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Il Consiglio delibera per maggioranza qualificata (55% dei voti dei membri
di Stati la cui composizione complessiva non sia inferiore al 65% della
popolazione dell’Unione) o, qualora sia disposto diversamente, per
maggioranza semplice o per unanimità.
E’ composto dai Capi di Stato e di Governo degli Stati membri, dal suo
Presidente e dal Presidente della Commissione, mentre partecipa ai lavori
l’Alto Rappresentante, tuttavia in caso di deliberazione hanno potere di
voto solo i Capi di Stato o di
Governo; queste ultime avvengono per consenso, che si ottiene senza
bisogno di votare quando nessuno dei membri è contrario al testo
presentato dal Presidente, salvo in alcuni casi in cui è ammessa la
maggioranza qualificata (come la nomina del Presidente).
Sono invece posti tra le fonti secondarie gli atti legislativi di base adottati
dalle istituzioni (regolamenti, direttive e decisioni) e gli atti d’attuazione o
d’esecuzione, sottoposti all’atto di base.
Gli atti di esecuzione sono invece adottati dalla Commissione e talvolta dal
Consiglio qualora fosse necessaria un’applicazione uniforme degli atti
giuridicamente vincolanti.
Gli atti adottati dalle istituzioni possono essere distinti in base alla loro
natura come atti legislativi o non legislativi in base alla procedura
decisionale applicabile per l’adozione, a sua volta indicata dalla base
giuridica dell’atto, di cui determina pertanto concretamente la natura; la
categoria degli atti non legislativi, cui non viene applicato il processo
legislativo ordinario, è pertanto determinata per esclusione a partire da
quella degli atti legislativi, necessitanti, al contrario della precedente
categoria, di essere adottati in seduta pubblica.
Inoltre, è possibile distinguere gli atti in base alla loro struttura come atti
tipici, elencati dal TFUE e di natura vincolante
(regolamenti, direttive e decisioni) o non vincolante (pareri e
raccomandazioni), ed atti atipici, non elencati dal TFUE.
Parte 1: Le fonti primarie
I trattati, la loro natura giuridica, la revisione e la rescissione
Le fonti del diritto primario dell’Unione sono i trattati TUE e TFUE,
emendabili solo da trattati di revisione e di adesione; godono della
medesima natura giuridica, tuttavia il TFUE ha natura strumentale rispetto
al TUE, integrandone e dettagliandone la disciplina.
Gli Stati membri sono competenti quanto alla scelta delle forme e dei
mezzi di attuazione, che devono essere idonei a produrre la modificazione
degli ordinamenti interni voluti dalla direttiva: bisognerà dunque che il
legislatore nazionale tenga conto della gerarchia delle fonti di diritto
interno, scegliendo un atto normativa che possa abrogare una norma già
esistente regolante la stessa materia; in secondo luogo, devono essere scelti
strumenti che garantiscano trasparenza e certezza del diritto.
Le decisioni quadro
Le decisioni quadro erano un atto applicabile nell’ambito del Terzo
Pilastro avente una struttura simile a quella delle direttive, con le quali
condividono lo scopo (ravvicinamento delle disposizioni legislative degli
Stati membri) e la struttura implicante un obbligo di risultato; le decisioni
quadri non godono tuttavia di efficacia diretta. Pur non essendo più
possibile adottarli, i loro effetti giuridici rimangono validi finché abrogati,
annullati o modificati in applicazione dei trattati.
Le decisioni
La decisione è un atto vincolante che obbliga in tutti i suoi elementi i
destinatari designati (decisioni individuali) o la generalità, qualora questi
non siano individuati (decisioni generali).
La decisione individuale risulta da un’unione di due caratteristiche, ossia
l’obbligatorietà integrale propria dei regolamenti e la non- generalità delle
direttive, che vincola i soli destinatari designati; può essere rivolta non
solo a Stati membri, ma anche ad altri soggetti, compresi i singoli. Le
decisioni individuali rivolte agli Stati sono
regolate in maniera analoga alle direttive qualora impongano un obbligo di
facere, che viene imposto in modo più preciso; qualora l’obbligo sia di non
facere, lo Stato destinatario sarà invece tenuto ad astenersi dall’attività
vietata.
Così, in caso di mancata attuazione di una direttiva (per sua natura priva di
efficacia diretta), in seguito al comportamento omissivo degli organi statali
che impedisce il sorgere del diritto garantito dalla direttiva ai singoli, è
riconosciuto un risarcimento qualora siano rispettate tre condizioni: è
innanzitutto necessario che la norma dell’Unione conferisca ai singoli un
diritto individuabile nella norma stessa, che la violazione della norma sia
sufficiente grave e manifesta e che tra il danno causato e la violazione
sussista un nesso di causalità diretto. I principali organi che possono
causare
la responsabilità dello Stato con il loro comportamento omissivo o
commissivo sono gli quelli legislativi, gli enti locali ed il potere
giudiziario.
Il primato del diritto dell’Unione
Molto spesso la norma dell’Unione ha per oggetto materi e aspetti che in
precedenza erano disciplinati da norme interne avente contenuto diverso o
che una norma interna sopravvenuta confligga col diritto dell’Unione:
questi conflitti tra norme sono risolti attraverso il principio del primato del
diritto dell’Unione, seconde il quale le norme nazionali non possono in
alcun modo ostacolare l’applicazione del diritto comunitario all’interno
dell’ordinamento degli Stati membri. Pertanto, la norma comunitaria
direttamente efficace prevale sempre sulla norma interna che ne impedisce
parzialmente o totalmente l’applicazione.
