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Capitolo I
L’attuale letteratura sul contratto si basa su una concezione di autonomia contrattuale intesa come
fenomeno sociale che si afferma su in piano, o su una dimensione, diversa da quello giuridico. Si
tratta di un’espressione di libertà naturale e morale di determinarsi secondo le modalità più
congeniali alle esigenze dell’individuo.
Oggigiorno, però, la mondializzazione dei mercati implica che le transazioni economiche non si
realizzino più, in prevalenza, per legge, bensì mediante regole poste dagli operatori economici di
maggior rilievo. Dunque, si può dire che “IL CONTRATTO SI FA PRASSI; LA PRASSI
GENERA L’USO; E L’USO CREA LA NORMA”.
La fiducia posta in un mercato capace di autoregolamentarsi, unita alla crisi della sovranità
(della legge, dunque), ha reso l’autonomia privata essenziale e chiamata a svolgere un ruolo
strutturale ed organizzativo di sottosistemi sociali.
L’autonomia privata si atteggia così a manifestazione del POTERE dei privati di creare, insieme
alle altre fonti, delle regole oggettive di condotta, delle vere e proprie norme giuridiche.
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Presupposto di quanto affermato pocanzi è che ogni organizzazione sociale creatrice di un proprio
ordinamento abbia poteri di imperio, cioè sia dotata di autorità.
Una spinosa questione riguarda due interrogativi, che si possono comunque risolvere insieme:
1) Quale sia il rapporto tra autorità private e autorità dello Stato;
2) Quale sia il rapporto tra le regole poste dalle autorità private e quelle poste dallo Stato.
Punto di partenza deve essere la convinzione che non vi sia altro ordinamento giuridico che
quello dello Stato; laddove venisse affermata la non necessaria identificazione tra il diritto e lo
Stato, verrebbe meno la necessità di riferirsi, nel valutare gli interessi, ad una scala i cui estremi
siano il singolo e lo Stato. In tal modo verrebbero a recuperare visibilità gli ordinamenti non
statuali: “il diritto dei privati che affiora si concreta in una serie di ordinamenti la cui giuridicità
non deriva dalla loro posizione entro la gerarchia del diritto statuale, essendo il primo non
sottoposto ma parallelo al secondo”. Il rapporto tra lo Stato e questi ordinamenti non statali,
chiarito come siano tra loro posti su piani paralleli, può concretizzarsi in due tipologie:
1) Lo Stato ingloba e fa proprio l’altro ordinamento originario, il quale diviene rilevante;
2) Lo Stato ignora l’altro ordinamento originario, il quale è considerato irrilevante (si
pensi all’ordinamento sportivo).
La regola autodisciplinare può quindi essere riconosciuta e apprezzata dalla legge.
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2) Compatibilità dell’esercizio di tali poteri con i canoni fondamentali della democrazia
generale.
Le regole assunte da gruppi intermedi devono essere conformi agli obiettivi della comunità
giuridica nel suo insieme, di cui lo Stato è ente esponenziale. Il concetto di Stato ha
bisogno di una netta revisione e la concezione di sovranità deve essere riformulata; solo in
tal modo si potrà restituire al diritto il ruolo che da sempre si ritiene essergli proprio, cioè
quella di strumento di regolazione dei conflitti. Tale funzione, però, può essere raggiunta
anche mediante il sacrificio di un’esigenza sostenuta da taluna delle molte culture
presenti nella società contemporanea. Non sempre si compone conciliando.
Se il diritto si limitasse a prendere atto che una certa condotta, di per sé non sostenibile, è
espressione di una cultura presente nella società, ancorché minoritaria, e se non ponesse un
freno alla stessa, rinuncerebbe al suo stesso ruolo e si “priverebbe della possibilità di
regolare”.
La regolazione giuridica di un conflitto deve quindi realizzarsi anche se le parti non sono disposte
ad una soluzione ed anche a cost di sacrificare il punto di partenza di una di esse; ciò che si
sacrifica è essenziale al raggiungimento degli obiettivi della comunità.
Si tratta allora di verificare la democraticità delle procedure mediante le quali l’obiettivo viene
selezionato. Il principio di libertà rischia di diventare un alibi per coloro che intendono assoggettare
a limitazioni di sorta i poteri che i processi di internazionalizzazione economica hanno reso
difficilmente governabili.
Capitolo II
Nell’ambito degli interventi comunitari sulla disciplina dei contratti, appare doveroso concentrarsi
sulla c.d. legge antitrust (L. 287/90), nella parte in cui vieta l’abuso di posizione dominante e
le intese restrittive della concorrenza.
Le normative antitrust perseguono la finalità di controllare le condotte d’impresa che tendono a
limitare in modo ingiustificato l’attività dei concorrenti, creando, rafforzando e sfruttando situazioni
di mercato che consentono la pratica di prezzi o altre condizioni che limitino la libertà dei
contraenti. Tra le finalità delle norme antitrust rientrano:
1) Tutela della struttura concorrenziale del mercato. La concorrenza, in un’economia di
mercato, spinge le imprese ad un continuo aumento delle quantità, varietà, qualità ed
innovazione di prodotti e servizi e ad un costante ribasso dei prezzi verso il prezzo di costo,
accrescendo le possibilità di scelta dei consumatori. La concorrenza diviene strumento di
democrazia economica;
2) Efficienza economica;
3) Benessere sociale.
L’obiettivo comune di intese e concentrazioni, cioè quello di impedire che le imprese si svincolino
dalla libera concorrenza stringendo alleanze malsane e aumentano smisuratamente il proprio
potere economico, è già in partenza oggetto di fallimento laddove si noti come esista, purtroppo con
decisione, il problema dell’abuso di posizione dominante. Il solo parlare di abuso indica la
presenza di imprese, sul mercato, in grado di tenere comportamenti indipendenti da quelli dei
concorrenti.
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Posizione dominante in Italia:
Il legislatore italiano non si preoccupa di definire alcuno dei termini rilevanti per la fattispecie, non
dice cosa debba intendersi per posizione dominate, non cosa per abuso.
