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AUTONOMIA CONTRATTUALE – CRISCUOLO

Capitolo I

L’attuale letteratura sul contratto si basa su una concezione di autonomia contrattuale intesa come
fenomeno sociale che si afferma su in piano, o su una dimensione, diversa da quello giuridico. Si
tratta di un’espressione di libertà naturale e morale di determinarsi secondo le modalità più
congeniali alle esigenze dell’individuo.
Oggigiorno, però, la mondializzazione dei mercati implica che le transazioni economiche non si
realizzino più, in prevalenza, per legge, bensì mediante regole poste dagli operatori economici di
maggior rilievo. Dunque, si può dire che “IL CONTRATTO SI FA PRASSI; LA PRASSI
GENERA L’USO; E L’USO CREA LA NORMA”.
La fiducia posta in un mercato capace di autoregolamentarsi, unita alla crisi della sovranità
(della legge, dunque), ha reso l’autonomia privata essenziale e chiamata a svolgere un ruolo
strutturale ed organizzativo di sottosistemi sociali.
L’autonomia privata si atteggia così a manifestazione del POTERE dei privati di creare, insieme
alle altre fonti, delle regole oggettive di condotta, delle vere e proprie norme giuridiche.

Lex mercatoria e autonomia:


Le regole alla base del mercato odierno (tale LEX MERCATORIA) ci forniscono la dimensione di
come oggi l’autonomia non postuli necessariamente una coincidenza tra chi pone la regole e il
destinatario di essa. Non è più il legislatore a dettare le regole, né i singoli operatori, ma i potenti
uffici legali delle pubbliche nazionali e i loro consulenti; in tale contesto, gli operatori economici
non hanno alcun margine di adattamento ai diritti nazionali dei paesi nei quali si realizzano le
operazioni economiche.
I mercati sono regolati dalla volontà di pochi sovraordinata a quella dei più; la stessa volontà
dello Stato, in tale ottica, non ha più il suo passato valore.
In conclusione, il carattere “storico” della contrattualità (quello secondo il quale la disponibilità
dell’effetto la hanno i soggetti giuridici nella cui sfera giuridica gli stessi effetti si produrranno)
viene meno in questa nuova era.

Pluralismo organizzativo – teoria istituzionale:


Primo teorico fu Santi Romano, il quale mise in luce come la coessenzialità tra fenomeno giuridico
e contesto sociale si possa rinvenire nel concetto di “ISTITUZIONE”, dovendosi intendere “ogni
ente o corpo sociale organizzato”. Ogni organizzazione sociale è istituzione, e viceversa.
Tale tesi ha messo in luce alcune questioni:
1) Teoria normativa e teoria statualistica non necessariamente devono coincidere;
2) Il concetto di “NORMA” non si riferisce esclusivamente alle norme di matrice statale.
Quando un gruppo si organizza autonomamente, si realizza la suo interno un sistema di
autorità, poteri, norme e sanzioni che si misura con l’ordinamento dello Stato. Tali regole,
però, nei rapporti interni sono espressione di un potere di supremazia (nell’organizzazione)
di un’autorità che fa riferimento ad un gruppo; nei rapporti esterni, invece, hanno valenza
diversa rispetto ad un contratto qualsiasi di diritto privato.

Il diritto dei privati:


Con tale definizione si intende “quello che i privati medesimi creano per regolare determinati
rapporti di interesse collettivo, in mancanza, o nell’insufficienza della legge statuale”. La
dottrina, nell’ambito delle fattispecie di autonomia privata, ha individuato alcune particolari regole
eteronome rispetto a soggetti chiamati ad osservarle.

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Presupposto di quanto affermato pocanzi è che ogni organizzazione sociale creatrice di un proprio
ordinamento abbia poteri di imperio, cioè sia dotata di autorità.
Una spinosa questione riguarda due interrogativi, che si possono comunque risolvere insieme:
1) Quale sia il rapporto tra autorità private e autorità dello Stato;
2) Quale sia il rapporto tra le regole poste dalle autorità private e quelle poste dallo Stato.
Punto di partenza deve essere la convinzione che non vi sia altro ordinamento giuridico che
quello dello Stato; laddove venisse affermata la non necessaria identificazione tra il diritto e lo
Stato, verrebbe meno la necessità di riferirsi, nel valutare gli interessi, ad una scala i cui estremi
siano il singolo e lo Stato. In tal modo verrebbero a recuperare visibilità gli ordinamenti non
statuali: “il diritto dei privati che affiora si concreta in una serie di ordinamenti la cui giuridicità
non deriva dalla loro posizione entro la gerarchia del diritto statuale, essendo il primo non
sottoposto ma parallelo al secondo”. Il rapporto tra lo Stato e questi ordinamenti non statali,
chiarito come siano tra loro posti su piani paralleli, può concretizzarsi in due tipologie:
1) Lo Stato ingloba e fa proprio l’altro ordinamento originario, il quale diviene rilevante;
2) Lo Stato ignora l’altro ordinamento originario, il quale è considerato irrilevante (si
pensi all’ordinamento sportivo).
La regola autodisciplinare può quindi essere riconosciuta e apprezzata dalla legge.

Pluralismo organizzativo – principio di sussidiarietà:


Sempre più pare si sia giunti alla riduzione della regola giuridica a mera sovrastruttura e luogo di
ricezione di regole e valori prettamente economici. In tale contesto, sembra doveroso individuare le
ragioni per le quali è necessario che lo Stato abbia comunque un ruolo regolatore delle
dinamiche economiche: c’è bisogno di rinnovare il ruolo dello Stato e, per far ciò, occorre
analizzare e rivoluzionare il concetto di democrazia.
Cosa deve intendersi per democrazia in una società piena di enti, organizzazioni e associazioni
sulle quali i cittadini non hanno alcun controllo effettivo?
La soluzione può essere rinvenuta nell’autonomia privata che, da un verso, è chiamata a svolgere un
ruolo strutturale e non solo individualistico, dall’altro, deve necessariamente essere circoscritta ad
un determinato ambito di efficacia.
Il principio di sussidiarietà si atteggia oggi a criterio mobile di redistribuzione di competenze,
in forza del quale si realizza una sorta di fungibilità tra le fonti normative. I rapporti tra quest’ultime
sono sempre più regolati da un meccanismo di integrazione (piuttosto che esclusione) che dà vita ad
un sistema integrato e concorrente di relazioni tra fonti. In tal modo si riesce ad integrare
l’ordinamento statuale e quelli extra statuali così come si integrano le fonti interne con quelle
comunitarie.

Autonomia e fondamento democratico dei poteri privati – autonomia e pluralismo:


Alla luce del principio di sussidiarietà, la coessenzialità tra democrazia e autonomia diventa
ardua.
Quali scelte e quali valori devono ispirare un’azione tesa a rendere i cittadini liberi ed uguali al
momento di determinare le condizioni della propria adesione ad un’organizzazione?
Le questioni alle quali dare risposta sono principalmente due:
1) La democrazia interna che deve porsi a fondamento giustificativo dei poteri privati.
Ci si chiede quale sia la legittimazione dell’autorità di coloro che pongono regole autonome
oggettive; in cosa si giustifica il potere di creare regole di condotta?
Appare logico come si tratti di un’adesione spontanea, cioè di un accordo normativo
sinonimo di una maggior garanzia di effettività della regola fondata su una salda affectio tra
coloro che appartengono ad un contesto sociale e su una condivisione degli obiettivi comuni.
L’adesione spontanea vede dunque dei soggetti che “liberamente” scelgono di soggiacere a
determinate regole.

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2) Compatibilità dell’esercizio di tali poteri con i canoni fondamentali della democrazia
generale.
Le regole assunte da gruppi intermedi devono essere conformi agli obiettivi della comunità
giuridica nel suo insieme, di cui lo Stato è ente esponenziale. Il concetto di Stato ha
bisogno di una netta revisione e la concezione di sovranità deve essere riformulata; solo in
tal modo si potrà restituire al diritto il ruolo che da sempre si ritiene essergli proprio, cioè
quella di strumento di regolazione dei conflitti. Tale funzione, però, può essere raggiunta
anche mediante il sacrificio di un’esigenza sostenuta da taluna delle molte culture
presenti nella società contemporanea. Non sempre si compone conciliando.
Se il diritto si limitasse a prendere atto che una certa condotta, di per sé non sostenibile, è
espressione di una cultura presente nella società, ancorché minoritaria, e se non ponesse un
freno alla stessa, rinuncerebbe al suo stesso ruolo e si “priverebbe della possibilità di
regolare”.
La regolazione giuridica di un conflitto deve quindi realizzarsi anche se le parti non sono disposte
ad una soluzione ed anche a cost di sacrificare il punto di partenza di una di esse; ciò che si
sacrifica è essenziale al raggiungimento degli obiettivi della comunità.
Si tratta allora di verificare la democraticità delle procedure mediante le quali l’obiettivo viene
selezionato. Il principio di libertà rischia di diventare un alibi per coloro che intendono assoggettare
a limitazioni di sorta i poteri che i processi di internazionalizzazione economica hanno reso
difficilmente governabili.

Contratto come regola oggettiva del mercato:


Il diritto dei contratti deve essere quindi inteso come momento di sintesi tra autonomia ed
eteronomia, cioè tra livelli e ordini differenti di regole. In tal modo si creano nozioni flessibili
capaci di cogliere le diverse realtà ed i diversi interessi, da ricostruirsi nell’ambito della storicità
dell’ordinamento fondato su una pluralità di fonti ordinate per gerarchia, per competenza e secondo
il principio di sussidiarietà. Se a tutto ciò si unisce la consapevolezza della crisi della
statualità/sovranità, capiamo come sia arduo trovare, di volta in volta, la regola del caso concreto.
È necessario ridare al diritto il ruolo di promozione e governo delle forze dei mercati: deve
ricostruirsi un sistema delle fonti che contempli l’autonomia ed il contratto quale strumento
creatore di regole oggettive ma che abbia al proprio vertice fonti esterne ai mercati.
Ogni contratto è sempre regola e come tale si atteggia tanto nei rapporti interni, quanto in quelli
esterni. Dallo stesso possono così essere ricavati regole e principi comuni a tutte le manifestazioni
dell’autonomia: gli stessi dogmi storici del consenso e quello della relatività degli effetti possono e
devono essere rivisitati e considerati non più dogmi, quindi non più intangibili.

Autonomia negoziale a contenuto non patrimoniale:


L’autonomia negoziale si spinge sempre più verso la regolamentazione di situazioni e rapporti
non aventi contenuto patrimoniale (a differenza del passato, in cui tale evenienza era
aprioristicamente esclusa). Alla luce dell’art. 1322 c.c. (che consente il ricorso a schemi atipici) è
oggi scontato che si possa parlare di autonomia anche in contesti non patrimoniali.
È essenziale distinguere bene il concetto di patrimonialità dal concetto di negoziabilità; la prima,
ponendosi su un piano diverso rispetto alla seconda, non è da considerarsi coessenziale a
quest’ultima. La negoziabilità deve essere intesa come la possibilità che il potere regolamentare dei
privati si esplichi anche con riferimento ad assetti di interessi diversi da quelli che l’art. 1321 c.c.
pone a contenuto del contratto (“il contratto è l’accordo di due o più parti per … un rapporto
giuridico patrimoniale”). Da una lettura degli artt. 1321 e 1322 si evince che non tutti gli interessi
patrimoniali sono negoziabili e che la negoziabilità non può essere considerata come requisito
coessenziale a tutte le situazioni patrimoniali: ciò che conta è la meritevolezza dell’atto (così il 1322
c.c. “purché siano (i contratti) diretti a realizzare interessi meritevoli di tutela secondo
l’ordinamento giuridico”).
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La questione dell’assoggettabilità degli atti negoziali a contenuto non patrimoniale alla disciplina
generale dei contratti trova un punto fermo nell’art. 1324, che prevede l’applicazione di tale
disciplina anche agli atti unilaterali tra vivi a contenuto patrimoniale. Le teorie in merito
all’estensione di tale articolo sono molteplici; tra le principali:
1) Tesi 1: estensione diretta della normativa del contratto agli atti dall’articolo richiamati; auto
integrazione in via analogica della disciplina lacunosa;
2) Tesi 2: il riferimento ai soli negozi tra vivi a contenuto patrimoniale esclude tutti gli altri
negozi/atti non citati espressamente;
3) Tesi 3: codificazione del procedimento analogico.
L’ipotesi più verosimile è che l’art. 1324 c.c., menzionando solo i negozi tra vivi a contenuto
patrimoniale, porti con sé l’idea che l’area di interessi ad essi sottesi è irrefutabilmente comune agli
atti contrattuali, mentre per i non patrimoniali vengono in gioco interessi, principi e regole diversi
da quelli sui contratti.

Cenni sulle manifestazioni dell’autonomia non patrimoniale:


Un primo ambito è offerto dai rapporti familiari o di convivenza in senso ampio. La rigorosa
tipicità dei negozi familiari è oggetto, oggi come non mai, di decisi ripensamenti (si pensi alla
novità delle c.d. unioni di fatto).
Altra manifestazione sono gli atti con i quali si esercitano i diritti della persona; dagli atti di
disposizione del corpo a quelli con i quali si dispone dei singoli interessi esistenziali
(dall’immagine, alla riservatezza e alla salute). L’idea che tali diritti fossero a contenuto totale non
patrimoniale è stata piano piano messa da parte: si considera sempre più che tali situazioni siano
disposte su più piani.
Per quanto riguarda la circolazione delle informazioni personali, nei casi in cui esse si svolgano
sulla base di un atto dispositivo circostanziato dallo stesso interessato, la regolamentazione si fonda
su un elemento determinativo in capo al soggetto che autorizza la circolazione stessa.

Il contratto come fonte:


L’indissolubilità concettuale tra contratto e mercato si coglie nell’operatività dei meccanismi sui
quali lo scambio, alla base del binomio mercato – contratto, si fonda; per primo troviamo il
prezzo, come punto di incontro tra domanda e offerta. Il valore dei beni o dei servizi non costituisce
più un dato oggettivo, bensì appare sempre più collegato al trattamento complessivo dell’operazione
economica che si pone in essere, trattamento che viene disciplinato proprio dalle clausole
contrattuali.
Il problema diventa dunque lo squilibrio, le c.d. asimmetrie di potere, che vedono l’imposizione di
alcuni strumenti giuridici, specie il contratto, alle parti contraenti più deboli. Da un punto di vista
oggettivo, punto fermo rimane la convinzione che il contratto, pur avendo forza di legge, non
prevede sempre che la clausola, conosciuta o addirittura voluta dalla parte debole, debba sempre e
comunque produrre effetti anche se abusiva.
A livello soggettivo, invece, si nota sempre più come il contratto svolga effetti anche per coloro che
non concorrono a formare la regola (che, di solito, sono coloro che prestano il consenso). Non è
indispensabile che gli autori della regola siano anche i soggetti destinatari degli effetti della
stessa regola.

