseguenza, non
presupposto della risoluzione
contratto ad esecuzione continuata o periodica: la norma prevede che in tal
caso la risoluzione non ha effetto per le prestazioni già eseguite. Resta da
chiarire cosa debba intendersi per prestazioni già eseguite, se cioè si faccia
riferimento a quelle già eseguite bilateralmente (e cioè anteriori
all’inadempimento) o quelle preterite (non eseguite) al momento della
domanda: la soluzione degli autori si basa sul fatto che, come nessuna
ragione può validamente consentire la risoluzione prima dell’inadempimento,
così nessuna ragione può validamente escluderla dopo l’inadempimento,
pertanto, si deve consentire all’attore di scegliere se chiedere la risoluzione
con effetto dal momento della domanda o dal momento dell’inadempimento:
nel primo caso può chiedere l’adempimento della prestazione inadempiuta,
e ottenere la caducazione del rapporto per il futuro, nel secondo chiederà, al
contrario, la risoluzione e la restituzione della prestazione eventualmente già
eseguita; si deve infatti tener conto che, a fronte dell’inadempimento della
controparte, un soggetto può ‘avere pazienza’ ed attendere un eventuale
adempimento tardivo, perché magari ha interesse alla controprestazione e
non alla restituzione (lettura mia: la norma va interpretata in modo da tutelare
l’interesse dell’attore in risoluzione: questi deve potere scegliere se ottenere
l’adempimento della controprestazione ineseguita e la risoluzione per il
futuro o la risoluzione dal momento dell’inadempimento con eventuale
restituzione di quanto abbia prestato in adempimento al proprio obbligo)
nel nostro sistema (ispirato a quello francese), la risoluzione implica rinuncia
allo scambio di prestazioni ma non anche al lucro che si voleva ottenere dal
contratto (risarcimento dell’interesse positivo); tale soluzione è quella più
diffusa e riconosciuta anche dal diritto uniforme (cfr.ex multis 7.4.2 unidroit),
a scapito di quella propria del diritto germanico e svizzero che prevede la
risarcibilità del solo interesse negativo
Il 1458 disciplina altresì la posizione del terzo a fronte della risoluzione,
prevedendo che i diritti da questo acquistati non sono pregiudicati dalla
risoluzione, salvi gli effetti della trascrizione della domanda.
L’inadempimento che da luogo alla risoluzione:
ci si chiede anzitutto se rilevino gli inadempimenti non colposi e parte della
dottrina tende ad escludere tale rilevanza; si suol dire che anche la
giurisprudenza sia di tale avviso ma, a ben vedere, nei giudicati richiamati a
sostegno di tale affermazione, la giurisprudenza esclude la risoluzione a
fronte del fatto che l’inadempimento fosse in qualche modo giustificato
(es.l’inadempiente ha agito per ragioni apprezzabili, la controparte ha reso
difficoltoso l’adempimento ed altre formule che richiamano generiche cause
di giustificazione)-
Come espressamente previsto dall’art.1455, l’inadempimento rileva solo ove
non abbia avuto scarsa importanza ‘avuto riguardo all’interesse dell’altra
parte’. Si fa riferimento a tale requisito come ‘gravità’ dell’inadempimento, e
la giurisprudenza lo ha inquadrato come quell’inadempimento tale che, se la
controparte lo avesse previsto, non avrebbe contratto; in tal modo la
giurisprudenza identifica anche il fondamento della risoluzione nell’errore di
previsione del contraente deluso. Nella valutazione i giudici tengono conto
anche del grado di colpevolezza dell’inadempiente, della volontà delle parti
e fanno riferimento anche all’alterazione dell’equilibrio contrattuale.
Le condotte idonee a determinare l’inadempimento sono varie, ed hanno
gradi più o meno ampi di di reversibilità/definitività: omissione totale della
prestazione, cattiva esecuzione, commissione dell’attività vietata da
un’obbligazione di non fare, ritardo nell’esecuzione ecc..
