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Il processo di integrazione europea

Integrazione col metodo di cooperazione intergovernativa


In seguito al termine della seconda guerra mondale, andò a profilarsi
l’ideale di un continente europeo non più diviso in diversi Stati in costante
lotta tra loro. Si pensò così di dar vita ad un processo di integrazione tra
Stati, intenzione che si rispecchia innanzitutto nell’aggregazione militare
del Patto di Varsavia ed economica del Comecon.

In secondo luogo, si tentò di raggiungere un’integrazione tra Stati


innanzitutto attraverso la cooperazione intergovernativa, nell’ambito della
quale gli Stati cooperavano tra loro come soggetti sovrani che, al fine di
organizzare la cooperazione, creano apposite strutture che non intacchino
la sovranità statale: pertanto, in tali strutture, vi è innanzitutto, nell’ambito
degli organi principali, la prevalenza di rappresentati degli organi statali, i
quali seguono le direttive impartite dalle politiche nazionali. Inoltre,
dovendo conservare ogni stato il diritto di veto, le decisioni degli organi
vengono assunte prevalentemente all’unanimità; infine, le deliberazioni
oggetto di voto hanno prevalentemente carattere raccomandatorio e vi è
pertanto l’assenza del potere di adottare atti vincolanti, che si configurano
invece come un’eccezione alla regola.

Il metodo della cooperazione intergovernativa è stato innanzitutto adottato


nell’ambito della cooperazione militare, attraverso la formazione della
UEO (Unione Europea Occidentale, 1948), avente come organo principale
il Consiglio, e della NATO (1949), la cui formazione è stata promossa
dagli Stati Uniti, avente per organo principale il Consiglio del Nord
Atlantico; è stato poi adottato nell’ambito della cooperazione economica in
seguito all’adozione, da parte degli Stati Uniti, del Piano Marshall, che
prevede l’erogazione di fondi volti alla ricostruzione economica. Al fine di
mantenere una gestione coordinata di tali fondi viene fondato l’OECE
(Organizzazione Europea Cooperazione Economica, 1948), avente per
organo principale il Consiglio, in cui siede un rappresentante per ogni
Stato. In seguito all’esaurimento dell’OECE, quest’ultimo si sarebbe
dovuto trasformare in una zona di scambio tra Stati: parte di loro così
fecero, istituendo l’EFTA (European Free Trading Area), mentre altri Stati
membri decisero di
optare per forme di integrazione economica ancora più avanzate, dando
vita alle tre comunità europee.
Il Consiglio d’Europa
Il Consiglio d’Europa, approvato nel 1949, ha l’obiettivo di favorire
l’integrazione tra gli Stati membri e di facilitare il loro progresso
economico e sociale. Il suo organo principale è il Comitato dei ministri,
nel quale siedono i ministri degli Esteri di ogni Stato membro.
Predispongono e favoriscono la conclusione di convenzioni internazionali
fra gli Stati membri, che li subordinano alla ratifica da parte dei Parlamenti
statali. La più importante convenzione conclusa nell’ambito del Consiglio
d’Europa è la CEDU (Convenzione Europea sui Diritti dell’Uomo, 1950),
comprendente un catalogo dei diritti fondamentali dell’uomo comuni ad
ogni Stato (facenti tra l’altro parte del diritto dell’Unione in quanto
principi generali) ed un meccanismo di controllo del rispetto dei diritti, la
Corte Europea dei diritti dell’uomo.
Integrazione col metodo comunitario
Alcuni Stati europei, al fine di attribuire maggior autonomia alle
organizzazioni interstatali, sperimentano il metodo comunitario, per certi
versi opposto a quello intergovernativo. Innanzitutto, la maggior parte
degli organi comunitari è formata da soggetti che non rappresentano lo
Stato di appartenenza, la cui influenza è bloccata dai trattati. Un altro
radicale cambiamento è la prevalenza del principio di voto maggioritario a
scapito di quello all’unanimità, sicché non sarà necessario il consenso di
ogni Stato per l’azione organizzativa. Viene infine dato spazio al potere di
adottare atti vincolanti, creanti obblighi in capo agli Stati membri; ognuno
di questi atti sono è sottoposto ad un sistema di controllo di legittimità
giurisdizionale.

Il metodo comunitario è stato applicato per la prima volta nel 1950 in


seguito alla dichiarazione Schuman (premier francese), con la quale
quest’ultimo, al fine di effettuare un primo passo per la formazione di una
“Federazione Europea”, propose di porre sotto la giurisdizione di una
comune Alta Autorità la produzione carbo- siderurgica di Francia e
Germania, aprendo tuttavia l’accordo ad altri Stati. Nella dichiarazione
viene indicato che l’Alta Autorità, formata da personalità indipendenti dai
governi di appartenenza, sarà incaricata del funzionamento dell’intero
regime e che le sue
decisioni saranno vincolanti per i governi di Francia, Germania e degli
Stati che aderiranno alla Comunità. In seguito all’approvazione della
proposta contenuta nella dichiarazione da parte di sei Stati, inclusa l’Italia,
prese vita la Piccola Europa, i cui stati membri diedero vita alla Comunità
Europea del Carbone e dell’Acciaio (1951)
La CECA, il TCE e la CEEA
La CECA istituì un mercato comune del carbone e dell’acciaio,
comprendente una zona di libero scambio tra gli Stati membri entro la
quale vige il divieto di discriminazione tra produttori, acquirenti e
consumatori, il divieto di pratiche restrittive o danneggianti la concorrenza
e, in particolare, di aiuti statali.

Essa si basa innanzitutto sull’Alta Autorità, un’organo di nove individui


indipendenti designati dagli Stati di comune accordo, avente il potere di
emanare pareri, raccomandazioni e decisioni, queste ultime due avente
carattere vincolante nei confronti degli Stati; le decisioni vincolano in tutti
i loro elementi (cfr. regolamenti), mentre le raccomandazioni solo nello
scopo (cfr. direttive).

Un altro organo della CECA è il Consiglio Speciale dei Ministri, composto


dai rappresentanti del governo di ogni Stato membro, avente
principalmente funzione consultiva nei riguardi dell’Alta Autorità; il
parere diventa tuttavia vincolante nelle materie per cui è previsto che
l’Alta Autorità deliberi per parere conforme. L’assemblea comune avente
una simile funzione consultiva, riunisce rappresentanti dei parlamenti
nazionali di ogni Stato. Infine, la Corte di Giustizia effettua funzioni di
controlli giurisdizionale sulla legittimità degli atti e sui comportamenti
delle istituzioni.

Il successo riportato dalla CECA spinge alla negoziazione del CED


(Comunità Europea di Difesa, 1952), che prevede un organo indipendente
al quale spetta il comando unificato delle forze armate di ogni Stato.
Tuttavia, la radicale perdita di sovranità che avrebbe comportato spinge in
primis la Francia e poi gli altri Stati membri a non ratificare l’atto.
Nonostante il fallimento riportato dalla CED, si decise di allargare ad altri
settori la CECA; dall’idea di formare un mercato comune generale nacque
il TCE (Roma, 1957), che istituisce la Comunità Economica Europea,
volendo invece regolare in particolare il settore dell’energia atomica venne
concluso il CEEA, che istituisce
la Comunità Europea dell’Energia Atomica, anche detto Euratom: le due
nuove comunità hanno un assetto istituzionale speculare a quello della
CECA, con l’unica differenza che a sostituire l’Alta Autorità vi è la
Commissione. Maggiori differenze sono invece attinenti alle tipologie di
trattato cui vanno paragonate le comunità: il trattato CECA, stabilendo nel
dettaglio la disciplina del mercato carbo-siderurgico, è un trattato legge
che conferisce all’Alta Autorità un potere sostanzialmente amministrativo.
Viceversa, considerata l’ampiezza delle materie affrontate nel trattato, la
disciplina del TCE è meno definita e si limita all’enunciazione di semplici
obiettivi e principi da attuare attraverso l’attività normativa. Pertanto le
istituzione della CE sono chiamate a svolgere un vero e proprio potere
legislativo, spesso contrastante con quello degli stati. L’organo centrale è
dunque il Consiglio, il quale, formato dai rappresentanti degli Stati, adotta
la maggioranza degli atti.
Si cercò subito di semplificare la struttura delle Comunità, ed in tal senso il
primo passo fu la conclusione della Convenzione sulle istituzioni comuni
delle comunità europee, attraverso la quale vennero messe in comune alle
tre comunità l’Assemblea Parlamentare e la Corte di Giustizia, che
agiscono per tutte e tre le Comunità nei modi previsti dal trattato istitutivo
di ognuna di esse. In seguito ennero resi unici anche Consiglio e
Commissione in seguito alla firma del Trattato istituente Consiglio e
Commissione unici (Bruxelles, 1965); vennero così limitati gli organi
esecutivi, che, diventando unici, gestiscono i poteri derivanti dai tre trattati
istitutivi.

Infine, in seguito alla scadenza del trattato CECA, in seguito al rifiuto da


parte degli Stati membri di rinnovarlo, il settore carbo- siderurgico è
rientrato nell’applicazione del mercato comune generale disciplinata dalla
TCE. Le Comunità sono state abolite in seguito all’entrata in vigore del
Trattato di Lisbona, che inoltre cambia il titolo al TCE, trasformandolo in
TFUE (Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea).
Il deficit democratico e la sua riduzione
L’originale struttura istituzionale delle Comunità Europee lasciava spazio
ad un problema detto deficit democratico, per il quale non risultava
rispettato il principio della democrazia parlamentare o rappresentativa dal
momento che l’organo avente maggiore potere era il Consiglio, costituiti
dagli esecutivi di ogni Stato, cui viene
altresì affidato il potere di adottare atti normativi, che non avrebbero
invece negli Stati di appartenenza, in cui spetta all’organo parlamentare. E’
stata dunque attribuita sempre più importanza al Parlamento Europeo, così
da andare a configurare u sistema simile a quello bicamerale, che
rispecchierebbe attraverso il potere parlamentare la volontà dei cittadini
eleggenti a suffragio universale, e attraverso il potere del Consiglio la
volontà degli Stati. L’ampliamento dei poteri del Parlamento è avvenuto
per tappe: innanzitutto gli venne attribuito, attraverso ad alcuni trattati
stipulati nel 1970 e nel 1975, maggiori poteri in fase di approvazione del
bilancio; si rese poi eletto a suffragio universale diretto da parte dei
cittadini europei (in precedenza i componenti erano designati da ciascun
Parlamento nazionale tra i rispettivi componenti). I più grandi
cambiamenti si ebbero innanzitutto con l’entrata in vigore dell’AUE (Atto
Unico Europeo, 1986), introducente innanzitutto due nuovi poteri, quello
della procedura di parere conforme, che impedisce al Consiglio di
approvare determinati atti senza l’approvazione parlamentare, e quello
della procedura di cooperazione, che offre al Parlamento maggiori
possibilità di influire sulle deliberazioni del Consiglio; in seguito, con
l’entrata in vigore del TUE (Trattato Unione Europea, Mastricht 1992) si
aggiunse una nuova procedura decisionale detta di codecisione, attraverso
la quale nessuna delle due istituzioni è in grado di imporre all’altra la
propria volontà. La procedura di codecisione venne rinominata procedura
legislativa ordinaria dal Trattato di Lisbona, che ne estese altresì le
competenze.
Il ritorno dell’intergovernatività: Il consiglio Europeo
Pur essendo l’Europa in costante processo di integrazione, gli Stati cercano
di non cedere troppa sovranità ed è in quest’ottica che è nato il Consiglio
Europeo, quale ulteriore organo rappresentativo degli Stati membri. Si
riunì per la prima volta a Parigi nel 1974, quando i Capi di Stato e di
Governo degli Stati membri decisero di riunirsi tre volte l’anno e, in
aggiunta, ogni volta che lo ritenessero necessario al fine di risolvere
questioni di grande rilevanza politica non risolvibili nell’ambito del
Consiglio; a presiedere le riunioni vi è un presidente avente due anni e
mezzo di mandato rinnovabile una volta. Le deliberazioni vengono assunte
per consenso, cioè senza opposizione da parte di alcun soggetto, salvo i
casi in cui i trattati prevedano la maggioranza qualificata.
Dalle Comunità Europee all’Unione Europea
Nell’ambito delle Comunità si sono affermate forme di cooperazione tra
Stati membri svolte secondo il metodo tradizionale della cooperazione
governativa, ed era così per la politica estere generale, attribuita solo in
parte alle competenze della Comunità, mentre era definita in gran parte da
riunioni periodiche tra ministri degli Esteri e capi di Stato; la situazione
cambiò in seguito all’istituzione, inserita dal TUE, della Politica Estera e
di Sicurezza Comune (PESC), cui è affiancata la cooperazione in materia
di Giustizia e Affari Interni (GAI).
In questo quadro istituzionale, formato dalle Comunità, dalla PESC e dalla
GAI, l’Unione Europea si configura come una realtà comune cui le
precedenti componenti sono tutte chiamate a contribuire; essa è
assimilabile ad un tempio greco con un frontone sorretto da tre pilastri. Il
primo tra questi pilastri è rappresentato dalla collaborazione comunitaria,
avente l’obiettivo di garantire il buon funzionamento del mercato unico e,
segnatamente, uno sviluppo armonioso, equilibrato e sostenibile; il
secondo era rappresentato dalla PESC, avente il compito di stabilire e
attuare, con metodi intergovernativi, una politica estera e di sicurezza
comune; infine, il terzo pilastro corrisponde alla GAI, avente il compito di
programmare una politica comune in base a metodi intergovernativi; i
pilastri sono funzionalmente legati l’un l’altro e gestiti da un unico quadro
istituzionale.

Nel corso del tempo si è cercato di eliminare la distinzione dei pilastri,


assimilandoli: il primi passi in tal senso si muovono coi Trattati di
Amsterdam e Nizza, attraverso i quali, gran parte delle materie contenute
nel terzo pilastro (tra cui l’immigrazione e la circolazione delle persone)
vengono trasferite nel primo, venendo pertanto sottoposte al metodo
comunitario, che è stato tra l’altro parzialmente esteso anche al secondo ed
al terzo pilastro: in particolari, vengono introdotti casi in cui il Consiglio
può votare a maggioranza qualificata e vengono accentuati i caratteri di
obbligatorietà degli atti che esso può adottare. Inoltre, con l’introduzione
del Trattato di Lisbona sono venute totalmente meno le differenze tra
primo e terzo pilastro.

Accade spesso che degli Stati contestino l’espansione della competenza


comunitaria e che dunque quest’ultima rischi di essere bloccata per
l’opposizione di un numero molto limitato di Stati membri; in questi casi
vengono applicate forme di
cooperazione differenziata, dando vita del fenomeno dell’Europa a più
velocita, per il quale si rinuncia all’idea di un’integrazione uguale per tutti
e si permette agli stati che lo desiderano di andare avanti senza gli Stati
contrari, ed è questo il caso, ad esempio, dell’Unione Economica
Monetaria (UEM).
Il Trattato di Lisbona
Il trattato di Lisbona (2007) si inserisce nel momento seguente al
fallimento del Trattato istituente una Costituzione per l’Europa, non
ratificato dagli Stati poiché timorosi di perdere troppa sovranità. Piuttosto
che introdurre una Costituzione si ritenne dunque opportuno di integrare il
testo dei TUE e TCE con alcune disposizioni della stessa.

Si ravvisano differenti elementi di continuità nei confronti del Trattato


costituzionale: innanzitutto è stata confermata la trasformazione del
Consiglio Europeo in un’istituzione vera e propria avente un proprio
Presidente; in secondo luogo, è stato rafforzato il ruolo del Presidente della
Commissione ed è stata infine generalizzata la procedura di codecisione,
rinominata in processo legislativo ordinario; risulta infine abolita la
struttura a pilastri.
Quanto agli elementi di discontinuità, i più evidenti risultano essere quelli
tendenti a de-costituzionalizzare la riforma, privandola della sua carica di
originalità rispetto al passato.
La prima manifestazione di questa tendenza è di carattere formale; non si
vuol più abrogare i trattati preesistenti sostituendoli con una Costituzione,
ma emendarli. Inoltre, essendo stata la Comunità Europea abolita, il TCE
cambia nome in TFUE, contenente disposizioni giudicate meno importanti
rispetto al TUE; infine, oltre ad una manifestazione relativa ad una
modifica terminologica, per la quale non si allude più ad una natura
superstatuale dell’Unione, vi è una modifica di tipo contenutistico
consistente nell’eliminazione delle novità che avvicinavano il trattato ad
una Costituzione e cade, ad esempio, il principio del primato del diritto
dell’Unione su quello degli Stati membri. Sono stati inoltre aggiunti dei
meccanismi di garanzia a favore degli Stati: attraverso un primo gruppo di
garanzie è stato reso possibile agli Stati di bloccare o ritardare l’assunzione
di decisioni verso le quali sono contrari; in altri casi è invece possibile
sottrarsi a talune parti dei trattati. E’ stato infine sottolineato il carattere
reversibile del processo d’integrazione europea soprattutto attraverso
l’introduzione di una clausola di recesso unilaterale dall’Unione.
Il quadro istituzionale dell’Unione Europea
Caratteristiche e principi degli organi dell’Unione Europea
All’interno delle varie istituzioni operano alcune figure che possono essere
qualificati come organi monocratici, e questi sono il Presidente del
Consiglio Europeo, l’Alto Rappresentante dell’Unione (PESC) ed il
Presidente della Commissione.

Come precedentemente esposto, le istituzioni sono le stesse per l’intera


Unione, avente il proprio sistema gestito da un quadro istituzionale unico
che non varia a seconda dei settori; tuttavia, sono il ruolo e le competenze
a variare in base alla materia di applicazione.

E’ inoltre possibile distinguere le istituzioni politiche (Parlamento,


Consiglio Europeo, Consiglio e Commissioni), svolgenti una funzione
politica attiva, dalle istituzioni di controllo (Corte di Giustizia, effettuante
controllo giurisdizionale sull’attività delle istituzioni, e Corte dei Conti,
esercitante controllo contabile su entrate e uscite delle istituzioni).
Fuoriesce da queste classificazioni la BCE, operante unicamente
nell’ambito dell’Unione Economica e Monetaria.
Le azioni delle istituzioni devono essere svolte seguendo alcuni principi: il
primo tra questi è quello di coerenza, per cui tutte le azioni svolte
nell’ambito dei diversi settori devono essere tra loro coordinate, e tale
principio assume particolare importanza per quanto riguarda l’azione
esterna (PESC e politica commerciale comune). Altro principio è quello
dell’equilibrio istituzionale, per il quale ciascuna istituzione deve rispettare
le competenze attribuite dai trattati alle diverse istituzioni, pena il vizio di
incompetenza con conseguente annullamento dell’atto adottato. Per il
principio di leale collaborazione, invece le istituzioni attuano tra loro una
leale collaborazione. Infine per il il principio di rispetto dell’acquis (ossia
l’insieme di quanto è stato realizzato), in linea di massima non è consentito
modificare i trattati in senso peggiorativo in relazione all’integrazione.
Il Parlamento Europeo
Il Parlamento Europeo è composto dai rappresentanti dei cittadini
dell’Unione, eletti a suffragio universale diretto. Quanto alle modalità di
elezione, essa avviene attraverso una procedura
uniforme in tutti gli Stati membri o secondo alcuni principi comuni; in
ogni caso, la procedura è approvata innanzitutto attraverso una procedura
legislativa speciale.

Ogni legislatura ha una durata di cinque anni, mentre è previsto un numero


massimo di 751 seggi (uno occupato dal Presidente) assegnati attraverso
metodo degressivamente proporzionale in base alla demografia di ogni
Paese; il numero minimo di seggi è sei, il numero massimo è di
novantasei. Il primo tra gli organi parlamentari è quello del Presidente, di
natura monocratica, il quale dirige i lavori del Parlamento e lo rappresenta
nelle relazioni internazionali; forma inoltre, insieme a 14 vice presidenti,
l’Ufficio di Presidenza, avente funzioni consultive.
I membri del Parlamento sono organizzati in Gruppi politici, aventi per
numero minimo 25 membri provenienti da almeno un quarto degli Stati
membri; i capigruppo, assieme al Presidente, formano la Conferenza dei
Presidente, amministrante l’organizzazione dei lavori.
Il Parlamento Europeo lavora in seduta plenaria o in Commissioni: queste
ultime possono essere di natura temporanea (quando istituite con funzioni
temporanee o d’inchiesta) o permanenti, aventi la funzione di ripartirsi i
lavori per materia.
Il Parlamento, oltre ad eleggere il Presidente della Commissione, effettua
la funzione di bilancio e legislativa congiuntamente al Consiglio, e si
occupa di effettuare alcune funzioni di controllo politico: a tal scopo
dispone innanzitutto di alcuni mezzi attraverso i quali ottenere
informazioni sull’operato di delle altre istituzioni, ricevendo innanzitutto
relazioni generali annuali da parte della Commissione; esso può inoltre
procurarsi le informazioni autonomamente attraverso le interrogazioni e le
audizioni della Commissione, del Consiglio e del Consiglio Europeo.

Oltre ad essere consultato dall’Alto Rappresentante sui principali aspetti


della politica estera, può essere sollecitato da parte degli individui
attraverso le petizioni, sporte su argomenti rientranti nell’attività
dell’Unione, le denunce, presentate in caso di infrazioni o di cattiva
amministrazione nell’applicazione del diritto dell’Unione, o dal Mediatore
Europeo, attraverso il quale qualsiasi persona fisica o giuridica può
lamentare casi di cattiva amministrazione degli organi dell’Unione; egli,
dopo aver svolto una fase di indagini preliminari, si rivolge all’istituzione
interessata se ritiene che sussista un caso di cattiva amministrazione,
comunicando il proprio parere, e sulla base delle risposte ottenute elabora
una relazione che trasmette al Parlamento.

Gode inoltre di poteri sanzionatori nei confronti della Commissione,


contro la quale può innanzitutto approvare una mozione di censura, avente
per conseguenza le dimissioni d’ufficio dell’intero organo.
Il Consiglio
Il Consiglio è un organo di Stati in quanto composto da soggetti
rappresentanti direttamente gli Stati di appartenenza, composto da un
rappresentante ministeriale di ogni Stato abilitato ad impegnare il governo
che rappresenta e ad esercitare il diritto di voto.

Esso non è un organo permanente poiché si riunisce in formazioni tipizzate


dalla prassi nelle quali gli Stati si fanno rappresentare di volta in volta dal
ministro competente per materia.
Sono previste soltanto due formazioni del Consiglio, gli Affari Generali ed
Esteri, mentre le altre formazioni sono stabilite con decisione del
Consiglio Europeo: la prima si occupa di assicurare la coerenza dei lavori
dell’Unione, la seconda di elaborare l’azione estera dell’Unione ed è
presieduta in via permanente, per assicurare la continuità dei lavori,
dall’Alto Rappresentante (responsabile della PESC, di cui elabora la
politica, nominato dal Consiglio Europeo e dalla Commissione), mentre
tutte le altre formazioni hanno un Presidente passante da uno Stato all’altro
per rotazione.

Il Consiglio delibera per maggioranza qualificata (55% dei voti dei membri
di Stati la cui composizione complessiva non sia inferiore al 65% della
popolazione dell’Unione) o, qualora sia disposto diversamente, per
maggioranza semplice o per unanimità.

Le funzioni svolte dal Consiglio sono quella di bilancio e la legislativa,


svolte congiuntamente col Parlamento; alle condizioni stabilite dai trattati,
inoltre, definisce le politiche di coordinamento.
Il Consiglio Europeo
Il Consiglio Europeo, come il Consiglio dei Ministri, è un organo di Stati
in quanto composto da soggetti rappresentanti direttamente i singoli Stati
di appartenenza.

E’ composto dai Capi di Stato e di Governo degli Stati membri, dal suo
Presidente e dal Presidente della Commissione, mentre partecipa ai lavori
l’Alto Rappresentante, tuttavia in caso di deliberazione hanno potere di
voto solo i Capi di Stato o di
Governo; queste ultime avvengono per consenso, che si ottiene senza
bisogno di votare quando nessuno dei membri è contrario al testo
presentato dal Presidente, salvo in alcuni casi in cui è ammessa la
maggioranza qualificata (come la nomina del Presidente).

Il Presidente, permanente al fine di conferire maggiore continuità ai lavori,


è eletto a maggioranza qualificata con un mandato di due anni e mezzo
rinnovabile una volta: egli assicura la continuità e la preparazione dei
lavori.
Il Consiglio Europeo, definendo gli orientamenti e le politiche generali
dell’Unione, è il supremo organo di indirizzo dell’Unione e possiede
inoltre alcuni poteri decisionali capaci di produrre effetti nei confronti di
terzi; si delinea sempre di più come una presidenza collegiale dell’Unione,
esprimente il più alto interesse politico da parte di tutti gli Stati membri;
inoltre, essendo chiamato a porre in essere decisioni attuanti alcune
disposizioni dei trattati, si comporta come un organo dotato di poteri
costituzionali.
La Commissione
A differenza del Consiglio e del Consiglio Europeo, la Commissione è un
organo di individui poiché composta da soggetti non legati allo Stato di
provenienza da un vincolo di rappresentanza, portando all’organo la
propria capacità di giudizio.