Secondo l’art. 67 del Trattato CECA, la posizione dominante è quella che “sottrae l’impresa che
la detiene ad una concorrenza effettiva”, con la conseguenza che la stessa può agire senza tenere in
considerazione le mosse dei concorrenti.
La definizione della Corte di giustizia guarda all’abuso de qua come “una posizione di potere
economico detenuta da un’impresa che gli conferisce il potere di ostacolare il mantenimento di una
concorrenza effettiva nel mercato di cui trattasi”.
La formula ravvisa nella potenza economica l’essenza della posizione dominante; il problema è
che non fornisce parametri efficaci per stabilire quando si tratti di abuso. Da qui l’affermarsi di una
prassi interpretativa con alcuni criteri di matrice giurisprudenziale; vengono in gioco criteri di
carattere strutturale come la quota di mercato: il controllo di una quota elevata deve essere
durevole. Altro criterio è quello del grado di integrazione verticale
È buono precisare che la normativa sanziona il solo abuso di posizione dominante e non la
posizione dominante in sé.
Le condotte abusive, però, sono prettamente a carattere mercantile; vi sarà abuso, ad esempio,
quando il comportamento sarà idoneo ad influire sulle strutture del mercato, ovvero quando risulti
non motivato da giustificazioni obiettive.
L’utilizzo di parametri esclusivamente mercantili, però, appare riduttivo. Lo stesso orientamento
della Corte sembra giustificare tutte le condotte che sono ispirate a criteri di efficienza.
Sorge spontanea la domanda: in nome dell’efficienza, tutto può dirsi lecito?
La verità è che la clausola di abuso deve essere riempita di contenuti concreti ricorrendo a valori
sovraordinati rispetto a quelli della libera concorrenza.
Il recesso:
La dottrina ha a lungo discusso sull’uso dell’espressione de qua. Parte della stessa intende il recesso
come mezzo attribuito al contraente per liberarsi del vincolo quando vi sia un mutamento
degli interessi sostanziali sottesi alla vicenda negoziale.
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Per comprendere la natura del recesso può giovare un confronto con la fattispecie ex art. 1461 c.c.,
c.d. eccezione di sospensione dell’esecuzione della prestazione (quando, cioè, nell’ambito di un
rapporto contrattuale a prestazioni corrispettive, uno dei contraenti sospende la sua esecuzione
laddove le condizioni economiche dell’altro contraente siano peggiorate a tal punto da porre in
pericolo il conseguimento della controprestazione).
Eccezione e recesso sono diverse da un punto di vista del profilo funzionale:
1) Recesso: mette in moto un meccanismo volto a far cessare il vincolo obbligatorio;
2) Eccezione: tende alla conservazione del rapporto e dell’equilibrio degli interessi.
Alla luce di ciò, il diritto di recesso può essere ricostruito in termini di potere formativo, cioè di
diritto potestativo al quale l’altro contraente rimane assoggettato.
Pubblicità ingannevole:
La pubblicità è ingannevole quando induce in errore un soggetto, anche potenzialmente, e dallo
stesso derivi un pregiudizio, anch’esso solo potenziale, del comportamento economico dei
soggetti destinatari del messaggio pubblicitario.
Il consumatore si trova in una situazione soggettiva di interesse; la sua istanza ex art. 7 non
consiste in una mera denunzia all’AGCM, bensì trattasi di vero e proprio ricorso. Se l’Autorità
valuta l’ingannevolezza del messaggio, accoglie il ricorso vietando la pubblicità non ancora resa
pubblica ovvero sospendendo la continuazione di quella già iniziata.
Ipotesi limite:
In tale area d’inganno vi sono alcune ipotesi isolate quasi al limite tra lecito e illecito. Tra esse
rientra la pubblicità redazione: essa fa sì che il destinatario del messaggio, inconsapevole di
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esser di fronte ad una réclame, abbassi la barriera critica che abitualmente eleva innanzi alla
comunicazione promozionali palesi.
Tali tipi di réclame pongono un complesso problema in merito al bilanciamento, ai fini della tutela
del consumatore, tra l’esigenza di repressione e la necessità di salvaguardare la libertà di
manifestazione del pensiero (art. 21 Cost).
Un criterio per dirimere la questione tra réclame, assoggettabile in toto alla disciplina del decreto, e
manifestazione del pensiero, non soggetta alla limitazione dell’AGCM, è necessario. Oggi, dunque,
si usa un criterio volto all’individuazione di alcune presunzioni gravi, precise e concordanti che
individuino tali réclame illecite (come i toni esageratamente acritici ed elogiativi, l’esibizione
ingiustificata del prodotto, ecc.).
Danno ai minori:
l’art. 6 del decreto è volto ad impedire che vi sia la diffusione di messaggi idonei a cagionare danni
ai minori. A tal fine rileva sia la fascia oraria di trasmissione del messaggio, sia l’eventualità di una
sua fruizione da parte di bambini di età inferiore a quella tenuta di mira dall’operatore pubblicitario.
Pubblicità comparativa:
Non è mai stata esplicitamente vietata nel nostro ordinamento; si tratta di un mezzo pubblicitario, di
réclame, molto efficace per la promozione delle vendite. Per un verso, tale forma di pubblicità, se
condotta correttamente, costituisce attività informativa fondamentale a disposizione dei
consumatori. In tal modo ciascun consumatore può valorizzare quei pregi che rendono superiore il
proprio prodotto rispetto a quello degli altri.
Il rischio di tale pubblicità è però rinvenibile nell’idoneità di produrre una situazione di
aggressività esagerata e di rissosità nella concorrenza.
La direttiva CE n. 97/55 ha consacrato la liceità della pubblicità in esame, ma solo a certe
condizioni. Innanzitutto, per pubblicità comparativa deve intendersi qualsia pubblicità che
identifichi in modo esplicito o implicito un concorrente o beni o servizi offerti da un concorrente.
Essa è lecita se fatta tra prodotti concorrenti, se non inganna i consumatori, se le sue affermazioni
riguardano caratteristiche essenziali, pertinenti e verificabili e se non è fatta unicamente per
screditare il concorrente.