Si ritiene che implichi inadempimento anche la minaccia di non
adempiere perpetrata prima della scadenza del termine per
adempiere: in tal caso è vero che la semplice minaccia non rende
certo l’inadempimento, ma non si può lasciare il contraente nell’attesa
di scoprire se la controparte adempirà o meno,
Come detto rileva anche il ritardo: esso determina alcune
problematiche perché ha un elevato grado di reversibilità; anzitutto va
chiarito che, affinché tale inadempimento sia grave, il ritardo deve
essersi protratto per un periodo significativo; il problema è capire se il
contraente ‘infedele’ possa evitare la risoluzione adempiendo prima
della proposizione della domanda; in prima battuta verrebbe da dare
risposta affermativa, sulla scorta del 1454, che prevede che
l’inadempiente non possa più adempiere solo dopo la proposizione
della domanda. A ben vedere, tuttavia, se il ritardo è significativo,
l’inadempimento è, come detto, grave, e quindi idoneo a fondare la
risoluzione: sulla base di tale considerazione si è sposata, anche in
giurisprudenza, la soluzione negativa (ferma restando la facoltà per il
creditore di accettare l’adempimento tardivo); pare opportuno,
tuttavia, imporre al contraente ‘deluso’ che intenda agire in risoluzione
per il ritardo, di darne comunicazione alla controparte affinché eviti
ulteriori sforzi per un adempimento tardivo che non gli consentirebbe
di evitare la risoluzione. Viene però spontaneo chiedersi cosa accada
ove al momento della proposizione della domanda il ritardo non sia
ancora così prolungato da costituire ‘grave inadempimento’; in tal
caso nelle corti vigono due regole tra loro inconciliabili: i)
l’inadempimento va valutato al momento della domanda, quindi il
protrarsi del ritardo a seguito della domanda non ha l’effetto di
aggravare ulteriormente l’inadempimento; ii) se il debitore adempie in
corso di causa ciò fa venir meno la gravità dell’adempimento.
Secondo gli autori tali regole sono in palese contraddizione e vanno
riformulate tenendo conto del fatto che la gravità del ritardo è (come
detto) un fatto irreversibile (salvo solo il condono del creditore che
però opera su un diverso piano): a) se sussiste al momento della
domanda l’adempimento del debitore in corso di causa non avrà
alcun’effetto ’sanante’; b) se non sussiste al momento della domanda:
il debitore può adempiere efficacemente.
Non si richiede per la risoluzione né la diffida ad adempiere (che però può
avere gli effetti di cui al 1454, v.avanti), né la costituzione in mora del
debitore. La costituzione in mora può però avere effetti sul piano sostanziale:
essa assegna un termine per l’adempimento, dunque, ove questo non fosse
stato previsto, è necessaria per capire se vi sia stato o meno un
inadempimento; in assenza di tale atto, tale compito può essere assolto
dall’atto di citazione e l’inadempimento si verifica in corso di causa; la
costituzione in mora fa anche venir meno i dubbi circa un eventuale
comportamento tollerante del debitore.
Il legislatore non si occupa dell’inadempimento reciproco; se n’è curata
invece la giurisprudenza che segue alcuni criteri: a) se uno dei due
inadempimenti è, in ragione di alcuni criteri (priorità, proporzionalità ecc)
prevalente sull’altro, sarà questo a determinare la risoluzione e l’altro sarà
giustificato; b) se sono di pari importanza, si dovrebbe adottare una
soluzione che tratti egualmente le parti, n giurisprudenza se ne sono
susseguiti vari: respingimento di entrambe le domande, risoluzione per
doppio inadempimento, risoluzione per impossibilità
Il giudizio di risoluzione:
esso può portare alla risoluzione dell’intero contratto, pertanto dev’essere
promosso nei confronti di tutti coloro che sono stati parte del contatto.
Si richiede una domanda specifica, e la giurisprudenza fa applicazione
rigorosa di tale regola (es. la risoluzione è ritenuta domanda nuova, non
ammissibile in appello, rispetto alla originaria domanda di risarcimento).
Il diritto a chiedere la risoluzione non si prescrive: la risol.è un rimedio,
pertanto deve poter essere chiesta finché perdura la situazione ‘patologica'
che la giustifica; può però prescriversi il diritto all’adempimento, ed allora il
problema si ripresenta.
l’art.1453.2, consente di chiedere la risoluzione se si era chiesto
l’adempimento, ma non viceversa. Tale regola è perfettamente coerente con
il sistema: la domanda di adempimento può anche essere considerata come
rinuncia tacita a chiedere la risoluzione per un inadempimento attuale, ma
non può aver tale effetto in relazione ad inadempimenti futuri: il diritto alla
risoluzione ‘convive’ con quello all’adempimento, e si può dire che esso
entra in gioco quando quello all’adempimento è ‘frustrato’ (es.condanna
all’adempimento non eseguita). Viceversa non sarebbe ammissibile la
conversione da risoluzione ad adempimento in quanto la domanda di
risoluzione, come detto, preclude l’adempimento (1453.3), dunque, ricevuto
l’atto di citazione, il convenuto cessa di organizzarsi ai fini
dell’adempimento; alla proposizione della domanda è da equipararsi
l’esercizio stragiudiziale del potere di risoluzione che, pur non essendo di
per sé idoneo, nel nostro sistema, a determinare la risoluzione, produce nella
controparte le medesime conseguenze che produrrebbe la domanda: in
entrambi i casi non pare opportuno consentire al contraente deluso di
‘cambiare idea’ e ri-obbligare la controparte che ormai aveva abbandonato
l’intenzione di adempiere. Si può dunque dire che la ‘morte del sinallagma'
deriva non tanto dalla pronuncia del giudice, quanto piuttosto dall’atto del
contraente deluso, che preclude alla controparte di adempiere: ciò mette in
discussione il dogma per cui la sentenza avrebbe natura costitutiva. Può,
tuttavia, essere chiesta in via principale la risoluzione e in via subordinata
l’adempimento (e, ovviamente, viceversa).