Secondo il TUE, è composta da un numero di membri pari ai due terzi del


numero degli Stati membri (compresi il Presidente e l’Alto
Rappresentante) a meno che il Consiglio Europeo non decida all’unanimità
di modificare questo numero; quest’ultimo, applicando tale clausola, ha
stabilito che la Commissione è formata da un numero di membri pari agli
Stati membri. Il mandato dei componenti della Commissione dura cinque
anni, la stessa dei membri del Parlamento Europeo, salvo casi di mozione
di censura o pronuncia da parte della Corte di Giustizia sulla violazione
degli obblighi derivata dalla carica, provocanti le dimissioni d’ufficio.
La nomina della Commissione consta di 4 fasi. La prima di queste ha ad
oggetto l’individuazione del candidato alla carica di Presidente, effettuata
dal Consiglio Europeo a maggioranza qualificata. La seconda fase,
consistente nell’elezione del candidato da parte del Parlamento, precede la
terza, alla quale partecipa lo stesso Presidente, consistente in una
deliberazione, adottata di comune accordo tra il Consiglio ed il Presidente,
attraverso la quale si adotta l’elenco delle altre personalità formanti la
Commissione, selezionate tra quelle proposte dagli Stati membri; la
decisione richiede la maggioranza qualificata. Nella quarta fase il
Presidente e gli altri membri della commissione sono soggetti
collettivamente ad un voto di approvazione preceduto da audizioni
separate attraverso le quali sarà possibile manifestare opposizione nei
confronti di uno o più membri. Terminata questa fase, si passa alla nomina
da parte del Consiglio Europeo, effettuata a maggioranza qualificata.
Il Presidente della Commissione, altresì membro del Consiglio Europeo,
definisce gli orientamenti della Commissione e la sua organizzazione
interna, nomina i vicepresidenti e ripartisce le competenze tra i membri
della Commissione.
E’ un organo collegiale e le deliberazioni sono assunte a maggioranza del
numero dei suoi membri.

La Commissione si comporta da promotore e da interprete dell’interesse


generale, che applica attraverso il proprio potere esclusivo di proposta;
inoltre, comportandosi come custode della legalità e del diritto
dell’Unione, vigila sull’appropriata applicazione dei trattati da parte degli
Stati membri (soprattutto attraverso il ricorso per infrazione) e sulla
corretta adozione delle misure da parte delle istituzioni.
La Corte di Giustizia
La Corte si articola in più rami dotati di autonomia funzionale e di
autonomia amministrativa parziale; ognuno di questi rami è formato da
organi di individui.

L’attività della corte è regolata innanzitutto dai trattati, in particolare il


TFUE, dallo Statuto della Corte e dal regolamento di procedura. Essa è
composta da un giudice per Stato membro (28) ed è assistita da avvocati
generali (attualmente 11), il cui numero è variabile con delibera unanime
del Consiglio, richiesta dalla Corte. Tra i giudici viene eletto un presidente
avente mandato rinnovabile di tre anni; mentre i giudici, facenti parte del
collegio giudicante, emettono le decisioni, gli avvocati generali hanno una
funzione ausiliaria, presentando pubblicamente ai giudici conclusioni
motivate non vincolanti sulle cause in cui è richiesto il loro intervento. I
giudici, aventi mandato rinnovabile di sei anni, sono nominati di comune
accordo dai governi degli Stati membri.
La Corte opera in sezioni, formazioni ordinarie composte da tre o cinque
giudici, grandi sezioni, formate da quindici giudici e convocate da uno
Stato membro o da un’istituzione dell’Unione quando sono parti in causa,
e in seduta plenaria, con la partecipazione di tutti i giudici, in caso il
giudizio sia di importanza eccezionale.

Le principali funzioni della Corte sono di natura giurisdizionale in quanto


verificano la corretta interpretazione e applicazione dei trattati; tuttavia
sono altresì effettuate funzioni di natura consultiva, in base alle quali è
chiamata ad esprimere un parere (che può essere o meno conforme) su una
controversia.
Le procedure decisionali
Le procedure decisionali in generale e la base giuridica
Per procedure decisionali s’intende la sequenza di atti o fatti richiesta dai
trattati affinché la volontà dell’Unione si possa manifestare attraverso
determinati atti giuridici.

Essendo composte da atti e fatti provenienti da svariate istituzioni


(Commissione, Parlamento, Consiglio e Consiglio Europeo), le procedure
hanno prevalentemente carattere interistituzionale.

Il ruolo rispettivo delle istituzioni varia a seconda del settore di


applicazione: in alcuni settori prevalgono ancora le istituzioni
rappresentative o viene deciso che deliberino all’unanimità, mentre in altri
settori il Consiglio ed il Parlamento sono posti in parità, mentre l’iniziativa
è generalmente presentata dalla Commissione.
La disciplina delle procedure decisionali è stabilita in maniera tassativa
dai trattati ed è inderogabile per le istituzioni: sono previsti due tipi di
procedure, quella legislativa ordinaria e quelle legislative speciali.

Il primo tipo di procedura consiste nell’adozione congiunta di un


regolamento, di una direttiva o di una decisione da parte del Parlamento e
del Consiglio su proposta della Commissione ed ha applicazione generale.
Le procedure legislative speciali, invece, si applicano solo in casi specifici
previsti dai trattati e prevedono l’adozione di un regolamento, di una
direttiva o di una decisione da parte del Parlamento Europeo con la
partecipazione del Consiglio e viceversa.

Si stabilisce quale procedura vada seguita di volta in volta attraverso la


definizione della corretta base giuridica dell’atto che si intende adottare, ed
è cioè necessario comprendere quale disposizione dei trattati attribuisca
alle istituzioni il potere di adottare un determinato atto, e affinché ciò sia
possibile è necessario analizzare lo scopo e il contenuto dell’atto o, qualora
possibile, una base giuridica più specifica. Qualora l’atto persegua una
pluralità di scopi o presenti contenuti differenziati, sarà necessario dedurre
la base dal “centro di gravità” dell’atto, e qualora non sia possibile
determinarne uno, l’atto avrà base plurima.
La procedura legislativa ordinaria
La procedura di legislativa ordinaria era nota, prima del Trattato di
Lisbona, come procedura di codecisione in quanto le due istituzioni
coinvolte, Parlamento e Consiglio, gestiscono in maniera congiunta il
potere decisionale senza che la volontà dell’una prevalga sull’altra. Essa si
fonda su un sistema di letture ripetute che cominciano in seguito alla
proposta della Commissione, che può essere spontanea o frutto di una
sollecitazione del Parlamento, del Consiglio o di altri organi e addirittura
dei cittadini.
Partendo dal presupposto che la Commissione è portatrice dell’interesse
generale dell’Unione mentre il Consiglio degli interessi particolari di
ciascuno Stato, il TFUE concede al Consiglio di emendare la proposta
della Commissione solo all’unanimità, sicché solo con il consenso dei
rappresentanti di tutti gli Stati membri è possibile modificare il testo
proposto, in modo che le modifiche proposte corrispondano altresì ad un
interesse generale; tale criterio si applica nel corso della prima e nella
seconda lettura, mentre non è possibile nel corso della terza lettura e
durante la fase di conciliazione, durante le quali il Consiglio potrà
deliberare solo a maggioranza qualificata attenendosi alla proposte iniziali.
Inoltre, al fine di evitare situazioni di stallo, la Commissione potrà
modificare la propria proposta in ogni fase della procedura o addirittura
ritirarla, in caso l’emendamento prospettato snaturi la proposta iniziale.
In seguito alla proposta della Commissione, indirizzata simultaneamente al
Consiglio e al Parlamento, ha inizio la prima lettura, che consiste
nell’adozione di una posizione da parte di quest’ultimo organo; se la
posizione del Parlamento è conforme alla proposta della Commissione il
Consiglio può approvarla a maggioranza qualificata, se invece la posizione
parlamentare emenda la proposta, il Consiglio per approvarla dovrà
deliberare all’unanimità. Inoltre, qualora il Consiglio non fosse concorde
alla posizione Parlamentare, potrà adottare, a maggioranza qualificata, una
posizione in prima lettura, aprendo in tal caso la seconda lettura, durante la
quale il Parlamento avrà tre mesi di tempo o per approvare la posizione in
prima lettura del Consiglio (anche omettendo di deliberare entro il
termine), o per respingere la posizione (a maggioranza assoluta degli
aventi diritto) o per proporre emendamenti. Nel primo caso, l’atto si
considererà adottato nella formulazione proposta dal Consiglio; nel
secondo
caso, la procedura si arresta poichè l’atto si considera non adottato; nel
terzo caso sarà invece previsto l’intervento del Consiglio, che potrà
approvare tutti gli emendamenti del Parlamento, e qualora non lo facesse si
aprirebbe un comitato di conciliazione, avente il compito di approvare
entro sei settimane un progetto comune con la collaborazione della
Commissione, e l’atto si considererà non adottato se il comitato non riesce
ad approvare un progetto comune; in caso contrario si passerà
all’approvazione in terza lettura, durante la quale il Parlamento ed il
Consiglio dovranno approvare un progetto comune entro sei settimane,
oltre le quali l’atto si considera non adottato.
L’ordinamento dell’Unione Europea
Le fonti dell’Unione
L’ordinamento dell’Unione si fonda su un sistema di fonti di produzione
del diritto articolate secondo una propria gerarchia ed autonome rispetto al
diritto interno degli Stati membri e rispetto all’ordinamento internazionale
generale.

In cima alla gerarchia, in quanto diritto primario, vi sono i trattati, i


principi generali del diritto e la Carta dei Diritti Fondamentali introdotta
dal Trattato di Lisbona, avente lo stesso valore giuridico dei trattati.
Si pongono invece come fonti intermedie (in quanto allo stesso tempo
gerarchicamente sottoposte alle fonti primarie ma soprordinate rispetto agli
atti di diritto secondario, dai quali devono essere rispettate) le norme di
diritto internazionale e gli accordi internazionali conclusi dall’Unione.

Sono invece posti tra le fonti secondarie gli atti legislativi di base adottati
dalle istituzioni (regolamenti, direttive e decisioni) e gli atti d’attuazione o
d’esecuzione, sottoposti all’atto di base.

Gli atti di attuazione sono atti delegati di natura non legislativa ma di


portata generale, aventi il compito di modificare o integrare elementi non
essenziali degli atti legislativi. Essi sono adottati dalla Commissione su
delega disposta da un atto legislativo disposto congiuntamente da
Parlamento e Consiglio.

Gli atti di esecuzione sono invece adottati dalla Commissione e talvolta dal
Consiglio qualora fosse necessaria un’applicazione uniforme degli atti
giuridicamente vincolanti.
Gli atti adottati dalle istituzioni possono essere distinti in base alla loro
natura come atti legislativi o non legislativi in base alla procedura
decisionale applicabile per l’adozione, a sua volta indicata dalla base
giuridica dell’atto, di cui determina pertanto concretamente la natura; la
categoria degli atti non legislativi, cui non viene applicato il processo
legislativo ordinario, è pertanto determinata per esclusione a partire da
quella degli atti legislativi, necessitanti, al contrario della precedente
categoria, di essere adottati in seduta pubblica.

Inoltre, è possibile distinguere gli atti in base alla loro struttura come atti
tipici, elencati dal TFUE e di natura vincolante
(regolamenti, direttive e decisioni) o non vincolante (pareri e
raccomandazioni), ed atti atipici, non elencati dal TFUE.
Parte 1: Le fonti primarie
I trattati, la loro natura giuridica, la revisione e la rescissione
Le fonti del diritto primario dell’Unione sono i trattati TUE e TFUE,
emendabili solo da trattati di revisione e di adesione; godono della
medesima natura giuridica, tuttavia il TFUE ha natura strumentale rispetto
al TUE, integrandone e dettagliandone la disciplina.

Nel tempo si è dibattuto sulla natura dei trattati, assimilabili a, seconda


delle opinioni, a semplici trattati internazionali o ad una carta
costituzionale: pur essendo vero che essi siano stati conclusi secondo le
stesse modalità di un normale trattato internazionale, da una prospettiva
interna al diritto dell’Unione essi sono assimilabili ad una carta
costituzionale, definendo la struttura dell’Unione e le procedure per
l’adozione degli atti, oltre che i settori attribuiti alla competenza
dell’Unione; inoltre, la Corte di Giustizia interpreta i trattati come una
costituzione.

Appunto, al pari di una costituzione, i trattati possono essere modificati


unicamente attraverso le procedure di revisione previste dall’art. 48 TUE,
e la più importante tra queste è la procedura di revisione ordinaria, avente
applicazione generale.

Essa si avvia in seguito alla presentazione di un progetto di modifica da


parte di qualsiasi Stato membro, della Commissione o del Parlamento al
Consiglio, che trasmetterà l’atto al Consiglio Europeo, cui spetterà
approvare l’atto a maggioranza semplice, previa consultazione del
Consiglio o del Parlamento. In seguito, il Presidente del Consiglio Europeo
si occuperà di convocare una convenzione composta dai rappresentanti dei
parlamenti nazionali, dei capi di Stato o di Governo, del Parlamento e della
Commissione avente il compito di esaminare i progetti fornendo una
raccomandazione per la successiva conferenza intergovernativa (CIG)
(qualora l’entità delle modifiche non giustifichi la convocazione di questa
conferenza preliminare, sarà il Consiglio Europeo a decidere la
raccomandazione a maggioranza semplice previa approvazione del
Parlamento); quest’ultima, composta dai rappresentanti dei governi,
stabilisce di comune accordo le modifiche ai trattati, che, una volta
approvate, saranno
ratificate dai Parlamenti nazionali. Anche se non esplicitamente previsto
dall’art. 48, si ritiene che non sia consentita l’introduzione di norme
pregiudicanti il sistema giurisdizionale previsto dai trattati, né sono
modificabili l’art. 2 TUE, che definisce i valori dell’Unione, l’art. 6 TUE,
prescrivente il rispetto dei diritti dell’uomo, e l’art. 14 TFUE, che
stabilisce il principio del mercato interno.

E’ altresì possibile modificare i trattati attraverso la procedura di adesione


prevista dall’art. 49, secondo la quale può presentare domanda di adesione
ogni Stato europeo (condizione geografica) che rispetti i valori definiti
dall’art. 2 (condizione politica).

La domanda di adesione è presentata al Consiglio, che la approva


all’unanimità previa consultazione della Commissione e approvazione
parlamentare. Infine, attraverso un apposito trattato concluso tra gli Stati
membri e lo Stato candidato, sottoposto alla ratifica di ogni Stato membro,
sono definite le concrete modifiche ai trattati. Sono dunque il Consiglio ed
il Parlamento a decidere l’ammissione di uno Stato, mentre sono gli Stati
membri a definire il trattato.

Il Trattato di Lisbona ha introdotto la possibilità per ogni Stato di


esercitare un diritto di recesso dall’Unione previa notifica al Consiglio
Europeo. Il recesso può essere di natura concordata, se si arriva alla stipula
di un accordo sulle modalità di recesso tra lo Stato recedente e l’Unione, o
unilaterale, qualora non sia possibile raggiungere un accordo sulle
modalità di recesso entro due anni dalla notifica, oltre i quali gli effetti dei
trattati cessano automaticamente di applicarsi.
Principi generali del diritto
Accanto ai trattati ed alla Carta dei Diritti Fondamentali, sono fonti
primarie del diritto i principi generali, comprensivi dei principi relativi alla
tutela dei diritti fondamentali dell’uomo; si distinguono dai principi
generali i valori dell’Unione, aventi valenza sul piano politico e morale.
Una prima categoria di principi generali è costituita dai principi generali
del diritto dell’Unione, che trovano espressione in determinate norme dei
trattati aventi carattere imperativo ed improrogabile. Uno di questi principi
e quello di non discriminazione, vietante le discriminazioni legate alla
nazionalità, tra produttori e consumatori, tra lavoratrici e lavoratori:
essendo norme generali vanno interpretate in maniera ampia, come accade
in merito alla nozione di discriminazione, per la quale alle discriminazioni
palesi sono state assimilate quelle indirette.
Anche l’applicazione dev’essere interpretata in maniera estensiva, e tale
nozione sarà pertanto applicata ad ipotesi non espressamente contemplate
dalle suddette norme. Ulteriore manifestazione del principio di non
discriminazione è quello di uguaglianza, il quale impone che situazioni
simili siano disciplinate in maniera simile e che situazioni diverse non
siano disciplinate in maniera uguale, vietando distinzioni di trattamento tra
situazioni analoghe e imponendo il diverso trattamento di situazioni non
comparabili. E’ tuttavia frequente che tale principio porti ad una
discriminazione alla rovescia, ossia ad una situazione in cui una norma di
uno Stato preveda per i propri cittadini un comportamento più severo
rispetto a quello riservato quello di altri Stati membri. Sono altresì principi
generali dell’Unione il principio di libera circolazione, della tutela
giurisdizionale effettiva, i principi di attribuzione, di sussidiarietà e di
proporzionalità.
Un’altra categoria di principi è quella dei diritti comuni agli ordinamenti
degli Stati membri, desumibili dall’esame parallelo degli ordinamenti
nazionali. I principali principi sono quello di legalità, in base al quale ogni
potere esercitato dalle istituzioni deve trovare legittimazione in una fonte
dei trattati, quello di certezza del diritto, per il quale i soggetti tenuti a
rispettare la norma giuridica devono essere messi in condizione di poterlo
fare e di conoscere il comportamento imposto dalla norma, quello di
proporzionalità, per cui gli interventi della pubblica autorità limitanti la
libertà dei singoli devono perseguire in maniera idonea una finalità di
interesse comune e necessari a tal fine.
Infine, una terza categoria di principi generali è quella comprendente i
principi volti alla protezione dei diritti umani, tutelati da molteplici fonti
elencate dall’art. 6 TUE, anche esterne all’Unione. La prima di queste è la
Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione Europea, avente lo stesso
valore giuridico dei trattati; l’Unione riconosce poi la CEDU
(Convenzione Europea Diritti dell’Uomo) ed i diritti fondamentali garantiti
da quest’ultima e dalle tradizioni costituzionali degli Stati membri, che
l’Unione ha incorporato in quanto principi generali. L’Unione è tuttavia
attualmente impossibilitata ad aderire formalmente alla CEDU, in quanto il
controllo esterno della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo imporrebbe
all’Unione Europea un controllo esterno che ne
violerebbe l’autonomia; fino al momento in cui verrà ultimata l’adesione,
l’Unione sarà vincolata in maniera meramente indiretta dalla CEDU, che
costituisce una fonte di ispirazione per la definizione dei principi generali
del diritto applicabili all’Unione insieme alle tradizioni costituzionali
comuni agli Stati membri.
Tuttavia, non essendo aderente l’Unione alla CEDU, rimane da definire la
responsabilità degli Stati, che sono invece aderenti, rispetto ad essa. La
Corte EDU ha sottolineato che gli Stati non sono sottratti al rispetto dei
diritti tutelati dalla CEDU, ma che tuttavia essa interverrà solo nei casi in
cui per gli Stati membri sussista un margine di discrezionalità
nell’attuazione degli obblighi derivanti dal diritto dell’Unione, in quanto,
qualora mancasse ogni discrezionalità per gli Stati membri, sarebbe la
Corte dell’Unione a controllare gli Stati membri, rendendo inutili ulteriori
controlli.
La Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione Europa
Essendo i diritti fondamentali rientranti nei principi generali del diritto,
spetta alla Corte il compito di individuare i diritti fondamentali e di
indicarne il contenuto. Per conferire una maggiore prevedibilità alle
sentenze della Corte e data l’impossibilità ad aderire in tempi stretti alla
CEDU, si è deciso di porre per iscritto i diritti fondamentali sulla Carta,
cui è stato attribuito dal Trattato di Lisbona lo stesso valore giuridico dei
trattati (attribuendo pertanto alle norme in essa contenute lo stesso
carattere cogente di quelle dei trattati), riconoscendo e sottolineando di
conseguenza tutti i diritti in essa contenuti.
La sua funzione non è dunque di carattere normativo, poiché non crea
nuovi diritti, ma si limita a riassumere in un unico documento l’elenco e le
descrizioni dei diritti fondamentali ricavabili dalla lettura delle differenti
fonti di principi dell’Unione. Per i diritti della Carta non coincidenti con i
diritti previsti dalle fonti cui la Carta si ispira è stabilita una clausola di
compatibilità, dalla quale è previsto che la Carta non impedisce
l’applicazione dei diritti delle altre fonti quando esse prevedano una tutela
più ampia di quella garantita dalla Carta. Qualora invece la Costituzione di
uno Stato prevedesse una tutela più ampia, quest’ultimo potrà applicare gli
standard nazionali a patto che non danneggi il livello di tutela previsto
dalla Carta né l’efficacia del diritto dell’Unione; ciò non sarà invece
possibile qualora il grado di tutela sia stato previsto in una norma o in un
atto di diritto dell’Unione.

E’ invece previsto dalla clausola di equivalenza che qualora la Carta


contenga diritti corrispondenti a quelli previsti dalla CEDU, essi avranno
un livello di tutela almeno equivalente, se non superiore.

La Carta va interpretata tenendo conto le disposizioni del titolo VII della


Carta e le spiegazioni esplicative, che risultano dunque elevate a fonte
interpretativa obbligatoria.

Il ruolo dei principi generali e della Carta


I principi generali e la Carta svolgono una funzione strumentale, influendo
sull’applicazione di norme derivanti da altre fonti. Infatti assumono rilievo
innanzitutto in quanto criteri interpretativi delle altre fonti dell’Unione, le
cui norme (dei trattati e degli atti) devono essere interpretate alla loro luce,
cosicché l’interprete coglierà il corretto significato di ciascuna norma
attraverso la loro lettura.

I principi generali fungono inoltre da parametro di legittimità per gli atti


delle istituzioni, che possono essere annullati o dichiarati invalidi per
violazione di un principio.

Infine, fungono altresì da parametro di legittimità per i comportamenti


degli Stati membri quando questi ultimi, attuando un trattato, non osservi
uno dei principi; affinché dunque un comportamento dello Stato possa
essere contestato è tuttavia necessario un collegamento tra il diritto
dell’Unione ed il comportamento stesso.
Parte 2: Le fonti secondarie
I regolamenti
Il regolamento è un atto avente portata generale e obbligatorio in tutti suoi
elementi, direttamente applicabili in ogni Stato membro. Avendo portata
generale, il regolamento, avente natura normativa, è applicato non a
soggetti predeterminati ma alla generalità; è possibile che il regolamento
definisca requisiti di applicazioni tali da restringere il campo di
applicazione, ma questa caratteristica non è comunque messa in
discussione. E’ tuttavia possibile che il contenuto di regolamento sia
determinato in base alla decisione individuale di alcuni soggetti ai quali il
regolamento è applicato, e si parla in caso di un regolamento solo di nome
costituito da una decisione individuale o da un fascio di decisioni
individuali.
Il regolamento è altresì obbligatorio integralmente, e cioè in tutti suoi
elementi: ne consegue che gli Stati membri non possono lasciare
inapplicate alcune delle sue disposizioni o limitarne il campo di
applicazione introducendo facoltà di deroga non previste.
Il regolamento è infine direttamente applicabile in ciascuno degli Stati
membri: tale caratteristica comporta innanzitutto che gli ordinamenti
interni degli Stati membri si adatteranno immediatamente ed
automaticamente al regolamento, senza che sia necessario subordinare
l’applicazione del regolamento ad una norma interna, cosicché nel
momento stesso in cui i regolamenti entrano in vigore nell’ordinamento
d’origine essi sono applicabili all’interno di ciascuno Stato membro; in
secondo luogo l’applicabilità diretta implica la capacità di produrre effetti
diretti all’interno di ciascuno degli ordinamenti (efficacia diretta).
Le direttive
La direttiva è un atto che vincola lo Stato membro per il risultato da
raggiungere ma non per la forma ed i mezzi che lo Stato deve adottare; ha
l’obiettivo di ottenere il ravvicinamento delle disposizioni legislative degli
Stati membri in determinate materie. Innanzitutto, al contrario del
regolamento, la direttiva ha portata individuale e non generale e vi sono
dei destinatari definiti per ciascuna direttiva; spesso capita che la direttiva
sia rivolta a tutti gli Stati membri, e si parla in tal caso di direttiva
generale. La direttiva, pur non avendo portata generale, assumono questa
caratteristica dopo l’attuazione da parte degli Stati membri, pertanto si
ritiene che la direttiva sia uno strumento di normazione operante in due
fasi, la prima accentrata a livello dell’Unione, nel corso della quale
vengono fissati gli obiettivi ed i principi generali oggetto dell’obbligazione
statale, e la seconda decentrata a livello nazionale, dove ciascuno Stato
attua tali obiettivi attraverso strumenti normativi completi e dettagliati.
La direttiva non gode della diretta applicabilità richiedendo che gli Stati la
attuino attraverso apposite misure senza le quali essa non è applicabile; gli
Stati sono dunque tenuti a modificare il loro ordinamento interno in modo
assicurare che sia raggiunto il risultato voluto dalla direttiva; si parla
invece di efficacia diretta della direttiva soltanto in caso essa sia
sufficientemente precisa ed incondizionata.
La direttiva, al pari del regolamento, è obbligatoria in tutti i suoi elementi
ma si limita a imporre agli Stati un risultato da raggiungere, comportando
dunque un obbligo di risultato (il regolamento impone invece un obbligo
di mezzo), obbligando gli Stati ad attuare la direttiva scegliendo i mezzi e
le forme più appropriate.
Tale obbligo di attuazione è assoluto per ciascuno Stato membro al quale
la direttiva è rivolta, salvo che lo Stato dimostri che l’ordinamento interno
sia già conforme alla direttiva. L’obbligo va adempiuto entro il termine di
attuazione fissato dalla direttiva stessa, entro il quale non è possibile
adottare provvedimenti in contrasto con la direttiva (obbligo di non
aggravamento).

Gli Stati membri sono competenti quanto alla scelta delle forme e dei
mezzi di attuazione, che devono essere idonei a produrre la modificazione
degli ordinamenti interni voluti dalla direttiva: bisognerà dunque che il
legislatore nazionale tenga conto della gerarchia delle fonti di diritto
interno, scegliendo un atto normativa che possa abrogare una norma già
esistente regolante la stessa materia; in secondo luogo, devono essere scelti
strumenti che garantiscano trasparenza e certezza del diritto.