Vi sono tuttavia alcune eccezioni per le quali il giudice non potrà applicare
immediatamente la norma dell’Unione disapplicando la norma interna,
riservando tali competenze alla Corte, e queste sono l’ipotesi di conflitto
tra norma dell’Unione e norma interna in relazione ai principi
fondamentali dell’ordinamento e ai diritti dell’uomo ed in caso di norme di
legge dirette ad impedire il
rispetto dei principi fondamentali dei trattati. Qualora il contrasto sorga
rispetto ad una norma priva di efficacia diretta, il giudice, non potendo
disapplicare la legge interna, deve sollevare dinanzi alla Corte la questione
di costituzionalità per la violazione degli artt. 11 e 117. Va inoltre precisato
che, qualora il conflitto fosse sorto dinanzi ad una delle competenze dirette
della Corte (giudizio costituzionalità in via principale, conflitti
d’attribuzione e ammissibilità referendum), la Corte è chiamata, come ogni
organo giudicante, all’applicazione del principio del primato.
Il sistema di tutela giurisdizionale
La tutela del diritto comunitario
Le posizioni giuridiche sorte per effetto del diritto dell’Unione sono difese
dalla Corte di Giustizia dell’Unione Europea in tutte le sue articolazioni e
dagli organi giurisdizionali di tutti gli Stati membri. Alla Corte di Giustizia
spettano alcune competenze elencate in via tassativa nei trattati, ossia il
ricorso per infrazione, proposto contro uno Stato che abbia violato gli
obblighi derivanti dai trattati, il ricorso di annullamento, attraverso il quale
viene contestata la legittimità delle istituzioni, il ricorso in carenza,
utilizzato per contestare delle omissioni commesse dalle istituzioni, ed il
ricorso per risarcimento, proposto contro gli Stati inadempienti degli
obblighi sorti in loro capo; ognuno di questi ricorsi può essere proposto
dinanzi ciascuna articolazione della Corte.
Per evitare che i giudici di ogni Stato possano pregiudicare l’uniformità
del diritto comunitario è stato necessario diminuire il distacco tra i due
livelli di tutela giurisdizionale, e ciò è stato possibile attraverso lo
strumento di raccordo del rinvio pregiudiziale, per il quale il giudice
nazionale ha la facoltà, o talvolta l’obbligo, di deferire alla Corte le
questioni riguardanti il diritto dell’Unione. Si configura in questo modo un
sistema completo per il quale il titolare di una posizione soggettiva può
esperire ricorso, contro gli atti delle autorità pubbliche o delle istituzioni,
dinanzi ad un giudice, e qualora dovessero esserci delle lacune (mancanza
rimedio giurisdizionale per determinate situazioni soggettive), queste
vanno colmate attraverso un’interpretazione evolutiva delle norme
applicabili o a livello interpretativo.
Il ricorso per infrazione
L’oggetto del ricorso per infrazione è la violazione da parte di uno Stato
membro, inteso nella sua accezione unitaria di organizzazione, di uno dei
suoi obblighi definiti dai trattati o degli atti adottati in base ad essi (ad
esempio l’inattuazione delle direttive entro il termine); il ricorso per
infrazione non è esperibile, tuttavia, in alcune materie come quelle
rientranti nella PESC e in caso di violazione dei diritti dell’uomo, caso in
cui la è richiedibile solo se la violazione rientri nell’attuazione del diritto
dell’Unione.
Alla Corte sono rinviate le questioni di diritto dell’Unione nel corso dei
processi che si tengono dinanzi ai giudici nazionali, i quali ritengono la
pronuncia della Corte determinante ai fini della sentenza finale: la
pronuncia è dunque di natura pregiudiziale sia in senso temporale, in
quanto precedente alla sentenza del giudice, sia in senso funzionale, in
quanto strumentale alla sentenza.
La facoltà di rinvio che spetta ai giudici non di ultima istanza implica che
questi sono liberi sul sollevare o meno la questione di diritto dinanzi alla
Corte e sul momento in cui sollevarla, e non sono soggetti a limitazioni di
natura interna.
Per rendere meno netta la distinzione pratica tra i giudici di ultima istanza
e gli altri giudici sono stati introdotti alcuni elementi di flessibilità:
innanzitutto essi, al pari degli altri giudici, non sono tenuti a sollevare la
questione se essi ritengono che non sia necessario ai fini della sentenza; vi
sono inoltre alcune circostanze per cui il rinvio può essere omesso e si ha
anche per loro facoltà di rinvio, e ciò accade quando la questione sia
materialmente identica ad un’altra questione sollevata in un’analoga
fattispecie, quando la risposta da dare risulti da una giurisprudenza
costante della Corte e quando la corretta applicazione si imponga con tale
evidenza da eliminare ogni dubbio. Prima di procedere in quest’ultimo
senso, il giudice dovrà verificare che la stessa soluzione sarebbe imposta
anche ai giudici degli altri Stati e ricollocare la norma nel suo contesto e
alla luce delle sue finalità, considerando la frequente in coincidenza tra il
significato che una nozione può avere nel diritto dell’Unione e nel diritto
interno. In ogni caso, qualora il giudice ritenga non necessario rivolgersi
alla Corte dovrà fornire una motivazione o il suo comportamento verrà
considerato arbitrario, dando luogo ad una responsabilità per lo Stato.