Il cod. cons. ha definito a sua volta le condizioni di liceità della pubblicità comparativa. Mentre
prima dell’intervento del codice suddetto era consentita solo la comparazione indiretta, oggi è
consentita anche quella diretta “quando sia utile ad illustrare sotto l’aspetto tecnico/economico le
caratteristiche e i vantaggi dei beni/servizi pubblicizzati”.
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Il procedimento istruttorio prevede il contraddittorio. L’autorità può anche invertire l’onere della
prova, disponendo che sia l’operatore e non il denunciate a fornire le prove dell’esattezza materiale
dei dati di fatto contenuti nel messaggio incriminato (l’omissione o l’insufficienza della stessa,
ovviamente, proverà l’inesattezza e la slealtà del messaggio).
Del risarcimento del danno è competente il GO.
Contro la decisione dell’AGCM è esperibile ricorso dinanzi al GA.
La Legge Giulietti ha attribuito all’AGCM maggiori poteri istruttori e sanzionatori. Prima di
tale intervento l’AGCM non poteva irrogare sanzioni amm.ve pecuniarie a carico degli operatori
pubblicitari.
Il codice del consumo (art. 26) prevede che l’Autorità, con provvedimento motivato in caso di
particolare urgenza, possa disporre la sospensione provvisoria della pubblicità ritenuta ingannevole
o comparativa.
Decreto Bersani:
l’AGCM si è vista finalmente riconoscere anche i poteri cautelari, istruttori e sanzionatori che da
tempo sono attribuiti alla Commissione Europea (organo antitrust comunitario). Essa dispone ora
di nuovi poteri cautelari da esercitare ex officio mediante decisione da adottarsi prima o durante
l’istruttoria.
L’esercizio di tale potere è subordinato a due condizioni:
1) Sussistenza requisito dell’urgenza, cioè il rischio di un danno grave e irreparabile per la
concorrenza;
2) L’Autorità deve ravvisare, per prima cosa, il requisito di una probabile infrazione: è
dunque consentito un esame sommario della situazione inaudita altera parte.
La subfornitura:
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La disciplina de qua è stata introdotta in Italia con la L. n. 192/1998. In tali casi, ed è questa la
novità rispetto alle precedenti discipline esaminate, il soggetto “debole” tutelato è a sua volta
imprenditore (e non consumatore o lavoratore).
La definizione di subfornitura è molto ampia: “contratto con il quale un imprenditore si impegna
ad effettuare, per conto di un’impresa committente, lavorazioni su semilavorati o materie prime
forniti dalla committente o si impegna a fornire all’impresa prodotti o servizi destinati ad essere
utilizzati nell’ambito dell’attività economica della committente o nella produzione di un bene
complesso”. Alla luce di tale definizione, appare chiaro come il legislatore non sia riuscito a
tipicizzare efficacemente il rapporto di subfornitura.
Fornita la definizione, il legislatore ne ha chiarito altri aspetti fondamentali:
1) Forma: deve essere stipulata in forma scritta (valgono anche gli atti di conclusione dei
contratti effettuati per telefax o altra via telematica). Il mancato rispetto della prescrizione di
forma comporta la nullità assoluta del contratto; in tali casi, però, il subfornitore conserva
comunque “il diritto al pagamento delle prestazioni già effettuate ed al risarcimento delle
spese sostenute in buona fede per l’esecuzione del contratto”. Esclusa l’ipotesi di una
qualsiasi azione contrattuale, l’unico spiraglio appare il ricorso all’istituto della
conversione: qualora il rapporto sia conducibile ad un contratto diverso, potrà applicarsi la
disciplina di quest’ultimo;
2) Contenuto: nel contratto devono essere indicati i requisiti del bene/servizio; deve essere
anche indicato il prezzo pattuito in modo chiaro e preciso.
3) Termini di pagamento e mancato pagamento: il contratto deve fissare i termini di
pagamento, decorrenti dal momento della consegna del bene o dal momento della
comunicazione dell’avvenuta esecuzione della prestazione. Deve essere altresì chiaro
l’eventuale sconto comminato a seguito di pagamento anticipato. Il termine per la
corresponsione del prezzo non può eccedere i 60 giorni dalla consegna/comunicazione.
L’omissione del rispetto del termine comporta, a carico del committente, l’obbligo di
corrispondere al subfornitore, senza necessità di messa in mora, alcuni interessi.
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La disciplina sui contratti del consumatore non si applica in tutti i casi in cui le clausole siano
oggetto di trattativa individuale; la disciplina dell’abuso, invece, si applica anche a tali clausole.
Nel caso di contratti del consumatore, la valutazione di “significativo squilibrio” è supportata dalle
presunzioni analizzate, mentre nel caso di abuso l’eccessivo squilibrio deve essere valutato tenuto
conto “della reale possibilità per la parte che abbia subito l’abuso di reperire sul mercato
alternative soddisfacenti”.
Il divieto di abuso di dipendenza economica, proprio perché collegato all’abuso di diritto e alla
clausola generale di buona fede, non è solo una specificazione, bensì deve essere considerato come
istituto generale applicabile anche al di là dei casi di subfornitura.
Contratto di multiproprietà:
La normativa è volta a tutelare i consumatori nei rapporti negoziali aventi ad oggetto l’acquisto del
diritto di godimento a tempo parziale.
I punti base della direttiva europea di riferimento (94/47/CE) sono tre:
1) Il venditore ha l’obbligo di fornire tutte le informazioni tecniche e giuridiche inerenti
l’operazione da porre in essere;
2) Possibilità per l’acquirente di recedere, anche ad nutum, dal contratto;
3) Divieto, per il venditore, di esigere dall’acquirente somme di denaro a qualsiasi titolo fino
alla scadenza del termine concesso per l’esercizio del diritto di recesso.
Per contratto di multiproprietà si intende “un contratto della durata di almeno tre anni con il quale,
verso il pagamento di un prezzo globale, si costituisce/trasferisce o si promette di
costituire/traferire, direttamente o indirettamente, un diritto reale o un altro diritto avente ad
oggetto il godimento di uno o più immobili, per un periodo determinante o determinabile dell’anno
non inferiore ad una settimana”.