Le decisioni quadro
Le decisioni quadro erano un atto applicabile nell’ambito del Terzo
Pilastro avente una struttura simile a quella delle direttive, con le quali
condividono lo scopo (ravvicinamento delle disposizioni legislative degli
Stati membri) e la struttura implicante un obbligo di risultato; le decisioni
quadri non godono tuttavia di efficacia diretta. Pur non essendo più
possibile adottarli, i loro effetti giuridici rimangono validi finché abrogati,
annullati o modificati in applicazione dei trattati.
Le decisioni
La decisione è un atto vincolante che obbliga in tutti i suoi elementi i
destinatari designati (decisioni individuali) o la generalità, qualora questi
non siano individuati (decisioni generali).
La decisione individuale risulta da un’unione di due caratteristiche, ossia
l’obbligatorietà integrale propria dei regolamenti e la non- generalità delle
direttive, che vincola i soli destinatari designati; può essere rivolta non
solo a Stati membri, ma anche ad altri soggetti, compresi i singoli. Le
decisioni individuali rivolte agli Stati sono
regolate in maniera analoga alle direttive qualora impongano un obbligo di
facere, che viene imposto in modo più preciso; qualora l’obbligo sia di non
facere, lo Stato destinatario sarà invece tenuto ad astenersi dall’attività
vietata.

Le decisioni individuali rivolte ai singoli hanno invece natura


prevalentemente amministrativa e vengono principalmente adottate nella
disciplina della concorrenza.
Le decisioni generali sono generalmente adottate dal Consiglio Europeo in
attuazione di specifiche disposizione dei trattati (composizione Parlamento
Europeo).
Parte 3: L’adattamento dell’ordinamento italiano
Esecuzione dei trattati
I trattati si presentano nella forma di normali trattati internazionali, adottati
dagli Stati attraverso la legge di ratifica, che comporta l’ordine di
esecuzione.
Si riteneva di dover adottare una norma costituzionale ad hoc cui
ricondurre le limitazioni di sovranità, ma una norma del genere non è mai
stata adottata e si è pensato di ricondurre l’adesione italiana all’Unione
all’art.11 Cost, il quale acconsente alle limitazioni di sovranità in parità
con altri Stati purché portino all’istituzione di un ordinamento che preservi
la pace e la giustizia tra le Nazioni; tale norma, avente carattere
procedurale, consente dunque di acconsentire a limitazioni di sovranità
senza ricorrere ad ulteriori norme.

Il diritto derivato veniva inizialmente attuato attraverso una delega


legislativa al Governo, soluzione che comportò problemi giuridici (non
erano rispettata la limitatezza dell’oggetto della delega) e pratici
(lunghezza dell’approvazione della legge delega); venne in seguito
approvata la legge La Pergola, la quale prevede (insieme alle successive
modifiche) che ogni anno il Parlamento approva una o più leggi volte a
rendere l’ordinamento conforme a tutti gli obblighi derivanti
dall’appartenenza all’Unione e prevede in tal senso due distinti
provvedimenti: la legge di delegazione europea e la legge europea.

Attraverso la legge di delegazione europea si fornisce una delega


legislativa al Governo, che attuerà le norme dell’Unione mediante decreti
legislativi; il Governo può inoltre essere autorizzato
all’attuazione delle direttive in via regolamentare, ed i regolamenti emessi
saranno capaci di modificare le norme preesistenti su autorizzazione
parlamentare, delegificando le materie interessate. La legge europea attua
in maniera diretta gli obblighi derivanti dal diritto dell’Unione attraverso
l’abrogazione o la modifica delle disposizioni statali vigenti.
Il diritto dell’Unione ed i soggetti degli ordinamenti
Applicazione delle norme europee negli ordinamenti interni
Secondo il diritto dell’Unione sono titolari di soggettività giuridica (e
possono dunque essere destinatari delle norme) sia gli Stati membri sia
coloro ai quali spetta questa titolarità al loro interno, cosicché ogni norma
europea, rivolgendosi sia a questi ultimi che ai loro cittadini, assume una
dimensione sia internazionalistica che interna.

Sono di tipo internazionalistico i rapporti che il diritto dell’Unione fa


sorgere in capo agli Stati membri (nel cui ambito si presenta in maniera
unitaria nella sua composizione) e all’Unione stessa, contenenti diritti e
obblighi che l’Unione può far valere sia rispetto ad altri Stati membri che
rispetto alle istituzioni.

Appartengono invece ad una dimensione interna all’ordinamento di


ciascuno Stato i rapporti giuridici legati al diritto dell’Unione che sorgono
in capo ai soggetti di tali ordinamenti: questi rapporti possono essere di
natura orizzontale, quando vedono contrapposti due privati, o di natura
verticale, quando essi sorgono tra un soggetto privato ed un pubblico.

Questi rapporti possono essere regolati in tutto o in parte dal diritto


dell’Unione, come accade nel caso dell’applicazione dei regolamenti che,
essendo direttamente applicabili, costituiscono una fonte che assume
valore normativo anche all’interno degli ordinamenti nazionali, nei quali si
sostituiscono alle norme preesistenti regolando un’intera materia per
effetto di sostituzione; può invece accadere che il diritto dell’Unione,
dettando principi o regole contrarie ad una norma interna, impedisca per
effetto di opposizione l’applicazione di tale norma.

In entrambi i casi, sia che il diritto dell’Unione si sostituisca ad una norma


interna nella disciplina di una materia, sia che esso impedisca
l’applicazione di una disposizione, la norma comunitaria procede effetti
diretti e gode quindi di efficacia diretta negli ordinamenti interni e quindi
nei confronti dei soggetti di tali ordinamenti; per conseguenza il soggetto
nei cui confronti la norma produce un effetto positivo può pretenderne il
rispetto nei confronti degli altri soggetti ed invocare un giudizio dinanzi al
giudice nazionale, richiedendo l’applicazione della norma stessa qualora
non sia rispettata.
Qualora la norma fosse priva di efficacia diretta, essa può far produrre i
suoi effetti in maniera indiretta in due possibili casi:

il primo tra questi è quello dell’interpretazione conforme, per la quale i


giudici nazionali sono costretti ad interpretare le norme interne in maniera
conforme a quanto stabilito dal diritto comunitario; vi è poi il diritto di
risarcimento del danno che sorge in capo, a carico dello Stato membro
responsabile, a coloro che sono stati danneggiati dalla mancata attuazione
di una norma.
I presupposti dell’efficacia diretta
Non tutte le norme dell’Unione sono dotate di efficacia diretta, pertanto
ogni giudice nazionale che intenda trarre effetti diretti da una norma ha
l’onere di verificare d’ufficio se la norma presenti le caratteristiche
necessarie anche avvalendosi, se necessario, del rinvio pregiudiziale alla
Corte.

Sono state individuate dalla Corte differenti caratteristiche sostanziali che


rendono le norme applicabili dal giudice senza che egli debba sostituirsi al
legislatore facendosi carico di un potere indebito, e queste sono la
sufficiente precisione e l’incondizionatezza.
Il presupposto della sufficiente precisione è relativo alla formulazione
della norma, che nel suo testo deve contenere una disciplina abbastanza
definita da rendere la sua portata comprensibile per i soggetti destinatari
(secondo il principio di certezza del diritto), ed in tal senso è necessario
che siano specificati il titolare dell’obbligo, il titolare del diritto ed il loro
contenuto.
Il presupposto dell’incondizionatezza è invece relativo all’assenza di
clausole che subordino l’applicazione della norma ad ulteriori interventi
normativi, e cioè che consentano un margine di discrezionalità allo Stato.
Efficacia e applicazione degli atti
Le norme dei trattati possono essere invocate sia nei confronti di
un’autorità pubblica sia nei confronti di un privato e godono pertanto di
efficacia diretta verticale ed orizzontale.
Quanto ai principi generali, è accordata efficacia orizzontale al principio di
non discriminazione in base alla parità di trattamento; le norme della Carta
dei diritti, tutelando i diritti individuali delle persone, godono di efficacia
diretta verticale e possono essere
pertanto invocate a difesa di comportamenti lesivi assunti dai poteri
pubblici, ma solo ai fini dell’interpretazione degli atti emessi.
Le norme degli accordi internazionali conclusi dall’Unione con Stati terzi
assumono efficacia diretta innanzitutto se la struttura dell’accordo permetta
di riconoscere effetti diretti, ed in secondo luogo che la specifica
disposizione abbia le caratteristiche della sufficiente precisione e
dell’incondizionatezza.
I regolamenti, godendo dell’applicabilità diretta, sono generalmente capaci
di produrre effetti diretti; è tuttavia possibile che siano necessari ulteriori
atti di esecuzione da parte dello Stato, ed in mancanza di provvedimenti
nazionali le norme contenute nel regolamento saranno ritenute
direttamente applicabili qualora sufficientemente precise ed
incondizionate.
Anche le norme delle direttive, per essere direttamente efficaci, devono
avere le medesime caratteristiche, ma si pone un ulteriore problema
relativo al momento temporale oltre il quale tale efficacia può essere fatta
valere. La direttiva, infatti, non è un tipo di atto concepito per comportare
efficacia diretta, essendo la sua attuazione subordinata all’attività statale;
capita tuttavia frequentemente che gli Stati ritardino l’attuazione della
direttiva, la cui efficacia diretta può essere invocata soltanto dopo la
scadenza del termine (se non nel caso in cui lo Stato abbia attuato la
direttiva prima dello scadere del termine), cosicché lo Stato membro che
non ha recepito la direttiva deve subire le conseguenze del proprio
inadempimento che ha impedito ai singoli di avvalersi dei diritti ad essi
riconosciuti. Essendo dunque l’inadempimento causato da una colpa dello
Stato, l’efficacia diretta è limitata ai soli rapporti verticali. In sintesi, la
direttiva gode della sola efficacia diretta verticale, non essendo ammessa
quella orizzontale nè la verticale invertita (autorità pubbliche contro
privati), salvo alcune eccezioni.
Una prima eccezione rilevante di è il caso dei rapporti triangolari,
sostanzialmente rapporti orizzontali indiretti in cui un privato contesta ad
un’autorità pubblica la non-applicazione di una norma la cui applicazione
sarebbe invece lesiva per un altro soggetto privato controinteressato.

Una seconda eccezione si applica alle direttive che sottopongono le misure


degli Stati ad una procedura di controllo: allo Stato può essere contestata
una regola interna non conforme, che sarà disapplicata non producendo
effetti diretti sulla disciplina dei rapporti tra privati.
L’obbligo di interpretazione conforme
Qualora la norma non potesse godere di efficacia diretta è possibile
ricorrere ad alcune forme di efficacia indiretta.

La prima forma di efficacia indiretta consiste nell’obbligo di


interpretazione conforme (ampiamente applicato nell’ambito delle
direttive) per il quale i giudici nazionali, interpretando norme interne, sono
chiamati a leggerle alla luce del diritto dell’Unione, facendo il possibile
affinché il risultato voluto dalla direttiva sia raggiunto: la differenza
rispetto alla diretta efficacia (per la quale il giudice è tenuto a disapplicare
la norma configgente con la norma dell’Unione) risiede nel fatto che egli
applica la norma interna, ma interpretandola in modo aderente a quella
dell’Unione.

L’obbligo di interpretazione conforme è applicato innanzitutto


all’interpretazione delle disposizioni che uno Stato membro ha adottato per
attuare una direttiva: si riterrà dunque che lo Stato abbia agito per
adempiere agli obblighi derivanti dalla direttiva. L’obbligo è tuttavia
sottoposto ad alcuni limiti: non è innanzitutto applicabile quando
l’interprete sia privo di un margine di discrezionalità, per cui egli abbia a
disposizione differenti interpretazioni tra cui scegliere; se la norma interna
è invece inequivocabilmente contraria al diritto dell’Unione, l’obbligo
viene meno in quanto non può essere posto alla base di un’interpretazione
contra legem del diritto nazionale. Inoltre, non sorge prima della scadenza
del termine di attuazione della direttiva e l’interpretazione risultante non
può porsi contro i principi generali.
Il risarcimento del danno
Anche se la norma è priva di efficacia diretta, è riconosciuto che essa possa
essere fonte di un diritto di risarcimento del danno a carico dello Stato al
fine di fornire un’altra forma di efficacia indiretta.

Così, in caso di mancata attuazione di una direttiva (per sua natura priva di
efficacia diretta), in seguito al comportamento omissivo degli organi statali
che impedisce il sorgere del diritto garantito dalla direttiva ai singoli, è
riconosciuto un risarcimento qualora siano rispettate tre condizioni: è
innanzitutto necessario che la norma dell’Unione conferisca ai singoli un
diritto individuabile nella norma stessa, che la violazione della norma sia
sufficiente grave e manifesta e che tra il danno causato e la violazione
sussista un nesso di causalità diretto. I principali organi che possono
causare
la responsabilità dello Stato con il loro comportamento omissivo o
commissivo sono gli quelli legislativi, gli enti locali ed il potere
giudiziario.
Il primato del diritto dell’Unione
Molto spesso la norma dell’Unione ha per oggetto materi e aspetti che in
precedenza erano disciplinati da norme interne avente contenuto diverso o
che una norma interna sopravvenuta confligga col diritto dell’Unione:
questi conflitti tra norme sono risolti attraverso il principio del primato del
diritto dell’Unione, seconde il quale le norme nazionali non possono in
alcun modo ostacolare l’applicazione del diritto comunitario all’interno
dell’ordinamento degli Stati membri. Pertanto, la norma comunitaria
direttamente efficace prevale sempre sulla norma interna che ne impedisce
parzialmente o totalmente l’applicazione.

All’efficacia diretta va affiancato il principio del primato poiché in sua


assenza si creerebbero diritti in capo ai soggetti solamente negli Stati in cui
non esistono norme confliggenti, e ciò è inammissibile; parimenti, il
principio del primato non vale in assenza di efficacia diretta poiché la
norma comunitaria priva di effetti diretti non può essere applicata dal
giudice che pertanto non può disapplicare la norma interna incompatibile.

Cedono dinanzi al diritto dell’Unione le norme interne di qualsiasi rango e


non sarebbe possibile il contrario, ossia che l’efficacia vari in base al rango
della norma confliggente; è possibile che il diritto interno prevalga solo in
caso la norma interna sia essenziale al fine di tutelare un diritto
fondamentale che sia garantito anche dal diritto dell’Unione.
L’organo attraverso il quale far valere la prevalenza del diritto comunitario
è il giudice nazionale, avente il compito di applicare le disposizioni di
diritto comunitario e di garantire la piena efficacia di tali norme,
disapplicando d’ufficio qualsiasi disposizione contrastante, e non è
pertanto ammesso che sia sottratto al giudice il potere di disapplicare
immediatamente le norme.
E’ altresì previsto che il giudice emani provvedimenti provvisori affinché
la materia sia regolata nel periodo in cui la norma interna è sospesa per
accertamento. Lo Stato avrà l’onere di abrogare la norma incompatibile.
La posizione della giurisprudenza italiana
La Corte Costituzionale italiana parte dall’assunto che l’unico mezzo
attraverso il quale una legge possa essere resa inapplicabile è la
dichiarazione di incostituzionalità (art. 134 Cost.) e si preoccupa pertanto
di trovare un mezzo per far assumere valenza costituzionale al diritto
dell’Unione; in una prima analisi non è tuttavia stato trovato e si è pertanto
concluso che le norme dei trattati, eseguite con legge ordinaria, sono
destinate a cedere per abrogazione dinanzi a legge successiva. Si ha
dunque che secondo la Corte, opponendosi nettamente a quanto ammesso
dalla Corte di Giustizia, il giudice nazionale può applicare le norme dei
trattati solo qualora non sia sopravvenuta una norma successiva.

In seguito la Corte ritenne di valorizzare maggiormente l’art.11 Cost.


ritenendo che consenta all’Italia di accettare limitazioni di sovranità con
legge ordinaria che il legislatore deve rispettare non emanando leggi
ulteriori incompatibili, pena l’incostituzionalità delle leggi emanate;
tuttavia il giudice non può disapplicare la legge in maniera diretta ed è
sempre necessario il ricorso alla Corte, e la conseguenza è che il giudice ha
il potere di disapplicare soltanto le leggi precedenti alla legge europea, e
può solo sollevare la questione di costituzionalità qualora la legge da
disapplicare sia posteriore.

Vi fu un ulteriore cambio di posizione, per il quale la Corte riconobbe


l’impossibilità di assimilare le norme dell’Unione alle norme di legge
ordinaria e, per conseguenza, l’inammissibilità di applicare i metodi di
risoluzione di conflitti tra leggi appartenenti all’ordinamento italiano;
venne così affermato che gli eventuali conflitti vanno risolti secondo il
criterio della competenza, per cui occorre stabilire se la materia rientri tra
quelle per cui l’Italia ha accettato di limitare la propria sovranità, e sarà il
giudice ordinario a dover svolgere questo compito senza l’intervento della
Corte, disapplicando la norma interna difforme e applicando la norma
Comunitaria senza dar peso all’aspetto cronologico.

Vi sono tuttavia alcune eccezioni per le quali il giudice non potrà applicare
immediatamente la norma dell’Unione disapplicando la norma interna,
riservando tali competenze alla Corte, e queste sono l’ipotesi di conflitto
tra norma dell’Unione e norma interna in relazione ai principi
fondamentali dell’ordinamento e ai diritti dell’uomo ed in caso di norme di
legge dirette ad impedire il
rispetto dei principi fondamentali dei trattati. Qualora il contrasto sorga
rispetto ad una norma priva di efficacia diretta, il giudice, non potendo
disapplicare la legge interna, deve sollevare dinanzi alla Corte la questione
di costituzionalità per la violazione degli artt. 11 e 117. Va inoltre precisato
che, qualora il conflitto fosse sorto dinanzi ad una delle competenze dirette
della Corte (giudizio costituzionalità in via principale, conflitti
d’attribuzione e ammissibilità referendum), la Corte è chiamata, come ogni
organo giudicante, all’applicazione del principio del primato.
Il sistema di tutela giurisdizionale
La tutela del diritto comunitario
Le posizioni giuridiche sorte per effetto del diritto dell’Unione sono difese
dalla Corte di Giustizia dell’Unione Europea in tutte le sue articolazioni e
dagli organi giurisdizionali di tutti gli Stati membri. Alla Corte di Giustizia
spettano alcune competenze elencate in via tassativa nei trattati, ossia il
ricorso per infrazione, proposto contro uno Stato che abbia violato gli
obblighi derivanti dai trattati, il ricorso di annullamento, attraverso il quale
viene contestata la legittimità delle istituzioni, il ricorso in carenza,
utilizzato per contestare delle omissioni commesse dalle istituzioni, ed il
ricorso per risarcimento, proposto contro gli Stati inadempienti degli
obblighi sorti in loro capo; ognuno di questi ricorsi può essere proposto
dinanzi ciascuna articolazione della Corte.
Per evitare che i giudici di ogni Stato possano pregiudicare l’uniformità
del diritto comunitario è stato necessario diminuire il distacco tra i due
livelli di tutela giurisdizionale, e ciò è stato possibile attraverso lo
strumento di raccordo del rinvio pregiudiziale, per il quale il giudice
nazionale ha la facoltà, o talvolta l’obbligo, di deferire alla Corte le
questioni riguardanti il diritto dell’Unione. Si configura in questo modo un
sistema completo per il quale il titolare di una posizione soggettiva può
esperire ricorso, contro gli atti delle autorità pubbliche o delle istituzioni,
dinanzi ad un giudice, e qualora dovessero esserci delle lacune (mancanza
rimedio giurisdizionale per determinate situazioni soggettive), queste
vanno colmate attraverso un’interpretazione evolutiva delle norme
applicabili o a livello interpretativo.
Il ricorso per infrazione
L’oggetto del ricorso per infrazione è la violazione da parte di uno Stato
membro, inteso nella sua accezione unitaria di organizzazione, di uno dei
suoi obblighi definiti dai trattati o degli atti adottati in base ad essi (ad
esempio l’inattuazione delle direttive entro il termine); il ricorso per
infrazione non è esperibile, tuttavia, in alcune materie come quelle
rientranti nella PESC e in caso di violazione dei diritti dell’uomo, caso in
cui la è richiedibile solo se la violazione rientri nell’attuazione del diritto
dell’Unione.

La violazione in oggetto è considerata nel suo manifestarsi e non è


pertanto necessario provare un elemento psicologico né lo Stato può
addurre alcun tipo di giustificazione tratta da eventi interni.
Il procedimento per proporre il ricorso varia a seconda che a richiederlo sia
la Commissione o uno Stato (i singoli non potranno chiedere il
procedimento ma potranno al massimo denunciare una violazione ai
suddetti organi abilitati per sollecitarli ad intervenire). In ogni caso, sono
previste due fasi: la prima fase, di natura preliminare, è quella
precontenziosa, avente la finalità di comporre amichevolmente la
controversia, evitando l’intervento della Corte; è inoltre condizione di
rilevabilità del ricorso alla Corte, e assume di conseguenza carattere
procedurale. La fase contenziosa vera e propria prevede invece il ricorso
alla Corte e l’emanazione di una decisione giudiziaria.

Nel caso in cui il provvedimento sia avviato dalla Commissione, questa


avrà la facoltà di portarlo avanti con maggiore o minore velocità e
addirittura di fermarlo. Nel corso della fase precontenziosa, la
Commissione invia allo Stato una lettera di messa in mora con cui intende
richiedere le osservazioni di uno Stato entro un termine congruo
riguardanti determinati comportamenti contestati. Lo Stato presenterà o
meno le osservazioni (e nel caso non lo facesse entro il termine la
Commissione passerà alla fase successiva), ed in base ad esse la
Commissione emette un parere motivato mediante il quale intende esporre
in via definitiva le azioni attraverso le quali lo Stato possa conformarsi e
fissa un termine entro il quale compierle. Il parere motivato è tuttavia un
atto non obbligatorio attraverso il quale la Commissione si limita ad
esprimere un parere relativo all’infrazione commessa dallo Stato, che va
tuttavia accertata dalla Corte; lo Stato non è dunque obbligato a
conformarsi al parere motivato, ma lo farà se preferisce evitare il ricorso
alla Corte.
Il passaggio alla fase contenziosa è possibile solo dopo che il termine
fissato dal parere motivato sia decorso senza mosse da parte dello Stato; a
questo punto la Commissione potrà chiedere il ricorso alla Corte in
qualsiasi momento (potrebbe ad esempio dare più tempo allo Stato
affinché esso si conformi), e una volta presentato l’azione tardiva dello
Stato non comporta alcuna conseguenza sull’esito del giudizio a meno che
la Commissione non ritiri il ricorso. Alla Commissione spetta l’onere di
dimostrare l’inadempimento dello Stato accusato, ed in seguito la Corte
emetterà una sentenza attraverso la quale si limita a riconoscere che lo
Stato ha mancato ad un obbligo derivato dai trattati: si tratta tuttavia di una
sentenza di mero accertamento che non comporta alcuna condanna;
d’altronde, lo Stato è comunque tenuto a prendere i provvedimenti che
l’esecuzione della sentenza comporta, pena la presentazione di un secondo
ricorso per infrazione da parte della Commissione, che terminerà in questo
caso con una sentenza che condanna lo Stato a pagare una sanzione
pecuniaria.
Qualora il ricorso sia proposto da uno Stato membro al fine di risolvere
una controversia tra gli Stati, lo Stato proponente dovrà rivolgersi alla
Commissione che dovrà porre lo Stato accusato nelle condizioni di
presentare le proprie osservazioni; la Commissione dovrà emettere entro
tre mesi un parere motivato, e qualora i tre mesi fossero decorsi senza la
presentazione di un parere, lo Stato potrà chiedere direttamente il ricorso
alla Corte, la quale emetterà una sentenza nelle stesse modalità
precedentemente esposte; la richiesta di un’eventuale secondo
procedimento, comportante una sanzione pecuniaria, è tuttavia riservato
alla Commissione.
La competenza pregiudiziale
La Corte può e talvolta deve essere chiamata a pronunciarsi in via
pregiudiziale sulle questioni riguardanti il diritto dell’Unione poste dinanzi
ad un organo giurisdizionale dell’Unione.

Alla Corte sono rinviate le questioni di diritto dell’Unione nel corso dei
processi che si tengono dinanzi ai giudici nazionali, i quali ritengono la
pronuncia della Corte determinante ai fini della sentenza finale: la
pronuncia è dunque di natura pregiudiziale sia in senso temporale, in
quanto precedente alla sentenza del giudice, sia in senso funzionale, in
quanto strumentale alla sentenza.

La competenza della Corte è di natura indiretta, in quanto non sono le parti


a rivolgersi alla Corte, bensì il giudice nazionale, oltre che limitata,
potendo la Corte esaminare soltanto le questioni sollevate dal giudice.
Questo sistema ha lo scopo di evitare che ciascun giudice nazionale
interpreti la validità delle norme in maniera autonoma, infrangendo
l’unitarietà del diritto comunitario; d’altro canto, si offre ai giudici
nazionali un sistema di collaborazione per superare le difficoltà
interpretative poste dalle norme.
Facoltà e obbligo di rinvio
I giudici nazionali hanno obbligo o facoltà di rinvio a seconda che contro
le loro decisioni sia possibile proporre un ricorso giurisdizionale di diritto
interno oppure no; qualora sia possibile, il giudice è soggetto di una
semplice facoltà, ma qualora il giudice fosse di ultima istanza gli sarebbe
posto un obbligo di rinvio. Infatti, un errore interpretativo di un giudice di
ultima istanza resterebbe senza ulteriore rimedio e l’erronea decisione
rischierebbe di essere accolta in ulteriori sentenze che si baserebbero su di
una base incorretta. Va sottolineato che s’intende per giudice di ultima
istanza s’intende un organo giudicante emanante una decisione non
impugnabile e non è pertanto rilevante il rango occupato nell’ordinamento
giudiziario.