L’unione doganale
Secondo l’art.28 del TFUE, l’Unione comprende un’unione
doganale che si estende al complesso di scambi di merci.
Una definizione di unione doganale è stata data dall’Accordo
Generale sulle Tariffe e del Commercio (GATT) concluso a Ginevra
nel 1947 e ripresa dall’accordo istitutivo dell’Organizzazione
Mondiale del Commercio (OMC), del 1994.
Costituisce unione doganale la sostituzione di un unico territorio
doganale a più territori doganali, avente per conseguenza
l’abolizione dei dazi e delle regolamentazioni commerciali restrittive
e che i dazi doganali applicati nei confronti degli Stati terzi siano
identici nella sostanza. Si delinea così un aspetto interno,
consistente nell’abolizione dei dazi doganali negli scambi di merci
nell’ambito dei territori entro i quali l’unione doganale è prevista, ed
un aspetto esterno, consistente nell’adozione di un unica tariffa
doganale nei confronti degli Stati terzi.
Nell’ambito dell’Unione Europea, l’aspetto interno è assicurato dal
divieto assoluto di dazi doganali e di misure d’effetto equivalente
(art.30) , mentre le regolamentazioni commerciali restrittive sono
vietate dagli artt. 34 e seguenti, proibenti restrizioni quantitative sia
all’esportazione che all’importazione; l’aspetto esterno è invece
tutelato dall’art. 31, il quale prescrive che agli scambi con i Paesi
terzi si applichino i dazi della tariffa doganale comune (TDC).
La cittadinanza dell’Unione
Nel sistema del TFUE la titolarità di alcuni diritti (libera circolazione
e soggiorno, libera circolazione dei lavoratori e di stabilimento,
libera prestazione di servizi) è subordinata al possesso della
cittadinanza dell’Unione.
E’ cittadino dell’Unione, ai sensi dell’art.9 TFUE, chiunque abbia la
cittadinanza di uno Stato membro; la cittadinanza dell’Unione
deriva pertanto da quella nazionale di uno Stato membro, che
stabilisce attraverso le proprie norme come attribuirla, e si
aggiunge alla cittadinanza nazionale senza sostituirla.
Ogni Stato membro non è pertanto legittimato a non riconoscere la
cittadinanza di un altro Stato membro; tale problema si pone
soprattutto in caso di effettiva doppia cittadinanza, di cui almeno
una sia di uno Stato membro.
In particolare, si ricava dalla sentenza Micheletti che in caso di
doppia cittadinanza, di cui la prima di uno Stato membro e la
seconda di uno Stato terzo, un altro Stato non può disconoscere la
prima cittadinanza e dare rilevanza solo alla seconda.
In particolare, il sig. Micheletti, cittadino italiano e argentino,
desiderava godere del diritto di stabilimento in Spagna, che glielo
negò, essendo rilevante, in caso di doppia cittadinanza, quella
dello Stato in cui si è registrata l’ultima resistenza; la Corte,
esprimendosi, negò che uno Stato potesse limitare gli effetti della
cittadinanza di un altro Stato membro, pretendendo un ulteriore
requisito per il riconoscimento della stessa.
Ogni Stato, tuttavia deve determinare le modalità di acquisizione
della cittadinanza nel rispetto del diritto comunitario, e qualora non
lo facesse l’Unione potrebbe interferire con la libertà degli Stati ed
imporre dei limiti alla loro autonomia, poichè quest’ultima
inciderebbe negativamente sul godimento dei diritti comunitari.
Ad esempio, nel caso Rottmann, quest’ultimo divenne cittadino
tedesco per naturalizzazione, perdendo la cittadinanza austriaca; in
seguito a degli accertamenti, le autorità tedesche si accorsero di
una sua pendenza in giudizio e decisero di revocare la cittadinanza.
Il sig. Rottman, tuttavia, si oppose e la Corte accolse la sua
impugnazione poichè egli avrebbe rischiato di diventare apolide,
avendo perso la prima cittadinanza.
Quadro normativo
L’art.26 TFUE prescrive che il mercato interno comporta uno
spazio senza frontiere interne nel quale è assicurata la libera
circolazione delle merci, delle persone, dei servizi e dei capitali.
La libera circolazione delle merci è garantita dagli artt.28 e 30 del
TFUE, vietanti rispettivamente i dazi doganali e le misure di effetto
equivalente; gli viene poi affiancato l’art.110, vietante l’applicazione
ai prodotti importati da altri Stati membri di imposizioni interne
discriminatorie o protezionistiche.
Sono invece vietate le restrizioni quantitative all’esportazione e
all’importazione, oltre che le misure di effetto equivalente, dagli
artt. 34 e 35, fatta eccezione per le disposizione contenute dall’art.
36, che le consente in deroga degli articoli sopracitati per motivi di
interesse generale. L’articolo 37, infine, regola i monopoli nazionali
aventi carattere commerciale.