I soggetti del rapporto sono:
1) Venditore: persona fisica o giuridica che, nell’ambito della sua attività professionale,
costituisce/trasferisce o promette di costituire/trasferire il diritto oggetto del contratto;
2) Acquirente: persona fisica che non agisce nell’ambito della sua attività professionale e in
favore della quale si costituisce/traferisce o promette il diritto oggetto del contratto;
3) Bene immobile: l’immobile o parte di esso, per uso di abitazione anche turistico – ricettivo,
su cui verte il diritto oggetto del contratto. A tutela del consumatore è previsto l’obbligo di
consegna di un documento informativo ad ogni persona che richiede informazioni
sull’immobile. Detto prospetto deve essere redatto per iscritto a pena di nullità.
Il codice del consumo ha recepito tale disciplina apportando alcune modifiche. La definizione di
acquirente, ora, ricalca quella di consumatore e la disciplina del prezzo ricalca quelle dei beni
culturali e del paesaggio.
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Precisata la finalità, è bene precisare che la maniera realizzativa di tale tutela sembra posta in
maniera tale da giovare a qualsivoglia creditore.
Commercio elettronico:
La normativa è volta ad assicurare che anche tale commercio possa beneficiare del mercato interno
mediante un regime giuridico che assicuri la protezione degli obiettivi principali di interesse
pubblico (vita privata, diritti di proprietà intellettuale, prevenzione della frode, ecc.).
L’ambito applicativo (a livello oggettivo) è segnato dalla definizione di “servizi della società
dell’informazione”: attività economiche svolte on line, con riguardo particolare a vendita di merci e
attività che sfociano nella stipulazione di contratti on line.
Dal punto di vista soggettivo, il decreto si applica a due tipologie di soggetti:
1) Destinatario del servizio: soggetto che, a scopi professionali e non, utilizzi un servizio
della società dell’informazione;
2) Prestatore del servizio: persona fisica/giuridica che presti un servizio alla società
d’informazione. Si parla anche di prestatore stabilito se vi è organizzazione temporale
continuata.
Il prestatore è destinatario di molteplici obblighi informativi; oltre a dover fornire informazioni
che lo rendano identificabile, egli, nel caso in cui si avvalga di comunicazioni commerciali, deve
fornire informazioni che siano chiare e inequivocabili.
Per quanto riguarda le informazioni dirette alla conclusione del contratto, il prestatore deve
sempre fornire in maniera chiara e inequivocabile le informazioni circa:
1) Fasi tecniche da seguire per la conclusione del contratto;
2) Modo di conclusione del contratto;
3) Mezzi tecnici a disposizione del destinatario per individuare e correggere eventuali errori;
4) Codici di condotta cui aderire;
5) Le lingue a disposizione per la fase conclusiva;
6) Indicazione degli strumenti di composizione delle controversie.
Capitolo III
L’ACCORDO
L. FERRI: muovendo dalla definizione di contratto ex art. 1321 c.c., sottolinea come l’uso del
verbo “regolare” e l’espressione “accordo di due o più parti…” rispecchi l’opinione che la volontà
soggettiva dei contraenti sia requisito immancabile. Il contratto, però, può anche essere concluso in
contrasto con la volontà interna e gli effetti possono prodursi anche se ignorati o non voluti
concretamente.
Il contratto è fatto: di esso si può dire che è accaduto o che è avvenuto. A livello di contenuto,
invece, il contratto è norma e come tale entra in vigore, ma può essere “abrogato”, cioè eliminato
o cancellato: la risoluzione del contratto non è eliminazione del fatto (il contratto c’è stato) ma è
eliminazione della norma e del vincolo.
E. BETTI: tentò di conciliare l’idea della volontà negoziale come valore con quella del negozio
come fatto/oggetto di valutazione. Grazie all’A. abbiamo la formulazione del concetto di negozio
giuridico quale atto di autonomia privata, dovendosi intendere quest’ultima non come valore, né
tantomeno come mero fatto. L’autonomia de qua è un valore tra i valori.
G.B. FERRI: afferma che l’accordo delle parti è comunque il fondamento logico di ogni
operazione contrattuale ed è anche espressione della volontà di far proprio un regolamento di
interessi. L’A., criticando proprio Betti, afferma che il contratto sembra non coincidere con
l’accordo e quindi non potrebbe essere definito tale.
Si ha contratto quando si giunge all’accordo su tutti i punti presi in considerazione; se l’accordo sui
singoli punti non è espressione dell’animus contrahendi, non sarà sufficiente alla conclusione del
contratto. Il semplice accordo su tutti i punti non è sempre sufficiente per la validità del contratto; le
ipotesi tipiche sono due:
1) I punti sui quali si è d’accordo sono sufficienti: il contratto si stipula;
2) Difetto di qualche elemento essenziale: può entrare in gioco una norma suppletiva ma, in
mancanza, le lacune potrebbero rendere il contratto incompleto e quindi invalido.
Gli elementi essenziali del contratto, dunque, sono determinanti non per
quanto riguarda la formazione dello stesso, ma per la sua validità.
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N. IRTI: secondo l’autore, all’accordo non può che mettere capo il dialogo tra le parti.
L’accordo, in sostanza, si ha solo tra decisioni espresse ed esternate: l’esternazione diviene vero e
proprio elemento essenziale dell’accordo. In alcuni casi, però, oltre all’accordo, serve il requisito
della forma: il modo di esternazione non giace più all’interno dell’accordo ma è reso esplicito;
serve che ogni parte renda conoscibile la propria decisione attraverso l’esternazione come “forma”
di espressione.
Lo scambio si trova così ad avere nel dialogo tra le parti il luogo promiscuo in cui nascere e
formarsi; la bilateralità del contratto indica proprio una reciprocità dialogica.
Tutto cambia laddove si giunga alla stipulazione mediante moduli e formulari, che altro non sono
che strumenti/modalità precostituite di accordo. Le parti, in tali casi, rifiutano e negano il dialogo
e l’accordo è tutto nell’unilaterale predisposizione del testo scritto e nell’adesione. Pensiamo anche
agli scambi che avvengono per via telematica: i soggetti dello scambio non dialogano più e vi è
una sorta di meccanica ritualità che annulla qualsiasi attrito psicologico.