La facoltà di rinvio che spetta ai giudici non di ultima istanza implica che
questi sono liberi sul sollevare o meno la questione di diritto dinanzi alla
Corte e sul momento in cui sollevarla, e non sono soggetti a limitazioni di
natura interna.
Per rendere meno netta la distinzione pratica tra i giudici di ultima istanza
e gli altri giudici sono stati introdotti alcuni elementi di flessibilità:
innanzitutto essi, al pari degli altri giudici, non sono tenuti a sollevare la
questione se essi ritengono che non sia necessario ai fini della sentenza; vi
sono inoltre alcune circostanze per cui il rinvio può essere omesso e si ha
anche per loro facoltà di rinvio, e ciò accade quando la questione sia
materialmente identica ad un’altra questione sollevata in un’analoga
fattispecie, quando la risposta da dare risulti da una giurisprudenza
costante della Corte e quando la corretta applicazione si imponga con tale
evidenza da eliminare ogni dubbio. Prima di procedere in quest’ultimo
senso, il giudice dovrà verificare che la stessa soluzione sarebbe imposta
anche ai giudici degli altri Stati e ricollocare la norma nel suo contesto e
alla luce delle sue finalità, considerando la frequente in coincidenza tra il
significato che una nozione può avere nel diritto dell’Unione e nel diritto
interno. In ogni caso, qualora il giudice ritenga non necessario rivolgersi
alla Corte dovrà fornire una motivazione o il suo comportamento verrà
considerato arbitrario, dando luogo ad una responsabilità per lo Stato.

Infine, nell’ottica della diminuzione di distinzione tra i giudici, è stata


introdotta un ipotesi di obbligo di rinvio anche per i giudici non di ultima
istanza, e cioè nelle questioni pregiudiziali di validità,
per cui un giudice non potrà autonomamente accertare l’invalidità di un
atto delle istituzioni.
L’oggetto delle questioni pregiudiziali
La competenza pregiudiziale della Corte può avere ad oggetto innanzitutto
questioni di interpretazione, che possono avere a loro volta ad oggetto i
trattati (TUE e TFUE) e gli atti compiuti dalle istituzioni e dagli organi
dell’Unione; nell’ambito delle questioni di interpretazione è escluso che la
Corte possa procedere essa stessa all’applicazione delle norme
dell’Unione, che spetterà invece al giudice nazionale, e non gli è parimenti
consentito di interpretare le norme degli Stati membri o di pronunciarsi
sull’incompatibilità di queste ultime con le norme dell’Unione. Qualora
però il giudice effettui un rinvio in relazione alla compatibilità delle
norme, la Corte non si pronuncerà ma si limiterà a fornire al giudice tutti
gli strumenti interpretativi necessari. Oggetto della competenza
pregiudiziale sono altresì gli atti compiuti dalle istituzioni e dagli organi
dell’Unione: attraverso tali questioni la Corte ha la possibilità di effettuare
un controlla sulla validità ulteriore rispetto al ricorso di annullamento, con
il quale è condiviso l’oggetto della questione pregiudiziale (atti indicati
nell’art.263).
Le competenze dell’Unione Europea
Le competenze dell’Unione Europea
Non tutte le competenze attribuite all’Unione dai trattati hanno pari natura
e si distinguono, di fatto, tre tipi di categorie.
Il primo tipo di competenza è quella di tipo esclusivo, per la quale è
riservato alla sola Unione il potere di adottare atti legislativi o vincolanti;
gli Stati non possono adottare atti del genere nemmeno in caso di inazione
dell’Unione se non in caso di autorizzazione da parte di quest’ultima o per
dare attuazione a dei suoi atti.

L’Unione ha competenza esclusiva in una serie tassativa di settori, ossia


l’unione doganale, nella definizione delle regole di concorrenza, nella
politica monetaria e nella politica commerciale comune.
Si ha invece competenza concorrente nei settori in cui sia gli Stati che
l’Unione hanno il potere di adottare atti legislativi e vincolanti; gli Stati
hanno la pienezza dei loro poteri nella misura in cui l’Unione resta inerte,
e al contrario perdono potere in caso di azione dell’Unione, che può
decidere di lasciare più o meno potere agli Stati membri attraverso la sua
azione o la sua inerzia in determinati ambiti. Infatti, attraverso l’azione
dell’Unione diminuisce la possibilità di azione statale, in quanto gli Stati
membri non possono adottare provvedimenti in materie già oggetto di
provvedimenti; tuttavia, gli Stati riprenderebbero il loro potere in caso tali
provvedimenti venissero abrogati.

I settori di competenza concorrente non sono disposti in maniera tassativa,


pertanto un settore ricade in questa categoria se non è classificato come di
primo o di secondo tipo.
Vi è inoltre un terzo tipo di competenza, nel cui ambito l’Unione è tenuta a
svolgere la sua attività in parallelo con gli Stati membri, che vengono
sostenuti, coordinati o integrati dalle azioni svolte dall’Unione, che non
possono sostituirsi alla competenza statale.
Il principio di sussidiarietà
Il principio di sussidiarietà presuppone l’esistenza di una competenza
attribuita all’Unione poiché attiene all’esercizio di tale competenza, che
viene applicata, nei settori che non sono di sua competenza esclusiva
(secondo e terzo), soltanto se gli obiettivi dell’azione prevista non possono
essere raggiunti in maniera
efficace dagli Stati. Proprio poiché nei settori di competenza concorrente la
sopravvivenza della competenza statale dipende dall’azione dell’Unione, il
principio di sussidiarietà consiste in una garanzia per gli Stati membri che
essa non venga limitata o cancellata.
Il rispetto del principio di sussidiarietà nell’approvazione degli atti è
garantito da alcune garanzie procedurali, una di queste è descritta nel
secondo Protocollo sull’applicazione dei principi di sussidiarietà e di
proporzionalità, che affida ai parlamenti nazionali la facoltà di esercitare il
controllo sulla corretta applicazione di questi principi.
In primo luogo è effettuato un controllo a livello politico: a ciascun
parlamento nazionale e ad ogni sua camera è attribuito il potere di
formulare un parere motivato di non conformità al principio di
sussidiarietà entro otto settimane dalla trasmissione di un progetto
legislativo. A ciascuna camera è affidato un voto (ai parlamenti
unicamerali spettano due voti); qualora almeno l’un terzo dei voti
disponibili fosse espresso per la violazione di tale principio, si procede
allora alla procedura del cartellino giallo, per cui il progetto dovrà essere
riesaminato dal suo autore, che potrà decidere di mantenerlo, modificarlo o
ritirarlo con specifica motivazione.

E’ invece applicato il meccanismo del cartellino arancione se per


l’adozione dell’atto si deve seguire la procedura legislativa ordinaria: se
sono stati espressi pareri negativi che rappresentano la maggioranza
semplice dei voti la Commissione, se decide di mantenere il progetto,
dovrà emettere un parere motivato. Prima della prima lettura si aprirà
dunque una fase preliminare, nel corso della quale basta che il 55% dei
membri del Consiglio voti che la legge non rispetta il principio o che
faccia altrettanto il Parlamento a maggioranza dei voti espressi a far sì che
la proposta decada. Dopo il controllo politico effettuato nelle maniere
appena descritte, il controllo del principio di sussidiarietà spetta al giudice
dell’Unione, che dovrà verificare se l’obiettivo dell’azione potesse essere
raggiunto più efficacemente a livello comunitario e se l’azione comunitaria
non abbia oltrepassato i limiti imposti.
Generalità del mercato unico

Il mercato unico come sistema d’integrazione politica


Il progetto di integrazione inizia in seguito alla dichiarazione
Schuman del 1950: si decise di puntare su un progetto avanzato di
liberalizzazione degli scambi attraverso l’istituzione di un mercato
unico europeo. Gli Stati che aderenti, grazie alle forti opportunità di
crescita messe a disposizione, avrebbero ottenuto un forte
miglioramento del tenore di vita.
Il mercato comune si applicò innanzitutto con la CECA, che
prevedeva un mercato comune del carbone e dell’acciaio, ed in
seguito con la CEEA, che applicava la logica del mercato comune
all’energia atomica, ed infine con la CEE, istituente un mercato
comune generale comprendente tutti i settori industriali ed agricoli.
Il mercato comune assume dunque la funzione di strumento
principale finalizzato al raggiungimento degli scopi di sviluppo
economico e di integrazione tra gli Stati previsti dall’Unione, e gli è
affiancato il graduale ravvicinamento delle politiche commerciali.
L’instaurazione del mercato avviene attraverso l’imposizione di
divieti precisi ed incondizionati (e dunque aventi efficacia diretta) da
parte dei trattati, e nessuno degli Stati membri può sottrarsi ad essi
se non secondo le condizioni di deroga previste dai trattati.
In seguito all’unificazione dei mercati, gli Stati membri hanno
ampliato sempre di più il campo di azione dell’Unione, e si è avuta
innanzitutto la cittadinanza dell’Unione, che ha portato a sua volta
al riconoscimento della libertà di circolazione e di soggiorno ad
ogni cittadino; venne poi introdotta l’unione economica e
monetaria che vuole ampliare il campo del ravvicinamento delle
politiche economiche degli Stati membri attraverso la creazione di
una moneta unica che miri ad impedire che il funzionamento del
mercato possa essere distorto da iniziative autonome assunte dai
singoli Stati (come le svalutazioni competitive).
Nel corso degli anni, inoltre hanno assunto sempre maggior rilievo
a livello europeo le esigenze di tipo sociale e ambientale, che
prendono forma all’interno dei trattati prima con l’introduzione
dell’AUE e poi con il trattato di Amsterdam, in seguito ai quali
vennero inseriti tra gli obiettivi della Comunità, ad esempio, la
protezione dell’ambiente e l’occupazione sociale; la liberalizzazione
degli scambi, così, non è più vista come un obiettivo assoluto e va
bensì conciliata con altre circostanze, e viene così a crearsi
un’economia sociale di mercato, per la quale il legislatore,
emanando atti volti a migliorare il mercato interno, deve tenere in
considerazione preoccupazioni di tipo sociale ed occupazionale,
che in alcuni casi influiscono addirittura sull’interpretazione delle
norme regolanti il mercato interno, e fu così che accadde nella
pronuncia della Corte nella sentenza Laval, nella quale essa
affermò che la protezione dei lavoratori di uno Stato ospitante può
costituire una ragione imperativa di interesse sociale.

I contenuti del mercato unico europeo


Il mercato comune CEEA ed il CE si fondano su una vera e propria
unione doganale, che prevede una tariffa doganale comune ed è
completato da una politica commerciale comune di competenza
esclusiva. Tuttavia, non è stata fornita una nozione giuridica vera e
propria del mercato unico, essendo esso un obiettivo.
In particolare, è stato affermato dalla Corte nella sentenza Schul
che, ai fini di un raggiungimento di un mercato comune, si mira ad
eliminare ogni intralcio per gli scambi intercomunitari al fine di
fondere i mercati nazionali in un mercato unico quanto più simile
possibile ad un vero e proprio mercato interno. Nella definizione
indicata dalla Corte, le denominazioni di mercato comune e
mercato unico sono del tutto equivalenti, mentre il mercato interno
è richiamato come metro di confronto rispetto al fine del
raggiungimento di una logica di mercato nazionale, data dunque
dall’abbattimento delle barriere tra i mercati di ogni Stati.
Per raggiungere tale scopo sono disponibili alcuni strumenti, primi
tra questi alcuni divieti previsti in termini chiari e precisi dal TFUE
(implicanti l’efficacia diretta), e si tratta delle regole relative alla
libertà di circolazione, per le quali ogni ostacolo alla circolazione di
merci, persone, servizi e capitali deve essere eliminato, e delle
disposizioni in materia di concorrenza e di aiuti di Stato, vietanti
rispettivamente alle imprese e allo Stato di tenere comportamenti
che falsano la concorrenza o la ostacolano; traducendosi in
limitazioni imposte alla sovranità degli Stati e all’autonomia delle
imprese, si è soliti parlare in proposito di tali divieti di integrazione
negativa. Ad essa è affiancata la cosiddetta integrazione positiva,
assicurata da interventi di tipo legislativo (le cui basi giuridiche
sono fornite dalle disposizioni dei trattati in relazione ad ogni
materia) il cui scopo è quello di assicurare la completa integrazione
dei mercati e la completa integrazione dei mercati.
Nei primi anni successivi all’entrata in vigore del TCE la
realizzazione del mercato unico è rimasta affidata all’integrazione
negativa; venne tuttavia utilizzata molto di più l’integrazione
positiva con l’introduzione del Libro bianco sul completamento del
mercato interno, che prevedeva un elenco di azioni legislative da
adottare ad integrazione dei trattati sull’apertura dei mercati. Venne
così dato il potere di adottare delle misure destinate
all’instaurazione del mercato interno entro il 31 dicembre 1992 (art.
26 TFUE) senza la necessità che il Consiglio voti all’unanimità (art.
114 TFUE); attraverso l’introduzione di queste norme
programmatiche, venne affidato alle istituzioni il compito di fare in
modo di adottare misure legislative opportune a rendere il mercato
interno uno spazio senza frontiere interne entro il quale sia
assicurata la libera circolazione delle merci.
Tuttavia, come risultò dalla sentenza Baglieri, tale termine non era
perentorio e gli obblighi in capo agli stati potevano scaturire solo in
seguito all’armonizzazione delle normative in ogni Stato membro.

Spazio di libertà, sicurezza e giustizia (SLSG)


Uno degli obiettivi dell’Unione è quello di creare uno spazio di
libertà, sicurezza e giustizia senza frontiere interne in cui sia
assicurata la libera circolazione delle persone, l’asilo,
l’immigrazione e la prevenzione della criminalità.
All’interno di questo spazio è assicurata la piena e sicura
circolazione delle persone attraverso una cooperazione volta alla
rimozione delle frontiere interne, alla regolamentazione
dell’accesso di cittadini di stati terzi, al coordinamento delle misure
in ambito di immigrazione, visti e asilo; è altresì assicurata la
sicurezza attraverso la cooperazione giudiziaria in materia penale e
di polizia in materia penale per fronteggiare fenomeni di criminalità
transfrontaliera; infine, viene assicurato il rispetto dei diritti dei
cittadini e delle imprese attraverso misure di cooperazione
giudiziaria in materia civile.

L’unione doganale
Secondo l’art.28 del TFUE, l’Unione comprende un’unione
doganale che si estende al complesso di scambi di merci.
Una definizione di unione doganale è stata data dall’Accordo
Generale sulle Tariffe e del Commercio (GATT) concluso a Ginevra
nel 1947 e ripresa dall’accordo istitutivo dell’Organizzazione
Mondiale del Commercio (OMC), del 1994.
Costituisce unione doganale la sostituzione di un unico territorio
doganale a più territori doganali, avente per conseguenza
l’abolizione dei dazi e delle regolamentazioni commerciali restrittive
e che i dazi doganali applicati nei confronti degli Stati terzi siano
identici nella sostanza. Si delinea così un aspetto interno,
consistente nell’abolizione dei dazi doganali negli scambi di merci
nell’ambito dei territori entro i quali l’unione doganale è prevista, ed
un aspetto esterno, consistente nell’adozione di un unica tariffa
doganale nei confronti degli Stati terzi.
Nell’ambito dell’Unione Europea, l’aspetto interno è assicurato dal
divieto assoluto di dazi doganali e di misure d’effetto equivalente
(art.30) , mentre le regolamentazioni commerciali restrittive sono
vietate dagli artt. 34 e seguenti, proibenti restrizioni quantitative sia
all’esportazione che all’importazione; l’aspetto esterno è invece
tutelato dall’art. 31, il quale prescrive che agli scambi con i Paesi
terzi si applichino i dazi della tariffa doganale comune (TDC).

La cittadinanza dell’Unione
Nel sistema del TFUE la titolarità di alcuni diritti (libera circolazione
e soggiorno, libera circolazione dei lavoratori e di stabilimento,
libera prestazione di servizi) è subordinata al possesso della
cittadinanza dell’Unione.
E’ cittadino dell’Unione, ai sensi dell’art.9 TFUE, chiunque abbia la
cittadinanza di uno Stato membro; la cittadinanza dell’Unione
deriva pertanto da quella nazionale di uno Stato membro, che
stabilisce attraverso le proprie norme come attribuirla, e si
aggiunge alla cittadinanza nazionale senza sostituirla.
Ogni Stato membro non è pertanto legittimato a non riconoscere la
cittadinanza di un altro Stato membro; tale problema si pone
soprattutto in caso di effettiva doppia cittadinanza, di cui almeno
una sia di uno Stato membro.
In particolare, si ricava dalla sentenza Micheletti che in caso di
doppia cittadinanza, di cui la prima di uno Stato membro e la
seconda di uno Stato terzo, un altro Stato non può disconoscere la
prima cittadinanza e dare rilevanza solo alla seconda.
In particolare, il sig. Micheletti, cittadino italiano e argentino,
desiderava godere del diritto di stabilimento in Spagna, che glielo
negò, essendo rilevante, in caso di doppia cittadinanza, quella
dello Stato in cui si è registrata l’ultima resistenza; la Corte,
esprimendosi, negò che uno Stato potesse limitare gli effetti della
cittadinanza di un altro Stato membro, pretendendo un ulteriore
requisito per il riconoscimento della stessa.
Ogni Stato, tuttavia deve determinare le modalità di acquisizione
della cittadinanza nel rispetto del diritto comunitario, e qualora non
lo facesse l’Unione potrebbe interferire con la libertà degli Stati ed
imporre dei limiti alla loro autonomia, poichè quest’ultima
inciderebbe negativamente sul godimento dei diritti comunitari.
Ad esempio, nel caso Rottmann, quest’ultimo divenne cittadino
tedesco per naturalizzazione, perdendo la cittadinanza austriaca; in
seguito a degli accertamenti, le autorità tedesche si accorsero di
una sua pendenza in giudizio e decisero di revocare la cittadinanza.
Il sig. Rottman, tuttavia, si oppose e la Corte accolse la sua
impugnazione poichè egli avrebbe rischiato di diventare apolide,
avendo perso la prima cittadinanza.

Libera circolazione delle merci e discriminazioni


Le disposizioni del TFUE mirano ad assicurare la libera circolazione
di merci, persone, servizi e capitali; queste sono precise ed
incondizionate, e quindi direttamente efficaci attribuiscono una
determinata libertà di circolazione o vietano le restrizioni in
questione.
Ognuna di esse fa largo uso del divieto di discriminazione: nel
campo della libera circolazione delle persone e della libera
prestazione dei servizi sono esplicitamente vietate le
discriminazioni in base alla nazionalità, mentre in campo di libera
circolazione delle merci e dei capitali sono vietate le
discriminazione in base all’origine (e nel primo caso anche sulla
destinazione). Le discriminazioni si distinguono innanzitutto come
dirette ed indirette: questa distinzione riguarda il criterio attraverso
cui l’ordinamento giuridico definisce le situazioni simili che godono
di un determinato trattamento e quelle che non ne beneficiano
affatto o beneficiano di un trattamento deteriore. Se il criterio è
quello della nazionalità o dell’origine o un altro espressamente
vietato dai trattati, la discriminazione è di natura diretta; rientra
altrimenti tra le discriminazioni indirette, per le quali è possibile
addurre una giustificazione, dimostrando come la distinzione sia
basata su criteri oggettivi. Per stabilire se una discriminazione
indiretta è vietata si osserverà se vi è trattamento differenziato, se
le situazioni trattate sono simili, se la differenziazione è giustificata
da da motivi obiettivi e di interesse generale ed infine se è
rispettato il principio di proporzionalità.
Si distinguono poi le discriminazioni formali, che si hanno quando
l’ordinamento di uno Stato tratta diversamente i cittadini degli altri
Stati membri rispetto a quelli nazionali, dalle discriminazioni
materiali, che si hanno quando nello Stato sono trattati
indistintamente gli uni e gli altri, non tenendo conto della situazione
di partenza; anche per queste ultime è possibile addurre una
giustificazione.
Per giudicare se una disposizione discrimina materialmente,
occorrerà osservare se essa è indistintamente applicabile, se
costituisca un ostacolo alla libertà di circolazione, se l’ostacolo può
essere giustificato da un motivo di interesse pubblico e se rispetta
il principio di proporzionalità.
La libera circolazione delle merci

Quadro normativo
L’art.26 TFUE prescrive che il mercato interno comporta uno
spazio senza frontiere interne nel quale è assicurata la libera
circolazione delle merci, delle persone, dei servizi e dei capitali.
La libera circolazione delle merci è garantita dagli artt.28 e 30 del
TFUE, vietanti rispettivamente i dazi doganali e le misure di effetto
equivalente; gli viene poi affiancato l’art.110, vietante l’applicazione
ai prodotti importati da altri Stati membri di imposizioni interne
discriminatorie o protezionistiche.
Sono invece vietate le restrizioni quantitative all’esportazione e
all’importazione, oltre che le misure di effetto equivalente, dagli
artt. 34 e 35, fatta eccezione per le disposizione contenute dall’art.
36, che le consente in deroga degli articoli sopracitati per motivi di
interesse generale. L’articolo 37, infine, regola i monopoli nazionali
aventi carattere commerciale.
Le norme contenute negli artt.28, 30, 34 e 35 prescrivono un
divieto assoluto in termini precisi ed incondizionati, così che la
norma sia dotata di efficacia diretta.

Il divieto di dazi doganali e delle tasse d’effetto equivalente


I dazio doganali all’importazione e all’esportazione, assieme alle
misure d’effetto equivalente, sono oggetto di un divieto assoluto ai
sensi degli artt. 28 e 30 TFUE. Infatti la riscossione dei dazi
comporterebbe un aumento del costo dei prodotti importati o
esportati, che comporterebbe uno sfavorimento rispetto alle altre
merci. Il divieto riguarda gli scambi di merci originarie negli Stati
membri e sono perciò inclusi i prodotti di Stati terzi immessi in
libera pratica in uno Stato membro; ai prodotti provenienti da Stati
terzi è invece applicato il TDC.
S’intende per dazio doganale un tributo calcolato in percentuale
rispetto al valore del bene riscosso al momento
dell’attraversamento delle frontiere.
Invece, come è stato affermato nella sentenza Bauhuis, s’intende
per misura d’effetto equivalente qualsiasi onere pecuniario (a
prescindere dalla natura che esso abbia) imposto unilateralmente
in seguito all’importazione o all’esportazione di un prodotto, il cui
effetto sarebbe quello di lasciar percepire agli Stati prelievi fiscali
aventi lo stesso effetto di un dazio doganale; come viene
sottolineato nella sentenza Steinike, tale misura comporterebbe
dunque un aumento del prodotto importato.
Affinché dunque una misura sia classificabile come d’effetto
equivalente, è necessario che si tratti di un onere pecuniario, ossia
un versamento di denaro a favore del soggetto autorizzato per
legge alla riscossione, mentre sono escluse le prestazioni di
contenuto differente; deve trattarsi di un onere imposto alle sole
merci che varchino la frontiera nazionale all’importazione o
all’esportazione; il soggetto cui è stato imposto l’onere dev’essere
obbligato al pagamento, e sono dunque esclusi gli oneri che
costituiscano, al passaggio della frontiera, il corrispettivo di un
servizio effettivamente prestato in seguito a richiesta. Tale servizio
deve andare ad esclusivo beneficio del richiedente e non deve
rispondere ad un interesse generale, come accennato dev’essere
effettivamente richiesto e l’onere riscosso dev’essere
proporzionato al servizio reso; infine, deve trattarsi di un onere
imposto unilateralmente (e dunque non direttamente previsti da
norme di diritto dell’Unione per favorire gli scambi) dallo Stato
membro d’importazione o d’esportazione. Nella sentenza Ligur-
Carni la Corte ha precisato, in relazione ad una norma italiana che
imponeva la sottoposizione a controllo sanitario delle carni
importate con conseguente pagamento di un diritto di visita, che le
merci già oggetto di controllo in uno Stato membro non possono
essere unilateralmente oggetto di un secondo controllo in un altro
Stato; inoltre, il diritto di visita non può essere riscosso essendo un
servizio svolto nell’interesse generale.