Le norme contenute negli artt.28, 30, 34 e 35 prescrivono un
divieto assoluto in termini precisi ed incondizionati, così che la
norma sia dotata di efficacia diretta.
Quadro normativo
La libera circolazione delle persone è stata rafforzata
dall’istituzione della cittadinanza dell’Unione, che ha reso il diritto
di circolare e di soggiornare liberamente negli Stati membri un
diritto della persona altresì sancito dalla Carta dei Diritti (art.45); si
è così sciolto il legame tra libera circolazione delle persone e
svolgimento delle attività economiche, mentre in passato l’una
necessitava all’altra per applicarsi.
La libera circolazione delle persone è disciplinata da tra gruppi di
disposizioni, gli artt.45-48, che hanno ad oggetto la libera
circolazione dei lavoratori, istituendo alcuni specifici diritti che la
libertà di circolazione implica, gli artt.49-55 che hanno ad oggetto il
diritto di stabilimento, implicante lo stabilimento secondario e la
costituzione di società, e gli artt. 56-62 aventi per oggetto la libera
prestazione di servizi, implicante la libera esecuzione di una
prestazione a titolo temporaneo; a questi si aggiungono poi l’art.18
relativo al divieto di discriminazioni basate sulla nazionalità,
applicato a ciascuno dei tre gruppi, e gli artt.20 e 21, che impone la
libertà di circolazione e di soggiorno per i cittadini europei.
Ognuna di queste norme dispone di efficacia diretta ed è dunque
idonea ad essere invocata in giudizio dai soggetti interessati; i
trattati attribuiscono inoltre la base giuridica per l’approvazione di
disposizioni di diritto secondario, ed è stata approvata, in
particolare, la direttiva del 2004 relativa al diritto dei cittadini e dei
loro familiari di circolare e di soggiornare liberamente nel territorio
degli Stati membri, la quale ha raccolto le molte disposizioni in
materia in un unico testo, ha codificato molte soluzioni cui è
pervenuta la giurisprudenza negli anni, e aggiunto nuovi elementi
come il diritto di soggiorno permanente.
Il diritto di soggiorno
La direttiva 38/2004/CE (relativa al diritto dei cittadini e dei loro
familiari di circolare e di soggiornare liberamente nel territorio degli
Stati membri) prevede tre tipi di diritto di soggiorno che un
cittadino dell’Unione può esercitare nel territorio di uno Stato
membro diverso da quello di cui ha la cittadinanza.
-Il primo tra questi è il diritto di soggiorno fino a tre mesi (art.6), il
quale spetta in generale ai cittadini dell’Unione ed ai loro familiare,
non richiedente alcuna specifica condizione o formalità se non il
possesso di una carta d’identità o di un passaporto in corso di
validità; è tuttavia necessario, ai sensi dell’art.14, che il soggetto
richiedente non abbia la necessità di ricorrere eccessivamente al
sistema di assistenza sociale messo a disposizione dallo Stato.
-Il diritto di soggiorno per un periodo superiore ai tre mesi (art.7)
spetta a tutti i cittadini dell’Unione, ma le condizioni cui tale diritto
può essere richiesto sono sottoposte alla situazione personale
dell’interessato.
Se il soggetto è a) un lavoratore subordinato o autonomo non è
prevista alcuna condizione;
b) per gli studenti (coloro i quali sono iscritti presso un istituto
pubblico o privato per seguire un corso di studi, inclusa la
formazione professionale) sono richieste due condizioni, ossia la
disponibilità di un’assicurazione sulle malattie che copra tutti i
rischi nello Stato membro ospitante e di risorse economiche
sufficienti per se stesso e per i propri familiari (così da non gravare
sull’assistenza sociale dello Stato), la cui sussistenza è assicurata
all’autorità nazionale competente mediante una dichiarazione.
Com’è stato sottolineato nella sentenza Grzelczyk, qualora il
beneficiario del diritto di soggiorno riscontrasse delle difficoltà
economiche temporanee, ciò non comporterebbe istantaneamente
il venir meno del suo diritto di soggiorno, essendo necessaria la
solidarietà finanziaria degli Stati membri;
c) se il soggetto non rientra in nessuna di queste categorie
(semplici cittadini) sono necessarie le stesse condizioni richieste ai
semplici cittadini; è tuttavia necessario che l’interessato disponga
di risorse economiche sufficienti, non bastando che assicuri di
disporne;
d) il diritto è altresì esteso ai familiari che accompagnano o
raggiungono coloro i quali figurano nelle categorie precedenti, pur
se non cittadini di uno Stato membro.
-Il diritto di soggiorno permanente (art.16) può essere acquisito dal
cittadino che abbia soggiornato nello Stato membro ospitante
legalmente ed in via continuativa per un periodo di cinque anni; la
continuità della residenza non è pregiudicata da assenze
temporanee che non superino complessivamente sei mesi all’anno
né da assenze superiori per l’assolvimento di obblighi militari né da
assenze di dodici mesi consecutivi al massimo per motivi rilevanti
(gravidanza, malattia grave, studi o formazione, motivi di lavoro).