In definitiva, per l’A. può ben dirsi che il destino del linguaggio si esaurisce con gli scambi
individuali e con l’accordo dialogico dove, allo scomparire della parola, fa fronte il proliferare di
scambi razionali. La dimensione degli interessi sottesi agli scambi non riesce più a sostenere la
“mutevole ed ambigua soggettiva del dialogo” tra uomini; ciò che sopravvive è solo la “pura
oggettività di cose, immagine, gesti anonimi e ripetitivi”.
G. OPPO: egli reagì alla critica irtiana non accettando l’idea dell’annullamento oggettivo della
volontà/libertà del contraente. Oppo cercò di spiegare perché alcuni meccanismi siano comunque
riconducibili alla dimensione dell’accordo.
L’A., partendo dall’art. 1321 e dall’inciso “il contratto è accordo…”, ritiene che esso non richiede
sempre il dialogo, come si evince anche dallo stesso art. 1327 (contratto concluso mediante inizio
dell’esecuzione) e dall’art. 1333 (contratto con obbligazioni solo per il proponente). In entrambi i
casi, infatti, dei comportamenti strutturalmente differenti dal meccanismo previsto dall’art. 1326
sono comunque idonei a garantire adesione alla proposta contrattuale.
Anche gli accordi conclusi mediante moduli e formulari convergono comunque in un accordo in
quanto, tra chi propone e chi aderisce, c’è un incontro di decisioni.
In definitiva, l’attenzione deve essere rivolta alla questione se l’effetto modificativo della realtà
sostanziale è realmente e totalmente rinvenibile nel consenso di colui nella cui sfera giuridica gli
effetti si producono.
LA CAUSA
È annoverata negli elementi contrattuali essenziali dell’art. 1325 c.c. ed è da sempre al centro di
accesi dibattiti circa la sua necessarietà, i suoi confini e il suo ruolo nel controllo giudiziale dei
contratti.
Originariamente, la concezione italiana di causa (cod. civ. 1865) ricalcava la nozione contenuta nel
Code Napoleon, cioè causa come elemento fondamentale delle obbligazioni. Il codice italiano,
infatti, escludeva che potesse avere effetto “l’obbligazione senza causa o fondata sopra una causa
falsa o illecita”.
Il nuovo codice civile, con l’introduzione del principio consensualistico, ha rivoluzionato il
sistema contrattuale e la causa, a differenza del passato, ora è elemento essenziale del contratto (e
non solo delle obbligazioni); tant’è vero che il contratto senza causa o con causa illecita è nullo.
E. BETTI: notevole il suo ruolo nella formulazione del concetto di funzione. Per l’A. in ogni
negozio si può individuare una ragione pratica ad esso immanente che deve rispondere ad un
interesse oggettivo e socialmente controllabile. Il potere di autonomia non può mai essere esercitato
in contrasto con la funzione sociale cui è destinato, dovendo sempre sussistere un interesse
oggettivo socialmente apprezzabile.
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Colta nella sua dimensione dinamica e funzionale, la causa si distacca completamente dagli altri
elementi costitutivi del contratto. Si giunge così alla più compiuta formulazione della teoria
oggettiva: la causa diviene la ragione stessa per la quale l’ordinamento può riconoscere rilevanza
giuridica al contratto.
Soluzioni europee:
Nei Principi dei contratti commerciali internazionali, elaborati dall’Unidroit, e nei Principles of
European Contract Law, per l’individuazione dei requisiti essenziali del contratto non si fa
menzione della causa. La scelta è consapevole ed è giustificata dall’esigenza di elaborare una
nozione di contratto che prescinda sia dalla causa, sia dalla consideration di matrice
anglosassone.
Da ciò si evince come sia ipotizzabile un nuovo diritto dei contratti con tecniche di controllo
dell’autonomia privata a prescindere da concetti come quello di causa e dai suoi sostrati culturali.
L’OGGETTO
Molte teorie tendono ad identificare l’oggetto con il bene, inteso come “materia di trasferimento, di
godimento e simile”. La nozione serve allora ad identificare come “oggetto” ciò su cui si riflette
l’azione delle parti a seguito della contrattazione (in termini attivi di oggetto del diritto; in
termini passivi di oggetto dell’obbligo).
La nozione deve essere tratta dagli artt. 1325 e 1429 c.c. e distinta da quella di oggetto delle
obbligazioni.
La concezione de qua è oggi distante dalla precedente impostazione materialistica; si è giunti ad una
soluzione volta ad identificare l’oggetto col bene non solo materiale.
G.B. FERRI: serve una nozione unitaria di oggetto, riferibile alle situazioni soggettive ma anche
all’autonomia privata. L’accezione di bene non è limitata alle categorie ex art. 810 c.c., ma è da
riferire ad una categoria che comprenda oltre alle cose in senso tradizionale, anche ogni altro
valore o utilità intesi come punto di riferimento oggettivo degli interessi autoregolamentati
(quindi delle parti).
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In tale ottica, il termine esterno del negozio (il “bene” in sé) si inserisce nel contenuto negoziale.
L’oggetto diviene così non il bene, ma il meccanismo che attrae quest’ultimo nell’atto.
Ulteriori precisazioni:
La causa del negozio può essere desunta dalla descrittiva delle prestazioni analizzata da un
punto di vista funzionale. Proprio da ciò è possibile ribadire, ancora una volta, la differenza tra
oggetto e causa: l’ordinamento valuta la prestazione esclusivamente in termini di liceità e
possibilità. La singola prestazione riceverà la funzione e la causa in seno al contratto nel quale sarà
inserita; ad esempio: la costituzione di usufrutto adempirà ad una funzione di scambio, se l’altra
parte si addosserà una prestazione di qualsiasi tipo, a sua volta; ovvero sarà a titolo gratuito se
darà effettuata animo donandi.
L’oggetto, così inteso, è solo parte del contenuto.