Il divieto di imposizioni interne discriminatorie o


protezionistiche
Il divieto di imposizioni interne discriminatorie o protezionistiche è
imposto dall’art.110, il quale prescrive che nessuno Stato può
adottare direttamente o indirettamente per i prodotti provenienti da
altri Stati imposizioni interne superiori a quelle applicate ai prodotti
nazionali simili; è inoltre vietato applicare imposizioni tese,
indirettamente, a proteggere altre produzioni.
E’ dunque riconosciuto che ciascuno Stato posta tassare i prodotti
provenienti da altri Stati membri (che altrimenti sarebbero
avvantaggiati, godendo di un’esenzione fiscale), finché le
imposizioni non siano di natura discriminatoria o protezionistica e
cioè superiori a quelle applicate ai prodotto di origine interna; viene
dunque garantita la neutralità dei tributi interni.
Il divieto contenuto al primo comma si applica a prodotti tra loro
simili sia in quanto a fabbricazione sia in quanto alla comparabilità
dell’impiego.
Le tasse d’effetto equivalente, vietate in ogni caso, vanno distinte
dalle imposizioni interne, vietate solo nella misura in cui esse siano
discriminatorie nei confronti dei prodotti importati o
protezionistiche nei confronti di una produzione; inoltre, come
viene sottolineato nella sentenza Schul, la tassa di effetto
equivalente colpisce esclusivamente il prodotto importato, mentre
l’imposizione interna grava indistintamente sulle merci nazionali e
su quelle importate. Il caso Schul si riferiva infatti all’importazione
di un’imbarcazione cui era stata applicata l’IVA; interrogata la
Corte, essa ha riconosciuto l’IVA come un’imposizione applicabile
ad ogni prodotto e pertanto non discriminatoria.
Il secondo comma vieta invece agli Stati di applicare ai prodotti
importati da altri Stati imposizioni interne intese a proteggere
indirettamente altre produzioni. Perchè risulti applicabile è
sufficiente che il prodotto importato si trovi in concorrenza col
prodotto nazionale protetto e non è necessario che sia un prodotto
simile. Un tale rapporto di concorrenza si ha, secondo la
giurisprudenza, quando tra i prodotti esiste una certa sostituibilità;
il prodotto importato deve dunque risultare una scelta alternativa
per il consumo quantomeno in determinati casi, e si deve tener
conto di tale rapporto non solo allo stato attuale del mercato, ma
anche tenendo conto dell’evoluzione del conteso. In particolare, il
Regno Unito, reputando vino e birra non in concorrenza a causa
delle abitudini di consumo, applicava al primo un’accisa superiore;
in seguito la Corte è intervenuta sostenendo che lo Stato non
possa cristallizzare tali abitudini attraverso la propria politica
fiscale.
Una volta accertato il rapporto di concorrenzialità, occorre
osservare se la maggiore tassazione si traduca in una protezione
del prodotto nazionale, ed a tal fine occorrerà osservare l’incidenza
dell’onere sui prodotti concorrenti, valutando se l’imposizione
possa influenzare il mercato diminuendo il consumo potenziale.
Ad esempio, veniva contestato al Belgio di aver imposto alle birre
un’aliquota IVA inferiore a quella del vino, prodotto concorrente, del
6%; tuttavia, la differenza tra i prezzi dei due prodotti non rendeva
rilevante la differenza di aliquota, non dando origine ad un effetto
protezionistico.

Il divieto di restrizioni quantitative e di misure d’effetto


equivalente all’importazione
Il divieto di restrizioni quantitative e di misure d’effetto equivalente
è imposto dall’art.34 nell’ambito delle importazioni, mentre è
imposto dall’art.35 per le esportazioni; il contenuto del divieto è
perfettamente identico per la nozione di restrizione quantitativa e di
misura, mentre è più ampia nel campo delle importazioni la nozione
delle misure d’effetto equivalente; la portata dei divieti riguarda gli
scambi intracomunitari e non quelli con gli Stati terzi.
Si definisce restrizione quantitativa ogni misura avente il carattere
di proibizione totale o parziale d’importare o esportare la merce.
Per definire la nozione di misura d’effetto equivalente è innanzitutto
necessario definire la nozione di misura, ossia ogni atto e
comportamento riferibile ai pubblici poteri e non a semplici privati;
costituiscono dunque una misura le disposizioni legislative e
regolamentari di uno Stato, oltre che le prassi amministrative.
E’ poi necessario definire la nozione di effetto equivalente alle
restrizioni quantitative: consistendo l’effetto di una restrizione
quantitativa in una diminuzione delle importazioni o delle
esportazioni che potrebbero essere effettuate, vanno considerate
misure d’effetto equivalente i provvedimenti di ogni tipo intrapresi
dagli Stati producenti il medesimo risultato. Sarà dunque
necessario chiedersi se la importazioni o le esportazioni sarebbero
maggiori in assenza della norma, e qualora fosse così la norma
sarebbe d’effetto equivalente ad una restrizione quantitativa.
Come evidenziato dalla Corte nella sentenza Dassonville,
costituisce una misura d’effetto equivalente ad una restrizione
quantitativa all’importazione ogni normativa commerciale degli
Stati membri che possa ostacolare, direttamente o indirettamente,
in atto o in potenza, gli scambi intracomunitari.
Il caso Dassonville si riferiva ad un venditore di whiskey scozzese,
che lo importava dalla Francia al Belgio, che per l’importazione di
prodotti aventi denominazione controllata pretendeva
un’attestazione d’origine rilasciata dallo Stato di provenienza;
l’importatore era impossibilitato ad ottenerla pertanto la misura
belga, limitando il commercio possibile, costituiva una misura
d’effetto equivalente. Affinché una misura risulti tale è dunque
necessario che essa possa provocare un ostacolo agli scambi, e si
ha dunque ogni volta una determinata normativa nazionale renda
meno agevole la commercializzazione. E’ irrilevante quale sia il tipo
di misura e quale sia l’entità dell’effetto restrittivo, e non occorre
dimostrare che la normativa riguardi espressamente le importazioni
o gli scambi transfrontalieri, potendo essere l’ostacolo indiretto o
potenziale; inoltre la qualificazione si applica, oltre che alle misure
discriminatorie (che sottopongono le merci provenienti da altri Stati
a requisiti non previsti per quelle nazionali), altresì a quelle
indistintamente applicabili (previste per qualsiasi merce
indipendentemente dall’origine).
Sono misure d’effetto equivalente indistintamente applicabili quelle
relative agli ostacoli tecnici agli scambi, ossia gli ostacoli alla libera
circolazione provocati dalla diversità delle normative tecniche
imposte da ogni Stato nel campo dei prodotti industriali o agro-
industriali, applicate a tutti i prodotti, nazionali o stranieri, posti in
commercio in un determinato Stato. La diversità tra le normative
nazionali comporta che il prodotto fabbricato e confezionato in un
determinato Stato secondo le norme tecniche di quest’ultimo non
possa essere commerciato in un altro Stato se non adattandosi alle
sue norme.
La Corte è intervenuto a riguardo di queste normative con la
sentenza Cassis de Dijon, nella quale si trattava dell’importazione
di un liquore francese (regolarmente in commercio nello Stato di
produzione) in Germania, dove le operazioni di produzione e
vendita erano impedite dalla sua non conformità alla legislazione
tedesca sul contenuto alcolico minimo delle bevande.
Essa affermò che gli Stati possono imporre le normative tecniche
nazionali ai prodotti provenienti da un altro Stato solamente se le
prescrizioni adottate siano necessarie per rispondere ad esigenze
imperative attinenti all’efficacia dei controlli fiscali, alla protezione
della salute pubblica, alla lealtà dei negozi commerciali e alla difesa
dei consumatori; nel caso Cassis, la normativa non era necessaria
a nessuna delle dette esigenze. La normativa deve inoltre rispettare
il principio di proporzionalità ed essere pertanto idonea allo scopo
di interesse generale perseguito e non comportare restrizioni
eccessive. Qualora una delle due condizioni non sia rispettata, lo
Stato membro d’importazione è tenuto a consentire la
commercializzazione di prodotti non conformi alla propria
normativa che siano legittimamente fabbricati e venduti in un altro
Stato; lo Stato d’importazione non potrà pertanto imporre anche il
rispetto della propria normativa e, pertanto, non sarà ammesso il
doppio onere normativo, tuttavia potrà verificare che lo Stato
d’origine offra garanzie analoghe in termini di normative tecniche.
Si parla dunque di un obbligo di mutuo riconoscimento delle
legislazioni nazionali, per il quale gli Stati d’importazione, per il
divieto imposto dall’art.34, sono tenuti a permettere la
commercializzazione dei prodotti legalmente in commercio negli
altri Stati perché conformi alla normativa in vigore in quest’ultimo,
salvo che dimostrino che non sia assicurata una protezione
equivalente a quella assicurata dalla propria normativa tecnica.
In seguito la giurisprudenza arrivò a considerare le norme sulle
modalità di vendita (concernenti i metodi di promozione delle
vendite, vietanti o sottoponenti ad alcune limitazioni alcune
modalità di vendita) allo stesso modo delle normative tecniche, e
cioè capaci di produrre un effetto restrittivo sulle importazioni.
In un primo momento, queste normative erano sottoposte al test
Cassis; nel corso della sentenza Keck, invece, la Corte ha
precisato che non sempre le norme sulla modalità di vendita
producono un effetto restrittivo, e ciò accade quando una delle la
norme in questione non sia applicabile a tutti gli operatori
interessati e quando renda bloccato ai prodotti importati l’accesso
al mercato nazionale.
Il concetto di effetto equivalente alle misure restrittive
all’esportazione è più ristretto rispetto a quello che si ha nel caso
delle importazioni: una misura non deve infatti produrre solamente
effetti restrittivi, ma deve altresì avere carattere discriminatorio ed
applicarsi, pertanto, ai soli prodotti destinati all’esportazioni e non
a quelli destinati al mercato nazionale, e sfuggono dunque al
divieto le misure indistintamente applicabili.
Dalla sentenza Groenveld la Corte ha cominciato a distinguere tra
misure analoghe alle normative tecniche e misure analoghe alle
normative sulle modalità di vendita dei prodotti. Il primo tipo di
normativa non può costituire una misura d’effetto equivalente
all’esportazione, essendo imposta ad ogni prodotto fabbricato
nello Stato membro; nel secondo caso, invece, un prodotto
d’esportazione può risultare pregiudicato dalla normativa che vieti
o limiti determinate modalità di vendita o di promozione delle
vendite. Ad esempio, nel caso Gysbrechts la Corte ha dichiarato
incompatibile con l’art.35 una normativa belga che vietava al
venditore di chiedere all’acquirente un acconto o il numero della
carta di credito prima dell’acquisto, producendo questo divieto una
restrizione sulle vendite transfrontaliere concluse via internet.

Le deroghe al divieto di restrizioni quantitative


Il TFUE ha previsto una clausola che consente di considerare
ammissibile un provvedimento nazionale qualificabile come
restrizione quantitativa o misura d’effetto equivalente nell’art.36, il
quale prescrive che le disposizioni degli artt.34 e 35 lasciano
impregiudicati i divieti o restrizioni all’importazione e
all’esportazione giustificati da motivi di moralità pubblica, di ordine
pubblico, di pubblica sicurezza, di tutela della salute e della vita di
persone e animali, della proprietà industriale e commerciale;
tuttavia tali divieti o restrizioni non devono costituire un mezzo di
discriminazione arbitraria né una restrizione dissimulata al
commercio tra gli Stati membri. Essendo un’eccezione al principio
della libera circolazione, l’art.36 dev’essere interpretato in maniera
restrittiva e non può essere pertanto applicata a misure di tipo
diverso da quelle espressamente contemplate. Nella sentenza
Bauhuis, ad esempio, la Corte ritiene inammissibile giustificare la
pretesa di diritti di controlli sanitari su carni importate (effetto
equivalente ad un dazio) giustificata alla luce dell’art.36;
l’elencazione degli interessi generali va inoltre considerata
tassativa, ed è proprio per il rifiuto di estendere l’art.36 che è stato
elaborato il test Cassis, il quale si applica ad un’ampia lista di
interessi di ordine generale idonei a rendere necessaria
l’applicazione della norma tecnica statale.
Particolarmente ampia è la nozione di proprietà industriale e
commerciale, includente i diritti di brevetto per invenzioni
industriali, marchi d’impresa e diritti d’autore, aventi carattere
territoriale con ciascuno Stato che accorda i diritti per quanto
riguarda il rispettivo territorio nazionale; il titolare del diritto di
proprietà industriale avrà il potere esclusivo di sfruttarlo
economicamente sul territorio dello Stato membro dalla cui
legislazione è stato accordato. Il titolare del diritto potrà opporsi
all’importazione di prodotti provenienti da altri Stati membri che
violino il suo diritto esclusivo, in deroga (restrittiva) all’art.34.
Non si vuole tuttavia tutelare i diritti attribuiti in maniera abusiva,
creando suddivisioni artificiali nell’ambito del mercato comune; per
distinguere tra forme di esercizio legittime ed abusive la
giurisprudenza tende ad identificare l’oggetto specifico del diritto di
proprietà, e qualora il diritto di privativa lo travalichi non potrebbe
essere più invocato. Ad esempio, il diritto di privativa viene esaurito
in seguito alla prima immissione del prodotto brevettato o munito
di marchio nel territorio di uno degli Stati membri, quando
l’immissione sia stata fatta dal titolare o col suo consenso.

Libera circolazione delle merci e dei monopoli pubblici


L’art.37 si occupa della possibilità degli Stati di mantenere alcuni
monopoli pubblici a carattere commerciali in quanto strumenti per
il perseguimento di obiettivi di interesse pubblico, intesi come
qualsiasi organismo per mezzo del quale uno Stato membro
controlla, dirige o influenza direttamente o indirettamente le
importazioni o le esportazioni tra gli stati membri.
E’ da considerarsi incompatibile qualsiasi misura adottata nel
quadro di un monopoli di carattere commerciale che abbia per
effetto di svantaggiare, in diritto o in fatto, lo scambio di merci in
provenienza da altri Stati membri rispetto a quelle nazionali.
La libera circolazione delle persone

Quadro normativo
La libera circolazione delle persone è stata rafforzata
dall’istituzione della cittadinanza dell’Unione, che ha reso il diritto
di circolare e di soggiornare liberamente negli Stati membri un
diritto della persona altresì sancito dalla Carta dei Diritti (art.45); si
è così sciolto il legame tra libera circolazione delle persone e
svolgimento delle attività economiche, mentre in passato l’una
necessitava all’altra per applicarsi.
La libera circolazione delle persone è disciplinata da tra gruppi di
disposizioni, gli artt.45-48, che hanno ad oggetto la libera
circolazione dei lavoratori, istituendo alcuni specifici diritti che la
libertà di circolazione implica, gli artt.49-55 che hanno ad oggetto il
diritto di stabilimento, implicante lo stabilimento secondario e la
costituzione di società, e gli artt. 56-62 aventi per oggetto la libera
prestazione di servizi, implicante la libera esecuzione di una
prestazione a titolo temporaneo; a questi si aggiungono poi l’art.18
relativo al divieto di discriminazioni basate sulla nazionalità,
applicato a ciascuno dei tre gruppi, e gli artt.20 e 21, che impone la
libertà di circolazione e di soggiorno per i cittadini europei.
Ognuna di queste norme dispone di efficacia diretta ed è dunque
idonea ad essere invocata in giudizio dai soggetti interessati; i
trattati attribuiscono inoltre la base giuridica per l’approvazione di
disposizioni di diritto secondario, ed è stata approvata, in
particolare, la direttiva del 2004 relativa al diritto dei cittadini e dei
loro familiari di circolare e di soggiornare liberamente nel territorio
degli Stati membri, la quale ha raccolto le molte disposizioni in
materia in un unico testo, ha codificato molte soluzioni cui è
pervenuta la giurisprudenza negli anni, e aggiunto nuovi elementi
come il diritto di soggiorno permanente.

I beneficiari ed i lavoratori subordinati in particolare


Come si è accennato, inizialmente potevano usufruire della libera
circolazione delle persone unicamente coloro i quali svolgevano
un’attività economica rilevante, ossia i lavoratori subordinati e
coloro che esercitavano il diritto di stabilimento o di libera
prestazione; questo requisito è venuto meno con l’introduzione
della cittadinanza, cosicché possono godere della libertà di
circolazione anche i semplici cittadini.
Per dare un’attuazione più piena e concreta ai diritti elencati, essi
sono stati altresì estesi ai familiari dei soggetti che beneficiano
della libera circolazione: rientrano nella nozione di familiare il
coniuge, il partner che abbia contratto un’unione registrata, i
discendenti diretti fino ai 21 anni e quelli del coniuge/partner, gli
ascendenti diretti e quelli del coniuge/partner, i quali ottengono i
propri diritti in via derivata rispetto al diritto di circolazione del
soggetto che esercita la libertà di circolazione; il conferimento di
diritti secondo questa logica vale anche nei confronti di cittadini di
Stati terzi. Nel caso Carpenter, ad esempio, la Corte si è
pronunciata sottolineando che l’allontanamento della moglie del
signor Carpenter, di nazionalità filippina, avrebbe costituito per lui
un ostacolo al godimento della libera prestazione di servizi, non più
la moglie accudire i loro figli.
Quanto alla nozione di lavoratore subordinato, è stato descritto
dalla giurisprudenza come un soggetto che svolga un’attività a
favore di un’altra persona e sotto la sua direzione (vincolo di
subordinazione) per un certo periodo di tempo (durata prolungata)
e ricevendo come contropartita una retribuzione (remunerazione);
com’è stato evidenziato nella sentenza Vatsouras è sufficiente
un’attività lavorativa dalla durata di un solo mese, mentre sono
considerati lavoratori anche coloro che, svolgendo un’attività a
orario ridotto, percepiscono una retribuzione inferiore alla media,
come sottolineato nella sentenza Levin.
La libera circolazione può essere invocata sia da un ex-lavoratore,
in quanto la qualità di lavoratore ai sensi dell’art.45 non si perde al
termine dell’attività lavorativa (es. soggetto che intraprende studi
universitari in uno Stato membro diverso dal suo dopo avervi svolto
un’attività lavorativa), sia da un soggetto in cerca di occupazione:
in particolare, la Corte si pronunciò, nella sentenza Antonissen, in
merito alla compatibilità con l’art.45 di un provvedimento di
espulsione adottato dalle autorità britanniche contro un cittadino
belga alla ricerca di una professione da più di due anni, affermando
che egli possa godere del diritto di cui all’art.45 finché possa
dimostrare di essere attivamente alla ricerca di un lavoro e di avere
buone possibilità di trovarlo.
Perché i diritti di libera circolazione possano essere invocati è
necessario occorre che non ci si trovi in una situazione puramente
interna, e cioè che gli elementi rilevanti della fattispecie non siano
confinati all’interno di un solo Stato; inoltre, qualora il cittadino di
uno Stato si ponga in una situazione corrispondente a quella di un
cittadino di un altro Stato membro, egli potrebbe invocare il proprio
diritto nei confronti del proprio Stato nazionale.

Il diritto di soggiorno
La direttiva 38/2004/CE (relativa al diritto dei cittadini e dei loro
familiari di circolare e di soggiornare liberamente nel territorio degli
Stati membri) prevede tre tipi di diritto di soggiorno che un
cittadino dell’Unione può esercitare nel territorio di uno Stato
membro diverso da quello di cui ha la cittadinanza.
-Il primo tra questi è il diritto di soggiorno fino a tre mesi (art.6), il
quale spetta in generale ai cittadini dell’Unione ed ai loro familiare,
non richiedente alcuna specifica condizione o formalità se non il
possesso di una carta d’identità o di un passaporto in corso di
validità; è tuttavia necessario, ai sensi dell’art.14, che il soggetto
richiedente non abbia la necessità di ricorrere eccessivamente al
sistema di assistenza sociale messo a disposizione dallo Stato.
-Il diritto di soggiorno per un periodo superiore ai tre mesi (art.7)
spetta a tutti i cittadini dell’Unione, ma le condizioni cui tale diritto
può essere richiesto sono sottoposte alla situazione personale
dell’interessato.
Se il soggetto è a) un lavoratore subordinato o autonomo non è
prevista alcuna condizione;
b) per gli studenti (coloro i quali sono iscritti presso un istituto
pubblico o privato per seguire un corso di studi, inclusa la
formazione professionale) sono richieste due condizioni, ossia la
disponibilità di un’assicurazione sulle malattie che copra tutti i
rischi nello Stato membro ospitante e di risorse economiche
sufficienti per se stesso e per i propri familiari (così da non gravare
sull’assistenza sociale dello Stato), la cui sussistenza è assicurata
all’autorità nazionale competente mediante una dichiarazione.
Com’è stato sottolineato nella sentenza Grzelczyk, qualora il
beneficiario del diritto di soggiorno riscontrasse delle difficoltà
economiche temporanee, ciò non comporterebbe istantaneamente
il venir meno del suo diritto di soggiorno, essendo necessaria la
solidarietà finanziaria degli Stati membri;
c) se il soggetto non rientra in nessuna di queste categorie
(semplici cittadini) sono necessarie le stesse condizioni richieste ai
semplici cittadini; è tuttavia necessario che l’interessato disponga
di risorse economiche sufficienti, non bastando che assicuri di
disporne;
d) il diritto è altresì esteso ai familiari che accompagnano o
raggiungono coloro i quali figurano nelle categorie precedenti, pur
se non cittadini di uno Stato membro.
-Il diritto di soggiorno permanente (art.16) può essere acquisito dal
cittadino che abbia soggiornato nello Stato membro ospitante
legalmente ed in via continuativa per un periodo di cinque anni; la
continuità della residenza non è pregiudicata da assenze
temporanee che non superino complessivamente sei mesi all’anno
né da assenze superiori per l’assolvimento di obblighi militari né da
assenze di dodici mesi consecutivi al massimo per motivi rilevanti
(gravidanza, malattia grave, studi o formazione, motivi di lavoro).
La direttiva in questione si applica a qualsiasi cittadino dell’Unione
che si rechi o soggiorni in uno Stato diverso da quello di cui ha la
cittadinanza nonché ai suoi familiari ed è necessario che il cittadino
invochi il diritto di soggiorno nei confronti dello Stato membro
diverso dal proprio. Dalla sentenza Singh è emerso come sia
possibile rientrare e soggiornare nello Stato membro d’origine
dopo aver svolto attività economiche o periodi di soggiorno in altri
Stati membri (migrazioni circolari); com’è reso altresì evidente dalla
sentenza Carpenter, viene reputato importante nell’ambito dei diritti
di soggiorno di consentire l’unità familiare nel corso della libera
circolazione, tuttavia il diritto di soggiorno a favore del cittadino di
uno Stato terzo, coniugato con quello di uno Stato membro, sorge
solo in seguito ad una durata minima superiore a tre mesi.

La parità di trattamento
Le norme del TFUE in materia di libera circolazione delle persone
utilizzano il divieto di discriminazione in base alla nazionalità come
uno degli strumenti per assicurare tale libertà: è dunque imposto
che i cittadini provenienti da altri Stati membri siano sottoposti allo
stesso trattamento applicato ai cittadini nazionali secondo il
principio del trattamento nazionale. Il principio della parità di
trattamento, imposto in termini generali dal diritto primario, va
specificato nel contenuto dal legislatore dell’Unione attraverso il
diritto derivato, com’è accaduto con l’introduzione della direttiva
38/2004, il quale nell’art.24 prevede che ogni cittadino dell’Unione
che risiede nel territorio dello Stato membro ospitante goda di pari
trattamento rispetto ai cittadini di tale Stato; inoltre, con
l’introduzione della cittadinanza dell’Unione, tale divieto assume un
ruolo centrale nel quadro della libera circolazione delle persone e,
come affermato dalla Corte nella sentenza Grzelczyk, lo status
assunto dai cittadini consente a chi si trovi nella medesima
situazione di ottenere indipendentemente dalla cittadinanza il
medesimo trattamento.
Sono rilevabili innanzitutto le discriminazioni dirette, conseguenti a
normative che riservano un determinato trattamento ai soli cittadini
nazionali, escludendo quelli degli altri Stati membri (clausole di
nazionalità) o vi sono ammessi a condizioni che non valgono per i
cittadini nazionali; esse sono vietate sia in materia di diritto di
stabilimento (art.49), sia in ambito di libera prestazione di servizi
(art.57), sia nel caso dei semplici cittadini (art.18), per i quali è
vietata ogni discriminazione in base alla nazionalità, com’è
accaduto nel caso Grzeczyk, nel quale la Corte ha ritenuto
inammissibile che quest’ultimo, uno studente, non potesse
accedere alla prestazione sociale di natura non contributiva
minimex non essendo cittadino dello Stato.
Inoltre, nell’interpretare le norme dei trattati che vietano le
discriminazioni, la Corte ha favorito un’interpretazione estensiva
includendo altresì le discriminazioni indirette in base alla
nazionalità, prodotte da normative che impongono condizioni
omogenee applicabili a tutti senza distinzione di nazionalità; le
condizioni imposte, tuttavia, sono più difficilmente soddisfatte dai
cittadini degli altri Stati membri. E’ spesso considerata
discriminatoria la condizione che richieda la residenza nel territorio
nazionale per avere accesso ad un aiuto, un servizio ecc.: è ciò che
è accaduto, ad esempio, nella causa Gottwald, al quale fu richiesta
la residenza abituale per aver diritto, come portatore di handicap,
all’esenzione delle tasse autostradali.
Sono altresì considerate discriminazioni dirette o indirette in base
alla nazionalità, a seconda dei casi, quelle ai danni dei cittadini in
uscita, che si hanno quando gli Stati di appartenenza gli riservano
un trattamento deteriore rispetto ai cittadini che non esercitano i
diritti di libera circolazione, scoraggiando, di fatto, l’esercizio di tale
libertà. Nel caso Tas Hagen, ad esempio, la Corte ha ritenuto
incompatibile la condizione imposta dai Paesi Bassi secondo la
quale dei cittadini di tale Stato membro potessero ottenere una
pensione per vittime civili di guerra solamente se residenti sul
territorio nazionale.
Giustificazioni al principio di parità di trattamento
Una discriminazione può essere giustificata e sfuggire al divieto
qualora a) la giustificazione sia basata su considerazioni obiettive e
indipendenti dal criterio vietato e b) rispetti il principio di
proporzionalità; tale principio ha trovato ampia applicazione
nell’ambito delle discriminazioni indirette, non potendo invece
essere applicato alle discriminazioni dirette (ammesse solo nelle
possibilità di deroga previste), ed è altresì stato applicato nelle
discriminazioni ai danni dei cittadini in uscita. Secondo tale
principio, nel corso della causa Gottwald, la Corte ha considerato
giustificata la discriminazione tra cittadini non residenti e residenti
per la concessione dell’esenzione al pedaggio per portatori di
handicap ritenendo legittimo che si voglia consentire un
collegamento tra il beneficiario della prestazione e la società dello
Stato membro.
Alcune delle discriminazioni ammesse poichè giustificate da motivi
obiettivi e proporzionati sono state codificate dalla direttiva
2004/38 costituendo eccezioni legislative al principio di parità di
trattamento.
Una prima eccezione riguarda le persone in cerca di occupazione,
aventi un diritto di soggiorno valido per tre mesi; possono
soggiornare anche per un periodo più lungo, fin quando possano
dimostrare di essere alla ricerca di un posto di lavoro e di avere
buone possibilità di trovarlo. Come poi risulta dalla sentenza
Collins, la Corte ha ammesso che uno Stato membro possa
decidere di concedere prestazione sociali a persone in cerca di
lavoro soltanto se queste lo stiano cercando attivamente; è stato
inoltre aggiunto dalla suddetta direttiva che lo Stato non sia tenuto
a riconoscerla durante i primi tre mesi di soggiorno o durante il
prolungamento di tale periodo; è inoltre stata riconosciuta la
possibilità di fissare come condizione un periodo minimo di
residenza. Questa tendenza è stata affermata dalla prassi nella
sentenza Alimanovic, nella quale trattasi di una madre ed una figlia
da lungo tempo disoccupate ma alla ricerca di lavoro richiedenti
alle autorità prestazioni di assistenza sociale invocando il principio
di parità di trattamento; le prestazioni non sono state tuttavia
accordate, essendo decorsi i sei mesi oltre i quali non sono più
qualificate come lavoratrici subordinate.
Altra deroga del principio di parità di trattamento è prevista per gli
studenti iscritti a corsi universitari in uno Stato membro diverso da
quello di cui hanno la cittadinanza: essi possono ottenere le stesse
borse di studio o gli stessi prestiti previsti per gli studenti cittadini
solo se a) aventi lo status di lavoratore subordinato o autonomo o
di familiare di tale soggetto o b) godano del diritto di soggiorno
permanente. Tale orientamento è stato confermato nella sentenza
Bidar (studente francese che risiedeva dalla nonna nel Regno
Unito), nella quale la Corte ha contestato la decisione dello Stato di
non attribuirgli un prestito per studenti, poichè non residente
stabile (per ottenere tale qualifica sarebbe stato necessario
risiedere per tre anni); la condizione della residenza stabile è
dunque da considerarsi indirettamente discriminatoria.
Un’ulteriore eccezione legislativa al principio di parità di
trattamento riguarda i cittadini economicamente inattivi. La Corte
ha ritenuto che essi possano essere esclusi dalle prestazioni di
assistenza sociale, subordinando così il beneficio della parità di
trattamento alla condizione del soggiorno legale in conformità alla
direttiva.