Fonti del contratto:


Gli autoregolamenti e i regolamenti privati sono annoverati nell’ambito delle fonti del rapporto
concreto; allo stesso modo, però, si deve affermare con decisione che l’esercizio del potere di
autonomia rimane comunque soggetto (quasi limitato) agli obiettivi di una data comunità
giuridica.
La logica e la gerarchia delle fonti (Costituzione, fonti comunitarie, legge e autonomia dei soggetti
privati/pubblici), quindi, è sempre vincolante e l’autonomia contrattuale, in tale contesto, assume un
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aspetto particolare: il negozio può porre la regola, la quale tuttavia ha effetto solo nella logica
gerarchica richiamata.
Nel nostro Stato democratico di diritto, con un sistema di fonti aventi all’apice una Costituzione
rigida, si deve affermare con decisione che esista un progetto imprescindibile di giustizia. Tutto ciò
è espressione dell’idea secondo la quale, dal dopoguerra, alla sovranità dello Stato si è sostituita
la sovranità della Costituzione. Dall’avvento della Carta costituente lo Stato non può essere più
considerato un fine, ma soltanto un mezzo o uno strumento per la promozione e valorizzazione
dell’uomo.
Sovranità della Costituzione significa che neppure lo Stato o la ragion di Stato possono sacrificare i
valori alla base della comunità; significa che l’autorità della legge giustificata dai canoni
costituzionali ha il compito di indirizzare l’attività economica alla realizzazione di valori
esistenziali senza il timore di limitarne la libertà e l’efficienza.
Proprio per questo, affinché l’iniziativa privata sia realmente libera, sono necessarie delle regole
che garantiscano uno svolgimento delle attività economiche non in contrasto con l’utilità sociale e
non rechino danno alla sicurezza, libertà e dignità umana.
La concorrenza non rappresenta un valore autonomo rispetto alla libertà di iniziativa. Nella logica
economica attuale è evidente la prevalenza della prospettiva antimonopolistica, ma, a ben vedere,
monopoli ne esistono. Quest’ultimi, dunque, possono trovare una giustificazione solo nella
dimensione dell’economia di mercato per un fine di interesse generale (art. 43 Cost); il monopolio
non è meritevole quando distorce il mercato in danno di altre imprese e dei consumatori.

Il diritto europeo dei contratti:


l’Unione Europea, con i suoi principi e con le sue specifiche direttive, ha contribuito in maniera
determinante alla definitiva decodificazione del diritto dei contratti. Il diritto europeo dei contratti
ha contribuito ad iniziare un discorso complesso di superamento di antichi dogmi contrattuali; si
pensi al dogma della neutralità del contratto rispetto allo status delle parti, o al dogma
dell’intangibilità del contenuto pattizio, ovvero al dogma della causa e della forma.

Capitolo II

Nell’ambito degli interventi comunitari sulla disciplina dei contratti, appare doveroso concentrarsi
sulla c.d. legge antitrust (L. 287/90), nella parte in cui vieta l’abuso di posizione dominante e
le intese restrittive della concorrenza.
Le normative antitrust perseguono la finalità di controllare le condotte d’impresa che tendono a
limitare in modo ingiustificato l’attività dei concorrenti, creando, rafforzando e sfruttando situazioni
di mercato che consentono la pratica di prezzi o altre condizioni che limitino la libertà dei
contraenti. Tra le finalità delle norme antitrust rientrano:
1) Tutela della struttura concorrenziale del mercato. La concorrenza, in un’economia di
mercato, spinge le imprese ad un continuo aumento delle quantità, varietà, qualità ed
innovazione di prodotti e servizi e ad un costante ribasso dei prezzi verso il prezzo di costo,
accrescendo le possibilità di scelta dei consumatori. La concorrenza diviene strumento di
democrazia economica;
2) Efficienza economica;
3) Benessere sociale.
L’obiettivo comune di intese e concentrazioni, cioè quello di impedire che le imprese si svincolino
dalla libera concorrenza stringendo alleanze malsane e aumentano smisuratamente il proprio
potere economico, è già in partenza oggetto di fallimento laddove si noti come esista, purtroppo con
decisione, il problema dell’abuso di posizione dominante. Il solo parlare di abuso indica la
presenza di imprese, sul mercato, in grado di tenere comportamenti indipendenti da quelli dei
concorrenti.

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Posizione dominante in Italia:
Il legislatore italiano non si preoccupa di definire alcuno dei termini rilevanti per la fattispecie, non
dice cosa debba intendersi per posizione dominate, non cosa per abuso.
Secondo l’art. 67 del Trattato CECA, la posizione dominante è quella che “sottrae l’impresa che
la detiene ad una concorrenza effettiva”, con la conseguenza che la stessa può agire senza tenere in
considerazione le mosse dei concorrenti.
La definizione della Corte di giustizia guarda all’abuso de qua come “una posizione di potere
economico detenuta da un’impresa che gli conferisce il potere di ostacolare il mantenimento di una
concorrenza effettiva nel mercato di cui trattasi”.
La formula ravvisa nella potenza economica l’essenza della posizione dominante; il problema è
che non fornisce parametri efficaci per stabilire quando si tratti di abuso. Da qui l’affermarsi di una
prassi interpretativa con alcuni criteri di matrice giurisprudenziale; vengono in gioco criteri di
carattere strutturale come la quota di mercato: il controllo di una quota elevata deve essere
durevole. Altro criterio è quello del grado di integrazione verticale
È buono precisare che la normativa sanziona il solo abuso di posizione dominante e non la
posizione dominante in sé.
Le condotte abusive, però, sono prettamente a carattere mercantile; vi sarà abuso, ad esempio,
quando il comportamento sarà idoneo ad influire sulle strutture del mercato, ovvero quando risulti
non motivato da giustificazioni obiettive.
L’utilizzo di parametri esclusivamente mercantili, però, appare riduttivo. Lo stesso orientamento
della Corte sembra giustificare tutte le condotte che sono ispirate a criteri di efficienza.
Sorge spontanea la domanda: in nome dell’efficienza, tutto può dirsi lecito?
La verità è che la clausola di abuso deve essere riempita di contenuti concreti ricorrendo a valori
sovraordinati rispetto a quelli della libera concorrenza.

Contratti negoziati fuori dai locali commerciali:


Una direttiva europea (n. 85/577, recepita in Italia con il D.L. 50/1992) ha introdotto delle novità
in merito ai contratti de quo; quelle più salienti consistono, per un verso, nella delimitazione della
disciplina ai rapporti tra consumatori e professionisti; per altro verso, nella previsione del diritto di
recesso (c.d. jus poenitendi) in caso di “effetto sorpresa” (a favore solo dei consumatori).
Alcuni paesi dell’UE hanno però precorso tale direttiva; nel dettaglio:
1) Francia: la legge francese, nel discorrere del “delai de riflexion” concesso al consumatore,
sembra assoggettare l’efficacia reale del negozio ad un termine sospensivo entro il quale il
consumatore può sciogliersi dal vincolo senza nessuna conseguenza negativa per il suo
patrimonio. Prima del decorso del termine, inoltre, il professionista non può percepire il
prezzo;
2) Germania: la legge tedesca tutela il consumatore prevedendo la possibilità di revocare per
iscritto, entro 7 giorni, la proposta diretta alla conclusione del contratto. L’unico obbligo di
informazione in capo al professioni è quello relativo all’esistenza del diritto di revoca.
In comune ai due sistemi è possibile individuare l’ambito soggettivo di applicazione (rivolto al solo
consumatore). Quanto all’ambito oggettivo, la direttiva sembra più ispirata al modello francese.
Altro punto in comune è il c.d. recesso di pentimento.
La modalità di attuazione in Italia considera due ipotesi non previste dalla direttiva: contratti
negoziati sulla base di offerte a mezzo televisivo; contratti conclusi mediante l’uso di strumenti
informatici e telematici.

Il recesso:
La dottrina ha a lungo discusso sull’uso dell’espressione de qua. Parte della stessa intende il recesso
come mezzo attribuito al contraente per liberarsi del vincolo quando vi sia un mutamento
degli interessi sostanziali sottesi alla vicenda negoziale.

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Per comprendere la natura del recesso può giovare un confronto con la fattispecie ex art. 1461 c.c.,
c.d. eccezione di sospensione dell’esecuzione della prestazione (quando, cioè, nell’ambito di un
rapporto contrattuale a prestazioni corrispettive, uno dei contraenti sospende la sua esecuzione
laddove le condizioni economiche dell’altro contraente siano peggiorate a tal punto da porre in
pericolo il conseguimento della controprestazione).
Eccezione e recesso sono diverse da un punto di vista del profilo funzionale:
1) Recesso: mette in moto un meccanismo volto a far cessare il vincolo obbligatorio;
2) Eccezione: tende alla conservazione del rapporto e dell’equilibrio degli interessi.
Alla luce di ciò, il diritto di recesso può essere ricostruito in termini di potere formativo, cioè di
diritto potestativo al quale l’altro contraente rimane assoggettato.

Jus poenitendi e jus variandi:


Il primo si pone su un piano del tutto diverso rispetto ai c.d. poteri di rinegoziazione. Il secondo,
incidendo sull’atto, non comporta il recesso dal contratto bensì la sua modificazione: il contenuto
del contratto diviene diverso parzialmente da quello originario.

Informazioni obbligatorie per il professionista:


Alcune informazioni devono essere fornite in forma vincolata “in maniera chiara e comprensibile,
con ogni mezzo adeguato alla tecnica di comunicazione a distanza impiegato, osservando i principi
di buona fede e di lealtà in materia di transazioni commerciali”. Le informazioni de qua
riguardano:
1) Descrizione del bene/servizio;
2) Prezzo e spese;
3) Costo di utilizzo del mezzo di comunicazione a distanza;
4) Spese di consegna;
5) Modalità di pagamento.

Codice del consumo:


La disciplina dei contratti negoziati fuori dai locali commerciali è ora integralmente confluita nel
codice. Il legislatore ha così unificato e coordinato i contratti menzionati con quella dei
contratti a distanza, attraverso la predisposizione di un apparato unitario di regole.
L’ambito di applicazione della normativa in tema di contratti negoziati fuori dai locali commerciali
è ristretto alle ipotesi previste dalle lettere a), b), c) e d) del co. 1 dell’art. 45 cod. cons.
Tale unificazione comporta che, da un lato, si è in presenza di situazioni nelle quali, su iniziativa del
professionista, il consumatore si vede coinvolto, inaspettatamente, in un’attività negoziale (effetto
sorpresa); dall’altro, ci si trova dinanzi ad un consumatore che non risulta impreparato o indotto
dalle capacità di vendita dell’imprenditore.
L’unificazione è stata posta partendo da una ragione unica: evitare che il consumatore prenda
delle scelte vincolanti azzardate a causa delle tecniche aggressive del professionista.
A norma dell’art. 52 cod. cons. il consumatore deve ricevere in tempo tutte le informazioni in
merito:
1) Identità professionista;
2) Caratteristiche essenziali bene/servizio;
3) Prezzo;
4) Spese di consegna;
5) Modalità pagamento;
6) Esistenza diritto di recesso;
7) Modalità e tempi di restituzione o di ritiro del bene.
Il recesso può essere esercitato entro il termine di 10 giorni lavorativi, senza
obbligo di motivazione.
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A norma dell’art. 64, esso si esercita con una comunicazione scritta inviata alla sede del
professionista mediante raccomandata (può essere inviata mediante telegramma, telex, posta
elettronica e fax).
Con la ricezione da parte del professioni (art. 66), le parti risultano definitivamente sciolte dalle
obbligazioni contrattuali.

Pubblicità ingannevole e comparativa:


Intervento legislativo molto importante fu operato dal DL n. 74/1992 in materia di pubblicità
ingannevole e comparativa. Fino a qualche anno fa, il suddetto decreto constava di 9 articoli; la
direttiva CE n. 97/55 è poi intervenuta nuovamente sulla materia al fine di includere anche la
pubblicità comparativa (prima non annoverata). Il legislatore italiano ha apportato le dovute
integrazioni e modifiche al decreto 74/92, che ora disciplina entrambi i tipi di pubblicità.
Il testo del decreto può essere distinto in due parti:
1) Parte sostanziale: ricalca fedelmente i principi della direttiva comunitaria;
2) Parte procedurale: la direttiva lasciava libera scelta agli stati membri circa l’adozione di un
controllo amministrativo o giurisdizionale. Il nostro legislatore ha scelto una soluzione mista
ed ha affidato all’Autorità garante della concorrenza e del Mercato (AGCM) il
compito di applicare la suddetta disciplina (trattasi di un’Autorità indipendente).
Stante il connotato della processualità, il provvedimento finale non può certo definirsi
propriamente giurisdizionale, anche perché, ai fini impugnatori, è necessario ricorrere al
TAR. Il livello di tutela disposto è molto ampio: l’art. 2 del decreto, infatti, prevede alcuni
requisiti della tutela stessa, e cioè l’evidenza, la veridicità e la correttezza.
Ai sensi dell’art. 2 DL 74/92, si intende per pubblicità “qualsiasi forma di messaggio che sia
diffuso, in qualsiasi modo, nell’esercizio di un’attività commerciale industriale, artigianale o
professionale, al fine di promuovere la vendita di beni mobili o immobili, la costituzione o il
trasferimento di diritti e obblighi su di essi oppure la prestazione di opere o servizi”.
L’AGCM ha precisato che è considerata pubblicità anche una comunicazione con finalità
promozionale anche non direttamente perseguita.

Pubblicità ingannevole:
La pubblicità è ingannevole quando induce in errore un soggetto, anche potenzialmente, e dallo
stesso derivi un pregiudizio, anch’esso solo potenziale, del comportamento economico dei
soggetti destinatari del messaggio pubblicitario.
Il consumatore si trova in una situazione soggettiva di interesse; la sua istanza ex art. 7 non
consiste in una mera denunzia all’AGCM, bensì trattasi di vero e proprio ricorso. Se l’Autorità
valuta l’ingannevolezza del messaggio, accoglie il ricorso vietando la pubblicità non ancora resa
pubblica ovvero sospendendo la continuazione di quella già iniziata.

Pregiudizio del comportamento economico:


Si tratta di uno dei requisiti fondamentali che rende ingannevole una pubblicità. A tale concetto
possono ricondursi una serie infinita di ipotesi: dal vero e proprio danno derivante dall’acquisto di
un oggetto dalle qualità diverse da quelle pubblicizzare, sino al più sottile dolus bonus.
Il decreto offre all’interprete un’estensione dell’ipotesi classica di sviamento menzognero.
La ratio della norma è allora palese: il messaggio pubblicitario deve essere presentato come tale,
così da rendere semplice l’individuazione da parte dei suoi destinatari (esempio: è vietato il
messaggio che venga camuffato da comunicazione obiettiva).

Ipotesi limite:
In tale area d’inganno vi sono alcune ipotesi isolate quasi al limite tra lecito e illecito. Tra esse
rientra la pubblicità redazione: essa fa sì che il destinatario del messaggio, inconsapevole di

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esser di fronte ad una réclame, abbassi la barriera critica che abitualmente eleva innanzi alla
comunicazione promozionali palesi.
Tali tipi di réclame pongono un complesso problema in merito al bilanciamento, ai fini della tutela
del consumatore, tra l’esigenza di repressione e la necessità di salvaguardare la libertà di
manifestazione del pensiero (art. 21 Cost).
Un criterio per dirimere la questione tra réclame, assoggettabile in toto alla disciplina del decreto, e
manifestazione del pensiero, non soggetta alla limitazione dell’AGCM, è necessario. Oggi, dunque,
si usa un criterio volto all’individuazione di alcune presunzioni gravi, precise e concordanti che
individuino tali réclame illecite (come i toni esageratamente acritici ed elogiativi, l’esibizione
ingiustificata del prodotto, ecc.).