Illiceità:
Dalla disciplina de qua è possibile trarre alcuni tratti importanti circa la differenza tra causa e
oggetto. Il legislatore ha dettato una disciplina per l’illiceità dell’oggetto e una disciplina per
l’illiceità della causa. In dottrina, alla luce di ciò, si sono sviluppati tre indirizzi:
1) Sostenitori della impossibilità di parlare di illiceità dell’oggetto se lo stesso è inteso come
bene. Ogni riflessione sull’illiceità può riguardare solo la causa;
2) Sostenitori della tesi secondo la quale l’illiceità riguardi il contenuto in sé del contratto,
quindi vi è fusione tra causa e oggetto;
3) Coloro che postulano diversi tipi di illiceità e una distinzione tra causa e oggetto.
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La giurisprudenza, però, offre una distinzione tra le due illiceità. Tra gli esempi più classici di
illiceità dell’oggetto troviamo:
1) Illiceità oggetto nel caso di trasferimento di un bene indisponibile in forza di una norma
imperativa (c.d. beni extra commercium);
2) Illiceità oggetto nel caso di appalto con assunzione, all’interno del contratto, dell’obbligo di
eseguire l’opera senza autorizzazioni urbanistiche necessarie.
Entrambe le violazioni non hanno nulla a che vedere con il profilo funzionale dell’atto. Nel caso 1),
la circolazione di un bene extra commercium, ad esempio, è proibita da norme inderogabili, sia che
avvenga a titolo gratuito, sia che si realizzi dietro corrispettivo.
Le condotte in discorso sono carenti del requisito della liceità dell’oggetto, a prescindere dalla
direzione che le parti decidono di imprimere ai loro interessi (la funzione, dunque).
A prescindere dagli scopi a cui l’agire è finalizzato, (le parti non possono dar vita ad un
contratto in cui s’impegnano a porre in essere una condotta, dal POV dell’oggetto, priva dei
requisiti prescritti dalla legge esempio: vendita rene: NO; donazione rene: SI)
LA FORMA
L’art. 1325 menziona la forma del contratto come requisito che, in alcuni casi, è previsto ex lege a
pena di nullità del contratto stesso. La “forma” indica il mezzo scelto dalle parti per esternare il
contratto a livello oggettivo; tale mezzo diviene autonomo requisito del contratto ogni volta che il
medesimo deve essere consegnato ad un documento (atto pubblico – scrittura privata).
Proprio grazie alle teorie della Pandettistica, che cercò di liberare le attività economiche da vincoli
formalistici troppo stringenti, oggi possiamo dire che il nostro ordinamento è retto dal c.d.
principio di libertà delle forme. Tale principio, secondo la dottrina, lo si può trarre anche
dallo stesso art. 1325, che, infatti, rende libere le parti, sempre in tema di forma, in assenza di
particolari prescrizioni formali.
A partire dal principio de qua è possibile individuare i due principali aspetti che lo caratterizzano:
1) Eccezionalità di tutte le norme che prescrivono forme legali per la validità dei negozi;
2) Inderogabilità delle norme eccezionali sulla forma: esse sono imperative e provocano la
nullità del negozio in caso di violazione.
Tali assunti, comunque, partono dal presupposto di essere comunque subordinati al “valore
negozio” quale espressione di libertà per antonomasia (autonomia negoziale).
Quanto detto, letto alla luce del nostro assetto Costituzionale, considerata la presenza di norme
eccezionali inderogabili, che, è bene ricordarlo, sono volte a garantire la sicurezza e serietà degli
scambi, ci spinge ad affermare che la libertà delle forme non è vero e proprio principio del
nostro ordinamento.
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Oltre all’analisi strutturale è preferibile analizzare la forma anche dal punto di vista funzionale; ogni
forma negoziale ha, infatti, la sua peculiare funzione. Da tale impostazione deriva il rifiuto di ogni
giudizio aprioristico in ordina all’eccezionalità o regolarità delle prescrizioni formali: l’analisi deve
esser posta caso per caso (PERLINGIERI).
Innanzitutto, le stesse norme “vincolanti” a livello formale non si sottraggono ad una valutazione
circa la loro conformità, adeguatezza e meritevolezza. Piuttosto che chiedersi, inizialmente, se
interpretare tali norme in maniera estensiva/restrittiva, occorre essere analizzate così da
individuarne il vero ruolo, per poi giungere all’estensione o alla restrizione, che, dunque, saranno
risultato dell’interpretazione e non modo per interpretare le regole.
Il vincolo formale è quindi “mezzo ad un fine”; la forma si atteggia così a garanzia e si pone al
servizio di valori e interessi sovraordinati.
Esempio di quanto detto finora è l’art. 1341 c.c. in tema di clausole vessatorie: l’articolo in esame
prevede la necessità di una specifica approvazione iscritta in presenza di tali clausole. La forma
scritta ad substantiam sarà richiesta ogni volta in cui vi sia la necessità (la ratio) della tutela del
contraente debole.
Ritorno al formalismo?
Le varie fonti di matrice comunitaria hanno portato ad una sorta di neoformalismo o di ritorno al
formalismo; il tutto è strettamente connesso al nuovo concetto di trasparenza nelle contrattazioni.
La forma diviene così garanzia di una corretta comunicazione tra le parti e di consenso informato, il
tutto col fine di rendere efficiente il funzionamento del mercato concorrenziale.
CAPITOLO IV
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SUCCESSIONE MORTIS CAUSA: il favor dell’ordinamento è volto alla continuazione dei
rapporti oltre la vita dell’originario titolare/de cuius; tale aspetto, però, non è fondato né su una
sorta di consenso generale dell’erede (consenso dovuto all’essere erede, praticamente), né ad una
sorta di identificazione dell’erede come “continuatore della persona” del defunto.
In realtà, pensando al testamento, ci si rende conto come sia espressione piena di un potere
conformativo eteronomo per vari motivi:
1) L’accettazione dell’eredità non è accettazione del testamento;
2) Il chiamato, accettando il testamento, non accetta automaticamente tutte le regole
contrattuali nelle quali subentrerà;
3) L’accettazione può prescindere dalla conoscenza/esistenza/contenuto del testamento: l’erede
può subentrare suo malgrado in talune situazioni;
4) L’accettazione è valida anche se l’erede ignori l’esistenza del testamento;
5) L’accettazione è valida anche se l’erede impugni il testamento: l’impugnazione, addirittura,
è considerato comportamento concludente in ottica di accettazione dell’eredità.