La diffida ad adempiere (1454): il contraente deluso può ottenere la risoluzione
anche senza dover ottenere la sentenza, intimando, con atto unilaterale recettizio,
alla controparte di adempiere entro un congruo termine con la dichiarazione che
decorso infruttuosamente tale termine, il contratto si intenderà risoluto di diritto
(sono requisiti formali: i) il termine dev’essere espresso nettamente; ii) l
comminatoria di risoluzione dev’essere specifica): è un modo per ottenere la
risoluzione senza dover ‘passare’ per il giudizio, anche se va tenuto presente che
la citazione impedisce l’adempimento tardivo quindi può essere preferibile. Tal
strumento consente di evitare il giudizio ma non può sostituire gli altri elementi
costitutivi della risoluzione (gravità dell’inadempimento, incolpevolezza del
creditore v.1227, imputabilità dell’inadempimento al debitore v.1218). La legge non
pare richiedere ulteriori atti al creditore, tuttavia la giurisprudenza subordina
l’efficacia della risoluzione ad un’ulteriore conferma. In un caso ha addirittura
ritenuto di non poter pronunciare la risoluzione in assenza di apposita domanda.
La clausola risolutiva espressa (1456): la fattispecie si compone di:
una clausola pattizia: i) dev’essere espressa nel senso che non si può
ricavare implicitamente; ii) dev’essere riferita a obbligazioni determinate: il
generico riferimento a tutte le obbligazioni nascenti dal contratto, la rende
una clausola di stile;
l’inadempimento di una parte: l’apposizione di una clausola, consente di
evitare il vaglio giudiziale circa la gravità dell’inadempimento, ritenendosi che
tale valutazione sia già svolta dalle parti in sede di trattativa. Si ritiene che
non escluda la prova degli altri elementi costitutivi della fattispecie risolutoria
e, in particolare, l’imputabilità dell’inadempimento; tale elemento è però,
secondo Sacco, una quaestio voluntatis: il giudice dovrà vedere se le parti,
nello stipulare la clausola, abbiano inteso riferirla ad un inadempimento
colposo o ad un inadempimento oggettivo
la dichiarazione di una parte: chi intende avvalersi della clausola lo deve
dichiarare, si tratta di un atto recettizio non soggetto a particolari requisiti di
forma; si può ricavare anche implicitamente (es.notificazione atto di
citazione). Secondo giurisprudenza costante, la dichiarazione è necessaria
anche per evitare l’adempimento tardivo del debitore. Chi può avvalersi della
clausola. potrebbe avere interesse a tollerare l’inadempimento in attesa di un
adempimento tardivo, e ciò può anche essere espressamente previsto nella
clausola; la clausola può anche essere rinunciata dall’interessato - la
giurisprudenza conosce anche la rinuncia tacita - che Sacco definisce
‘regola enigmatica’ -: in alcuni giudicati infatti ritiene che la parte interessata
non possa far valere la clausola ove abbia posto in essere comportamenti
incompatibili con essa.
Il termine essenziale (1457): la norma opera quando sia previsto un termine per
l’adempimento; l’essenzialità del termine può risultare espressamente dall’accordo
delle parti ma può anche risultare dalle circostanze. Non sono richiesti particolari
requisiti di forma ma, in ogni caso, l’essenzialità non può essere presunta (nel
senso che non si può ritenere che ogniqualvolta sia previsto un termine per
l’adempimento esso sia essenziale). Il decorso del termine essenziale dispensa
dalla prova della gravità dell’inadempimento, ma è comunque richiesta
l’imputabilità dello stesso (non rileva il ritardo incolpevole). Il soggetto ‘deluso’ può
chiedere l’adempimento tardivo entro 3 giorni dal decorso del termine, nella prassi
gli si riconosce tale facoltà anche oltre tale termine. La giurisprudenza non
consente di accertare la risoluzione di diritto in assenza di un’eccezione della parte
interessata.