La direttiva in questione si applica a qualsiasi cittadino dell’Unione
che si rechi o soggiorni in uno Stato diverso da quello di cui ha la
cittadinanza nonché ai suoi familiari ed è necessario che il cittadino
invochi il diritto di soggiorno nei confronti dello Stato membro
diverso dal proprio. Dalla sentenza Singh è emerso come sia
possibile rientrare e soggiornare nello Stato membro d’origine
dopo aver svolto attività economiche o periodi di soggiorno in altri
Stati membri (migrazioni circolari); com’è reso altresì evidente dalla
sentenza Carpenter, viene reputato importante nell’ambito dei diritti
di soggiorno di consentire l’unità familiare nel corso della libera
circolazione, tuttavia il diritto di soggiorno a favore del cittadino di
uno Stato terzo, coniugato con quello di uno Stato membro, sorge
solo in seguito ad una durata minima superiore a tre mesi.
La parità di trattamento
Le norme del TFUE in materia di libera circolazione delle persone
utilizzano il divieto di discriminazione in base alla nazionalità come
uno degli strumenti per assicurare tale libertà: è dunque imposto
che i cittadini provenienti da altri Stati membri siano sottoposti allo
stesso trattamento applicato ai cittadini nazionali secondo il
principio del trattamento nazionale. Il principio della parità di
trattamento, imposto in termini generali dal diritto primario, va
specificato nel contenuto dal legislatore dell’Unione attraverso il
diritto derivato, com’è accaduto con l’introduzione della direttiva
38/2004, il quale nell’art.24 prevede che ogni cittadino dell’Unione
che risiede nel territorio dello Stato membro ospitante goda di pari
trattamento rispetto ai cittadini di tale Stato; inoltre, con
l’introduzione della cittadinanza dell’Unione, tale divieto assume un
ruolo centrale nel quadro della libera circolazione delle persone e,
come affermato dalla Corte nella sentenza Grzelczyk, lo status
assunto dai cittadini consente a chi si trovi nella medesima
situazione di ottenere indipendentemente dalla cittadinanza il
medesimo trattamento.
Sono rilevabili innanzitutto le discriminazioni dirette, conseguenti a
normative che riservano un determinato trattamento ai soli cittadini
nazionali, escludendo quelli degli altri Stati membri (clausole di
nazionalità) o vi sono ammessi a condizioni che non valgono per i
cittadini nazionali; esse sono vietate sia in materia di diritto di
stabilimento (art.49), sia in ambito di libera prestazione di servizi
(art.57), sia nel caso dei semplici cittadini (art.18), per i quali è
vietata ogni discriminazione in base alla nazionalità, com’è
accaduto nel caso Grzeczyk, nel quale la Corte ha ritenuto
inammissibile che quest’ultimo, uno studente, non potesse
accedere alla prestazione sociale di natura non contributiva
minimex non essendo cittadino dello Stato.
Inoltre, nell’interpretare le norme dei trattati che vietano le
discriminazioni, la Corte ha favorito un’interpretazione estensiva
includendo altresì le discriminazioni indirette in base alla
nazionalità, prodotte da normative che impongono condizioni
omogenee applicabili a tutti senza distinzione di nazionalità; le
condizioni imposte, tuttavia, sono più difficilmente soddisfatte dai
cittadini degli altri Stati membri. E’ spesso considerata
discriminatoria la condizione che richieda la residenza nel territorio
nazionale per avere accesso ad un aiuto, un servizio ecc.: è ciò che
è accaduto, ad esempio, nella causa Gottwald, al quale fu richiesta
la residenza abituale per aver diritto, come portatore di handicap,
all’esenzione delle tasse autostradali.
Sono altresì considerate discriminazioni dirette o indirette in base
alla nazionalità, a seconda dei casi, quelle ai danni dei cittadini in
uscita, che si hanno quando gli Stati di appartenenza gli riservano
un trattamento deteriore rispetto ai cittadini che non esercitano i
diritti di libera circolazione, scoraggiando, di fatto, l’esercizio di tale
libertà. Nel caso Tas Hagen, ad esempio, la Corte ha ritenuto
incompatibile la condizione imposta dai Paesi Bassi secondo la
quale dei cittadini di tale Stato membro potessero ottenere una
pensione per vittime civili di guerra solamente se residenti sul
territorio nazionale.
Giustificazioni al principio di parità di trattamento
Una discriminazione può essere giustificata e sfuggire al divieto
qualora a) la giustificazione sia basata su considerazioni obiettive e
indipendenti dal criterio vietato e b) rispetti il principio di
proporzionalità; tale principio ha trovato ampia applicazione
nell’ambito delle discriminazioni indirette, non potendo invece
essere applicato alle discriminazioni dirette (ammesse solo nelle
possibilità di deroga previste), ed è altresì stato applicato nelle
discriminazioni ai danni dei cittadini in uscita. Secondo tale
principio, nel corso della causa Gottwald, la Corte ha considerato
giustificata la discriminazione tra cittadini non residenti e residenti
per la concessione dell’esenzione al pedaggio per portatori di
handicap ritenendo legittimo che si voglia consentire un
collegamento tra il beneficiario della prestazione e la società dello
Stato membro.
Alcune delle discriminazioni ammesse poichè giustificate da motivi
obiettivi e proporzionati sono state codificate dalla direttiva
2004/38 costituendo eccezioni legislative al principio di parità di
trattamento.