Gli eredi subentrano in forza di una regola che prevede la non estinzione del contratto (o
meglio, dei rapporti), salvo limitate eccezioni (contratti dai quali sorge un obbligo di fare
infungibile; contratti a carattere prettamente personale).
L’ordinamento preferisce quindi l’esecuzione alla caducazione.
Sono pochi i casi nei quali la continuazione non viene posta in essere: si tratta di ipotesi nelle quali,
straordinariamente, l’interesse del successore o dell’altro contraente viene considerato prevalente
rispetto all’interesse sotteso ai rapporti economici (cosa che, appunto, non accade quasi mai).
SUCCESSIONI INTER VIVOS: esiste una sorta di regola generale di segno inverso; sembra
quasi che si preferisca l’estinzione e, dunque, ogni caso di continuazione/successione diviene
eccezionale. L’attenzione si sofferma, allora, sulle vicende circolatorie che riguardano l’azienda e i
beni che ne costituiscono il complesso.
TRASFERIMENTO D’AZIENDA: in tale contesto è bene distinguere tra due tipi di contratti:
1) Contratti aziendali in senso stretto: sono tali quei contratti che hanno ad oggetto il
godimento, da parte dell’imprenditore, di beni aziendali non suoi;
2) Contratti d’impresa: quelli che regolano i rapporti tra imprenditori e fornitori, ovvero tra
imprenditore e consumatore o comunque utenti dell’impresa.
L’art. 2558 c.c. stabilisce che “se non è pattuito diversamente, l’acquirente dell’azienda subentra
nei contratti stipulati per l’esercizio dell’azienda stessa che non abbiano carattere eccezionale”; il
secondo comma, invece, “il terzo contraente può recedere dal contratto entro 3 mesi dalla notizia
del trasferimento, se sussiste giusta causa”.
Caratteristica è la non necessarietà del consenso del terzo ceduto.
Raffrontando l’art. 2558 con il 2555, sembrerebbe che il primo abbia portata maggiore del
secondo, visto che comprende non solo i beni oggetto del godimento da parte dell’imprenditore,
quindi i beni organizzati per l’impresa, quanto anche le varie posizioni contrattuali
dell’imprenditore cedente (intendendosi, come tali, anche i rapporti con i dipendenti).
Tale disciplina, però, è comunque subordinata alla possibilità di prevedere la non continuazione
del/dei rapporto/i in un momento precedente alla cessione/trasferimento: l’articolo 2558 apre con
l’inciso “se non è pattuito diversamente”.
Il contraente ceduto, a differenza della disciplina dell’art. 1406 c.c. (che prevede il consenso del
ceduto), assume una posizione particolare, quasi passiva. Questi, non avendo modo di prestare il
consenso, può solo recedere in termini brevi e, dunque, si trova vincolato a seguito di un contratto
inter alios nei confronti di un soggetto diverso dall’interlocutore originario; la sua difforme
volontà, dunque, non rileva a nulla. La ratio di tale disciplina è rinvenibile nella necessità di
prediligere la continuazione dell’azienda.
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Dall’esame posto finora, si può desumere che il principio di relatività non è più attuale in quanto
non consente di giungere a risultati appaganti per un’analisi funzionale dei rapporti (con i relativi
interessi e valori).
Visto come il consenso del ceduto non sia fondamentale al positivo spiegarsi degli effetti della
cessione, si palese ancor di più la necessità di riconsiderare la rigidità del principio di relatività.
Principio di proporzionalità:
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La più grande innovazione portata al nostro ordinamento da parte delle norme comunitarie è senza
dubbio il nuovo ruolo del giudice per quanto riguarda i contratti: mentre prima non era consentito
a quest’ultimo di intervenire sul contenuto pattizio, adeguandolo rispetto agli squilibri sopravvenuti,
oggi tale intervento sembra sia consentito. Lo scoglio del passato altro non era che l’assenza di
potere, sempre del giudice, di esercitare un controllo ex post, cioè a seguito della formazione del
contratto; il dogma insuperabile era quello dell’intangibilità del contenuto del contratto.
Dottrina e giurisprudenza hanno però pian piano messo in discussione tale dogma. All’intangibilità
del contenuto pattizio si è sostituito il nuovo vincolo dell’equilibrio contrattuale. In tale
direzione, secondo ROPPO, si muove anche la disciplina delle clausole vessatorie nei contratti dei
consumatori, che è, essenzialmente, disciplina di rimedi per contratti squilibrati (le clausole de qua
portano un “significativo squilibrio” tra le parti).
In tale contesto, allora, trova nuova ragion d’essere la teoria dell’integrazione degli atti di
autonomia. L’art. 1374, rubricato “integrazione del contratto”, ha un valore normativo notevole;
non solo rende chiaro come il contratto possa far sorgere obblighi anche oltre quelli espressamente
sanciti dal contratto stesso, ma, mediante il richiamo della legge in generale, rende operanti anche
fonti esterne alla codificazione/legislazione statale.
Oggi, quindi, l’interpretazione della clausole generali va armonizzata anche con i principi
comunitari, primo fra tutti quello di proporzionalità. Nato in Germania come parametro di
valutazione delle norme in merito ai rapporti di tipo verticali (istituzioni – privati), la
proporzionalità è ormai usata dalla Corte di Giustizia Europea come strumento di valutazione di
congruità sul piano del rapporto tra autonomia privata e ordinamento. La proporzionalità,
allora, diviene anche strumento di valutazione della regola privata, non solo in relazione ad ipotesi
di abuso del potere privata, ma anche in relazione a situazioni non caratterizzate da asimmetrie di
potere.
È possibile citare in tale discorso la disciplina dell’art. 1384 c.c. in merito alla riduzione della
penale; alla luce delle disposizione de qua è possibile una reductio ad equitatem della penale con
un ammontare manifestamente eccessivo. Il potere di ridurre è d’ufficio e spetta al giudice anche in
difetto di domanda di parte. Altro esempio è rinvenibile nell’art. 1455 c.c., che introduce il caso in
cui non si possa giungere alla risoluzione del contratto nel caso di inadempimento di “scarsa
importanza”. Il giudice è chiamato a verificare l’importanza dell’inadempimento alla luce
dell’interesse creditorio e della conseguenza invocata.