Le eccezioni dilatorie:
le norme: leggere ricordarsi che vi sono previsioni di parte speciale sia codicistiche
(1664- appalto) sia extra codicistiche
I contratti assoggettabili ai rimedi:
quanto ai rimedi per l’eccessiva onerosità sopravvenuta, la legge distingue
tra contratti a prestazioni corrispettive per cui prevede, come rimedio, la
risoluzione del contratto (1467) e contratti ‘unilaterali’, in cui cioè una sola
delle parti abbia assunto obbligazioni, per cui prevede come rimedio la sola
‘modifica’ del contratto, consistente in una riduzione della propria
prestazione ovvero in una adeguata modifica delle modalità esecutive
(1468); il discrimine sarebbe giustificato da ciò che nei contratti unilaterali, se
si riconoscesse la risolubilità, si finirebbe col consentire alla parte obbligata
di liberarsi, senza che un beneficio analogo si produca in capo alla
controparte (si pensi al caso della fideiussione prestata al momento della
concessione del credito: il mutuante presta in ragione della garanzia, se la
fideiussione fosse risolubile, sarebbe esposto al rischio di trovarsi
’scoperto’). In realtà, secondo l’autore, la distinzione tra risoluzione/modifica
non coincide appieno con quella tra contratti sinallagmatici/unilaterali:
anzitutto (i) si ritiene opportuno estendere la soluzione prevista per i contratti
sinallagmatici anche a quei rapporti bilaterali in cui una prestazione è
dedotta in obbligazione e l’altra in condizione (promessa unilaterale
condizionata); (ii) si deve ritenere che anche il contratto unilaterale sia
risolubile nel caso in cui ciò non possa arrecare pregiudizio alla controparte
(restando nell’esempio della fideiussione, ove questa sia concessa dopo la
concessione del credito al debitore originario); infine (iii) andrebbe rigettata la
tesi di parte della dottrina, riconosciuta per la verità anche dalla
giurisprudenza, per cui non sarebbero da assimilare ai contratti unilaterali
quelli sinallagmatici in cui una delle due prestazioni sia già interamente
eseguita, in quanto si dovrebbe guardare alla funzione originaria del
contratto: tali contratti sarebbero pertanto assoggettabili al rimedio
risolutorio; Sacco critica tale visione poiché nel contratto bilaterale eseguito
uno latere si presentano problemi tecnici non meno rilevanti di quelli che si
presentano in caso di risoluzione di un contratto unilaterale e ritiene più
corretto assoggettarli al rimedio ex 1468:
si pensi al caso di uno scambio obbligatorio tra due beni di pari
valore, uno va consegnato il giorno 1 l’altro il giorno 10; il giorno 5 si
verificano circostanze per cui il bene già consegnato si svaluta
dell’80% mentre quello ancora da consegnare decuplica il proprio
valore: chi non ha ancora consegnato il bene riterrà che la prestazione
consistente nella consegna del bene divenuto prezioso sia
eccessivamente onerosa, dunque invocherà un rimedio: se si accoglie
la soluzione maggioritaria, questi potrebbe speculare sulla
svalutazione, perché dovrebbe restituire il tantundem del bene
svalutato (es.se al momento del contratto valeva 10, deve restituire 2,
ma si tiene il bene) se si accoglie la soluzione dell'autore, può rifiutarsi
di eseguire la propria prestazione ma è tenuto a corrispondere una
somma pari al valore che il bene da lui promesso aveva al momento
della conclusione del contratto (deve dare 10): se si accoglie la
soluzione codicistica dunque, si consente al soggetto di speculare
sulla svalutazione del bene: il soggetto che consegna per primo
subisce una perdita patrimoniale di 10, e poi ottiene indietro 2 e non
può farci nulla poiché le regole in tema di sopravvenuta onerosità
sono applicabili solo alle obbligazioni contrattuali e non anche a quelle
quasi contrattuali, in specie quelle restitutorie! (Cioè il soggetto che ha
dato il bene svalutato non può dire: la restituzione è sproporzionata
rispetto alla mia prestazione, al mio sacrificio).
Non sono assoggettabili ai detti rimedi contratti aleatori ‘per loro natura o
per volontà delle parti’ (1469): le possibili letture della norma sono due: i) il
legislatore impone al giudice di valutare se tale contratto sia, per propria
natura o per volontà delle parti, assoggettato ai rimedi ex 1467 e 1468: non
è certamente tale una vendita di cosa futura in cui si pone il rischio che la
cosa non venga ad esistenza a carico del compratore; ii) si può però ritenere
anche che il giudice debba verificare se il rischio dell’evento addotto
dall’attore a fondamento della domanda di risoluzione fosse posto dal
contratto a carico di questo. La prima lettura è più coerente con la lettera
della norma che fa riferimento al contratto e non alle singole alee così come
distribuite dal contratto in capo alle parti; la seconda è però da preferire: è
giusto che se un soggetto si è accollato, per sua libera volontà, il rischio di
un determinato evento non gli sia riconosciuto il rimedio esonerativo se tale
evento si verifica, non anche privarlo, per il solo fatto di essersi assunto
un rischio, di qualsiasi rimedio anche per eventi collegati a rischi diversi ed
ulteriori da quello assuntosi. In tal modo, in definitiva, si rimette l’applicabilità
delle norme in esame alla volontà dei contraenti (!); un problema analogo si
presenta infatti ove questi abbiano previsto dei meccanismi per
l’adeguamento ‘automatico’ del contratto a fronte di certe sopravvenienze,
ove queste vadano oltre le previsioni in base a cui le parti avevano
strutturato tali meccanismi (es.avevano pattuito un adeguamento del prezzo
delle banane all’andamento del mercato, ma si verifica una catastrofe
naturale che rende le banane un bene di lusso), subentrano i rimedi ex 1467
e ’68.