Deroghe alla libera circolazione delle persone


Il TFUE prevede alcune deroghe riguardo la libera circolazione delle
persone.
-Quanto alla libera circolazione dei lavoratori, sono previste due
categorie di deroghe dall’art.45:
a) quella che fa salve le limitazioni giustificate da motivi d’ordine
pubblico, pubblica sicurezza e sanità pubblica;
b) quella che rende inapplicabili le disposizioni dello stesso art.45
agli impieghi di pubblica amministrazione.
-Nel campo del diritto di stabilimento sono stabilite altre due
deroghe, applicabili anche alla prestazione di servizi per un
richiamo contenuto nell’art.62:
a) quella prevista dall’art.52, la quale lascia impregiudicata
l’applicazione delle normative prevedenti un regime particolare
degli stranieri quando esse siano giustificate da motivi d’ordine
pubblico, pubblica sicurezza o sanità pubblica;
b) quella prevista dall’art.51, che esclude dal campo di
applicazione le attività che partecipano all’esercizio dei pubblici
poteri anche occasionalmente.
Le deroghe in questione mantengono una struttura speculare,
essendo escluse dal campo di applicazione dei trattati alcune
restrizioni dettate da motivi imperativi e alcune attività lavorative
particolarmente delicate poichè concernenti la pubblica
amministrazione e, pur occasionalmente, l’esercizio dei poteri
pubblici.
-In materia di libera circolazione non è espressamente precisa
alcuna deroga, ma l’art.21 fa salve le limitazioni e le condizioni
previste dai trattati, per cui si ritiene che sia sottoposto alle stesse
limitazioni degli artt.45 e 51, ossia motivi di ordine pubblico,
pubblica sicurezza e salute pubblica. Essendo un’eccezione alla
libertà della libera circolazione, le deroghe devono essere oggetto
di un’interpretazione restrittiva.
I motivi di ordine pubblico, pubblica sicurezza e sanità pubblica
sono esplicati dalla direttiva 38/2004; viene innanzitutto escluso
che possano essere invocati per fini economici ed è sottolineato
che devono rispettare il principio di proporzionalità ed essere
adottati esclusivamente in relazione al comportamento personale
della persona nei riguardi della quale sono applicati, per cui è
escluso che provvedimenti del genere riguardino interi gruppi o
categorie di cittadini di altri Stati membri (art.27).
Quanto alla deroga contenuta nell’art.45 relativa alla pubblica
amministrazione, è oggetto di un’interpretazione restrittiva da parte
della Corte, che ha ritenuto che vada unicamente applicata alle
mansioni che implicano una diretta partecipazione ai pubblici
poteri.
Il diritto di stabilimento e la libera prestazione di
servizi

Quadro normativo
I trattati prevedono la libera circolazione dei servizi e dunque il
libero svolgimento delle attività autonome attraverso gli artt.49-55, i
stabiliscono il diritto di stabilimento, e attraverso gli artt.56-62, che
prevedono invece la libera prestazione di servizi: essi si applicano a
seconda che l’attività venga svolta in uno Stato membro in maniera
permanente o temporanea.
L’art.49 e l’art.56 vietano le restrizioni rispettivamente della libertà
di stabilimento e della libera prestazione di servizi; gli artt.49 e 57
estendono poi ai soggetti che esercitano tali libertà il diritto di
trattamento nazionale; gli art.50 e 53 (per il diritto di stabilimento) e
l’art.59 (per la libera prestazione di servizi) stabiliscono poi
apposite basi giuridiche per l’adozione di direttive volte a facilitare
l’esercizio delle libertà, e tra queste vanno ricordate la direttiva
servizi 2006/123 e la direttiva qualifiche professionali 2005/36; dagli
artt.50 e 52 sono poi stabilite alcune deroghe applicabili anche in
campo di libera prestazione grazie ad un richiamo dell’art.62, che si
collega altresì all’art.54, che estende entrambe le libertà alle
società commerciali.

I beneficiari
Rientrano nel campo di applicazione degli artt.49 e 56 i soggetti
che prestano un’attività autonoma (esercitata senza vincolo di
subordinazione rispetto al destinatario della prestazione) di tipo
economico, che preveda cioè una retribuzione; non è invece
definito l’oggetto dell’attività.
Rientrano nel campo di applicazione di questi diritti altresì le
società aventi l’amministrazione centrale o il centro di attività
principale all’interno dell’Unione. Tuttavia, le società di cui all’art.54
godono solo del diritto di stabilimento secondario, potendo esse
aprire agenzie, succursali o filiali in uno Stato diverso da quello
della sede, ma non potendo trasferire quest’ultima da uno Stato
all’altro se non previa autorizzazione di entrambi gli Stati
interessati. Si è avuta una simile fattispecie nella causa Daily Mail,
nel corso della quale questa società voleva trasferire nei Paesi
Bassi la propria direzione ma fu bloccata dalle autorità del Regno
Unito; interrogata la Corte, essa affermò che le società non
dispongono ancora di tale diritto.
Sono inoltre rientranti tra i beneficiari della libera prestazione di
servizi altresì i destinatari della prestazione, e così è stata
considerata la signora Luisi, nella cui causa veniva contestata una
normativa italiana che imponeva un limite massimo di valuta
straniera da acquisire; la signora necessitava tuttavia di somme
maggiori, e la Corte ha ritenuto incompatibili tali limitazioni con
l’art.56, considerandovi altresì rientrante tra i beneficiari il
destinatario di un servizio che si rechi in un altro Stato per usufruire
della prestazione.
Sono inoltre ritenuti meritevoli di tutela altresì le fattispecie relative
a soggetti stabiliti nel proprio Stato membro che, senza spostarsi
fisicamente in altri Stati membri per svolgere la loro attività,
abbiano tra i loro clienti anche soggetti stabiliti in altri Stati membri.

La distinzione tra stabilimento e prestazione di servizi


Il diritto di stabilimento si riferisce ai soggetti che intendano
stabilirsi ed esercitare stabilmente un’attività autonoma di carattere
economico in uno Stato membro nel quale non era
precedentemente stabilito; la libera prestazione, invece, è riferita ai
soggetti che vogliano prestare la propria attività in uno Stato
membro diverso da quello in cui è stabilito senza stabilirsi in
quest’ultimo.
I primi sono soggetti ad un controllo più stresso da parte dello
Stato membro ospitante, il quale può imporre condizioni d’accesso
e d’esercizio che non sarebbero invece richiedibili a coloro i quali
agiscono in regime di libera prestazione.
In linea di principio, si ha che l’attività effettuata in regime di
stabilimento sia assoggettata alla legge dello Stato membro
ospitante, mentre quella effettuata in libera prestazione è
assoggettata alla legge dello Stato membro d’origine (home
country).
Tuttavia, la differenza tra l’uno e l’altro regime risiede nel carattere
stabile o temporaneo dell’attività svolta: infatti, se da un lato
dall’art.57 si legge che il prestatore può esercitare a titolo
temporaneo la sua attività nello Stato membro, nel corso della
sentenza Gebhard è stato affermato che il diritto di stabilimento
implica la possibilità di partecipare in maniera stabile e continuativa
alla vita economica di uno Stato membro.
Per stabilire se l’attività sia stabile o temporanea non possono
tuttavia essere applicati criteri quantitativi (cosicchè un libero
prestatore operante in una pluralità di prestazioni non abbia
necessariamente l’obbligo di stabilirsi) ed è invece in alcuni casi
applicabile il principio di prevalenza: qualora l’attività svolta nello
Stato ospite sia prevalente rispetto a quella svolta nello Stato
d’origine sarebbe possibile escludere il regime di libera prestazione
(e viceversa). Nemmeno è possibile utilizzare criteri circa la durata
dell’attività o la frequenza della presenza del prestatore nello Stato
della prestazione, rientrando nel campo di applicazione dell’art.56
anche servizi la cui prestazione si estende per un periodo
prolungato, salvo che un prestatore si trattenga a lungo in uno
Stato ospite accettando di svolgere numerose operazioni solo
nell’ambito di tale Stato, com’è accaduto nel caso Gebhard,
avvocato tedesco operante in Italia.
La disponibilità di una sede da parte del prestatore, inoltre
potrebbe costituire la prova del carattere non temporaneo di
un’attività autonoma nel caso in cui essa non sia proporzionata ad
un’attività di natura temporanea.

Il diritto di stabilimento
Il diritto di stabilimento è previsto dall’art.49, che vieta le restrizioni
alla libertà di stabilimento.
Tale diritto si articola in due forme,
a) la prima è riferita ai cittadini di Stati membri che si stabiliscono
nel territorio di un altro Stato, insediandovi il proprio unico
centro di attività (libertà di stabilimento primario);
b) vi è poi il diritto da parte dei soggetti di aprire agenzie,
succursali o filiali, ossia centri di attività subordinati a quello
principale, in uno Stato membro diverso da quest’ultimo (diritto
di stabilimento secondario).

Il diritto di stabilimento primario


Il diritto di stabilimento primario ha un doppio contenuto.
Da un lato conferisce ai cittadini di uno Stato membro il diritto di
accesso e di esercizio di attività autonome in un altro Stato
membro (che può avvenire anche attraverso la costituzione e la
gestione di imprese controllate dal soggetto interessato).
In tal senso, è vietata qualsiasi normativa che impedisca ai cittadini
di altri Stati membri di svolgere determinate attività che sarebbero
invece consentite ai soli cittadini nazionali (clausole di nazionalità).
Dall’altro lato è vietato imporre ai cittadini di altri Stati membri che
intendano insediarsi condizioni diverse da quelle imposte ai
cittadini degli altri Stati membri, secondo il principio del
trattamento nazionale; tale principio è violato quando, pur essendo
concesso lo stabilimento di attività autonome, vi sono disposizioni
che assoggettano i cittadini di altri Stati membri a condizioni meno
favorevoli, dando luogo a discriminazioni dirette; il principio del
trattamento nazionale è altresì violato quando, pur applicandosi la
norma in base a criteri diversi dalla nazionalità, discrimini di fatto i
cittadini di altri Stati membri, per i quali risulterebbe più difficile
soddisfare i criteri d’applicazione della norma, dando luogo ad una
discriminazione indiretta (possibilità di esercitare talune attività
subordinata a requisiti di residenza). Vi sarebbe inoltre una
discriminazione materiale una normativa indistintamente
applicabile sfavorisca di fatto i cittadini di altri Stati membri.

Il diritto di stabilimento secondario


Il diritto di stabilimento secondario consente ai soggetti già stabiliti
in uno Stato membro di aprire e gestire in un diverso territorio un
secondo centro d’attività subordinato al principale (agenzie,
succursali o filiali), senza rinunciare allo stabilimento nel primo
Stato.
Il diritto di stabilimento secodario, così come il primario, ha un
doppio contenuto: da un lato è affermato il diritto di apertura di una
filiale, come prima esposto, che spetta anche quando quest’ultima
rappresenta l’unico o il principale centro di attività di una società,
com’è stato affermato nella sentenza Centros, nella quale una
società registrata nel Regno Unito, dove non aveva tuttavia mai
svolto attività commerciale, potesse godere di tale diritto in
Danimarca.
Dall’altro lato è esteso il principio di trattamento nazionale altresì a
questo campo: per stabilire se vi sia o meno discriminazione si fa
riferimento ai soggetti che nel territorio dello Stato membro hanno
lo stabilimento principale, il cui trattamento dev’essere
corrispondente a quello riservato a coloro che godono del diritto di
stabilimento secondario.
La libera prestazione di servizi
Come per il diritto di stabilimento, il diritto di libera prestazione di
servizi ha un doppio contenuto stabilito dagli artt.56 e 57:
Da un lato è attribuito al prestatore stabilito in uno Stato membro
(home country) il diritto di esercizio temporaneo della propria
attività in uno Stato membro diverso (host country). In tal senso
sono vietate le clausole di nazionalità e quelle di residenza, che
escludono da una determinata attività i soggetti stabiliti all’estero
(caso Transporoute, legislazione lussemburghese che esigeva un
permesso di stabilimento dalle imprese che intendessero
partecipare alle gare d’appalto), salvo che che sia provato che
siano necessarie a raggiungere uno scopo d’interesse generale.
Dall’altro lato è imposto il principio del trattamento nazionale,
ferma restando la possibilità di uno Stato di disciplinare l’esercizio
delle attività autonome a determinate condizioni come il possesso
di una qualifica professionale, purché siano le stesse condizioni
applicabili ai cittadini dello Stato in questione. Accanto alle
discriminazioni dirette basate sulla nazionalità sono state
riconosciute come discriminazioni indirette tutte le forme di
discriminazioni dissimulate che, sebbene basate su criteri in
apparenza neutri, producano il medesimo risultato discriminatorio.
Tra di esse si inseriscono innanzitutto le discriminazioni in base al
luogo di stabilimento del prestatore, causate da normative che
prevedono un trattamento diverso e meno favorevole per i liberi
prestatori rispetto ai soggetti stabiliti (normativa francese che
vietava ai soli medici stabiliti in altri Stati di visitare più di un paziente
per un periodo complessivo di due giorni); vi sono poi normative che
contengono discriminazioni in base al luogo in cui è stata effettuata la
prestazione, subordinanti la concessione di un determinato trattamento
di favore alla condizione che la prestazione sia avvenuta nello Stato
membro che concede il trattamento e non in Stati diversi (causa
Laboratoires Fournier, nella quale è contestata una normativa francese
che prevedeva un credito per le sole attività di ricerca svolte su
territorio nazionale).
Tali discriminazioni (in base al luogo di stabilimento o di svolgimento
della prestazione) non sono vietate se è possibile invocare una
giustificazione basata su considerazioni obiettive estranee alla
nazionalità e che rispetti il principio di proporzionalità (salvaguardia del
sistema fiscale invocata nella causa Bachmann, giustificante la
distinzione di trattamento fiscale tra polizze stipulate da compagnie
belga e quelle stipulate da compagnie stabilite altrove).
Ostacoli non discriminatori al diritto di stabilimento e della
prestazione di servizi
Una restrizione al diritto di stabilimento o alla libera prestazione di
servizi può derivare da norme indistintamente applicabili a tutti
coloro i quali svolgano una determinata attività autonoma: in tal
senso, una normativa applicabile sia ai prestatori stabiliti sia a
quelli operanti in libera prestazione può comportare una restrizione
alla libera prestazione ed è pertanto oggetto del divieto ai sensi
dell’art.56, prescrivente inoltre il divieto di qualsiasi discriminazione
in base alla nazionalità.
Tale orientamento si è manifestato per la prima volta nella sentenza
Webb, nella quale la Corte era chiamata a pronunciarsi sulla
compatibilità con gli artt.56-57 della legislazione olandese, in base
alla quale l’impresa in questione, operante già nel Regno Unito
sulla fornitura di manodopera, volendo operare in regime di libera
prestazione nei Paesi Bassi necessitasse di un’ulteriore
autorizzazione come qualsiasi altra impresa. La Corte, facendo
salvo il diritto da parte dello Stato di subordinare un’attività ad un
regime di licenze per la difesa del pubblico interesse, ritiene che la
normativa imposta dallo Stato vada oltre l’obiettivo perseguito
qualora lo Stato membro richieda le medesime documentazioni per
il rilascio del documento: il prestatore sarebbe in questo modo
sottoposto ad una doppia imposizione normativa, dando luogo ad
una discriminazione materiale.
Nella sentenza Webb la Corte ha dunque chiarito che:
a) la normativa che disciplina in uno Stato membro l’accesso e
l’esercizio di una determinata attività e si applica
indistintamente a tutti coloro che la vogliono svolgere può
costituire un ostacolo alla libera prestazione dei servizi;
b) questo ostacolo sfugge tuttavia al divieto se è giustificato da
motivi di pubblico interesse;
c) bisogna, in ultima analisi, verificare che il pubblico interesse
non sia già difeso dalla normativa cui è sottoposto il prestatore
nel proprio Stato.
Si è articolato dunque il test Webb, cui sono sottoposte le
normative nazionali indistintamente applicabili a prestatori stabiliti e
non. Affinché possa essere applicata ai prestatori non stabiliti
senza creare restrizione alla libera prestazione, essa deve:
a) applicarsi in modo non discriminatorio;
b) essere giustificata da motivi di interesse pubblico;
c) essere idonea a garantire il conseguimento dello scopo
perseguito;
d) non andare oltre quanto necessario per il suo conseguimento.
La Corte ha esteso tale orientamento altresì al diritto di
stabilimento: tale libertà può essere ostacolata dall’applicazione di
norme indistintamente applicabili a tutti coloro che esercitano una
determinata attività in tale Stato membro.
Tale orientamento è stato espresso nella sentenza Gebhard, nella
quale la Corte ha ritenuto una restrizione alla libertà di stabilimento
l’obbligo di iscrizione al competente ordine professionale imposto a
tutti gli avvocati, e per verificarlo è stato applicato un test del tutto
analogo a quello visto per la sentenza Webb; va tuttavia
sottolineato che nell’ambito di alcune sentenze sia stato verificato
se la normativa oggetto d’esame pregiudicasse l’accesso al
mercato per gli operatori economici di altri Stati membri.
Essendo i due test uguali, la Corte non ritiene necessario accertare
di volta in volta se il caso in esame riguardi una restrizione all’una o
all’altra libertà, sebbene sia stato criticato che la pretesa dello
Stato di stabilimento affinché la propria normativa sia rispettata
dovrebbe essere ammessa in più casi, non essendo il soggetto
stabilito sottoposto ad alcun’altra disciplina che non sia quella
dello Stato ospitante.
Tale soluzione è stata ampliata finanche all’art.45, sulla quale la
giurisprudenza ha concluso che vieti anche le disposizioni di uno
Stato membro che, pur applicandosi indistintamente, ostacolino
l’esercizio della libera circolazione dei lavoratori. Tale orientamento
è stato evidenziato nella sentenza Bosman, nel corso della quale la
Corte ha ritenuto inammissibile che vada versata un’indennità
anche qualora l’acquirente del calciatore in questione non sia
belga, in quanto vi sarebbe un impedimento al giocatore che voglia
svolgere la propria attività in uno Stato differente dal suo.

La direttiva servizi 2006/123


La direttiva servizi è rivolta a disciplinare il diritto di stabilimento e
la libera prestazione di servizi prevedendo una disciplina
applicabile a tutti i settori di attività salvo quelli espressamente
esclusi dall’art.2; riprendendo e sviluppando molti dei principi
affermati in giurisprudenza, si tratta di una direttiva di
codificazione, che ha tra l’altro consentito il raggiungimento di un
grado di liberalizzazione maggiore.
Il tema del diritto di stabilimento è affrontato nel Capo III, rivolto a
facilitarne l’esercizio attraverso l’introduzione di norme sui regimi di
autorizzazione (qualsiasi procedura che obbliga un prestatore o un
destinatario a rivolgersi ad un’autorità competente allo scopo di
ottenere una decisione formale relativa all’esercizio di un’attività) e
sui requisiti (qualsiasi obbligo, divieto o condizione imposto a chi
voglia esercitare una determinata attività), limitanti il potere degli
Stati a favore dei prestatori che intendano stabilirsi in uno Stato
membro diverso dal proprio e dei prestatori che vogliano esercitare
un’attività di servizi nel proprio Stato membro.
A favore di coloro i quali rientrano nella prima categoria, la direttiva
ha il merito di aver codificato i principi espressi dalla
giurisprudenza; ai soggetti appartenenti alla seconda categoria, i
quali ricadono in situazioni interne cui non sarebbe applicabile l’art.
49, è stato conferito il diritto di opporsi al regime di autorizzazioni o
alle condizioni imposte allo Stato membro, salvo che questi siano
giustificati da un motivo imperativo.
Il Capo IV si occupa invece della libera prestazione dei servizi e si
applica alle situazione transfrontaliere: nella sezione 1, destinata ai
prestatori, in particolare nell’art.16 vengono innanzitutto ribaditi gli
obblighi a carico degli Stati membri in relazione all’art.56 (obbligo
di rispettare il diritto dei soggetti stabiliti in un altro Stato membro
di esercitare un’attività di servizi e l’obbligo di permettere il libero
accesso a tali attività); in seguito è ammesso che gli Stati membri
possano subordinare l’accesso di un’attività di servizi a requisiti
purché siano rispettate le condizioni di a) non discriminazione, b)
necessità e c) proporzionalità, e solo se sussistono ragioni relative
all’ordine pubblico, alla pubblica amministrazione, alla salute
pubblica o alla tutela dell’ambiente.
Nella sezione 2 viene invece affrontata la situazione dei destinatari
dei servizi: nell’art.19 viene affermata la protezione del destinatario
che voglia utilizzare un servizio fornito da un altro Stato membro da
ostacoli discriminatori apposti dal suo Stato, cui è vietato imporre
norme che richiedano un’autorizzazione delle autorità competenti;
nell’art.20 al destinatario viene offerta protezione dalle
discriminazioni dello Stato membro in cui si svolge la prestazione,
al quale sono vietate discriminazioni sulla nazionalità o sulla
residenza.
Il riconoscimento delle qualifiche personali
Ai fini dell’esercizio del diritto di libero stabilimento e della
prestazione di servizi è necessario che le qualifiche professionali in
possesso di un soggetto possano valere in tutti gli Stati membri; se
così non fosse, il prestatore potrebbe esercitare l’attività
esclusivamente nel territorio del proprio Stato.
In particolare, l’art.53 prevedeva che le istituzioni approvassero,
secondo la procedura legislativa ordinaria, direttive che si
occupassero di questo tema; il ritardo con cui sono state adottate
ha spinto la Corte a chiedersi se il riconoscimento delle qualifiche
possa derivare direttamente dagli art.45, 49, 56 del TFUE. In un
primo momento è stato affermato che in mancanza di direttive
applicabili gli Stati membri sono tenuti a concedere il
riconoscimento dei diplomi ai cittadini che intendano esercitare
uno dei loro diritti tutte le volte che ciò risulti possibile in
applicazione delle norme nazionali, che devono essere interpretate
ed applicate in conformità con gli obiettivi del TFUE (causa
Thieffry). In seguito venne affermato, nel corso della causa
Vlassopoulou, che lo Stato membro è tenuto a prendere in
considerazione i certificati che l’interessato ha acquisito e
raffrontarli con quelli richiesti per l’accesso ad una determinata
professione nello Stato in questione.