Prodotti pericolosi per la salute:


l’art. 5 del decreto stabilisce che la pubblicità in merito ai prodotti de quo non deve mai omettere di
darne informazione ai consumatori. È compito del Garante accertare che nel messaggio sussistano
precise e sufficienti avvertenze diretta ad assicurare al consumatore l’osservanza delle regole di
cura e attenzione.

Danno ai minori:
l’art. 6 del decreto è volto ad impedire che vi sia la diffusione di messaggi idonei a cagionare danni
ai minori. A tal fine rileva sia la fascia oraria di trasmissione del messaggio, sia l’eventualità di una
sua fruizione da parte di bambini di età inferiore a quella tenuta di mira dall’operatore pubblicitario.

Pubblicità comparativa:
Non è mai stata esplicitamente vietata nel nostro ordinamento; si tratta di un mezzo pubblicitario, di
réclame, molto efficace per la promozione delle vendite. Per un verso, tale forma di pubblicità, se
condotta correttamente, costituisce attività informativa fondamentale a disposizione dei
consumatori. In tal modo ciascun consumatore può valorizzare quei pregi che rendono superiore il
proprio prodotto rispetto a quello degli altri.
Il rischio di tale pubblicità è però rinvenibile nell’idoneità di produrre una situazione di
aggressività esagerata e di rissosità nella concorrenza.
La direttiva CE n. 97/55 ha consacrato la liceità della pubblicità in esame, ma solo a certe
condizioni. Innanzitutto, per pubblicità comparativa deve intendersi qualsia pubblicità che
identifichi in modo esplicito o implicito un concorrente o beni o servizi offerti da un concorrente.
Essa è lecita se fatta tra prodotti concorrenti, se non inganna i consumatori, se le sue affermazioni
riguardano caratteristiche essenziali, pertinenti e verificabili e se non è fatta unicamente per
screditare il concorrente.
Il cod. cons. ha definito a sua volta le condizioni di liceità della pubblicità comparativa. Mentre
prima dell’intervento del codice suddetto era consentita solo la comparazione indiretta, oggi è
consentita anche quella diretta “quando sia utile ad illustrare sotto l’aspetto tecnico/economico le
caratteristiche e i vantaggi dei beni/servizi pubblicizzati”.

L’AGCM nel caso di pubblicità ingannevole o comparativa:


Una volta accertato il carattere pubblicitario del messaggio, l’Autorità è chiamata a valutare la
conformità dello stesso alle norme del Codice del consumo.
Essa, nel caso di pubblicità ingannevole/comparativa sleale, non può agire ex officio (cosa che può
fare nei casi di lesione della concorrenza), ma si può attivare solo a seguito di denuncia di parte.
La legittimazione ad agire è tanto in capo ai consumatori quanto in capo ai concorrenti.
L’Autorità, accertata la slealtà del messaggio, può imporre con decisione motivata all’operatore
pubblicitario il divieto o l’interruzione della diffusione del messaggio stesso; è possibile che sia
previsto l’obbligo di rendere pubblica, a spese dell’operatore, la decisione dell’autorità.

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Il procedimento istruttorio prevede il contraddittorio. L’autorità può anche invertire l’onere della
prova, disponendo che sia l’operatore e non il denunciate a fornire le prove dell’esattezza materiale
dei dati di fatto contenuti nel messaggio incriminato (l’omissione o l’insufficienza della stessa,
ovviamente, proverà l’inesattezza e la slealtà del messaggio).
Del risarcimento del danno è competente il GO.
Contro la decisione dell’AGCM è esperibile ricorso dinanzi al GA.
La Legge Giulietti ha attribuito all’AGCM maggiori poteri istruttori e sanzionatori. Prima di
tale intervento l’AGCM non poteva irrogare sanzioni amm.ve pecuniarie a carico degli operatori
pubblicitari.
Il codice del consumo (art. 26) prevede che l’Autorità, con provvedimento motivato in caso di
particolare urgenza, possa disporre la sospensione provvisoria della pubblicità ritenuta ingannevole
o comparativa.

Decreto Bersani:
l’AGCM si è vista finalmente riconoscere anche i poteri cautelari, istruttori e sanzionatori che da
tempo sono attribuiti alla Commissione Europea (organo antitrust comunitario). Essa dispone ora
di nuovi poteri cautelari da esercitare ex officio mediante decisione da adottarsi prima o durante
l’istruttoria.
L’esercizio di tale potere è subordinato a due condizioni:
1) Sussistenza requisito dell’urgenza, cioè il rischio di un danno grave e irreparabile per la
concorrenza;
2) L’Autorità deve ravvisare, per prima cosa, il requisito di una probabile infrazione: è
dunque consentito un esame sommario della situazione inaudita altera parte.

Credito al consumo – tutela consumatore:


Nell’ambito del TU bancario, l’art. 121 afferma che per credito al consumo deve intendersi “la
concessione, nell’esercizio di attività commerciale o professionale, di credito sotto forma di
dilazione di pagamento, di finanziamento o di analoga facilitazione finanziaria”.
A livello soggettivo, la disciplina de qua si riferisce al consumatore, persona fisica che agisce per
scopi estranei all’attività commerciale o professionale. Per quanto riguarda gli interlocutori del
consumatore, si guarda a banche, intermediari finanziari e altri soggetti autorizzati a tale tipologia di
vendita.
Obiettivo del legislatore è garantire uno svolgimento trasparente di tali attività; il professionista è
anche tenuto a fornire al consumatore un quadro chiaro del costo del finanziamento.
Tali obblighi di informazione, se non rispettati, comportano l’irrogazione di alcune sanzioni.
Ferma restando la responsabilità precontrattuale per violazione degli obblighi de quo e della
clausola generale di buona fede (1337 c.c.), il TU commina anche la nullità della disposizione
contrattuale peggiorativa per il consumatore, con sostituzione automatica delle clausole
abusive (art. 117 TU).
L’art. 124 TU prescrive la forma scritta vincolata del contratto di credito al consumo e, al
contempo, esige la determinazione legale del suo contenuto minimo.

Tutela del viaggiatore e del consumatore di pacchetti turistici:


La tutela del consumatore è realizzata imponendo al professionista degli obblighi di informazione:
si tratta dell’ormai nota trasparenza, cioè obbligo di chiarezza e veridicità delle informazioni. Per
quanto riguarda la previsione delle informazioni obbligatorie da fornire, ovviamente si guarda a
quelle informazioni essenziali ai fini della scelta turistica (meta, mezzi di trasporto, categoria
alberghi, numero pasti, itinerari, escursioni, acconto, ecc.).
Sempre a tutela del consumatore, vi sono alcune disposizioni in merito alle vicende modificative
del rapporto; tali disposizioni hanno lo scopo di riequilibrare le posizioni contrattuali tra
professionista e consumatore (esempio: le variazioni in aumento del prezzo non possono mai
10
avvenire nei 20 giorni precedenti alla data di partenza; il consumatore, inoltre, è libero di
accettare o meno tali aumenti e, nel caso di risposta negativa, egli può recedere dal contratto senza
alcuna penale).

Tutela consumatore e prodotti assicurativi:


Obiettivo degli interventi normativi è stato quello di promuovere e facilitare l’informazione dei
consumatori sulle caratteristiche delle polizze e sulle prestazioni erogate attraverso di esse. Le
compagnie assicurative devo predisporre e tramettere (agli eventuali fruitori) una dettagliata nota
informativa con indicazioni precise della prestazione offerta e dei dati organizzativi salienti. Tali
informazioni, inoltre, nel caso di mutamento in corso di rapporto, devono essere adeguate e rese
note.

Condizioni generali di contratto – codice del consumo:


La legge n. 52/1996 ha dettato la disciplina dei c.d. contratti del consumatore e l’ha inserita nel
contesto degli artt. 1469 bis ss. del codice civile. Anche l’avvento del codice del consumo ha
influenzato tale disciplina: basti pensare che il summenzionato articolo 1469 bis afferma che “le
disposizioni del presente titolo si applicano ai contratti del consumatore, ove non derogate dal
codice del consumo…”. Il cod. cons., inoltre, ha sostituito i vari art. 1469 ed oggi, infatti, nel
codice civile, è presente solo il 1469 bis.
Il 1469 bis conteneva la definizione di consumatore (oggi contenuta dall’art. 3 cod. cons.) e si
intende per tale “la persona fisica che agisce per scopi estranei all’attività professionale o
imprenditoriale eventualmente svolta”.
Quanto all’espressione “professionista”, la scelta terminologica è ispirata alla scelta di
ricomprendere in tale novero non solo i soggetti che esercitano attività d’impresa, bensì anche
coloro che esercitano attività professionali regolate o che abbiano contatti con clienti non
professionisti.
Anche la considerazione del bene/servizio oggetto di contrattazione ha attitudine ad incidere sulla
qualificazione soggettiva dei contraenti.
A livello oggettivo, le disposizioni de qua sono oggi estese ad ogni tipo di operazione negoziale,
ad esclusione di negozi familiari, successori, dei contratti di lavoro e degli atti costitutivi delle
società.

Clausole vessatorie e trattativa individuale:


Ai sensi dell’art. 1469 ter (oggi art. 34 cod. cons.) un fattore determinante per discernere l’oggetto
e l’applicabilità della disciplina è la circostanza che il regolamento abbia o meno formato oggetto
di trattativa individuale. Si guarda, dunque, non solo alle condizioni generali di contratto, ma a
qualunque tipo di contrattazione nella quale il contenuto sia stato predisposto senza alcun contributo
da parte del consumatore (c.d. contratti di adesione).
Elemento essenziale è che il professionista si avvalga di tali clausole, al di là del fatto che egli
abbia predisposto personalmente le stesse condizioni.
Il concetto di trattativa individuale è sfuggente: “si considera che una clausola non sia stata
oggetto di negoziato individuale quando è stata redatta preventivamente, nell’ambito dei contratti
di adesione, e il consumatore non ha di conseguenza potuto esercitare alcuna influenza sul suo
contenuto”.
La legge italiana fa menzione della trattativa all’interno della disposizione relativa alla fase
valutativa della vessatorietà. Oggi appare difficile applicare la disposizione del co. 2 dell’art. 1469
ter c.c. (oggi art. 34 cod. cons., co.2), la quale sembra escludere che il giudizio di vessatorietà
possa fondarsi su valutazioni in merito all’adeguatezza del corrispettivo di beni e servizi (“La
valutazione del carattere vessatorio della clausola non attiene alla determinazione dell'oggetto del
contratto, né all'adeguatezza del corrispettivo dei beni e dei servizi, purché tali elementi siano
individuati in modo chiaro e comprensibile”).
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La menzionata disposizione appare in contrasto anche con quanto espresso dall’art. 33 cod. cons.,
primo comma, che considera vessatorie “le clausole che, malgrado la buona fede, determinano a
carico del consumatore un significativo squilibrio dei diritti e degli obblighi derivanti dal
contratto”. Dottrina e giurisprudenza hanno allora elaborato la distinzione tra squilibrio
normativo e squilibrio economico, quest’ultimo venendo in considerazione solo laddove le
relative clausole non fossero espresse in modo chiaro e comprensibile.
Questioni interpretative sorgono in merito a due locuzioni della disposizione, e cioè “significativo
squilibrio” e “malgrado la buona fede”. La prima, corredata anche con le espressioni del comma
successivo dell’art. 33 (c.d. lista grigia), è facilmente interpretabile con contenuti concreti. Quanto
alla seconda, il riferimento sembrerebbe non rivolto alla buona fede oggettiva, quanto alla buona
fede soggettiva del predisponente, ma tale interpretazione renderebbe la buona fede irrilevante ai
fini della vessatorietà. Altri, invece, ritengono che l’espressione debba essere intesa come contrasto
con il principio di correttezza: la clausola sarebbe dunque vessatoria solo se, al contempo, fosse in
contrasto con la b.f. oggettiva e determinasse un significativo squilibrio.
Alla luce di ciò, sembra opportuno riferirsi alla buona fede oggettiva.
In definitiva, dunque, la ratio dell’inciso sarebbe quella di escludere, in merito alla valutazione circa
la vessatorietà delle clausole, la rilevanza del fatto che il professionista predisponga una clausola
squilibrata per approfittarsi del consumatore.
Per il giudizio di vessatorietà è sufficiente che il rapporto sia squilibrato da sé, per effetto di
un’asimmetria di potere presupposta, a prescindere dalla volontà del professionista di
approfittare della debolezza altrui.
Il co. 2 dell’art. 33 cod. cons. (prima art. 1469 bis, co. 3, c.c.) detta un elenco di clausole rispetto
alle quale vi è una presunzione juris tantum di abusività: si tratta della c.d. lista grigia. Si
realizza un’inversione dell’onere probatorio, essendo il professionista gravato della prova di aver
negoziato individualmente il contenuto della clausola che si presume abusiva. Tale lista non è
tassativa e il giudice ha un margine per negare l’attitudine abusiva della clausola che si assume
vessatoria.
L’art. 36 cod. cons. (prima art. 1469 quinquies c.c.) contiene un’altra lista di clausole per le quali
opera una presunzione juris et de iure. Si tratta delle ipotesi di:
1) Escludere o limitare la responsabilità del professionista in caso di morte o danno alla
persona del consumatore, risultante da un fatto o da un'omissione del professionista;
2) Escludere o limitare le azioni del consumatore nei confronti del professionista o di un'altra
parte in caso di inadempimento totale o parziale o di adempimento inesatto da parte del
professionista;
3) Prevedere l'adesione del consumatore come estesa a clausole che non ha avuto, di fatto, la
possibilità di conoscere prima della conclusione del contratto.
L’art. 1469 quinquies, per quanto riguarda le ipotesi contenute nella lista grigia e in quelle ex art.
36 cod. cons., parlava di inefficacia, rilevabile anche d’ufficio, e, in particolare, di inefficacia
parziale, nel senso che venivano colpite solo le clausole vessatorie. L’espressione “inefficacia” non
poteva che significare invalidità e, quest’ultima, non poteva a sua volta che essere nullità, tenuto
conto dell’originarietà di essa. L’intento evidente del legislatore, da un lato, era quello di escludere
qualsiasi ipotesi di sanatoria, dall’altro, di escludere per il consumatore la possibilità di ottenere una
pronuncia di inefficacia dell’intero contratto.
La riforma ha optato per la tutela giurisdizionale del consumatore; l’art. 37 cod. cons. (prima art.
1469 sexies c.c.) prevede l’esperibilità di una actio inibitoria, con legittimazione in capo a
consumatori e loro associazioni, con la finalità di eliminare una volta per tutte le clausole
illegittime.