Una prima eccezione riguarda le persone in cerca di occupazione,
aventi un diritto di soggiorno valido per tre mesi; possono
soggiornare anche per un periodo più lungo, fin quando possano
dimostrare di essere alla ricerca di un posto di lavoro e di avere
buone possibilità di trovarlo. Come poi risulta dalla sentenza
Collins, la Corte ha ammesso che uno Stato membro possa
decidere di concedere prestazione sociali a persone in cerca di
lavoro soltanto se queste lo stiano cercando attivamente; è stato
inoltre aggiunto dalla suddetta direttiva che lo Stato non sia tenuto
a riconoscerla durante i primi tre mesi di soggiorno o durante il
prolungamento di tale periodo; è inoltre stata riconosciuta la
possibilità di fissare come condizione un periodo minimo di
residenza. Questa tendenza è stata affermata dalla prassi nella
sentenza Alimanovic, nella quale trattasi di una madre ed una figlia
da lungo tempo disoccupate ma alla ricerca di lavoro richiedenti
alle autorità prestazioni di assistenza sociale invocando il principio
di parità di trattamento; le prestazioni non sono state tuttavia
accordate, essendo decorsi i sei mesi oltre i quali non sono più
qualificate come lavoratrici subordinate.
Altra deroga del principio di parità di trattamento è prevista per gli
studenti iscritti a corsi universitari in uno Stato membro diverso da
quello di cui hanno la cittadinanza: essi possono ottenere le stesse
borse di studio o gli stessi prestiti previsti per gli studenti cittadini
solo se a) aventi lo status di lavoratore subordinato o autonomo o
di familiare di tale soggetto o b) godano del diritto di soggiorno
permanente. Tale orientamento è stato confermato nella sentenza
Bidar (studente francese che risiedeva dalla nonna nel Regno
Unito), nella quale la Corte ha contestato la decisione dello Stato di
non attribuirgli un prestito per studenti, poichè non residente
stabile (per ottenere tale qualifica sarebbe stato necessario
risiedere per tre anni); la condizione della residenza stabile è
dunque da considerarsi indirettamente discriminatoria.
Un’ulteriore eccezione legislativa al principio di parità di
trattamento riguarda i cittadini economicamente inattivi. La Corte
ha ritenuto che essi possano essere esclusi dalle prestazioni di
assistenza sociale, subordinando così il beneficio della parità di
trattamento alla condizione del soggiorno legale in conformità alla
direttiva.
Quadro normativo
I trattati prevedono la libera circolazione dei servizi e dunque il
libero svolgimento delle attività autonome attraverso gli artt.49-55, i
stabiliscono il diritto di stabilimento, e attraverso gli artt.56-62, che
prevedono invece la libera prestazione di servizi: essi si applicano a
seconda che l’attività venga svolta in uno Stato membro in maniera
permanente o temporanea.
L’art.49 e l’art.56 vietano le restrizioni rispettivamente della libertà
di stabilimento e della libera prestazione di servizi; gli artt.49 e 57
estendono poi ai soggetti che esercitano tali libertà il diritto di
trattamento nazionale; gli art.50 e 53 (per il diritto di stabilimento) e
l’art.59 (per la libera prestazione di servizi) stabiliscono poi
apposite basi giuridiche per l’adozione di direttive volte a facilitare
l’esercizio delle libertà, e tra queste vanno ricordate la direttiva
servizi 2006/123 e la direttiva qualifiche professionali 2005/36; dagli
artt.50 e 52 sono poi stabilite alcune deroghe applicabili anche in
campo di libera prestazione grazie ad un richiamo dell’art.62, che si
collega altresì all’art.54, che estende entrambe le libertà alle
società commerciali.
I beneficiari
Rientrano nel campo di applicazione degli artt.49 e 56 i soggetti
che prestano un’attività autonoma (esercitata senza vincolo di
subordinazione rispetto al destinatario della prestazione) di tipo
economico, che preveda cioè una retribuzione; non è invece
definito l’oggetto dell’attività.
Rientrano nel campo di applicazione di questi diritti altresì le
società aventi l’amministrazione centrale o il centro di attività
principale all’interno dell’Unione. Tuttavia, le società di cui all’art.54
godono solo del diritto di stabilimento secondario, potendo esse
aprire agenzie, succursali o filiali in uno Stato diverso da quello
della sede, ma non potendo trasferire quest’ultima da uno Stato
all’altro se non previa autorizzazione di entrambi gli Stati
interessati. Si è avuta una simile fattispecie nella causa Daily Mail,
nel corso della quale questa società voleva trasferire nei Paesi
Bassi la propria direzione ma fu bloccata dalle autorità del Regno
Unito; interrogata la Corte, essa affermò che le società non
dispongono ancora di tale diritto.
Sono inoltre rientranti tra i beneficiari della libera prestazione di
servizi altresì i destinatari della prestazione, e così è stata
considerata la signora Luisi, nella cui causa veniva contestata una
normativa italiana che imponeva un limite massimo di valuta
straniera da acquisire; la signora necessitava tuttavia di somme
maggiori, e la Corte ha ritenuto incompatibili tali limitazioni con
l’art.56, considerandovi altresì rientrante tra i beneficiari il
destinatario di un servizio che si rechi in un altro Stato per usufruire
della prestazione.