Direttiva qualifiche professionali 2005/36


Nel corso degli anni sono state emanate numerose direttive, le
quali sono state poi raccolte nel testo della 2005/36.
La direttiva distingue due casi:
a) la persona in possesso della qualifica professionale ottenuta
nello Stato membro intenda avvalersi della stessa per operare
in regime di libera prestazione: in tal caso non è riconosciuto
più un vero e proprio riconoscimento, non potendo gli Stati
limitare la libera prestazione del servizio se il prestatore è
legalmente stabilito in uno Stato membro per esercitare la
stessa professione. Il prestatore dovrà inviare tuttavia alle
autorità competenti una dichiarazione preventiva con allegati i
documenti che provino il suo diritto e gli saranno inoltre imposti
alcuni obblighi di informazione per i destinatari dei servizi; non
sarà tuttavia consentito allo Stato richiedere l’iscrizione ad
un’organizzazione professionale di settore.
b) La persona in possesso della qualifica intende di avvalersi della
stessa in regime di stabilimento come lavoratore subordinato o
autonomo.
La direttiva prevede in tal caso tre diversi regimi di
riconoscimento.
-Il primo tra questi è il regime generale, avente portata generale
in quanto applicabile a tutti i diplomi per i quali non sia
applicabile un altro sistema di riconoscimento disciplinato dalla
direttiva. Questo sistema si basa sull’idea che il livello e la
durata della formazione necessaria all’accesso a determinate
professioni è omogenea in tutti i vari Stati membri, di
conseguenza (salvo le eccezioni indicate dalla direttiva) lo Stato
che subordini al possesso di tali qualifiche l’accesso a
determinate professioni, deve permettere l’accesso a queste
ultime al cittadino in possesso dell’attestato di competenza.
Il riconoscimento non è tuttavia automatico, bensì sottoposto
ad una verifica da parte dell’autorità, la quale mira a verificare
che il livello di qualifica conseguito sia equivalente; la verifica
può portare a provvedimenti di compensazione che colmino le
differenze tra le qualifiche o ad un accesso parziale alla
professione, ossia solo ad alcune delle attività rientranti nella
qualifica professionale.
-Il secondo regime è quello del riconoscimento dell’esperienza
professionale, riguardante le attività di carattere industriale,
artigianale e commerciale. Si tratta di attività per cui l’accesso è
subordinato al possesso di conoscenze e competenze, per il
cui riconoscimento lo Stato riconosce come prova sufficiente
l’attività nell’altro Stato.
-Il terzo regime è il riconoscimento in base al coordinamento
delle condizioni minime di formazione, applicabile per un
numero ristretto di professioni, per le quali in passato erano
state emanate direttive settoriali volte ad armonizzare le
disposizioni legislative in merito all’accesso alla professione.
Ogni Stato membro riconosci i titoli di formazione che danno
accesso a tali professioni, riconoscendogli gli stessi effetti che
il titolo avrebbe se rilasciato sul territorio dello Stato stesso.
La persona interessata, in ognuno di questi casi, dovrà sottoporsi
ad una procedura di riconoscimento delle proprie qualifiche:
l’autorità competente dovrà completare la procedura di
riconoscimento entro tre mesi, ed il titolare della qualifica
riconosciuta avrà il diritto di usare il medesimo titolo utilizzato nello
Stato membro di stabilimento. Va infine sottolineato che sarà
necessaria, ai fini dell’esercizio, la conoscenza delle lingue dello
Stato ospitante.
La situazione, per il riconoscimento delle qualifiche professionali
degli avvocati, è regolata in maniera particolare.
Può avvenire o attraverso il regime generale precedentemente
descritto o attraverso una strada semplificata, regolata dalla
direttiva 1998/5. Secondo tale direttiva, l’avvocato può esercitare la
propria professione in un altro Stato in maniera stabile a condizione
che usi il proprio titolo professionale espresso nella lingua dello
Stato membro d’origine; il professionista acquisirà il titolo dello
Stato membro dopo un’attività effettiva e permanente riguardante il
diritto dello Stato in questione.
La libera circolazione dei capitali e dei pagamenti

Quadro normativo
Il divieto alle restrizioni di movimenti di capitali e pagamenti tra
Stati membri e tra Stati membri e Paesi terzi è imposto dall’art.63;
gli artt.64-66 contengono alcune possibilità di deroga, la più
importante tra le quali è quella prevista dall’art.65, riguardante sia
la circolazione di capitali che di pagamenti tra Stati membri e tra
Stati membri e Paesi terzi, mentre gli artt.64 e 66 si applicano
soltanto ai movimenti di capitale tra Stati membri e Paesi terzi.
Ogni articolo prevede basi giuridiche che consentono alle istituzioni
di adottare atti legislativi o misure di natura non legislativa; inoltre,
salve le deroghe contenute negli artt.64-66, il divieto di restrizioni
può essere invocato dinanzi a qualsiasi giudice che potrà
disapplicare le norme nazionali in contrasto con esso, essendo la
norma dotata di efficacia diretta.

Il divieto di restrizione ai movimenti di capitali e ai


pagamenti
L’art.63 stabilisce il divieto di ogni restrizione ai movimenti di
capitali e pagamenti sia tra Stati membri che tra Stati membri e
Paesi terzi. I pagamenti, secondo una distinzione ormai priva di
rilevante importanza pratica essendo il divieto direttamente efficace
in entrambi i casi, sono definiti un trasferimento di valuta che
costituisce una controprestazione nell’ambito di un negozio,
mentre i movimenti di capitale come operazioni finanziarie che
riguardano la collocazione o l’investimento e non il corrispettivo di
una prestazione.
Non è invece mai stata data una definizione di restrizione in termini
generali, sicché la Corte si è limitata a decidere caso per caso se
sussistesse una restrizione, sanzionando frequentemente come
contrarie all’art.63 le normative discriminatorie. Tali normative
vietano o sottopongono a condizioni restrittive determinate
operazioni caratterizzate da elementi di transnazionalità; qualora
queste operazioni fossero puramente interne allo Stato membro,
sarebbero permesse o sottoposte a condizioni meno restrittive o
più favorevoli.
Talora la discriminazione è dovuta alla circostanza che l’operazione
è effettuata da soggetti non residenti (discriminazione ai danni di
investitori non residenti), talvolta alla circostanza che l’investimento
avvenga in territorio straniero o a favore di soggetti non residenti
(discriminazione ai danni di investimenti in altri Stati membri).
La Corte, inoltre ritiene che il divieto dell’art.63 vada esteso alle
normative nazionali che sottopongano a condizioni limitative
determinate forme di investimento, così da considerarle restrizioni
ai movimenti di capitali nonostante si applichino indistintamente a
qualunque investitore: pertanto, è stato affermato che l’art.63 vieta
in maniera generale le restrizioni ai movimenti di capitale tra gli
Stati membri.
Un tipo di discriminazione del genere si è avuta nel caso Idryma,
nel quale era contestato che la legislazione greca attribuisse agli
azionisti aventi una partecipazione superiore del 2,5% nelle
emittenti televisive la responsabilità delle sanzioni pecuniare
comminate; pur se indistintamente applicabile agli investitori greci
e degli altri Stati membri e avente lo scopo di sensibilizzare gli
investitori, la Corte giudica che avrebbe un effetto dissuasivo
maggiore rispetto ai secondi.
Le restrizioni derivanti da normative indistintamente applicabili
possono tuttavia sfuggire dal divieto di cui all’art.63 se giustificate
da ragioni imperative di interesse pubblico, sempre che rispettino il
principio di proporzionalità. Nella sentenza del 2002 Commissione
c. Portogallo, nella quale quest’ultimo Stato si riservava la
possibilità di autorizzare preventivamente ogni acquisizione di
partecipazioni superiore ad un certo livello, la Corte si è, per
esempio, opposta a questa limitazione, in quanto giudicò
mancante una ragione imperativa di interesse generale e, qualora vi
fosse stata, il regime di autorizzazione preventiva non avrebbe
rispettato il principio di proporzionalità. Affinché dunque una
normativa sfugga al divieto di cui all’art.63, il test applicato dalla
Corte è teso a verificare che la a) la normativa sia indistintamente
applicabile, b) che sia giustificata da ragioni imperative di interesse
pubblico, c) che sia idonea a garantire il conseguimento dello
scopo e che d) non vada oltre quanto necessario per il rispetto di
quest’ultimo.

Deroghe alla libera circolazione di capitali e pagamenti


L’art.65 prevede alcune deroghe applicabili nei rapporti tra Stati
membri. La prima tra queste deroghe riguarda le disposizioni di
carattere tributario, apportando una distinzione tra i contribuenti
che non si trovino nella medesima situazione per quanto riguarda il
loro luogo di residenza e di collocazione del loro capitale.
Un’ulteriore deroga fa salvo il diritto di ogni Stato di prendere tutte
le misure necessarie per impedire le violazioni della legislazione e
delle regolamentazioni nazionali in particolare nel settore fiscale; è
altresì resa possibile l’adozione di misure giustificate da motivi di
ordine pubblico o di pubblica sicurezza. In nessun caso le deroghe
possono costituire un mezzo di discriminazione arbitraria né una
restrizione dissimulata al libero movimento di capitali e pagamenti.
In relazione ai rapporti tra Stati membri e Paesi terzi va ricordato
l’art.66, il quale consente l’adozione di misure di salvaguardia per
un periodo non superiore a sei mesi qualora i movimenti di capitali
provenienti da Paesi terzi causino o minaccino di causare difficoltà
gravi per il funzionamento dell’Unione Economica e Monetaria.
Le regole di concorrenza applicabili alle imprese

Quadro normativo
Rientra nella competenza esclusiva dell’Unione la definizione delle
regole di concorrenza sul funzionamento del mercato interno.
Si occupano di questo aspetto gli artt.101-109, divisi in due
sezioni: la prima (101-106) è dedicata alle regole applicabili alle
imprese, la seconda agli aiuti statali alle imprese (107-109).
L’art.101 prescrive il divieto di intese, l’art.102 il divieto di
sfruttamento abusivo della posizione dominante, ed entrambi i
divieti sono dotati di efficacia diretta; gli artt.103-105 riguardano
l’applicazione dei due divieti (in particolare l’art.103 pone le basi
giuridiche per l’adozione di regolamenti e direttive) e l’art.106
prevede alcune regole speciali per le imprese pubbliche.
Mentre le norme precedentemente esaminate ponevano dei divieti
agli Stati necessari ad eliminare gli ostacoli all’unificazione derivanti
dalla loro azione, gli artt.101-102 pongono dei divieti aventi lo
stesso fine ma in capo alle imprese: si vuole così realizzare
l’obiettivo del mercato unico instaurando un regime di concorrenza
leale e non falsata, nel quale le imprese hanno interesse a lavorare
e in maniera più efficiente e produrre a costi più bassi, creando
vantaggi per i consumatori sempre crescenti.
Spettano grandi poteri alla Commissione sia in ambito normativo
(emissione regolamenti di secondo grado) che amministrativo
(applicazione artt.101-102); pubblica inoltre in maniera frequente
atti non obbligatori rientranti tra le comunicazioni, attraverso le
quali viene esposto in maniera non vincolante come applicare gli
artt. a determinate questioni o categorie di fattispecie.

Obblighi degli Stati membri


Dagli artt.101-106 discendono altresì degli obblighi agli Stati, che
devono astenersi dall’emanare o dal mantenere in vigore
provvedimenti che possano rendere inefficaci tali norme.
Tale obbligo può risultare violato in due casi:
a) le misure statali provocano un rafforzamento delle intese
contrarie all’art.101. E’ dunque necessaria un’intesa
preesistente, che il provvedimento pubblico rende obbligatoria,
ne rafforza gli effetti o ne facilita la conclusione. Nel caso Asjes,
la legislazione francese prevedeva che le tariffe aeree fossero
soggette ad omologazione da parte delle competenti autorità,
ma di fatto venivano stabilite dalle compagnie interessate
durante le assemblee della IATA; il mancato rispetto delle tariffe
era sanzionato penalmente. La Corte intervenne affermando
che, accertata l’esistenza di un’intesa, è contrario agli obblighi
di uno Stato omologare tali tariffe e rafforzarne gli effetti;
b) lo Stato delega le proprie competenze ad operatori privati
nell’ambito di decisioni in materia economica (es. fissazione
tariffe obbligatorie), nelle quali sarebbe invece necessario
l’intervento di un organo che raccolga rappresentanti di tutte le
categorie economiche interessate, garantendo il perseguimento
dell’interesse collettivo e non di quello particolare. Nel caso
Reiff, ad esempio, occupandosi della normativa tedesca in
materia di tariffe dei trasporti su strada, la Corte osserva che,
nel fissare le tariffe, non sono stati tenuti in conto gli interessi
del settore agricolo e delle zone economicamente meno
favorito e soprattutto non è stato richiesto il parere del comitato
rappresentativo dei destinatari del servizio; viene così messo in
rilievo che il Ministro interessato può partecipare alle riunioni
delle commissioni tariffarie e fissarle egli stesso qualora non
fossero conformi al comune interesse.
Nel primo caso, ed in particolare quando le misure nazionali
impongano la conclusione di intese vietate dall’art.101, è esclusa la
responsabilità delle imprese quando le misure nazionali non lascino
sopravvivere la concorrenza; qualora invece sopravvivesse, le
imprese sarebbero responsabili di aver concluso un’intesa che
elimina ogni residuo margine di concorrenza avvalendosi del
margine di manovra attribuito dalla misura statale.
Nel caso CNSD la Commissione ha avviato un procedimento
contro lo Stato italiano e contro CNSD, cui era stato accordato il
permesso di stabilire tariffe obbligatorie per i servizi spedizionieri
doganali; in un primo momento fu fissata una forbice di prezzi
minimi e massimi tali da consentire un certo livello di concorrenza,
che fu tuttavia eliminato nei periodi successivi. Il Tribunale respinge
pertanto il ricorso d’annullamento proposto dal CNSD.

Portata delle regole applicabili alle imprese


Le regole imposte dagli artt.101-102 riguardano esclusivamente gli
aspetti della concorrenza che possano causare problemi al
commercio tra Stati membri; è pertanto intatta la competenza degli
Stati in merito agli effetti concorrenziali sul piano nazionale.
E’ tuttavia possibile che il comportamento di un’impresa provochi
effetti negativi sia a livello nazionale che internazionale, e sorge in
questi casi il problema dell’applicazione parallela del diritto
dell’Unione e nazionale, risolvibile attraverso la soluzione della
doppia barriera o della barriera unica (fattispecie rientranti nel
diritto dell’Unione sottratte all’applicazione nazioanle). Come
ammesso dalla Corte il problema si risolve attraverso la soluzione
della doppia barriera, per la quale ad una medesima fattispecie è
applicabile sia il diritto dell’Unione che quello statale; viene così
fatto salvo il diritto nazionale quando esso consideri le intese sotto
una luce differente dal diritto dell’Unione, a condizione che non sia
pregiudicato il principio del primato del diritto dell’Unione, cosicché
non sia pregiudicata l’uniforme applicazione delle norme
comunitarie.
Si presenta inoltre il problema dell’applicazione extraterritoriale,
cioè dell’applicazione ad imprese appartenenti a Stati terzi,
risolvibile attraverso la teoria della territorialità (diritto applicabile in
forza di una localizzazione del comportamento all’interno del
territorio dell’Unione) o degli effetti (effetti anticoncorrenziali con
sede al di fuori dell’Unione si facciano sentire nel mercato interno).
Pur preferendo sempre il primo criterio per giustificare l’intervento
della Commissione (causa Imperial Chemical, cartello sui coloranti
con sede nel Regno Unito, all’epoca Paese terzo, ma avente sedi
affiliate nella Comunità), è stato dato sempre più risalto alla teoria
degli effetti, prima nella sentenza Ahlstrom (cartello di produttori di
pasta di legno appartenenti a Paesi terzi, ma effettuanti operazioni
di vendita verso imprese di Stati membri), nella quale è stato dato
rilievo che i produttori hanno messo in atto l’intesa di prezzi nel
mercato comune, poi nella sentenza Gencor, nella quale è stato
affermato che se una concentrazione produce un effetto nel
mercato, l’applicazione del regolamento è giustificata dal diritto
pubblico internazionale.
Quanto alla nozione di impresa, discostandosi dalle definizioni
degli Stati membri, la Corte l’ha definita come ogni entità che
esercita un’attività economica, e rientrano in tale classificazione
altresì gli enti pubblici effettuanti attività economiche ed i liberi
professionisti, oltre che le entità che non perseguono fini di lucro.
Il divieto di intese
Un’intesa presuppone l’esistenza di almeno due soggetti che la
pongano in essere tra di loro, ed è pertanto sempre necessario
riferirsi ad una pluralità d’imprese.
Affinché sussista tale pluralità è necessario che le imprese non
siano strettamente collegate tra loro dal punto di vista economico
cosicché si possa parlare di un’unica impresa-madre che eserciti
un controllo completo ed effettivo su altre imprese subordinate non
dotate di effettiva autonomia (criterio dell’unità economica),
giacché si avrebbe in tal caso una mera ripartizione dei compiti,
come sottolineato nella sentenza Centrafam.
Lo stesso criterio è applicato anche nel caso di rapporti tra
fornitore e distributore quando quest’ultimo, seppur indipendente
rispetto al primo, non è sottoposto ad alcun rischio per la propria
attività economica.
Quando vi sia tale pluralità di imprese, l’art.101 stabilisce
incompatibile con il mercato interno ogni intesa, la quale può
configurarsi come accordo tra imprese, decisione di associazione
d’imprese o pratica concordata, avente per oggetto o per effetto di
impedire, restringere o falsare il gioco della concorrenza nel
mercato interno.
Sono dunque possibili tre tipi di intese:
a) la prima tra queste è l’accordo, che presuppone l’esistenza di
un incontro di volontà tra le due parti sul comportamento da
adottare sul mercato; non è necessario che il comportamento
sia giuridicamente vincolante, valido ai sensi del diritto
nazionale o redatto in forma scritta, e l’accettazione può
risultare altresì tacitamente dal contegno tenuto dalle imprese.
Nel caso dei rapporti contrattuali tra produttori/fornitori e
distributori/rivenditori, è possibile che vi sia un accordo
restrittivo della concorrenza voluto dal produttore; i fornitori
potranno non manifestare in alcun modo la loro accettazione o
accettare tacitamente quanto imposto, lasciando libera
applicazione all’art.101 in quest’ultimo caso.
Un esempio di questi orientamenti è dato innanzitutto dalla
sentenza Sandoz, nella quale la Corte ha ritenuto provata
l’esistenza di un accordo dal fatto che i grossisti continuassero
a rifornirsi da questa azienda senza contestare il divieto
d’esportazione imposto; al contrario, si ha un esempio del
primo caso nella sentenza Bayer, società che decise di non
onorare gli ordini di fornitura a grossisti spagnoli e francesi che
eccedevano il fabbisogno del rispettivo mercato nazionale, così
da cercare di fermare le esportazioni verso il Regno Unito; il
fatto che i grossisti avessero cercato di raggirare la volontà di
Bayer dimostra l’assenza di un accordo.
b) La pratica concordata non richiede una manifestazione di
volontà reciproca tra le parti, che si coordinano sul mercato
senza uno specifico accordo costituendo una collaborazione
consapevole a danno della concorrenza.
Per smascherare una pratica concordata bisogna innanzitutto
partire dall’assunto che, in una normale condizione di
concorrenza non falsata, ogni operatore determinerebbe
autonomamente la condotta da seguire sul mercato, reagendo
in maniera ragionevole al comportamento dei concorrenti; se al
contrario le imprese operano sul mercato in maniera identica o
simile, dando luogo ad un parallelismo di comportamenti, è
probabile che ciò sia dovuto ad una concertazione, la cui
esistenza diventa quasi certa se le imprese hanno tenuto nel
tempo riunioni periodiche finalizzate ad uno scambio di
informazioni normalmente riservate (es. prezzi da praticare o
limiti volume vendita). Una volta che la Commissione abbia
dimostrato l’esistenza di tali comportamenti, spetterà alle
imprese in questione provare che non siano anticoncorrenziali.
c) Le decisioni di associazioni di imprese (ossia intraprese da
qualunque organizzazione che riunisca le imprese operanti in
un certo mercato) possono consistere in una raccomandazione
obbligatoria per gli associati o non obbligatoria ma accettata da
un gran numero di affiliati (es. atto con il quale un organismo
professionale fissa una tariffa uniforme e vincolante per tutti
coloro che offrono una determinata professione).
Qualsiasi sia il tipo di intesa, affinché ricada nel divieto di cui all’art.
101 è necessario che siano soddisfatte due condizioni:
a) l’intesa deve avere per oggetto o per effetto di impedire,
restringere o falsare la concorrenza all’interno del mercato
interno, ed è cioè necessario che apporti un pregiudizio alla
concorrenza.
Sarebbe superfluo considerare gli effetti qualora l’oggetto sia
esso stesso il restringimento della concorrenza, ma qualora non
sia possibile definirlo sarà necessario valutare gli effetti
anticoncorrenziali dell’accordo, valutando se la concorrenza
sarebbe più o meno forte in sua assenza.
Le intese possono sia essere di tipo orizzontale, ossia concluse
da imprese operanti sullo stesso livello produttivo ed in
concorrenza diretta tra loro, che verticali, ossia concluse da
imprese operanti su livelli differenti, cosicché sia ristretta la
concorrenza tra una delle imprese partecipanti all’intesa e le
intese terze operanti nello stesso mercato. Un caso di intesa
verticale è fornita dal caso Grundig, nel quale un fabbricante
tedesco di prodotti elettronici concedeva all’impresa Conston il
diritto esclusivo di distribuire i propri prodotti in Francia: la
concorrenza tra Conston e gli altri grossisti di Grundig era
quindi inesistente nel territorio francese.
Costituiscono dunque intese verticali gli accordi di
distribuzione, di acquisto o fornitura. I primi sono vietati solo se
prevedono contenuti tali da restringere la concorrenza: sono
dunque vietati gli accordi di distribuzione esclusiva, simili a
quello appena esposto. Sono invece accordati quelli di
distribuzione selettiva, per i quali i distributori sono scelti in
base a criteri di qualità e professionalità. Gli accordi di acquisto
o fornitura sono invece contrari all’art.101 solo se si
configurano come accordi di acquisto esclusivo che spingono i
distributori a rifornirsi da un solo produttore.
Un esempio di intesa orizzontale è dato invece dagli accordi tra
produttori di un medesimo tipo di prodotto o servizio che mirati
alla ripartizione del mercato.
b) E’ poi necessario che sia apportato un pregiudizio al
commercio tra gli Stati membri, e tale pregiudizio si concretizza
quando l’intesa incida sulla libertà del commercio tra Stati
isolando i mercati nazionali o modificando la struttura della
concorrenza.
Perché un’impresa rientri nel campo di applicazione del divieto,
è necessario che il pregiudizio al commercio da essa apportato
sia di una certa rilevanza, ed esiste pertanto una soglia al di
sotto della quale le eventuali restrizioni alla concorrenza o al
commercio non fanno scattare il divieto (de minimis).
Le intese non pregiudicano sensibilmente il commercio tra Stati
quando la quota di mercato delle parti non supera il 5% ed il
loro fatturato comunitario relativo ai prodotti cui si applica
l’accordo non supera i 40 milioni di euro.
Il divieto di intese può essere dichiarato inapplicabile ad un’intesa
determinata o ad un’intera categoria di intese qualora sussistano
quattro condizioni cumulative:
a) l’intesa in questione contribuisca a migliorare la distribuzione
dei prodotti o il progresso tecnico o economico; è richiesto che
il miglioramento della produzione o della distribuzione sia
oggettivo e non sia un semplice vantaggio derivante ai
contraenti dalla conclusione dell’accordo.
b) Una congrua parte dell’utilità derivata dev’essere riservata a
vantaggio dei consumatori;
le intese non devono invece:
c) imporre alle imprese restrizioni non indispensabili a raggiungere
tali obiettivi, nel rispetto del principio di proporzionalità:
d) Dare alle imprese la possibilità di eliminare la concorrenza sui
prodotti in questione

Le imprese che non rispettano il divieto imposto dall’art.101


sono sanzionate attraverso la dichiarazione della nullità del loro
accordo, la cui applicazione è affidata ai giudici nazionali.
La nullità, applicabile solo al caso degli accordi e alle decisioni
di associazioni d’imprese, è assoluta ed in quanto rende il
rapporto privo di effetti tra i contraenti ed inopponibile ai terzi; è
inoltre parziale, riguardando unicamente le clausole vietate
dall’art.101.

Il divieto di abuso di posizione dominante


Il divieto di abuso di posizione dominante è oggetto dell’art.102, il
quale non vieta la detenzione o l’acquisizione di tale posizione ma
soltanto il suo sfruttamento, a meno che l’acquisto di tale posizione
e lo sfruttamento non coincidano, com’è accaduto nel caso
Continental Can, che acquisì una consistente parte delle azioni di
un’impresa concorrente limitando la concorrenza.L’art.102 può
trovare applicazione nei confronti di un’unica impresa (posizione
dominante individuale), nei confronti di un’impresa madre e delle
sue affiliate (posizione dominante di gruppo) e nei confronti di più
imprese indipendenti tra loro ma legate da vincoli economici (come
il possesso comune di un vantaggio tecnologico).
Quando sia stato accertato che le imprese detengano una
posizione dominante, occorre poi verificare se vi sia stato
sfruttamento abusivo, e per farlo si da luogo ad un procedimento
articolato in tre fasi:
a) si individua il mercato rilevante, cioè il mercato sul quale
l’impresa in questione potrebbe detenere una posizione
dominante, che va definito sia in termini geografici, in quanto
area nella quale le condizioni obiettive di concorrenza devono
essere le stesse per tutti gli operatori, sia in termine di prodotti,
facendo riferimento sia ai prodotti identici a quelli dell’impresa
in questione sia a quelli che presentano un certo grado di
intercambiabilità, e quindi a tutti quelli che possano fare
concorrenza.
b) Si stabilisce poi se l’impresa detenga o meno posizione
dominante, definita nella causa Hoffmann-La Roche come una
posizione di potenza economica grazie alla quale l’impresa è
capace di ostacolare la persistenza di una concorrenza effettiva
sul mercato in questione, mantenendo verso i concorrenti ed i
consumatori un comportamento indipendente. Per stabilire se
sussista questa situazione è osservabile la quota di mercato
detenuta da un’impresa (si valuta la quota del 40% come quota
limite), il numero e la forza dei concorrenti e l’esistenza o meno
di barriere all’ingresso.
c) Infine occorre verificare che vi sia sfruttamento abusivo della
posizione dominante, la quale consente all’impresa di influire
sulla struttura del mercato ostacolando la concorrenza, già
sminuita per la stessa presenza di tale impresa. Infatti,
operando su un mercato con una concorrenza già indebolita,
l’impresa dominante avrebbe al contrario la responsabilità di
non compromettere lo svolgimento di una concorrenza
effettiva, e quindi di non rafforzare la propria posizione; è
tuttavia ammesso, fino ad un certo limite, che un’impresa
provveda a tutelare i propri diritti commerciali qualora insidiati.