La subfornitura:

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La disciplina de qua è stata introdotta in Italia con la L. n. 192/1998. In tali casi, ed è questa la
novità rispetto alle precedenti discipline esaminate, il soggetto “debole” tutelato è a sua volta
imprenditore (e non consumatore o lavoratore).
La definizione di subfornitura è molto ampia: “contratto con il quale un imprenditore si impegna
ad effettuare, per conto di un’impresa committente, lavorazioni su semilavorati o materie prime
forniti dalla committente o si impegna a fornire all’impresa prodotti o servizi destinati ad essere
utilizzati nell’ambito dell’attività economica della committente o nella produzione di un bene
complesso”. Alla luce di tale definizione, appare chiaro come il legislatore non sia riuscito a
tipicizzare efficacemente il rapporto di subfornitura.
Fornita la definizione, il legislatore ne ha chiarito altri aspetti fondamentali:
1) Forma: deve essere stipulata in forma scritta (valgono anche gli atti di conclusione dei
contratti effettuati per telefax o altra via telematica). Il mancato rispetto della prescrizione di
forma comporta la nullità assoluta del contratto; in tali casi, però, il subfornitore conserva
comunque “il diritto al pagamento delle prestazioni già effettuate ed al risarcimento delle
spese sostenute in buona fede per l’esecuzione del contratto”. Esclusa l’ipotesi di una
qualsiasi azione contrattuale, l’unico spiraglio appare il ricorso all’istituto della
conversione: qualora il rapporto sia conducibile ad un contratto diverso, potrà applicarsi la
disciplina di quest’ultimo;
2) Contenuto: nel contratto devono essere indicati i requisiti del bene/servizio; deve essere
anche indicato il prezzo pattuito in modo chiaro e preciso.
3) Termini di pagamento e mancato pagamento: il contratto deve fissare i termini di
pagamento, decorrenti dal momento della consegna del bene o dal momento della
comunicazione dell’avvenuta esecuzione della prestazione. Deve essere altresì chiaro
l’eventuale sconto comminato a seguito di pagamento anticipato. Il termine per la
corresponsione del prezzo non può eccedere i 60 giorni dalla consegna/comunicazione.
L’omissione del rispetto del termine comporta, a carico del committente, l’obbligo di
corrispondere al subfornitore, senza necessità di messa in mora, alcuni interessi.

Subfornitura e abuso di dipendenza economica:


La dipendenza economica consiste nel legame che corre tra due parti, una delle quali si presenta
come partner obbligato dell’altra. Il legame può risultare da varie circostanze, che possono essere
esterne alle parti (monopolio legale) ovvero tipiche dell’impresa dipendente (impossibilità di
ricorrere ad altri metodi di fabbricazione).
Un’impresa in posizione di dipendenza economica è dunque quell’impresa che nei rapporti
commerciali con un’altra imprese si trova in posizione di eccessivo squilibrio di diritti e obblighi.
L’inefficienza del mercato non rappresenta una condizione indispensabile per la situazione di
dipendenza economica che può, pertanto, riscontrarsi anche laddove il mercato offra buone
possibilità che però possano essere sfruttate dall’impresa più debole soltanto, per esempio,
affrontando notevoli corsi.
L’art 9 della citata legge, oltre a individuare alcune ipotesi tipiche dell’abuso di cui si discorre
(esempio: rifiuto di vendere o comprare; imposizione di condizioni ingiustificatamente gravose),
prevede l’intervento dell’AGCM laddove ravvisi un abuso rilevante per la tutela della concorrenza
e del mercato.
L’art. 9 non ha però inteso vietare la dipendenza economica, quanto il suo abuso (o uso illegittimo).
Il c.d. contraente forte non commette alcun illecito, se non esercita pressioni sull’impresa
subfornitrice approfittando della sua posizione “dominante” sul mercato e se adotta standard
contrattuali equi nel settore di riferimento. In tali casi, infatti, la legge non potrebbe mettere nulla in
discussione: facendo ciò vi sarebbe un contrato con l’art. 41 Costituzione.

Abuso di dipendenza economica e clausole vessatorie – parallelismo e divergenze:

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La disciplina sui contratti del consumatore non si applica in tutti i casi in cui le clausole siano
oggetto di trattativa individuale; la disciplina dell’abuso, invece, si applica anche a tali clausole.
Nel caso di contratti del consumatore, la valutazione di “significativo squilibrio” è supportata dalle
presunzioni analizzate, mentre nel caso di abuso l’eccessivo squilibrio deve essere valutato tenuto
conto “della reale possibilità per la parte che abbia subito l’abuso di reperire sul mercato
alternative soddisfacenti”.
Il divieto di abuso di dipendenza economica, proprio perché collegato all’abuso di diritto e alla
clausola generale di buona fede, non è solo una specificazione, bensì deve essere considerato come
istituto generale applicabile anche al di là dei casi di subfornitura.

Carta dei diritti fondamentali dei consumatori e degli utenti:


Si tratta della legge n. 281/1998 e rappresenta una vera e propria carta dei consumatori
nell’ordinamento italiano. L’art. 1 sancisce che sono riconosciuti ai consumatori e agli utenti alcuni
diritti fondamentali: tutela della salute, sicurezza e qualità dei prodotti e servizi, adeguata
informazione e corretta pubblicità.
Il diritto di informazione è specificato più degli altri; essa deve essere non solo sufficiente ma anche
completa, comprensibile e non fuorviante, nonché corretta e non ingannevole.

Contratto di multiproprietà:
La normativa è volta a tutelare i consumatori nei rapporti negoziali aventi ad oggetto l’acquisto del
diritto di godimento a tempo parziale.
I punti base della direttiva europea di riferimento (94/47/CE) sono tre:
1) Il venditore ha l’obbligo di fornire tutte le informazioni tecniche e giuridiche inerenti
l’operazione da porre in essere;
2) Possibilità per l’acquirente di recedere, anche ad nutum, dal contratto;
3) Divieto, per il venditore, di esigere dall’acquirente somme di denaro a qualsiasi titolo fino
alla scadenza del termine concesso per l’esercizio del diritto di recesso.
Per contratto di multiproprietà si intende “un contratto della durata di almeno tre anni con il quale,
verso il pagamento di un prezzo globale, si costituisce/trasferisce o si promette di
costituire/traferire, direttamente o indirettamente, un diritto reale o un altro diritto avente ad
oggetto il godimento di uno o più immobili, per un periodo determinante o determinabile dell’anno
non inferiore ad una settimana”.
I soggetti del rapporto sono:
1) Venditore: persona fisica o giuridica che, nell’ambito della sua attività professionale,
costituisce/trasferisce o promette di costituire/trasferire il diritto oggetto del contratto;
2) Acquirente: persona fisica che non agisce nell’ambito della sua attività professionale e in
favore della quale si costituisce/traferisce o promette il diritto oggetto del contratto;
3) Bene immobile: l’immobile o parte di esso, per uso di abitazione anche turistico – ricettivo,
su cui verte il diritto oggetto del contratto. A tutela del consumatore è previsto l’obbligo di
consegna di un documento informativo ad ogni persona che richiede informazioni
sull’immobile. Detto prospetto deve essere redatto per iscritto a pena di nullità.
Il codice del consumo ha recepito tale disciplina apportando alcune modifiche. La definizione di
acquirente, ora, ricalca quella di consumatore e la disciplina del prezzo ricalca quelle dei beni
culturali e del paesaggio.

Transazione commerciale – termini di pagamento:


Un decreto recente ha disciplinato la materia in termini di pagamento delle transazioni commerciali;
l’ambito oggettivo di applicazione riguarda i rapporti tra professionisti: i consumatori sono
dunque esclusi. La tutela è prestata nei confronti del creditore debole, cioè quel fornitore medio –
piccolo che interloquisce con una grande impresa ovvero con operatori che creano il monomercato.

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Precisata la finalità, è bene precisare che la maniera realizzativa di tale tutela sembra posta in
maniera tale da giovare a qualsivoglia creditore.

Commercio elettronico:
La normativa è volta ad assicurare che anche tale commercio possa beneficiare del mercato interno
mediante un regime giuridico che assicuri la protezione degli obiettivi principali di interesse
pubblico (vita privata, diritti di proprietà intellettuale, prevenzione della frode, ecc.).
L’ambito applicativo (a livello oggettivo) è segnato dalla definizione di “servizi della società
dell’informazione”: attività economiche svolte on line, con riguardo particolare a vendita di merci e
attività che sfociano nella stipulazione di contratti on line.
Dal punto di vista soggettivo, il decreto si applica a due tipologie di soggetti:
1) Destinatario del servizio: soggetto che, a scopi professionali e non, utilizzi un servizio
della società dell’informazione;
2) Prestatore del servizio: persona fisica/giuridica che presti un servizio alla società
d’informazione. Si parla anche di prestatore stabilito se vi è organizzazione temporale
continuata.
Il prestatore è destinatario di molteplici obblighi informativi; oltre a dover fornire informazioni
che lo rendano identificabile, egli, nel caso in cui si avvalga di comunicazioni commerciali, deve
fornire informazioni che siano chiare e inequivocabili.
Per quanto riguarda le informazioni dirette alla conclusione del contratto, il prestatore deve
sempre fornire in maniera chiara e inequivocabile le informazioni circa:
1) Fasi tecniche da seguire per la conclusione del contratto;
2) Modo di conclusione del contratto;
3) Mezzi tecnici a disposizione del destinatario per individuare e correggere eventuali errori;
4) Codici di condotta cui aderire;
5) Le lingue a disposizione per la fase conclusiva;
6) Indicazione degli strumenti di composizione delle controversie.

Il codice del consumo:


Emanato in Italia con il D.L. 206/2005, ha attribuito particolare rilevanza alla figura del
consumatore. Il codice utilizza la tecnica normativa delle definizioni e la sua struttura è volta ad
annoverare, nelle disposizioni normative, tutte le fasi del rapporto di consumo: sia la relazione tra
consumatore e utente, sia il nesso tra produttore di beni/servizi e i suoi intermediari.
Attenzione viene posta non solo al momento contrattuale puro (stipulazione del contratto), bensì al
momento antecedente allo stesso (informazioni ed educazione del consumatore) e al momento
successivo (garanzie circa la qualità dei beni).
Scelta importante presa dal legislatore fu quella di far confluire, all’interno del codice, le
disposizioni in tema di clausole abusive e vendita di beni di consumo.
La scelta della locuzione “Codice del consumo” indica chiaramente la volontà di riferirsi,
nell’ambito della disciplina, all’intero atto di consumo. La scelta di un codice fu infatti scelta
obbligata alla luce delle precedente e frammentaria normativa di settore.
CONSUMATORE: il codice fornisce una definizione avente portata generale; è consumatore o
utente “la persona fisica che agisce per scopi estranei all’attività imprenditoriale o professionale
eventualmente svolta”. Da tale definizione è possibile individuare i caratteri tipici che un
consumatore deve possedere (essere persona fisica e non giuridica, scopi non
imprenditoriali/professionali bensì personali). La nozione de qua coincide con il concetto di
soggetto attivo del rapporto contrattuale, ma anche di soggetto passivo destinatario di informazioni
e messaggi pubblicitari, nonché potenziale vittima di danni.
La tutela offerta si concretizza in una garanzia la consumatore in tutte le fasi del processo di
acquisto, da quelle prettamente contrattuali (volte alla stipulazione) a quelle prodromiche alla
conclusione dello stesso. La quarta parte del Codice vede un riferimento a ciò che avviene proprio
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dopo il perfezionamento dell’atto, imponendo norme sulla sicurezza e qualità dei beni e servizi
acquisiti e fruiti dai consumatori e dagli utenti.
Un elemento importante per individuare il consumatore è lo scopo dell’agire: l’atto del consumo
deve avvenire solo per il soddisfacimento di bisogni privati.
La teoria della destinazione oggettiva del bene/servizio serve per annoverare l’atto di consumo
compiuto dal consumatore nella disciplina codicistica; è necessario tener conto della natura delle
finalità obiettive dell’atto e dei beni o servizi negoziati, l’intenzione soggettiva dell’agente che pone
in essere l’attività.
Il Codice esamina l’intero processo consumieristico e quindi anche le fasi antecedenti e successive
al contratto. Lo sviluppo economico, oggi, deve far fronte a bisogni sempre variabili dei
consumatori; proprio per questo, sono molte le tecniche sviluppatesi volte ad influire sulla volontà
stessa dei consumatori per incidere, in maniera determinante, sulle loro scelte. Il Codice, per
disciplinare tale delicato ambito, presta una particolare attenzione ad elementi quali:
1) Educazione: solo un’adeguata educazione fornisce al consumatore gli strumenti tecnici che
permettono di elaborare le informazioni disponibili;
2) Informazione: il diritto del consumatore a ricevere tutte le informazioni necessarie per poter
formulare la propria domanda all’interno del mercato.

Codice del consumo – informazioni al consumatore:


la regolamentazione dell’informazione eleva a diritto del consumatore la conoscenza in merito a
beni e servizi; sono individuati tre tipi di informazioni:
1) Informazioni generali: quelle che devono essere fornite indipendentemente dal tipo di
prodotto;
2) Informazioni minime: in caso di assenza di specifica disciplina ovvero di lacune, tutti i
beni/servizi prodotti e commercializzati nel nostro Stato devono recare sulla confezione e in
lingua italiana la denominazione, la categoria, il produttore, l’origine, i materia impiegati,
ecc.
3) Informazioni particolari: per specifici prodotti o per particolari modalità di distribuzione
(esempio: carburanti) sono necessarie delle informazioni che agevolino il rapporto tra
prezzi; si palesa così la necessità di indicare contemporaneamente il prezzo di vendita del
prodotto e il prezzo dello stesso per unità di misura.

Inderogabilità del Codice:


l’art. 143 statuisce che l’utente non possa in alcun modo rinunziare ai diritti attribuiti dalla
disciplina di settore. La norma ha natura imperativa e si caratterizza per la sua inderogabilità.

Capitolo III

L’ACCORDO

L’accordo e il contratto – la dichiarazione di volontà:


È il primo dei requisiti indicati dall’art. 1325 c.c., con ciò indicandosi la classica unitaria volontà
contrattuale frutto dell’accordo delle parti.
Inserire l’accordo tra gli elementi essenziali ha creato non poche perplessità. Parte della dottrina,
guidata dal noto Santoro Passarelli, si muove nella direzione opposta rispetto a questo inserimento
negli elementi de qua, considerando, piuttosto, che l’accordo delle parti, così come la volontà
complessiva, rappresenti il contratto in sé, non potendo essere ridotto a mero elemento dello
stesso.
L’immedesimazione tra contratto – accordo la si evince dalla stessa formula che suole definire
l’atto negoziale come “dichiarazione di volontà” (come affermò lo stesso Savigny).
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Su tale visione convergono sia coloro che vedono l’essenza del contratto sulla volontà degli autori,
sia coloro che privilegiano, invece, il momento della esternazione. Quest’ultimi fanno prevalere la
considerazione del valore che ha la dichiarazione secondo il modo di intenderla del destinatario (si
tratta delle teorie oggettive – G.B. Ferri afferma che il dogma della volontà non è sempre
sufficiente a spiegare i negozi che presentano un distacco fra volontà e precetto, come i negozi
mortis causa).

Teorie oggettive e la tutela dell’affidamento:


Tali teorie considerano comunque che oggetto di valutazione è e rimane una dichiarazione di
volontà. Occorre volgere lo sguardo a quelle concezioni che pongono l’accento sulla funzione
precettiva/normativa dell’atto di autonomia.

L. FERRI: muovendo dalla definizione di contratto ex art. 1321 c.c., sottolinea come l’uso del
verbo “regolare” e l’espressione “accordo di due o più parti…” rispecchi l’opinione che la volontà
soggettiva dei contraenti sia requisito immancabile. Il contratto, però, può anche essere concluso in
contrasto con la volontà interna e gli effetti possono prodursi anche se ignorati o non voluti
concretamente.
Il contratto è fatto: di esso si può dire che è accaduto o che è avvenuto. A livello di contenuto,
invece, il contratto è norma e come tale entra in vigore, ma può essere “abrogato”, cioè eliminato
o cancellato: la risoluzione del contratto non è eliminazione del fatto (il contratto c’è stato) ma è
eliminazione della norma e del vincolo.