Sono inoltre ritenuti meritevoli di tutela altresì le fattispecie relative
a soggetti stabiliti nel proprio Stato membro che, senza spostarsi
fisicamente in altri Stati membri per svolgere la loro attività,
abbiano tra i loro clienti anche soggetti stabiliti in altri Stati membri.
Il diritto di stabilimento
Il diritto di stabilimento è previsto dall’art.49, che vieta le restrizioni
alla libertà di stabilimento.
Tale diritto si articola in due forme,
a) la prima è riferita ai cittadini di Stati membri che si stabiliscono
nel territorio di un altro Stato, insediandovi il proprio unico
centro di attività (libertà di stabilimento primario);
b) vi è poi il diritto da parte dei soggetti di aprire agenzie,
succursali o filiali, ossia centri di attività subordinati a quello
principale, in uno Stato membro diverso da quest’ultimo (diritto
di stabilimento secondario).
Quadro normativo
Il divieto alle restrizioni di movimenti di capitali e pagamenti tra
Stati membri e tra Stati membri e Paesi terzi è imposto dall’art.63;
gli artt.64-66 contengono alcune possibilità di deroga, la più
importante tra le quali è quella prevista dall’art.65, riguardante sia
la circolazione di capitali che di pagamenti tra Stati membri e tra
Stati membri e Paesi terzi, mentre gli artt.64 e 66 si applicano
soltanto ai movimenti di capitale tra Stati membri e Paesi terzi.
Ogni articolo prevede basi giuridiche che consentono alle istituzioni
di adottare atti legislativi o misure di natura non legislativa; inoltre,
salve le deroghe contenute negli artt.64-66, il divieto di restrizioni
può essere invocato dinanzi a qualsiasi giudice che potrà
disapplicare le norme nazionali in contrasto con esso, essendo la
norma dotata di efficacia diretta.
Quadro normativo
Rientra nella competenza esclusiva dell’Unione la definizione delle
regole di concorrenza sul funzionamento del mercato interno.
Si occupano di questo aspetto gli artt.101-109, divisi in due
sezioni: la prima (101-106) è dedicata alle regole applicabili alle
imprese, la seconda agli aiuti statali alle imprese (107-109).
L’art.101 prescrive il divieto di intese, l’art.102 il divieto di
sfruttamento abusivo della posizione dominante, ed entrambi i
divieti sono dotati di efficacia diretta; gli artt.103-105 riguardano
l’applicazione dei due divieti (in particolare l’art.103 pone le basi
giuridiche per l’adozione di regolamenti e direttive) e l’art.106
prevede alcune regole speciali per le imprese pubbliche.
Mentre le norme precedentemente esaminate ponevano dei divieti
agli Stati necessari ad eliminare gli ostacoli all’unificazione derivanti
dalla loro azione, gli artt.101-102 pongono dei divieti aventi lo
stesso fine ma in capo alle imprese: si vuole così realizzare
l’obiettivo del mercato unico instaurando un regime di concorrenza
leale e non falsata, nel quale le imprese hanno interesse a lavorare
e in maniera più efficiente e produrre a costi più bassi, creando
vantaggi per i consumatori sempre crescenti.
Spettano grandi poteri alla Commissione sia in ambito normativo
(emissione regolamenti di secondo grado) che amministrativo
(applicazione artt.101-102); pubblica inoltre in maniera frequente
atti non obbligatori rientranti tra le comunicazioni, attraverso le
quali viene esposto in maniera non vincolante come applicare gli
artt. a determinate questioni o categorie di fattispecie.
Quadro normativo
Il divieto di aiuti pubblici alle imprese è disciplinato dagli artt.
107-109 ed è imposto agli Stati in materia concorrenziale.
Il principio di incompatibilità tra aiuti pubblici e mercato interno è
posto dall’art.107, e dallo stesso articolo sono previste alcune
deroghe ed esenzioni. L’art.108 disciplina la procedura di controllo
attraverso cui va applicato l’art.107, mentre l’art.109 attribuisce le
basi giuridiche per l’adozione di regolamenti da parte del Consiglio.
In tal senso, il reg.944/98 ha accordato alla Commissione il potere
di adottare regolamenti di secondo grado concedenti alcune
esenzioni per categoria; è stato inoltre approvato il reg.659/99,
confluito nel 1589/2015, regolante la procedura di applicazione
dell’art.107 in integrazione dell’art.108.
La nozione di aiuto
Il divieto dell’art.107 si applica alle misure che rispondano ad
ognuno dei seguenti criteri:
a) Apportino un finanziamento di origine pubblica. Tali
finanziamenti possono essere concessi sia dallo Stato in prima
persona sia da istituti pubblici o privati da esso designati per la
loro erogazione (es. causa Alfa Romeo, ricevente aiuti pubblici
da una holding pubblica), e affinché siano qualificati come
pubblici è necessario che siano concessi mediante risorse
statali, ossia provenienti da contributi obbligatori; sarà poi
sufficiente dimostrare che al vantaggio accordato al
beneficiario corrisponda una riduzione del bilancio statale.
b) Conferiscano un vantaggio verso beneficiari selezionati. Tale
vantaggio può essere conferito sia sotto forma si prestazioni
positive sia attraverso la rinuncia ad un introito avente l’effetto
di alleviare gli oneri gravanti sul bilancio di un’impresa.