L’applicazione dei principi esposti, è difficile in relazione alle situazioni
strumentali (es.il preliminare, l’opzione ecc.), in riferimento alle quali si suol
dire che, siccome la prestazione strumentale (conclusione del contratto) non
avrebbe di per sé alcun valore, non sarebbe possibile valutare la
sproporzione che da luogo all’eccessiva onerosità; alcuni (Torrente) hanno
sostenuto che il legame tra la situazione strumentale e quella definitiva,
implica che sarà il definitivo ad essere esposto a sopravvenienze, e sarà,
dunque, risolubile. Tale conclusione, secondo l’autore, non è sensata: il
contraente ‘leso’ si troverebbe nell’impossibilità di rifiutare la prestazione
oggetto del rapporto strumentale, in quanto si esporrebbe all’azione ex
2932, ma potrebbe poi agire per la risoluzione del contratto concluso; la
soluzione più opportuna sarebbe riconoscere a tale soggetto, convenuto ex
2932, di opporre una exceptio doli ‘dolis petis quod mox redditurus est’ cioè,
in parole povere, hai la faccia tosta di chiedere ciò che poi dovrai restituire.
In sostanza chi ha contratto un preliminare può sottrarsi alla conclusione del
definitivo se la prestazione che questo porrebbe a suo carico è divenuta
troppo gravosa.
La prestazione dovuta e differita: affinché i rimedi esaminati siano esperibili, la
prestazione dev’essere non contestuale alla conclusione del contratto perché
continuata, periodica o differita: una prestazione già eseguita non può divenire
eccessivamente onerosa. L’intervallo di tempo tra la conclusione del contratto può
essere frutto di un’espressa pattuizione e sorgere dunque per effetto del contratto,
ovvero essere concesso in via di tolleranza dalla controparte: i rimedi sono
applicabili ad ogni prestazione differita in modo conforme alla legge. In alcuni
contratti, in particolare quelli ad efficacia reale, la prestazione contrattuale di una
parte si esaurisce con la manifestazione del consenso e ciò può dar luogo a
sperequazioni (es.chi vende una quantità di cose fungibili può chiedere o no la
risoluzione per eccessiva onerosità a seconda che differisca l’individuazione delle
cose rispetto alla conclusione del contratto o meno cfr.1378 cc; se un pati deriva
dalla costituzione convenzionale di una servitù, non si può chiedere la risoluzione
per sopravvenienze in quanto il pati obbligo che attiene al rapporto mentre la
prestazione contrattuale si esaurisce nella mera manifestazione del consenso a
che fosse costituita la servitù [sacrificio—>limitazione della proprietà]). Peraltro vi
sono stati tentativi di ampliare l’area in cui la prestazione contrattuale si esaurisce
nel consenso: si è sostenuto che in caso di opzione o una proposta irrevocabile, la
prestazione del proponente si esaurisse nel consenso a tener ferma la proposta:
tale tentativo è stato, giustamente, neutralizzato: l’opzione/p.irrevocabile fanno
sorgere un diritto potestativo in capo all’oblato e una soggezione in capo
all’offerente: la prestazione del proponente è da individuarsi nella posizione di
soggezione.
L’evento straordinario e imprevedibile: vedi Delfini
L’onerosità eccessiva: per vedere se l’onerosità sopravvenuta è eccessiva o meno,
si deve effettuare una valutazione oggettiva, senza guardare alla situazione
soggettiva del contraente. La legge parla di onerosità della prestazione e non fa
alcun riferimento alla controprestazione; tuttavia gli interpreti equiparano
all’eccessiva onerosità della prestazione lo svilimento della controprestazione,
numerosa giurisprudenza specifica però che non può essere invocato quando si
sia già adempiuta la propria prestazione; in generale il contraente già liberato non
può far valere le sopravvenienze. L’onerosità eccessiva non rileva, in ogni caso,
ove rientri nella normale alea del contratto, che varia a seconda del tipo
contrattuale (ed è pertanto questione di parte speciale).