E. BETTI: tentò di conciliare l’idea della volontà negoziale come valore con quella del negozio
come fatto/oggetto di valutazione. Grazie all’A. abbiamo la formulazione del concetto di negozio
giuridico quale atto di autonomia privata, dovendosi intendere quest’ultima non come valore, né
tantomeno come mero fatto. L’autonomia de qua è un valore tra i valori.

G.B. FERRI: afferma che l’accordo delle parti è comunque il fondamento logico di ogni
operazione contrattuale ed è anche espressione della volontà di far proprio un regolamento di
interessi. L’A., criticando proprio Betti, afferma che il contratto sembra non coincidere con
l’accordo e quindi non potrebbe essere definito tale.
Si ha contratto quando si giunge all’accordo su tutti i punti presi in considerazione; se l’accordo sui
singoli punti non è espressione dell’animus contrahendi, non sarà sufficiente alla conclusione del
contratto. Il semplice accordo su tutti i punti non è sempre sufficiente per la validità del contratto; le
ipotesi tipiche sono due:
1) I punti sui quali si è d’accordo sono sufficienti: il contratto si stipula;
2) Difetto di qualche elemento essenziale: può entrare in gioco una norma suppletiva ma, in
mancanza, le lacune potrebbero rendere il contratto incompleto e quindi invalido.
Gli elementi essenziali del contratto, dunque, sono determinanti non per
quanto riguarda la formazione dello stesso, ma per la sua validità.

La crisi del consensualismo:


Il grande merito delle teorie oggettive/precettive è quello di aver dato la giusta dimensione al ruolo
del consenso della parti in tema di contratti: non sempre la produzione dell’effetto nella sfera
giuridica delle parti è legata al consenso espresso (specialmente in quella che lo subisce).
Anche alla luce di ciò, occorre prendere atto che consenso e accordo, nella loro tradizionale
accezione, muovono da un’ipotesi di “parità tra parti” che sempre meno si può cogliere nelle
odierne dinamiche economiche: le parti dello scambio, infatti, non si muovono su piani paralleli a
causa delle c.d. asimmetrie. Un primo tipo di asimmetria è dovuto allo stesso mercato: gli abusi
di dipendenza economica tra imprenditori e la debolezza dei consumatori sono sintomatici.

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N. IRTI: secondo l’autore, all’accordo non può che mettere capo il dialogo tra le parti.
L’accordo, in sostanza, si ha solo tra decisioni espresse ed esternate: l’esternazione diviene vero e
proprio elemento essenziale dell’accordo. In alcuni casi, però, oltre all’accordo, serve il requisito
della forma: il modo di esternazione non giace più all’interno dell’accordo ma è reso esplicito;
serve che ogni parte renda conoscibile la propria decisione attraverso l’esternazione come “forma”
di espressione.
Lo scambio si trova così ad avere nel dialogo tra le parti il luogo promiscuo in cui nascere e
formarsi; la bilateralità del contratto indica proprio una reciprocità dialogica.
Tutto cambia laddove si giunga alla stipulazione mediante moduli e formulari, che altro non sono
che strumenti/modalità precostituite di accordo. Le parti, in tali casi, rifiutano e negano il dialogo
e l’accordo è tutto nell’unilaterale predisposizione del testo scritto e nell’adesione. Pensiamo anche
agli scambi che avvengono per via telematica: i soggetti dello scambio non dialogano più e vi è
una sorta di meccanica ritualità che annulla qualsiasi attrito psicologico.
In definitiva, per l’A. può ben dirsi che il destino del linguaggio si esaurisce con gli scambi
individuali e con l’accordo dialogico dove, allo scomparire della parola, fa fronte il proliferare di
scambi razionali. La dimensione degli interessi sottesi agli scambi non riesce più a sostenere la
“mutevole ed ambigua soggettiva del dialogo” tra uomini; ciò che sopravvive è solo la “pura
oggettività di cose, immagine, gesti anonimi e ripetitivi”.
G. OPPO: egli reagì alla critica irtiana non accettando l’idea dell’annullamento oggettivo della
volontà/libertà del contraente. Oppo cercò di spiegare perché alcuni meccanismi siano comunque
riconducibili alla dimensione dell’accordo.
L’A., partendo dall’art. 1321 e dall’inciso “il contratto è accordo…”, ritiene che esso non richiede
sempre il dialogo, come si evince anche dallo stesso art. 1327 (contratto concluso mediante inizio
dell’esecuzione) e dall’art. 1333 (contratto con obbligazioni solo per il proponente). In entrambi i
casi, infatti, dei comportamenti strutturalmente differenti dal meccanismo previsto dall’art. 1326
sono comunque idonei a garantire adesione alla proposta contrattuale.
Anche gli accordi conclusi mediante moduli e formulari convergono comunque in un accordo in
quanto, tra chi propone e chi aderisce, c’è un incontro di decisioni.

In definitiva, l’attenzione deve essere rivolta alla questione se l’effetto modificativo della realtà
sostanziale è realmente e totalmente rinvenibile nel consenso di colui nella cui sfera giuridica gli
effetti si producono.

Accordo e regolamento di interessi – la bilateralità e il dogma consensualistico:


Per comprendere lo spazio effettivo che rimane all’accordo tra le parti, è bene distinguere i tre
momenti in relazione ai quali il concetto assume rilievo:
1) Procedimento di formazione;
2) Fattispecie;
3) Regolamento di interessi.
Il concetto di bilateralità ex art 1321 ci impone di chiederci se il rapporto tra bilateralità e accordo
sia tale da rendere la prima necessaria al secondo, cioè coessenziale ad uno dei tre momenti.
Seguendo la prospettiva che vede la teoria negoziale ruotare intorno alla dialettica fatto – valore,
sembra scontato come i primi due momenti attengono all’area del fatto, mentre il terzo a quella del
valore.
Alla luce di ciò, la bilateralità non è coessenziale al momento formativo, né tantomeno alla
fattispecie.
Non resta che rilevare la coessenzialità del requisito della bilateralità al regolamento: al
contratto non è essenziale la pluralità di parti delle fattispecie, bensì la pluralità di parti del
regolamento; l’essenza del contratto è sita in una dimensione diversa da quella in cui si collocano
le manifestazioni di volontà delle parti.
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L’accordo (o il consenso) non costituisce un requisito indefettibile del contratto.
Tra le cause che hanno finora impedito il distacco dal dogma consensualistico vi è l’aforisma
“solus consensus obligat”, completamente travisato nella sua traduzione. Il significato originario di
quest’ultimo è rinvenibile nel concetto che il consenso va inteso come volontà in sé sufficiente a
vincolare giuridicamente; a causa della pandettistica, però, vi è stato il menzionato travisamento
concettuale e interpretativo.
La vera bilateralità del contratto non risiede nel consenso, quanto nella riferibilità dell’assetto di
interessi ad almeno due parti: la fonte della vincolatività del contratto non è dunque l’accordo.

Obblighi di informazione e trasparenza nella fase precontrattuale:


Recentemente, parte della dottrina ha tentato di restituire al consenso parte del suo precedente
valore, mediante un richiamo alle molte norme comunitarie che impongono obblighi di
informazione nella fase precontrattuale.
Concetto ridondante diviene quello di “trasparenza”, che, in tale contesto, diviene strumento per
perseguire l’obiettivo di rimuovere le asimmetrie senza mortificare la libertà dei contraenti con
interventi invasivi.
Il tentativo è quello di ridurre le asimmetria mediante l’imposizione al contraente “forte” di alcuni
obblighi in sede di contrattazione: lo scambio obbligato di informazioni andrebbe così a
sopperire alla mancanza di dialogo di cui si è discusso nei paragrafi precedenti.
La tutela del consumatore diviene così non tanto fine della normativa, quanto mezzo per rendere
corretto il funzionamento del mercato concorrenziale.

LA CAUSA

È annoverata negli elementi contrattuali essenziali dell’art. 1325 c.c. ed è da sempre al centro di
accesi dibattiti circa la sua necessarietà, i suoi confini e il suo ruolo nel controllo giudiziale dei
contratti.
Originariamente, la concezione italiana di causa (cod. civ. 1865) ricalcava la nozione contenuta nel
Code Napoleon, cioè causa come elemento fondamentale delle obbligazioni. Il codice italiano,
infatti, escludeva che potesse avere effetto “l’obbligazione senza causa o fondata sopra una causa
falsa o illecita”.
Il nuovo codice civile, con l’introduzione del principio consensualistico, ha rivoluzionato il
sistema contrattuale e la causa, a differenza del passato, ora è elemento essenziale del contratto (e
non solo delle obbligazioni); tant’è vero che il contratto senza causa o con causa illecita è nullo.

Teorie soggettive e oggettive:


Le concezioni soggettive identificano la causa nello scopo che spinge i soggetti a concludere il
contratto. Vi è un’esaltazione dell’elemento psicologico e si riconosce molta importanza alla
volontà, che appare direttamente collegata alla produzione dell’effetto giuridico.
All’alba dell’era consensualistica, però, ci si è mossi verso il rifiuto della concezione meramente
obbligatoria del contratto e, proprio in tale momento, inizia a diffondersi l’idea, nella teoria della
causa, della funzione (o ragione) economico – giuridica del negozio.
Il termine “funzione” si riferisce al significato giuridico del negozio, la sintesi degli effetti
essenziali dello stesso; da essa è possibile risalire agli interessi concreti che l’operazione è diretta a
realizzare.

E. BETTI: notevole il suo ruolo nella formulazione del concetto di funzione. Per l’A. in ogni
negozio si può individuare una ragione pratica ad esso immanente che deve rispondere ad un
interesse oggettivo e socialmente controllabile. Il potere di autonomia non può mai essere esercitato
in contrasto con la funzione sociale cui è destinato, dovendo sempre sussistere un interesse
oggettivo socialmente apprezzabile.
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Colta nella sua dimensione dinamica e funzionale, la causa si distacca completamente dagli altri
elementi costitutivi del contratto. Si giunge così alla più compiuta formulazione della teoria
oggettiva: la causa diviene la ragione stessa per la quale l’ordinamento può riconoscere rilevanza
giuridica al contratto.

Dalla funzione economico – sociale alla funzione economico – individuale:


G.B. FERRI: prestò il più notevole contributo alla correzione della teoria della funzione
economico – sociale; egli partì dal presupposto di una netta presa di distanza dall’idea che l’attività
dei privati meriti tutela solo se volta alla realizzazione di interessi socialmente apprezzabili.
Nel negozio giuridico sono presenti sia profili soggettivi che oggettivi. La causa, più che elemento
del contratto in una concezione codicistica (1325 c.c.), rappresenta il momento di insieme
attraverso il quale il negozio palesa l’assetto di interessi divisato dai contraenti.
La causa è così definita funzione economico – individuale inducendo l’interprete ad aver riguardo
alla singola operazione negoziale e ai concreti interessi delle parti.

La causa è dunque chiamata a svolgere un ruolo di coordinamento dell’intera operazione economica


che si esprime nel negozio, identificandosi con la funzione che ha il negozio per le parti.
Causa e tipo contrattuale:
Uno dei principali rischi dell’idea di causa come funzione economico – sociale vi è per quanto
riguarda la contaminazione tra il concetto di causa e il concetto di tipo. Il tipo contrattuale altro
non è che l’astratto schema regolamentare che racchiude la descrittiva dell’operazione posta in
essere dai privati; come vediamo, è concettualmente diversa dalla causa.
Una compenetrazione tra causa e tipo potrebbe pretermettere l’analisi del contesto economico
specifico che le parti hanno presente ed in cui operano nel dare un concreto assetto ai propri
interessi. Il rischio veramente notevole è che l’indagine circa la liceità degli atti negoziali privati si
esaurisca alla mera corrispondenza ai modelli tipizzati predisposti dal legislatore.
Tra i vari tipi contrattuali rinveniamo:
1) Tipi legali: posti dal legislatore stesso;
2) Tipi sociali: modelli standardizzati dalla prassi non ancora recepiti dall’ordinamento.
L’art. 1322 c.c. prevede che i privati possano stipulare contratti c.d. innominati, cioè non
riconducibili ai tipi legali, purché ritenuti “meritevoli di tutela secondo l’ordinamento giuridico”. I
contratti innominati possono essere ricondotti, a loro volta, in due categorie:
1) Contratti atipici tout court;
2) Contratti appartenenti a tipi sociali di cui sopra.
In entrambi i casi, il cit. 1322 prevede la necessità di un giudizio di meritevolezza dell’interesse
che con essi si intende soddisfare, ovvero di compatibilità rispetto ai fini che l’ordinamento è
disposto a tutelare.
In definitiva, il tipo riguarda la struttura dell’atto e richiama la possibilità che i privati attingano a
modelli precostituiti ovvero atipici; la causa attiene all’interesse, meritevole di tutela per
l’ordinamento, che le parti perseguono.

Giudizio di meritevolezza e giudizio di liceità – differenze:


Un contratto che rientra in uno schema legale, sia per quanto riguarda la struttura, sia per quanto
riguarda gli effetti, non è detto che sia sempre ritenuto meritevole di tutela dall’ordinamento. Da un
altro punto di vista, non si può affermare che l’utilizzo dello schema tipico valga come una
sorta di presunzione di liceità e meritevolezza.
Ciò che bisogna sempre considerare è che le parti, pur scegliendo di seguire un modello tipico
astratto (previsto dal legislatore), perseguono sempre e comunque delle proprie finalità che, in
quanto tali, non sono previste dall’ordinamento nella tipizzazione. La tipicità può al massimo far
presumere una positiva valutazione dell’operazione economica.
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L’indagine è dunque diversa per causa e tipo:
1) L’indagine sul tipo ha caratteri di astrattezza e staticità: si verifica che vi sia
corrispondenza tra lo schema astratto e quello concreto posto in essere dai privati;
2) L’indagine sulla causa ha natura concreta e dinamica: è rivolta alla liceità e
meritevolezza dell’operazione economica vista nella sua complessità, comprensiva di tutti
gli aspetti soggettivi e oggettivi.
Proprio a questo proposito è stato postulato il concetto di “causa concreta”, intendendo con essa
l’interesse o il complesso di interessi concretamente alla base dell’operazione economica.
I due giudizi de quo sono del tutto diversi tra loro:
1) Art. 1322 c.c.: giudizio di meritevolezza: consente di valutare se l’operazione economica
oggetto di valutazione non infranga i limiti che l’ordine giuridico e le norme proibitive
pongono allo spazio proprio e riconosciuto all’autonomia privata. Nulla dice, però, circa la
conformità delle finalità perseguite dai privati (guarda, insomma, alla bontà del contratto
posto in essere).
2) Art. 1343 c.c.; giudizio di liceità della causa: svela eventuali contrasti che il negozio
presenta rispetto al diritto. Il contratto, o, più che altro, la volontà dei contraenti insita nella
causa, non deve essere contraria alle norme imperative, all’ordine pubblico e al buon
costume.
La strada da seguire è quella che vede nel criterio della meritevolezza un criterio nuovo e
diverso rispetto a quello di liceità; non appaiono condivisibili le tesi di coloro che vedono una
coincidenza concettuale tra le due, rischiando così di allargare a dismisura il ruolo della causa fino a
farle assorbire tutti gli altri elementi del contratto.