Le pratiche abusive effettuate dall’impresa possono essere distinte


in base agli effetti che comportano sulla concorrenza come abusi
di sfruttamento, nei quali l’impresa intende massimizzare il profitto
che può trarre dalla sua posizione di forza imponendo condizioni
non applicabili ad un mercato concorrenziale, ed abusi di
esclusione, che mirano invece a proteggere o incrementare la
posizione dell’impresa dominante espellendo dal mercato
concorrenti o impedendo a potenziali concorrenti di entrarvi.
Sono definibili abusi:
• I prezzi eccessivi, privi di qualsiasi ragionevole rapporto con il
valore economico della prestazione fornita;
• I prezzi discrminatori, a meno che non siano oggettivamente
giustificati (es. diversità nelle spese di trasporto);
• I prezzi predatori, ossia prezzi bassi capaci di eliminare dal
mercato un’impresa non capace di sopportare la concorrenza
esercitata; affinché vi sia un abuso occorre dunque che i prezzi
siano eccessivamente bassi e che tale politica rientri in un
disegno esclusivo;
• Anche una politica di sconti praticata da un’impresa in posizione
dominante può costituire un abuso: in particolare sono vietati gli
sconti di fedeltà, legati all’impegno di un distributore di rifornirsi
sempre dall’impresa dominante o al perseguimento di obiettivi di
vendita in relazione alla loro vendita, mentre non sono considerati
abusivi gli sconti quantitativi legati al volume degli acquisti;
• La pratiche di tying, consistente nel subordinare la conclusione di
un contratto all’accettazione da parte degli altri contraenti di
prestazioni supplementari non legate all’oggetto del contratto
stesso (es. causa Hildi, impresa di pistole spara-chiodi che
imponeva altresì l’acquisto di chiodi);
• Le pratiche di bundling, per le quali un’impresa subordina la
conclusione di una vendita o l’utilizzo di condizioni migliori alla
vendita di un prodotto proveniente da un altro mercato (es. causa
Microsoft, la quale preinstallava nel sistema operativo Windows il
prodotto Windows Media Player, appartenente ad un altro
mercato);
• Il rifiuto di vendere prodotti o servizi ad un’impresa che ne faccia
richiesta, in particolar modo se quest’ultima era una cliente
abituale;
• L’impedimento all’accesso delle cosiddette essential facilities,
ossia strutture o servizi in mancanza dei quali l’attività di
un’impresa non potrebbe essere svolta.

Perché l’abuso sia vietato, è altresì necessario che pregiudichi il


commercio degli Stati membri, e cioè che incida sulla libertà del
commercio tra gli Stati membri secondo le modalità già elencate.
Inoltre, il divieto è assoluto e non è possibile prevedere alcuna
dichiarazione di inapplicabilità.
Le procedure per l’applicazione degli artt.101-102
Il compito di dare applicazione alle disposizioni di suddetti articoli è
affidato alla Commissione, alle autorità nazionali competenti (ANC)
in materia ed ai giudici nazionali.
Inizialmente il reg.17/62 imponeva che le ANC potessero applicare
gli artt. salvo che la Commissione non desse essa stessa inizio alla
procedura in proposito; i giudici potevano applicarli, essendo dotati
di efficacia diretta, ma dovevano rispettare le decisioni già adottate
dalla Corte. Essi non perdevano tuttavia la competenza ad
applicarli all’avvio del procedimento da parte della Commissione,
tuttavia la Corte invitava a sospendere il giudizio in attesa della
decisione della Commissione, che era inoltre l’unica a poter
applicare una decisione individuale di inapplicabilità, mentre era
riservato alle ANC e ai giudici il solo potere di applicare le sanzioni
di nullità.
Il successivo reg.1/2003 ha portato ad una maggiore
decentralizzazione così da alleggerire il carico di lavoro della
Commissione e da aumentare il potere degli Stati e dei giudici, che
possono ora applicare le esenzioni individuali.

La Commissione può intervenire d’ufficio o in seguito ad una


denuncia presentata da persone fisiche e giuridiche o da Stati
membri. Il procedimento per l’applicazione si apre con la fase
istruttoria, nel corso della quale la Commissione raccoglie
informazioni per accertare la violazione attraverso indagini nei
settori economici in cui la concorrenza non funziona come
dovrebbe, richieste di informazioni rivolte direttamente alle
imprese, audizioni e ispezioni presso imprese o domicili di persone
chiave.
Qualora la Commissione lo ritenga opportuno in base alle
informazioni raccolte comincia il procedimento formale, notificando
alle imprese una comunicazione di addebiti; dal momento in cui
tale notifica viene rivolta, le ANC perdono la loro competenza. Alle
imprese spetta il diritto di prendere visione dei documenti su cui la
Commissione basa il procedimento (accesso al fascicolo), di
presentare osservazioni scritte entro un termine congruo e di
essere sentire in merito alle contestazioni mosse.
In merito alle infrazioni, la Commissione può impartire numerose
decisioni:
a) le decisioni di mera constatazione sono emanate qualora
l’infrazione sia già cessata ma vi sia motivo di constatarla;
b) Le decisioni inibitorie obbligano le imprese a porre fine ad
un’infrazione ancora in atto imponendo i rimedi da atturare;
c) Le decisioni comminatorie di ammende impongono l’obbligo di
pagare un’ammenda di un valore che non superi il 10% del
fatturato realizzato durante l’esercizio sociale precedente;
d) Le decisioni di accettazione d’impegni sono adottate in
alternativa alle decisioni inibitorie quando un’impresa s’impegni
a svolgere un compito in risposta alle preoccupazioni espresse
dalla Commissione: l’intervento di quest’ultima non sarà
necessario fintanto che l’impegno sia rispettato;
e) Le decisioni di misure cautelari sono adottate in casi di urgenza
quando la Commissione constati un’infrazione
f) Le decisioni di irrogazione di penalità di mora possono essere
irrogate per porre fine ad un’infrazione constatata con una
decisione inibitoria (v. lett. a), per indurre al rispetto delle misure
cautelari (v. lett. e) o degli impegni accettati (v. lett. d);
g) Le decisioni di constatazione di inapplicabilità sono adottate
per questioni d’interesse pubblico alle intese;
h) Le decisioni di rigetto di denuncia, applicate per per respingere
la denuncia ad un’intesa;
i) Le decisioni di revoca, applicate per revocare un’esenzione per
categoria.

Le ANC possono adottare, agendo d’ufficio o in seguito a denuncia


ed in relazione a casi individuali, decisioni inibitorie, di accettazione
d’impegno, sanzionatorie o di non luogo a procedere (qualora non
vi sia motivo di intervenire); tali poteri sono direttamente applicabili,
avendo la loro fonte in un regolamento.
Le ANC sono tuttavia poste sotto il potere di coordinamento della
Commissione, che le obbliga a:
a) Informarla di tutti i casi che intenda istruire e delle decisioni che
intenda adottare, dando luogo ad una cooperazione verticale
consistente in un’obbligo d’informazione;
b) Fermare ogni procedimento in merito ad una fattispecie in
relazione alla quale la Commissione abbia avviato un
procedimento (effetto preclusivo);
c) Applicare le decisioni in maniera conforme a quelle applicate
dalla Commissione (eventualità di decisione in merito ad un
caso di applicazione parallela, per la quale sarà utilizzato il
metodo della doppia barriera).
In aggiunta alla cooperazione verticale di cui alla lett. a, si forma
una cooperazione orizzontale tra le autorità nazionali.

I giudici nazionali godono del potere di applicare gli artt.101-102,


imponendo la nullità; prima di farlo, tuttavia, sarà compito del
giudice verificare che non sussistano le condizione che rendano
inapplicabile il divieto. Dinanzi ai giudici nazionali è qualunque
soggetto che ne abbia interesse può richiedere azioni di
risarcimento del danno, in relazione alle quali è stato adottato il
regolamento 2014/104, che contiene da un lato disposizioni dirette
a rimuove le difficoltà pratiche che consumatori e imprese devono
affrontare nei giudizi nazionali per ottenere tale risarcimento (es.
prescrizione di almeno cinque anni e quantificazione del danno
riconosciuta dai giudici) e dall’altro disposizione necessaire a
coordinare i poteri dei giudici nazionali (es. divulgazione prove della
Commissione o di un’ANC).
In caso di conflitti di competenza, il giudice conserva la capacità di
esprimere la compatibilità sulla compatibilità dell’intesa con l’art.
101 (fermo restando l’invito della Corte precedentemente esposto);
in caso di decisione della Commissione, questa continua a
vincolare anche il giudice nazionale che non potrà adottarne una
difforme. Il giudice potrà comunque sottoporre alla Commissione
domande d’informazione per ottenere informazioni su dati di cui
essa dispone, richiedere pareri sull’applicazione e ricevere
osservazioni scritte dalla Commissione d’ufficio.

La disciplina delle imprese pubbliche o delle imprese


incaricate della gestione di interesse economico generale
Come indicato dall’art.106, le imprese pubbliche (ogni impresa nei
confronti della quale i poteri pubblici esercitino un’influenza
dominante), cui sono assimilate le imprese titolari di diritti esclusivi,
sono sottoposte alle stesse regole cui sono sottoposte quelle
private: compito dei poteri pubblici è dunque quello di non
emanare né mantenere in vigore alcuna misura contraria agli artt.
101-102 nei confronti di queste imprese.
Purché non si induca l’impresa a sfruttare abusivamente la sua
posizione dominante o crei tale rischio, nulla vieta l’attribuzione di
un diritto esclusivo di esercitare un’attività all’impresa in questione
(es. caso Sacchi, nel quale è stato affermato che nulla vieta agli
Stati membri di sottrarre un’attività, in questo caso quella delle
trasmissione radiotelevisive, al gioco della concorrenza per finalità
d’interesse pubblico): affinché dunque il provvedimento sia
conforme all’art.106, è necessario che non determini una
conseguenza anticoncorrenziale attuale o potenziale. Essendo la
norma dotata di efficacia diretta, potrà esserne richiesto il rispetto
dinanzi ai giudici dagli interessati.
L’art.106 si occupa altresì della disciplina di imprese incaricate
della gestione di servizi di interesse economico generale; viene
prescritto un limite, in deroga alle norme dei trattati, alla
sottoposizione di tali imprese alle regole di questi ultimi, che
possono essere imposte soltanto qualora non impediscano
l’adempimento dei compiti loro assegnati. S’intende per servizi di
interesse economico generale (SIEG) ogni servizio assoggettato a
specifici obblighi di servizio pubblico per un criterio di interesse
generale; la gestione di questi servizi avviene mediante la
concessione di un diritto di esclusiva (alla cui attribuzione è spesso
riferita la deroga) ad un’unica impresa privata o pubblica, che
talvolta deve fornire un servizio universale (ossia a favore di tutti gli
utenti del territorio ed a tariffe uniformi).
Per rientrare nel campo di applicazione dell’art.106 l’impresa
dev’essere incaricata dai pubblici poteri di svolgere il servizio in
questione.
Il finanziamento del servizio universale comporta il problema degli
oneri di servizio pubblico, risolvibile in due soluzioni:
a) (quella seguita dal governo italiano riguardo al servizio postale)
facendo partecipare ai costi le imprese che operano nei
medesimi mercato (es. causa TNT Traco, per cui ogni fornitore
di servizi postali doveva contribuire col pagamento del diritto
postale);
b) attribuire aiuti pubblici alle imprese incaricate. Si pone tuttavia il
problema del rapporto tra l’art.106 e gli artt.107-108, in materia
di aiuti di Stato. Nella sentenza Altmark, nella quale la Corte
decideva se le sovvenzioni pubbliche volte a consentire
l’esercizio di servizi di linea fossero o meno aiuti, è stato
stabilito che tali sovvenzioni possono essere considerate
compensazioni degli oneri di servizio pubblico (e non ricadere
dunque nel divieto dell’art.107) quando siano rispettate alcune
condizioni, e cioè che l’impresa sia stata incaricata
dell’adempimento di obblighi di servizio pubblico definiti
chiaramente, che i parametri attraverso i quali sono calcolate le
compensazioni siano stati precedentemente in modo
trasparente, che la compensazione non ecceda quanto
necessario per coprire interamente o in parte i costi originati,
che, quando la scelta non avvenga per appalto pubblico, il
livello di compensazione sia scelto sulla base dei osti che
un’impresa media avrebbe dovuto sopportare per adempiere a
tali obblighi.

Il controllo delle concentrazioni (reg.139/2004)


Il reg.139/2004 definisce la nozione di concentrazione, che si ha
quando il controllo di un’impresa (ossia la possibilità di esercitare
un’influenza determinante sull’attività della stessa) varia in seguito
all’unione di due imprese precedentemente indipendenti o in seguito
all’acquisizione da parte di una o più persone/imprese che già
detengono il controllo di un’impresa del controllo dell’insieme o di parti
di altre imprese.
Le operazioni di concentrazione non sono ammesse se incompatibili
con il mercato comune, e affinché lo siano è necessario che non
ostacolino in modo significativo la concorrenza effettiva nel mercato
comune.
La procedura di controllo spetta alla Commissione, alla quale vanno
notificate preventivamente le operazioni di concentrazione, dando inizio
ad un esame informale da parte sua, al termine del quale, in mancanza
di dubbi, la concentrazione sarà dichiarata compatibile (anche
lasciando decorrere il termine di 25 giorni lavorativi); in caso contrario
inizia l’esame formale, che deve concludersi in 90 giorni lavorativi con
una decisione di compatibilità o incompatibilità. Nel corso dei suddetti
periodi le operazioni di concentrazione sono sospese e non possono
essere ultimate prima dell’autorizzazione della Commissione; qualora
tale obbligo non sia rispettato, la Commissione può ordinare la
separazione delle imprese. Essa detiene altresì il potere di adottare
misure provvisorie per mantenere la concorrenza e di comminare
ammende.
Tale procedura si applica soltanto alle concentrazioni di dimensione
comunitaria, e la concentrazione si definirà tale se soddisfatti alcuni
parametri relativi al fatturato; è tuttavia possibile che uno o più Stati
rinviino alla Commissione delle concentrazioni giudicate dannose per i
mercati o che quest’ultima rinvii alle autorità di uno Stato un caso di
concentrazione che riguardi il suo mercato interno.
La disciplina degli aiuti pubblici alle imprese

Quadro normativo
Il divieto di aiuti pubblici alle imprese è disciplinato dagli artt.
107-109 ed è imposto agli Stati in materia concorrenziale.
Il principio di incompatibilità tra aiuti pubblici e mercato interno è
posto dall’art.107, e dallo stesso articolo sono previste alcune
deroghe ed esenzioni. L’art.108 disciplina la procedura di controllo
attraverso cui va applicato l’art.107, mentre l’art.109 attribuisce le
basi giuridiche per l’adozione di regolamenti da parte del Consiglio.
In tal senso, il reg.944/98 ha accordato alla Commissione il potere
di adottare regolamenti di secondo grado concedenti alcune
esenzioni per categoria; è stato inoltre approvato il reg.659/99,
confluito nel 1589/2015, regolante la procedura di applicazione
dell’art.107 in integrazione dell’art.108.

La nozione di aiuto
Il divieto dell’art.107 si applica alle misure che rispondano ad
ognuno dei seguenti criteri:
a) Apportino un finanziamento di origine pubblica. Tali
finanziamenti possono essere concessi sia dallo Stato in prima
persona sia da istituti pubblici o privati da esso designati per la
loro erogazione (es. causa Alfa Romeo, ricevente aiuti pubblici
da una holding pubblica), e affinché siano qualificati come
pubblici è necessario che siano concessi mediante risorse
statali, ossia provenienti da contributi obbligatori; sarà poi
sufficiente dimostrare che al vantaggio accordato al
beneficiario corrisponda una riduzione del bilancio statale.
b) Conferiscano un vantaggio verso beneficiari selezionati. Tale
vantaggio può essere conferito sia sotto forma si prestazioni
positive sia attraverso la rinuncia ad un introito avente l’effetto
di alleviare gli oneri gravanti sul bilancio di un’impresa.
Le sovvenzioni positive consistono in un trasferimento
materiale di risorse finanziare dal bilancio dell’ente pubblico a
quello dell’impresa beneficiaria; vengono considerati allo stesso
modo la concessione di prestiti o gli investimenti pubblici in
capitali di imprese che, in normali condizioni, un investitore
privato non avrebbe accettato. Appartengono alla seconda
categoria le agevolazioni fiscali concesse sotto forma di esoneri
o di riduzioni di imposte a favore di determinate imprese
nazionali.
c) Siano selettive, ossia favoriscano soltanto talune imprese o
produzioni, ponendo queste in una situazione finanziaria
vantaggiosa rispetto alle concorrenti; al contrario, non sono
vietate le misure di carattere generale che favoriscano lo
sviluppo di ogni attività economica. Sono considerate selettive
le misure che riguardino un intero settore economico e che
subordinino il loro godimento ad una decisione discrezionale
delle autorità.
In caso di aiuti concessi da autorità regionali o locali di uno
Stato, il contesto da utilizzare ai fini di valutare il carattere
selettivo della misura rimane la restrizione del territori statale
cui il potere dell’ente è applicato se questo possiede una certa
autonomia rispetto al governo centrale.
d) Portino un pregiudizio agli scambi tra Stati membri, cosicché i
mercati nazionali siano isolati e la struttura della concorrenza
modificata;
e) Portino un pregiudizio alla concorrenza, e si abbia dunque che
l’aiuto abbia effetti anticoncorrenziali che non sarebbero invece
presenti in assenza dell’aiuto. Sono dunque ininfluenti i motivi
che hanno indotto gli Stati ad adottare la misura, essendo
rilevanti unicamente gli effetti.
La Corte è solita esaminare congiuntamente queste ultime due
condizioni, ed ha affermato che è sufficiente dimostrare che
l’aiuto provochi il rafforzamento della posizione dell’impresa
beneficiaria rispetto ai concorrenti e che questa operi in un
mercato in cui siano presenti imprese di più Stati; inoltre, anche
in questo campo è richiesto che il pregiudizio alla concorrenza
e agli scambi sia sensibile e superi un limite de minimis, che
non supererebbero aiuti di carattere minore. Tale limite è fissato
ad un importo complessivo di 200000 euro conferiti alla stessa
impresa nell’arco di tre esercizi.

Deroghe all’incompatibilità
Lo stesso art.107 introduce alcune deroghe al principio di
incompatibilità, elencando alcune categorie di aiuti compatibili.
• Vi sono innanzitutto gli aiuti automaticamente compatibili,
essendo la loro compatibilità disposta dal TFUE e non da una
valutazione delle istituzioni, e questi sono gli aiuti a carattere
sociale concessi a singoli consumatori, gli aiuti destinati ad
ovviare a danni eccezionali e quelli connessi a talune regioni della
Germania, necessari a compensare gli svantaggi economici che
furono causati dalla divisione; nell’ambito di questi aiuti le
istituzioni dovranno limitarsi a verificare la sussistenza delle
condizioni indicate.
• Vi sono poi quattro categorie di aiuti potenzialmente compatibili,
essendo la loro compatibilità oggetto di valutazione da parte
della Commissione o del Consiglio, e questi sono gli aiuti
destinati a favorire lo sviluppo di zone con tenore di vita basso o
con disoccupazione alta, quelli destinati a promuovere la
realizzazione di un importante progetto comunitario o a porre
rimedio ad un problema economico di uno Stato, quelli destinati
a promuovere lo sviluppo di alcune attività o di alcune regioni
economiche ed, infine, quelli destinati a promuovere la cultura di
un territorio. A questi si aggiungono poi ulteriori aiuti determinati
dal Consiglio a maggioranza qualificata su proposta della
Commissione, e questi sono gli aiuti a finalità regionale, rivolti a
favorire lo sviluppo di regioni aventi particolari difficoltà, gli aiuti
di finalità settoriale, rivolti a favorire lo sviluppo di particolari
settori aventi il bisogno di superare difficoltà di tipo strutturale e
gli aiuto orizzonti, molti a favorire gli obiettivi dell’Unione e
applicabili a tutti i settori e tutte le regioni

La procedura per il controllo degli aiuti


La disciplina in materia di aiuti pubblici è applicata dalle istituzioni
(in special modo dalla Commissione) e dai giudici nazionali, che
non dispongono tuttavia del potere di esprimersi sulla
compatibilità.
La procedura sull’applicazione è dettata dall’art.108 ed integrata
dal reg.1589/2015, che codifica i principi elaborati dalla
giurisprudenza; essa è affidata alla Commissione (o
eccezionalmente, su richiesta degli Stati, al Consiglio, che può
deliberare all’unanimità sulla compatibilità di un singolo aiuto), che
agisce diversamente a seconda che si tratti di un nuovo aiuto o di
un aiuto esistente.
- Gli aiuti esistenti (ossia quelli cui è stata data esecuzione prima
dell’entrata in vigore del trattato) sono sottoposti ad un esame
permanente; qualora per la Commissione risulti incompatibile,
questa apre la procedura d’indagine formale, la quale prevede
innanzitutto l’intimazione agli interessati di presentare le loro
osservazioni, cui segue l’adozione di una decisione con la quale
si ordina di sopprimere o modificare l’aiuto contestato in un
termine stabilito; qualora lo Stato rimanesse inerte, la Corte apre
un ricorso di infrazione senza ricorrere alla procedura
precontenziosa.
- I progetti di aiuti nuovi (definiti per esclusione a partire dall’altra
categoria) pongono in capo agli Stati due obblighi: per quello di
notifica vanno notificati preventivamente alla Commissione
affinché essa possa presentare le proprie osservazioni; per
quello di standstill, prima che la Commissione adotti una
decisione finale, gli Stati non potranno dare esecuzione a tali
aiuti.
Qualora la Commissione ritenga che il progetto non sia
compatibile con il mercato, inizia la procedura formale (da aprire
entro due mesi, oltre i quali lo Stato potrà applicare l’aiuto); va
inoltre sottolineato che gli aiuti notificati sono sottoposti ad un
esame preliminare che, se concluso con una decisione di non
sollevare obiezioni, non determina l’apertura dell’indagine
formale. Lo Stato in questione dovrà, di conseguenza, formulare
la propria osservazione entro un termine non superiore ad un
mese; qualora lo ritenga necessario, la Commissione potrà
chiedere informazioni ai diretti interessati o ad altri soggetti (altri
Stati, imprese) e comminare ammende in caso di informazioni
inesatte. Il procedimento deve concludersi in un termine di
diciotto mesi (oltre il quale lo Stato potrà chiedere una decisione
alla Commissione) attraverso l’emissione di una decisione, che
potrà essere di tipo:
a) attestazione negativa, qualora la misura non costituisce un
aiuto;
b) decisione positiva, che dichiara l’aiuto compatibile;
c) decisione condizionale, che dichiara l’aiuto compatibile con il
mercato interno solo rispettando alcuni obblighi e condizioni;
d) decisione negativa, che dichiara che all’aiuto non può essere
data applicazione.
Qualora lo Stato infrangesse il proprio obbligo di standstill o
attuasse un aiuto senza notificarne il progetto, si avrebbe un
aiuto illegale.
In risposta alla sua attuazione, la Commissione può
provvisoriamente deciderne la sospensione immediata e
chiedere il ricorso per infrazione in caso di inottemperanza.
Dopo questa fase provvisoria, la Commissione procederà con
l’indagine formale a proposito dei nuovi aiuti (salvo i casi in cui
decida di non sollevare obiezione) e, qualora possibile,
concederà comunque la deroga; in alternativa, e cioè in caso di
decisione negativa, la Commissione potrà attuare una decisione
di recupero, imponendo allo Stato di recuperare l’aiuto.
Il recupero deve avvenire senza indugio (pur non essendovi un
termine preciso) e qualora insorgano particolari difficoltà, lo
Stato deve richiedere l’aiuto della Commissione; solo in caso di
impossibilità assoluta lo Stato sarà esentato dall’obbligo di
recupero. Il recupero avverrà inoltre secondo le procedure
previste dalla legge dello Stato, purché questo consenta
l’esecuzione della decisione della Commissione, ed è dunque
accordata ampia autonomia processuale agli Stati membri. In
particolare, vige in Italia una legge che disciplina ad hoc la
questione del recupero in caso di decisione negativa: il ministro
competente dell’aiuto dovrà adottare, entro due mesi dalla
notifica del recupero, un decreto che determini gli importi da
recuperare, le modalità di pagamento ed i termini.
E’ possibile che la Commissione non imponga il recupero
qualora sia in contrasto con un principio generale.

Ognuna delle decisioni emesse in materia di aiuti può essere oggetto del
controllo giurisdizionale della Corte.
- Le imprese beneficiarie e lo Stato membro interessato (compresi gli enti
territoriali) possono richiedere il ricorso di annullamento contro la
decisione negativa della Commissione.
- Lo stesso ricordo di annullamento è richiedibile dall’impresa concorrente
che abbia denunciato in primo luogo l’esistenza dell’aiuto contro la
Commissione che abbia emesso la sentenza positiva, a condizione che
essa abbia avuto una posizione centrale nel procedimento e che la sua
posizione sia stata notevolmente lesa.
- Qualora un aiuto erogato senza l’autorizzazione abbia danneggiato la
posizione di alcuni soggetti, essendo la norma direttamente efficace
questi potranno rivolgersi al giudice nazionale che potrà qualificare la
misura come aiuto e, qualora sia il caso, annullare i provvedimenti di
concessione dell’aiuto, ordinando inoltre di recuperare gli importi erogati.
- Gli stessi giudizi nazionali potranno accordare il risarcimento dei danni ai
concorrenti dei beneficiari di un aiuto illegale.

Carmine P. Trombetta - Management Imprese Internazionali - UniParthenope

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