La risoluzione e modificazione: alle condizioni viste il contraente ‘onerato’ può
chiedere, a seconda dei casi, la risoluzione o la modificazione. Nel primo caso la
controparte può offrire di modificare le condizioni contrattuali ripristinando l’equità
e, a tal fine, diversamente da quanto visto in tema di rescissione, basta un offerta
che riporti il valore della prestazione nell’alea normale del contratto; la scelta in tal
senso è rimessa esclusivamente a iniziativa della controparte: non può essere
‘provocata’ dal debitore onerato né dal giudice. L’eccessiva onerosità non può
essere rilevata d’ufficio dal giudice.
Altre sopravvenienze: le fonti: il codice del ’42 ha previsto solo l’onerosità,
lasciando intendere di dar rilevanza solo a squilibri quantitativi. Ciò può portare a
rimpiangere quella dottrina ‘presavignyana’ che esaltava la regola rebus sic
stantibus in tutta la sua ampiezza. Non si può però biasimare il legislatore del ’42
poiché la rilevanza degli squilibri anche qualitativi ha cominciato ad essere
percepita dopo la metà del secolo, ritenendo che il rimedio adeguato sarebbe la
rinegoziazione; peraltro anche le fonti più recenti (diritto uniforme) non hanno
considerato la questione: circoscrivono il rimedio della rinegoziazione al solo caso
dell’eccessiva onerosità. La dottrina tuttavia, o per la via della presupposizione o
per quella dell’interpretazione o integrazione, giunge a formulare una regola di
giustizia non scritta, che pare motivata anche da ragioni di buon senso e non
contrasta col principio di autonomia: se le parti non hanno previsto, non ha senso
imporre loro di conservare una regola che, se avessero previsto, non avrebbero
voluto ed è meglio ‘avviarle’ verso l’iter che, se informate, avrebbero ritenuto
normale.
Le altre sopravvenienze: le regole: i giuristi di tutti i paesi sono concordi nel ritenere
che il contratto in crisi imponga alle parti un dovere di rinegoziare che in sostanza
si traduce in un obbligo a contrarre alle condizioni che risultino giuste prendendo il
contenuto del ‘vecchio’ contratto e rivisitandolo alla luce degli eventi sopravvenuti;
e tale obbligo di contrarre trova fondamento proprio nel primo contratto: se tale
obbligo è inadempiuto perché una delle due parti non è disponibile a contrarre,
interviene il giudice e decide. Se le parti vogliono evitare questo sviluppo,
escluderanno con apposita clausola, nel contratto originario, la revisione a fronte di
sopravvenienze.
Sez.18: il recesso
Il recesso
Nozione, ambito, tipi: quella disciplinata dal 1406 cc, è la successione inter vivos di
un terzo nella posizione contrattuale di uno dei contraenti, in un contratto a
prestazioni corrispettive efficace solo col consenso della controparte, determinata
da un atto di autonomia privata: non vi rientrano dunque i casi di successione
mortis causa, e di successione legale (es.subentro dell’acquirente di un immobile
locato nel contratto di locazione), cui la disciplina che vedremo si applica se del
caso per analogia.
Il cessionario subentra non solo nei debiti e crediti nascenti dal contratto ma
anche in quel complesso di diritti potestativi, azioni, aspettative ecc. inerenti
alla qualità di contraente (es.può esercitare l’azione di annullamento,
rescissione, reagire agli inadempimenti, far valere clausole e patti speciali)
Con la cessione le parti non potrebbero modificare il contenuto del contratto
oggetto di cessione e in particolare, si dice, non potrebbero realizzare una
cessione solo parziale; secondo l’autore andrebbe invece dato maggior
rilievo all’opposta concezione.
cedente e cessionario possono pattuire un corrispettivo per la cessione, il
ceduto può pretendere un corrispettivo per il proprio consenso.
gli interessi che entrano in gioco sono i seguenti: i) cedente: può essere
interessato a fare da semplice intermediario nel rapporto: ottiene un
corrispettivo per liberarsi dagli obblighi vs la controparte ceduta e dal rischio
di inadempimento (meglio di così…); ii) cessionario: può essere interessato
perché mediante la cessione acquista un vantaggio che non avrebbe potuto
ottenere contrattando personalmente; iii) ceduto: solitamente è interessato
alla cessione solo dietro corrispettivo, salvo che, ad es., il contraente
originario si sia rivelato inaffidabile, talora il suo consenso è condizione della
stessa stipulazione del contratto originario.