Giudizio di meritevolezza e controllo dell’autonomia privata:


Individuato cosa si intenda per giudizio di meritevolezza, resta da capire se con lo stesso si ponga
un vero e proprio controllo dell’autonomia privata.
Intendere la meritevolezza nell’ordinamento italiano vuol dire esaminare il negozio in termini di
coerenza con i valori sottesi alle fonti gerarchicamente sovraordinate. All’apice assoluto dei
valori sui quali si esprime la meritevolezza vi sono, senza dubbio, le primarie e indifferibili
esigenze dell’uomo (in una logica di depatrimonializzazione dei rapporti civili).

Focus – art. 2645 ter c.c.:


Sul controllo all’autonomia privata di cui si è discusso è intervenuto prepotentemente un dibattito
circa questo recente articolo introdotto nel codice civile. Pur trattandosi di un articolo sul regime di
pubblicità degli atti, esso delinea una nuova figura di negozio con la funzione di costituire un
vincolo di scopo su un patrimonio. La norma, affermando che i privati possono costituire vincoli di
destinazione anche con strumenti atipici, mostra quasi come la legge non abbia più alcun bisogno
di tipizzare la fattispecie, di individuarne struttura e funzione sociale.
Da ciò, dunque, si giunge a pensare che la finalità de qua può essere raggiunta con le strutture più
svariate e a qualsivoglia titolo. L’atto di destinazione non ha una causa tipica propria, ma è
strumento atipico apprezzato socialmente laddove realizzi interessi meritevoli. Si ha un’altra prova
che il giudizio di meritevolezza (art. 1322) e valutazione della causa (1343) sono operazioni
diverse.
Parte della dottrina tende però a confondere l’immeritevolezza con l’assenza di liceità (i
sostenitori affermano che la stessa Cassazione avrebbe “finito per abbandonare il requisito
autonomo della meritevolezza e per dichiarare meritevole tutto ciò che non è contrario alle norme
imperative, ord. Pubblico e buon costume”); in realtà, non mancano i casi nei quali la Cassazione
ha riconosciuto la nullità di un contratto innominato per immeritevolezza, pur qualificandolo
come lecito (quindi non contrario a norme imp., ord. Pubbl. e buon costume).
Analizzando tale articolo notiamo come la meritevolezza deve significare rispetto dell’assiologia
dell’ordinamento. Beneficiari dell’atto di destinazione possono essere disabili, p.a. ma anche tutti
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gli enti e le persone fisiche a condizione che l’interesse per la realizzazione del vincolo sia riferibile
ai disabili o alle p.a., nonché sia non lucrativo e socialmente/moralmente apprezzabile.

Soluzioni europee:
Nei Principi dei contratti commerciali internazionali, elaborati dall’Unidroit, e nei Principles of
European Contract Law, per l’individuazione dei requisiti essenziali del contratto non si fa
menzione della causa. La scelta è consapevole ed è giustificata dall’esigenza di elaborare una
nozione di contratto che prescinda sia dalla causa, sia dalla consideration di matrice
anglosassone.
Da ciò si evince come sia ipotizzabile un nuovo diritto dei contratti con tecniche di controllo
dell’autonomia privata a prescindere da concetti come quello di causa e dai suoi sostrati culturali.

L’OGGETTO

Molte teorie tendono ad identificare l’oggetto con il bene, inteso come “materia di trasferimento, di
godimento e simile”. La nozione serve allora ad identificare come “oggetto” ciò su cui si riflette
l’azione delle parti a seguito della contrattazione (in termini attivi di oggetto del diritto; in
termini passivi di oggetto dell’obbligo).
La nozione deve essere tratta dagli artt. 1325 e 1429 c.c. e distinta da quella di oggetto delle
obbligazioni.
La concezione de qua è oggi distante dalla precedente impostazione materialistica; si è giunti ad una
soluzione volta ad identificare l’oggetto col bene non solo materiale.

G.B. FERRI: serve una nozione unitaria di oggetto, riferibile alle situazioni soggettive ma anche
all’autonomia privata. L’accezione di bene non è limitata alle categorie ex art. 810 c.c., ma è da
riferire ad una categoria che comprenda oltre alle cose in senso tradizionale, anche ogni altro
valore o utilità intesi come punto di riferimento oggettivo degli interessi autoregolamentati
(quindi delle parti).

Oggetto e prestazione, obbligazione ovvero trasferimento del diritto:


Alcune teorie individuano l’oggetto nell’obbligazione che un soggetto assume nei confronti
dell’altro. Tale impostazione, però, è stata censurata in quanto non funzionale all’antica questione o
necessità di fornire un’interpretazione unitaria o universale.
Altre teorie si concentrano sull’identificazione dell’oggetto col bene alla luce della problematica del
consenso traslativo e dei contratti ad efficacia reale. In quest’ultimi, infatti, il trasferimento si ha
col semplice consenso, al di là della condotta delle parti.
Ancora. Altre teorie individuano nel termine oggetto “l’insieme dei fatti, delle modifiche materiali e
degli effetti giuridici che costituiscono il paradigma contrattuale o, in altri termini, l’insieme dei
risultati finali che il contratto tende a realizzare”. Per oggetto andrebbero intesi i risultati
programmati. Anche tale teoria deve essere censurata in quanto, i medesimi risultati in discorso,
non rappresentano materia su cui cade l’accordo delle parti, bensì i tipi di effetto prodotti dal
negozio come “risposta” da parte dell’ordinamento.

Oggetto attratto nel contenuto:


Dalla visione dell’oggetto come insieme dei risultati programmati matura la teoria che fa coincidere
la nozione di oggetto con quella di interesse (BETTI: preferibile parlare di interessi anziché beni
in quanto gli interessi vengono valutati sempre con riferimento ai soggetti e con riguardo alla loro
specifica attitudine a soddisfare i bisogni), cogliendo la sua idoneità a soddisfare i bisogni dei
soggetti. Materie e oggetto del negozio sono da considerarsi gli interessi che comportino di essere
regolati direttamente per opera degli stessi interessati.

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In tale ottica, il termine esterno del negozio (il “bene” in sé) si inserisce nel contenuto negoziale.
L’oggetto diviene così non il bene, ma il meccanismo che attrae quest’ultimo nell’atto.

Oggetto ed effetti del contratto:


È ancora utile tenere ben distinta la distinzione concettuale tra le nozioni di contenuto, oggetto,
causa ed effetti del negozio.
Il termine oggetto designa ciò che mette in collegamento il negozio (che si trova su un piano
astratto, cioè quello giuridico) con la situazione di fatto, con la realtà materiale sulla quale gli
effetti si produrranno. La realtà de qua, ed in ciò si ravvisa la netta distinzione, è esistente da sé e
non potrà mai essere intaccata da un’eventuale assenza di riconoscimento del negozio per mancanze
strutturali. Il mancato riconoscimento di un negozio, infatti, ne inficia solo la produzione di
effetti, che, a differenza dell’oggetto, hanno a che fare solo con la dimensione giuridica dell’atto.
Come vediamo, oggetto ed effetti si muovono su due piani diversi.
Nel nostro ordinamento non è il negozio a determinare i mutamenti della realtà con cui entra in
contatto; esso si pone come vicenda storica, come fatto, al quale può sì seguire un prodursi di
effetti, ma solo a seguito di una positiva valutazione da parte dell’ordinamento, che è l’unico
“soggetto” in grado di stabilire se la realtà possa essere mutata dal negozio stesso.
Per contenuto dell’atto va quindi inteso il contratto stesso, l’id su cui cade e si forma il
consenso. L’oggetto, da intendersi come elemento essenziale e autonomo del contratto, fa parte del
contenuto del contratto ma è diverso. Il contenuto, infatti, riguarda tanto gli elementi essenziali,
quanto quelli accidentali.
Ruolo essenziale assume la descrittiva negoziale in termini di produzione degli effetti giuridici.
All’interno della descrittiva delle parti si possono trovare le indicazioni atte a individuare la realtà
su cui si vuole incidere, le indicazioni atte a rappresentare l’azione delle parti, le modalità precise di
tale azione, ecc.
L’oggetto sembra consistere nella descrittiva della realtà materiale sulla quale si produrranno i
mutamenti voluti. Il negozio descriverà uno o più dati e li designerà come contenuto dell’effetto. In
questo va individuato l’oggetto del negozio e, a questa stregua, il destinatario della disposizione
unilaterale non è soggetto ma termine di svolgimento dell’effetto, dunque parte dell’oggetto.

Ulteriori precisazioni:
La causa del negozio può essere desunta dalla descrittiva delle prestazioni analizzata da un
punto di vista funzionale. Proprio da ciò è possibile ribadire, ancora una volta, la differenza tra
oggetto e causa: l’ordinamento valuta la prestazione esclusivamente in termini di liceità e
possibilità. La singola prestazione riceverà la funzione e la causa in seno al contratto nel quale sarà
inserita; ad esempio: la costituzione di usufrutto adempirà ad una funzione di scambio, se l’altra
parte si addosserà una prestazione di qualsiasi tipo, a sua volta; ovvero sarà a titolo gratuito se
darà effettuata animo donandi.
L’oggetto, così inteso, è solo parte del contenuto.

Illiceità:
Dalla disciplina de qua è possibile trarre alcuni tratti importanti circa la differenza tra causa e
oggetto. Il legislatore ha dettato una disciplina per l’illiceità dell’oggetto e una disciplina per
l’illiceità della causa. In dottrina, alla luce di ciò, si sono sviluppati tre indirizzi:
1) Sostenitori della impossibilità di parlare di illiceità dell’oggetto se lo stesso è inteso come
bene. Ogni riflessione sull’illiceità può riguardare solo la causa;
2) Sostenitori della tesi secondo la quale l’illiceità riguardi il contenuto in sé del contratto,
quindi vi è fusione tra causa e oggetto;
3) Coloro che postulano diversi tipi di illiceità e una distinzione tra causa e oggetto.

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La giurisprudenza, però, offre una distinzione tra le due illiceità. Tra gli esempi più classici di
illiceità dell’oggetto troviamo:
1) Illiceità oggetto nel caso di trasferimento di un bene indisponibile in forza di una norma
imperativa (c.d. beni extra commercium);
2) Illiceità oggetto nel caso di appalto con assunzione, all’interno del contratto, dell’obbligo di
eseguire l’opera senza autorizzazioni urbanistiche necessarie.
Entrambe le violazioni non hanno nulla a che vedere con il profilo funzionale dell’atto. Nel caso 1),
la circolazione di un bene extra commercium, ad esempio, è proibita da norme inderogabili, sia che
avvenga a titolo gratuito, sia che si realizzi dietro corrispettivo.
Le condotte in discorso sono carenti del requisito della liceità dell’oggetto, a prescindere dalla
direzione che le parti decidono di imprimere ai loro interessi (la funzione, dunque).
A prescindere dagli scopi a cui l’agire è finalizzato, (le parti non possono dar vita ad un
contratto in cui s’impegnano a porre in essere una condotta, dal POV dell’oggetto, priva dei
requisiti prescritti dalla legge esempio: vendita rene: NO; donazione rene: SI)

LA FORMA

L’art. 1325 menziona la forma del contratto come requisito che, in alcuni casi, è previsto ex lege a
pena di nullità del contratto stesso. La “forma” indica il mezzo scelto dalle parti per esternare il
contratto a livello oggettivo; tale mezzo diviene autonomo requisito del contratto ogni volta che il
medesimo deve essere consegnato ad un documento (atto pubblico – scrittura privata).
Proprio grazie alle teorie della Pandettistica, che cercò di liberare le attività economiche da vincoli
formalistici troppo stringenti, oggi possiamo dire che il nostro ordinamento è retto dal c.d.
principio di libertà delle forme. Tale principio, secondo la dottrina, lo si può trarre anche
dallo stesso art. 1325, che, infatti, rende libere le parti, sempre in tema di forma, in assenza di
particolari prescrizioni formali.
A partire dal principio de qua è possibile individuare i due principali aspetti che lo caratterizzano:
1) Eccezionalità di tutte le norme che prescrivono forme legali per la validità dei negozi;
2) Inderogabilità delle norme eccezionali sulla forma: esse sono imperative e provocano la
nullità del negozio in caso di violazione.
Tali assunti, comunque, partono dal presupposto di essere comunque subordinati al “valore
negozio” quale espressione di libertà per antonomasia (autonomia negoziale).
Quanto detto, letto alla luce del nostro assetto Costituzionale, considerata la presenza di norme
eccezionali inderogabili, che, è bene ricordarlo, sono volte a garantire la sicurezza e serietà degli
scambi, ci spinge ad affermare che la libertà delle forme non è vero e proprio principio del
nostro ordinamento.

Principio di libertà delle forme e le strutture dell’atto negoziale:


La critica al principio citato (c.d. critica agli idola libertatis) è basata su varie argomentazioni. In
primo luogo, l’art. 1325, n.4, non costituisce norma generale dalla quale possa desumersi, a
seguito di comparazione, una conclusione positiva circa l’eccezionalità delle norme che prescrivono
una data forma del contratto. Solo se il 1325 avesse carattere generale (avendosi, così, una vera e
propria positivizzazione del principio di libertà) potrebbe giungersi a considerare come eccezionali
norme che, prescrivendo oneri formali, derogherebbero allo stesso 1325.
L’art. 1325 delinea quindi due strutture contrattuali:
1) Struttura debole: integrata da tre elementi, cioè accordo, causa e oggetto;
2) Struttura forte: integrata da quattro elementi, cioè accordo, causa, oggetto e forma.

Punto di vista funzionale – forma in funzione di garanzia:

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Oltre all’analisi strutturale è preferibile analizzare la forma anche dal punto di vista funzionale; ogni
forma negoziale ha, infatti, la sua peculiare funzione. Da tale impostazione deriva il rifiuto di ogni
giudizio aprioristico in ordina all’eccezionalità o regolarità delle prescrizioni formali: l’analisi deve
esser posta caso per caso (PERLINGIERI).
Innanzitutto, le stesse norme “vincolanti” a livello formale non si sottraggono ad una valutazione
circa la loro conformità, adeguatezza e meritevolezza. Piuttosto che chiedersi, inizialmente, se
interpretare tali norme in maniera estensiva/restrittiva, occorre essere analizzate così da
individuarne il vero ruolo, per poi giungere all’estensione o alla restrizione, che, dunque, saranno
risultato dell’interpretazione e non modo per interpretare le regole.
Il vincolo formale è quindi “mezzo ad un fine”; la forma si atteggia così a garanzia e si pone al
servizio di valori e interessi sovraordinati.
Esempio di quanto detto finora è l’art. 1341 c.c. in tema di clausole vessatorie: l’articolo in esame
prevede la necessità di una specifica approvazione iscritta in presenza di tali clausole. La forma
scritta ad substantiam sarà richiesta ogni volta in cui vi sia la necessità (la ratio) della tutela del
contraente debole.

Ritorno al formalismo?
Le varie fonti di matrice comunitaria hanno portato ad una sorta di neoformalismo o di ritorno al
formalismo; il tutto è strettamente connesso al nuovo concetto di trasparenza nelle contrattazioni.
La forma diviene così garanzia di una corretta comunicazione tra le parti e di consenso informato, il
tutto col fine di rendere efficiente il funzionamento del mercato concorrenziale.