Le sovvenzioni positive consistono in un trasferimento
materiale di risorse finanziare dal bilancio dell’ente pubblico a
quello dell’impresa beneficiaria; vengono considerati allo stesso
modo la concessione di prestiti o gli investimenti pubblici in
capitali di imprese che, in normali condizioni, un investitore
privato non avrebbe accettato. Appartengono alla seconda
categoria le agevolazioni fiscali concesse sotto forma di esoneri
o di riduzioni di imposte a favore di determinate imprese
nazionali.
c) Siano selettive, ossia favoriscano soltanto talune imprese o
produzioni, ponendo queste in una situazione finanziaria
vantaggiosa rispetto alle concorrenti; al contrario, non sono
vietate le misure di carattere generale che favoriscano lo
sviluppo di ogni attività economica. Sono considerate selettive
le misure che riguardino un intero settore economico e che
subordinino il loro godimento ad una decisione discrezionale
delle autorità.
In caso di aiuti concessi da autorità regionali o locali di uno
Stato, il contesto da utilizzare ai fini di valutare il carattere
selettivo della misura rimane la restrizione del territori statale
cui il potere dell’ente è applicato se questo possiede una certa
autonomia rispetto al governo centrale.
d) Portino un pregiudizio agli scambi tra Stati membri, cosicché i
mercati nazionali siano isolati e la struttura della concorrenza
modificata;
e) Portino un pregiudizio alla concorrenza, e si abbia dunque che
l’aiuto abbia effetti anticoncorrenziali che non sarebbero invece
presenti in assenza dell’aiuto. Sono dunque ininfluenti i motivi
che hanno indotto gli Stati ad adottare la misura, essendo
rilevanti unicamente gli effetti.
La Corte è solita esaminare congiuntamente queste ultime due
condizioni, ed ha affermato che è sufficiente dimostrare che
l’aiuto provochi il rafforzamento della posizione dell’impresa
beneficiaria rispetto ai concorrenti e che questa operi in un
mercato in cui siano presenti imprese di più Stati; inoltre, anche
in questo campo è richiesto che il pregiudizio alla concorrenza
e agli scambi sia sensibile e superi un limite de minimis, che
non supererebbero aiuti di carattere minore. Tale limite è fissato
ad un importo complessivo di 200000 euro conferiti alla stessa
impresa nell’arco di tre esercizi.
Deroghe all’incompatibilità
Lo stesso art.107 introduce alcune deroghe al principio di
incompatibilità, elencando alcune categorie di aiuti compatibili.
• Vi sono innanzitutto gli aiuti automaticamente compatibili,
essendo la loro compatibilità disposta dal TFUE e non da una
valutazione delle istituzioni, e questi sono gli aiuti a carattere
sociale concessi a singoli consumatori, gli aiuti destinati ad
ovviare a danni eccezionali e quelli connessi a talune regioni della
Germania, necessari a compensare gli svantaggi economici che
furono causati dalla divisione; nell’ambito di questi aiuti le
istituzioni dovranno limitarsi a verificare la sussistenza delle
condizioni indicate.
• Vi sono poi quattro categorie di aiuti potenzialmente compatibili,
essendo la loro compatibilità oggetto di valutazione da parte
della Commissione o del Consiglio, e questi sono gli aiuti
destinati a favorire lo sviluppo di zone con tenore di vita basso o
con disoccupazione alta, quelli destinati a promuovere la
realizzazione di un importante progetto comunitario o a porre
rimedio ad un problema economico di uno Stato, quelli destinati
a promuovere lo sviluppo di alcune attività o di alcune regioni
economiche ed, infine, quelli destinati a promuovere la cultura di
un territorio. A questi si aggiungono poi ulteriori aiuti determinati
dal Consiglio a maggioranza qualificata su proposta della
Commissione, e questi sono gli aiuti a finalità regionale, rivolti a
favorire lo sviluppo di regioni aventi particolari difficoltà, gli aiuti
di finalità settoriale, rivolti a favorire lo sviluppo di particolari
settori aventi il bisogno di superare difficoltà di tipo strutturale e
gli aiuto orizzonti, molti a favorire gli obiettivi dell’Unione e
applicabili a tutti i settori e tutte le regioni
Ognuna delle decisioni emesse in materia di aiuti può essere oggetto del
controllo giurisdizionale della Corte.
- Le imprese beneficiarie e lo Stato membro interessato (compresi gli enti
territoriali) possono richiedere il ricorso di annullamento contro la
decisione negativa della Commissione.
- Lo stesso ricordo di annullamento è richiedibile dall’impresa concorrente
che abbia denunciato in primo luogo l’esistenza dell’aiuto contro la
Commissione che abbia emesso la sentenza positiva, a condizione che
essa abbia avuto una posizione centrale nel procedimento e che la sua
posizione sia stata notevolmente lesa.
- Qualora un aiuto erogato senza l’autorizzazione abbia danneggiato la
posizione di alcuni soggetti, essendo la norma direttamente efficace
questi potranno rivolgersi al giudice nazionale che potrà qualificare la
misura come aiuto e, qualora sia il caso, annullare i provvedimenti di
concessione dell’aiuto, ordinando inoltre di recuperare gli importi erogati.
- Gli stessi giudizi nazionali potranno accordare il risarcimento dei danni ai
concorrenti dei beneficiari di un aiuto illegale.