Ci si chiede se oltre a quella configurata dal 1406 siano configurabili anche
ipotesi di cessione ‘atipica’; secondo De Nova ciò è possibile:
il 1406 limita la cessione ai contratti a prestazioni corrispettive: si è
sostenuto che la cessione realizza solo il subentro nei debiti/crediti
perciò la cessione di un contratto unilaterale (o bilaterale eseguito uno
latere) non avrebbe senso: come abbiamo visto oltre ai debiti crediti
circolano anche tutte le altre situazioni inerenti al contratto per cui tale
affermazione non sta in piedi
il 1406 limiterebbe la cessione ai contratti ad efficacia obbligatoria, in
quanto per realizzare il trasferimento di un diritto, tipico dei c.a
efficacia reale, sarebbe necessario un altro atto traslativo: posto che
cessione del contratto ed atto traslativo sono atti con efficacia diversa
(in part.con la cessione il cessionario avrebbe azione vs.il ceduto, con
l’atto traslativo vs.l’alienante) nulla vieta che l’effetto traslativo possa
realizzarsi con il contratto di cessione (e cioè che tale ‘altro atto
traslativo’ possa essere il contratto di cessione stesso)
il 1406 richiede il consenso del ceduto: non pare essere elemento
necessario: la legge stessa contempla ipotesi di cessione senza
consenso del ceduto (es.in caso di separazione consensuale o nullità
matrimoniale, al conduttore succede l’altro coniuge se è stato così
convenuto da loro, senza bisogno del consenso del locatore) ma..
vedi sotto
Quanto detto al punto precedente estende l’ambito della cessione, tuttavia
bisogna tener conto del fatto che non tutti i contratti sono cedibili: i) non
sono cedibili i contratti per la cui stipulazione sono richiesti determinati
requisiti soggettivi (es.contratto di assicurazione); ii) il contratto di lavoro
subordinato non è cedibile da parte del prestatore di lavoro, ma solo da
parte del datore (beninteso, col consenso del lavoratore); iii) secondo alcuni
non sarebbero cedibili i contratti intuitu personae ma tale visione non tiene
conto che il ceduto deve prestare consenso e, per decidere se farlo, valuterà
anche se il cessionario ha le qualità personali che l’avevano indotto a
contrarre; iv) da rigettare è anche l’idea per cui non sarebbero cedibili i
contratti che si estinguono per morte di uno dei contraenti: relativamente ad
essi è, in sostanza, impedita la successione mortis causa, non anche quella
inter vivos.
Il consenso del contraente ceduto:
nel contratto a prestazioni corrispettive, il ceduto è al contempo creditore e
debitore; in quanto creditore, ha interesse a dire la sua circa il subentro di un
altro contraente, è vero che vi sono dei casi in cui la legge stessa non ritiene
necessario il consenso (come detto sopra) ma ciò, in tali casi, trova
giustificazione nel fatto che vi sono altri interessi, ritenuti preminenti rispetto
a quello del ceduto, quindi sono casi speciali, al di fuori dei quali il consenso
è sempre richiesto. È discusso se la cessione sia rapporto trilatero, ed il
consenso sia dunque elemento costitutivo, ovvero se si tratti di un rapporto
bilaterale, nel qual caso il consenso del ceduto sia condizione di efficacia
(v.anche in civile 1 differenza tra contratto nullo ed inefficace). La
giurisprudenza è orientata nel primo senso e, drasticamente, ritiene nullo il
contratto di cessione in cui manchi il consenso del ceduto; la dottrina è
divisa tra tale conclusione e quella per cui il contratto produrrebbe alcuni
effetti anche in assenza del consenso del ceduto: in particolare esso
determinerebbe un accollo dei debiti ed una cessione dei crediti, lasciando
pero il vincolo tra le parti originarie (chi adotta la prima posizione, pur non
ritenendo necessario, a fini di responsabilità ex 1337, che le parti si attivino
per ottenere il consenso, configurano la responsabilità ove ne abbiano
ostacolato la manifestazione).
Caratteristiche del consenso: i) può essere anche tacito, tranne nel caso in
cui la cessione debba essere formale; ii) può essere, oltre che contestuale o
successivo, anche preventivo: in tal caso il contratto nasce con la
predisposizione a circolare: il caso è preso in considerazione dal 1407.1,
secondo cui il consenso si ritiene efficace dal momento in cui la cessione è
notificata al ceduto o in cui questi l’ha accettata; iii) il contraente che abbia
acconsentito preventivamente alla cessione può anche rinunciare a
riceverne la comunicazione (clausola all’ordine o altra equivalente, 1407.2):
in tal caso l’efficacia della cessione si produce con la girata del documento:
tale modalità è adeguata solo se gli inconvenienti derivanti dal subentro di
un altro contraente siano minimi per il ceduto.