CAPITOLO IV

Consenso ed effetti – principio di relatività degli effetti:


La crisi del consensualismo porta inevitabilmente a considerare le ipotesi di rivisitazione del
dogma della relatività degli effetti del contratto. Tale assioma sarebbe contenuto e positivizzato
nell’art. 1372 c.c., che prevede come il contratto possa produrre effetti solo verso i soggetti che,
mediante il loro consenso, hanno contribuito alla formazione dell’autoregolamento. Solo in alcuni
casi tassativi, però, tale principio può essere derogato.
Al di là dei casi eccezionali, però, varie ipotesi hanno messo in discussione tale disposizione; prima
fra tutte, le ipotesi di negozio a favore di terzo. Nell’ordinamento, infatti, sempre più vi sono
ipotesi di strumenti negoziali che svolgono efficacia diretta su sfere giuridiche di soggetti che non
hanno partecipato attivamente alla formazione della regola.
Altre due ipotesi particolari sono quelle della successione legale nel contratto e la fattispecie di
cessione del contratto.
CESSIONE CONTRATTO: nell’ambito della cessione, la questione è incentrata sulla necessità o
meno che il contraente ceduto (che “subisce” la cessione) partecipi al negozio di cessione
mediante il proprio consenso. In dottrina vi è chi sostiene un ruolo costitutivo a tale consenso, ma
anche chi lo intende come semplice condizione legale di efficacia. Nel negozio di cessione
coesistono due schemi:
1) Accollo di debiti;
2) Cessione di crediti.
Il consenso del contraente ceduto può essere necessario solo per il prodursi dell’effetto privativo,
non anche per una cessione ad efficacia soltanto cumulativa. Da qui la conclusione della generale
efficacia autonoma del negozio bilaterale di cessione (tra cedente e cessionario), con esclusione
di necessità del consenso del ceduto e conseguente ridimensionamento del dogma della
relatività.
SUCCESSIONE: sia che avvenga mortis causa, sia che a seguito di atto inter vivos, la successione
comporta un mutamento della titolarità del rapporto.

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SUCCESSIONE MORTIS CAUSA: il favor dell’ordinamento è volto alla continuazione dei
rapporti oltre la vita dell’originario titolare/de cuius; tale aspetto, però, non è fondato né su una
sorta di consenso generale dell’erede (consenso dovuto all’essere erede, praticamente), né ad una
sorta di identificazione dell’erede come “continuatore della persona” del defunto.
In realtà, pensando al testamento, ci si rende conto come sia espressione piena di un potere
conformativo eteronomo per vari motivi:
1) L’accettazione dell’eredità non è accettazione del testamento;
2) Il chiamato, accettando il testamento, non accetta automaticamente tutte le regole
contrattuali nelle quali subentrerà;
3) L’accettazione può prescindere dalla conoscenza/esistenza/contenuto del testamento: l’erede
può subentrare suo malgrado in talune situazioni;
4) L’accettazione è valida anche se l’erede ignori l’esistenza del testamento;
5) L’accettazione è valida anche se l’erede impugni il testamento: l’impugnazione, addirittura,
è considerato comportamento concludente in ottica di accettazione dell’eredità.
Gli eredi subentrano in forza di una regola che prevede la non estinzione del contratto (o
meglio, dei rapporti), salvo limitate eccezioni (contratti dai quali sorge un obbligo di fare
infungibile; contratti a carattere prettamente personale).
L’ordinamento preferisce quindi l’esecuzione alla caducazione.
Sono pochi i casi nei quali la continuazione non viene posta in essere: si tratta di ipotesi nelle quali,
straordinariamente, l’interesse del successore o dell’altro contraente viene considerato prevalente
rispetto all’interesse sotteso ai rapporti economici (cosa che, appunto, non accade quasi mai).
SUCCESSIONI INTER VIVOS: esiste una sorta di regola generale di segno inverso; sembra
quasi che si preferisca l’estinzione e, dunque, ogni caso di continuazione/successione diviene
eccezionale. L’attenzione si sofferma, allora, sulle vicende circolatorie che riguardano l’azienda e i
beni che ne costituiscono il complesso.
TRASFERIMENTO D’AZIENDA: in tale contesto è bene distinguere tra due tipi di contratti:
1) Contratti aziendali in senso stretto: sono tali quei contratti che hanno ad oggetto il
godimento, da parte dell’imprenditore, di beni aziendali non suoi;
2) Contratti d’impresa: quelli che regolano i rapporti tra imprenditori e fornitori, ovvero tra
imprenditore e consumatore o comunque utenti dell’impresa.
L’art. 2558 c.c. stabilisce che “se non è pattuito diversamente, l’acquirente dell’azienda subentra
nei contratti stipulati per l’esercizio dell’azienda stessa che non abbiano carattere eccezionale”; il
secondo comma, invece, “il terzo contraente può recedere dal contratto entro 3 mesi dalla notizia
del trasferimento, se sussiste giusta causa”.
Caratteristica è la non necessarietà del consenso del terzo ceduto.
Raffrontando l’art. 2558 con il 2555, sembrerebbe che il primo abbia portata maggiore del
secondo, visto che comprende non solo i beni oggetto del godimento da parte dell’imprenditore,
quindi i beni organizzati per l’impresa, quanto anche le varie posizioni contrattuali
dell’imprenditore cedente (intendendosi, come tali, anche i rapporti con i dipendenti).
Tale disciplina, però, è comunque subordinata alla possibilità di prevedere la non continuazione
del/dei rapporto/i in un momento precedente alla cessione/trasferimento: l’articolo 2558 apre con
l’inciso “se non è pattuito diversamente”.
Il contraente ceduto, a differenza della disciplina dell’art. 1406 c.c. (che prevede il consenso del
ceduto), assume una posizione particolare, quasi passiva. Questi, non avendo modo di prestare il
consenso, può solo recedere in termini brevi e, dunque, si trova vincolato a seguito di un contratto
inter alios nei confronti di un soggetto diverso dall’interlocutore originario; la sua difforme
volontà, dunque, non rileva a nulla. La ratio di tale disciplina è rinvenibile nella necessità di
prediligere la continuazione dell’azienda.

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Dall’esame posto finora, si può desumere che il principio di relatività non è più attuale in quanto
non consente di giungere a risultati appaganti per un’analisi funzionale dei rapporti (con i relativi
interessi e valori).
Visto come il consenso del ceduto non sia fondamentale al positivo spiegarsi degli effetti della
cessione, si palese ancor di più la necessità di riconsiderare la rigidità del principio di relatività.

Effetti esterni del contratto:


Il contratto produce effetti “esterni” nei casi di contratto in danno del terzo. La dottrina parla di
effetti riflessi: ciò equivale a dire che il contratto, in alcuni casi, ha attitudine a rilevare quale mero
fatto, nel dettaglio fatto illecito, produttivo di conseguenze rilevanti sul piano della responsabilità
aquiliana.
L’ordinamento presta, a favore dei terzi, la possibilità di esperire azioni dirette a tutela di proprie
posizioni lese dalla stipulazione di un contratto tra altri soggetti; si pensi ai casi dell’azione
diretta del locatore verso il subconduttore; ovvero all’azione degli ausiliari del subappaltatore
verso il committente principale.
Si parla di effetto esterno/riflesso del contratto anche nei casi di prelazione legale e relativa tutela
del retratto, cioè casi di attribuzione negoziale di diritto opponibili ai terzi.
TRASCRIZIONE IMMOBILIARE: nella doppia trascrizione mobiliare (Tizio aliena il bene A
sia a Caio che a Sempronio), il secondo trasferimento, trascritto per primo, si atteggia, rispetto al
primo trasferimento, come fatto illecito dal quale scaturisce l’obbligo, in capo al secondo
acquirente in mala fede (Sempronio), di risarcire il danno cagionato al primo acquirente (Caio).
PRELAZIONE: ipotesi simile alla precedente quella in cui vi è un acquisto da parte di un soggetto
in violazione di un diritto di prelazione. L’alienante, come sappiamo, ha l’obbligo della c.d.
denuntiatio (cioè rendere noto al prelazionario la volontà di procedere ad un’alienazione) e
l’inadempimento dell’obbligo medesimo, mediante vendita ad un terzo, fa sorgere responsabilità. Il
terzo acquirente (che è terzo rispetto al rapporto prelazionario preesistente) coopera al mancato
soddisfacimento dell’interesse del titolare della prelazione (responsabilità extracontrattuale).
La dottrina ha allora inteso il tutto nella logica secondo la quale il contratto in danno ha il solo
rilievo di fatto/atto illecito, a nulla rilevando la struttura dello stesso (negoziale o meno),
operando solo sul piano della responsabilità civile.
In realtà, tutta questa irrilevanza non sembra ravvisarsi. Se un soggetto (Tizio) promette in vendita
un immobile ad un altro (Caio) e questi, a sua volta, promette in vendita lo stesso immobile ad
un terzo (Sempronio), quest’ultimo, per l’ipotesi che non possa acquistare il bene a causa
dell’inadempimento del primo promittente (Tizio), venditore nei confronti del proprio
promittente/dante causa (Caio), potrà agire nei confronti del suo debitore (Caio) nonché del
debitor debitoris (Tizio).
Il prelazionario può dolersi nei confronti del terzo solo in alcune circostanze; se il trasferimento
gravato da prelazione avvenisse, ad esempio, a titolo gratuito, non vi sarebbe lo stesso effetto
negativo per il terzo. L’acquisto in violazione del diritto di prelazione sarà dannoso se avrà certe
condizioni e caratteristiche in termini di struttura, contenuto e funzione.
CLAUSOLA DELL’INGIUSTIZIA: quanto detto si fonda su una concezione recente che fa leva
sulla clausola de qua. Quest’ultima rappresenta un criterio di mediazione per gli interessi in
concreto rilevanti ai fini dell’attuazione del meccanismo risarcitorio.

Profilo soggettivo degli atti di autonomia:


Alla luce di quanto detto finora è necessaria anche una riconsiderazione del concetto di “parte” del
contratto. La dottrina ritiene che il profilo soggettivo del negozio possa essere distinto in tre
momenti diversi:
1) Quello riferibile all’autore dell’atto;
2) Quello attinente al termine di riferibilità della fattispecie;
3) Quello inerente l’imputazione degli effetti.
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Il negozio giuridico non può mai rilevare come pure fatto materiale, integrando un fatto di per sé già
esistente con le sue caratteristiche strutturali. Si tratta di un nuovo approccio che rende necessaria
una nuova differenza; si trovano infatti:
1) Da un lato, soggetti totalmente estranei all’atto, cioè soggetti che non possono neanche
essere termini di riferimento di interessi esterni al negozio;
2) Dall’altro lato, soggetti che, indipendentemente dal loro grado di partecipazione alla
formazione della regola, devono comunque considerarsi portatori di interessi sui quali il
negozio incide.
Al soggetto portatore di interessi incisi da un atto posto in essere da altri, però, non
necessariamente deve essere riconosciuto il potere di eliminare gli effetti dell’atto medesimo
nella propria sfera giuridica personale. Tale evenienza è subordinata al discrimine dell’abuso del
diritto da parte degli autori dell’atto inter alios. L’abuso diviene, dunque, altra modalità di
espressione della clausola di ingiustizia del danno; il danno deve anche essere manifesta
violazione del principio del neminem laedere.
La clausola di ingiustizia si mostra direttamente collegata con ogni altro criterio elaborato per
conformare l’azione soggettiva delle parti entro i limiti che, se superati, la rendono abusiva. Il
criterio/clausola in discorso svolge la funzione di mediazione e finisce col garantire stabilità e
rilevanza alle condotte.
Il soggetto portatore di interessi coinvolti dall’esercizio di un potere rilevante nella propria sfera
dispone, dunque, di meccanismi di realizzazione coattiva degli effetti, ma anche di strumenti
eliminativi degli effetti medesimi, ogni volta in cui l’esercizio di potere altrui costituisca un abuso.
Ciò vuol dire, però, che il soggetto colpito da effetti per lui pregiudizievoli, se vi è la ragionevole
necessità di far prevalere l’altrui interesse, non potrà far nulla per eliminarli.

Dal tipo al concreto interesse perseguito dal soggetto:


Altro postulato è quello della neutralità del contratto rispetto allo status delle parti. Il legislatore
distingue varie figure contrattuali mediante la trasposizione, sul piano del diritto, di categorie
sociologiche riferite al soggetto contraente; sembra quasi che la nozione di tipo contrattuale non
sia più utile.
Può ben accadere, infatti, che un soggetto di per sé professionista (in quanto svolge un’attività
economica organizzata e diretta alla produzione/scambio di beni/servizi – un imprenditore), debba
essere considerato “consumatore” quando si trova a realizzare operazioni economiche non
attinenti, nello specifico, la propria attività. Non solo. Anche la disciplina dei beni risulta
condizionata dall’interesse sotteso all’operazione economica mediante la quale si pone l’acquisto
stesso.
Ormai da anni si è affermato che la valutazione, in punto di liceità della causa, non può certo
limitarsi ai limiti dei tipi, dovendo piuttosto investire il complesso rapporto fra l’atto di autonomia
ed i valori di cui l’ordinamento si rende garante. Occorre partire dal caso concreto, individuarne la
disciplina complessiva e applicarla secondo ragionevolezza e adeguatezza.