A completare il quadro è possibile citare anche alcune disposizioni comunitarie. Si pensi
all’assoggettamento del professionista, nei confronti di consumatori e altri imprenditori “più
deboli”, ad un controllo del contenuto contrattuale fondato sulla valutazione degli interessi delle
parti. O ancora, si pensi all’art. 9 della Legge sulla subfornitura che, nel disciplinare l’abuso della
dipendenza economica, perviene ad un’opportuna integrazione dei valori del mercato e della
concorrenza. L’art. 3 della stessa legge, per di più, autorizza richieste di adeguamento da parte
dell’operatore più debole, a prescindere da previsioni contrattuali.
Nessun dubbio che il principio di proporzionalità affidi al giudice un ruolo più attivo nella
individuazione della regola, munendo di un parametro quantitativo che, ed è questo il punto focale,
non si presta a nessun tipo di arbitrio. La conseguenza naturale, ma non esclusiva, della violazione
del principio in esame è la riduzione ad equità.
Il principio, inoltre, concorre ad attuare il principio di conservazione del contratto, essendo in
grado di operare in maniera integrativa e non demolitoria. La considerazione del regime
dell’invalidità parziale e del mantenimento del contratto rettificato mostra sempre più come gli
antichi dogmi sul contratto siano davvero superati: la regola contrattuale (quella che vincola le
parti) non nasce in relazione al voluto, ma è necessario riconoscere il voluto anche in relazione a ciò
che è possibile volere. L’adeguamento del contratto, o la sua integrazione, non impone alle
parti ciò che queste non hanno voluto/ciò che hanno escluso, ma solo ciò che appare coerente
(necessario) con la compiuta realizzazione del piano economico predisposto.
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Lo spazio di operatività dell’interprete va rinvenuto in tutti i casi in cui vi sia distanza tra l’attività
programmata nel contratto e la realizzazione concreta dell’interesse delle parti. Il giudice è oggi
filtro di valori che il singolo programma obbligatorio è destinato a recepire. In tale contesto trova
allora sede anche il principio di buona fede, che ha il compito di modellare il
mezzo/comportamento in funzione del fine concreto dell’operazione economica. Tutto ciò che è ad
esso contrario, si colloca fuori dall’area del dovuto e, in quanto tale, non è esigibile (non
sussiste alcun obbligo).
Invalidità e inefficacia:
Il piano della validità e il piano delle regole di responsabilità che impongono obblighi di condotta
(diciamo il piano della buona fede), fino a qualche tempo fa erano considerati paralleli, distinti.
Infatti, nella precedente impostazione, era impensabile l’ipotesi di un giudizio di invalidità a seguito
di violazione della regola di buona fede.
Oggi, però, tale impostazione è cambiata.
La principale ragione è data dalla disciplina dei contratti del consumatore, la quale si atteggia a
disciplina essenzialmente dell’invalidità. Questa però è comminata alla luce della previsione
dell’art. 33 cod. cons., che prevede l’invalidità del contratto nel caso di violazione del principio di
proporzionalità e quello di adeguatezza, recanti in sé il contrasto con la regola di buona fede (inciso
“significativo squilibrio”).
Anche le regole in tema di trasparenza e di obblighi di informazione vedono in sé medesimi
fattori capaci di incidere sulla validità del contratto.
Alla luce di ciò, appare conveniente sovrapporre i due piani. È essenziale abbandonare l’analisi
strutturalistica del contratto per valorizzarne il punto di vista funzionale: il contratto deve essere
considerato dal punto di vista della logica del rapporto.
Il vero problema dell’interprete odierno non è quello della certezza, quanto quello della garanzia. Il
giudice potrà intervenire, talvolta, aggiustando il contratto riducendolo ad equità, talaltra, mediante
la caducazione della clausola non meritevole.
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disciplina che prevede, all’art. 1469 quinquies c.c., l’inefficacia; mentre l’art. 36 cod.
cons., che ha trasposto la disciplina codicistica, parla addirittura di nullità.
Il riferimento all’annullabilità non deve essere inteso come un contrasto con il codice del
consumo, bensì, non essendovi nei PECL alcuna predeterminazione di clausole inique, non
era conveniente prevedere aprioristicamente la nullità di una clausola che potrebbe o meno
essere abusiva.
6) Art. 4:102: regola l’impossibilità originaria della prestazione. Sancisce che il contratto
non è invalido se, al momento della conclusione, la prestazione sia impossibile.
7) Adempimento in natura: è un principio ripreso dagli ordinamenti di Civil Law. Nel nostro
sistema il principio dell’adempimento in natura preclude la possibilità che, in luogo
dell’adempimento, sia richiesto il risarcimento del danno sino a quando perduri la possibilità
della prestazione.
8) Art. 9:509: liquidazione forfettaria del danno. I PECL, in tal caso, hanno optato per una
soluzione mista tra gli ordinamenti di Civil Law e Common Law. La regola in esame
prevede la possibilità che le parti stabiliscano una somma di denaro da pagare in caso di
inadempimento; come vediamo, è molto simile alla nostra clausola penale. Il problema è
che negli orientamenti di Common Law la clausola de qua, se prevista con funzione
sanzionatoria o afflittiva, non è lecita. I PECL, allora, prevedono che la somma in esame
sarà considerata penalty clause ogni volta in cui sarà iniqua; mentre sarà una clausola di
liquidazione forfettaria del danno quando le circostanze siano tali da rendere impossibile
stimare anticipatamente e accuratamente il danno.
9) Art. 8:108: responsabilità contrattuale oggettiva. Il debitore non risponde
dell’inadempimento se prova che esso è dovuto ad un impedimento fuori da proprio
controllo e del quale non ci si poteva aspettare che egli ne tenesse conto al momento della
conclusione del contratto.
Per concludere, sembra che un vero e proprio diritto privato comunitario non esiste. Anche gli stessi
Principi del diritto comunitario non vivono di vita propria ma hanno necessità di essere immersi
nella realtà degli ordinamenti dei Paesi Membri.
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