La cessione piena e le possibili varianti: la cessione ‘piena’ implica degli effetti, cui
le parti possono derogare, dando vita a cessioni ‘con effetti minori':
i) il cedente è liberato nei confronti del ceduto (1408.1): il ceduto può
dichiarare di non liberare il cedente: in tal caso quest’ultimo è responsabile
in via sussidiaria rispetto al cessionario: se questi non adempie - e in tal
senso si ritiene sufficiente la mancata risposta alla richiesta di adempimento
da parte del cessionario (non serve una vera e propria escussione) - il
ceduto può agire nei confronti del cedente, ma risponde dei danni subiti da
questo nel caso in cui non gli abbia dato notizia dell’inadempimento del
cessionario (1408.2 e 3)
ii) il ceduto può opporre al cessionario solo le eccezioni fondate sul contratto
e non anche quelle fondate su altri rapporti col cedente (es. eccezione di
compensazione) (1409): si ritiene (Carresi) che le parti possano formulare un
patto contrario (anche se non è espressamente previsto dal legislatore)
iii) il cedente è tenuto a garantire solo la validità del contratto ceduto, non
anche l’adempimento del debitore ceduto: il cedente può scegliere di
garantire anche l’adempimento ed in tal caso risponde come fideiussore per
le obbligazioni del ceduto (si applicano le norme sulla fideiussione- cfr.1410).
Anche se non è espressamente previsto dal legislatore, si ritiene (Mirabelli,
Carresi) che le parti possano escludere anche la garanzia circa la validità del
contratto.
La forma: il legislatore, per mancanza di modelli di riferimento (il c.di cessione non
era disciplinata né nel Cod.Nap. né nel BGB né nel c.c. svizzero), non ha
disciplinato la forma della cessione; se inizialmente se ne era ricavata una libertà di
forma, presto ha preso piede la conclusione opposta. Taluni l’hanno giustificata in
quanto tesa ad evitare che le parti, con la cessione, eludano l’onere formale
previsto per il contratto; tale affermazione non è convincente: se si intende dire (1)
che le parti intenderebbero modificare, mediante la cessione, il contratto base, va
ricordato che l’onere formale è richiesto, con certezza, solo per il contratto di base,
se invece si intende dire (2) che le parti intenderebbero eludere l’onere per il
contratto di base, la cessione sarebbe nulla perché nullo sarebbe il contratto di
base stesso. Secondo l’autore la conclusione è corretta ma la si deve motivare
diversamente: se è richiesta la forma scritta per il contratto di base, dev’essere
effettuato in tale forma anche il contratto di cessione ma ciò è dovuto a ragioni di
sostanza: i contratti per cui è previsto l’onere formale, si riferiscono a vicende di
rapporti giuridici per cui è richiesto l’onere formale; ciò assume particolare
rilevanza ove si ammetta la cessione di contratti ad efficacia reale (v.sopra), per i
quali sarebbe necessaria anche la trascrizione del contratto di cessione.
L’estinzione: anche circa le patologie idonee determinare l’estinzione del contratto
di cessione, il legislatore tace. Va tenuto presente che il contratto di cessione, pur
coinvolgendo tre parti, non è contratto plurilaterale nel senso in cui lo intende il
legislatore (cfr.artt.1420, 1446, 1459, 1466 di quali emerge il principio per cui il vizio
relativo ad una sola parte travolge il contratto intero solo se la partecipazione di
tale parte era essenziale). Si applicano pertanto le norme sui contratti bilaterali, con
gli opportuni adattamenti: i) la violenza rileva anche se perpetrata nei confronti di
una sola parte, il dolo e l’errore rilevano solo se conosciuti o conoscibili da tutte; ii)
la risoluzione non è praticabile, non sorgendo, se non in via eventuale, obbligazioni
in capo alle parti.
Profili processuali: ci si chiede se si configuri un’ipotesi di litisconsorzio necessario:
si deve vedere se la decisione richiesta con l’azione riguarda tutte le parti o solo
alcune di esse, così si richiede necessaria partecipazione di tutte le parti ove il
giudizio sia relativo alla validità, all’avvenuta conclusione od agli effetti del
contratto, non la si richiede ove questo verta sulle singole vicende relative al
contratto
Sub-contratto: è ipotesi diversa rispetto alla cessione di contratto: in tal caso si
crea in capo al terzo una situazione dipendente da una delle parti del rapporto
originario, che rimane in piedi tra esse, e tale differenza permane anche ove si
ammetta la cessione parziale: nella cessione parziale la parte di rapporto ceduto
non rimane in piedi tra le parti originarie, cambia totalmente ’soggetti’, mentre nel
sub-contratto sopravvive l’intero rapporto tra le parti originarie. Il sub-contratto, a
differenza della cessione, è figura di parte speciale, disciplinato - e talora vietato -
dalle discipline dei singoli tipi contrattuali.