Le norme imperative – imperatività e inderogabilità:


In merito all’attività del legislatore comunitario viene usato sempre più il termine “norme
imperative”, volendosi con esso indicare le regole eteronome inderogabili dalla volontà delle
parti. L’obiettivo di tutelare il consumatore fa sì che le prescrizioni delle DE implichino tutte
l’inderogabilità dei limiti minimi di tutela posti.
Tali regole eteronome inderogabili, ormai divenute più numerose di quelle dispositive e
suppletive, non sarebbero più eccezione rispetto al principio di libertà contrattuale.
Nel codice, l’espressione “norma imperativa” si ha isolata negli artt. 1418 e 1344 c.c., mentre si
ha coordinata con l’ordine pubblico e il buon costume negli artt. 1343 e 1354 c.c. Già da ciò
appare chiaro che l’inderogabilità non può essere identificata con le norme inderogabili, né con
quelle in merito all’ord. Pubblico. Lo stesso art. 1418, poi, ne ammette in alcuni casi la derogabilità.
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Il concetto in esame rimanda anche alla c.d. indisponibilità. Si parla delle ipotesi nelle quali
l’attuazione dell’interesse privato va considerata necessaria anche perché coincidente con la
realizzazione di fini essenziali dell’ordinamento e della comunità giuridica. L’interesse
individuale diviene così irrinunziabile. Per di più, ogni volta in cui l’autonomia privata ponga una
deroga non consentita, si avrà la nullità insanabile ed irrinunciabile.
L’inderogabilità e il carattere imperativo della norma si atteggiano come un posterius rispetto
all’indagine in ordine agli interessi che attraverso di essa vengono in gioco. Però, non ogni
contrarietà alla norma imperativa si traduce nella nullità: in sostanza, il giudizio sulla disponibilità,
come quello in merito all’imperatività della norma, sono il risultato dell’interpretazione
sistematica ed assiologica.
Le situazioni non disponibili si sottraggono a tutte le forme di autoregolamentazione; l’equazione
disponibilità – transigibilità trova specificazione nello stesso criterio generale preposto dalla
legge: la delimitazione dell’area della transigibilità è da determinarsi, secondo l’art. 1966 c.c., sia
in ragione della “espressa previsione di legge”, sia in ragione della natura della situazione
giuridica, e ciò postula un’interpretazione.
L’interprete è chiamato a stabilire se una norma è o no inderogabile: ogni norma inderogabile,
dunque, non può essere intesa come norma eccezionale a priori. Ecco perché l’indisponibilità
non è un prius ma presuppone l’esercizio assiologico della funzione interpretativa.
Le limitazioni esplicite alla libertà contrattuale sono segno implicito della necessità di disciplinar
fenomeni un tempo non rilevanti socialmente, preso anche atto del rinnovato ruolo dell’autonomia
priva nel mercato mondiale.
A questa stregua non pare uno stravolgimento del sistema riempire di contenuti concreti, ad
esempio, la clausola generale di buona fede con il principio di proporzionalità, piuttosto che
con i doveri inderogabili di solidarietà economica.
Non sembra neanche che il meccanismo di integrazione del contratto ex art. 1374 c.c. abbia
ragion d’esistere solo in relazione ai principi di matrice europea/comunitaria. Con l’entrata in vigore
della Costituzione (e con la consacrazione dei suoi principi) la funzione del citato articolo avrebbe
già dovuto essere quella di consentire operazioni di “cura” del regolamento pattizio.
La trasparenza delle contrattazioni – forma e funzione:
Il problema delle asimmetrie informative è alla base dell’alterazione della concorrenza. La
soluzione “europea” sta nell’aver affidato alla disciplina del contratto il compito di presiedere
affinché l’autonomia privata si realizzi sul presupposto della circolazione delle informazioni
indispensabili. La riduzione delle citate asimmetrie si attua attraverso l’uniformità delle
informazioni da fornire al contraente debole, il tutto alla luce dell’obbligo sancito dalla regola
eteronoma.
Tutto ciò, è bene ribadirlo, avviene senza una mortificazione dell’autonomia privata. Ciò che è
poco chiaro, però, è se tali interventi abbiano il fine di tutelare il contraente debole ovvero quello di
assicurare l’integrità del mercato per mezzo dell’integrità strutturale dei contratti.
La più importante modalità di intervento normativo è rinvenibile nel c.d. ritorno al formalismo (il
ricorso a forme vincolate). Quest’ultimo non sarebbe più strumento di controllo sociale, bensì il
mezzo per recuperare la comunicabilità linguistica che è condizione necessaria per l’effettivo
funzionamento del mercato concorrenziale.
Tale nuova disciplina della forma, a differenza di quella tradizionale, che tende a tutelare la
circolazione dei beni, mira, invece, a strutturare il mercato.
La tutela del consumatore diviene così mezzo e non fine; egli, dunque, si trova ad essere soggetto
economico chiamato a svolgere un ruolo importante nel corretto funzionamento del mercato.
Nel nostro ordinamento la forma non si limita a svolgere un ruolo strutturale ma sempre più spesso
è determinante ai fini di un giudizio di meritevolezza dell’atto. Quando una struttura diviene
indispensabile per il raggiungimento di una funzione, essa stessa diviene funzione.

Principio di proporzionalità:
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La più grande innovazione portata al nostro ordinamento da parte delle norme comunitarie è senza
dubbio il nuovo ruolo del giudice per quanto riguarda i contratti: mentre prima non era consentito
a quest’ultimo di intervenire sul contenuto pattizio, adeguandolo rispetto agli squilibri sopravvenuti,
oggi tale intervento sembra sia consentito. Lo scoglio del passato altro non era che l’assenza di
potere, sempre del giudice, di esercitare un controllo ex post, cioè a seguito della formazione del
contratto; il dogma insuperabile era quello dell’intangibilità del contenuto del contratto.
Dottrina e giurisprudenza hanno però pian piano messo in discussione tale dogma. All’intangibilità
del contenuto pattizio si è sostituito il nuovo vincolo dell’equilibrio contrattuale. In tale
direzione, secondo ROPPO, si muove anche la disciplina delle clausole vessatorie nei contratti dei
consumatori, che è, essenzialmente, disciplina di rimedi per contratti squilibrati (le clausole de qua
portano un “significativo squilibrio” tra le parti).
In tale contesto, allora, trova nuova ragion d’essere la teoria dell’integrazione degli atti di
autonomia. L’art. 1374, rubricato “integrazione del contratto”, ha un valore normativo notevole;
non solo rende chiaro come il contratto possa far sorgere obblighi anche oltre quelli espressamente
sanciti dal contratto stesso, ma, mediante il richiamo della legge in generale, rende operanti anche
fonti esterne alla codificazione/legislazione statale.
Oggi, quindi, l’interpretazione della clausole generali va armonizzata anche con i principi
comunitari, primo fra tutti quello di proporzionalità. Nato in Germania come parametro di
valutazione delle norme in merito ai rapporti di tipo verticali (istituzioni – privati), la
proporzionalità è ormai usata dalla Corte di Giustizia Europea come strumento di valutazione di
congruità sul piano del rapporto tra autonomia privata e ordinamento. La proporzionalità,
allora, diviene anche strumento di valutazione della regola privata, non solo in relazione ad ipotesi
di abuso del potere privata, ma anche in relazione a situazioni non caratterizzate da asimmetrie di
potere.
È possibile citare in tale discorso la disciplina dell’art. 1384 c.c. in merito alla riduzione della
penale; alla luce delle disposizione de qua è possibile una reductio ad equitatem della penale con
un ammontare manifestamente eccessivo. Il potere di ridurre è d’ufficio e spetta al giudice anche in
difetto di domanda di parte. Altro esempio è rinvenibile nell’art. 1455 c.c., che introduce il caso in
cui non si possa giungere alla risoluzione del contratto nel caso di inadempimento di “scarsa
importanza”. Il giudice è chiamato a verificare l’importanza dell’inadempimento alla luce
dell’interesse creditorio e della conseguenza invocata.
A completare il quadro è possibile citare anche alcune disposizioni comunitarie. Si pensi
all’assoggettamento del professionista, nei confronti di consumatori e altri imprenditori “più
deboli”, ad un controllo del contenuto contrattuale fondato sulla valutazione degli interessi delle
parti. O ancora, si pensi all’art. 9 della Legge sulla subfornitura che, nel disciplinare l’abuso della
dipendenza economica, perviene ad un’opportuna integrazione dei valori del mercato e della
concorrenza. L’art. 3 della stessa legge, per di più, autorizza richieste di adeguamento da parte
dell’operatore più debole, a prescindere da previsioni contrattuali.
Nessun dubbio che il principio di proporzionalità affidi al giudice un ruolo più attivo nella
individuazione della regola, munendo di un parametro quantitativo che, ed è questo il punto focale,
non si presta a nessun tipo di arbitrio. La conseguenza naturale, ma non esclusiva, della violazione
del principio in esame è la riduzione ad equità.
Il principio, inoltre, concorre ad attuare il principio di conservazione del contratto, essendo in
grado di operare in maniera integrativa e non demolitoria. La considerazione del regime
dell’invalidità parziale e del mantenimento del contratto rettificato mostra sempre più come gli
antichi dogmi sul contratto siano davvero superati: la regola contrattuale (quella che vincola le
parti) non nasce in relazione al voluto, ma è necessario riconoscere il voluto anche in relazione a ciò
che è possibile volere. L’adeguamento del contratto, o la sua integrazione, non impone alle
parti ciò che queste non hanno voluto/ciò che hanno escluso, ma solo ciò che appare coerente
(necessario) con la compiuta realizzazione del piano economico predisposto.

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Lo spazio di operatività dell’interprete va rinvenuto in tutti i casi in cui vi sia distanza tra l’attività
programmata nel contratto e la realizzazione concreta dell’interesse delle parti. Il giudice è oggi
filtro di valori che il singolo programma obbligatorio è destinato a recepire. In tale contesto trova
allora sede anche il principio di buona fede, che ha il compito di modellare il
mezzo/comportamento in funzione del fine concreto dell’operazione economica. Tutto ciò che è ad
esso contrario, si colloca fuori dall’area del dovuto e, in quanto tale, non è esigibile (non
sussiste alcun obbligo).

Invalidità e inefficacia:
Il piano della validità e il piano delle regole di responsabilità che impongono obblighi di condotta
(diciamo il piano della buona fede), fino a qualche tempo fa erano considerati paralleli, distinti.
Infatti, nella precedente impostazione, era impensabile l’ipotesi di un giudizio di invalidità a seguito
di violazione della regola di buona fede.
Oggi, però, tale impostazione è cambiata.
La principale ragione è data dalla disciplina dei contratti del consumatore, la quale si atteggia a
disciplina essenzialmente dell’invalidità. Questa però è comminata alla luce della previsione
dell’art. 33 cod. cons., che prevede l’invalidità del contratto nel caso di violazione del principio di
proporzionalità e quello di adeguatezza, recanti in sé il contrasto con la regola di buona fede (inciso
“significativo squilibrio”).
Anche le regole in tema di trasparenza e di obblighi di informazione vedono in sé medesimi
fattori capaci di incidere sulla validità del contratto.
Alla luce di ciò, appare conveniente sovrapporre i due piani. È essenziale abbandonare l’analisi
strutturalistica del contratto per valorizzarne il punto di vista funzionale: il contratto deve essere
considerato dal punto di vista della logica del rapporto.
Il vero problema dell’interprete odierno non è quello della certezza, quanto quello della garanzia. Il
giudice potrà intervenire, talvolta, aggiustando il contratto riducendolo ad equità, talaltra, mediante
la caducazione della clausola non meritevole.

Verso un codice europeo dei contratti:


Il Parlamento Europeo è propenso all’elaborazione di un codice europeo dei contratti; notevole
spinta fu data dai Principles of European Contract Law (PECL) del 2000. Ecco i tratti salienti:
1) Art. 2:101: per quanto riguarda la formazione del contratto, si trova precisato che lo stesso
è concluso quando “le parti hanno manifestato la volontà di vincolarsi giuridicamente e
hanno raggiunto un accordo sufficiente. Non occorre alcun altro requisito”. Come vediamo,
tutti gli altri requisiti che vengono in mente pensando all’art. 1325 c.c. non sono essenziali
come nel nostro ordinamento. Vi è un espresso rifiuto a considerare la causa o la
consideration (Common Law) quali requisiti del contratto.
Alla luce dei PECL sembrerebbe che non soltanto si può avere contratto a prescindere da
clausola o consideration, ma si può avere anche responsabilità contrattuale senza accordo.
La clausola di buona fede ha avuto un ruolo essenziale in tali Principi.
2) Art. 1:102: riconosce l’autonomia contrattuale però assoggettata alle regole di buona
fede e correttezza.
3) Art. 1:201: riconosce alle due clausole pocanzi citate il ruolo di standard delle condotte di
entrambe le parti; devono esservi nella formazione, nell’adempimento e nell’attuazione
degli obblighi delle parti.
4) Art. 1:302: richiamo al principio di ragionevolezza.
5) Art. 4:110: a differenza della direttiva europea 13/93, i PECL non riporta un catalogo di
clausole inique/vessatorie (come la lista grigia). La mancata presenza di una lista, però, non
è ostacolo per giudici e arbitri che possono trovare ispirazione nella lista della direttiva.
L’articolo in discorso prevede l’annullabilità e in ciò rinveniamo la differenza con la nostra

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disciplina che prevede, all’art. 1469 quinquies c.c., l’inefficacia; mentre l’art. 36 cod.
cons., che ha trasposto la disciplina codicistica, parla addirittura di nullità.
Il riferimento all’annullabilità non deve essere inteso come un contrasto con il codice del
consumo, bensì, non essendovi nei PECL alcuna predeterminazione di clausole inique, non
era conveniente prevedere aprioristicamente la nullità di una clausola che potrebbe o meno
essere abusiva.
6) Art. 4:102: regola l’impossibilità originaria della prestazione. Sancisce che il contratto
non è invalido se, al momento della conclusione, la prestazione sia impossibile.
7) Adempimento in natura: è un principio ripreso dagli ordinamenti di Civil Law. Nel nostro
sistema il principio dell’adempimento in natura preclude la possibilità che, in luogo
dell’adempimento, sia richiesto il risarcimento del danno sino a quando perduri la possibilità
della prestazione.
8) Art. 9:509: liquidazione forfettaria del danno. I PECL, in tal caso, hanno optato per una
soluzione mista tra gli ordinamenti di Civil Law e Common Law. La regola in esame
prevede la possibilità che le parti stabiliscano una somma di denaro da pagare in caso di
inadempimento; come vediamo, è molto simile alla nostra clausola penale. Il problema è
che negli orientamenti di Common Law la clausola de qua, se prevista con funzione
sanzionatoria o afflittiva, non è lecita. I PECL, allora, prevedono che la somma in esame
sarà considerata penalty clause ogni volta in cui sarà iniqua; mentre sarà una clausola di
liquidazione forfettaria del danno quando le circostanze siano tali da rendere impossibile
stimare anticipatamente e accuratamente il danno.
9) Art. 8:108: responsabilità contrattuale oggettiva. Il debitore non risponde
dell’inadempimento se prova che esso è dovuto ad un impedimento fuori da proprio
controllo e del quale non ci si poteva aspettare che egli ne tenesse conto al momento della
conclusione del contratto.
Per concludere, sembra che un vero e proprio diritto privato comunitario non esiste. Anche gli stessi
Principi del diritto comunitario non vivono di vita propria ma hanno necessità di essere immersi
nella realtà degli ordinamenti dei Paesi Membri.

Tutela del consumatore in Europa e nel nostro ordinamento:


Le regole europee in materia di contratti del consumatore e tutela dello stesso sono per lo più
finalizzate a tutela del mercato con obiettivi di redistribuzione. La tutela de qua è pensata in
funzione del mercato. Alcuni affermano che la nostra Costituzione, non parlando chiaramente di
libero mercato, non abbia una vera posizione al riguardo. Così non è. La Carta manca solo di un
espresso riconoscimento del sistema concorrenziale, ma difende il mercato come garanzia di libertà
contro modelli di collettivizzazione e pianificazione.
Le ragioni costituzionali antitrust sono rinvenibili nell’espressa volontà di evitare distorsioni
monopolistiche, abusi di posizioni dominanti e accaparramenti ingiustificati, al fine di realizzare
l’utilità sociale e l’effettiva partecipazione di tutti all’organizzazione economica.
Il ruolo “secondario” riconosciuto, in ambito europeo, al consumatore, non è replicato nel nostro
ordinamento, in cui i principi europei vengono colorati dai valori costituzionali. L’interprete italiano
si pone, dinnanzi agli abusi verso i soggetti deboli, non solo al fine di garantire la stabilità del
mercato. In tale direzione si muove anche la differenza tra il principio di proporzionalità
(europeo) e quello di ragionevolezza e adeguatezza (italiano). Se la proporzionalità è posta sul
piano quantitativo, ragionevolezza/adeguatezza si riferiscono ad un bilanciamento tra interessi non
ragguagliabili quanto alla loro natura.
In definitiva, mentre nel diritto comunitario le regole si atteggiano come complementari alla
concorrenza, nel nostro ordinamento le stesse servono a garantire valori non riconducibili a rapporti
di produzione e di consumo.

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